Luigi Amabile


FRA TOMMASO CAMPANELLA


LA SUA CONGIURA, I SUOI PROCESSI E LA SUA PAZZIA

NARRAZIONE

CON MOLTI DOCUMENTI INEDITI POLITICI E GIUDIZIARII,
CON L'INTERO PROCESSO DI ERESIA
E 67 POESIE DI FRA TOMMASO FINOGGI IGNORATE,



«La così detta congiura, che il Baldacchini
e i più dei biografi Campanelliani qualificano
eterno ed insolubile problema degli
eruditi».

Berti, T. Campanella, 1878.

VOL. I.

NARRAZIONE, PARTE I.

PREFAZIONE

I.

La congiura di fra Tommaso Campanella, il fatto più cospicuo della vita del filosofo calabrese ed uno de' più audaci disegni di riscossa nel Napoletano, continua pur troppo ad essere finoggi un problema. Affermata da tutti quando essa avvenne, negata poi mano mano in seguito, e più spesso per pietà verso il povero filosofo rimasto a marcire in prigione senza condanna, fu ammessa in modo vago od anche negata affatto da' biografi principali venuti posteriormente, come il Cyprianus e l'Echard, che ebbero sott'occhio le semplici enunciazioni dell'accusa e le vive denegazioni del filosofo a propria difesa. Riaffermata poi con varii particolari ed ingiuriosi commenti dal Giannone, che ebbe il vantaggio indiscutibile di poter leggere una copia manoscritta del processo, a' tempi nostri essa si è vista, variamente, negata di nuovo o al contrario ammessa con la medesima asseveranza. Si è vista negata di nuovo massime da coloro i quali se ne sono occupati di proposito, raccogliendo documenti ma dando troppa importanza a quelli della difesa, e negata perfino sdegnosamente, quasi che fosse stata un'azione ignominiosa l'aver tentato di condurre la patria a libertà; al contrario si è vista ammessa come fatto notorio, fuori controversia, massime da coloro i quali se ne sono occupati di passaggio, dietro le assertive del Giannone, quasi sempre senza alcuna ricerca di nuovi documenti, e non di rado con l'aggiunta di particolari addirittura fantastici.

In siffatta condizione si trova tuttora questo gravissimo argomento, che domina sull'intera storia del Campanella; il quale, costretto a scolparsi a ogni modo e per ogni via fino alla morte, l'ingarbugliò al maggior segno, giungendo non solo a dissimulare le proprie opinioni, ma anche a sostenerne vivacemente alcune che non può affermarsi essere state davvero le sue; ond'è che riesce del pari difficilissimo indagarne seriamente il pensiero e le convinzioni intime, se non si conosca e quando e dove e come egli scrisse ciò che scrisse.

I maggiori biografi del Campanella meritamente stimati, il Baldacchini, il D'Ancona, il Berti, hanno spiegato le imputazioni di novità disegnate nel campo politico e religioso, alle quali il Campanella soggiacque, co' vaticinii astrologici e mistici d'imminenti mutazioni che egli predicò nella fine del secolo 16° (Baldacchini e Berti), inoltre con l'odio e la calunnia de' frati che non tolleravano la nuova filosofia antiaristotelica della quale egli si era fatto campione (D'Ancòna). Questo per altro aveva addotto in sua discolpa il Campanella medesimo oppresso da sì gravi imputazioni, e si conosceva perfettamente da grandissimo tempo. Sarebbe stato necessario fare un'analisi minuta ed un riscontro accurato de' documenti della difesa e de' documenti dell'accusa, i quali ultimi già da un pezzo si sono rinvenuti in discreto numero, illustrandoli anche con quelli derivanti da persone indifferenti: ma, bisogna pur dirlo, non si è rinvenuto chi si sobbarcasse a questo lungo e penoso lavoro, mediante il quale solamente è possibile avere, se non la verità piena ed intera, difficilissima ad aversi ne' processi politici in ispecie, almeno ciò che è più vicino alla verità o non affatto contrario alla verità. Ed è pur singolare questa svogliatezza per lo studio minuto de' documenti circa la congiura del Campanella.

Si può affermare senza timore di smentite che il Giannone medesimo, avendo sott'occhio una copia del processo, la percorse a sbalzi e del tutto superficialmente, senza andare fino in fondo. Lo attestano le parecchie notizie inesatte che da lui furono date, come quella de' «25 frati del convento di Pizzoni» che invece furono 25 voluti capi clerici e laici ivi congregati, e quella della complicità di 300 frati di diversi ordini, 200 predicatori, 1800 fuorusciti, parecchi Vescovi e Baroni, esagerazioni de' sobillatori per eccitar la gente, ripetute da' denunzianti, ridotte alle proporzioni vere nel corso del processo; così pure la notizia di un congiurato «affogato in mare», mentre invece fu soffocato da' suoi compagni, e la notizia di Maurizio de Rinaldis preso come «spensierato» e confesso «prima e dopo la tortura», mentre invece fu preso ben lungi dalla sua provincia e non confessò nulla malgrado torture inaudite; perfino le notizie della costituzione del doppio tribunale per la congiura e per l'eresia, della condanna riportata dal Campanella etc. etc., si risentono gravemente della poca attenzione messa nello studio degli Atti processuali. In che maniera poi sieno stati a' giorni nostri studiati gli Atti pervenuti fino a noi, si vedrà più sotto.

Facciamo dapprima una rassegna di tutti i documenti che si posseggono, capaci di chiarire l'arruffata quistione della congiura. Ci atterremo ad una classificazione che ci sembra naturalissima, in tre categorie; documenti dell'accusa, documenti della difesa, notizie e relazioni degl'indifferenti.

I documenti della difesa possono dirsi quelli che hanno singolarmente richiamata l'attenzione, massime perche hanno campeggiato a lungo quasi soli, oltrechè emanavano direttamente dal Campanella e quindi apparivano degnissimi di fede. Tali sono in primo luogo le notizie sparse copiosamente nelle opere, negli opuscoli, nelle lettere del filosofo ed anche di qualche suo amico ben noto, p. es. Gabriele Naudeo: il Cyprianus e l'Echard posero uno studio particolare nel raccoglierle, senza trascurare anche le altre di diversa provenienza e di diverso genere; sono state quindi facilmente ripetute da tutti i posteriori, che hanno trovato il lavoro già fatto.

Una menzione particolare merita tra questi documenti la Lettera proemiale dell'opera intitolata Atheismus triumphatus, scritta dal Campanella nella fossa di Castel S. Elmo il 1606-1607, rinvenuta dallo Struvio col ms. dell'opera in Jena, ed ivi pubblicata il 1705: essa dà notizie tanto del processo della congiura ed eresia, quanto degli altri sofferti già prima. Ma a' tempi nostri si sono avuti diversi altri documenti di tale categoria sempre più importanti. Gaspare Orelli di Zurigo, il 1634, pubblicando in Lugano le Poesìe filosofiche del Campanella con le annotazioni annesse, rimaste tanto lungamente conosciute solo pel semplice ricordo del loro titolo e per la traduzione di alcune di esse tentata dall'Herder, fornì una quantità di notizie interessantissime.

Una completa esposizione poi di tutta la faccenda della congiura e sue conseguenze, dettata senza dubbio dal Campanella, venne pubblicata il 1845 in Napoli da Vito Capialbi di Monteleone: essa è intitolata Narratione della historia sopra cui fu appoggiata la favola della ribellione, ed è seguita da un'Informatione sopra la lettura delli processi fatti l'anno 1599 in Calabria etc., mancanti entrambe di alcune carte in fine. Il Capialbi affermò di averle tratte da un autografo, ciò che è verosimile, ed inoltre affermò essere lo scritto medesimo dato dal povero filosofo, il 1626, all'avvocato Parisi e a Gio. Battista Contestabile nel momento di dover informare il Consiglio chiamato a decidere sulla sua sorte, ciò che è verosimile egualmente: ma la lettura di esso mostra fuori dubbio che fu composto il 1620, forse quando si ebbe una prima volta bisogno d'informare il Vicerè di quel tempo Card.l Borgia, e mostra pure che l'Informazione deve porsi innanzi alla Narrazione.

Quasi contemporaneamente, e mano mano successivamente, si sono avute le moltissime lettere del Campanella, pubblicate in ispecie dal Baldacchini, dal Centofanti, dal Berti, da noi medesimi ma al Berti si deve dippiù un estratto degli Articuli prophetales, che trovò manoscritti nella Casanatense, e che sono propriamente una ricomposizione posteriore ed ampliata di quelli già scritti dal filosofo a propria difesa durante il processo; inoltre un estratto dell'Apologia ad amicum, che si trova in appendice agli Articoli anzidetti.

Meritano poi di essere menzionate ancora una Difesa pel Campanella scritta dall'avvocato de Leonardis, e due analoghe Difese per Giulio Contestabile e Marcantonio Pittella, clerici involti nel processo della congiura, che si vedrà tra poco dove e da chi trovate; inoltre una Difesa per Gio. Paolo e Muzio di Cordova, gentiluomini di Catanzaro ritenuti egualmente complici, che si conosce appena per alcuni frammenti riportati dal Capialbi nelle sue note apposte alla Narrazione del Campanella. Come si vede, questa categoria è ben fornita, ma, naturalmente, va accolta con le più grandi riserve: non si giungerebbe mai alla scoperta del vero qualora si udisse soltanto la voce dell'imputato, ed è strano che un fatto così ovvio non sia stato mai tenuto presente da' moderni biografi del Campanella.

Passando alla categoria de' documenti dell'accusa, non farà maraviglia se essi siano abbastanza scarsi, mentre i processi non erano pubblici, e d'altronde si sa che il processo originale della congiura o «tentata ribellione» fin dal 1620 era stato già bruciato o disperso. Per lungo tempo non si è avuta che l'esposizione del Giannone, degna di riguardo perché risultante dalla lettura di una copia del processo, ma sempre da doversi discutere col confronto di altri documenti. A' giorni nostri poi si è avuta una serie importantissima di scritture autentiche, per la maggior parte estratte già ufficialmente dal processo e degne della più grande attenzione.

Un napoletano bibliotecario della Palatina di Firenze, Francesco Palermo, le trovò nell'Archivio di Stato di quella città insieme con altre scritture di non minore interesse, e il 1846 ne fece una pubblicazione sommaria nell'Archivio Storico italiano: il Centofanti lo prevenne coll'annunziare di avere scoperto tali scritture, che del resto neanche in sèguito mostrò di avere mai studiate. Il trovarsi annotate nel d.to Archivio sotto il titolo di «Processo contro il P.e Tommaso Campanella e più altri inquisiti» ha fatto dire al Palermo, e ripetere da coloro i quali hanno avuto a parlarne, che trattavasi di una copia abbreviata del processo, ma questo non è del tutto esatto.

Trattasi veramente, per la più gran parte, de' così detti Riassunti degl'indizii, che il Mastrodatti compilava in più copie su ciascuno imputato, estraendo gl'indizii dalle deposizioni processuali con la maggior fedeltà, per trasmetterli a ciascun Giudice allorchè era venuto il momento di spedire le cause: ad essi va unita la Requisitoria del fiscale contro il Campanella, oltrechè la Difesa pel Campanella e le Difese pel Contestabile e pel Pittella superiormente già indicate; va unito ancora un Elenco degli ecclesiastici incriminati, con la relativa sentenza o condizione di sentenziabilità aggiunta posteriormente in margine (ciò che trovasi fatto pure quasi sempre in coda di ciascun Riassunto degl'indizii), più un doppio Breve Papale circa la costituzione del tribunale Apostolico della congiura, ed anche un Sommario dell'Informazione di Calabria, presa da due frati Domenicani.

Evidentemente l'Elenco e il primo Breve rappresentano le copie di due scritture poste a capo del processo per gli ecclesiastici fatto in Napoli, e l'Informazione di Calabria rappresenta la copia di un allegato di questo processo; ma i Riassunti degl'indizii e la Requisitoria, al pari delle Difese, rappresentano Atti giudiziarii concomitanti, che solo convenzionalmente possono chiamarsi Atti processuali, non facendo parte delle scritture del processo; ond'è che gioverebbe preferire il nome di Atti giudiziarii, il quale ha un significato più largo e viene a comprendere tutte queste scritture. Nè è dubbio per noi che esse, con altre ancora delle quali si parlerà più sotto, abbiano appartenuto a Mons.r Jacopo Aldobrandini fiorentino Vescovo di Troia, Nunzio in Napoli e Giudice in entrambi i processi della congiura e dell'eresia; portate da costui in Firenze vennero poi, circa il 1670, nelle mani del Senatore Carlo di Tommaso Strozzi, d'onde più tardi, insieme con tutte le altre carte Strozziane, nell'Archivio Mediceo.

Il Palermo, sia per amore di brevità, sia per fretta nel vedere tenute d'occhio le sue ricerche, sia pel proposito di dare più tardi una storia delle cose del Campanella come si può bene argomentare da più circostanze, non pubblicò i documenti interi, ma invece una «Esposizione delle cose principali contenute nel processo informativo», aggiungendovi pochissime parole d'introduzione, con le quali fece rilevare esser posto fuori dubbio che il Campanella avesse concepita una rinnovazione politica e l'avesse apparecchiata; egli preferì che i lettori se ne persuadessero da loro medesimi, la qual cosa non si vede punto avvenuta, non essendo stati i documenti ricercati e discussi con la debita premura. Il D'Ancona pubblicò più tardi il doppio Breve Papale circa la costituzione del tribunale per la congiura, ed anche l'Elenco degli ecclesiastici incriminati.

In questi ultimi tempi poi il Berti ci ha dato dippiù una Denunzia di alcuni cittadini di Catanzaro avuta dallo stesso d'Ancona e creduta inedita, ma essa era stata già pubblicata nel Rendiconto dell'Accademia Pontaniana del 1864 pag. 62, a cura del Baldacchini, il quale l'aveva ricevuta in dono dall'insigne magistrato Pirro Giovanni De Luca; costui la rinvenne in copia legalе tra le carte familiari di una Signora discendente da uno de' denunzianti (Gio. Battista Sanseverino); oggi trovasi depositata nell'Archivio di Stato in Napoli, a cura dell'Accademia suddetta. Questa Denunzia fu già oppugnata dal Campanella nella sua Narrazione, ed è superfluo dire che tanto essa, quanto la maggior parte de' documenti contemplati nella presente categoria, esigono del pari una critica condotta con molto accorgimento: l'atroce severità con la quale si difendevano i dritti dello Stato, le torture crudelissime, le speranze d'immunità come quelle di premii, le cure della propria salvezza, hanno potuto e dovuto far asserire più volte cose ben lontane dal vero.

Infine, circa la categoria delle notizie e relazioni degl'indifferenti, bisogna riconoscere che questa indifferenza è ammissibile fino ad un certo punto, giacché a fronte di un fatto così straordinario nessuno si mostrò interamente spassionato; ma in somma non si tratta di documenti venuti fuora da persone interessate a negar tutto o ad accoglier tutto; e del resto la circostanza del non trovarsi una indifferenza completa importa solo che la critica debba anche qui intervenire accuratamente.

Possiamo annoverare nella presente categoria in primo luogo le notizie de' cronisti e scrittori contemporanei, le quali per verità si riducono a semplici affermazioni generiche sprovvedute di un certo corredo di particolari, eco evidente del gran rigore spiegato dallo Stato e dalla Chiesa contro il Campanella e i suoi compagni di sventura: il valore di queste affermazioni sta sopratutto nella concordanza che vi si nota, e che riesce certamente assai significante, poiché se la faccenda si fosse prestata a dubbî, qualcheduno si sarebbe spinto a manifestarlo.

Ma gravissimo è l'interesse delle relazioni venute in luce a' giorni nostri per opera principalmente dello stesso Francesco Palermo, il più benemerito della storia del Campanella. Da una parte dobbiamo a lui il Carteggio del Nunzio Aldobrandini con la Corte di Roma, vale a dire del suddetto Jacopo Aldobrandini Vescovo di Troia, e non già Cinthio Aldobrandini come il Palermo ritenne: oltre l'ufficio di Nunzio, il Vescovo di Troia tenne pure quelli di Giudice, e non solo nel processo della congiura ma anche in quello dell'eresia, ciò che basta a fare intendere l'importanza capitale delle sue lettere e delle risposte avute da Roma. D'altra parte dobbiamo egualmente al Palermo il Carteggio dell'Agente di Toscana in Napoli, che fu Giulio Battaglino, un napoletano da lungo tempo a' servigi del Gran Duca e in piena intimità con la Corte Vicereale.

Deve poi aggiungersi ancora agli anzidetti il Carteggio del Residente Veneto,  che fu Gio. Carlo Scaramelli e dopo di lui Gio. Maria Vincenti. Questo Carteggio fa parte del vol. 2° della Storia arcana ed aneddotica d'Italia pubblicata da Fabio Mutinelli il 1856, e con sorpresa non si vede messo a profitto da alcuno di coloro che si sono occupati del Campanella, mentre pure si conosce quanto gli Agenti Veneti fossero acuti e diligenti osservatori: nel caso nostro poi l'Agente Veneto si mostra il più spassionato fra tutti, non sempre esatto per le cose avvenute in Calabria, nemmeno esattissimo per le cose avvenute in Napoli, ma sempre abbondante ne' particolari; senza dubbio la sua contribuzione di notizie non è di poco valore, quantunque abbia bisogno, come tutte le altre, di un accurato riscontro.

Dietro questa rassegna si converrà che i documenti non sono punto mancati, in ispecie circa la persona del Campanella e degli ecclesiastici incriminati di congiura, mentre diversamente è accaduto pe' laici; la quistione poi dell'eresia connessa con quella della congiura è rimasta veramente al buio. Di certo per poche o nessun'altra congiura si possiede un numero di documenti tanto grande, bensì, come dicevamo, è mancato lo studio minuto de' documenti; e ci rincresce molto, ma siamo costretti a provarlo, dovendo anche necessariamente dimostrare come e perché la congiura del Campanella sia rimasta tuttora un problema. Faremo quindi un breve commento alle cose dette su questo tema a' giorni nostri da' maggiori biografi del Campanella, e daremo anche un breve cenno delle cose dette da qualcuno de' più rispettabili scrittori; che senza essersene occupato di proposito ha avuta occasione di parlarne.

Il Baldacchini va qui posto fuori causa. Egli scrisse nel 1840, ed allora né la Narrazione del Campanella, né gli Atti giudiziarii e i Carteggi del Nunzio e dell'Agente di Toscana erano per anco noti; quando poi venne alla 2a edizione del suo libro, nel 1847, avrebbe dovuto rifare ogni cosa e glie ne sarebbe anche mancato il tempo. Eppure, malgrado avesse accolta l'opinione che la colpa del Campanella fosse stata l'aver palesato inconsideratamente i vaticinii astrologici e i sogni cavati da S. Brigida e dall'Apocalisse, ebbe premura di aggiungere: «né dico interamente falsa l'accusa di meditata ribellione, perciocché troppo pubblicamente il governo punì quelli che ne potè provare colpevoli...; né tampoco dico che il Campanella per inconsiderato desiderio di novità non vi accedesse, bene dico ed affermo ch'ei non ne fu primo autore, com'egli ebbe a replicare più volte in Francia a' suoi amici, quando poteva confessare il tutto senza pericolo». Aggiunse inoltre: «di questa congiura, qual ch'ella fosse stata, io qui non iscrivo la storia particolare; accidente della vita di un uomo di scienza, ella mi ha solo porto l'opportunità di sceverare alcune sue idee da'fatti che gli si appongono». Del Resto si scagliò contro il Giannone, e sostenne che i processi fatti in que' barbari tempi non meritavano la menoma fede.

Certamente parecchie obbiezioni si possono e si debbono fare alle cose da lui dette e pocanzi riportate. La congiura non fu un accidente secondario nella vita del filosofo, mentre egli ne rimase addirittura schiacciato fino alla morte; né si potrà mai definire qual parte egli vi abbia presa, finchè non se ne sveleranno i particolari, né sarà mai facile trovare chi abbia potuto avere tanta autorità da farlo accedere a una congiura, mentre per lo meno si conosce che l'indole sua non comportava di essere secondo a veruno; né poi egli avrebbe potuto manifestarsi a un tratto in Francia vecchio fautore di repubblica e di nuova religione, dopo di averlo negato per tanti e tanti anni, né avrebbe veramente potuto farlo senza pericolo, mentre si conosce che vi era oppresso dalla miseria, e costretto a mendicare soccorsi dallo Stato e dalla Chiesa.

Ma è inutile insistere, quando il Baldacchini non ha voluto o non ha potuto trattare l'argomento, che senza dubbio avrebbe saputo trattare meglio di ogni altro: basta aver rilevato che egli ammise genericamente esservi stata una congiura, la qual cosa dagli altri biografi è stata nettamente negata. Il D'Ancona si occupò della congiura, ma attenendosi puntualmente alla Narrazione pubblicata dal Capialbi e già dettata dal Campanella, comunque di tale provenienza non si fosse mostrato persuaso: ed è facile intendere a quali conclusioni si fosse avviato, con la scorta della esposizione fatta da un uomo carcerato da oltre un ventennio, e destinata ad informare i Giudici che doveano ancora sentenziarlo. Volle seguire strettamente la massima, che «quando gli autori parlano di sé stessi, sempre alle loro attestazioni prima che alle altrui devesi ricorrere»; la quale massima per verità non avrebbe escluso un ricorso serio alle attestazioni altrui, trattandosi di un autore imputato di fatti gravissimi, in pericolo di pessima morte, e quindi in necessità di difendersi anche nascondendo e ingarbugliando il vero.

Trasportato da baldanza giovanile e da affetto impetuoso, il D'Ancona emulò il Baldacchini negli sdegni contro il Giannone, pescò appena, per deriderla, qualche strana, o maligna, o insulsa testimonianza inserta negli Atti giudiziarii, abbracciò tutti in un fascio i ricordi de' processi sofferti dal Campanella in tempi e luoghi diversi, e conchiuse sommariamente essere «inventata la congiura...; mattissima accusa che per mezzo de' Turchi volesse piantar la repubblica...; impossibile ch'egli volesse farsi Re...; impossibile ch'egli volesse proclamar nuova legge e nuova religione...; ribalderia credere ch'egli macchinasse col Turco...; sciocchezza presumer un'alleanza fratesca» etc. etc.. Non credè di dover porre a riscontro della Narrazione del Campanella una narrazione condotta con elementi cavati dagli Atti giudiziarii; percorse questi Atti, pubblicò anche due di essi come abbiamo già riferito più sopra, e per gli altri si limitò a ripetere l'annunzio che li avrebbe pubblicati il Centofanti; ma degli Atti medesimi da lui pubblicati, come di quelli percorsi, non mostrò di avere acquistata una conoscenza chiara. Infatti, dando l'Elenco de' 24 ecclesiastici incriminati, a capo de' quali il Campanella, mostrò di credere che fosse quella la lista di tutti i congiurati rimasti in iscena, e non vide che ci erano rimasti ancora più che cento laici, senza contare che taluni altri erano stati già puniti con l'estremo supplizio, secondochè il Carteggio dell'Agente di Toscana facea pure conoscere.

Dando il doppio Breve, mercé cui Clemente VIII nominava i Giudici della congiura per gli ecclesiastici, con facoltà di amministrare le torture etc., continuò a parlare di Spagna e di spagnuoli che processarono e torturarono il Campanella, mentre ogni cosa fu veramente fatta ad istanza del Governo Vicereale, ma da Delegati Apostolici, dietro ordini formali emanati da Roma: vedesi per altro questo errore professato da tutti coloro i quali hanno più o meno trattato del Campanella, come se non vi fosse stata a que' tempi l'immunità ecclesiastica, e da ciò può bene argomentarsi quanto le nozioni sulle cose del Campanella si trovino fuori via. Citando poi la Requisitoria del fiscale, il d'Ancona l'attribuì allo Xarava, mentre una lettera annessa al Breve, pubblicata da lui egualmente, mostrava essere stato nominato fiscale D. Giovanni Sances.

Parlando delle atrocissime torture sofferte dal Campanella, ripetè con gli altri che le avea sofferte senza neppure mandar fuori un lamento (fiore rettorico assai male a proposito), mentre nell'Elenco da lui pubblicato, a fianco del nome del Campanella leggevasi «confexus». Volendo riportare le conclusioni del tribunale intorno al clerico Giulio Contestabile, divenuto accusatore del Campanella per salvarsi, scambiò le parole finali del Riassunto degl'indizii con quelle della Difesa, ed affermò essersi concluso, «ex omnibus constat notoria innocenza ipsius cl. Julii Contestabilis», mentre invece avrebbe dovuto leggere, «exulatus per quinquennium». E chiudiamo oramai queste annotazioni, le quali in verità ci procurano grandissima pena.

Venendo al Berti, dobbiamo dire che egli egualmente non ha creduto punto alla congiura, essendosi anche meno del d'Ancona occupato de' documenti raccolti, eccettuati quelli raccolti da lui medesimo. Già trattando di Giordano Bruno, nel 1868, egli avea manifestata l'opinione, «che il processo del Campanella, meglio che da' documenti insino ad ora pubblicati, si ricava da ciò che ne dice in più luoghi delle sue opere»; di poi, avendo avuta tra mani la Denunzia de' cinque di Catanzaro, e trovati gli Articoli profetali e l'Apologia che vi è annessa, su questi documenti appunto si è poggiato, per sostenere essersi il Campanella soltanto dato «ad annunziare in privati colloquii e dal pergamo, così a' laici come a' chierici che scossi dalla sua facondia gli si stringevano intorno» vaticinii astrologico-mistici di prossimi mutamenti; e però ha stabilito che «in questi vaticinii, e più ancora nelle aggiunte che a quelli altri frati facevano ripetendoli, è da cercarsi in gran parte la spiegazione del fatto cui si diè nome di congiura».

Ha ammesso che arbitrariamente Maurizio de Rinaldis bandito, per mutare la sua fortuna, avesse iniziato pratiche presso i turchi, e che fra Dionisio Ponzio, esaltato per le profezie del Campanella, avesse del pari arbitrariamente iniziato pratiche presso alcuni cittadini di Catanzaro; ha ammesso che il Campanella non avesse sconsigliato i più animosi dal porsi con le armi in mano sulle montagne al fine di premunirsi contro i futuri rivolgimenti, ma in somma ha conchiuso: «le deposizioni processuali nulla palesano che accenni a congiura; lo stesso Rinaldis ed il frate Dionisio non avevano forse complici, ma operarono entrambi di loro arbitrio; nissun fatto si recò nel processo che provasse che Campanella fosse capo di congiurati e che una congiura propriamente detta fosse stata ordita in Calabria; quindi i giudici non poterono profferire, per quanto ostili, una sentenza di condanna contro esso; laonde, trascorsi pochi anni, venne il processo sospeso, e gli ufficiali regi, non sapendo come trarlo legalmente a morte, stettero contenti di ritenerlo nella terribile sepoltura del carcere».

In verità le deposizioni processuali si possono impugnare e ripudiare, o per lo meno valutare in un senso assai meno grave; ma sarebbe impossibile provare co' documenti raccolti che i Giudici le avessero valutate in tal guisa, e che sia stato quello indicato dal Berti l'andamento del processo, del quale per altro egli non ha fatto conoscer nulla, essendosi limitato a darne un semplice annunzio in una quindicina di versi. Il primo Breve Papale, pubblicato dal D'Ancona, mostra che avrebbero dovuto profferire la sentenza di condanna due sole persone, il Nunzio Aldobrandini, che non era già il Card.le Aldobrandini ma il Vescovo di Troia, e il magistrato clerico D. Pietro de Vera, entrambi Delegati del Papa; né dipese punto dal Nunzio, come si rileva molto bene dal suo Carteggio pubblicato dal Palermo, il non aver profferito la detta sentenza, e l'essere quindi il Campanella rimasto nelle carceri dello Stato, dove trovavasi rinchiuso appunto col consenso del Nunzio. L'Elenco degl'incriminati ecclesiastici, pubblicato egualmente dal D'Ancona, mostra che il Campanella era ritenuto da' Giudici «confexus», e il Carteggio anzidetto lo suggella, spiegando pure in termini non equivoci come «reputandosi l'uno confesso che è il «Campanella, et l'altro convinto che è il Pontio, potrà facilmente «essere la fine delle loro cause il degradarli e darli alla Curia «secolare», vale a dire mandarli al patibolo.

Lungi dunque dal non aver trovato nelle deposizioni processuali fatti che provassero il Campanella essere stato capo di congiura propriamente detta in Calabria, i Giudici Apostolici vi aveano trovato questi fatti pienamente, come ve l'aveano trovato anche dal canto loro i Giudici Regii per gl'infelici laici, onde parecchi di costoro erano stati riconosciuti colpevoli di «tentata ribellione» ispirata dal Campanella, e quindi trascinati, attanagliati, impiccati, squartati. Ed accenniamo appena che furono riconosciuti numerosi complici ma non tra' frati; che nelle deposizioni processuali c'è il fatto di un importante colloquio del Campanella con taluno de' firmatarii di quella Denunzía, su cui il Berti si è fondato per provare l'opposto; che volendo stare alle sole assertive consegnate in qualche documento senza il riscontro degli altri, massime poi alle sole assertive del Campanella, si corre certo rischio di essere trasportati assai lungi dal vero. Ma basti aver mostrato che lo studio minuto de' documenti delle diverse categorie non è stato fatto.

Poco ci tratterremo su coloro i quali non si sono occupati di proposito della congiura del Campanella. Citeremo in primo luogo il prof.re Bertrando Spaventa, che ne' suoi Saggi di Critica filosofica riprodusse una carica a fondo sul lavoro del D'Ancona, già da lui pubblicata poco dopo la comparsa di tale lavoro. Ma la natura medesima della critica dello Spaventa lo condusse a discettare in modo speculativo sul lavoro del D'Ancona, anzichè a studiare i documenti, mediante i quali avrebbe confermato non essere stato reso bene il carattere del Campanella, e avrebbe avuto modo di renderlo egli stesso con maggiore esattezza. Del resto lo scopo suo principale fu manifestamente quello di aprirsi la via alla esposizione e alla critica delle dottrine filosofiche del Campanella, sul quale tema egli si mostrò, come ognuno lo conosce, profondamente versato.

Citeremo in secondo luogo il prof.re Francesco Fiorentino, che nel suo magnifico libro sul Telesio, discorrendo de' casi del Campanella, si spinse un poco piú addentro nelle cose della congiura, ma dando molta importanza al Bassà Cicala, che ritenne essere stato un calabrese cosentino, nominato Pietro Cicala, già compagno di Marco Berardi divenuto poi popolare col nome di Re dei monti, essendo entrambi sfuggiti al carcere e al rogo inquisitoriale. Il Campanella avrebbe volto l'occhio a lui, conoscendolo odiatore degli spagnuoli per amore della Calabria. Pertanto la storia veramente ci mostra il detto Bassà essere stato un messinese, oriundo genovese, a nome Scipione Cicala, preso da' turchi nella sua adolescenza, e non amico ma devastatore di Reggio e di molti altri paesi della Calabria nel 1594, sotto gli occhi del medesimo Carlo Spinelli che fu poi il persecutore del Campanella.

Del resto il Fiorentino riconobbe appieno nel Campanella il merito del «sublime ardimento, che non può annidare in animi volgari, e che perciò o fu discreduto o parve follia»; ma non entrava nel disegno del suo libro il discutere i particolari di tale ardimento. Citeremo inoltre l'insigne patriota e prof.re Luigi Settembrini, che in fatto di cospirazioni nel Napoletano non si potè mai dire davvero poco informato. In un Elogio di Michele Baldacchini egli ebbe occasione di parlare della congiura del Campanella, e diede un'importanza incomparabilmente maggiore al Cicala, ritenendolo del pari calabrese ma qualificandolo diversamente. Secondo lui, tutti coloro i quali scrissero la vita del Campanella non tennero molto conto di quell'uomo straordinario che fu il Bassà Cicala: costui «fece nascere e fu occasione» alla congiura, cui «presero parte alcuni Vescovi, alcuni baroni, molti ecclesiastici e molti banditi, e per dilargarsi fra tanti avea dovuto essere meditata da lungo tempo, e se aveva un capo non fu il Campanella, il quale era tornato da poco a Stilo e non poteva muovere tutta quella macchina, né dal processo che si fece apparisce esserne stato egli l'autore, ma vi entrò tardi e vi operò a suo modo». In somma, con quella sua vivissima fantasia che lo rendeva tanto caro a chiunque ebbe la fortuna di avvicinarlo, egli voleva che fosse attribuita la più gran parte in questa congiura a «Dionisio Cicala», secondo lui già povero contadino calabrese di Castelli, paesello non molto lontano da Stilo, fatto schiavo mentre tagliava erbe in campagna, e divenuto poi conquistatore di Tunisi cacciandone gli spagnuoli, parente del Sultano, Vicerè in Tunisi, Tripoli ed Algieri, famoso capitano a Lepanto, col nome di Ulucci-Alì. Ma certamente egli confondeva con Scipione Cicala, divenuto Bassà Cicala o Sinan-Bassà che fu veramente in rapporto co' congiurati mossi dal Campanella, un altro capitano di mare antecessore del Cicala, che fu propriamente Ucciali-Alì, detto anche Ucchiali-Alì da' suoi conterranei, Uluge e Chilige-Alì da' turchi, Uluzzi-Alì da' veneziani, fatto schiavo da Dragut nel modo suddetto, e divenuto celeberrimo nell'impero ottomano, come l'attestano le Relazioni di molti Baili Veneti pubblicate dall'Albèri, oltre alle Memorie del Sagredo; riesce poi superfluo dire che gli Atti processuali, citati dal Settembrini, mostrano le cose in modo ben diverso. - Non taceremo nemmeno che il racconto del Settembrini, insieme con la Denunzia dal Berti creduta inedita, ispirò al dotto magistrato Francesco Sav.° Arabia le sue Scene sul Campanella, e in una prefazione, con quella competenza che lo distingue, egli fece una giustissima critica della Narrazione del Campanella tanto apprezzata dal Capialbi e dal D'Ancona come fondamento di storia, senza entrare per altro nella disamina degli Atti processuali, che gli avrebbero fatto ripudiare anche Ulucci-Alì e la Denunzia.

E qui ci fermiamo, aggiungendo solamente essere stato dimandato in questi ultimi mesi, non ricordiamo più da chi ma non in Napoli, se il Campanella non dovesse dirsi «una specie di Lazzaretti abortito sul nascere». Per conto nostro non esitiamo a rispondere, che siffatta rassomiglianza non è solo irriverente, ma addirittura sciagurata. Il carrettiere di Arcidosso, che iniziò la sua missione profetica con le truffe, e la continuò in buono accordo coi clericali di Francia e gli arrabbiati della Curia Romana contro la patria divenuta libera ed una, non ha proprio nulla di comune col filosofo di Stilo, che tutto sacrificò pel grandioso concetto di liberare la sua patria dal doppio giogo di Spagna e di Roma; l'impresa del carrettiere di Arcidosso è stata veramente una macchia per la Toscana, mentre l'impresa del filosofo di Stilo fu una gloria per la Calabria. Ma in somma riesce evidente che si è pur sempre lontani, molto lontani, dall'avere studiato i documenti atti a chiarire le cose del Campanella.

II.

Da alcuni anni, ricercando in Italia ed anche nell'estero notizie e documenti intorno a' vecchi medici e naturalisti napoletani, ci siamo imbattuti in gravi scritture finoggi ignorate intorno al Campanella; e quantunque sapessimo che non ce ne sarebbe venuto plauso da un grosso numero di persone, che nulla ama, nulla venera e nulla sa, incapace di comprendere altro che l'arte proficua alimento unico degli spiriti volgari, ci siamo sobbarcati a dure fatiche per trarne le copie. Basta citare il Processo di eresia, che giustamente il Berti dice essere «rimasto del tutto ignoto», e che, passato in tre diverse collezioni private con altre scritture di S. Officio riferibili più o meno direttamente al Campanella, è stato da noi raccolto e trascritto, risultandoci una copia di due grossi tomi in folio, complessivamente di 1412 pagine. Un'altra raccolta, assai meno voluminosa ma non meno importante, è stata quella del Carteggio ufficiale del Viceré di Napoli con la Corte di Madrid sulla faccenda del Campanella, rinvenuto nel vecchio Archivio di Spagna in Simancas, dove ci eravamo recati per le nostre primitive ricerche. Decisi a partecipare al pubblico le cose che possedevamo, ci siamo successivamente tenuti in obbligo di occuparci di proposito anche del Campanella in quanti Archivii e Biblioteche ci è stato possibile visitare, per arricchire sempre più la nostra raccolta, rivedendo in pari tempo ciò che era già noto, per acquistarne nozioni complete ed estenderle maggiormente all'occorrenza.

Così in Madrid, in Dublino (dove sapevamo trovarsi non meno di 66 volumi di carte di S. Officio tolte nel 1848 all'Archivio dell'Inquisizione Romana), in Londra, in Parigi, in Montpellier, e poi nelle Biblioteche e negli Archivii di Stato di Torino, di Venezia, di Modena, di Firenze ed Urbino, di Roma, di Napoli, abbiamo cercato ciò che poteva esservi di manoscritti, di lettere, di documenti e notizie di ogni specie tanto sul Campanella, quanto sulle molte e diverse persone che da' documenti raccolti risultava aver figurato intorno a lui, come amici, nemici, fautori, persecutori, giudici etc.; e dobbiamo dire che le nostre fatiche sono riuscite tutt'altro che vane. Anche nel Grande Archivio di Napoli, di dove erano venute fuori, l'una dopo l'altra, due lettere di Soprintendenti che attestavano non trovarvisi nulla intorno al Campanella, abbiamo trovato varie cose intorno a lui, oltrechè moltissime intorno a coloro i quali furono più o meno in relazione con le cose sue. né abbiamo poi mancato di procurarci l'ingresso nell'Archivio della Compagnia dei Bianchi di giustizia, per cavarne i particolari delle esecuzioni e delle discolpe de' calabresi che si conosceva essere stati giustiziati in Napoli; né abbiamo mancato di rovistare i Libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo, per cavarne notizie su varii nomi, che in ispecie i nuovi documenti ci aveano fatto conoscere. In tal guisa siamo pervenuti a raccogliere una quantità di documenti abbastanza notevole, alcuni pochi de' tempi anteriori alla congiura ed a' relativi processi, altri ben numerosi de' tempi della congiura e de' processi, altri pochi de' tempi posteriori: e sotto questa triplice categoria li pubblichiamo in un volume aggiunto alla nostra narrazione, ma riportandovi le sole scritture riferibili strettamente a' fatti e persone della congiura ed eresia, mentre le molte altre scritture riferibili a' tanti fatti e persone che vi hanno un'attinenza meno stretta o semplicemente relativa, son riportati a piè di pagina là dove nella narrazione accade di doverne discorrere. Né abbiamo esitato ad includervi anche parecchi documenti editi, non tacendo mai siffatta loro qualità, semprechè ci sieno apparsi di molto interesse per la piena intelligenza dell'argomento, ovvero ci sia occorso di farvi correzioni ed aggiunte nel rivederne gli originali, la qual cosa possiamo dire esserci occorsa piuttosto sovente.

Ma in ispecie per la categoria, de' documenti de' tempi della congiura e de' processi, gioverà qui fare una rassegna che ne dia qualche notizia determinata, contemplandone i diversi capi o gruppi.

I. Carteggio Vicereale con la Corte di Madrid. - Son 40 documenti rinvenuti ne' fasci di carte che in Simancas si trovano sotto la rubrica «Secretaria de Estado, Negociacion de Napoles»; fanno parte del «Legazo 1096, Leg. 1097, Leg. 1099» (anni 1598-99, 1600-01, 1603), e qualcuno trovasi nel Leg. 1095 (an. 1596-97) per una di quelle lievi anomalie inevitabili negli Archivii; principalmente per siffatto motivo estendemmo le ricerche fino al Leg. 1106 (an. 1610-11), ma senza frutto. Vi figurano oltre venti lettere originali del Vicerè, quasi sempre dirette a S.M.tà Cattolica, ed una in minuta della medesima M.tà diretta al Vicerè, otto copie di lettere di Carlo Spinelli, il crudele repressore della congiura, ed una di D. Luise Xarava, il feroce Avvocato Fiscale, dirette al Vicerè, inoltre diverse relazioni appartenenti ad un Commissario, ad un Capitano, ad un Agente in Roma, una copia della prima Informazione presa da fra Marco il Visitatore e fra Cornelio di Nizza ed un'altra del Breve Papale che istituì il Tribunale per gli ecclesiastici ribelli (questi ultimi due documenti analoghi a quelli che già si conosce trovarsi in Firenze; del resto il primo di essi più importante, perché mostra in appendice essere stata comunicata a Giudici laici la copia di un'Informazione di S.to Officio). Ma vi brillano massimamente l'importante Denunzia testuale di Lauro e Biblia, e l'importantissima Dichiarazione scritta dal Campanella, da lui rilasciata all'Avvocato Fiscale poco dopo la sua cattura. Tutti questi documenti non rappresentano il Carteggio intero, poichè vi sono indizi di diverse lacune, e d'altronde vedremo tra' documenti rinvenuti nell'Archivio di Napoli qualche altra lettera di S.M.tà la cui minuta non si trova in Simancas: ma costituiscono ciò che n'è rimasto in que' fasci di scritture, e riferendosi quasi per intero all'ultimo quadrimestre del 1599, illuminano abbastanza lo svolgimento delle cose di Calabria, la qualità e quantità de' congiurati, le vedute del Governo e de' suoi ufficiali, le vedute di Roma, la parte attribuita al Turco, i severissimi provvedimenti adottati. Sono scritti quasi sempre in lingua spagnuola e così saranno riportati, potendosi lo spagnuolo intendere senza difficoltà dalla gente latina. Bisogna solo avvertire che la lingua vi è abbastanza impura, l'ortografia consentanea al tempo, la punteggiatura poi deficientissima e molto irregolare, non trovandosi nell'originale che pochissime virgole e sovente gittate a caso: questa punteggiatura soltanto ci è parso necessario di migliorare, per rendere sempre più agevole l'intelligenza del testo; nel rimanente si è cercato di serbare la più scrupolosa fedeltà. Queste stesse avvertenze vanno fatte pe' pochi documenti in italiano ed in latino che vi si trovano compresi: essi sono stati copiati da ufficiali spagnuoli del tempo, e naturalmente questa circostanza vi si fa sentire non poco.

II. Carteggio del Nunzio Pontificio in Napoli con la Corte di Roma. - Questo Carteggio, contenuto nelle Scritture Strozziane dell'Archivio di Firenze, va dal 1592 al 1605 ed occupa 31 grossi volumi, i quali recano le lettere di Roma in originale e quelle di Napoli in minute, comunque il Catalogo dell'Archivio, sotto il nome di «Aldobrandini Mons. Jacopo» segni solamente «Lettere da esso scritte a varî...». Sono le Filze 205 a 236 num.ne nuova, e propriamente le 205-221 recano le lettere di Roma, e le 222-236 recano le lettere o meglio le minute di Napoli non autografe come il Palermo ha creduto. Volendo circoscriversi nel periodo strettamente riferibile al Campanella, si tratterebbe delle Filze 212 e seg.ti e 229 e seg.ti. Il Palermo, che scoprì questo Carteggio, ne estrasse sole 32 lettere, delle quali 16 integralmente, e le altre, per amore di brevità e forse anche pel proposito di non trattare lo svolgimento de' processi, mancanti sempre di qualche brano; tutte poi mancanti d'indirizzo quando partono dal Nunzio e di firme quando vengono al Nunzio, essendo solamente notato in massa che sono dirette a' Card.li Aldobrandini, S. Severina e Borghese. Noi abbiamo voluto averle nella loro integrità, come pure nella loro lezione precisa, non che munite degli indirizzi e provenienze rispettive; e con l'aggiunta di parecchie altre che erano state omesse, e di poche altre scritte dal Nunzio al Vicerè, al Castellano di Castel nuovo, a diversi Vescovi etc. sempre in rapporto all'argomento in esame, abbiamo potuto aumentarne il numero per modo che ascendono a non meno di 114 lettere. Queste vengono pubblicate tutte insieme nell'apposito gruppo, comprendendovi anche le edite senza tralasciar mai di dichiararlo, e con varie correzioni specialmente nelle date, alcune volte abbastanza importanti. Dobbiamo aggiungere che nel Carteggio esistono pure diverse lacune, mancando evidentemente molte lettere di Roma, alcune delle quali sono citate in quelle che si hanno, e mancando qua e là interi fascicoli o «Registri» delle lettere di Napoli, come risulta dalla numerazione ad essi apposta e da' salti sensibili nelle date. Ci è parso necessario notare queste lacune là dove sono risultate manifeste, perché ne sieno prevenuti i futuri ricercatori, e perché non si credano, per que' periodi, sopite le trattative del negozio, mentre invece ci mancano le notizie delle trattative. Riesce poi quasi superfluo avvertire, che percorrendo tutti i 31 volumi, come noi li abbiamo percorsi, vi si trovano tante altre notizie e documenti sulle persone e sulle cose di que' tempi, capaci di chiarire non solo gli umori di Napoli e di Roma, che naturalmente ebbero la più grande influenza sull'andamento de' guai del Campanella, ma anche capaci di chiarire i fatti medesimi nella loro essenza: basta accennare le precedenti guerre fratesche de' Ponzii co' Polistina per l'assassinio del P.e Provinciale fra Pietro Ponzio, le gravi quistioni giurisdizionali nelle Diocesi di Nicastro e di Mileto, le cresciute ricezioni de' fuorusciti in asilo ne' conventi, perfino le discordie di famiglia tra' Contestabili e Carnevali, circostanze tutte che il Campanella continuamente allegò come basi degli odî suscitati contro la sua persona. Queste altre notizie e documenti troveranno il loro posto nel corso della narrazione.

III. Carteggio dell'Agente Toscano in Napoli col suo Governo. - Questo Carteggio, diretto a Lorenzo Usimbardi Segretario del Gran Duca da Giulio Battaglino, e in sèguito, morto costui, dal lettore di dritto Alessandro Turaminis sienese, trovasi nell'Archivio Mediceo, e va dal 1592 in poi, occupando le Filze 4084 e seguenti. Il Palermo, intorno alla congiura ed a' processi, vi raccolse solamente 5 brani di lettere dell'ultimo quadrimestre del 1599; noi vi abbiamo proseguito le indagini, e abbiamo portato ad 11 il numero di questi brani, taluno de' quali, se fosse stato ricercato sin da che fu nota l'esistenza di questo Carteggio, avrebbe fatto evitare qualche solenne abbaglio circa le torture del Campanella. Naturalmente nelle Filze suddette si trovano anche altre notizie illustrative di que' tempi, ma vi abbiamo trovato inoltre molte lettere di particolari, taluni de' quali figurarono nelle faccende in questione: basta citare p. es. da un lato lettere autografe di Mario del Tufo notissimo amico del filosofo, e d'altro lato lettere autografe nientemeno che di D. Loise Xarava suo implacabile persecutore, e poi lettere del Principe di Bisignano, di D. Lelio Orsini, del Duca di Vietri, nominati quali complici della congiura etc.; e ne abbiamo trovate egualmente in altre Filze intitolate appunto «Lettere di Napoli di particolari», sicchè ce n'è risultato un mucchio di notizie che serviranno nella narrazione. Aggiungiamo che, pei tempi anteriori alla congiura, abbiamo trovato una lettera del Battaglino illustrativa della vita del Campanella, e pe' tempi della congiura abbiamo trovato nello stesso Archivio Gazzettini ed Avvisi, dei quali si parlerà più sotto. - Avvertiamo infine che non abbiamo mancato di rovistare in Firenze l'Archivio d'Urbino, oggi posto accanto al Mediceo, ma ci è accaduto trovarvi soltanto notizie di particolari; e la cosa medesima diciamo qui di passaggio relativamente all'Archivio di Torino.

IV. Carteggio del Residente Veneto in Napoli col suo Governo. - Questo Carteggio costituito da' dispacci che erano spediti al Ser.mo Principe dal Residente Veneto, il quale fu Gio. Carlo Scaramelli a tempo della congiura e de' processi, e poi Anton Maria Vincenti per alcuni anni successivi, trovasi nell'Archivio a' Frari tra le scritture dette «Senato-Secreta» sotto la rubrica «Napoli», e per l'anno 1599 e seguenti reca i n.i 15 e seguenti. Il Mutinelli, nella sua Storia arcana ed aneddotica, pubblicò solamente 10 lettere o brani di lettere concernenti la congiura e i congiurati, tratte da questo Carteggio pel periodo compreso tra il 14 settembre 1599 e 7 febbraio 1600: noi abbiamo cominciato lo spoglio del Carteggio da alcuni anni prima e l'abbiamo continuato per varii anni dopo, badando pure alle notizie sull'armata turca, che essendo stata ritenuta un elemento essenziale della congiura meritava tutta l'attenzione; e così abbiamo più che raddoppiato il numero de' documenti, oltre all'aver restituito alla loro integrità quelli già noti. È superfluo poi dire che molte importanti notizie relative a quei tempi si cavano dal Carteggio, studiato non pe' soli anni 1599-1600, anche circa le cose che non parrebbe aver dovuto richiamare gli sguardi del Residente, p. es. circa le lotte giurisdizionali in Calabria: ma nulla sfuggiva a' Residenti, bensì, pel troppo entrare ne' particolari, essi non di rado riuscivano inesatti, salvo il caso in cui gl'interessi di Venezia fossero direttamente impegnati. Notiamo di aver fatto anche ricerche nel Carteggio de' Residenti co' Capi del Consiglio de' Dieci e con gl'Inquisitori di Stato, ma senza frutto.

V. Carteggio dell'Ambasciatore Veneto in Roma col suo Governo. - Essendo corse trattative in Roma per la faccenda del Campanella, da parte del Vicerè mediante l'Ambasciatore di Spagna, abbiamo reputato conveniente percorrere anche i dispacci dell'Ambasciatore Veneto in Roma, che pel 1599-1600 fu Giovanni Mocenigo, dispacci conservati egualmente tra' «Senato-Secreta» sotto la rubrica «Roma» co' n.i 43-45. Ed abbiamo trovato due brevi notizie, non inutili per la nostra narrazione.

VI. Carteggio del Bailo da Costantinopoli ed Avvisi di Levante. - L'importanza delle notizie sull'armata turca per ciò che si volea tentare in Calabria, e il fatto della fuga a Costantinopoli di uno de' capi dell'impresa, fra Dionisio Ponzio con un altro frate ritenuto complice, ci hanno deciso a rovistare anche i dispacci dei Baili, che furono a que' tempi il Capello ed il Gradenigo, e poi il Nani e il Contarini, ma prendendo note su varii anni, anche per acquistare nozioni precise intorno al Bassà Cicala. Abbiamo scorsi i bellissimi Rubricarii e poi anche i Dispacci originali conservati nei soliti «Senato-Secreta»; ma abbiamo veduti inoltre i così detti Codici Brera, che si conosce esser passati da Milano a Venezia dietro ordine del Governo austriaco, per gli Avvisi che Venezia comunicava a varii Governi e tra gli altri a quello Vicereale di Napoli. L'aspettativa non è stata delusa: abbiamo raccolto un importante dispaccio e varie notizie tanto pel volume de' documenti quanto per le note su' fatti della narrazione.

VII. Gazzettini ed Avvisi di Roma. - Il valore che altrettali documenti vanno acquistando, sebbene troppo spesso riescano utili per la buona intelligenza dello stato della pubblica opinione a tempo di un fatto notabile più che per la precisa conoscenza del vero, ci ha spinti alle più attive ricerche di essi. Ne abbiamo trovati dovunque, ma di quelli dell'anno 1599 e seguenti, con notizie sulla faccenda del Campanella, solo in tre luoghi e sotto questi titoli: Lettere di Fr.co Maria Vialardo dirette al Sig.r Giovanni Galletti (pseudonimo ovvero ufficiale del Gran Duca) conservate nell'Archivio Mediceo; Avvisi di Roma della Cancelleria Estense, mandati in servigio di casa d'Este, conservati nell'Archivio di Modena; ed ancora Avvisi di Roma della collezione Urbinate, in servigio de' Duchi di Urbino, oggi esistenti nella Biblioteca Vaticana. Le lettere del Vialardo, un cavaliere torinese male andato, che scriveva anche pel Duca di Savoia, come si rileva da alcuni frammenti de' suoi Avvisi che abbiamo trovati nell'Archivio di Torino, son veri «Gazzettini» di Avvisi, e con tal nome si trovano qualificate nello Spoglio dell'Archivio Mediceo; dànno le notizie più stravaganti, e riescono assai curiose per questo. Gli Avvisi della Cancelleria Estense sono più pochi e sobrii, mentre quelli della collezione Urbinate sono più numerosi e pieni; gli uni e gli altri recano nomi di congiurati da doversi notare, ma del resto contengono sempre grosse sciocchezze, e basta dire che si chiudono con la notizia che il Campanella venne finalmente appiccato! Non sarà per altro inutile conoscere anche questo.

VIII. Atti Amministrativi e giudiziarii esistenti nel Grande Archivio di Napoli. - Abbiamo raccolti in questo gruppo non meno di 32 documenti inediti, costituiti da ordini del Governo venuti fuori per la congiura e pe' congiurati, sia allo scopo della repressione e gastigo degl'incriminati, sia per la premiazione de' persecutori. Alcuni possono dirsi veramente Atti processuali, giacchè senza dubbio gli originali di essi furono inserti nel processo: tali sono gli ordini circa la costituzione del tribunale pe' laici, e circa la forgiudicazione di varii contumaci. Uno poi deve dirsi essenzialmente Atto processuale, ma fu già edito, la Denunzia de' 5 di Catanzaro, che ora trovasi nell'Archivio e che riproduciamo, dovendosi correggere in più punti e massime riguardo ad alcuni nomi. I documenti inediti sono stati rinvenuti ne' più svariati generi di scritture e Registri, in quelli così detti Curiae, in quelli Notamentorum, Sigillorum, Privilegiorum, Litterarum etc. Cinque di essi son costituiti da Lettere Regie, delle quali si sarebbe dovuto trovare le minute in Simancas, e non ci è occorso di trovarle, come non ci è occorso di trovare in Napoli la Lettera della quale in Simancas esiste la minuta. Adunque non solamente in Napoli si deplorano le lacune continue, ma bisogna dire che in Napoli le lacune sieno state procurate fin da' tempi del Vicerè. Questo fatto, che spiega come pe' negozii politici di maggior rilievo l'Archivio riesca sempre quasi muto, può bene dimostrarsi con uno de' documenti che pubblichiamo (Doc. 234); esso, al pari di varii altri dello stesso genere, è in copia evidentemente mutilata, coll'attestazione del Segretario del Vicerè che la copia concorda con l'originale. Da ciò si vede esservi stato un altro luogo, l'Archivio particolare de' Vicerè non pervenuto fino a noi, nel quale erano sepolti i documenti più importanti, senza trasmetterli, o trasmettendoli in copie mutilate nell'Archivio di Stato. - Anche qui poi s'intende che non è mancata una grande quantità di documenti e notizie, che troveranno luogo nel corso della narrazione, avendocene fornito i detti generi di scritture e diversi altri, a cominciare dalle Numerazioni de' fuochi e da' Registri Partium, senza contare i documenti riferibili alle cose del Campanella ne' tempi anteriori e posteriori a quelli della congiura e de' processi. Veramente anche da quest'ultimo lato avrebbe dovuto trovarsi qualche cosa di più, e sebbene dalle scritture viste ci sia noto esservi stati Registri Secretorum non giunti fino a noi, questo solo motivo non riesce a soddisfarci. La nostra impressione nello studiare le scritture dell'Archivio è stata sempre questa, che oltre alle tante rincrescevoli lacune, originarie per l'esistenza dell'Archivio segreto e fortuite pe' molti incendii e le varie devastazioni accadute durante i tumulti popolari, ve ne sieno state anche altre procurate posteriormente, quando si credè buon sistema di governo sopprimere perfino la storia di questo paese tanto disgraziato. Difatti, non appena si giunge al periodo di qualche avvenimento storico un poco importante, si può esser certi che s'incontrerà una lacuna e non nelle sole scritture essenziali; tuttavia son rimaste sempre notizie svariatissime sulle persone e sulle cose di ciascun periodo, da farne acquistare una nozione spesse volte considerevole. Così nelle faccende del Campanella, da' più elevati personaggi a' più bassi malfattori e fuorusciti che vi si trovano nominati, dalle più alte quistioni giurisdizionali alle più umili pratiche di amministrazione verificatesi nel tempo della congiura e de' processi, tutto vi riesce, più o meno, convenientemente illustrato.

IX. Atti delle esecuzioni registrate nell'Archivio de' Bianchi di giustizia. - Due documenti abbiamo rinvenuti in questo bellissimo Archivio, che non è aperto al pubblico, per le indiscrezioni rincrescevoli alle quali le ricerche su' giustiziati potrebbero dar luogo. Esso fu ricercato dall'Abate Cuomo pe' giustiziati de' tempi di Masaniello, e i relativi documenti si leggono manoscritti nella Biblioteca che l'Abate generosamente donò al Municipio di Napoli; ma non sappiamo che alcuno abbia mai pensato a farvi ricerche pe' giustiziati del tempo del Campanella. I documenti non sono che due, perché due soli furono i calabresi giustiziati in Napoli coll'assistenza della Confraternita de' Bianchi, mentre sei altri furono giustiziati coll'assistenza de' PP.i Ministri degl'infermi, come risulta da notizie autentiche. Nel primo de' detti documenti si leggeranno con interesse le «escolpazioni», nel secondo i nomi degli assistenti a ben morire, oltre qualche circostanza speciale dell'esecuzione. Non abbiamo poi mancato di raccogliere un terzo documento, relativo al supplizio di un altro individuo, già processato per la congiura e l'eresia, carcerato col Campanella e in istrette relazioni con lui, liberato e poi di nuovo processato e condannato per altra causa; ma tale documento, escluso dal presente gruppo, è stato incidentalmente registrato a parte nella narrazione.

X. Atti giudiziarii circa gli ecclesiastici incriminati di congiura, esistenti nelle Scritture Strozziane di Firenze. - Abbiamo già avuta occasione di menzionare questi documenti, e di dire che per la maggior parte di essi il Palermo pubblicò soltanto una «esposizione delle cose principali», ond'è che si può considerarli veramente quasi tutti inediti. Furono rinvenuti nel Codice Strozziano n. nuov. 330, intitolato «Casi strani», dove si trovano alla rinfusa: l'importanza grandissima di essi ci ha decisi a riordinarli e pubblicarli integralmente, anche a costo d'incorrere nelle ripetizioni che vi si trovano con una certa frequenza; come pure a non trascurare nemmeno gli editi, per alcuno de' quali non manca la necessità delle correzioni. Nel riordinarli abbiamo posto in primo luogo l'Elenco degl'incriminati e il primo Breve del Papa, poi il Sommario dell'Informazione di Calabria (atti veramente processuali), in seguito i Riassunti degl'indizii per ciascun incriminato giusta la sua importanza e qualità, con le Requisitorie e le Difese che per alcuni di essi ci vennero conservate (atti puramente giudiziarii). Aggiungiamo che uno studio delle citazioni de' folii del processo, registrate sopratutto in questi documenti ed anche in taluni altri, ci ha fatto ricavare uno «Schema del processo della congiura» che ne dà un'idea sicuramente non disprezzabile. Abbiamo così potuto scoprire che l'intero processo, o meglio l'intera serie de' processi, col titolo di «tentata ribellione» componevasi di 4 volumi, de' quali i due primi comprendevano i processi di Calabria, essendo Giudice Commissario Carlo Spinelli e Fiscale D. Luise Xarava; gli altri due comprendevano i processi di Napoli, l'uno pe' laici, condotto certamente da Marc'Antonio de Ponte con D. Giovanni Sances fiscale assistito dallo Xarava, e l'altro per gli ecclesiastici, condotto dal Nunzio Aldobrandini e da D. Pietro De Vera, Commissarii Apostolici, col medesimo D. Giovanni Sances fiscale; le numerose citazioni di folii, poste nel loro ordine progressivo, rendono discretamente bene la fisonomia di ciascun processo, e tutto ciò servirà anche a facilitare la ricognizione de' documenti che potranno venir fuora nell'avvenire. Dippiù uno studio de' nomi, registrati del pari in questi documenti ed in altri ancora, ci ha fatto ricavare un «Elenco degl'incriminati laici», che fa riscontro a quello degl'incriminati ecclesiastici e dà un'idea notevole dell'estensione della congiura, o forse meglio delle conseguenze della congiura. Questi due lavori figureranno tra alcune Illustrazioni poste al sèguito dei Documenti.

XII. Apologia del Campanella. - Quest'Apologia, trovata dal Berti nella Casanatense annessa agli Articoli profetali già scritti dal filosofo in sua difesa e poi rifatti, non è stata pubblicata che in sunto, essendo l'esemplare, per colpa dell'amanuense, troppo scorretto. Avendone noi trovato un esemplare egualmente nella Nazionale di Napoli, oltrechè in quella di Madrid, ma pure scorretti, diamo nella loro integrità il testo dell'esemplare Casanatense e di quello napoletano, perché si possono correggere abbastanza bene l'uno con l'altro.

XIII. Processo di eresia con gli allegati e le poesie del Campanella, ed altre scritture d'inquisizione. - Questo processo è costituito egualmente da una serie di processi, a' quali può anche darsi la denominazione di «processi ecclesiastici», sia perché ecclesiastici per eccellenza, sia perché in tal guisa vedonsi più volte menzionati dal Campanella. Esso è stato fornito, come abbiamo già detto, da tre collezioni private, e si compone essenzialmente di quattro volumi, con la giunta di un quinto di allegati; ma a ciascuno de' volumi si possono unire altre scritture staccate, che illuminano molto i fatti del Campanella e socii ne' tempi de' processi e ne' tempi di poco posteriori. Così ci troviamo di aver redatta la nostra Copia in sei volumi, che danno materia a due tomi: e poichè tutte queste scritture son rimaste affatto ignorate, tanto che il Berti si è lasciato perfino dire sembrargli «dubbio che il tribunale ecclesiastico abbia potuto trovare eresie nelle predicazioni del Campanella», crediamo opportuno darne conto con una certa larghezza. La serie de' processi fu cominciata in Calabria, primitivamente in Monteleone da fra Marco da Marcianise Visitatore e da fra Cornelio di Nizza suo compagno, poco dopo in Gerace dal Vescovo di Gerace unitamente con questi stessi frati, e fu da ultimo menata innanzi e condotta a termine in Napoli dal Nunzio, dal Vicario Arcivescovile e dal Vescovo di Termoli, il quale poi, essendo disgraziatamente morto durante il processo, fu sostituito dal Vescovo di Caserta. Si ebbero quindi, essenzialmente, due processi di Calabria ed uno di Napoli, ma per un'altra commissione data da Roma al Vescovo di Squillace, se n'ebbe anche un altro detto di Squillace, condotto indipendentemente dagli altri: il processo di Napoli, che fu l'ultimo, venne compiuto in tutte le sue parti, cioè a dire, secondo il costume del tempo, distinto in offensivo, ripetitivo, e difensivo. Aggiungiamo che sulla coperta de' volumi, che compongono tutta la serie de' processi, non si legge alcun titolo relativo alla qualità dell'imputazione, come per solito si ha ne' processi di S.to Officio; ma questa trovasi notata segnatamente ne' Capitoli del fiscale napoletano con le parole «De haeretica pravitate et atheismo», aggiuntovi inoltre «et relapsu». Dobbiamo anche dire che in qualche vecchia carta di S.to Officio tutto il complesso di questi Atti processuali trovasi talvolta indicato con la denominazione generica di «Acta fratrum», rappresentando, anche per la sola parte svolta in Napoli, un processo contro frati straordinario, condotto da tre Curie riunite, quelle del Nunzio, dell'Arcivescovo Diocesano e del Ministro dell'Inquisizione Romana; ma eccone specificati i diversi volumi, col loro titolo nell'ortografia originale.

I. «Processus formatus in provintia Calabriae contra fratrem Thomam Campanellam, et alios fratres predictae provintiae ordinis predicatorum, super non nullis ad Sanctum Officium pertinentibus». Questo volume comprende l'inquisizione fatta dal Marcianise e dal Nizza in Monteleone (dal 1° al 9 7bre 99), e l'altra dal Vescovo di Gerace in Gerace unitamente con gli anzidetti (dal 13 al 19 8bre), entrambe condotte e scritte da fra Cornelio di Nizza; inoltre un'informazione presa da un delegato del Vescovo di Gerace contro il Clerico Cesare Pisano (13 7bre), la quale trovasi cucita in fine del volume, e la ricognizione de' carcerati ecclesiastici venuti in Napoli, fatta dal Rev. Antonio Peri fiorentino, Uditore del Nunzio Jacopo Aldobrandini Vescovo di Troia, per parte di costui nel Castel nuovo di Napoli (23 9bre). In questa ricognizione per la prima volta figura un breve esame di fra Tommaso, il solo fornito di firma autografa, perocchè gli esami successivi coincidono col tempo della sua pazzia. - A questo volume si possono unire due altre scritture importantissime, di poco posteriori per tempo, esistenti in un volumetto separato col titolo che segue:

«In hoc volumine sunt Denuntia Cesaris Pisani terrae Montis leonis (sic) qui denuntiavit tam de se, et abiuravit tanquam hereticus formalis, quam de infrascriptis fratribus videlicet, Fratre Thoma Campanella, Fr. Dionisio Pontio, Fr. Josepho de bitonto, Fr. Dominico de Stignano, et Denuntia Mauritii Rinaldi de Stilo (sic) qui denuntiavit contra predictos Campanellam et fr. Dionisium Pontium in rebus ad S. Officium pertinentibus». - Trattasi di due dichiarazioni ad exonerationem conscientiae, fatte da questi due infelici poco prima di essere giustiziati (15 gen. e 3 feb. 1600). Sono scritte, come i volumi seguenti e tutto il complesso delle altre carte, da Gio. Camillo Prezioso, Notario e Mastrodatti ecclesiastico, che s'incontra tanto sovente ne' processi di S. Officio di que' tempi.

II. «Secundus Processus offensivus compilatus in civitate Neapolis contra fr. Thomam Campanellam et alios fratres ordinis predicatorum et etiam Repetitivus contra eosdem». Questo titolo dispensa da altre spiegazioni. Gli esami sono condotti segnatamente dal Vescovo di Termoli fra Alberto Tragagliolo da Firenzuola. L'offensivo va dal maggio all'agosto 1600: vi si notano, tra gli altri, gli esami del padre e del fratello del Campanella che vennero egualmente carcerati, gli esami del Campanella che mostrasi pazzo, con l'atto del 1° tormento di un'ora di corda permesso dal Papa per conto dell'eresia; inoltre una nuova denunzia intorno ai rapporti, molto confusamente noti, fra lui ed un Ebreo astrologo nella sua prima gioventù, e naturalmente rifulgono molte circostanze della sua vita passata, fra le altre quella di un processo precedente avuto nel 1591, del tutto ignorato finoggi e tale da aggravare estremamente la sua condizione giuridica. Il ripetitivo, dietro i Capitoli di accusa del fiscale, e gl'Interrogatori dati dagli Avvocati, va dall'agosto all'8bre, e comprende le Ripetizioni de' testimoni contro il Campanella, contro fra Gio. Battista di Pizzoni e contro fra Dionisio Ponzio, terminando co' giuramenti de' rispettivi avvocati difensori. Uno de' più curiosi documenti vi è alligato, la relazione di due dialoghi passati di notte tra il Campanella, già dichiaratosi pazzo, e fra Pietro Ponzio suo amicissimo, raccolti da scrivani mandati a spiarli; questa relazione è inviata in copia dall'altro tribunale, e fa quindi parte del processo della congiura. Vi è alligato inoltre uno specchietto di appunti critici fatti dal Vescovo di Termoli alle diverse deposizioni fin allora raccolte.

III. «In hoc volumine sunt: Tertius: Defensiones fratris Dionisii Pontii, Defensiones fratris Jo. Baptistae de Pizzone, Comparitio fratris Petri de Stilo declarantis nolle facere defensiones et expediri, Informatio capta de furore Campanellae. Copia informationis captae per Ill.m et Rev.m episcopum Squillacensem etc., Summarium factum in S.to Officio de Urbe... in causa fratris Thomae Campanellae et aliorum fratrum ordinis predicatorum pro causa ad S.m Officium spectante». Anche qui il titolo dispensa dalle spiegazioni. Il processo difensivo va dal 7bre al 9bre 1600, e vi si fanno notare gli esami a difesa di fra Dionisio, accompagnati da parecchie copie di documenti provenienti dall'altro tribunale; gli esami a difesa di fra Gio. Battista di Pizzoni, seguìti da altri fatti più tardi per accertarne la morte avvenuta nel carcere; gli esami di 10 testimoni che affermano la pazzia del Campanella, onde per lui non si può più procedere agli esami difensivi. Nel Sommario di tutta la causa redatto in Roma (giacchè sempre si mandavano a Roma tutte le carte de' processi di S. Officio che non erano addirittura lievissimi, e di là se ne dirigevano le fila e s'inviavano le condanne o le assoluzioni deliberate in Congregazione) si fanno notare diversi appunti sul processo, un cenno di diverse irregolarità, contradizioni e dubbi, e da per tutto il più grande interesse per la verità. - A questo volume si può anche riferire un altro fascio di scritture analoghe ed importantissime, che non fanno propriamente parte del processo e sono di altra provenienza, essendo state trovate fra le carte rimaste presso il Vescovo di Caserta, che sostituì come giudice il Vescovo di Termoli morto durante lo svolgimento della causa. Eccone il titolo: «Summaria facta in urbe, et neapoli per Dom. Benedictum Mandina Episcopum Casertanum bonae memoriae. - Reassumptum inditiorum et aliorum quae videntur constare... contra subscriptos Fratres carceratos tanquam complices Fratris Thomae campanellae, et quae in eorum defensione ponderantur». - Sono i Sommarî completi de' processi non solo offensivi ma anche difensivi; e in essi gli appunti non si limitano agli andamenti de' processi, ma si estendono alle persone de' primi processanti Marcianise e Nizza, e vi si citano inoltre i giudizî del fu Vescovo di Termoli desunti dalle lettere da lui scritte a Roma. Dippiù sono i Riassunti degli indizî co' voti dei Giudici, riferendosi il voto di ciascuno, contro fra Pietro Ponzio, fra Paolo della Grotteria, fra Giuseppe Bitonto, fra Pietro di Stilo, fra Domenico di Stignano, fra Silvestro di Lauriana e fra Dionisio Ponzio, i soli frati rimasti giudicabili, mentre il Campanella con la sua pazzia si sottraeva al giudizio. Evidentemente questi Riassunti co' voti dei Giudici si mandarono a Roma e servirono di base alla deliberazione della Sacra Congregazione: e vi è annessa la Lettera del Card.l Borghese che partecipa tale deliberazione mandata in copia al Mandina, la quale presenta qualche leggiera variante a fronte di quella già conosciuta e ripetuta anche nel volume seguente.

IV. «Quartus processus compilatus in causa fratris Thomae Campanellae et aliorum fratrum ordinis predicatorum inquisitorum et carceratorum pro causis ad Sanctum Officium spectantibus, post commissionem admodum Illustris et Rev.mi domini episcopi Casertani». - Questo volume importantissimo, rinvenuto più tardi in un'altra collezione, rappresenta l'ultimo periodo della causa, che pel Campanella corre dal marzo 1601 al gennaio 1603. Oltre alcuni nuovi articoli addizionali contro di lui, esso reca le sue difese scritte, presentate da fra Pietro di Stilo come già composte prima della pazzia, ricopiate da altri e fornite di aggiunte e correzioni di mano di fra Tommaso: queste consistono in una elaborata arringa e negli Articoli profetali, e riguardano propriamente il fatto della congiura. Reca inoltre il terribile atto del tormento della veglia, durato 36 ore, che fu ordinato dal Papa in Congregazione per scovrire la simulazione della pazzia, e non già dato dall'altro tribunale per la ribellione come finora si è creduto. Reca i certificati de' medici intorno alla pazzia scritti dopo il tormento. Reca l'incidente di una rissa accaduta tra frati e laici nelle carceri, dopo la quale si fece una ricerca e si rinvennero molte scritture di diverso genere, carte di sortilegio, corrispondenze, poesie, e tra queste le poesie del Campanella raccolte da fra Pietro Ponzio. Reca ancora nuovi esami in difesa di fra Dionisio, che presenta sempre nuovi articoli prima di fuggirsene dalle carceri; tra questi esami quelli relativi ad una voluta ritrattazione del Pizzoni prima che morisse. Reca infine l'informazione sulle scritture trovate, la deliberazione venuta da Roma intorno al Campanella e agli altri frati, e le sentenze pronunziate. - A questo volume vanno uniti i conti della spesa delle ultime somme di danaro, le quali si facevano venire da' conventi di Calabria per sussidio de' frati, essendo i compagni del Campanella rimasti in carcere fino al giugno 1604.

v. «Scripture (sic) seu secreta manu scripta prohibita inventa in archa fratris Dionisii Pontii in Castro novo cum relationibus Rev.di Theologi de illorum qualitatibus». - È questo un volume di allegati al processo, che comprende tutte le scritture trovate presso i carcerati, e non solamente quelle che stavano nella cassa di fra Dionisio; ve ne sono perfino alcune trovate già in Castello dell'ovo presso Felice Gagliardo, uno de' complici nella congiura. Specialmente a questo giovane di vivacissimo ingegno, ma di animo guasto, appartengono diverse scritture di sortilegi, corrispondenze con fuorusciti di Calabria, e certe curiose produzioni letterarie, poesie in italiano ed in dialetto calabrese. Ma la parte cospicua del volume è rappresentata da 82 poesie del Campanella, delle quali soltanto 14 o 15 sono conosciute ed anche con varianti. Esse riescono di un'importanza grandissima specialmente per la storia, avendo d'altra parte quasi tutte ben poco valore letterario.

- Dànno poi materia per un VI. volume le scritture seguenti, anche di S.to Officio, che non fanno parte de' processi del Campanella, ma vi stanno bene come appendice, illustrando la vita di lui, de' frati e di alcuni laici implicati nella congiura.

a. - «Contra Horatium Santa Croce de Civ. hieracensi Prov. Calabriae, Felicem Gagliardum predictae Civ.is hieracensis carceratum in Castro novo, qui scripsit, et transcripsit secreta et alia scripta, descripta et contenta in actis fratrum, et que fuerunt reperta in archa fratris Dionisii Pontii». - È un processo intorno alla rissa e alle suddette scritture trovate in Castello; vi sono uditi diversi frati, e finisce coll'abilitazione del S.ta Croce, e col tormento, coll'abiura e coll'abilitazione anche del Gagliardo. Va dal 13 gen.° 1602 al 2 marzo 1604.

b. - «Denuntia magna facta in magna Curia Vicariae de quam pluribus heresibus de se et aliis, tempore quo erat condennatus ad ultimum supplicium, per Felicem Gagliardum de Civitate hieracensi». - Questa scrittura contiene particolari curiosissimi e gravi intorno al Campanella, pel tempo nel quale trovavasi con lui carcerato il Gagliardo, essendo costui tornato in potere della giustizia per un omicidio commesso dopo la sua liberazione. È del 5 luglio 1606.

c. - «Informatio capta per Rev. Vicarium Civ. Neocastri prov. Calabriae ulterioris contra fratrem Petrum Pontium ordinis predicatorum ejusdem civitatis». - Riguarda uno scandalo dato da fra Pietro dopo la sua liberazione, avendo in Chiesa pubblicamente protestato contro un Cappuccino che predicava l'Immacolata Concezione. Caratterizza fra Pietro, chiarisce il credito di questi frati dopo il processo, dà qualche notizia di fra Dionisio fuggito in Turchia. Va dal dic.e 1604 al gen.° 1605.

d. - «Contra fratrem Petrum Calabrum ordinis predicatorum carceratum in carceribus Castri novi, et fratrem Andream Casalis Corsani ordinis S. Augustini carceratum in carceribus Magnae Curiae Vicariae». - È un processo in sèguito della denunzia di un Lelio Macro di Pietrafitta già carcerato in Castel nuovo e condannato a morte per altre cause, il quale dà per fatto, ovvero anche finge, che un fra Pietro Domenicano (sicuramente fra Pietro di Stilo) avea voluto indurlo a credere molte eresie. Vi sono notizie del Campanella, anche per parte di altre persone di Stilo che vennero esaminate. Va dal luglio all'agosto 1605.

Come si vede, dal lato de' Processi dell'eresia la raccolta potrebbe dirsi perfino esuberante; non di meno vi si fa desiderare ancora qualche cosa: 1.° l'Informazione commessa da Roma e presa dal Vescovo di Squillace, poichè quella inserta nel vol. 3.° è supplementare, commessa dal Vescovo di Termoli per ulteriori chiarimenti; 2.° il Carteggio con Roma del Vescovo di Termoli, e di poi anche del Vescovo di Caserta, nel corso del Processo di Napoli. Fortunatamente i Sommarî ci dànno le cose importanti dell'Informazione e del Carteggio del Vescovo di Termoli: ma giova sapere che c'è questa lacuna, comunque fino ad un certo punto, affinchè nelle ulteriori ricerche si tenti di colmarla. Le carte del Vescovo di Caserta sono andate disperse in guisa, da potersi attendere di trovarne qualche fascio dove meno si pensi. È manifesto frattanto che riescirebbe impossibile dare alle stampe tutto ciò che si è di sopra accennato: non vi sarebbe il tornaconto, e però dobbiamo limitarci a darne i pezzi più rilevanti. Così ci siamo prefissi di non tralasciare alcuna delle scritture che riflettono essenzialmente la persona del Campanella, aggiuntevi quelle che riflettono almeno fra Dionisio Ponzio; giacchè tutte le scritture veramente convergono al Campanella, e mostrandosi lui ben presto pazzo, figurano per lui coloro che lo circondano. D'altra parte ci siamo prefissi di non tralasciare alcuna delle scritture trasmesse dal tribunale della congiura a quello dell'eresia, perché si cominci ad avere un piccolo nucleo di documenti interi anche del processo della congiura. Del resto, pel desiderio di riuscire fedeli espositori, ci siamo sempre ingegnati di riportare nella narrazione brani testuali di qualunque documento, sicchè non si sentirà in modo assoluto la mancanza di quelli che si omettono; ed avendo deciso che un giorno o l'altro la nostra Copia ms. de' processi debba prender posto in qualcuna delle pubbliche Biblioteche, ci è parso di poterla talvolta citare, allorché nella narrazione accada di avere ad esporre fatti contenuti in documenti che rimarranno inediti. Per fare poi acquistare una piena nozione di tutto il processo e delle altre scritture di S.to Officio che vi si connettono, abbiamo stimato conveniente pubblicare l'indice particolareggiato della nostra Copia ms., costituendone una delle Illustrazioni poste al sèguito de' Documenti.

XIV. Due altri Discorsi inediti del Campanella sopra l'aumento dell'entrate del Regno. - Queste scritture, come quella che segue, appartengono già al periodo in cui la conchiusione del processo della congiura rimaneva sospesa nella sola persona del Campanella, ed egli tentava tutte le vie per non rimanere dimenticato. In un codice della Casanatense fu già trovato dal Dragonetti, e poi pubblicato dal D'Ancona, un «Arbitrio o Discorso primo sopra l'aumento dell'entrate nel Regno di Napoli», che si sa aver rappresentato originariamente una delle proposte fatte fare dal Campanella in suo nome al Vicerè; ma al sèguito di questo Discorso primo ve ne sono ancora nello stesso codice due altri qualificati secondo e terzo, che rappresentarono altre proposte analoghe, sempre allo scopo di far guadagnare al Re, con ciascuna di esse, 100 mila ducati. Non sappiamo come mai questi Discorsi siano stati negletti fino a rimanere ignorati; è possibile che non siano stati ritenuti di un merito eguale a quello del Discorso primo; ma per la storia del Campanella il merito non è diverso, e quindi li pubblichiamo, con alcune correzioni delle mende lasciatevi dall'amanuense.

XV. Le promesse fatte dal Campanella per riacquistare la libertà; lettera al Card.l S. Giorgio. - Questo documento, con altri analoghi, fu già pubblicato dal Centofanti, e le necessità della nostra narrazione ci spingono a ripubblicarlo. Ci occorre mettere sotto l'occhio de' lettori così le promesse, come l'elenco de' libri composti dal Campanella fino al 1606, e la versione da lui adottata per la faccenda della congiura e dell'eresia. La lettera al Card.l S. Giorgio, il quale figura anche molto nella nostra narrazione, ne dà notizie sufficienti.

Son questi i documenti de' tempi della congiura e de' processi; seguono poi gli altri pochi relativi a' tempi posteriori, trovati nell'Archivio di Napoli, nella Biblioteca nazionale di Madrid, nell'Archivio di Modena e finalmente nell'Archivio particolare di S.A.R. il Duca d'Aosta, dove è noto che si conserva l'Epistolario inedito di Cassiano del Pozzo, in cui, oltre alle lettere autografe del Campanella pubblicate già dal Baldacchini, se ne hanno pure altre di qualche amico intimo del filosofo con notizie capaci d'illustrarne la storia. Dobbiamo pertanto dire che avremmo desiderato di pubblicare inoltre la Narrazione del Campanella ripristinata nella sua lezione, e almeno in parte i documenti che si contengono nell'Epistolario inedito di Giovanni Fabre venuto in proprietà dell'Ospizio degli Orfani di Roma: ma non ci è riuscito di effettuare il nostro desiderio. La Narrazione del Campanella, che offre con tanti particolari i fatti e le circostanze della congiura e de' processi secondo la versione della difesa, avrebbe trovato posto degnamente tutt'intera e riveduta a lato de' documenti secondo la versione dell'accusa. Essa fu pubblicata dal Capialbi con molte lacune, nelle quali si legge «qui il ms. è inintelligibile»: in sèguito, durante il breve respiro di libertà del 1848, venne fuori un foglio volante, col quale si avvertivano i lettori della Narrazione, che il Regio Revisore aveva di suo arbitrio posto in tanti luoghi essere il manoscritto inintelligibile sopprimendo le parole e le frasi del Campanella, e si davano queste parole e frasi soppresse. Il Palermo, nel ripubblicare la Narrazione, avea già cercato di riempire le lacune con frasi plausibili, ma esso non riuscirono sempre felicemente, come di poi si è potuto vedere; d'altra parte il foglio volante non è punto pervenuto a tutti i lettori della Narrazione. Queste circostanze, e l'altra del dubbio circa l'essere o non essere lo scritto autografo, come pure il bisogno di rivederne interamente la lezione e studiarne tutte le accidentalità che sempre possono rivelare qualche cosa, ci hanno fatto insistere per più anni presso gli eredi Capialbi, perché ci permettessero di darvi un'occhiata e prenderne una copia per ripeterne la pubblicazione, facendo noi una corsa in Calabria a tale oggetto: ma abbiamo invano atteso una risposta concludente, e ci siamo rassegnati a desistere, rimanendo a vedere quando gli eredi Capialbi sentiranno ciò che debbono alla memoria del loro benemerito antenato ed al loro cognome. Circa i documenti dell'Epistolario di Giovanni Fabre riferibili al tempo compreso tra il 1607 e il 1615, sono oramai non meno di tre anni che il Berti ne fece l'annunzio all'Accademia de' Lincei; e l'Amministrazione dell'Ospizio degli Orfani si nega perfino a concederne la lettura, per deferenza al Berti che dovrà pubblicarli. Noi intendiamo questa delicatezza: frattanto non ha guari il Berti si è deciso a pubblicarne solamente cinque, con un racconto fondato sulle notizie che ha rilevate negli altri. Bisognerà dunque attendere ancora, e sottostare pur sempre al rischio di qualche facile smentita, trattando di un periodo pel quale i documenti ci sono, ma non sono accessibili a noi. Fortunatamente il nostro tema non si estende sino al detto periodo in un modo essenziale, ed attenendoci alle cose finora esposte dal Berti, semprechè non ci apparisca evidente il contrario, possiamo riposare tranquilli. Decisi per altro a ripigliare la penna all'occorrenza, quando non ci verrà più negato di vedere questi documenti con gli occhi nostri, pubblichiamo quelli da noi trovati riferibili agli anni successivi, perché chiunque voglia possa profittarne.

Non lasceremo poi il tema de' documenti, senza dichiarare che per quanto ci è stato possibile abbiamo cercato di rispettarne l'integrità, ed in ogni caso ne abbiamo rispettata scrupolosamente la forma. Perfino le frasi curialesche, la presenza del tale e non del tal altro Giudice in un interrogatorio, insomma le menome particolarità che sembrerebbero superflue, hanno non di rado la loro importanza, e possono offrire al critico materia di notevoli considerazioni; laonde abbiamo stimato opportuno piuttosto limitare il numero de' documenti che mutilarli. D'altro lato conoscendo che coloro i quali sono avvezzi a farne oggetto di studio vi leggono molte altre cose al di là delle notizie che essi contengono, abbiamo stimato indispensabile darli nella precisa lezione nella quale li abbiamo trovati; e sarebbe assai rincrescevole, se dopo di aver fatto lungamente i maggiori sforzi per riprodurli con fedeltà, sino ad aver reso un po' vacillante la propria ortografia, dovessimo incontrarne biasimo anzichè lode. Aggiungiamo pure che dietro siffatto principio non ci siamo nemmeno trattenuti dall'adoperare nel corso della narrazione voci e maniere del tempo, che sappiamo bene non essere ammesse nel linguaggio purgato; serbare la fisonomia del tempo ci è sembrato desiderabile sopra ogni altra cosa. E pe' documenti inserti nel corso della narrazione abbiamo preferito di abbondare, come abbiamo preferito di abbondare nelle citazioni e nelle ricerche intorno agl'individui che in qualunque modo abbiamo trovato nominati nelle cose del Campanella. I nomi e i fatti di altrettali individui possono sempre dare adito a ritrovamenti ulteriori: le carte di famiglia anche degl'individui meno elevati, come si è visto p. es. nel caso di Gio. Battista Sanseverino, tanto più gli Archivi privati delle famiglie nobili, possono riuscire sorgenti di scritture perfino di primaria importanza. E però non abbiamo esitato ad addentrarci anche nelle genealogie e parentele di queste famiglie, convinti che se ne sarebbe avuto ad un tempo la nozione chiara delle persone ed un possibile fonte di nuovi documenti.

III.

Ci rimane a dire de' criterii a' quali ci siamo ispirati, e dell'andamento che abbiamo dato alla nostra narrazione.

I criterii principalissimi sono stati segnatamente due: tener sempre innanzi agli occhi le condizioni de' tempi, badando di non presentare e giudicare gli uomini e le cose come se fossero de' tempi attuali; non perdere mai di vista che trattasi di quistioni estremamente ardue, badando di venire a qualche affermazione solamente dietro analisi o critiche minute. Non occorrerebbe dire tutto ciò, ma non è colpa nostra se ci sentiamo obbligati a ricordarlo, mentre a proposito de' fatti del Campanella lo vediamo posto in dimenticanza, tanto che ci apparisce necessario fare alcune considerazioni sull'argomento anche da questo lato.

Cominciando dalle pratiche della congiura, naturalmente si ha che il Campanella dovè trovarsi in mezzo a frati sbrigliatissimi, in mezzo a fuorusciti con le mani lorde di sangue e di rapina; e tale fatto ha potuto e potrebbe ancora dare a taluni motivo di scandalo. Ma oltrechè in un disegno d'insurrezione erano in grado d'intervenire soltanto persone manesche e poco timorate, non deve sfuggire che molto tristi erano allora generalmente i costumi de' frati, molto tristi i costumi delle persone che aveano un po' di forza nel braccio, tanto più se appartenenti a classe elevata e nobile. A noi è sembrato di sognare quando abbiamo letto nel libro della Colet, che «i conventi erano allora l'asilo de' più grandi spiriti», e parimente nell'opuscolo dell'Angeloni Barbiani, che «mentre tutto il laicato cadeva o infiacchiva... una vita nuova s'agitava nei monasteri e la bianca lana di S. Domenico era segnale di risorgimento e di moto». Il laicato non era tutto fiacco, e se in molta parte era fiacco ed anche tristo, ciò accadeva per l'influenza predominante de' monasteri; né i monasteri vanno giudicati per la presenza in essi di qualche rara individualità, che d'altronde vi stava assolutamente a gran disagio, come si conosce appunto in persona del Campanella. Tra le migliaia e migliaia di persone, che indossavano la cocolla, od anche il ferraiolo nero de' clerici, per menare vita rispettata e senza stenti, immune da' rigori delle leggi dello Stato e dal pagamento delle tasse, doveano pure esservi persone colte e persone amiche di libertà; tuttavia nel caso nostro se ne ebbero in numero insignificante. Ma conviene persuadersi che il fra Cristofaro del Manzoni, in tempi non molto lontani da quelli del Campanella, fu veramente un riflesso della bella anima dello scrittore, non il ritratto del frate del tempo, considerato anche il caso raro del frate dabbene; e l'Innominato medesimo fu un tipo eccezionale sotto il rispetto della sua qualità d'innominato, mentre a' Signori prepotenti e carichi di delitti non dispiaceva punto di essere chiamati col proprio nome e cognome, ma solo volevano che il loro nome e cognome fosse pronunziato con gran timore. Basta percorrere pochi volumi del Carteggio del Nunzio Aldobrandini, per capacitarsi delle qualità de' frati in ispecie Domenicani, e pochi volumi de' Registri Curiae, dell'Archivio di Napoli, per capacitarsi delle qualità de' laici prepotenti in ispecie nobili; se ne avranno alcuni tipi nel corso della narrazione nostra, e si vedrà che il Campanella venne a trovarsi in mezzo a persone relativamente assai meno triste, ed anche in mezzo a persone molto dabbene.

Circa l'essenza stessa della congiura, si sarebbe voluto e si potrebbe ancora volere la dimostrazione di una vasta trama, forse anche con depositi bene accertati di fucili e di cannoni, in somma con apparecchi tali da riuscire a combattere efficacemente un colosso come la Spagna. Ma nessuna congiura, nessun tentativo di ribellione, ha proceduto mai in tal guisa; né la gravità di una congiura, e peggio anche l'esistenza di essa, va misurata co' grandiosi apparecchi, i quali anzi, se sono grandiosi, menano a farla sventare con la massima facilità. Analogamente ha potuto e potrebbe ancora sembrare, che le prediche del Campanella sulle vicine difficoltà nelle quali si sarebbe trovato il Governo, le sue sollecitazioni a raccogliersi, ordinarsi ed armarsi, per profittare di quelle difficoltà e venire ad un diverso ordinamento dello Stato, fossero sfoghi innocui di un visionario, cose da curarsi con la noncuranza. Ma anche se il paese avesse allora goduto un regime di libertà, si può metter pegno che gli alti Ufficiali dello Stato, i Consiglieri napoletani medesimi non che i Magistrati, conoscendo il nesso che si stabilisce tra il pensiero e l'azione, valutando le conseguenze del pervertimento de' giudizii nelle moltitudini, non si sarebbero mai mostrati fino a tal punto (chiamiamo le cose col loro nome) scioperati o sleali. Noi che tendiamo a smarrire perfino la nozione etimologica della parola Stato, noi che assistiamo all'applicazione della teorica che sia lecito l'apostolato contro la forma di Governo esistente, lecito il prepararsi ad un mutamento radicale di essa facendone solo quistione di tempo e di opportunità, noi che professiamo ottimo consiglio sempre il lasciar correre, lasciar fare, lasciar passare, predicando poi con grande disinvoltura che è difficile, difficilissimo il governare con la libertà, noi non possiamo pretendere che il Governo, i Consiglieri e i Magistrati d'allora, avessero dovuto pensare ed agire come noi. Trattandosi poi di una dominazione straniera, è naturale attendersi che perfino un tentativo appena adombrato sia stato ritenuto gravissimo, e subito schiacciato da una repressione del tutto sproporzionata, con mezzi e modi feroci: eppure si vedrà che la congiura del Campanella non fu un tentativo appena adombrato.

Così la congiura come la repressione meritano pure di essere valutate non solo in rapporto al tempo, ma anche in rapporto ai luoghi ed alle circostanze. Vi furono trattative col Turco più o meno spinte, non importa se condotte dall'uno più che dall'altro degl'incriminati; vi furono al tempo medesimo insinuazioni che il Papa avrebbe aiutato il movimento, che sollecito del benessere del Regno, feudo della Chiesa, vi avrebbe messe le mani sue, e ciò mentre i Vescovi, segnatamente in Calabria, si spingevano con ardore incredibile nelle lotte giurisdizionali. Ecco più di quanto occorreva perché non solo gli spagnuoli ma anche i Consiglieri napoletani si mostrassero senza pietà, e la gente illuminata come tutto il volgo, per diverse vie, negasse ogni simpatia a' poveri incriminati, né solamente a' tempi della congiura, ma anche molti anni dopo e perfino qualche secolo dopo. Si potè da parecchi, per commiserazione verso un uomo straordinario, quando lo si vide caduto in un abisso di miserie, negare che egli avesse concepito e menato innanzi una congiura, ma non mai scusare questa congiura e giustificare le circostanze che dicevasi averla accompagnata. Tali circostanze meritano un'attenta ponderazione; gioverà quindi fermarci un poco sopra di esse.

Si era ancora ben lontani da' tempi ne' quali abbiamo visto principalmente i fautori della Curia Romana acquistare e consigliare l'acquisto de' valori turchi, facendosi sostegno della mezzaluna. Allora i turchi erano i nemici aborriti del nome cristiano e della santa fede, da doversi sempre maledire e combattere, né poteva perdonarsi a chi avesse solamente pensato a stabilire qualunque maniera di relazioni intime con loro. Vero è che molti e molti calabresi non la pensavano addirittura così, ed andavano a rifugiarsi in Turchia per godervi la pace negata loro in patria, sicchè nella sola Costantinopoli ve n'era una colonia molto numerosa, la quale in gran parte lavorava nell'arsenale turco, ed abitava «un grossissimo casale» fabbricato appunto da Ucciali-Alì presso la casa sua e detto la «Calabria nuova», come è attestato anche nella Relazione del Bailo Contarini. Ma tutti costoro dall'universalità dei calabresi rimasti in patria erano chiamati maledetti da Dio; e non occorre dire che da qualunque ceto del rimanente del Regno, più o meno, si professava la medesima opinione, e che gli spagnuoli la rincalzavano potentemente, contribuendovi del pari il loro fanatismo religioso ed il loro interesse. Vi fu quindi, allora e poi, un coro di vituperii sugli sventurati calabresi, che aveano cercato di far coincidere la loro insurrezione con l'ordinaria venuta autunnale de' turchi verso le coste di Calabria, e di procedere d'accordo con essi anche consentendo che occupassero qualche punto delle coste; ciò fece dire avere i congiurati disegnato di dar la Calabria in mano de' turchi, i quali, non bisogna dimenticarlo, sino al principio di questo secolo erano tuttora temuti anche come conculcatori della fede cristiana, comunque già da un pezzo fossero in tramonto. Gli esempî storici addotti dal Baldacchini e dal D'Ancona, per provare che diversi Principi cristiani e il Papa medesimo più di una volta non si erano peritati di stringere la mano a' turchi, e che quindi non era stata poi gravissima la colpa del Campanella, se pure la commise, nel trattare accordi col Cicala, potrebbero servire per uso nostro qualora noi ne sentissimo il bisogno; ma non potranno mai servire ad attenuare il fatto che Governo e paese, allora e poi, sentirono assai malamente gli accordi del Campanella e de' patrioti calabresi co' turchi.

D'altro lato ancora peggiore fu l'impressione de' voluti accordi col Papa, segnatamente nel ceto più colto, oltrechè negli spagnuoli; e qui bisogna tener presenti anche le condizioni speciali del Regno di Napoli. Se è vero che un paese, come un individuo, deve avere un pensiero, un'aspirazione, uno scopo, senza il quale gli è impossibile il vivere, l'unico pensiero che sottrasse alla morte le Provincie napoletane può dirsi essere stato la lotta contro le pretensioni e le cupidige della Curia Romana, la quale ad ogni menoma occasione ripeteva essere il Regno di Napoli un feudo della Chiesa, temporaneamente dato a governare al tale o tal altro col permesso dei superiori, potersi sempre ripigliare dalla Chiesa quando lo credesse; anche il Carteggio del Nunzio Aldobrandini, ne' tempi di poco anteriori a quelli de' quali ci occupiamo, mostra che la Curia si fece un dovere di ricordarlo a proposito della difficoltà mossa dal Vicerè Conte di Miranda intorno all'esazione delle decime senza il consenso del Re. Questa lotta tenne accesa la lampada che per tante ragioni avrebbe dovuto spegnersi; e non si possono leggere senza commozione i documenti che attestano gli sforzi de' padri nostri, tanto più meritevoli di ammirazione, in quanto che i Vicerè spagnuoli, per quell'affettato fervore religioso che parve gran mezzo di ottima educazione e fu lo spegnitoio di ogni sublime ideale, li lasciavano sovente scoverti di rimpetto alla Curia; ed essi con le loro hortatorie affrontavano le scomuniche, le quali avevano a quei tempi un'efficacia notevole, e potevano anche menare direttamente a un processo di eresia, per la massima allora in corso che coloro i quali fanno i sordi nella scomunica dànno a sospettare di essere eretici.

Non si trattava soltanto di custodire le ordinarie prerogative dello Stato nelle ordinarie quistioni giurisdizionali, in ciò altri Stati ancora, e massimamente Venezia, non tenevano allora una condotta meno risentita della nostra; si era ognuno persuaso avere gli ecclesiastici per divisa «tutto ci si deve e niente dobbiamo», ringalluzzendo sempre co' fiacchi e ristando solo co' forti, laonde a nessuno veniva in mente mai d'«ignorare» ciò che essi facevano, di «non curare» gli sfregi quotidiani alle leggi dello Stato. Ma qui in Napoli si trattava di qualche cosa di più, si trattava di preservare l'esistenza medesima dello Stato, minacciato di disfacimento e di assorbimento da parte della Curia.

Ognuno sapeva bene che due dinastie da potersi dire proprie, già naturalizzate, aveano soccombuto per guerre mosse dal Papato; ed erano sempre vive le ricordanze di un Papa, Paolo IV Carafa, che ci aveva mossa direttamente una guerra di conquista; laonde la vigilanza e l'oculatezza non parevano mai sufficienti, si sospettava sempre altissimamente degli ecclesiastici, si riteneva che essi fossero i veri e proprî nemici della patria. Si potrebbe perfino dire che questa lotta d'indipendenza dalla Curia avesse tenuti occupati gli animi in guisa, da attraversare per lungo tempo i desiderî d'indipendenza dallo straniero, desiderî che non mancavano punto, come l'attestano i parecchi documenti che ancora ne rimangono malgrado la cura presa dagli spagnuoli per distruggerli, e che sarebbe una buona azione evocare dall'oblio nel quale giacciono; si sentiva la fatale necessità di cercare nelle forze di una grande potenza quella tutela che le risorse sole del Regno non bastavano a dare.

Ad ogni modo questa lotta senza posa, questa repressione delle esorbitanze ecclesiastiche, meticolosa, accanita, incessante, merita di essere meglio conosciuta ed apprezzata, e la narrazione ci darà campo di mostrarne qualche cosa. Non era un rabbioso pettegolezzo di avvocati, come talvolta è accaduto di udire da persone pregevolissime ma non bene informate delle cose napoletane, era il sentimento pungente della patria in pericolo; e lo scopo fu raggiunto, e potrebbe sorriderne soltanto chi giudicasse le cose con la scorta delle idee de' tempi nostri, commettendo un solenne anacronismo. Lo Stato divenne ciò che doveva essere, la personificazione della patria e il simbolo della civiltà: a questo principio s'informò una schiera di dotti e valorosi giuristi, e costituì una scuola che è il più gran vanto del passato di Napoli, co' suoi pregi e co' suoi inconvenienti.

A questa scuola appartenne il Giannone, che non aveva odio personale contro gli ecclesiastici, sibbene quel fondo di odio sentito da tutti coloro i quali s'interessavano delle sorti dello Stato e vedevano negli ecclesiastici i nemici della peggiore specie: così, naturalmente, era vano attendersi, che il Giannone avesse mostrato simpatia pel Campanella. Giurista positivo, considerando le pretensioni di lui a riformare il mondo, dovea reputarlo perfino un ignorante, «col capo pieno di varie fantasie, portentosi delirî, sorprendenti illusioni». Difensore acerrimo dello Stato, considerando le giaculatorie Papesche del filosofo e i vaticini tratti dall'Apocalissi, da varî Santi e perfino dal Responsorio di S. Vincenzo Ferrer, onde ritenevasi obbligato co' suoi frati a predicare la santa repubblica, dovea reputarlo «un grande imbrogliatore», dovea esser condotto a tirare al peggio ogni cosa, dando il massimo peso alle accuse ed anche alle accuse più grossolane senza curarsi d'altro; e se avea percorso gli Articoli profetali e l'Apologia, come è possibile, avendovi letta quella frase «nos dolis et mendaciis collusimus ad vitam servandam», qual maraviglia che nella sua mente abbia potuto sorgere quel concetto così crudamente espresso?

Con ogni probabilità, negli ultimi ed infelicissimi anni della vita sua, egli dovè modificare moltissimo i suoi giudizî intorno al povero frate da lui tanto severamente trattato; dovè specialmente rincrescergli l'aver detto che «a lungo andare pure seppe co' suoi imbrogli uscire dal carcere». Noi facciamoci un dovere di non irritarci per le convinzioni altrui quando non le dividiamo; e pel povero Giannone invochiamo piuttosto che si elevi un segno, una memoria, un monumento, e meglio che altrove dinanzi a quella cittadella di Torino ove patì quello strazio che aspetta ancora un qualche lavacro espiatorio; la Monarchia medesima dovrebb'esserne sollecita, poichè il confessare un errore non offende ma rafferma l'opinione della nobiltà dell'animo. Intanto l'avversione così profonda alla persona e all'impresa del Campanella, durata ne' giuristi fino a' tempi del Giannone ed ancora più oltre, fa ben comprendere l'avversione destata a' tempi della congiura e quindi anche la feroce repressione che ne seguì. L'aiuto che il Papa avrebbe dato all'insurrezione rappresentò una di quelle fandonie, che vanno sempre sparse a piene mani quando si tratta d'incitare ad un movimento insurrezionale; eppure il Governo non ne dubitò menomamente, e sebbene avesse avuto ben presto motivo di disingannarsi, i parecchi incidenti verificatisi durante il processo ridestarono senza posa i sospetti e le diffidenze, e così pure li ridestarono in sèguito le professioni di fede Papesca, che il Campanella non cessò mai di fare quando non vide altra possibile speranza di aiuto che nel Papa. Lo stesso principio da lui continuamente svolto, che per un buono assetto delle cose del mondo fosse necessario l'avere riuniti in una persona sola il potere spirituale e il temporale, ciò che del resto veniva a riferirsi egualmente al capo della repubblica da lui concepita, doveva senza dubbio farlo apparire agli occhi delle persone che s'interessavano alle sorti dello Stato un nemico mortale del paese; e così possono bene intendersi certi rigori e certi giudizii, apparsi sempre di difficile spiegazione.

Ciò che sinora abbiamo detto, circa la feroce repressione della congiura, comprende naturalmente anche il processo; ma su questo conviene del pari fermarsi un poco. Sarebbe strana pretensione voler trovare nel processo l'osservanza delle infinite guarentige che oramai circondano l'accusato, e che alla sensività morbosa e alla svenevolezza de' tempi nostri non sembrano ancora bastanti. Si riteneva che l'efficacia e l'esemplarità della pena esigesse imprescindibilmente l'applicarla alla minor distanza possibile dal giorno in cui il reato era stato commesso; non si conoscevano le lungaggini e le procedure macchinose, bastava un Giudice, un Fiscale ed un Mastrodatti aiutato da' suoi scrivani, ed il mezzo di prova definitiva, mezzo deplorabile ma già reso accetto dall'abitudine, era sempre la tortura, più o meno spinta ne' casi ordinarî, assai spinta nei casi di lesa Maestà. In tal guisa vedremo condotto innanzi il processo pe' laici, su' quali il Governo avea la mano libera, bensì abbreviando i termini ad modum belli, impiegando la tortura fin dalle prime informazioni e servendosi di torture atrocissime, ciò che del resto era ammesso da tutti i giuristi del tempo: il delitto di lesa Maestà dicevasi allora «privilegiato», cioè tale da ammettere modi di procedura e mezzi di rigore eccezionalissimi, mentre oggi è divenuto quasi privilegiato in un senso diametralmente opposto; deve dirsi dunque che tutto fu fatto in regola, almeno in quanto alla forma, pe' poveri congiurati laici.

Pel Campanella poi e per gli altri ecclesiastici vi furono dapprima due frati a' quali venne ben presto associato pure un Vescovo, e più tardi, in Napoli, vi furono due Giudici invece di uno, nominati entrambi dal Papa, oltre il Fiscale e il Mastrodatti; ed anche furono impiegate le torture durante il processo informativo e torture atrocissime, non di meno sempre ne' limiti del dritto ed anzi col consenso espresso del Papa; così, egualmente da questo lato, deve dirsi che tutto fu fatto in regola. Senza dubbio ciò non significa punto che i risultamenti del processo debbano ritenersi l'espressione della verità, come sarebbe puerile il ritenerlo senz'altro pe' processi de' tempi nostri, massime pe' processi politici, e tanto più dopo che vi abbiamo adottato quella sorprendente maniera di farli giudicare: sempre occorrerà di analizzarli con un penoso lavoro, senza preoccupazioni, senza pregiudizii, con la conoscenza de' tempi, de' luoghi, delle persone, di tutte le circostanze, a fine di rintracciarvi, ne' limiti del possibile, la verità; ma non potrà mai esser lecito di rifiutarvisi con una comoda pregiudiziale, poggiata su' troppi vizii dell'andamento de' processi. Nel caso nostro il Baldacchini ha mostrato di credere che pure a' tempi del processo del Campanella non si sia prestata troppa fede alla congiura, poichè nel Carteggio del Nunzio con la Corte di Roma si parla della «causa di pretesa ribellione»: ma tale era il linguaggio del tempo; finchè la sentenza non era pronunziata, dicevasi il tale o tal altro preteso reato, come ora dicesi la tale o tal'altra imputazione di reato.

Ugualmente il D'Ancona trova nel Giannone «preziosa» la parola di «processo fabbricato»: ma tale era la parola in uso; processus formatus traducevasi appunto in processo fabbricato, e neanche per facezia si potrebbe in ciò vedere la significazione di processo inventato. L'uno e l'altro poi notano che le confessioni furono fatte in tormentis, e con parole di sdegno si scagliano contro il modo allora usato di fare i processi: «Alcuni vili uomini, i quali non avevano ufficio di magistrato, non stipendio, non grado, nell'ombra del mistero raccoglievano, Dio sa come, le pruove; quest'inquisitori o scrivani..., il cui nome solo mettea spavento, facevano un traffico infame del loro mestiero, sempre, anche nelle cause de' privati; pensate dove il governo accusava, giudicava e condannava. Non v'era pubblica discussione del fatto, non libera difesa dell'accusato; tal'era un giudizio criminale». In verità non può non sorprendere che perfino dopo la conoscenza de' documenti trovati dal Palermo, a proposito del processo del Campanella siano state riprodotte le parole qui riferite, con l'asserzione che il Governo non solo accusava, ma anche giudicava e condannava senza libertà di difesa, mentre que' documenti mostravano addirittura l'opposto, ed anche intorno alle atrocissime torture, sulle quali davvero non si potrà mai passare alla leggiera, mostravano che i principali imputati le aveano sofferte senza nulla confessare, eccetto il povero Campanella che non era stato in grado di resistervi. Ma in somma donde mai dovrà scaturire la verità in un fatto per lo quale vi è stato un processo criminale, se non dall'esame di questo processo?

Che non se ne debbano accettare senz'altro i risultamenti, sta benissimo: anche i nostri successori, liberati una volta dal pregiudizio tanto più grave del cittadino-giudice, come noi siamo finalmente riusciti a liberarci dal pregiudizio del cittadino-milite, convinti del santo principio «ognuno al suo mestiere», avranno a fare su' risultamenti de' nostri giudizii criminali una critica più fondata e non meno acerba di quella fatta dal Baldacchini e dal D'Ancona su' giudizii antichi. Ci pare proprio di udirli. «Dodici uomini per lo più inetti, scelti senza criterii ragionevoli, senza obbligo della menoma nozione dì ciò che è necessario ad un magistrato, spessissimo anche privi della più discreta cultura mentre i codici già riboccavano di sottili distinzioni giuridiche da potersi bene intendere solamente dietro appositi studî, assistevano allo svolgimento del giudizio e davano i pronunziati, Dio sa come, sul fatto: questi cittadini-giudici o giurati, il cui nome riempiva di speranza i colpevoli e i loro avvocati, sottostavano a tutte le influenze, seduzioni e peggio, non foss'altro, per la loro incapacità; e se disgraziatamente taluno di essi conosceva o pretendeva di conoscere la legge, costui trascinava tutti gli altri dove voleva, perocchè mentre doveano decidere nel silenzio e nel raccoglimento, non essendo ammessa la discussione fra loro, questa si faceva sempre e ad onore e gloria del più inframmettente e capace d'imporsi.

Il Governo teneva i così detti giudici del dritto, magistrati con grado e stipendio, ma erano destinati ad ascoltare e tacere, ad esser complici di errori grossolani e rendersi indifferenti al giusto e all'ingiusto, mentre il Presidente, occupatissimo, dovea fra le altre cose affaticarsi a far comprendere agl'ignoranti giudici del fatto le sottili distinzioni ammesse dal codice ne' diversi reati, senza riuscirvi novanta volte su cento per l'intrinseca natura delle cose; gli avvocati liberissimi nel dire, prolungare ed intralciare, poichè i riguardi doveano concedersi agli accusati anzichè alla società che accusava, agli uomini implicati ne' delitti anzichè agli infelici giudici costretti ad abbandonare il lavoro proprio non per giorni ma per settimane, trasmodavano in tutti i sensi per far colpo sugl'ignoranti, su' quali non poco pesava pure l'atteggiamento della maggior parte del pubblico che prendeva interesse nel giudizio, intervenendovi come ad una scuola d'istruzione sul miglior modo di perpetrare i delitti e scansarne la pena. Così i pronunziati intorno al fatto venivano fuori per lo meno a caso, le sentenze doveano calcarsi su que' pronunziati e tutto si guastava; i cittadini medesimi cercavano con ogni mezzo di scansare tale ufficio, poichè non era permesso il rifiutarvisi, ma grosse multe obbligavano a godere e far godere i beneficî di quest'aurea libertà; tal era un giudizio criminale».

Bisognerebbe disperare de' miglioramenti serii delle istituzioni umane, per ritenere che siffatta critica, da potersi allargare e prolungare per un volume, non abbia ad essere pronunziata da' nostri successori: così Dio pietoso non voglia che abbiano a pronunziarla con maledizioni verso di noi imbevuti di dottrinarismo fino a smarrire il senso della realtà, dominati da pregiudizii assai più che non crediamo, molto spesso repugnanti a predicare su' tetti ciò che riconosciamo tra le mura domestiche, ed avviati pur troppo a mostrare, dolorosamente, che non è tanto difficile conquistare un gran bene quanto è difficile conservarlo. Ma essi non si rifiuteranno certamente a discutere i processi de' tempi nostri; bensì li vaglieranno con tutta la cura possibile, costretti a guardarsi dalle esagerazioni che abbiamo introdotte in un certo senso, dopo quelle che hanno dominato in un senso opposto.

Che si tratti di quistioni estremamente ardue, è stato già ammesso da coloro i quali hanno voluto vedere un po' addentro nel fatto della congiura del Campanella. E veramente ogni imputazione politica grave, massime in tempo di servitù, suscita sempre nell'animo dello storico una perplessità inevitabile, se non sull'esistenza medesima della colpa ventilata, almeno sulla precisa indole ed estensione di essa. Ma la perplessità cresce a mille doppi nel fatto del Campanella, trattandosi di un'imputazione politica complicata da un'imputazione religiosa, seguita da processi senza dubbio formati in tempi orribili per oscurantismo, efferatezza e rapacità, presso al sorgere pauroso di un nuovo secolo, tra lotte giurisdizionali accanite, sospetti governativi eccitati, malumori popolari profondi, inimicizie cittadine roventi, odii frateschi implacabili; aggiungendovi lo zelo ferocemente interessato de' primi Inquisitori, le torture e spoliazioni inaudite, il terrore universalmente diffuso, la sollecitudine in molti e nello stesso Campanella di salvarsi ad ogni costo, il guiderdone apertamente dimandato da alcuni plebei, e non meno apertamente ambito da alcuni nobili, si ha un cumulo di quistioni non solo oscure, ma anche complesse ed intralciate al più alto grado.

Chi si è lusingato di avere pienamente risoluto il problema, in un modo o in un altro, uscirà presto d'illusione, quando da' nuovi documenti saprà che uno de' Giudici ecclesiastici, antico Inquisitore e peritissimo nella materia processuale, il Vescovo di Termoli, reputava il processo di eresia «malissimamente fondato» e riteneva anche il fondamento del processo di congiura «molto tenue anzi falso»; invece un altro Giudice successo al primo, originariamente avvocato, non meno avveduto ed anche esercitato nelle cose del S.to Officio e ne' più alti negozii, il Vescovo di Caserta, non aveva il menomo dubbio sulla verità di entrambe le imputazioni e trovava anzi nell'una un valido appoggio per l'altra, Difatti, tutto considerato, la congiura del Campanella ci si prosenta senza mezzi termini, o come una macchinazione da parte sua per un audacissimo tentativo di rivolgimento politico e religioso ad un tempo, o come una macchinazione da parte del Governo per estinguere anche la più lontana velleità di un rivolgimento. D'altronde, giustamente o ingiustamente, i processi vennero a costituire il Campanella in una posizione giuridica tale, da non avere innanzi a sè che una di queste due vie: o sobbarcarsi all'ultimo supplizio, sia montando rassegnato, come Maurizio de Rinaldis, sulla scala della forca, sia montando alteramente, come allora appunto faceva in Roma Giordano Bruno, sul rogo dell'inquisizione; ovvero adoperare tutti gli accorgimenti, i cavilli, le finzioni ad ogni costo, che poteva suggerirgli il suo ingegno versatile e sottilissimo. Egli prescelse quest'ultima via, e disse, disdisse, accusò, scusò, non potè resistere, fece la sua confessione ne' tormenti; di poi, propriamente nella faccenda dell'eresia, si mostrò pazzo, ed appunto per questa pazzia, alla quale non si prestò credito, ebbe quel tormento crudelissimo da lui medesimo narrato non senza qualche garbuglio, lasciando per lo meno nel buio perché e da chi l'avesse avuto; in tal guisa egli giunse a sottrarsi alla morte dal lato dell'eresia e a pigliar tempo dal lato della congiura, tanto da essere poi lasciato in una prigionia indefinita, onde il fatto della sua pazzia ci è apparso importante al punto, da doverlo notare fin sul titolo di questo libro.

Nessuno potrebbe legittimamente fargli un rimprovero di avere prescelta la seconda via anzichè la prima, e si vedrà che egli aveva una ragione riposta, un po' più alta di quella della propria conservazione, per non comportarsi altrimenti: ma è chiaro che egli più di tutti dovè contribuire ad addensare le nebbie intorno alle cose sue, non solo quando si trovò sotto l'enorme pressione de' testimoni e de' Giudici, ma egualmente durante e dopo la lunga e terribile prigionia; è chiaro che egli dovè con le notizie date ne' suoi scritti svariatissimi sconvolgere in tutti i sensi i fatti processuali, fino a rimanerne i suoi più cari amici crudelmente bistrattati, le sue convinzioni intime ostentatamele rigettate e con ogni probabilità dissimulate per tutto il rimanente della sua vita.

Adunque non è possibile sentenziare in fretta e in furia sopra quistioni di loro natura intralciate, e divenute studiatamente sempre più intralciate: bisogna procedere oltremodo riguardosi e cauti, attingere a tutti i fonti, investigare, vagliare, confrontare, e questo, lo diciamo francamente, ci mantiene alquanto angustiati. Giacchè ci accade spesso di leggere tirate contro i così detti infarcimenti di erudizione, contro la facile erudizione, contro l'analisi minuta, ed inni alla forza d'intuizione, alla potenza della sintesi e ad altrettali parole rumorose. La facile erudizione! Forse per questa facilità si trovano sempre quasi deserte o affatto deserte le sale di studio degli Archivii, tanto che si è mostrati a dito, e spesso con taccia di stravaganza, allorchè vi si accede piuttosto frequentemente; forse per questa facilità avviene altrettanto, allorchè si accede alle pubbliche Biblioteche e vi si dimandano libri di vecchia data. Pur troppo ogni lavoro che sforzi chi legge ad occuparsi sul serio è preso in uggia, ed assai sovente lo si dichiara indigeribile, sol perché le facoltà digerenti sono affievolite. Ma non c'è rimedio: il Campanella non è di que' soggetti che si possano capire a prima vista, e in sèguito delle sue traversìe dovè rendersi tanto più riboccante d'incognite da tutti i lati; basta vedere che con la medesima chiarezza egli è apparso ad alcuni monarchico e cattolico per eccellenza, passionato fautore della Monarchia di Spagna e del Papato, ad altri è apparso uomo senza alcuna religione ed alcuna fede, canzonatore degli spagnuoli e del Papa. Bisogna dunque ingegnarsi a rifarne la storia con più numerosi documenti e più retti criterii, lasciare da parte i voli pegasèi, ed attenersi ad un viaggio pedestre, abbastanza faticoso, molte volte noioso; con tutto ciò non lasciarsi nemmeno illudere dalla speranza di aver detta l'ultima parola, ma contentarsi di avervi con qualche efficacia spianata la via e farsi un dovere di agevolarne in tutti i modi l'accesso. Ecco quindi, in pochi cenni, l'andamento dato alla nostra narrazione.

Indispensabili ci sono apparse le seguenti cose. Cominciare a parlare del Campanella fin dalla sua nascita, per accompagnarlo passo passo ne' suoi studii, nelle sue amicizie, nelle sue peregrinazioni, ne' suoi primi incontri col S.to Officio, che non furono pochi né di poca importanza: si avranno così tante notizie che aiuteranno di molto a conoscere non solo l'uomo, i suoi tempi, le sue relazioni, ma anche certi fatti in intima connessione con quelli della congiura e consecutivi processi, giacchè vi sono da questo lato antecedenti degni di molta considerazione. Tener presenti le opere d'ingegno da lui successivamente composte, indagandone con ogni diligenza le date della composizione ed anche della ricomposizione per quelle in buon numero che furono ricomposte, non senza notarvi in pari tempo taluna delle varianti introdottevi quando riesca possibile: le vicende del Campanella non doverono avere poca influenza sulle idee che egli venne a manifestare, e i lunghi cataloghi delle sue opere, così come li abbiamo, senza la data rispettiva di ciascuna, non contribuiscono a far intendere l'atteggiamento suo ne' diversi tempi, ma invece possono menare come hanno menato a notevoli abbagli. Non lasciare indietro alcuna nozione delle persone e delle cose del tempo, dovendo cercar lume da per ogni dove, apprezzare le circostanze in mezzo alle quali si potè pensare a un disegno d'insurrezione, giudicare ciascuno di coloro i quali vi presero parte effettiva o supposta, o vi ebbero in qualunque modo relazione: specialmente per quelle persone che condivisero col Campanella le esultanze, gli errori, i meriti, le tristi conseguenze, non si potrebbe in altro modo valutare l'atteggiamento che assunsero, la credibilità di ciò che dissero; e la cosa medesima vale pe' persecutori, pe' Giudici e via via fino alle supreme Autorità dello Stato e della Chiesa. Appellarsi di continuo a' documenti, far parlare essi medesimi sempre che si può, citare i fonti di qualunque fatto che si asserisca, anche se pel momento non sembri di una certa importanza: abbiamo troppe volte avuto motivo d'indignarci, perché, nel caso di materie molto quistionabili, gli scrittori non si siano creduti in dovere di citare i fonti, per documentare le loro assertive e facilitarne contemporaneamente lo studio agli altri che vi avrebbero atteso in sèguito; nel caso attuale, certamente quistionabile ancora, sarebbe grave la mancanza delle citazioni e di tutte le dilucidazioni opportune, tanto più che infine non occupano un grandissimo spazio, e coloro i quali non vi prendono interesse possono saltarle.

Da un lato solo forse ci siamo veramente lasciati trasportare un po' troppo, dal lato delle memorie di Napoli, avendo spesso abbondato in particolari nel farne menzione. Ma ci ha arriso la speranza che i napoletani avrebbero gradito leggere questa narrazione, e rilevato con compiacenza il ricordo delle cose del tetto nativo. Considerando l'interesse destato sempre da quelle scene, in verità abbastanza luride, che s'intitolano dal Masaniello, nelle quali, tra mille rovine, una plebe sfrenata faceva pur sempre udire le rauche grida di Viva il Re di Spagna, ci è parso impossibile che altrettanto interesse non sarebbe riuscita a destare la congiura che s'intitola dal Campanella, la sola che preparava il grido d'indipendenza, recando poi tanto strazio ad uno di coloro i quali hanno maggiormente onorata la patria. E se ci fossimo ingannati? Ce ne increscerebbe molto per l'editore, giacchè per la prima volta abbiamo trovato un vero e proprio editore; quanto a noi, siamo già abituati ad avere solamente quel premio che dà a sè stesso il dovere adempiuto.

 Nella fine di luglio 1598, fra Tommaso Campanella, dopo parecchi anni di assenza, se ne ritornava nella sua Calabria, e fermatosi un poco in Nicastro si riduceva poi direttamente a Stilo suo luogo natale. Quivi, scorso appena un anno, nell'agosto 1599, si trovò imputato di quella rinomata congiura che s'intitolò dal suo nome, per la quale la Calabria fu aspramente percossa, parecchi furono giustiziati, moltissimi dispersi e spogliati de' loro beni; ed egli, con un gran numero di compagni laici ed ecclesiastici, tradotto a Napoli soffrì un doppio processo, di congiura e di eresia, fu costretto a mostrarsi pazzo per qualche tempo, ne riportò immani sevizie e 26 anni di carcere. Questo fatto capitale della vita del Campanella noi intendiamo di narrare; ma gioverà vedere con ogni diligenza tutti i precedenti del filosofo, non solo per rettificare diverse cose ed aggiungere ulteriori notizie a quanto si conosce della sua biografia, ma principalmente per rilevare diverse circostanze rimaste oscure od ignote, e tutto ciò che può dare un po' di luce appunto nella tenebrosa faccenda della congiura e dell'eresia.

CAP. I.

PRIMI ANNI DEL CAMPANELLA E SUE PEREGRINAZIONI.

(1568-1598).

I. Si conosce oramai per documenti essere il Campanella nato in Stilo, il 5 settembre 1568, da Geronimo e Caterina Martello, ed essere stato battezzato col nome di Gio. Domenico, il 12 7bre, nella Chiesa di S. Biagio al Borgo, che le scritture dell'Archivio di Stato ci rivelano a que' tempi una delle cinque Chiese parrocchiali della città, oggi ridotte a tre. Coloro i quali poterono consultare i libri della detta parrocchia, che furono poi dispersi col sacco dato a Stilo da' briganti il 29 agosto 1806, assicurano di avervi letto questo brano: «A 12 settembre 1568. Battezato Giovan Domenico Campanella figlio di Geronimo, e Catarinella Martello nato il giorno cinque, da me D. Terentio Romano Parroco di S. Biaggio del Borgo». La data della nascita ha avuto pure una conferma, degna di menzione, nelle notizie trovate in un processo celebre del 1630, che si conserva nell'Archivio di Stato in Roma e che fu illustrato dal Bertolotti, quello dell'infelice D. Orazio Morandi Abate di S.a Prassede, colpito dallo sdegno di Urbano VIII irritato contro gli Astrologi che aveano cominciato a presagire e a divulgare imminente la sua morte: quivi, in un registro delle «natività» di molti personaggi distinti, si legge anche la natività di fra Tommaso Campanella con la data «An. 1568, Mens. Sept., Die 5, Hora 12, Min. 6. Hor. p. m.»; così rimane pienamente eliminato il dubbio, che quel Gio. Domenico notato ne' libri parrocchiali potesse non essere colui il quale prese poi il nome di fra Tommaso. Ma in quanto alla sua madre, dobbiamo dire che appunto nel processo di eresia pe' fatti di Calabria si legge un interrogatorio da lui sottoscritto, nel quale essa è detta «Caterina Basile»: non potendo negar fede a un documento simile, accorderemmo tutt'al più che questa Basile sia stata una 2a moglie di Geronimo, madrigna di fra Tommaso nel tempo della carcerazione. Si trovavano con lui carcerati egualmente Geronimo suo padre ed anche Gio. Pietro suo fratello (circostanza sinoggi ignorata), ed egli forse stimò bene evitare una dichiarazione, la quale avesse potuto sembrare difforme dalla dichiarazione che questi suoi parenti avrebbero fatta; ad ogni modo non sapremmo rinunziare in alcuna guisa alla notizia che fornisce il documento nostro. Dobbiamo aggiungere che ci siamo occupati di cercare qualche lume ne' Registri della Numerazione de' fuochi esistenti nell'Archivio di Stato in Napoli; ma precisamente all'epoca di fra Tommaso vi si trova una lacuna, che ci ha tolto di saperne altro. Abbiamo bensì potuto rilevare che gli antenati del Campanella in origine si cognominavano «Loli» ed ebbero in sèguito il cognome «Campanella», come pure che taluno di loro si ridusse a prendere domicilio in Stignano, casale di Stilo lontano da esso un cinque a sei miglia. Vedremo or ora che il padre di fra Tommaso fece anch'egli lo stesso più tardi, onde allora e poi si tenne da alcuni l'erronea credenza che il Campanella fosse nato in Stignano; ma nell'interrogatorio medesimo anzidetto, e troppe altre volte nelle sue opere e nelle sue lettere, il Campanella si disse di Stilo, e fino a non molti anni fa, presso la Chiesa di S. Biagio, vi si mostrava la casa in cui egli nacque; oggi se n'è perduta qualunque traccia!

La sua famiglia ci risulta in umile stato, priva di beni di fortuna ed anche della più elementare cultura. Non una volta il filosofo ebbe a dire di esser nato povero; ma è parso al Berti che la famiglia dovesse ritenersi educata ed autorevole, specialmente perché uno zio di fra Tommaso fu lettore di dritto nell'Università di Napoli, una sua sorella fu donna istruita, e suo padre e un prossimo congiunto ebbero l'onore di rappresentare la città di Stilo. Tutto ciò ha bisogno di essere rettificato: vedremo più in là che lo zio non fu propriamente lettore dello studio pubblico, e quanto alla sorella o meglio cugina Emilia, il Campanella medesimo ci lasciò scritto che era convulsionaria, e si mostrava di tratto in tratto chiaroveggente e sapientissima in Teologia «senza imparare»; né il padre fu veramente uno degli eletti della città di Stilo quando nel 13 7bre 1541 gli Stilesi espulsero il Duca di Nocera, come è stato affermato dal Capialbi, perocchè a quell'epoca Geronimo padre del Campanella era appena da pochi anni nato, sibbene molto più tardi fu sindaco del casale di Stignano, ed allora bastava la qualità di uomo probo per esser chiamato a tali ufficii. Egli poi in uno de' documenti che lo riguardano, da noi rinvenuto nell'Archivio di Stato, affermava di vivere nobilmente delle sue sostanze: ma era questo un ripiego frequentemente usato per sottrarsi alle tasse, perocchè, col «non fare arte nisciuna» si pretendeva, ed era riconosciuta, la qualità di gentiluomo e l'immunità specialmente dal testatico. Certo è che il processo di eresia dibattuto in Napoli, al quale dobbiamo spessissimo appellarci perché ricco di notizie di ogni genere bene accertate, ci mostra Geronimo padre e Gio. Pietro fratello del Campanella esercenti entrambi l'umile mestiere del calzolaio, ed oltracciò entrambi analfabeti; ci mostra ancora, a quell'epoca, la famiglia di Geronimo in Stignano composta di 9 donne tra figlie e nipoti in una grande miseria, delle quali sono menzionate soltanto Costanza che abbracciò la vita monastica, Lucrezia che prese marito ed andò a risedere alla Motta Gioiosa, Giulia ed anche Emilia cugina, figlia dello zio; ci mostra infine un fratello del Campanella a nome Giulio, che andò a risedere egualmente alla Motta Gioiosa, e l'altro a nome Gio. Pietro dimorante in Stilo. Unicamente il piccolo Gio. Domenico, pel suo svegliato ingegno, fu mandato a scuola dalla più tenera età, ma non studiò altro che grammatica, e poi due anni di logica e fisica di Aristotile, indossando da fanciullo l'abito di chierico, che più tardi mutò in quello di S. Domenico. Possiamo perfino dare il nome del suo probabile maestro di grammatica: questi dovè essere Agazio Solea, poichè uno de' frati i quali gli furono poi compagni di sventura, fra Pietro Presterà di Stilo suo costante ed efficace amico, depose di averlo conosciuto «piccolo alla scola», ed in un altro processo posteriore di S. Officio contro questo fra Pietro, un Vincenzo Ubaldini di Stilo depose di essere stato con costui alla scola presso il grammatico Agazio Solea. Oggi in Stilo si mostra ancora una casa annessa alla Chiesa di S. Biagio, appartenuta al Parroco della Chiesa maestro del Campanella: ma se Agazio Solea fosse stato Parroco, difficilmente in un processo ecclesiastico sarebbe stata omessa tale sua condizione.

Certamente le speciali attitudini del piccolo Gio. Domenico decisero il padre a favorirlo nelle sue tendenze allo studio, avendo mostrato ben presto un intelletto acutissimo straordinariamente accoppiato ad una memoria prodigiosa. Anche per un frenologo egli sarebbe stato soggetto di studio del più alto interesse; poichè presentava sette prominenze molto appariscenti nel suo capo, e vedremo in sèguito che egli riteneva que' «sette monti» qual dono di Dio.

Come abbiamo avuto occasione di dire, il padre emigrò con la famiglia da Stilo a Stignano. Il Campanella medesimo ci lasciò la notizia di tale fatto, dicendo che mentre si trovavano emigrati in Stignano sopravvenne la peste, introdotta mediante panni da Algieri in Messina, quindi da Messina in Placanica e Stignano per colpa del Barone di Placanica, e suo padre che presedeva a quella terra estinse la peste salvando sè e la famiglia. Non sapremmo dire con precisione in quale anno sia accaduto tale fatto, ma dovè accadere non molto tempo prima che il Campanella vestisse l'abito di S. Domenico; poichè da una parte le sue parole lasciano intendere che si trovò egli pure in Stignano a quell'epoca, ed oltracciò nel processo più volte menzionato leggiamo che un frate appunto di Stignano, fra Domenico Petrolo suo compagno di sventure, disse di averlo conosciuto fin da che era «prevetello» (int. piccolo prete); d'altra parte se egli aveva già studiato la logica in Stilo e tutti gli altri suoi studii furono poi fatti durante la sua vita monastica, ne consegue che dovè rimanere in Stignano non molto tempo. Certamente egli vi rimase per tutto il tempo in cui ebbe a soffrire una quartana ostinata, che sappiamo averlo afflitto durante sei mesi, mentre pure in età più tenera ne avea sofferto rimanendogli un male di milza. Il Berti ha fatto notare che nell'opera Medicinalium il Campanella ci lasciò scritto essersi risanato tutte e due le volte mediante le cure magiche di una donna; noi aggiungiamo che da un'altra opera, quella De Sensu rerum, si rileva essere avvenuta una di queste cure, e naturalmente la seconda, mentre egli già vestiva l'abito di frate, poichè si ebbe per essa «la licenza del suo priore dottissimo e Teologo». E però siffatta credenza nelle arti magiche non può addebitarsi esclusivamente al Campanella, come il Berti ha pensato, mentre vi partecipavano, comunque indirettamente, i Priori e i Teologi.

Sarà bene pertanto rammentare ciò che trovasi registrato nel Syntagma de libris propriis, intorno agli studii della sua piccola età, e alle circostanze che accompagnarono la sua risoluzione di farsi frate. Noi terremo sempre un conto speciale delle notizie consegnate in quest'opera, comunque ci risulti abbastanza inesatta: non abbiamo nulla di meglio da poter tenere per guida, e d'altronde ci proponiamo di discuterne ogni punto in cui appariscano notizie difformi da quelle di altre fonti, ovvero anche semplici indizii di poca esattezza. Ecco quanto vi si legge circa il periodo che stiamo trattando. «Veramente ancora quinquenne attesi con tanto ardore a' rudimenti letterarii ed alla pietà, da riporre nell'animo tutto ciò che i genitori e gli avi e i predicatori dicessero delle cose sacre ed ecclesiastiche. A tredici anni aveva appreso le regole  della grammatica e dell'arte versificatoria in guisa, da poter dettare in prosa ed in verso quanto piacesse, e diedi fuora molte poesie, ma non robuste: indi a poco incogliendomi una quartana durata sei mesi, a circa 14 anni e mezzo avvenne che mio padre  volesse mandarmi in Napoli, chiamatovi da Giulio Campanella  lettore di giurisprudenza: ma contemporaneamente volli far professione nella religione de' Domenicani, avendo udito di essa un eloquente predicatore e gustato dal medesimo i principii della logica, massimamente poi essendo rimasto preso dalla storia di S. Tommaso e di Alberto Magno». Adunque fin da che dimorava in Stilo, sotto l'influenza del P.e predicatore Domenicano suo maestro di logica, egli volgeva in mente di vestir l'abito di frate; ma vi si decise in Stignano, mentre gli si faceva premura dal padre e dallo zio Giulio lettore in Napoli di recarsi in questa città per attendere allo studio della legge. Chi era questo zio Giulio, e dove e quando il Campanella vestì l'abito di frate?

Uno degli eruditi calabresi dimorante in Napoli nel principio di questo secolo, Michelangelo Macri citato dal Capialbi, trovò un Giulio Cesare Campanella di Stilo nell'albo de' dottori, laureato il 6 marzo 1585; noi abbiamo trovato nel Liber juramentorum il suo giuramento autografo prestato appunto nel marzo 1585. Riflettendo a questa data, verrebbe in mente che costui non potesse insegnare nell'epoca indicata dal Syntagma, cioè a dire verso il 1582, tre anni prima di aver presa la laurea: invece bisogna sapere che per antica consuetudine, in Napoli, coloro i quali volevano aprirsi una carriera, innanzi di laurearsi e mentre erano soltanto licenziati o «professi» come allora si diceva, solevano dimandare ed ottenere annualmente un permesso di fare una determinata lettura, quando non si prendevano tale permesso da loro; poichè non si faceva allora un mistero che il privato insegnamento servisse, come fino ai giorni nostri ha servito, principalmente all'insegnante, per dargli occasione di rifare molto meglio la propria istituzione e procurargli nel medesimo tempo qualche sussidio. E c'è motivo di ritenere che Giulio Campanella abbia dovuto allora leggere le «Instituta juxta textum», non altra materia, e ben inteso nella qualità di privato insegnante, senza essere, come allora si diceva in un linguaggio privo di orpelli, «salariato dalla Regia Corte». Poichè appunto nel 1582, il Cappellano maggiore che presedeva al pubblico studio, e che era D. Gabriele Sanches successo in quell'anno a Fabio Polverino Vescovo d'Ischia, si mostrò severissimo contro i privati insegnanti ed anche contro i lettori pubblici i quali facevano in casa letture che non fossero delle «Instituta», mettendo in istretto vigore un vecchio Bando rimasto sempre inascoltato, e intraprendendo una delle meglio riconoscibili persecuzioni contro gl'insegnanti privati. Giulio Campanella era dunque un insegnante privato e del tutto novizio, evidentemente uno di coloro i quali si sforzavano di uscire dal basso stato della propria famiglia, secondo il tipo dello studente che veniva dalla provincia in Napoli a farsi dottore, tipo espostoci da varii scrittori napoletani pe' quali le cose del tetto natio non hanno perduto le loro attrattive; né giunse poi a far carriera, non trovandosi più alcuna memoria di lui ne' tempi posteriori.

Circa l'epoca in cui il Campanella vestì l'abito religioso, abbiamo veduto che nel Syntagma si legge essere ciò avvenuto a 14 anni e mezzo della sua età: ma dobbiamo dire che nella Philosophia sensibus demonstrata, scritta in un tempo più vicino al fatto, si legge a 14 anni, ed ancora il Campanella medesimo nel processo di eresia avuto in Napoli depose parergli essere entrato nella religione il 1581, vale a dire a 13 anni. La differenza non è molta; può ritenersi per termine medio il 1582, e rimane il fatto che vestì l'abito in giovanissima età, come per altro si costumava allora generalmente, dimostrandolo la più gran parte de' frati che vedremo figurare in questa narrazione. Circa il luogo poi, troviamo da' biografi indicato Stilo e il suo piccolo convento di S. Maria di Gesù; ma le notizie emergenti dal processo dibattuto in Napoli non lo confermano. Il Campanella medesimo allora diceva di aver preso l'abito alla Motta Gioiosa, ma lo diceva mentre mostravasi pazzo, e quindi non può prestarglisi molto credito. Due frati invece deposero che fu dapprima novizio in Placanica, ed anzi uno di loro lo disse esplicitamente «figlio del convento di Placanica»,  la quale terra trovasi a non più di un miglio e mezzo da Stignano, dove appunto era già domiciliata la famiglia del Campanella. Tre altri frati dissero che fu novizio in S. Giorgio, ed uno di loro aggiunse che vi fu nel 1585 e poi passò studente a Nicastro, volendo forse dire che fu a S. Giorgio fino al 1585, e dopo questa non breve permanenza in S. Giorgio passò a Nicastro, la quale ultima circostanza ci risulta assolutamente ignorata finora. Di certo in un convento egli prese l'abito col nome di Tommaso, e questo dovè essere il convento di Placanica, in un altro fece di poi il suo noviziato, e questo fu indubitatamente il convento di S. Giorgio: tale passaggio da un convento all'altro vedesi accennato anche nel Syntagma, col racconto di tutto ciò che il Campanella fece in S. Giorgio, senza per altro alcuna menzione della successiva fermata in Nicastro, che realmente pare essere stato il luogo in cui ebbe a compiere i maggiori suoi studii. Dopo il ricordo che avea voluto far professione nella religione de' Domenicani, ecco come nel Syntagma seguita il racconto delle cose del Campanella. «Mandato dunque di poi nel convento della terra di S. Giorgio per udire le lezioni di logica e di filosofia, venendo il Signore della terra per la prima volta nel suo auspicato dominio, tra un gran concorso  di popolo e di gente vicina recitai un'orazione da me composta  in verso eroico con un'ode saffica, e molti versi da me dettati veggonsi ancora scolpiti così nella nostra Chiesa come nell'arco trionfale. Inoltre scrissi in forma ristretta e compendiosa le lezioni intorno alla logica, alla fisica ed all'Anima. Di poi essendo inquieto,  poichè pareami che nel Peripato campeggiasse non la verità  sincera ma piuttosto il falso in luogo del vero, esaminai tutti i commentatori di Aristotile, Greci, Latini ed Arabi, e cominciai  ad esitare maggiormente ne' loro dogmi, e però volli indagare  se le cose che essi affermavano si leggessero pure nel mondo, il quale dalle dottrine de' sapienti appresi essere il codice vivente di Dio. E non potendo i miei maestri soddisfare agli argomenti che io esternava contro le loro lezioni, stabilii di percorrere io medesimo tutti i libri di Platone, di Plinio, di Galeno, degli Stoici, de' seguaci di Democrito, ma principalmente i libri Telesiani, e compararli col codice primario del mondo, per conoscere, mercè l'originale ed autografo, che cosa le copie contenessero di vero o di falso». - Circa il ricevimento fatto al Signore di S. Giorgio, dobbiamo innanzi tutto rilevare che l'orazione pronunziata dal Campanella consistè in una poesia, verosimilmente italiana perché riuscisse più o meno intelligibile, e non fu un'orazione latina come parve al d'Ancona; dobbiamo inoltre dire che Signore della terra di S. Giorgio era allora Giacomo Milano, figliuolo di Baldassarre, il quale ne fu poi creato Marchese da Filippo II il 18 febbraio 1593, come ci fece conoscere con la sua abituale diligenza il Baldacchini. Dal canto nostro possiamo aggiungere che ne' Registri delle Significatorie de' Relevii esistenti nel Grande Archivio di Napoli, trovasi indicata la data degli 11 marzo 1585 come quella in cui Giacomo Milano fece l'ultimo pagamento delle tasse qual successore di Baldassarre suo padre, benchè costui fosse morto fin dal gennaio 1573; e però l'epoca probabile della sua visita alla terra di S. Giorgio si riscontra abbastanza esattamente con quella della dimora di fra Tommaso colà. Ma dobbiamo aggiungere ancora, che moglie di questo Signore fu Isabella del Tufo, sorella di Gio. Geronimo 4° Marchese di Lavello, sorella inoltre di Costanza che sposò Geronimo del Tufo figlio di Fabrizio, e tutte e tre queste persone erano nipoti di Mario del Tufo. Vedremo che questi Signori del Tufo, e con essi Marc'Antonio creato Vescovo di Mileto precisamente nel 1585, furono poi in istretti rapporti col Campanella; è del tutto verosimile che tali rapporti abbiano avuto principio appunto con l'orazione di S. Giorgio.

Veniamo alla dimora in Nicastro, quanto più passata sotto silenzio tanto più interessante per la nostra narrazione. Verso la fine del 1585 o il principio del 1586 il Campanella fu assegnato al convento dell'Annunziata di questa città, sempre nella qualità di studente, ed ebbe ad assistere alle lezioni di un P.e di cognome Fiorentino, verosimilmente il P.e Antonino de Fiorenza che fu poi Provinciale di Calabria nel 1587-88, e forse uno degli antenati del chiaro filosofo odierno prof. Francesco Fiorentino, che ha avuto i suoi natali appunto ne' pressi di Nicastro; giacchè i documenti dell'epoca mostrano abbastanza diffusi in quel territorio i «de fiorensa»,  i quali mano mano si dissero in seguito «Fiorentino». In Nicastro il Campanella ebbe a condiscepolo fra Dionisio Ponzio della medesima città, e con lui anche fra Gio. Battista Cortese di Pizzoni; vi conobbe egualmente fra Pietro Ponzio germano di fra Dionisio, e con lui l'altro germano Ferrante Ponzio; fin d'allora egli si strinse in molta intimità con costoro, che troveremo poi tutti involti ne' processi pe' fatti di Calabria come principali imputati, e ciò forse spiega che nel Syntagma la dimora in Nicastro non sia stata menzionata. Ne parlò intanto nel processo di eresia non solo il frate citato più sopra ma anche fra Gio. Battista di Pizzoni, il quale ricordò il Fiorentino lettore e fra Dionisio suo condiscepolo col Campanella, aggiungendo una particolarità in questi termini, che fra Tommaso era «contradicente ad ogni cosa et particolarmente alli lettori sui, et un giorno contradicendo al detto Fiorentino hebbi a dirgli, Campanella, Campanella, tu non farai buon fine»; queste cose egli affermò avvenute «da quindici anni incirca». Ugualmente fra Pietro Ponzio, nel medesimo processo, affermò che l'amicizia di fra Dionisio col Campanella datava «da più di 14 anni» e si era sempre mantenuta viva: le quali testimonianze, essendo della fine del 1599, ci menano al 1585 e 1586. Appartenevano i Ponzii a buona famiglia di Nicastro, ed avevano spiriti non meno bollenti di quello del Campanella; perduto il padre in età molto giovane, due di essi nell'anno precedente si erano ascritti all'ordine Domenicano, vestendone l'abito in Catanzaro, l'altro, Ferrante, disponevasi appunto in quell'epoca a recarsi in Napoli per attendere agli studii legali. Non è arrischiato l'ammettere che fin d'allora tra il Campanella e questi giovani si sieno manifestati desiderii e concetti di un migliore avvenire pel paese: anche nel processo di congiura un frate amico del Campanella affermò essergli stata fatta da fra Tommaso la confidenza che «havea tridici anni ch'havea questi pensieri nelo stomaco, et l'havea comunicato dal'hora con fra Dionisio». - Più certo è che in Nicastro siasi ancora accresciuto nel Campanella quell'atteggiamento battagliero e riottoso che abbiamo già visto apparire in S. Giorgio, onde spingevasi a dispute co' suoi maestri, i quali non potevano soddisfare agli argomenti che egli adduceva contro le cose insegnate da loro. Indubitatamente questo dovè procurargli molte avversioni, essendo tutti i frati seguaci esclusivi delle dottrine Aristoteliche; e a tale fatto, essenzialmente vero, furono di poi attribuite le più gravi conseguenze dal Campanella medesimo e quindi da' suoi biografi, essendosi ad esso ascritte tutte le sue sventure. né pare dubbio che veramente in Nicastro il Campanella siasi ingolfato nella lettura de' maggiori filosofi dell'antichità, e che abbia quivi per la prima volta, nel calore de' diverbii, udito nominare Bernardino Telesio, onde s'invogliò di leggerne le opere, che potè avere solamente quando si recò a Cosenza. Ecco come egli ci narra tali cose con maggiore larghezza nella prefazione del suo volume scritto poco dopo, vale a dire la Philosophia sensibus demonstrata. «Coloro a' quali comunicava  queste mie opinioni le riferivano ad altri maggiori, e però soffriva non poche riprensioni, come colui che solo era contrario  alle sentenze de' grandi filosofi (secondochè dicevano), non davano ascolto alle mie ragioni, ma stretti da esse prorompevano  in parole niente pacifiche verso di me. Queste cose io ebbi a patire circa il 18° anno ed egualmente prima. Dopo ciò la verità  si fece più ardente e poteva meno tenersi ulteriormente dentro,  dicendosi che aveva un intelletto depravato e reprobo come l'aveva un certo Bernardino Telesio Cosentino, onde avversava tutti i filosofi e precisamente Aristotile: fui lieto oltremodo di avere un compagno o duce, da potergli apporre i miei detti e riferirli con una certa scusa, quasi profferiti da altri. Partito per Cosenza, la preclarissima città de' Brettii nella Calabria inferiore,  denominata un tempo Brettia, chiesi il libro di Telesio ad un certo illustre ed ottimo uomo suo seguace, il quale volentieri me lo recò. Cominciai a percorrerlo con sommo studio, e letto il primo capitolo, compresi ad un tempo interamente ogni cosa che si conteneva negli altri, prima che li leggessi. Era per fermo disposto verso que' principii, ed intesi egualmente tutto ciò che da essi procedeva, dappoichè in lui tutto deriva da' suoi principii,  e non già ciò che segue è contrario a' principii o non dipende  da essi, come accade in Aristotile. E poichè mentre ivi dimorava, il sommo Telesio venne a morte, e non mi fu dato udire da lui le sue sentenze, né vederlo vivo ma morto e portato  in Chiesa, il cui volto scovrendo io ebbi ad ammirare e moltissimi  versi affissi per lui al suo tumolo, recandomi ad Altomonte  per ordine de' Superiori, stimai bene esaminare là l'opera di questo filosofo» etc. Nel Syntagma queste stesse cose si trovano registrate con la maggiore concisione, leggendosi appena: «Poichè nel discutere pubblicamente in Cosenza, non che privatamente  co' miei frati, poco giungevano a quietarmi le loro risposte;  ma Telesio mi recò diletto, tanto per la libertà del filosofare,  quanto perché prendeva a guida la natura delle cose, non i detti degli uomini. E però avendo affissa un'Elegia a Telesio morto col quale vivente non mi fu dato parlare, mi recai alla terra di Altomonte».

Adunque, dopo Nicastro, il Campanella andò in Cosenza. L'epoca di quest'andata non ci è ben nota; ma assai probabilmente dovè accadere verso l'agosto del 1588, per le ragioni che tra poco diremo. - Uno de' primi biografi del Campanella, l'Eritreo, ci lasciò scritto che l'occasione dell'andata a Cosenza fu una disputa filosofica colà bandita da' Francescani, che il Campanella vi fu mandato e vi riportò un grande trionfo. La cosa non sarebbe punto strana, ed una prova se ne avrebbe in quella frase del Syntagma, «poichè nel discutere pubblicamente in Cosenza non che privatamente co' miei frati». Ma il fatto importante di tale andata fu l'aversi procurato il libro del Telesio, che cominciò a leggere senza finirne la lettura, e l'aver voluto vedere il Telesio senza poterlo vedere che morto. Gravi biografi del Campanella, come il Baldacchini e il D'Ancona, hanno interpetrato la cosa nel senso che i frati non gli permisero di vedere il Telesio, e fino ad un certo punto la parola adoperata dal Campanella (non licuit) autorizzerebbe tale interpetrazione. Ma per ritenere un divieto, bisognerebbe sconoscere da una parte la disciplina rilassata od anzi la nessuna disciplina de' frati a quell'epoca, e d'altra parte l'insofferenza e baldanza del Campanella, il quale appunto allora era per darne una pruova memorabile. Facciamo inoltre riflettere che il Campanella cominciò a leggere ma non finì la lettura dell'opera del Telesio, e dopo la morte di lui (che si conosce essere avvenuta nell'8bre 1588) partì subito per Altomonte; la qual cosa viene accertata dal fatto che vedremo affermato da lui medesimo, che cioè cominciò a scrivere la sua Philosophia sensibus demonstrata in Altomonte dal 1° gennaio 1589 in poi, dopo di avere là compiuta la lettura de' libri Telesiani, di molti altri libri antichi e del nuovo libro del Marta contro il Telesio, al quale libro egli si diede a rispondere. né la sua andata ad Altomonte «per ordine de' superiori» si deve attribuire al fervore dimostrato pel Telesio, ma invece ad un incidente gravissimo, che fra Tommaso tacque ma che noi potremo dare in tutta la sua ampiezza avendolo nel processo. Adunque non vediamo alcuno indizio ben fondato per ammettere che il Campanella non abbia potuto veder Telesio essendogli ciò vietato da' superiori. Vediamo invece due motivi molto chiari e più che sufficienti: il primo, l'andata del Campanella a Cosenza in un tempo assai vicino a quello in cui morì il Telesio, col naturale desiderio di leggerne le opere prima di fargli visita e parlare con lui; il secondo, la conosciutissima condizione di fatuità in cui cadde il Telesio negli ultimi 18 mesi della sua vita, circostanza della quale ci sorprende il vedere che non si sieno ricordati i biografi del Campanella. Guardando anche a qualche notizia che si ha dal processo intorno alla dimora del Campanella in Cosenza, e mettendola in relazione con tutte le altre, si confermano le cose suddette. Il Campanella ebbe a compagno di stanza in quella città il suo carissimo amico fra Pietro Presterà di Stilo, e costui nel processo affermò di averlo visto in Cosenza «per due mesi»; così, tenendo presente che il Telesio morì nell'ottobre, siamo indotti a ritenere l'agosto 1588 come data probabile dell'andata del Campanella a Cosenza. Altri testimoni che parlano de' fatti di Cosenza (fra Agostino Cavallo, fra Giuseppe Dattilo, fra Vincenzo d'Amico) si riportano concordemente a «diece anni fa», e dicendo ciò nel 1600, accennano all'anno 1590 come quello in cui il Campanella era in Cosenza, ma vi sono tutte le ragioni per ritenere che que' frati alludevano, ed anche approssimativamente, alla seconda venuta del Campanella a Cosenza, di ritorno da Altomonte e sul punto di andarsene a Napoli, mentre d'altra parte non v'è alcuna ragione per contestare le date così precisamente affermate dal Campanella su tale proposito.

Ecco ora i particolari della dimora in Altomonte, cioè dal novembre 1588 in poi. Vediamoli dalle stesse parole del Campanella, com'egli ce li lasciò scritti dapprima molto diffusamente nella prefazione alla sua Philosophia sensibus demonstrata. Si tratta di un momento molto importante della vita del Campanella, e non deve ritenersi eccessivo il fermarvisi con qualche larghezza; d'altronde avremo pur troppo a parlare di persecutori, di carcerieri e perfino di aguzzini del Campanella, e ci godrà sempre l'animo di poterci trattenere talvolta a parlare di qualche suo amico e benefattore. - «Recandomi ad Altomonte per ordine de' Superiori, stimai bene esaminare là l'opera di questo filosofo (Telesio) prima di pubblicare  l'opericciuola sul modo d'investigare e le cose da me trovate. In tal guisa, avendo potuto occuparmene, conobbi non essere stato Bernardino Telesio depravato, bensì depravati affatto tutti gli altri, e giudicai che quest'uomo dovesse anteporsi a tutti, come colui che desume la verità dalle cose vedute col senso, non dalle chimere, e che tratta le cose stesse, non le parole degli uomini, secondochè mi fu manifesto. Accadde finalmente che venisse  a me un certo eccellente dottore di medicina, illustre filosofo, il quale fuggiva gli errori de' Peripatetici, Gio. Francesco Branca di Castrovillari, accompagnato coll'altro medico a nome Plinio Rogliano della città di Rogiano, stimato più di molti altri per la sottigliezza dell'ingegno, e discorressimo insieme de' principii  della filosofia e della verità delle cose; questi riuscirono nostri  amicissimi ed immensamente utili, e di continuo venivano a discorrere insieme, e si penetrarono tanto della verità di Bernardino  Telesio, da predicarlo il solo degno di lode tra' filosofi, e mi sollecitarono a dar fuori ciò che mi era proposto. Costoro mi furono larghi di molti beneficii, e mi portarono i libri de' Platonici  e de' Peripatetici, di Galeno, d'Ippocrate e d'altri, acciò la difesa di Telesio da noi ideata fosse confermata da' detti de' più antichi. In quel tempo comandava colà un certo invidioso, il quale non una volta, ma invano, mi accusò di falsa dottrina, e di conversare eccessivamente con persone estranee al chiostro, presso il molto Rev.do P.e Pietro Ponzio da Nicastro, Maestro di Teologia ed allora degnissimo Provinciale, come presso tutti gli altri Superiori: giudichino pertanto qui la dottrina gli uomini perspicaci, non già egli che era ignorantissimo. Ma le persone che si riunivano con me erano buone e nobili, tra le quali il molto illustre Muzio Campolongo, Barone di Acquaformosa, che mi favoriva  di moltissimi beneficii quasi mio malgrado, e mi difendeva  da tutti e dall'ira di quel maledetto uomo, e mi avrebbe fatto altri favori se avessi voluto; a costui io debbo moltissimo. Parimenti Paolo Gualtieri non ignobile giureconsulto, che tornato  da Napoli in patria mi fu carissimo, così per la sua prestanza  ed integrità, come per avermi sempre più stretto a D. Luigi Brescia di Badolato, giureconsulto acutissimo, non secondo ad alcuno nell'arte della memoria, unito a me di non volgare amicizia fin dalla tenera età, la cui opera fu non solo utile ma molto necessaria in cose di grande importanza ed in tempi difficilissimi.  Ma pel concorso di questi distinti uomini l'invidioso imperversava. né dico ciò a caso, ma il Signore lo conduca a salvazione.... Pervenne nelle mani di costoro un certo libro di un saputo Peripatetico Jacopo Antonio Marta, che si vantava dottore nell'uno e nell'altro dritto, in Teologia e Filosofia ed era ignaro di qualunque verità, col titolo di pugnaculum Aristotelis, e meglio avrebbe fatto se l'avesse intitolato depravatio Aristotelis, dove per fermo, come vedremo, proferisce tante scempiaggini  e si mostra qua e là in contraddizione con sè stesso, con Aristotile e con gli altri principali peripatetici, avverso sempre al senso ed a' decreti della natura. Adunque attesi a demolire le vane parole e le calunnie di costui con gli altri contro il Telesio principe de' filosofi, secondochè mi fu imposto da coloro dei quali feci menzione.... E mentre il saputo si vanta di avervi lavorato per sette anni contro Telesio, noi distruggemmo il suo Pugnaculum in sette mesi, e svolgemmo la nostra dottrina, principiando dal 1.° gennaio 1589 fino al mese di agosto dello stesso anno, al termine dell'anno ventesimo di nostra età». Assai più concisamente le cose medesime furono poi ripetute nel Syntagma  in questi termini: «Mi recai alla terra di Altomonte, dove percorsi i libri de' Platonici e de' Medici, a me somministrati da ottimi uomini, ed a consiglio del medico Gio. Francesco Branca di Castrovillari  cominciai a scrivere contro Giacomo Antonio Marta napoletano, che avea dato fuori un libro contro Telesio, intitolato  Pugnaculum Aristotelis. In esso composi otto dispute... dandomi libri ed animo i medici Branca e Plinio. Questo libro di polemica fu stampato in Napoli presso Orazio Salviano nell'anno  del Signore 1590».

Riassumendo dunque i fatti del Campanella in Altomonte si ha: il termine della sua lettura del libro del Telesio; la lettura di molti altri libri di filosofi e medici, datigli da alcuni suoi amici egualmente antiperipatetici che ivi conobbe o rivide: l'eccitamento da parte di costoro perché scrivesse in difesa del Telesio contro Giacomo Antonio Marta; la composizione in sette mesi della sua Philosophia sensibus demonstrata; la presenza di un superiore invidioso che l'accusò di falsa dottrina e di troppo conversare con secolari; la difesa assunta da alcuni di costoro in tempi difficilissimi e in cose d'alta importanza per lui. - Non c'è neanche per un momento surta l'idea di dover parlare del Telesio a' nostri lettori, massime dopo l'eccellente libro pubblicato dal prof. Fiorentino. Quanto a Giacomo Antonio Marta, ci limiteremo a dire che egli non era quell'ignorantissimo che il Campanella dichiara, e lo dimostrano le molte sue opere specialmente legali. Napoletano e non veronese come ha creduto il Berti, poichè filosofo napoletano e giureconsulto egli s'intitola spesso nel Pugnaculum Aristotelis ed anche altrove, si conosce che nacque il 20 febbraio 1559 e andò peregrinando come lettore per diverse parti d'Italia. In Napoli cominciò a scrivere libri di filosofia nel 1578, e quindi passato a Roma vi scrisse il Pugnaculum nel 1587; ritornato poi in Napoli vi cominciò la carriera di lettore di dritto, e in tale qualità andò successivamente a Benevento, a Roma, a Pisa, di nuovo a Roma, a Padova, a Mantova, fino alla sua morte che accadde dopo il 1628. Ma in Napoli fu lettore privato, non già pubblico come è stato detto da taluni ed anche dal Fiorentino, poichè i lettori pubblici di quell'epoca ci son noti benissimo e tra loro non figura il Marta: non ebbe quindi a scrivere il suo Pugnaculum pel pubblico studio, dove del resto mancò sempre lo spirito di collettività, e già c'erano allora in filosofia, al tempo medesimo, qual lettore ordinario Gio. Berardino Longo, Peripatetico, e qual lettore delle Domeniche Latino Tancredi, partigiano delle dottrine del Telesio come appunto il Marta ci fa sapere. - Degli amici poi del Campanella ben poco possiamo dire. Sul Gualtieri possiamo dire che egli era di Altomonte e che si fece più tardi conoscere per opere legali abbastanza pregiate, una delle quali dedicata a D. Lelio Orsini che dovrà figurare egualmente in questa narrazione. Sul Brescia (non Brettio come il tipografo più volte fa dire al Berti) possiamo soltanto affermare che tale cognome si trova con estrema frequenza ne' documenti relativi a quella regione; un suo epigramma, in lode del Campanella,  si legge in fronte alla Philosophia sensibus demonstrata,  ed in esso si accenna anche a Mario del Tufo, presso cui dimorava il Campanella in Napoli quando l'opera si diede alle stampe. Su Muzio Campolongo abbiamo varii documenti rinvenuti nell'Archivio di Stato: uno di essi ci fa conoscere che la sua Baronia riferivasi al possesso della giurisdizione delle cause criminali e miste del piccolo paesello di Acquaformosa, in cui si contavano soli 79 fuochi per la maggior parte costituiti da Albanesi; altri documenti ci fanno conoscere che vi possedeva pure territorii feudali con bestiami, che si riteneva cittadino di Altomonte ma abitava Cosenza, e che era molto energico, anzi prepotente nel voler essere rispettato ed ubbidito a ogni modo, sicchè dovè essere un braccio forte davvero pel Campanella nelle angustie in cui il frate ebbe a ritrovarsi. Quanto al medico Gio. Francesco Branca di Castrovillari il Capialbi ce ne ha già dato particolari notizie biografiche. Avrebbe avuto a quell'epoca press'a poco 32 anni, e la sua cultura è attestata dalla sua biblioteca con manoscritti proprii che finì per lasciare a' frati conventuali del suo paese; d'altronde merita una speciale menzione, perché si trovò complicato anch'egli nella famosa congiura, e dovè salvarsi con grosso riscatto, come fu attestato dal medesimo Campanella. Quanto poi al medico Plinio Rogliano di Rogiano abbiamo trovato che il nome di Plinio era veramente il suo, e non già che era chiamato da' suoi con tal nome per la sottigliezza del suo ingegno, siccome è parso al Baldacchini interpetrando meno correttamente le parole del Campanella. Aveva in quel tempo appena 24 anni, e gli fa grande onore l'affermazione del Campanella, che per la sottigliezza del suo ingegno era stimato superiore a molti; pare che possedesse terreni in Altomonte mentre aveva stanza in Rogiano. né possiamo trattenerci dal notare che non ne' chiostri, ma fuori di questi e presso umili professionisti di piccole città, come anche presso un Barone rurale, il Campanella trovava libri e consigli; e se volessimo indagare cosa avrebbe trovato a' tempi nostri, dovremmo certamente arrossire. Veniamo al P.e Provinciale Pietro Ponzio, presso cui si cercava mettere il Campanella in mala voce. Egli era zio de' Ponzii amici di fra Tommaso, e crediamo bene che con l'opera loro fra Tommaso ne avesse acquistata la benevolenza: il P.e Fiore ci lasciò scritto che fu Provinciale di Calabria negli anni 1587 e 1588, ma la durata del suo ufficio si estese anche a parte del 1589 quando gli successe P.e Silvestro d'Altomonte; e vedremo che fu più tardi ucciso da alcuni frati per mandato di taluno che aspirava al Provincialato e ne temeva la concorrenza, la qual cosa fece nascere odii mortali tra i Ponzii e gl'imputati dell'omicidio, né questi odii rimasero senza conseguenze pel Campanella che era tanto amico de' Ponzii. Non sappiamo poi chi sia stato quel superiore, il quale fece in Altomonte così aspra guerra al Campanella: potè essere appunto quel P.e Silvestro anzidetto che riuscì Provinciale, visto il continuo trovare Priori de' conventi i frati nativi del paese: ma sappiamo solo che compagno in Altomonte gli fu pure fra Gio. Battista di Pizzoni, il quale nel processo depose che là il Campanella scriveva quell'opera che poi stampò in Napoli. Ma fu veramente l'invidia la cagione della guerra mossa al Campanella dal suo superiore? Fu la dottrina antiperipatetica quella che costui chiamò falsa dottrina? Come mai poterono appunto persone laiche, quali il Campolongo e i due avvocati, difendere il Campanella dall'accusa di troppo conversare con laici? Come mai sursero «tempi difficilissimi e cose d'alta importanza»  che il Campanella accenna senza spiegare? Si verificò pur troppo un incidente importantissimo, che il Campanella ebbe cura di nascondere costantemente; si verificò fin dalla sua dimora in Cosenza, e per esso dovè partire da quella città d'ordine de' superiori, per esso continuò ad essere perseguitato in Altomonte, per esso, ritornato in Cosenza, si decise ad andarsene a Napoli. Di tale incidente passiamo a discorrere.

Narrò il Cyprianus, dietro una lettera diretta a Gio. Andrea Schmidt da Carlo Caffa, il quale affermava di averlo saputo da un Domenicano ottuagenario stato già condiscepolo del Campanella nel convento di Cosenza, che il Campanella nella sua gioventù era di tanto rozzo ingegno da movere a disprezzo e riso, ma che avendo conosciuto un Rabbino Ebreo, ed essendo rimasto con lui per otto giorni continui in uno studiolo, lontano dalle discipline e da' compagni, con una Cabala, per pochi e brevissimi principii, potè sorgere uomo sì grande ed ammirando. Tutti hanno qui scorta una leggenda con una parte di vero ed una maggior parte di falso, riferibile allo studio delle scienze occulte iniziato dal Campanella per opera di questo Ebreo, ma possiamo dire che vi fu qualche cosa di più, o che da allora in poi si accreditò quella opinione la quale fece grande e poi misero il Campanella in mezzo a' frati ed a' laici della sua Calabria, che cioè egli conversasse con gli spiriti e che la sua scienza meravigliosa provenisse dal diavolo. Il fatto accadde non per otto giorni ma per alcuni mesi, non nella prima età ma nel periodo più inoltrato de' suoi studii, in Cosenza ed Altomonte; né pare dubbio che sia stato il principio recondito delle sventure del Campanella, il quale non ne parlò mai, involgendo ogni cosa nel fatto delle avversioni procuratesi col combattere Aristotile. Ma ecco quanto risulta da parecchie testimonianze, alcune delle quali ben degne di fede, perocchè l'incidente venne di poi agitato con molta larghezza nel processo di eresia avuto in Napoli. - «Diece anni prima» del processo, (naturalmente in termine approssimativo), peregrinando pel mondo capitava in Cosenza un Ebreo a nome Abramo, giovane su' 30 anni, alto della persona, pienotto, di poca barba, viso pallido, occhi azzurri, in fama di conoscitore di scienze occulte, possessore di spiriti familiari, indovino del passato, del presente e del futuro, astrologo e negromante: giusta il costume antico e moderno (come si vede pur oggi per coloro i quali son creduti capaci di presagire in materia di lotto), molti in Cosenza si davano premura di stringere con lui intime relazioni e l'invitavano frequentemente a pranzo, sicchè egli viveva a spese de' suoi ammiratori de' quali aveva un gran sèguito. Venne anche nel convento di S. Domenico, vide il Campanella e si pose in relazione con lui, volendone forse far soggetto delle sue divinazioni: fra Tommaso se ne compiacque e fece amicizia con l'Ebreo, il quale gli avrebbe nientemeno profetato che un giorno sarebbe divenuto Monarca del mondo, e di ciò si parlava già pubblicamente in que' luoghi! Aggiungeremo subito che tale profezia potrebbe parere un'invenzione de' tempi del processo, per darsi una spiegazione della congiura; ma si vedrà in sèguito essere stata senza dubbio ripetuta pure qualche altra volta dal Campanella medesimo, il quale credeva di avere avuto non solamente tre ma sette pianeti ascendenti favorevoli. Oggi tutto ciò farebbe sorridere; ma bisognerebbe ignorare che l'astrologia era allora la scienza ricercata da' più forti ed audaci intelletti, e chi l'ignorasse potrebbe trovarne nel D'Ancona eruditissimi cenni, che vanno tenuti presenti per bene intendere i tempi e le cose delle quali trattiamo. Il filosofo ad ogni modo si legò un po' troppo all'Ebreo, trattava con lui nella città e nel convento, insieme con altri laici ed anche da solo a solo, e tale sua condotta increbbe molto a' superiori. Fu quindi mandato in Altomonte, ma là fu pure seguito dall'Ebreo, né si astenne dal trattare con costui per molti giorni; naturalmente ne dovè patire acerbe riprensioni e gravi accuse, e nel ritornare di poi a Cosenza, si sparse certamente la voce che, esortato dall'Ebreo, volesse deporre l'abito di religioso ed andarsene con lui a Napoli. Il Priore del convento fra Giuseppe Dattilo, avvertito di ciò da fra Domenico di Polistina Reggente, chiamò il Campanella e lo riprese; egli rispose che volea deporre l'abito perché non avea fatto professione in età perfetta, ma poi se ne astenne, sibbene partì da Cosenza per Napoli, e rimase incerto se partisse con licenza o no; solo è certo che fu ritenuto da tutti essere partito in compagnia dell'Ebreo, aggiungendosi che costui era stato «la ruina del Campanella» e che di poi fu giustiziato, taluno diceva in Napoli come spia del Turco, qualche altro diceva in Roma come eretico. Queste cose si rilevarono nel processo, e vedremo che non vi mancò nemmeno la testimonianza di fra Dionisio medesimo, niente sospetta e del tutto spontanea, atta a far intendere se non i particolari dell'incidente, per lo meno la sua gravità: poichè avendo un frate già compagno del Campanella in Cosenza (fra Vincenzo d'Amico) affermato che si era detto essere il Campanella partito di Calabria con un certo Abramo, e che egli diceva di partirsi a motivo delle persecuzioni del Provinciale M.° Pietro Ponzio, fra Dionisio, interrogato senza alcuna prevenzione, si affrettò a dichiarare, che trovandosi lui a quel tempo in Napoli nel convento di S. Caterina a Formello, suo zio, il quale era allora Provinciale di Calabria, gli scrisse che se voleva la sua benedizione ed essere tenuto per nipote, non avesse pratica col Campanella, il quale se n'era «fuggito di Calabria con un Ebreo di cattivo nome» e questa fuga avea recato grave scandalo. Non è dunque nemmeno esatto quanto il Campanella ci lasciò scritto intorno all'atteggiamento del P.e Provinciale verso di lui; e si comprende ora che si trovò davvero in tempi difficilissimi e in cose di alta importanza, sicchè dovè riuscirgli non solo utile ma estremamente necessaria la difesa, di un uomo energico qual'era il Barone di Acquaformosa coadiuvato da amici attaccatissimi quali i due avvocati, mentre la falsa dottrina non rifletteva i principii Telesiani, sibbene i principii di fede, come il conversare con laici non rifletteva laici comuni, sibbene un Ebreo il quale era per soprappiù ritenuto negromante; né c'è bisogno di dire che a questo fatto deve riferirsi ciò che l'ignoto condiscepolo del Campanella, divenuto ottuagenario, raccontava a Carlo Caffa, naturalmente secondo le sue deboli reminiscenze e le voci che erano corse nel volgo de' frati in Cosenza. Al Berti è parso che in un brano dell'Atheismus triumphatus  il Campanella avesse parlato di relazioni da lui avute con un astrologo, e bruscamente rotte, avanti che entrasse nel carcere, ma in verità, sebbene la dicitura di quel brano non sia punto chiara, è impossibile leggervi il fatto accennato dal Berti, né poi mancano altri documenti, pe' quali riesce manifesto che il fatto esposto nell'Atheismus si verificò appunto nel carcere di Napoli, circa 15 anni dopo l'epoca della quale trattiamo. Si deve pertanto conchiudere, che pure ammettendo essere state delle più semplici le relazioni del Campanella coll'Ebreo, i suoi superiori, non esclusi quelli che si ha ogni ragione di credere i meglio disposti verso di lui, le appresero malissimo, e il Campanella si trovò per esse spinto in una falsa posizione, che gli fu di gran pregiudizio pel momento e per l'avvenire; d'altra parte si deve cominciare ad intendere che per le speciali condizioni, nelle quali ebbe a trovarsi, egli non fu in grado di parlare chiaramente e manifestare tutta la verità nelle cose che riguardavano la persona sua, e però bisogna andar cauti nell'accoglierne le affermazioni. Ora vediamolo in Napoli.

II. L'epoca della venuta del Campanella a Napoli è stata dal Berti, il più preciso de' suoi biografi, riportata all'anno 1591; ma a noi sembra che debba con la maggiore probabilità riportarsi alla fine del 1589. - Cominciamo, al solito, dal vedere ciò che si legge nel Syntagma de libris propriis intorno alla sua venuta e a ciò che egli fece in questa città. Parlando della sua Filosofia vi si dice: «questo libro di polemica fu stampato in Napoli presso Orazio Salviano  nell'anno del Signore 1590, nel qual tempo pure, in casa del Marchese di Lavello e col favore del figliuolo Mario del Tufo, scrissi due commentarii, uno del Senso, un altro della Investigazione  delle cose, e composi molti discorsi ed orazioni, per amici che andavano a prendere la laurea. A scrivere questi libri del Senso delle cose mi spinse principalmente una disputa fatta in un pubblico Congresso, ed oltracciò Gio. Battista Della Porta, che avea scritto la Fisiognomia in cui si diceva non potersi dar ragione della simpatia ed antipatia delle cose, mentre esaminavamo  insieme il suo libro già stampato..... Scrissi in sèguito un certo esordio di Nuova Metafisica, nel quale stabiliva come principii  metafisici la necessità, il fato, l'armonia. Parimenti la Filosofia  Pitagorica con un Carme Lucreziano, invogliato molto della lettura di Ocello Lucano e de' detti de' Platonici. Ma nell'anno  del Signore 1592 me ne andai a Roma fuggendo gli emuli accusatori che dicevano: come sa di lettere costui mentre non le ha mai imparate?» Bisogna aggiungere che negli ultimi versi della prefazione alla Philosophia sensibus demonstrata, edita l'anno 1591, licenziandosi da' lettori dice: «Aspettate presto, Dio permettendo, un nostro commentario Dell'investigazione delle cose ed un altro Del senso delle cose». Al Berti è parso che il Campanella sia caduto in errore nel trattato De libris propriis, avendo detto che la sua Filosofia sia stata pubblicata l'anno 1590, e non nel 1591 come ne fa fede il frontespizio: ma veramente il Campanella affermò essere stata la sua opera «stampata» nel 1590, la qual cosa non contraddice all'essere stata pubblicata nel 1591. E considerando che molto tempo s'impiegava allora per la stampa di un'opera, massime in Napoli, come pure che il Campanella ebbe a comporre ancora diverse opere nella stessa epoca; considerando d'altra parte che egli dovè partire piuttosto in fretta da Cosenza nel suo ritorno da Altomonte, come pure che dovè poi andarsene da Napoli in un periodo non inoltrato del 1591, secondochè dimostreremo con documenti; si converrà che la data da noi stabilita della sua venuta a Napoli, cioè la fine del 1589, sia la più plausibile. Se guardiamo pertanto alle informazioni che ne dà il processo del 1599, troviamo da due deposizioni accennato veramente il 1591 come l'anno in cui egli era in Napoli «in casa di Mario del Tufo»: ma anche qui le deposizioni riflettono piuttosto l'ultimo periodo della dimora del Campanella in Napoli. Una deposizione poi di fra Dionisio Ponzio dice, che «la fuga» del Campanella da Calabria avvenne dopo il Capitolo celebrato in Roma, nel quale fu eletto il Generale che a quel tempo (nel 1600) presedeva all'Ordine; ora si sa che Generale a quel tempo era fra Ippolito M.a Beccarla di Mondovì e che costui fu eletto il 20 maggio del 1588, come risulta dal libro del Quétif ed Echard e meglio anche dall'iscrizione funeraria apposta alla sua tomba, ben conosciuta dagli amatori delle cose napoletane nella Chiesa di S. Domenico di Napoli.

Fu narrato dall'Eritreo che appena giunto il Campanella in Napoli, nel passare innanzi al monistero di S. Maria la nuova appartenente a' Francescani, veduta gran turba andare e venire e saputo che vi si faceva una disputa, essendo libero ad ognuno il prendervi parte volle provarvisi, e seppe vincere e fu portato in trionfo a casa da' frati dell'ordine suo. Non abbiamo veramente alcun'altra notizia speciale intorno a questa avventura del Campanella, ma dobbiamo dire che non ne rimaniamo punto sorpresi: forse ad essa alluse egli medesimo, quando nel suo Dialogo politico contro i Luterani e Calvinisti prese le mosse da una disputa fatta sull'argomento in S. Maria la nuova di Napoli, alla quale erano intervenuti due degl'interlocutori, né sarà sfuggito che nel brano del Syntagma riportato più sopra egli parla pure di una «disputa fatta in un pubblico Congresso», dalla quale fu spinto a scrivere sul Senso delle cose. Nel libro poi del Marta, combattuto dal Campanella, si trovano citate diverse dispute filosofiche col nome de' disputanti e le rispettive opinioni, le quali il Fiorentino ha rilevate con molta cura: ma noi, nell'Archivio di Stato, abbiamo già da un pezzo trovato alcuni documenti, che dimostrano la frequenza e varietà di tali dispute, presso a poco ne' tempi de' quali trattiamo, con tutte le circostanze desiderabili. Le dispute si facevano nelle Chiese, non ne' Chiostri come ha mostrato di credere il Baldacchini, e per lo più nelle ore pomeridiane della Domenica; non ancora erasi pervenuto al punto di rendere anche materialmente la Chiesa estranea alla cultura. Annunziavano le dispute grandi manifesti o come allora si dicevano cartoni, affissi «per li luoghi pubblici et ordinarii di questa fidelissima città», sia a stampa sia manoscritti, e ce ne rimangono dell'una e dell'altra maniera, col loro dorso tuttora impiastricciato delle sostanze adoperate per farli attaccare alle mura; essi recavano, col nome di chi sosteneva la disputa, una dedica, un fervorino, l'elenco delle proposizioni o capi da disputarsi, e l'indicazione del luogo, del giorno e dell'ora. Quelli che abbiamo veduti talvolta hanno il nome di un preside, che poi certifica essere state le proposizioni sostenute «con sodisfattione et approbatione»;  talvolta sono accompagnati dal certificato di un mastro d'atti, che espone le circostanze della disputa, i nomi delle persone che hanno argomentato e di quelle tra le più notevoli che sono semplicemente intervenute, inoltre l'esito finale, «che tutti hanno detto esserne state bene difese et disputate le sudette Conclusioni con darne infinite lode al detto Dottore» etc. Era un modo onorevole di farsi conoscere in qualsivoglia ramo dello scibile: difatti abbiamo cartoni di dispute in filosofia, in medicina, in materia legale, sostenute da studenti, da Dottori, Accademici Partenii, Accademici Costanti, Dottorati in Napoli che volevano essere ammessi a leggere e disputare secondo i Capitoli della Scuola di Salerno, coll'indicazione della sede della disputa, nella Chiesa del Collegio del Gesù, nella Chiesa di S. Giovanni maggiore, nella Chiesa di S. Giovanni a  Carbonara. E dev'essere notato che in filosofia disputavano non soltanto i frati, ma principalmente i medici, tra' quali era celebratissimo campione di dispute a quel tempo il medico Latino Tancredi di Camerota, o Latino Camerotano, che poi prestò anche i suoi consigli medici al Campanella, come vedremo a suo luogo: perocchè la facoltà di filosofia era fusa in quella di medicina, e con le letture di filosofia più basse e poi più elevate i medici cominciavano e poi chiudevano la loro carriera, così nell'insegnamento pubblico come nel privato. In verità i frati, almeno in Napoli, si sforzarono sempre di soppiantare i medici nelle letture di filosofia nel pubblico studio, ma per lunghissimo tempo non vi ebbero fortuna, malgrado il favore de' Vicerè bigotti; basta dire che scorso perfino un altro secolo, il Cappellano maggiore ancora scriveva al Vicerè doversi le letture di filosofia tenere da' medici e non da' frati, poichè gli studenti non andavano a udire i frati. Bisogna quindi guardarsi pure dal credere che le controversie filosofiche si agitassero solamente tra' frati, e si può pertanto conchiudere non esser punto difficile che il Campanella, appena venuto in Napoli, si sia trovato a far parte di una disputa filosofica in una Chiesa. Ciò che ci pare piuttosto difficile si è che egli sia poi andato ad abitare il convento di S. Domenico.

Le circostanze che menarono il Campanella a Napoli, la sua così detta «fuga dal convento di Cosenza» coll'indignazione dei superiori, parrebbero un grave argomento per escludere che egli fosse andato ad abitare il convento di S. Domenico; ma per verità l'argomento non è grave, attesochè il sistema de' tempi era rappresentato da una singolare alternativa di debolezza e di violenza grandissima, ed i frati specialmente Domenicani vivevano più che in libertà, in licenza sconfinata. Invece più grave argomento è quello della difficoltà che i Domenicani calabresi avventizii incontravano ad avere una stanza ne' conventi di Napoli. Esistevano nella città non meno di 9 grandi conventi di detta Religione, quattro ordinarî e cinque riformati, ma i così detti «fuochi» di Domenicani nella città e nei borghi si elevavano a non meno di 16, con 682 «anime», la più alta cifra dopo quella de' Francescani e de' Benedettini: veramente, oltre i frati del Regno e gli spagnuoli, si trovavano fra loro anche parecchi lombardi come del resto parecchi del Regno si trovavano ne' conventi di Lombardia, essendovi relazioni molto frequenti fra le due regioni dominate dalla stessa potenza spagnuola; pertanto i frati calabresi, venendo in Napoli, non potevano avere facile accesso in questi conventi, al punto che dovè più tardi pensarsi a fabbricarne uno espressamente per loro. È noto infatti che fu perciò fabbricato nel 1606 il convento di S. Maria della salute, detto poi di S. Domenico de' calabresi o di S. Domenico Soriano nella piazza fuori porta Regale (oggi piazza Dante) per opera di fra Tommaso Vesti Domenicano calabrese reduce da Algieri, co' danari ricevuti da Sara Ruffo di Misuraca sua compagna di schiavitù nello stesso posto. È verosimile dunque che il Campanella abbia dovuto fin dal suo arrivo rimanere fuori convento, e forse fin d'allora divenire ospite de' Signori del Tufo, co' quali abbiamo già notata la conoscenza probabilmente avvenuta a' tempi della sua dimora in S. Giorgio. - Non  si creda pertanto che con ciò il Campanella cadesse in grave colpa, allontanandosi dall'austerità della vita religiosa e dagli obblighi della regola di S. Domenico: in Napoli, tra' Domenicani di que' tempi, non v'era né austerità né regola, e se mai, in conferma di quanto diciamo, non si volessero accettare i racconti e i giudizî delle cronache napoletane, si dovranno certamente accettare le relazioni e i giudizî del Nunzio Aldobrandini, che si rilevano dal suo Carteggio esistente nell'Archivio di Firenze. Egli fin da' primi mesi della sua venuta in Napoli, nel 1592, scriveva a Roma contro la vita licenziosa de' frati in generale e dimandava poteri per rimediarvi; ma pe' Domenicani in ispecie non cessò mai di fare le più alte lagnanze. Si sforzò anche troppo d'introdurre la vita più austera de' Riformati in S. Domenico, ed ottenuti gli ordini del Papa, nel 1595, fece sloggiarne tutti coloro che l'abitavano ed introdurvi 60 frati Riformati presi dal convento della Sanità: ma ebbe a vedere, otto giorni dopo, i frati scacciati venire armati di pistole, coltelli e bastoni, e coll'aiuto di quelli di S. Pietro Martire prendere d'assalto il convento, scacciarne i nuovi abitatori, introdurvi munizioni per 6 mesi, fortificarsi, elevar trincee alle porte, guarnire di sassi le finestre, suonare le campane a martello, eccitando il popolo e parte della nobiltà in loro favore, destando forte commozione nel Vicerè; e durarono così tre buoni mesi in aperta ribellione, da' primi di aprile a' 22 di giugno, quando aprirono finalmente le porte vincendo la partita in barba al Nunzio ed allo stesso Papa. Il Papa concedeva che mandassero due de' loro in Roma per esporre le proprie ragioni, ma esigeva che frattanto facessero l'ubbidienza ed uscissero dal convento di S. Domenico cedendo il posto a' frati che stavano ne' conventi di S. Severo, di Gesù e Maria, di S. Caterina a formello, con l'avvertenza di farvi entrare «quelli che fossero lombardi» probabilmente credendo di disinteressare così il popolo napoletano nella quistione: ma i frati di S. Domenico non ne vollero far nulla, ed il Vicerè ebbe timore di accordare il braccio secolare per costringerli all'ubbidienza verso il Papa. Abbondano poi i casi particolari di Domenicani inquisiti e processati durante tutto il periodo della Nunziatura dell'Aldobrandini, e fino al termine del suo ufficio egli se ne lagnò spesso: così scrivendo al Card.l S. Giorgio diceva, «voglio che sappia che non è Religione in questo Regno più relassata di questa, et che si sentino  maggiori enormità et d'ogni sorta» (e qui registrava una lunga filza di queste enormità), come pure scrivendo al Padre Generale de' Domenicani diceva, «si sanno i molti delitti gravi che seguono nella Religione senza che pur ci si pensi». Il Campanella dunque non avrebbe nulla guadagnato se fosse rimasto tra siffatti frati: eppure ebbe poi perfino a risentire indirettamente il danno de' dissensi e de' tumulti frateschi, avvenuti quando egli era da un pezzo già partito da Napoli; poichè, come abbiamo avuta occasione di accennare più sopra, trovavasi in questa città fra Dionisio Ponzio, il quale non era uomo da stare in disparte fra quelle baruffe, e gli odii che n'ebbe a riportare ricaddero anche sull'amico suo. Venuto a stare nel convento di S. Caterina a formello, egli passò in seguito appunto a quello di S. Pietro Martire come «studente formale»: un fra Marco da Marcianise, del quale avremo ad occuparci più tardi anche troppo, ed un fra Ambrogio di Napoli, che fu poi del piccol numero di frati lettori pubblici di filosofia (1613-23) e in sèguito Vescovo di Tropea, fecero sì che gli studenti non napoletani fossero privati di voce attiva, ed ecco sdegnati questi studenti mandare un loro procuratore a Roma presso Innocenzo IX, e il procuratore prescelto fu appunto fra Dionisio, che dovè scrivere memoriali e suppliche contro fra Marco. A tempo de' tumulti poi egli trovavasi in Roma, per provocare il processo contro i frati calabresi che avevano ucciso suo zio il Provinciale Pietro Ponzio: fra Marco di Marcianise, era appunto Superiore dei frati della Sanità che si è detto sopra avere occupato il convento di S. Domenico, e fra Dionisio, prendendo le parti de' frati di S. Domenico, agì e trattò contro i Riformati e contro fra Marco. È superfluo dire quanto odio ne nascesse, e fra Marco fu appunto il Commissario che istituì poi i processi in Calabria nel 1599.

Ma dunque, da principio o più tardi, il Campanella venuto in Napoli se ne andò a dimorare nella casa de' Signori del Tufo Marchesi di Lavello, e poichè essi furono lungamente protettori ed amici di fra Tommaso, al punto che taluni si trovarono poi nominati nella faccenda della congiura, ed uno ne fu carcerato contemporaneamente, un altro consecutivamente, è giusto darne notizia con qualche larghezza. Figuravano questi Signori tra le famiglie primarie nella nobiltà: vantavano la loro origine da uno de' primi Normanni venuti con Guglielmo Ferrabuc, Ercole Monoboij, che poi prese il suo cognome dalla terra del Tufo nella Provincia di Principato Ultra, avuta con altri doni in premio del suo valore; vantavano un Roberto del Tufo Signore di Montefredano presso Avellino, registrato nell'elenco de' Baroni che seguirono Goffredo di Buglione alla conquista di Terra Santa. A' tempi de' quali trattiamo, abitavano nella contrada che oggi si dice di S. M.a di Costantinopoli, nelle case appartenute già a' Castriota Scanderbeg, e poi divise fra loro e i Signori Marciani, cui faceva sèguito il palazzo del Reggente David, divenuto poi più tardi, nel 1610, la Chiesa ed il Monastero di S. Giovanniello; il palazzo de' del Tufo era quello oggi segnato col n.° 102, provisto, come gli altri contigui, di un giardino che avea per parapetto il muro della città durato fino a' giorni nostri. Quivi il Campanella trovò agio e conforto, e ben può dirsi questo il solo luogo di cui potè ricordarsi con piena soddisfazione durante tutta la sua vita. Ecco gl'individui di casa del Tufo che principalmente c'interessano per la nostra narrazione.

1.° Gio. Geronimo del Tufo, che era 2° Marchese di Lavello: già capitano di cavalli nella guerra del Tronto, poi Governatore e Commissario generale in entrambe le Calabrie, Reggente della Vicaria, Membro del supremo Consiglio Collaterale; padre di Giovanni, avuto da Isabella di Guevara sua 1.a moglie (già morto nel tempo del quale trattiamo) e di Mario, avuto da Antonia Carafa della Spina sua 2.a moglie, che sposò il 1547 e che gli diede pure molti altri figliuoli. Egli rappresentava la casa al tempo in cui il Campanella venne a Napoli: ed era molto innanzi negli anni e morì nel 1591.

2.° Mario del Tufo, secondogenito di Gio. Geronimo predetto: coll'aver tolto in moglie Fulvia Persona era divenuto Barone di Matina in terra d'Otranto; più tardi comprò anche Minervino e qualche altro feudo, onde s'intitolò anche Barone di Minervino; ed ebbe dalla sua Fulvia Ascanio e diversi altri figliuoli. Egli propriamente ospitava il Campanella, come fu specificato in una deposizione che si ebbe nel processo di eresia dibattuto in Napoli, mentre nel Syntagma è accennato confusamente là dove si parla di alcune opere scritte «in casa del Marchese di Lavello, e col favore del figliuolo Mario del Tufo». Vedremo che a lui il Campanella dedicò la sua filosofia, con lui rimase sempre in corrispondenza dirigendogli pure altre opere scritte altrove più tardi, ed egli propriamente si trovò poi nominato qual complice nella congiura.

3.° Gio. Geronimo del Tufo, che fu 4° Marchese di Lavello, e Signore di Montemilone, nipote di Mario predetto, figlio di Giovanni del Tufo 3° Marchese di Lavello e di Caterina Caracciolo sorella del Duca d'Airola: costui fu Doganiere della Dogana di Puglia e poi scrivano di razione, ma molto più tardi; aveva già nel 1588 sposato Beatrice di Sangro figlia di Fabrizio Duca di Vietri. Di questo Fabrizio di Sangro avremo ancora a parlare ulteriormente, giacchè egli pure fu creduto aderente alla congiura, come il Marchese Gio. Geronimo, che vedremo anche carcerato più tardi, sempre perché amico e protettore del Campanella. E si avverta che costui propriamente era il Marchese di Lavello di cui si faceva parola a' tempi della congiura, essendo successo all'avo nel 1591, come si scorge da' Registri delle Significatorie de' Relevii, che mostrano quella a lui spedita il 18 9bre di detto anno.

4.° Francesco o Ciccio del Tufo 5° Marchese di Lavello, figlio di Gio. Geronimo: al tempo nel quale ci troviamo era giovanetto; successe al padre nel 1607, come si scorge parimenti da' Registri delle Significatorie de' Relevii, che mostrano quella a lui spedita il 28 9bre di tale anno. Avendo sposata Costanza Pappacoda figlia del Marchese di Capurso, ne ebbe Giovanni 6° Marchese di Lavello; ma la sua salute si alterò presto, e finì per essere dichiarato inabile ad amministrare, mentre la sua moglie se ne viveva ritirata nel monastero di Regina coeli «more nobilium» (14 genn.° 1629). Lo vedremo menzionato in qualcuna delle lettere e delle opere del Campanella, implicato anche in una circostanza della vita del filosofo non priva d'interesse, onde tutte le date suddette, da noi laboriosamente raccolte, non debbono punto credersi un vano lusso di erudizione.

5.° Geronimo del Tufo. Era figlio di Fabrizio del Tufo e Porzia Muscettola, e sposò Costanza del Tufo sorella di Gio. Geronimo sopranotato; non deve quindi confondersi con Gio. Geronimo. Fabrizio suo padre discendeva da Paolo secondogenito di Giovanni Signore di Lavello (non ancora era sorto il Marchesato), e tenne l'ufficio di Governatore della provincia di Bari nel 1587-88, poi della provincia di Calabria ultra con lettere patenti di Capitano a guerra nel 1595-96. Vedremo Geronimo in carriera di Capitano di città precisamente nelle Calabrie, e non solo nominato, ma carcerato qual complice della congiura.

6.° Marcantonio del Tufo Vescovo di Mileto. Era figlio di Alfonso del ramo de' Baroni di Frignano maggiore, e di Aurelia del Tufo sorella di Fabrizio predetto, zio quindi di Geronimo del Tufo per parte di madre. Fu creato Vescovo di S. Marco il 5 aprile 1585, e poi passò a Mileto, in Calabria, il 21 8bre dello stesso anno: morì nel 1606. Al Campanella non dovè riuscir difficile far la conoscenza di questo Vescovo, che nella Narrazione pubblicata dal Capialbi chiamò suo «patrono». Egli era superlativamente battagliero nelle quistioni giurisdizionali, e naturalmente anche per tale motivo si trovò nominato nella congiura.

Questi Signori del Tufo, come generalmente tutti i Signori di un tempo, senza essere persone distinte per cultura aveano tuttavia in molto pregio i buoni studii. Nella dedica della sua Filosofia a Mario del Tufo il Campanella ci lasciò scritta questa circostanza degna di menzione, che Bernardino Telesio fu «devotissimo» di Mario e dell'inclito padre di lui; attestò inoltre l'ingegno fecondo del Marchese Gio. Geronimo nella filosofia e nella poesia. Non può quindi far meraviglia l'ottima accoglienza incontrata presso costoro dal Campanella, il quale aveva già scritto in difesa del Telesio con un ardore e una baldanza giovanile notevolissima, imprendeva allora a compiere o a comporre altre opere filosofiche, e palesava la sua dottrina già matura nelle dispute pubbliche e private. Per altro abbiamo motivo di ritenere che in casa Del Tufo egli avesse l'ufficio di precettore di qualche figliuolo di Mario, oltrechè del giovanetto Francesco futuro Marchese. Mario era già sposo da un pezzo e più volte padre in questo tempo: attendeva alla coltivazione delle difese di Montemilone e di altri territorii; si portava frequentemente fuori Napoli, anche per vegliare alla sua razza di cavalli, i quali avremo occasione di vedere che molto spesso si godeva il Gran Duca di Toscana. Nel corso di questa narrazione c'imbatteremo in un caso in cui il Campanella erroneamente si dolse di «un Marchese discepolo ingrato», che fu senza dubbio Francesco del Tufo figlio di Gio. Geronimo, e tutto induce a far credere che appunto in questo tempo l'abbia avuto a discepolo.

Frattanto, per l'estesa parentela de' Del Tufo, il Campanella venne a procurarsi ben presto la conoscenza anche di altri nobili molto reputati. Abbiamo già avuta occasione di menzionare Fabrizio di Sangro Duca di Vietri: non pare dubbio che egualmente in questo tempo egli abbia conosciuto D. Lelio Orsini fratello di Ferdinando Duca di Gravina, il quale D. Lelio divenne amico e protettore del Campanella non meno de' Signori Del Tufo suoi parenti. Questa parentela era abbastanza stretta, poichè lo zio di D. Lelio a nome Flaminio Orsini, Signore di Solofra e Sorbo e Conte di Muro, avea sposato Lucrezia del Tufo, e l'altro zio a nome Ostilio Orsini, il quale fu poi Signore di Pomarico e Montescaglioso, sposò in seconde nozze Diana del Tufo, entrambe figlie di Paolo del Tufo fratello del vecchio Marchese di Lavello Gio. Geronimo, e lo stesso D. Lelio sposò Beatrice Orsini figliuola del detto zio Flaminio e Lucrezia del Tufo. Avremo campo di discorrere partitamente di ciascun di questi Signori: ma per ora interessa piuttosto di fermarci sopra un'altra conoscenza non meno importante fatta in questo tempo dal Campanella, vogliamo dire quella del celebre Gio. Battista Della Porta, che influì abbastanza sull'animo del filosofo, ispirandogli anche l'opera De Sensu rerum et Magia; nella quale occasione ci conviene dir qualche cosa egualmente del fratello di lui Gio. Vincenzo Della Porta, giacchè tutto induce a far ritenere che il Campanella abbia conosciuto anche costui, e che costui abbia avuta la sua parte d'influenza sul Campanella. Profitteremo qui di diverse notizie rilevate da qualche scrittore meno consultato ed anche da scritti rimasti finoggi inediti, massime intorno a Gio. Vincenzo, poichè intorno a Gio. Battista abbiamo oramai una monografia del prof. Fiorentino che ci dispensa dall'occuparcene a lungo.

Erano tre i fratelli Della Porta, di antico e distinto lignaggio e di cultura ed erudizione maravigliose, Gio. Vincenzo, Gio. Battista e Gio. Ferrante; parrebbe che un altro loro fratello a nome Francesco, primogenito, fosse morto giovanotto. Figli di Nard'Antonio, dal 1541 Regio Scrivano degli atti delle cause civili della Vicaria, creati tutt'insieme, unitamente al padre ed agli zii Francesco, Bartolomeo e Gonnisalvo, familiari e domestici del Re di Spagna nel 1548, abitavano alla piazza della Carità, in quella casa posta a sinistra della Chiesa, dove da lungo tempo oramai si vede un albergo. Tutti e tre i fratelli erano amantissimi di lettere, e forse perché Pitagorici pregiavano grandemente la musica, fino ad aver tenuto a lungo in casa loro Filippo di Monte, a que' tempi celebrato scrittore di musica; ma gli amici notavano maliziosamente che nessuno di loro avea potuto mai acquistare una buona intonazione nel canto. La loro casa fu sempre il luogo di ritrovo dei letterati napoletani e forestieri, e mano mano che ciascun fratello v'istituì qualche collezione, può dirsi che dall'intera Italia, come dalla Francia, dalla Spagna, dal Belgio, dalla Germania, dalla Polonia, non venivano uomini culti che non si dessero premura di visitare Pozzuoli e di essere ricevuti in casa Della Porta, non solo per le collezioni che vi si ammiravano, ma principalmente per l'erudizione che vi si apprendeva; giacchè possedevano una Biblioteca molto ricca, e non per semplice lusso, non essendovi volume che non avessero percorso, ritenendone ogni parte con una prontezza che facea stordire, sicchè erano gli arbitri di ogni quistione erudita. Gio. Ferrante non visse a lungo: tra le cose curiose, che lasciò, vi fu una notevole collezione di cristalli antichi, che passò in altre mani, giacchè in fondo i Della Porta non erano molto ricchi, e nelle curiosità, ne' libri e nelle ricerche, spendevano moltissimo. Gio. Vincenzo, primo de' fratelli, additato per la sua magrezza, era scrivano di mandamento, di una integrità del tutto eccezionale a que' tempi, aborrendo da' così detti «guanti e paraguanti», parole che esprimevano in modo civile un basso profitto: infaticabile nello studio, dottissimo nelle lettere greche e latine, nella filosofia e matematica, nella botanica, alchimia e medicina, era passionato cultore in ispecie dell'antiquaria e dell'astrologia. Nell'antiquaria aveva sceltissime collezioni di marmi e di medaglie, ed a questo titolo teneva corrispondenza principalmente con Fulvio Orsini di Roma, avea continue richieste di pareri e consigli, e riceveva frequentissime visite dagli amatori, segnatamente dal Reggente Marthos di Gorostiola che se ne dilettava moltissimo. Nell'astrologia era stato discepolo di Giovanni da Bagnolo, pregiava assai Matteo de Solizio, ed era amicissimo di Gio. Paolo Vernalione che lo visitava frequentemente: la sua riputazione in tal genere di cose era colossale, molto superiore a quella del fratello Gio. Battista, avendo composte infinite natività di uomini illustri, e fatte predizioni che formavano la meraviglia universale; il Principe di Stigliano, Vincenzo Luigi Carafa, che lo stimava e lo ricercava sempre, onorandolo pure con molti donativi, conservava nella sua Biblioteca un grosso volume delle natività da lui scritte. Del rimanente era uomo modestissimo quanto religiosissimo, e motteggiava suo fratello Gio. Battista, perché era così facile a comporre libri e a stamparli. Egli scrisse sulle antichità di Pozzuoli e vicinanze, e si vuole che di questo scritto si sia servito Scipione Mazzella nella composizione del libro suo: scrisse pure Commentarii sopra l'Almagesto e il Quadripartito di Tolomeo che non si sa qual sorte abbiano avuta, un libro De emendatione temporum che essendosi trovato conforme a quanto avea detto lo Scaligero fu da lui disfatto, un altro libro della Emendazione del Calendario che non fu finito in tempo per essere inviato a Roma e quindi fu condannato alla stessa sorte. Morì nel 1606. - È del tutto verosimile che il Campanella abbia frequentato le conversazioni di Gio. Vincenzo, non meno che quelle di Gio. Battista, e con Gio. Vincenzo siasi più direttamente inteso circa l'astrologia pratica, le predizioni, le compilazioni delle genesi e natività allora tanto ricercate, e tanto dal Campanella amate. Oramai le lettere sue scoperte dal Berti ci hanno insegnato che perfino nel carcere di Napoli, e poi in quello del S.to Officio di Roma, il Campanella siasi occupato di genesi e natività, e i documenti da noi scoperti mostreranno che ne era richiesto perfino nel periodo della sua pazzia; né sarà mai approfondito abbastanza siffatto suo gusto, che fu tanta cagione delle sue sventure. Forse anche presso Gio. Vincenzo egli conobbe il Marthos Gorostiola, dal quale poi affermò essere stato eccitato a scrivere intorno alla Monarchia spagnuola,  come pure Gio. Paolo Vernalione, col quale vedremo che conferì poco prima del tempo della congiura.

Quanto a Gio. Battista Della Porta, tutti sanno che egli si spinse assai più in alto. Studiò presso Gio. Antonio Pisano medico e filosofo riputatissimo, e gli si mostrò grato dedicando una delle sue opere al figliuolo di lui: fu ricercatore infaticabile, e all'amore per le buone lettere e per la drammaturgia unì la cultura della matematica,  della fisica, dell'alchimia, di tutte le scienze naturali; fu anche vaghissimo della medicina, ed amante oltremodo della magia, dell'astrologia, delle scienze divinatorie in genere, ma combattendo la magia demoniaca e fondando la così detta da lui magia naturale. Tutti sanno che per lo meno contribuì potentemente all'invenzione del cannocchiale e della camera oscura, notando anche varii fenomeni fisici di alta importanza, che investigò e raccolse da ogni lato, percorrendo anche tutta l'Italia, la Francia, la Spagna, ma sempre con una tendenza verso il maraviglioso e lo strano, che veramente fa gran torto a lui e gran pena a chi si fa a leggere i suoi numerosi libri. Eppure è indubitato che precisamente per questo richiamò sulla persona sua l'attenzione e la stima universale de' contemporanei, rimanendone pregiudicata quella de' posteri. Così il Card.l Luigi d'Este lo volle presso di sè per qualche tempo; il Gran Duca di Toscana gli mandò il suo medico Punta per averne secreti; il Duca di Mantova Vincenzo Gonzaga si trattenne un pezzo in Napoli e ne frequentò sempre la casa; infine Rodolfo II Imperatore (nel 1604) gli scrisse e gli mandò il suo cappellano Cristiano Harmio per sollecitarlo che gli spedisse qualche suo discepolo pratico dell'arte. Ed egli allora, dopo di avere pubblicate tante opere ed avendone pure altre fra mano, si decise ancora a scrivere quel libro della Taumatologia etc. rimasto incompiuto e inedito, ora esistente in Montpellier,  nel quale, in grazia certamente dell'Imperatore, diè prova di una grande smania pe' segreti comunque mostruosi, mentre già da molti anni se ne era abbastanza corretto. Ci asteniamo dal parlare delle sue opere, della sua Accademia de' Segreti, della sua partecipazione all'Accademia de' Lincei di Roma. Appena menzioneremo che egli ebbe un processo di S.to Ufficio, procuratogli certamente dall'astrologia giudiziaria ed esercizio de' pronostici: un documento autentico capitato nelle nostre mani ci rivela essere state fatte per lui le «ripetizioni» de' testimoni avanti il 1580, reggendo il S.to Officio in Napoli Mons.r Carlo Baldini Arcivescovo di Sorrento, e trovandosi Maestro d'atti Francesco Joele; il processo quindi è di data diversa dalla proibizione di stampare, che gli venne inflitta nel 1592, che durò fino al 1598, ma che pure impedì consecutivamente la pubblicazione della Taumatologia e della Chiromanzia.

Il Campanella, giovane ed infiammato scrittore di una nuova filosofia che accennava ad essere sperimentale, oltracciò venuto da Calabria con la mente già eccitata verso la magia e le arti divinatorie, non poteva non frequentare la casa de' Della Porta e non avervi lieta accoglienza. Verosimilmente le arti divinatorie e i pronostici furono il soggetto di molte conversazioni, trovandosi il Campanella sotto l'impressione dell'altissimo pronostico fattogli dall'Ebreo; ma a noi è pervenuto solamente il ricordo della conversazione (non disputa pubblica) avuta con Gio. Battista intorno al non potersi dar ragione della simpatia ed antipatia delle cose, come Gio. Battista aveva scritto nella Fisognomia, «mentre esaminavano insieme il libro già stampato», la quale conversazione, oltre a una disputa pubblica avuta altrove precedentemente, diede occasione al Campanella di scrivere l'opera De sensu rerum; in quest'opera c'è talvolta il ricordo di qualche altro discorso passato tra lui e Gio. Battista, come p. es. a proposito delle formazioni dendritiche dell'argento. Ebbe inoltre il Campanella a profittare egli pure de' consigli e de' rimedii, che Gio. Battista dispensava ed amministrava personalmente a coloro i quali andavano a consultarlo; ne diremo or ora qualche cosa. Presso i Della Porta anche dovè conoscere Giulio Cortese, Colantonio Stigliola, Gio. Paolo Vernalione. Sicuramente conobbe il Cortese in questa sua prima venuta in Napoli, poichè lo vedremo da lui posto come interlocutore nel suo Dialogo contro i Luterani che scrisse in Roma nel 1595; ma lo vedremo del pari citato insieme allo Stigliola e al Vernalione a proposito di un discorso passato tra loro intorno alla vicina fine del mondo, allorchè venne per la prima volta in Napoli poco avanti la congiura; avremo quindi campo di parlare di tutti costoro a tempo e luogo più opportuni.

Dicemmo che il Campanella ebbe a profittare de' consigli e rimedii di Gio. Battista Della Porta. Egli medesimo infatti, nella sua opera Medicinalium, ci lasciò scritto che guarì subito da una infiammazione di occhio mediante un collirio meraviglioso che il Della Porta usava, e che gl'instillò con le sue mani in presenza di molte persone. Veramente potè forse questo accadere nella sua seconda venuta in Napoli; ma senza dubbio nella sua prima venuta gli accadde di soffrire una doppia sciatica, che lo tenne per più mesi a letto «essendo giovane di 23 anni», come ci lasciò scritto nella medesima opera; la quale notizia della sua età non deve indurre in un errore di data, riferendo la cosa all'anno 1591 anzichè all'anno 1590, perché avremo altre volte occasione di vedere essere stato il Campanella solito di fare i suoi còmputi calcolando anche la cifra dell'anno da cui il còmputo cominciava. Egli intraprese la cura de' bagni e delle stufe di Pozzuoli e di Agnano, naturalmente nell'està del 1590, e se ne trovò bene; ma la malattia non l'abbandonò del tutto che due anni dopo, succedendole una terzana. E deve essere notata la cagione che assegnò alla comparsa della malattia, alla sua durata, al suo miglioramento: aveva fatta, egli scrisse, una lunga e forte cavalcata, beveva col ghiaccio e desinava lautamente presso un nobile uomo; cessate tutte queste comodità, dimagrato nelle successive peregrinazioni, si avviò a guarire. Da ciò si vede l'ottimo trattamento che godeva presso Mario del Tufo, e la ben diversa vita che ebbe a menare in sèguito. - Ma egli pure, quantunque si riconoscesse «poco erudito ne' medicinali», curò dal letargo il P.e M.° Mattia Aquario, e tale cura deve riferirsi egualmente al tempo della sua prima venuta in Napoli. Abbiamo infatti rinvenuto nell'Arch. di Stato, che questo Mattia Aquario, Domenicano, era pubblico lettore di Metafisica, successo a Colanello Pacca il 12 marzo 1588, e morì poi nel 1592, succedendogli il 20 giugno di detto anno D. Jacobo Marotta. Da ciò già si rileva che il Campanella non mancava di frequentare il convento di S. Domenico, e ne avremo ancora altre prove in sèguito. Naturalmente ebbe così occasione di conoscere il P.e Fra Serafino da Nocera (Serafino Rinaldi), il quale era allora, o fu poco dopo, Reggente lo studio de' frati di quel convento e divenne grande amico del Campanella, suo instancabile fautore negli anni delle sventure. Entrato in Religione nel 1586, già vi godeva moltissima stima, e al tempo de' tumulti de' frati di S. Domenico, benchè si fosse tenuto lontano ritirandosi fra' Certosini nel convento di S. Martino, fu ritenuto dal Nunzio qual promotore principale della ribellione; fu quindi per ordine di lui carcerato più tardi, e tenuto sotto processo per parecchi anni: ma giunto a liberarsi, divenne presto superiore di S. Domenico, in sèguito anche Provinciale, non che lettore di S. Tommaso nello studio pubblico, e infine chiuse la sua carriera coll'Episcopato. Vedremo a tempo e luogo i beneficii grandissimi e l'assistenza paterna che quest'uomo benemerito prodigò al Campanella.

Dobbiamo ora dir qualche cosa delle opere composte dal Campanella durante la sua permanenza in Napoli, e gioverà anzi cominciare ad occuparci del Catalogo delle sue opere: bisogna una volta sforzarsi di avere questo catalogo nelle migliori condizioni possibili, quantunque esso riesca malagevole a farsi perché tra le sventure sofferte dall'autore diverse sue opere furono composte e ricomposte anche con diversi titoli successivamente; è indispensabile conoscere con esattezza tra quali circostanze ciascun'opera fu composta o ricomposta, mentre le fortunose circostanze della vita dell'autore doverono certamente influire di molto sopra le idee in esse sviluppate. Senza curarci delle cose minori, delle versificazioni dell'adolescenza, de' sunti delle lezioni compilati su' banchi della scuola etc. abbiamo finquì per ordine di data le opere seguenti. In primo luogo il trattato De investigatione rerum: esso fu composto certamente prima della Filosofia, come appunto si rileva dalla prefazione di quest'opera, fonte incomparabilmente preferibile a quello del Syntagma, che fu redatto quarant'anni dopo e in modo tale da dover offrire di necessità molte inesattezze; si può tutt'al più dire che in Napoli vi fu posta l'ultima mano. Con ogni probabilità il trattato fu scritto in Nicastro, dove il Campanella si emancipò totalmente dalle dottrine Aristoteliche, il 1586-87, prima dell'andata a Cosenza, dove egli rimase ben poco tempo per avere agio di scriverlo. Esso costava di due libri, come risulta da varii documenti; risulta poi dal Syntagma che vi si contemplavano nove generi di cose sensibili, con le quali si poteva giungere a ragionare e vi si dimostrava la definizione esser fine non principio di scienza. Vedremo più in là come e dove andò perduto insieme ad altri trattati, e dove si dovrebbe ancora trovare. Segue la Philosophia sensibus demonstrata, composta in Altomonte in 7 mesi, dal 1° gennaio all'agosto 1589, stampata in Napoli durante il 1590, pubblicata il 1591, dedicata a Mario del Tufo, il quale sostenne forse le spese della stampa, come traspare dalla dedica. I molti errori tipografici incorsi «propter absentiam auctoris» e in parte corretti nell'ultima pagina dell'opera, si spiegano con la malattia sofferta e con l'andata a Pozzuoli ed Agnano. Segue l'opera De sensitiva rerum facultate, o De sensu rerum, composta dopo la disputa pubblica e la conversazione col Porta già dette. Essa era già composta quando si stampava la prefazione della Filosofia, come si legge appunto in termine di questa prefazione; può dirsi quindi scritta nell'inverno del 1590. E fu scritta in latino, come risulta da ciò che se ne dice nell'opera stessa rifatta più tardi in italiano e successivamente tradotta, dopochè andò perduta insieme col trattato «De investigatione» e con altre opere. Verosimilmente ebbe dapprima per titolo «De sensitiva rerum facultate», e così la troveremo difatti ancora nominata in un documento del tempo in cui l'autore passò a Firenze; ma ben presto egli dovè nella sua mente sostituirgli il titolo «De sensu rerum» che adottò in sèguito, e così difatti si trova già annunziata nella prefazione della Filosofia. Vedremo come e dove l'autore l'abbia rifatta, e metteremo in vista parecchie cose appartenenti agli anni posteriori a quelli de' quali ci stiamo occupando: ma si sa che il Campanella aveva una memoria tale, da essere in grado di tornare a scrivere un'opera perduta, anche dopo varii anni, pressochè con le medesime parole con le quali l'aveva dapprima scritta; c'imbatteremo poi in qualche esempio notevole del suo sistema di serbare fedelmente le cose come già stavano quando ebbe a rivedere e compiere qualche sua opera, e generalmente anche quando ebbe a tradurla dall'italiano in latino per darla alle stampe. Non dubitiamo quindi di affermare che questa prima composizione dell'opera De sensu rerum sia stata essenzialmente quella medesima che oggi possediamo ricomposta. E dobbiamo notare che l'influenza del Della Porta riesce evidente in essa anche così ricomposta come ci è pervenuta, vedendovisi abbondare lo strano e il maraviglioso ad esuberanza; ma pure, in ispecie nel 4° libro che rappresenta la Magia, dove naturalmente il nome del Della Porta figura più volte, il Campanella comincia col fargli l'appunto che ha trattato quella scienza «solo historicamente senza rendere causa», e soggiunge che «lo studio d'Imperato può esser base in parte di retrovarla». D'onde si vede che egli voleva la Magìa fondata sulle nozioni positive della storia naturale, e dava la più grande importanza al celebre Museo, che Ferrante Imperato teneva in sua casa, presso l'attuale palazzo delle Poste già de' Duchi di Gravina, e che egli avea dovuto visitare come del resto lo visitavano tutte le persone non ignoranti che venivano a Napoli. Succede all'opera De sensu rerum il Carme Lucreziano De Philosophia Pithagoreorum, ispiratogli dalla lettura di Ocello Lucano e de' detti di Platone: intorno ad esso sappiamo che non era di poco rilievo, poichè costava di tre libri; così difatti trovasi registrato ne' documenti sopra citati, vale a dire negli elenchi delle opere del Campanella da lui medesimo formati ed annessi ad alcune sue lettere e ad un memoriale al Papa. Viene infine l'Esordio di una Nuova Metafisica co' tre principii della necessità, fato ed armonia, che riteniamo avere avuto propriamente per titolo De rerum universitate; giacchè di un'opera appunto con questo titolo vedremo fatta menzione nel documento già citato del tempo in cui il Campanella passò a Firenze, e poi ancora in tutti gli altri elenchi delle sue opere che diè fuori durante la sua prigionia di Napoli, senza che nel Syntagma apparisca mai. L'opera in Napoli fu solamente iniziata, e però ci è sembrato doverla porre in ultimo luogo; vedremo che nel tempo dell'andata a Firenze (1592) trovavasi tuttora incompiuta, ed era stimata l'opera maggiore che egli avesse tra mano; negli elenchi sopra mentovati dicesi composta di due libri, la qual cosa non implicherebbe che fosse stata condotta a termine. Ben si vede che il Campanella in Napoli spese gran parte del suo tempo nel comporre opere; e vogliamo tener conto anche della notizia dataci dal Syntagma, che compose «molti discorsi ed orazioni per amici che andavano a prendere la laurea», solo per dire che realmente dal «Liber juramentorum» rimastoci nell'Arch. di Stato si rileva essersi dalla fine del 1589 al principio del 1591 laureati parecchi amici suoi ed anche un suo parente. Si laurearono Fulvio Vua de Marulla, Paolo Campanella, Gio. Paolo Carnevale, tutti di Stilo, e Ferrante Ponzio di Nicastro, leggisti: per alcuni di costoro, fra gli altri, il Campanella verosimilmente prestò l'opera sua, e pur troppo vedremo tutti costoro figurare più o meno nel processo della congiura, insieme con taluni altri come Giulio Contestabile e Tiberio Carnevale, che dalle «Matricole» si rileva essersi trovati del pari in Napoli studenti.

Ci rimane a dire di un ultimo incidente avvenuto al Campanella in Napoli, del tutto ignorato finora e frattanto importantissimo, vale a dire un processo non lieve d'Inquisizione, che lo strappò a' suoi ospiti ed a' suoi amici, e lo fece andare suo malgrado a Roma.

Egli frequentava il convento di S. Domenico, dove trovavasi allora lo studio pubblico ed inoltre una biblioteca molto accreditata. Nello studio i frati non avevano alcuna ingerenza: essi davano in fitto o come allora dicevasi «in alloghiero», ricevendone 50 ducati l'anno, tre sale a pian terreno su' due lati del cortile che serve di atrio alla Chiesa, ancor'oggi visibili ma convertite in Oratorii, eccetto l'ultima nella quale aveva già insegnato S. Tommaso: e sappiamo dal Lasena (Dell'antico Ginnasio napoletano, Rom. 1641 pag. 3), che delle due poste di rimpetto alla porta della Chiesa, la prima era addetta alle letture del dritto canonico, e poi lo fu anche a quelle del greco, la seconda era addetta alle letture del dritto civile, l'ultima posta in fondo del cortile era addetta alle letture della filosofia e medicina, e però dicevasi la sala degli Artisti (artium et medicinae doctorum). A questo si limitava il «generale studio di Napoli», là trasportato dall'antico posto delle scuole detto originariamente «lo scogliuso» divenuto poi il monastero di Donna Romita presso la Chiesa di S. Andrea: dell'antico posto si mantenea veramente sempre vivo il ricordo con una processione nella vigilia del Santo, prescritta puntualmente ogni anno per un editto del Cappellano maggiore, che ordinava e comandava «alli magnifici lettori et studenti di l'una et l'altra professione secondo l'antiqua et laudabile consuetudine di congregarsi in li studii di sandomenico, et dallà partirne con devotione et silentio processionalmente, con intorcie et candele in mano, et recto tramite visitare la detta ecclesia de Santo Andrea et pregare Iddio per la salute et felice stato di sua Santità come di S. M.tà Cattolica et extirpatione d'heretici». Alla quale consuetudine, nella stessa circostanza, più anticamente aggiungevasi l'altra dell'uccisione di un maiale per darne un pezzo a ciascuno delli magnifici lettori! Il Campanella, autore di un libro di filosofia, dovè con ogni probabilità tenersi in relazione con la maggior parte de' lettori segnatamente di filosofia, che appunto nell'anno 1590-91 erano: 1.° il medico Gio. Berardino Longo per la lettura della mattina, con d.ti 300 l'anno oltre gli straordinarii; 2.° il medico Gio. Geronimo Provenzale, che fu poi Vescovo ed Archiatro di Clemente VIII (giacchè Napoli ed anche le Provincie napoletane fornivano allora molto spesso gli Archiatri Pontificii) per la lettura della sera con d.ti 80 l'anno; 3.° il medico Francesco Ant.° Vivolo per le posteriora et topica con d.ti 60, successo al Sarnese parimente medico e maestro di Giordano Bruno; 4.° il P.e fra Mattia Aquario per la metafisica con d.ti 80, successo da poco tempo al medico Colanello Pacca. Abbiamo veduto che il Campanella curò questo P.e Aquario, sicchè almeno con costui ebbe certamente stretta relazione; d'altronde doveva invogliarlo a mostrarsi nello studio la presenza in esso de' parecchi amici suoi di Stilo, che abbiamo avuto più sopra occasione di nominare. Ma indubitatamente, essendo occupato a comporre le sue diverse opere, egli ebbe a frequentare la Biblioteca di S. Domenico, e tutto mena a far ritenere essergli là precisamente toccata quell'avventura che andiamo a narrare. La Biblioteca trovavasi nel corridoio che guarda il gran chiostro, presso la cella abitata già da S. Tommaso d'Aquino, dove in questo momento risiede l'Accademia Pontaniana: vi si accedeva non solo dal lato del cortile in cui era posto lo studio, ma anche da un ingresso più diretto aperto verso la via di S. Sebastiano, presso il locale che ancor'oggi è adibito ad uso di Farmacia. Entrando da questa parte e percorrendo il lato settentrionale del gran chiostro, si passava sulle antiche carceri del S.to Officio, carceri del tempo in cui attendevano al S.to Officio i frati di S. Domenico con un Inquisitore speciale del loro Ordine: se ne veggono ancora a fior di terra le piccole finestre, ed esse servivano di argomento a' sostenitori di un tribunale speciale di S.to Officio diverso da' tribunali Diocesani, quando la città di Napoli affermava di non averlo mai avuto. In quel gran chiostro, se deve credersi al Poggio Bracciolini seguìto dal Gravina e dal Paramo, nel 1447 il celebre Lorenzo Valla, condannato a morte dal S.to Officio e poi risparmiato nella vita, dovè fare una pubblica abiura e soffrire niente meno che la frusta. Giungendo alla Biblioteca, nel piccolo vestibolo innanzi alla porta di essa vedevasi e vedesi ancor'oggi sul muro di destra una lapide, che reca tutto un Breve di Pio V, nel quale è decretata la scomunica maggiore a coloro i quali senza licenza del Papa o almeno del P.e M.° Generale tolgano ed estraggano libri «dalla Libraria seu Biblioteca». È probabilissimo che appunto in quel posto, nell'attendere l'ora dell'apertura della Biblioteca, leggendosi quel Breve e rilevandosi la pena della scomunica, con quel suo modo burlesco che vedremo ancora da lui usato altre volte, il Campanella abbia detto, «com'è questa scomunica? si mangia?» Certo è che queste parole furono da lui profferite «parlando di extrahere libri dalla libraria di S. Domenico sotto pena di scomunica», e nei giorni seguenti «in S. Domenico fu preso carcerato e condotto nelle carceri di Mons.r Nunzio». Nel processo di eresia che fu più tardi dibattuto in Napoli, pe' fatti del 1599, tutto ciò venne deposto da un fra Francesco Merlino, il quale avea conosciuto il Campanella fin dal primo anno che entrò nel sodalizio di S. Domenico in Placanica, era suo familiare, e nel tempo al quale siamo pervenuti trovavasi studente in S. Domenico. Egli, parlando nel 1600, disse che ciò accadde «nove anni prima», vale a dire nel 1591, quando il Campanella «era a Napoli in casa di Mario del Tufo»; la stessa data trovasi poi registrata dal Card.l di S.ta Severina in una sua lettera, nella quale rammenta le risultanze del processo che ne seguì, cioè la condanna avuta dal Campanella in Roma. Soggiunse fra Francesco che si disse la carcerazione essere avvenuta perché il Campanella «avea spiriti sopra», ma poi si trovò che era stato carcerato per quelle parole profferite intorno alla scomunica nelle circostanze suddette; ed interrogato affermò di avere udito che il Campanella aveva avuto pratica con un certo Abramo, e che molti volevano che quanto sapeva lo sapeva non per suo studio ma per arte diabolica, io però, egli disse, «non credo questo, perché ho conosciuto che ha bello ingegno ed ha studiato assai». Abbiamo voluto specificatamente riportare tutte queste circostanze, per mostrare che il fatto non venne deposto da qualcuno poco bene affetto verso il Campanella.

Vi fu dunque un processo, primo per tempo, motivato dall'avere emesso proposizioni ereticali in dispregio della scomunica e dal possedere spiriti familiari: la prima accusa, molto grave, fu sempre taciuta dal Campanella; invece la seconda, piuttosto ridevole ma non già a que' tempi, fu da lui ricordata in parecchie occasioni, e una volta anche con la circostanza che per essa venne «citatus in  judicium». Questa circostanza della chiamata in giudizio è rimasta poco avvertita da' suoi biografi, i quali hanno ritenuto che l'accusa, limitata al possedere spiriti, fosse rimasta vaga, non propriamente articolata con un processo in piena regola. Del resto il Campanella medesimo ricinse di nubi questo suo processo e ne fece perdere le tracce: basta infatti ricordare le parole del Syntagma, «Nell'anno 1592 (e qui o la memoria non l'assiste bene, o più veramente egli ebbe premura di saltare sull'infausto 1591) me n'andai a Roma fuggendo gli emuli accusatori che dicevano, come sa di lettere costui mentre non le ha mai imparate?» Vedremo che pure in sèguito, perfino co' suoi amici intimi, quando veniva interrogato su' travagli patiti dal S.to Officio, egli avea cura di confondere questo processo con un altro fattogli più tardi e finito con un'assolutoria, negando addirittura di avere avuta una condanna, mentre si sapeva che era stato condannato una volta all'abiura. - Un denso velo fu sempre disteso su questo processo. Alla carcerazione avvenuta entro il convento di S. Domenico deve riferirsi senza dubbio ciò che scrisse l'Agente di Toscana in Napoli Giulio Battaglino in quella lettera del 1599 trovata e pubblicata da Francesco Palermo, là dove lo disse «ricoverato da una furia di birri, eccitatili contra per conto che avea scritto in difesa del Tilesio»; e vedremo più in là un'altra lettera dello stesso Battaglino da noi trovata, più vicina al tempo di cui qui trattiamo, dove lo disse chiaramente carcerato per causa di religione, menzionando la sola accusa «facilmente superata» dell'avere spiriti familiari, e mostrandosi male informato dello svolgimento vero del processo. La qual cosa non deve far maraviglia. Secondo lo stile de' processi ecclesiastici in materia di fede, guardavasi il più rigoroso silenzio su tutto, ed anche a ciascun testimone era ingiunto il silenzio su quanto avea deposto, sebbene poi il testimone non sempre badasse a mantenerlo: d'altra parte la semplice carcerazione per causa di fede rendeva il carcerato notatus infamia, e però gli amici suoi aveano premura di attenuare o di nascondere il vero. Ma nel convento di S. Domenico, se dapprima si parlò dell'accusa di «avere spiriti sopra», ciò che mostra tale opinione molto diffusa, più tardi, verosimilmente per le rivelazioni di qualche testimone chiamato a deporre, si giunse a conoscere un po' meglio ogni cosa e si ebbe cura di tenerla celata. Forse fra Serafino da Nocera cominciò dal rendere questo primo servigio al Campanella; forse anche il Battaglino medesimo, in tale circostanza, volle esser pietoso verso il povero filosofo.

Nulla possiamo dire de' particolari di questo processo. Anche pel fatto dell'avere spiriti, si deve ritenere fino a un certo punto ciò che il Campanella scrisse poi allo Scioppio, che cioè si era discolpato rispondendo aver lui consumato olio più che gli accusatori vino etc. etc.; potè questa essere la sostanza, non la forma della sua risposta. Ma se non conosciamo i particolari del processo, ne conosciamo tuttavia la specie, la sede ed anche l'esito, le imputazioni fatte, il tribunale che giudicò, la condanna che ne seguì; e ciò può bastare alla nostra narrazione. Gioverà intanto dir qualche cosa del tribunale, della Corte, delle carceri del Nunzio, della maniera di condurvi i processi e di trattare i carcerati, secondo le notizie raccolte da qualche processo che abbiamo potuto vedere, e specialmente dal Carteggio del Nunzio Aldobrandini, che abbiamo avuto cura di percorrere in tutti i suoi molti volumi esistenti nell'Arch. di Firenze. Queste notizie serviranno a chiarire le cose del Campanella tanto nel processo attuale quanto ne' processi posteriori, e non poche circostanze di diversi travagli da lui patiti; né si credano un lusso di erudizione, mentre invece il non averle rilevate ha fatto cadere i biografi del Campanella in diverse e non lievi inesattezze. Alla giurisdizione propriamente del Nunzio appartenevano i processi di qualche importanza contro i frati; ma in materia di fede non mancavano di occuparsene ancora, quando glie ne capitava l'occasione, da una parte il Vicario Arcivescovile che menava innanzi il servizio del tribunale Diocesano, e d'altra parte il Commissario della S.ta Inquisizione universale, che Roma non cessò mai di tenere in Napoli malgrado l'opposizione vivissima più volte manifestata dalla città, e che in quel tempo era Monsignor Carlo Baldini di Nocera, Arcivescovo di Sorrento ed insieme, dal 1567 in poi, lettore di jus canonico nel pubblico studio. Appartenevano egualmente alla giurisdizione del Nunzio e davano moltissimo da fare, oltre le materie di fede, anche i costumi, e non solo quelli de' frati ma altresì quelli de' numerosi Cavalieri Gerosolimitani che si chiamavano parimente frati; poco di poi, per uno speciale ordine del Papa, furono assegnate al Nunzio anche le cause de' clerici in relazioni co' fuorusciti, de' clerici, come oggi si direbbe, manutengoli de' briganti, e che allora si dicevano clerici in «negoziazioni illecite»; a tutto ciò si aggiungevano le non poche cause relative all'esazione de' parecchi redditi spettanti alla Camera Apostolica, essendo il Nunzio anche Collettore degli spogli de' Vescovi, preti e clerici beneficiati, che venivano a morire.

Non mancavano poi, di tempo in tempo, cause di ogni genere concernenti clerici di ogni maniera, regolari e secolari, che il Papa per ragioni speciali commetteva al Nunzio. La sua Corte si componeva di un Auditore, di un Avvocato fiscale, di un Fiscale, di un Mastro d'atti, con 4 altri Notari o Scrivani a costui sottoposti oltre parecchi Cursori, e finalmente di un computista: aveva quindi un tribunale completo secondo l'usanza di quell'età, e i membri di esso dipendevano tutti dall'autorità del Card.l Camerlengo, eccetto l'Auditore, che al pari del Segretario della Nunziatura era persona di fiducia del Nunzio; la misura del lavoro di questo tribunale può valutarsi dal fatto, che in quel tempo la sua Mastrodattia, la quale assegnavasi al maggiore offerente, rendeva tanto da poter dare, oltre il mantenimento proprio e de' 4 Notari, un'entrata alla Camera Apostolica di duc.ti 600 l'anno, ben presto elevati a duc.ti 700 senza peso di cambio, pur non essendovi tasse stabilite ma «certe usanze». Aveva inoltre il Nunzio una «famiglia armata», vale a dire alcuni birri in abito di clerici, con ferraiolo nero sulle spalle e armati di un piccolo schioppo, onde il popolino, come abbiamo rilevato da qualche processo venutoci tra mano, soleva chiamarli «le scoppettelle del Nunzio», chiamando anche le scoppettelle del Vicario i birri della Corte Arcivescovile. Le carceri stavano a pian terreno del palazzo del Nunzio, che a' tempi de' quali trattiamo era quello medesimo destinato a tale uso fino a' giorni nostri presso la piazza della Carità, comprato nel 1585 da Mons.r Rosino Vescovo d'Amalfi sotto il Pontificato di Sisto V, di poi restaurato ed ampliato col danaro proveniente da quella parte della gabella del grano a rotolo, che si pagava in duc.ti 4,000 alla Curia, come restituzione di ciò che indebitamente si contribuiva da' clerici, godendo costoro l'esenzione da ogni tassa.

Aggiungiamo che queste carceri non potevano contenere più di 15 persone, ed erano anche mal sicure; laonde molto spesso il Nunzio era obbligato a chiedere al Vicerè, che volesse far tenere carcerati «in nome del Nunzio di S. S.tà» gl'imputati di maggior polso, ed erano ordinariamente prescelte in tale circostanza le carceri del Castel nuovo, come si rileva diverse volte dal Carteggio del Nunzio Aldobrandini. Aggiungiamo che il carceriere di que' tempi era un laico coniugato a nome Tommaso Manat, mentre in qualche altro processo, posteriore di diversi anni, abbiamo trovato per guardiano delle carceri del Nunzio un frate Domenicano. Nelle dette carceri dunque, una parte delle quali avea piccole finestre aperte nel vicolo pur oggi denominato del Nunzio, mentre un'altra parte dicevasi «segreta» e non avea finestre, dovè essere rinchiuso il Campanella, e il suo carceriere dovè essere appunto Tommaso Manat: il Nunzio poi, al cospetto del quale dovè comparire, fu Mons.r Germanico Malaspina Vescovo di Sansevero, entrato in ufficio appunto il 17 maggio 1591, cui successe Mons.r Astorgio Sampietro il 22 febbraio 1592, e poco dopo l'Aldobrandini, l'8 aprile 1592, onde nel Carteggio di costui, che conservasi in Firenze, non c'è notizia di questa prima sventura del Campanella. - Come da tutti i tribunali ecclesiastici, così anche dal tribunale del Nunzio dovea mandarsi a Roma una copia del processo, mano mano che se ne compivano le diverse parti: e in materia di fede, per poco che la causa avesse qualche importanza, la Sacra Congregazione Cardinalizia del S.to Officio in Roma se ne ingeriva minutamente; faceva compilare dal proprio Fiscale il Sommario del processo e poi gli Articoli o capi di accusa su' quali si dovea procedere agli esami ripetitivi de' testimoni, intimava nuove diligenze e nuovi esami informativi, da ultimo, con o senza un voto spedito dal tribunale a richiesta di essa, statuiva sotto il nome del Papa le sentenze da pronunziarsi. Così nella conclusione della causa il tribunale locale era quasi una comparsa, e nel pronunziare la sentenza dichiarava di farlo «visti e considerati i meriti della causa ed in vigore delle lettere venute da Roma» sotto la tale data.

Ma spessissimo pure la Sacra Congregazione richiamava a sè la causa, ed allora, compiuta la prima parte del processo, il prigioniero era inviato alle carceri del S.to Officio di Roma, dopo che n'era stato già inviato il processo: del resto anche la Nunziatura con lo stesso metodo si sbrigava volentieri de' suoi prigioni, per evitare l'ingombro delle carceri insufficienti al bisogno. Una feluca privata soleva fare questo commercio di trasporto mediante un compenso di sei scudi per capo, ma quando c'erano prigioni di polso da dover mandare, vi s'impiegava una così detta fregata armata col compenso di scudi dieci per capo: ed a quel tempo il padrone della feluca, la quale conoscevasi anche col nome di barca del S.to Officio, era un Vincenzo Sguella ossia Sgueglia, essendo venuto più tardi in campo quel Geronimo della Briola ossia de Labriola, che Francesco Palermo ci fece conoscere con un documento da lui pubblicato. Si trovano con molta frequenza per ciascun anno gli esempî di siffatti invii, sì da parte del Nunzio come da parte del Vicario Arcivescovile e di Mons.r Baldini, e può ritenersi per certo che pel Campanella le cose non andarono diversamente. Formato il processo e mandatolo a Roma, egli dovè essere consegnato in catene a Vincenzo Sgueglia sulla feluca del S.to Officio, ed in tale condizione ben trista dovè fare il suo viaggio all'alma città. Ad ogni modo non vi andò di certo spontaneamente, fuggendo gli emuli accusatori, come nel Syntagma fu scritto.

III. Le vicende del Campanella in questa sua prima andata a Roma non ci son note ne' loro particolari; ma possiamo dire con certezza che il suo processo si chiuse con una condanna all'abiura de vehementi (int. de vehementi haeresis suspicione), che ciò accadde nel 1591, e che dopo di essere rimasto quasi un altro anno in Roma, verosimilmente con la relegazione in uno de' conventi del suo Ordine secondo la giurisprudenza del tempo, egli finì per andarsene in Toscana. Possiamo aggiungere che dovè essere giudicato trovandosi Commissario generale del S.to Officio fra Vincenzo da Montesanto, Piceno, al quale, fatto poi Vescovo aprutino di Teramo nel 23 ottobre 1592, successe fra Alberto Tragagliolo da Firenzuola che ci darà molto da dire più tardi. Non potremmo affermare che in questo primo processo il Campanella abbia avuto il tormento, come era solito a verificarsi quando si finiva coll'abiura de vehementi: egli non ne fece mai parola, ma veramente non fece mai parola chiara ed aperta del processo medesimo, appunto perché finito così male; una volta sola non potè non ricordare la sua posizione passata di veementemente sospetto senza dir altro, e vedremo che l'essere stato «sette volte tormentato», giusta le sue ripetute affermazioni, deve riferirsi interamente al processo ultimo fattogli in Napoli. È certissimo intanto che quella condanna gli sia stata inflitta, e non è arrischiato il ritenere che gli sia stata inflitta per le proposizioni ereticali in dispregio della scomunica: lo attestano da un lato due lettere del Nunzio esistenti nel suo Carteggio, da un altro lato la lettera del Card.l di S.ta Severina sopra menzionata. In una delle due lettere del Nunzio diretta al Card.l di S.ta Severina si legge, «scuopro che altra volta quel fra Tommaso è stato fatto costà abiurare»; nell'altra diretta al Card.l S. Giorgio si legge, «per haver abiurato altra volta com'egli stesso dice, vorrà forse in questo dar che fare di nuovo»: nella lettera poi del Card.l di S.ta Severina, diretta appunto a fra Alberto Tragagliolo da Firenzuola, fatto Vescovo di Termoli e deputato giudice del Campanella in Napoli unitamente con altri, si legge, «essendo V. Sig.ria molto ben pratica delle cose del Santo Officio, et anco informato delle altre cause conosciute in questa Santa Inquisitione contra il Campanella, ove abiurò come sospetto vehementemente di heresia l'anno 1591, non le dirò altro»; le quali parole, provenienti da chi teneva a que' tempi il suggello delle cose dell'Inquisizione, affermano esplicitamente il fatto e la data di esso. Queste testimonianze ci dispensano dal recarne altre minori, le quali risulterebbero da deposizioni d'individui esaminati nel processo di Napoli del 1599 (p. es. una deposizione di fra Dionisio Ponzio), tanto maggiormente che esse sono appena l'eco di voci più o meno fondate e non recano una precisa determinazione di data: menzioneremo solo la testimonianza del Campanella medesimo, il quale, nella Difesa che ebbe a scrivere in tale occasione, disse che di eresia «non fu mai confesso o convinto, comunque sia stato veementemente sospetto». Tale fu l'esito ben grave del primo processo fatto al Campanella, processo che, ripetiamo, è rimasto finora sconosciuto a' suoi biografi. Il Berti è giunto fino a dire, che essendosi portato in Roma «non fu allora chiamato davanti al S.to Uffizio e questo non tenne conto delle accuse che erano state mosse contro di lui da Napoli»; ma la cosa andò in modo affatto diverso, e la posizione del Campanella a fronte del S.to Officio rimase grandemente pregiudicata.

Nulla sappiamo intorno al luogo in cui il Campanella ebbe a prendere stanza in Roma, dopo di essere uscito dal carcere. Il Berti afferma che alloggiò nel convento di S.ta Sabina, e la cosa è probabile: afferma inoltre che scrisse e presentò il suo scritto a' Commissarii del S.to Officio, esponendo una riforma universale ne' costumi e nelle abitudini del clero sul migliore andamento della Chiesa; ma temiamo che possa esservi qui una confusione di due tempi diversi. Bisogna considerare che egli aveva pur allora abiurato, e in tale condizione il voler discorrere di riforme necessarie alle persone ecclesiastiche sarebbe stata un'esorbitanza; d'altronde il S.to Officio allora appunto, nel 1592, esaminava e poi faceva mettere all'indice, al 1° indice emanato sotto gli auspicii di Clemente VIII, tre libri del Telesio, e il Campanella, Telesiano conosciuto, aveva ancora qualche cosa a temere da questo lato. Ma certamente egli scrisse alcune opere, benchè nel Syntagma non si trovi alcuna notizia di opere composte in tal tempo, ed invece si trovi immediatamente registrata la partenza di lui per la Toscana. Come vedremo tra poco, tutto induce a far ritenere che egli abbia potuto partire per la Toscana soltanto verso la fine dell'està del 1592, naturalmente dopo che ottenne di essere sciolto dall'obbligo della permanenza nel convento assegnatogli: così, avendo dimorato in questo convento press'a poco un anno, riuscirebbe impossibile ammettere che non vi abbia scritto nulla, mentre è notissimo che egli non sapeva rimanere inoperoso. E poichè in un documento riferibile al tempo del suo arrivo in Firenze (la lettera di Baccio Valori del 15 8bre 1592 pubblicata dal D'Ancona) troviamo fatta menzione di alcune opere le quali certamente sappiamo non essere state composte in Napoli, bisogna di necessità ammettere ch'esse siano state composte in Roma. Ecco dunque il sèguito del Catalogo delle opere del Campanella già iniziato precedentemente (ved. pag. 39-40). Durante la prima permanenza in Roma, vale a dire dalla fine del 1591 a buona parte del 1592, si ebbero; Un Carme Della filosofia di Empedocle; un trattato De insomniis, l'unico di questo gruppo che il Campanella abbia registrato negli elenchi delle opere proprie più volte citati, dicendolo costituito da un sol libro; un trattato De sphera Aristarchi; il sèguito dell'opera De rerum universitate, ma non al di là de' due primi libri; inoltre un primo libro di Phisiologia. Quest'opera col titolo di «Fisiologia» non si rinviene citata tra quelle delle quali parlò Baccio Valori, sibbene insieme con quelle delle quali nel Syntagma si vede deplorata la perdita avvenuta in Bologna, poco dopo l'escursione fatta a Firenze; è dichiarata «un libro compiuto..... con dispute contro tutte le sètte, al quale doveano seguire 19 altri libri già meditati», onde non pare che possa dirsi sicuramente l'opera medesima «De rerum universitate» con altro titolo, e la composizione di essa deve sempre riferirsi al tempo della permanenza in Roma.

Aggiungiamo che durante questa permanenza in Roma, il Campanella dovè anche stringersi in intima relazione con D. Lelio Orsini, il quale ritiratosi allora appunto in Roma ospitava in sua casa il filosofo Telesiano Abate Antonio Persio. Il Campanella medesimo ci ricordò questa circostanza, facendoci trovare registrato nel Syntagma che quando fu a Padova, mandò un libro ad Antonio Persio abitante in Roma presso Lelio Orsini; e non è dubbio che nel 1592 D. Lelio si sia già trovato in Roma, bastando citare una lettera a lui diretta dal Nunzio Aldobrandini, in data del 1° maggio 1592 da Napoli, la quale fa parte del Carteggio di esso Nunzio esistente in Firenze. Abbiamo già avuta occasione di nominare questo D. Lelio, parente de' Signori del Tufo, ed abbiamo detto che egli divenne non meno de' Signori Del Tufo amico e patrono del Campanella. Infatti da una parte D. Lelio spinse talora il filosofo a scrivere, fornendogli qualche argomento, d'altra parte lo protesse ne' suoi travagli patiti in Roma e vi ebbe continua corrispondenza, come risultò dalle deposizioni di più testimoni che furono poi esaminati nel processo del 1599, tanto che vedremo pure D. Lelio largamente nominato tra coloro i quali avrebbero aiutata l'insurrezione di Calabria disegnata dal Campanella. Sicuramente egli ebbe cura del Campanella ne' travagli di questo primo processo: forse per opera di lui fra Tommaso ottenne di poter partire da Roma ed andare a Firenze, dove già erano state avviate pratiche per fargli avere una cattedra di filosofia in Pisa; così ci pare giunto il tempo di dare notizie più minute intorno a questo D. Lelio spesso citato dal Campanella, e nell'opera De sensu rerum citato due volte. - Discendeva D. Lelio dalla nobilissima casa Orsini di Roma, ma apparteneva al ramo de' Duchi di Gravina trapiantato nel Regno. Era secondogenito di Antonio Orsini, Duca di Gravina, e di Felicia Sanseverino, sorella del Principe di Bisignano Nicola Berardino Sanseverino: non ebbe titoli, e neanche feudi per lunghissimo tempo; né ebbe figliuoli con la sua Signora Beatrice. Risedeva, naturalmente, nel Regno, e molti documenti dell'Archivio di Napoli, come anche di quelli di Firenze e di Urbino, ce lo mostrano talora in Gravina, più spesso in Barletta, da ultimo in Basilicata, ordinariamente per affari relativi ad industrie agricole; in Basilicata ebbe interessi, dopochè la sua sorella Maria, sposa a D. Giovanni D'Avalos, nel 1596 lo fece erede degli erbaggi di Pomarico e Montescaglioso, terre appartenute temporaneamente allo zio Ostilio, e così, molto tardi, fu detto Barone di Pomarico e Montescaglioso. In qualche documento più antico trovasi dichiarato «clerico e cameriere segreto di S. S.tà», in qualche altro «Domicello Romano»; ma non manca nemmeno qualche documento in cui è dichiarato «cittadino napoletano nato in Napoli»; quivi si conciliò molta stima qual cavaliere savio e facoltoso, e fu anche Eletto del Seggio di Nido. Era molto attaccato al suo zio Principe di Bisignano, che dovrà figurare egualmente in questa nostra narrazione: vedremo che con ogni probabilità, durante le traversìe del Principe strettamente carcerato allora nel Castello di Gaeta, dopo un ordine rigorosissimo che niuno de' parenti potesse avvicinarlo, D. Lelio si ritirò provvisoriamente a Roma, essendo stato in Napoli sino alla fine del 1591; ma ne tornò nel 10bre 1594, e scorso un altro anno, dopo la morte dell'unico figlio del Principe, egli si ritenne successore di costui in pheudalibus, essendo già trapassato fin dal 1583 il Duca di Gravina suo fratello, onde ebbe a trovarsi in gravissima lite con altri pretendenti. Così egli dimorava in Roma nel 1592, e stava in ottima relazione con la Curia e col Papa, il quale, essendo stato invocato dal Gran Duca di Toscana arbitro nelle quistioni surte tra lui e suo fratello D. Pietro, nel 1593 delegò D. Lelio a questa non lieve missione: ed ecco perché ci è sembrato del tutto naturale che egli abbia avuta qualche influenza nel far concedere al Campanella di poter partire da Roma, forse anche raccomandandolo in Toscana per la cattedra. - Non è arrischiato il ritenere che la dimora di Antonio Persio presso D. Lelio Orsini in Roma abbia contribuito a recar favore al Campanella. Il Persio è oramai abbastanza conosciuto segnatamente per opera del Fiorentino. Abate e dottore, nativo di Matera in Basilicata, figlio di Altobello o Adoberto buono scultore di que' tempi rimanendone tuttavia alcuni lavori nella Cattedrale di Matera, fu discepolo del Telesio e Telesiano accanito, avendone sostenuti i principii con dispute in più luoghi, raccolti e pubblicati diversi opuscoli, assunte le difese in ispecie contro Francesco Patrizzi. Fu a Venezia e prese poi stanza in Roma; l'elenco delle sue opere rimaste inedite può leggersi in una lettera di Giovanni Bartolini Bolognese riportata dall'Odescalchi nelle Memorie de' Lincei, essendo stato il Persio uno de' primi ascritti a quell'insigne Accademia; il Fiorentino ne ha fatto conoscere qualcuna che se ne trova ancora. Fu costante amico del Campanella; sappiamo da documenti che si tenne in continua corrispondenza con lui anche in gravissimi momenti della prigionia sofferta dal filosofo in Napoli, ed egli medesimo un anno prima della sua morte, il 1611, gli mandò da Roma l'opera di Ticho-Brahe. Naturalmente il Persio dovè ricordare sovente a D. Lelio Orsini il povero Campanella e sollecitarne con vigore i buoni ufficii.

Da Roma dunque il Campanella se ne andò a Firenze. Nel Syntagma questa sua gita si trova registrata con pochissime parole: «andai a Firenze, né però incontrai miglior sorte, e dedicai il libro De sensu rerum al Gran Duca Ferdinando primo». Ma già da un pezzo era stata pubblicata dal Fabroni una lettera del Campanella che spargeva sufficiente luce su questa gita: in sèguito, mercè le indicazioni del Baldacchini per notizie avutene dal Trucchi, Francesco Palermo ne rinvenne e pubblicò un'altra, e il D'Ancona 4 altre di diversa provenienza, tutte esistenti nell'Archivio Mediceo; ancora il Berti ne ha pubblicata non ha guari un'altra del Campanella al Galilei, raccolta nella Bibl. naz. di Firenze e contenente qualche altra notizia intorno al fatto che dobbiamo narrare; infine noi medesimi, del pari nell'Archivio Mediceo, ne abbiamo rinvenuta un'altra dell'Agente di Toscana in Napoli che oggi pubblichiamo, ed oramai si può dire che la gita del Campanella a Firenze sia chiarita appieno nella sua data, nel suo scopo, nel suo risultamento, in tutte le sue fasi. Il Campanella era stato proposto al Gran Duca e si era mostrato con lui desideroso di dedicarsi al suo servizio; si trattava di dargli una lettura di filosofia nello studio di Pisa, e il documento da noi trovato mostra che la proposta era stata fatta già da un pezzo, sin dal 1591, durante la dimora di lui in Napoli. Forse l'aveva proposto Mario del Tufo, giacchè le nostre ricerche nell'Archivio Mediceo ci hanno rivelato una stretta corrispondenza col Gran Duca da parte di questo Signore, che avendo una buona razza di cavalli in Minervino (o, come allora si diceva, Mondorvino) ne faceva continui regali al Gran Duca, il quale mostrava di pregiarli grandemente, e si disobbligava regalandogli quasi sempre marzolini e due volte anche «due schiavi sani e belli». Il Gran Duca avea sin dal 1591 dimandato informazioni sul Campanella al suo Agente in Napoli, Giulio Battaglino, napoletano e prete, stato già al suo servizio in Roma quando il Gran Duca era Cardinale ed egli emigrato, come ci risulta dal suo Carteggio e da quello del Residente Veneto: noi avremo a parlare ancora in sèguito del Battaglino e de' suoi dispacci intorno al Campanella, e quindi è tutt'altro che inutile avere notizie precise delle sue condizioni. Al Battaglino giunse l'incarico d'informarsi del Campanella mentre costui trovavasi già carcerato in Napoli, e rispose «che per trovarsi lui prigione per causa di religione, né haveva potuto trattar seco né conveniva intrigarsi in tal genere di imbarazzi». Ma in sèguito, forse dopo nuove sollecitazioni, in data del 14 7bre 1592 ne diede migliori informazioni, dicendo che fra Tommaso aveva facilmente superato il travaglio in cui era stato posto per invidia; che l'indomani sarebbe partito per Roma a procurare il gastigo del calunniatore; che era uno de' più rari ingegni, come poteva giudicarsi dagli scritti che egli aveva visti e dalla voce che ne correva, e di qua gli era nata l'accusa che avesse alcuno spirito familiare; con lo scudo di alcun principe se ne poteva sperare gran cose. Ben si vede che egli rispondeva nel modo più favorevole, ma non si mostrava bene informato del vero andamento de' travagli del Campanella; né abbiamo mancato d'indicarne a suo tempo tutte le possibili ragioni.

Giungeva intanto il Campanella a Firenze, verosimilmente dopo le novelle commendatizie avute da D. Lelio Orsini. Egli vi si dovè trovare per lo meno verso la fine di 7bre 1592, rilevandosi da' documenti illustrativi di questo periodo che il 2 8bre di tale anno era stato già dall'Usimbardi introdotto presso il Gran Duca, il quale l'accolse molto bene, gli consigliò di lasciare i frati che perseguitavano i virtuosi e gli diede anche un po' di danaro: al tempo medesimo ordinò all'Usimbardi di scrivere a Baccio Valori, che facesse vedere la Biblioteca Palatina al Campanella e con tale occasione ne conoscerebbe il merito, come anche al Generale de' Domenicani, che si compiacesse dar licenza al Campanella di poter assumere il servizio al quale intendeva chiamarlo e di poter dare alle stampe i suoi lavori; in tal guisa egli mostrava il suo buon animo e veniva a procurarsi intorno a lui informazioni novelle. Durante l'udienza il Campanella dovè offrire al Gran Duca la dedica del suo libro che fu poi intitolato De sensu rerum, e che allora avea per titolo De sensitiva rerum facultate, dedica che vedremo poi come e perché non ebbe effetto. La lettera a Baccio Valori fu presentata dal Campanella medesimo il 13 8bre, ed il 15 egli rispose all'Usimbardi aver visto il Campanella, «giovane di senno maturo, e di varia dottrina e recondita come si trae da' suoi dotti ragionamenti, non meno che dall'opera per lui stampata con titolo de philosophia sensibus demonstrata, dov'è seme dell'altra ch'egli dedica a S. A. de sensitiva rerum facultate»; ma notò, che «procurandosi oggi in Roma per alcuni proibire la Filosofia del Telesio con colore che la pregiudichi alla Teologia scolastica fondata in Aristotile da lui così riprovato, corre qualche risico conseguente ancor esso, e per ventura il più terribile per eccellenza de' suoi concetti, che veramente sono e alti e nuovi». Aggiunse che avea saputo da lui avere scritto del dogma di Pitagora e così pure di Empedocle in versi eroici, aver fatto un trattato De insomniis e un altro De sphera Aristarchi, avere per le mani un'opera maggiore De rerum universitate, «un'intera filosofia da sè, al quale studio potrà rimettersi a primavera, che arà stampato quello a Venezia per dove parte domattina». Da ultimo fece conoscere che il Campanella avea veduta la Libreria a sua soddisfazione, ed anche discusso a lungo con due letterati sopra varie materie ben ardue, riuscendo a far «maravigliare, se non credere a modo suo» poichè stimava ben poco Aristotile. - Come si vede, nello splendido elogio non mancavano macchie di tinta molto oscura, d'onde emergeva che sarebbe stato meglio per lo meno non aver fretta a legarsi con questo giovane, il quale sprezzava troppo Aristotile, oltrechè poteva trovarsi compromesso con Roma essendo Telesiano: e resti chiarito che non solo da quegl'infelici frati di Calabria, ma anche da questo pezzo grosso di Toscana, dove pure si era menato tanto scalpore pel Platonismo, il Campanella venne avversato, e furbescamente avversato, per le sue dottrine antiaristoteliche. Essendo stato sempre sagacissimo, dai discorsi tenuti il Campanella dovè capire la posizione e decidersi ad andar via senza ritardo; tanto più che conosceva pure essersi scritto al P.e Generale, e naturalmente aveva da attendersi poco di bene da quest'altra parte. Non lasceremo di dire che i due letterati, co' quali il Campanella ebbe a discorrere nella Biblioteca in presenza del Valori, furono con ogni probabilità Ferrante de' Rossi e il P.e Medici, da lui ricordati tanti anni dopo nella lettera che pubblicò il Fabroni: il P.e Medici specialmente dovè essere quel Teologo fiorentino col quale egli disputò intorno alle anime de' bruti ed alla vita futura di esse, avendo il fiorentino sostenuto che quelle anime nella fine del mondo sarebbero risuscitate ed avrebbero avuto premio o pena, secondochè il Campanella medesimo ci lasciò scritto nella nuova composizione che ebbe a fare della sua opera De sensu rerum.

Nella stessa data del 15 ottobre il Campanella scriveva una lettera al Gran Duca ed un'altra all'Usimbardi. Verso il Gran Duca si mostrò consapevole di non essere stato «accettato per servitore di subito», si augurò che lo sarebbe in sèguito, lo ringraziò dei favori ricevuti, espresse il suo stupore per la magnifica Libreria veduta, annunziò che se ne andava a Padova, come ne avea manifestato il disegno, e che là sarebbe rimasto pronto ad ogni menomo cenno di S. A. Verso l'Usimbardi si mostrò grato ed obbligato, si augurò che lo appoggerebbe ancora in sèguito presso il Gran Duca, ripetè il suo stupore per la Libreria di S. A., annunziò che sarebbe partito l'indomani o al più l'altro domani. Adunque il 16 o 17 8bre il Campanella mosse da Firenze per Padova, ma si fermò in Bologna, dove ricominciarono i suoi malanni. Aggiungiamo intanto che venne poi la risposta del P.e Generale al Gran Duca, in data del 13 9bre ed in termini punto rassicuranti, ciò che non può far meraviglia oggi che abbiamo posti in luce i fatti avvenuti al Campanella in Napoli e in Roma. «Alquanto differente relazione tengo io del Padre Fra Tomaso Campanella, di quella è stata fatta a V. A. S. per quanto posso comprendere dalla sua amorevolissima scrittami. Con tutto ciò volendosi lei servire dell'opera sua, acciò non resti defraudato del suo buon desiderio, io farò prova del valore e sufficienza sua, e trovandolo atto per servire un tanto Principe qual è V. A. S., gli comandarò ubbidisca a' suoi cenni, che mi sarà sempre singolar favore si degni prevalersi della mia religione, come io indegno capo di essa desidero tanto servirla. Farò insieme rivedere quell'opere che egli ha preparato per dare alla stampa, come comanda il sacro Concilio di Trento e gli ordini della Religione, ed essendo trovate tali che meritino uscire in luce, molto volontieri gli comandarò che le faccia stampare e che serva V. A. S. in tutto e per tutto» etc. Tale fu la risposta del P.e Generale, fra Ippolito M.a Beccaria, di cui abbiamo già avuta occasione di dare qualche cenno altrove. Sollecito della distinzione che ridondava in beneficio dell'Ordine, premuroso di mostrarsi ossequente al Gran Duca, egli trovavasi in imbarazzo: non voleva dire che il Campanella fosse stato veementemente sospetto di eresia, ma non poteva non tenerne conto: con ogni probabilità si preoccupava anche di qualche altra possibile eresia nelle opere che il Campanella intendeva di stampare, e quindi vedeva indispensabile farle esaminare scrupolosamente. Possiamo con ciò spiegarci pure molto bene quanto accadeva in sèguito.

Come abbiamo detto, andando a Padova il Campanella si fermò in Bologna: non sappiamo quanto tempo vi sia rimasto, ma verosimilmente vi rimase ben poco, ed ecco ciò che nel Syntagma si legge essergli avvenuto. «Mentre stava in Bologna mi furono portati via di soppiatto tutti i sopradetti libri e certe Poesie latine non dispregevoli, come pure il primo libro della Fisiologia composto di dispute contro tutte le sette, al quale doveano far sèguito altri 19 libri già meditati». E più oltre: «di poi tutti i libri perduti in Bologna li trovai (a Roma) nel S.to Offizio, ove interrogato li difesi, né pertanto li richiesi, essendo sul punto di rifarli migliori». Ecco una prima perdita completa delle opere sin allora scritte dal Campanella, all'infuori della Philosophia sensibus demonstrata già data alle stampe, e rifacendone l'elenco abbiamo: 1° l'opera De investigatione rerum; 2° quella De sensitiva rerum facultate o De sensu rerum; 3° il Carme De Philosophia Pithagoreorum; 4° il Carme De Philosophia Empedoclis; 5° il trattato De insomniis; 6° il trattato De Sphera Aristarchi; 7° i due primi libri De rerum universitate o De Metaphysica; 8° il primo libro della Physiologia, come il Campanella si compiacque denominare la Filosofia naturale. Facciamo avvertire che quando il Campanella ricompose l'opera De sensu rerum, definì un furto la perdita di questa sua opera con le altre, e l'attribuì a «falsi frati»; notiamo inoltre che potrebbero un giorno tutte queste opere tornare alla luce del sole, poichè dovrebbero tuttora trovarsi nell'Archivio del S.to Officio, e sarebbe ad ogni modo curioso il vedere se e quali modificazioni successive di sostanza sieno state dall'autore introdotte nell'opera che ebbe speciale premura di ricomporre, vogliamo dire nell'opera De sensu rerum. - Non è difficile frattanto interpetrare come abbiano dovuto veramente passare le cose in Bologna. Mettendo il fatto in riscontro con la lettera del P.e Generale al Gran Duca, sembra ben chiaro questo, che il P.e Generale si attendeva dal Campanella l'invio de' manoscritti per la revisione, la quale egli non poteva ignorare esser necessaria; il Campanella non se ne dovè curare, e il P.e Generale, nell'impegno di compiacere il Gran Duca con la maggior sollecitudine, comandò che i manoscritti fossero presi ed inviati immediatamente al S.to Officio. Vedremo pure che il Campanella trovò poi il P.e Generale in Padova nel suo arrivo in quella città, mentre la lettera di lui al Gran Duca fu spedita da Milano: si potrebbe quindi affermare che il P.e Generale medesimo sia andato a Padova per affrettare la presa de' manoscritti, e che il Campanella, conosciuta questa circostanza in Bologna, vi si sia trattenuto, ma il P.e Generale ebbe facilmente modo di colpirlo anche in Bologna, ed egli, cessato il motivo di trattenervisi e naturalmente disgustato, se ne partì in fretta, sicchè nello stesso mese di 9bre dovè trovarsi in Padova. Ad ogni modo i frati di Bologna, che certamente non avevano alcun motivo di portargli odio, furono falsi verso di lui sol perché presero i manoscritti a sua insaputa, ma la loro condotta non fu spontanea, e lo dimostra l'invio che ne fecero al S.to Officio. D'altro lato nulla autorizza veramente a credere che egli abbia in Bologna trattato di avere una cattedra, secondochè il Berti ha creduto di vedere.

Ecco ora il Campanella in Padova, verosimilmente nel 9bre 1592, e certamente nel convento di S. Agostino, come egli medesimo ricordò poi nella sua lettera al Galilei che è stata pubblicata dal Berti. Poniamo qui la notizia che si fece assegnare nello studio di Padova come spagnuolo, e non come calabrese: egli rammentò più tardi tale circostanza, allorchè si trovò carcerato in Napoli fra le mani degli spagnuoli, e l'addusse in prova della sua devozione alla Spagna. Questa «assegnazione nello studio» conduce naturalmente a credere che si tratti della iscrizione nell'Albo della nazione spagnuola come si usava da coloro i quali accorrevano allo studio pubblico mantenuto con tanto lustro dal Governo Veneto; essi aveano cura di dare il loro nome alla Nazione rispettiva. Se non che l'assegnazione è veramente un termine fratesco sinonimo di destinazione, trovandosi anche non di rado denominato Studio tra' frati quel convento o parte di convento in cui si raccoglievano i frati studenti; e i Domenicani, almeno a quei tempi, si dicevano «studenti formali» persino varii anni dopo di essere stati ordinati sacerdoti; ne incontreremo qualche esempio tra' frati calabresi che figureranno più tardi ne' processi della congiura ed eresia del Campanella. Tuttavia non ci ripugna menomamente ritenere che il Campanella si sia iscritto nell'Albo degli spagnuoli, conoscendosi che mediante una piccola moneta da pagarsi nell'atto dell'iscrizione si venivano ad acquistare alcuni vantaggi, diversi secondo gli statuti e i diritti consuetudinarii appartenenti alle diverse Nazioni, e che s'iscrivevano nell'Albo, con la menzione delle rispettive qualità e della moneta pagata, non solo gli studenti, ma anche i visitatori dello Studio, che si trattenevano qualche tempo in Padova non propriamente per seguire i corsi delle lezioni. Come si vede, la cosa è ben diversa dall'«iscrizione nelle matricole dello Studio di Padova»: e dobbiamo dire che in una delle nostre escursioni in quella città abbiamo avuto cura di ricercare nell'Archivio dello Studio se vi fosse rimasta traccia del Campanella; ma degli Atti delle Nazioni non abbiamo trovato che sei volumi della Nazione alemanna, due della Nazione polacca, uno solo della Nazione ultramarina e contenente appena la serie e gli scudi de' consiglieri, sindaci, esattori ed altri officiali della Nazione.

Pertanto fin da' primi giorni della dimora in Padova, il Campanella si trovò involto in un brutto processo, che non intendiamo come sia stato confuso con gli altri venuti in sèguito. «Quasi tre giorni» dopo il suo arrivo, secondochè egli scrisse in una delle sue lettere, trovandosi il P.e Generale nel convento di Padova, accadde di notte uno di que' fatti scandalosi, proprii di giovani scostumati ed immorali, come ve n'erano tanto spesso tra' frati di quel tempo: il P.e Generale patì una violenza che non occorre specificare; il Campanella, di recente venuto, ne fu incolpato da certi suoi compagni, e si noti che egli dormiva con un altro in un letto comune, la qual cosa era allora ammessa per l'abbondanza degli ospiti nei conventi, come ne vedremo più oltre esempi diversi. Tanto per la data, quanto pel genere d'imputazione, il Campanella fu chiamato in giudizio insieme con altri frati. Questo risulta dalle sue stesse lettere, e risulta del pari essersi difeso adducendo, che l'altro compagno il quale dormiva con lui avrebbe dovuto rispondere egualmente della imputazione, e poi egli non avea la vista buona e non avrebbe potuto facilmente accedere presso il P.e Generale. «Ma l'iniquità, egli dice, non cercava il delitto, bensì cercava di farmi delinquente»; e ciò indurrebbe a credere che dovè rimanere carcerato e maltrattato per qualche tempo. Giunse tuttavia a riacquistare la libertà, naturalmente per insufficienza d'indizii, o per avere «purgato gl'indizii» con qualche tormento; ma rimase la memoria di questo processo, e forse ad esso mette capo l'affermazione del Parrino e del Giannone, che il Campanella era stato già prima carcerato anche «per la sua vita poco esemplare e pe' suoi difformi costumi».

Venuto in libertà, probabilmente con la clausola di dover essere pronto a rispondere novis supervenientibus inditiis giusta la procedura del tempo, egli ricominciò a scrivere ed anche ad insegnare e a disputare. Le notizie di ciò che egli scrisse in Padova trovansi al solito nel Syntagma, bensì in molto disordine, vedendosi stranamente intralciato il ricordo di ciò che scrisse in Padova e di ciò che scrisse in Roma allorchè ebbe a fermarsi per la 2.a volta in questa città; ecco quanto se ne può cavare di più sicuro, e preghiamo di tenerlo presente poichè costituisce il sèguito del Catalogo delle opere del Campanella. «Niente sconfortato da queste perdite (le perdite fatte in Bologna) cominciai di poi in Padova ad instaurare la Filosofia di Empedocle, e scrissi una nuova Fisiologia secondo i proprii principii indirizzandola a Lelio Orsini. Similmente, per ordine dello stesso Orsini, un Apologetico dell'origine delle vene de' nervi e delle arterie e della pulsazione, per commentario del Telesio sul tema, che l'Animal universo etc., contro Andrea Chioco medico Veronese che avea scritto contro Telesio, e mandai questo opuscolo ad Antonio Persio Telesiano, dimorante in Roma presso Lelio Orsini. Dettai anche una nuova Rettorica ad alcuni nobili scolari Veneti. Di poi tradotto a Roma perdei tutti questi libri». Fermandoci a questo punto per ora, notiamo che il Campanella cominciò dal rifare non l'opera «De sensu rerum», ma il suo lavoro sulla Filosofia d'Empedocle che avea già scritto altra volta in versi latini; inoltre scrisse una Fisiologia, che probabilmente fu un trattato destinato a servire per dettare lezioni; né deve sfuggire la dedica fattane a D. Lelio, e la composizione dell'Apologetico per ordine dello stesso D. Lelio, ciò che mostra una corrispondenza continua con lui, come non deve sfuggire la scrittura della Rettorica per uso accertato di un privato insegnamento. Aggiungeremo poi qualche notizia intorno a quell'Andrea Chiocco medico Veronese, contro cui ebbe a scrivere l'Apologetico per Telesio. Il Chiocco, o Chioco, è ben noto a' cultori della letteratura medica, come medico, filosofo, poeta, naturalista, istorico: l'opera nella quale parlò de' polsi, e rimbeccò il Telesio, fu quella intitolata «Quaestionum philosophicarum et medicarum libri tres, Veron. 1593», ed essa è divenuta estremamente rara come la più gran parte delle opere sue. Qualche altra notizia più intima intorno a lui ci è accaduto di trovare nell'Archivio di Urbino oggi trasportato a Firenze, essendovi stata occasione di parlare del Chiocco quando il Duca di Urbino, nel 1600, commise al suo Agente di Roma di cercargli un medico: il Card.l di Verona propose in primo luogo il Chiocco, e lo disse molto giovane (avrebbe nel 1593 avuto circa 29 anni), non molto agiato, ma molto dotto, con buon fondamento di lettere greche e di filosofia; era dunque una persona distinta, ed è superfluo dire che non fu prescelto. - Continuando la notizia delle opere composte dal Campanella in Padova, per quanto possiamo decifrarla dal Syntagma, ecco un altro brano di questo libro che ne compie la serie. «Dippiù, richiestone scrissi in lingua volgare una Consultazione, se convenga alla Repubblica Veneta permettere che gli Oratori degli altri Principi parlino nella propria lingua in Senato, e la diedi ad Angelo Correo Patrizio Veneto. Avea pure scritto un Commentario sulla Monarchia de' Cristiani, tale da non avermene a dolere, dove mostrava con quali arti la potenza Cristiana crebbe e crescerà, con quali suole decrescere, con quali sia da recuperarsi, politicamente parlando, ed istituiva un parallelo tra il Regno e i Re degli Ebrei, e il Regno i Re e gl'Imperatori de' Cristiani. Parimente scrissi al Pontefice Sul Reggimento della Chiesa, con quali modi, non soggetti alla contraddizione dei Principi, il Pontefice massimo mediante le sole armi ecclesiastiche può di tutto il mondo fare un solo ovile sotto un solo Pastore, i quali ultimi libri diedi a Lelio Orsini e Mario Tufo, ma l'autografo lo rubarono in Calabria amici infedeli». Queste furono le numerose opere composte in Padova, cioè a dire durante tutto il 1593 e buona parte del 1594, in mezzo a molte angustie come vedremo tra poco. Indubitatamente il Campanella in tale periodo diè buona prova di quella grandissima operosità, che si può dire essere stata sempre la sua gloria maggiore, e si può dire anche essere stata la salvezza sua: non avrebbe potuto reggere a tanti colpi avversi, ma l'occupazione continua glie li fece sentire meno vivamente, e forse impedì che ne rimanesse schiacciato. Una sola osservazione intanto vogliamo fare sulle opere anzidette, ed essa è che le due ultime, quelle Della Monarchia de' Cristiani e Del Regime della Chiesa, entrambe di ordine politico-religioso, trovandosi in coda all'elenco debbono rannodarsi all'ultimo periodo della permanenza del Campanella in Padova, al periodo de' nuovi e gravi travagli che vi soffrì; e bisogna tener conto di questa circostanza, per intendere non tanto lo spirito, quanto la misura delle dottrine che vi si fece a sostenere.

Con ogni probabilità il Campanella, non ostante il suo privato insegnamento, dovea menare in Padova una vita molto misera, e sospettiamo che i frequenti invii di opere a D. Lelio Orsini e a Mario del Tufo, tra gli altri significati, aveano anche quello di un certo modo di chiedere sussidii usato ed abusato in ogni tempo da' letterati poveri; oltracciò il processo già sofferto dovea farlo tenere sotto una sorveglianza speciale ed anche puntigliosa, come si argomenta dal vederlo continuamente oppresso da imputazioni diverse, talune insulse e talune serie, piene di grave pericolo sempre. Così ci spieghiamo in pari tempo una sua nuova e curiosa pratica presso il Gran Duca di Toscana, per sollecitare la concessione della cattedra, mentre l'opera De sensu rerum con la dedica già fatta non avea potuto più stamparsi, e le informazioni ulteriori del P.e Generale non avrebbero potuto riuscire altrimenti che pessime: era un tentativo disperato, che solo uno stringente bisogno poteva suggerire. Ad ogni modo il tentativo fu fatto con una lettera al Gran Duca in data del 13 agosto 1593, che è quella pubblicata dal Palermo. Il Campanella vi dice essergli stata proposta in Padova una lezione di Metafisica da alcuni gentiluomini, ma egli si riteneva impegnato con S. A., cui rammenta la parola data, e dichiara non poter mai immaginare che S. A. abbia mutato parere, «non essendo proprio di Signori». Si mostra per altro informato di ciò che accadde negli ultimi giorni della sua dimora in Firenze: «mi si scrive che alcuni, gonfi di quella vana sorte che suole apportar la ipocrisia, abbian proposto a V. A., per la mutazione che avverrà da le nuove mie dottrine, che non doveva ricevermi, e questo il medesimo dì che io mi partii da lei» (allusione evidente a Baccio Valori, che avea scritto appunto in tal senso e in tale data con molta ipocrisia). Del resto afferma che saprebbe anche meglio degli altri dettare le dottrine Aristoteliche (la qual cosa conferma quanto fosse stringente il suo bisogno), e supplica che faccia scrivere se egli debba avere quella lezione o aspettare ancora. - Non è dubbio che S. A. gli abbia scritto o fatto scrivere in suo nome evasivamente; tale risposta dovè essere portata al Campanella nel convento di S. Agostino dal Galilei lettore in Padova, come si può argomentare da' ricordi che poi ne fece il Campanella medesimo al Galilei ed anche a Ferdinando più tardi, quali si leggono nelle lettere pubblicate dal Berti e dal Fabroni. Aggiungiamo che per colmo di dolore il Campanella, 4 anni dopo, potè forse conoscere che ad insegnare in Pisa era chiamato quel dot.r Marta, contro cui egli avea fatto le prime armi combattendo Aristotile; bensì era chiamato ad insegnare jus Cesareo, non già filosofia.

Vennero intanto successivamente istituiti in Padova nuovi processi contro il Campanella, e per verità non sapremmo affermare che al tempo in cui mandò la lettera al Gran Duca non ne avesse già avuto ancora un altro dopo quello relativo all'insulto gravissimo patito dal P.e Generale: poichè conosciamo molti capi di accusa a' quali fu chiamato a rispondere, e certamente ve ne furono anche altri, mentre egli sempre costumò non propalarli o non specificarli appieno; ma non conosciamo in che modo que' capi di accusa sieno stati aggruppati per aversi i «cinque processi», che nella lettera allo Scioppio pubblicata dallo Struvio chiaramente affermò avere avuti. A quanto pare, due nuovi processi egli dovè avere in Padova, venendo poi l'ultimo, assai più grave dell'altro, compiuto in Roma, con la giunta di ulteriori capi di accusa sorti in sèguito, e dell'esame delle opinioni sospette consegnate nel libro De sensu rerum; ciò nel corso del 1593 e 1594, poichè vedremo da un documento irrecusabile trovarsi nella fine del 1595 già esaurito in Roma l'ultimo processo sorto in Padova, ed esaurito anzi da qualche tempo. - Meditando sulla lettera allo Scioppio pubblicata dallo Struvio, la quale offre in modo più ordinato i capi di accusa, ed aggiungendovi ciò che si rileva dalla lettera al Papa, apparirebbe plausibile il dire che in uno di questi nuovi processi (3° per data) gli siano state fatte due imputazioni, aver composto il libro De tribus impostoribus, ed essere seguace delle dottrine di Democrito; nell'altro poi (4° per data) dovè rispondere ancora a due imputazioni, divenute non si sa quante per via, professare dottrine eretiche, e non aver denunziato un giudaizzante col quale avea disputato de Fide; né occorre dire che l'ultimo suo processo (il 5°) fu quello sostenuto in Napoli, con le accuse di tentata ribellione ed eresia.

Alle imputazioni dell'avere scritto il libro De tribus impostoribus, e dell'essere seguace delle dottrine di Democrito, il Campanella potè rispondere, che aveva appunto scritto contro Democrito e che il libro attribuitogli era stato già stampato 30 anni prima che egli nascesse. Vede ognuno quanto sarebbe importante possedere gli atti di tale processo, mentre a tutt'oggi nulla è stato posto ancora in sodo circa il libro in quistione, e si dubita perfino che esso sia mai esistito. Con la sua immensa erudizione il Campanella potea fare meglio di chicchessia la storia di questo libro: per lo meno egli dovè fornire tutte le particolarità dell'edizione, che ci lasciò appena accennata e ci riesce affatto ignota. Noi siamo convinti che dandosi agli eruditi l'accesso all'Archivio del S.to Officio, la Chiesa medesima vi guadagnerebbe da tutti i lati, e vorremmo avere tanta autorità da meritarci credito: per lo meno non si vedrebbero più malamente confuse l'Inquisizione di Spagna e quella di Roma, che funzionarono con una misura ben diversa, e senza dubbio si modificherebbe radicalmente l'opinione tanto sparsa de' procedimenti iniqui usati dall'Inquisizione Romana. Nel caso presente, si vedrebbe anche come il Campanella abbia avuto tutto l'agio di difendersi e guadagnarsi l'assoluzione.

Più malagevole dovè riuscire il discolparsi del non aver rivelato il giudaizzante col quale avea disputato de Fide, e di essersi reso colpevole di eretica pravità come allora si diceva. La denunzia era di obbligo assoluto, e la mancanza di essa nelle circostanze indicate bastava a far nascere il sospetto di eresia. Forse il Campanella potè dapprima addurre essersi l'opponente dichiarato vinto nella disputa, e quindi a lui rimanere il merito di averlo convertito; ma ciò non lo disobbligava dal farne parola al S.to Officio, e d'altronde il giudaizzante dovè mostrarsi pervicace: né diciamo ciò a caso, ma dopo la matura considerazione di quanto il Campanella ne lasciò scritto, e dopo il fatto di un giudaizzante da noi rinvenuto nelle scritture di questo periodo, da potersi riferire appunto a' travagli del Campanella. Cominciamo dal notare che questi travagli avuti pel giudaizzante son citati dal Campanella non solo nella lettera al Papa, dove son posti in primo luogo (mentre nella lettera allo Scioppio pubblicata dallo Struvio mancano affatto), ma son citati anche nella Narrazione pubblicata dal Capialbi, dove figurano quasi come i soli travagli avuti dal S.to Officio, prima de' travagli di Napoli. Le parole testuali della lettera sono, «primo ex dicto unius Judaizantis molestatus»; quelle della Narrazione (pag. 52) sono, «fu travagliato.... nel S. Officio perché non rivelò un fugitivo hebraizante con cui esso Campanella disputò de Fide in Padova, e quello fu poi carcerato a Verona». La parola «fuggitivo» nella terminologia del S.to Officio significa uno che è scappato dal carcere od anche si è sottratto alla forza mandata a catturarlo, ciò che bastava a costituirlo in una certa convinzione della colpa appostagli; invece nella terminologia fratesca significa un frate che ha abbandonato l'ordine monastico, e nella terminologia de' disputanti significa uno che usa un ripiego per cessare dalla disputa sentendosi vinto; non ci pare dubbio che in uno di questi due ultimi sensi la parola «fuggitivo» abbia dovuto essere adoperata dal Campanella. Questo frate dunque, mostratosi ebraizzante nella disputa avuta col Campanella in Padova, fu poi carcerato in Verona, e pel detto di lui solo il Campanella venne travagliato. Ora ricercando le scritture di questo periodo noi abbiamo trovato il ricordo di un frate Antonio da Verona coll'abito di cappuccino, il quale per avere sostenuto che Cristo non avea redento il genere umano, come eretico pervicace finì per essere bruciato vivo in Campo di Fiori il 26 7bre 1599, dopo di essere stato varii anni nelle carceri del S.to Officio. Veggano i discreti se non sia plausibile mettere questo fatto in rapporto con le cose del Campanella, e metterlo nel modo da noi tenuto.

Merita intanto di essere considerata l'importanza di questo processo pel povero Campanella, e ciò che andiamo a dire valga anche pel successivo ed ultimo processo di Napoli. L'essere stato già una volta condannato ad abiurare come veementemente sospetto di eresia lo costituiva nella terribile condizione di «relapso», e qualora fosse stata provata in tutta regola la sua colpa, il destino suo non poteva esser dubbio: per la nota massima della giurisprudenza del S.to Officio «lapso non relapso parcitur», egli avrebbe dovuto essere degradato e consegnato alla Curia secolare, con la solita raccomandazione rutinaria di punirlo senza pericolo di morte e senza effusione di sangue e mutilazione di membra, della quale raccomandazione era bene inteso che la Curia secolare non tenesse conto, o ne tenesse conto adoperando un genere di supplizio tale da non recare né effusione di sangue né mutilazione di membra. Così il condannato era bruciato vivo, quando si mostrava impenitente, od era invece prima appiccato vicino al fuoco e poi bruciato, quando era penitente, giusta la massima che tale ultimo supplizio «et humanius est, et viam desperationis claudit, et ad poenitentiam provocat». né si pensi che trattandosi di un'eresia diversa dalla precedente, non fosse il caso vero del relapso: l'essere ricaduto nell'identica eresia costituiva uno de' casi, e propriamente de' casi estremi del relapso, ne' quali non doveva neanche accordarsi la difesa, e il colpevole era «sine ulla penitus audientia brachio saeculari tradendus, ultimo supplicio feriendus». Ma i casi del relapso erano varii, c'era perfino quello di aver fatto semplicemente qualche favore ad un eretico dopo di avere già una volta abiurato; e la conseguenza era sempre la stessa, consegna al braccio secolare per l'amministrazione dell'ultimo supplizio, previa la degradazione quando trattavasi di un ecclesiastico. Solo si voleva che il colpevole fosse «legitime convictus»; e parrebbe che il Campanella abbia avuto ricorso pure a quest'àncora di salvezza sostenendo l'insufficienza del teste unico, secondo la massima generalmente valevole in S.to Officio «vox unius vox nullius», come si può fino ad un certo punto argomentare da quelle sue parole che implicano anche una discolpa, «ex dicto unius Judaizantis molestatus».

Dopo tutto ciò risulterà senza dubbio naturalissimo che il Campanella, nell'ultimo periodo della sua dimora in Padova, e verosimilmente durante la sua prigionia, non si sia tanto occupato di filosofia quanto di politica e di religione, procurandosi buoni pezzi di appoggio per la tempesta che minacciava sommergerlo. Così nacque l'opera della Monarchia de' Cristiani, e subito dopo anche l'altra Del Regime della Chiesa indirizzata al Pontefice, sfoggio di dottrine ultra-teocratiche e di fervore religioso; e ci pare che debba tenersi conto delle circostanze nelle quali furono scritte queste opere, semprechè si voglia portare sopra di esse un equanime giudizio. Vedremo pure in sèguito il nostro filosofo, in determinati momenti molto critici della sua vita, assumere un atteggiamento che per lo meno deve dirsi di esagerazione, una volta anche verso i Principi, un'altra volta di nuovo verso il Papa; ed egualmente di questo ci pare che debba tenersi conto. né diremo già che in fondo egli non credesse alla teocrazia come sistema di governo, che non amasse l'estirpazione perfino violenta delle sètte religiose per vedere almeno tutta la parte civile dell'umanità stretta in un fascio solo, che non ritenesse la religione fortemente disciplinata indispensabile anche come strumento di civiltà; ma ci periteremmo assaissimo di affermare che nel fondo dell'animo suo egli volesse davvero la teocrazia rappresentata dal Papa e da' Cardinali, la religione rappresentata da tutto il complesso delle dottrine cattoliche etc.; tutti sanno che uomini non volgari, e di eccellente odorato, dalle medesime sue opere politico-religiose trassero già il convincimento che esse esprimessero ben altro di quello che facevano le mostre di esprimere. Ma non possiamo né dobbiamo entrare in simili discussioni, e solo vogliamo giustificare il nostro proposito di crederci nello strettissimo dovere di far sempre rilevare in quali condizioni le sue diverse opere furono scritte; segnatamente poi per quella Del Regime della Chiesa notiamo anche in anticipazione, che mentre chiaramente trovasi registrato nel Syntagma essere stata scritta in Padova senza che apparisca alcun motivo per dubitarne, il filosofo medesimo, nella Difesa che presentò ad occasione del 5° processo di eresia avuto in Napoli, la annunziò siccome scritta in Stilo ne' tempi immediatamente anteriori a quelli di tale processo, naturalmente pe' nuovi bisogni di quest'altra sua gravissima causa. Aggiungiamo inoltre che egli ebbe una cura speciale della conservazione di entrambe queste opere, Monarchia e Regime, facendone l'invio a D. Lelio Orsini e a Mario del Tufo, sicchè non ebbe a perderle con le altre al momento in cui fu tradotto a Roma, e ciò naturalmente perché doveano servirgli allo scopo suddetto. né vogliamo tacere che non ci apparisce realmente derivata da queste opere, ossia dalle dottrine consegnate in queste opere, la persecuzione continua sofferta dal Campanella in Padova, come lascerebbe sospettare una proposizione emessa dal Naudeo tanti anni dopo: il Naudeo, amicissimo del filosofo, e durante la vita e dopo la morte di lui fu solito d'ingarbugliare il ricordo delle cause, per le quali egli era stato perseguitato; d'altra parte il Governo Veneto era solito di perseguitare esso medesimo e di non lasciare impuniti i fautori della supremazia Papale.

IV. Eccoci ora al trasferimento del Campanella da Padova a Roma. Abbiamo già accennato che questo dovè accadere verso la fine del 1594, poichè il processo iniziato in Padova, certamente assai grave ed aggravatosi sempre più per via, era già esaurito in Roma prima della fine del 1595; e ci parrebbe superfluo dire che egli dovè essere tradotto a Roma qual prigioniero, se non ci obbligasse a dichiararlo il fatto che i biografi hanno tutti ammesso un'andata spontanea da Padova a Roma. Il Berti è stato il solo ad avvedersi che l'andata del Campanella a Roma segna il tempo di un suo processo da tutti sconosciuto; se non che egli lo crede il 1° processo, avvenuto non più tardi del 1595 o 96, ed ammette sempre un'andata spontanea del filosofo a Roma, «o fosse irrequietezza sua, o timore di molestia per parte de' frati od anche de' magistrati per causa delle dottrine teocratiche, e più probabilmente per dare ragione di sè al S. Uffizio». Ma sebbene il filosofo non abbia mai parlato molto chiaramente delle sue maniere di andare a Roma, ed anche ad occasione del suo primo trasferimento da Napoli ci abbia fatto leggere nel Syntagma «Romam perrexi», questa volta ci fa leggere il trasferimento da Padova con le parole «Romam perductus»: il D'Ancona, nel recarle in italiano, ha adoperata la frase «portandomi a Roma», ma noi vi abbiamo scorto un senso passivo e non attivo, ed abbiamo perciò adoperata la frase «tradotto a Roma». D'altronde bisogna tener presenti le circostanze di tale andata a Roma, la perdita che vi fece di diverse opere scritte in Padova (la Filosofia di Empedocle, la nuova Fisiologia, l'Apologetico del Telesio contro il Chiocco e la Rettorica, le sole opere che, o in originale o in copia, esistevano presso di lui) e il rinvenimento nel S.to Officio di tutte le altre opere che avea già precedentemente perdute in Bologna (ved. qui pag. 62): questo ci pare che indichi senz'altro essere stato il Campanella strappato bruscamente dal luogo della sua dimora in Padova, poi tradotto a Roma e consegnato nelle carceri del S.to Officio, dove ebbe anche a trovarsi in presenza delle opere toltegli in Bologna, e a doverne rispondere.

Le principali imputazioni, dalle quali dovè difendersi, furono certamente sempre il non aver denunziato l'ebraizzante e l'essersi reso colpevole di eretica pravità. Ma a queste se ne aggiunsero ancora altre, alcune delle quali vennero senza dubbio messe innanzi nel tempo in cui il processo si svolgeva in Padova: esse furono, l'aver composto un empio Sonetto contro Cristo, l'aver manifestato eresie in Calabria, come risultava dalla deposizione di un suo conterraneo accusato egualmente di eresia nel tribunale del Vescovo di Squillace, l'essere stato trovato in possesso di un libro di Geomanzia senza il debito permesso, l'avere enunciate proposizioni censurabili nell'opera De sensu rerum toltagli in Bologna. La 1a e 2a di tali imputazioni aggiunte trovansi registrate nella lettera al Papa ed a' Cardinali pubblicata dal Centofanti, ma vedremo anche nel 5° processo sostenuto in Napoli la deposizione di un suo intimo amico (fra Dionisio Ponzio), nella quale è detto che il Campanella medesimo gli aveva parlato di un Sonetto bruttissimo contro Cristo, e glie lo aveva anche recitato, per lo quale era stato innocentemente inquisito in Roma. La 3a imputazione, quella di essere stato trovato in possesso di un libro di Geomanzia, ciò che ci sembra aver dovuto accadere in Padova nel momento della cattura, trovasi registrata nella Informazione pubblicata dal Capialbi. L'ultima, quella delle opinioni censurabili emesse nell'opera De sensu rerum, trovasi registrata con varie particolarità nell'opera medesima rifatta dall'autore in italiano più tardi e poi pubblicata in latino nel 1620, come anche nella Difesa dell'opera premessa alla 2a edizione di Parigi 1637: in quest'ultimo documento è detto che la risposta agli argomenti degl'Inquisitori fu data nel 1598, e son citati gli Atti del 1598, ma abbiamo ragione di credere che vi sia incorso un errore di data, dovendosi leggere 1595, tanto più che a pochi versi di distanza si ha un altro errore di data manifestissimo, trovandosi detto che la 1a edizione dell'opera fu fatta nel 1617, mentre si sa che fu fatta nel 1620. - Non conosciamo la serie degli argomenti addotti dal Campanella contro ciascuna imputazione, ma non ci manca per taluna di esse qualche indizio e per le altre qualche notizia positiva, che il Campanella medesimo ha avuto cura di fornire. Abbiamo già detto che per la faccenda dell'ebraizzante ci sarebbe qualche indizio dell'essersi il Campanella difeso adducendo che si trattava di un teste unico; ma doverono esservi ancora altri argomenti che non conosciamo. Quanto al Sonetto, egli giunse a dimostrare che apparteneva all'Aretino; quanto all'eresia che si pretendeva aver manifestata in Calabria, lo stesso denunziante si ritrattò, confessando avere inventato il fatto per salvarsi da' pericoli che correva; quanto al libro di Geomanzia, affermò che gli fu preso mentre intendeva portarlo all'Inquisitore per la licenza; quanto alle proposizioni censurabili emesse nell'opera De sensu rerum, ecco in quali termini il Campanella ce ne lasciò il ricordo nell'opera rifatta, e poi anche nella Difesa di essa allegata all'edizione di Parigi. Nell'opera (ms. napoletano) al lib. 2.° cap. 32 scrisse: «L'argomento che mi fece l'Inquisitione contra, et poi restò da me sodisfatto fu questo. Che sequirebbe, che pure i Vermi, et le bestie di questa beata mente fossero informati, et capaci di beatitudine humana; io risposi che non sequita, poichè veggiamo tanti pidocchi et vermi generarsi nella testa dell'huomo, et tanti altri vermi dentro il ventre, et in varii membri et visceri, ne per questo tali bestiole hanno la mente rationale dell'huomo, ma solo il senso breve, et corto dell'altre Belve, cossì dentro al mondo senza quell'anima beata ma non (int. con) sensi partiali, et questa risposta per contrario e certo essempio provata non hanno potuto impugnare gli contradittori». Nella Difesa poi del libro, allegata all'edizione fattane in Parigi nel 1637 (pag. 90) la cosa medesima è espressa ne' seguenti termini; ne diamo tradotto il brano relativo. «Esaminando i Padri i 4 libri nostri manoscritti De sensu rerum non apposero nulla contro il senso naturale delle cose, né che abbia ammesso l'anima del mondo assistente con Agostino, Basilio, il Niceno, il Ficino, e Platone, ma solamente questo: se c'è un'anima del mondo, essa di conseguenza è beatificabile o beata, e però lo sono anche le anime de' bruti e tutte le parti del mondo. Risposi, come si vede negli Atti dell'anno 1598 (ciò che narrai pure nel mio libro De Sensu rerum stampato nell'anno 1617) che se si ammetta un'anima del mondo assistente e reggente con intelligenza beata, che può essere una delle Dominazioni, non per questo le anime de' bruti e le cose naturali senzienti sarebbero del pari beatificabili, poichè non sono della sostanza e derivazioni di quell'anima partecipanti del comune senso naturale; come non vi sarebbero né potenze né appetito delle cose, se non per partecipazione innata delle primalità. Poichè così pure i vermi nati nel ventre e i pidocchi nati nel capo dell'uomo non sono razionali a causa dell'anima razionale dell'uomo, ma solo sensuali a causa del loro partecipare del comune senso, nascendo similmente dalle fecce dell'uomo e da' cadaveri; né conoscono l'anima dell'uomo, come neanche noi conosciamo l'anima del mondo pel senso ma dopo lunghi sillogismi. La risposta medesima dànno S. Gregorio Niceno e S. Agostino sopra citati, che accordano al mondo una virtù razionale quasi anima, poichè ammettono in ciascun ente un'anima propria, emanante o da Dio, come nell'uomo, o dagli elementi, come ne' bruti, nelle piante ecc., o dalla luce sensuale comune a tutti secondochè si è detto nella serie 3a e 4a; ed avendo così risposto, pregai i Governatori del S.to Officio che mi legassero o con ragioni o con precetto, se non dovessi tenere tale opinione; e non vollero, ma concessero la facoltà di tenerla, e i Sig.ri Cardinali Ascolano, Santorio e Sarnano, dottissimi Inquisitori, dissero che io combatteva bene con questa opinione contro gli Atei e in difesa de' Padri».

Così il Campanella giunse a liberarsi da questo processo che poteva riuscirgli fatale, segnatamente per la 1.a e 2.a imputazione, per le quali non conosciamo veramente il suo sistema di difesa, mentre per esse non c'era altro esito possibile che o la liberazione o l'estremo supplizio. Vedremo che quando poi se ne andò in Calabria, parlando col suo amico fra Dionisio del Sonetto malamente attribuitogli, disse che il denunziante era stato condannato alla galera in vita: ma questo riesce poco credibile, poichè uno de' lati deboli del S.to Officio era il non dar travagli a' testimoni o denunzianti, quando le colpe da essi poste innanzi si trovassero insussistenti, e ciò per non intiepidire nel pubblico l'accorrere al suo tribunale; bisognava che vi fosse indizio d'insigne mala fede per deciderlo a colpire i testimoni falsi, ed allora li colpiva con vigore secondo il suo costume. Ad un altro amico (fra Domenico Petrolo) egli disse che era stato rilasciato ac si non fuisset captus: questo ci riesce veramente credibile, ma nemmeno al punto da non ammettere che sia stato obbligato a rimanere in un convento determinato, e propriamente in quello di S.ta Sabina come se n'ha qualche indizio; il foro ecclesiastico, egualmente che il laico, non soleva facilmente abbandonare del tutto chi avea dato motivo di far trattare qualche sua causa, ma lo voleva sotto la mano per qualche tempo. Da ultimo dobbiamo ricordare che parlandosi delle opere presegli in Bologna e trovate presso il S.to Officio, nel Syntagma si legge che non le richiese, essendo sul punto di rifarle migliori: e dobbiamo dire che questo non si comprende agevolmente, poichè quelle opere si trovavano come allegate ad un processo, e in simili condizioni il riaverle non era consentito.

Certo è che molto dovè costare al Campanella il liberarsi da questo processo, e vi fu bisogno di potenti raccomandazioni. Anche per esso, e principalmente per esso, dovè trovare un potente aiuto in D. Lelio Orsini, il quale, come abbiamo già detto, era in buonissimi termini con la Curia Romana e con lo stesso Papa. Un altro aiuto valevolissimo dovè trovare nel Commissario generale del S.to Officio fra Alberto Tragagliolo, che secondo l'uso attendeva alla redazione degli Atti, e poi, sedendo pro Tribunali, emetteva la sentenza data dalla Sacra Congregazione Cardinalizia, alla quale era devoluta la trattazione della causa e la sua decisione: avremo tra poco a parlare di una lettera del Campanella al Tragagliolo, nella quale si vede che il filosofo rimase in corrispondenza col degno frate, e si trova menzionata «la misericordiosa giustizia» di lui, «il grand'obbligo» che il filosofo gli ha, «l'ufficio di pietosa madre» che avea fatto, l'essersi «promesso di conformarsi al senno di lui», il volere «da lui dipendere meritamente»; le quali espressioni verso il Tragagliolo, e l'interesse da costui spiegato di poi anche in Napoli verso il Campanella, mostrano che il Commissario del S.to Officio dovè sentire una grande simpatia pel povero prigioniero, così giovane, così dotto e così disgraziato. Forse egli conobbe le opere della Monarchia de' Cristiani e Del Regime della Chiesa, che certamente non furono presentate in giudizio e non è difficile intenderne le ragioni: così anche conobbe forse il Compendio di Fisiologia e i Discorsi politici, in particolare quelli a' Principi d'Italia, che al pari di talune poesie vedremo essere stati composti nel carcere. Infine il Campanella potè avere l'aiuto anche di personaggi altissimi, dell'Arciduca Massimiliano e dell'Imperatore, i quali scrissero in favore di lui e di Gio. Battista Clario egualmente carcerato, pel cui mezzo egli fece pervenire all'Imperatore una copia de' suoi Discorsi a' Principi d'Italia: questo fatto venne da lui affermato nelle Difese che scrisse ad occasione del processo della congiura avuto in Napoli, né v'è ragione di dubitarne. Ed ecco dove mette capo una certa relazione del Campanella con gli Arciduchi e con l'Imperatore, onde vedremo che egli si rivolse anche a costoro durante il lungo martirio di Napoli. Nello stesso documento è detto avere inoltre inviato all'Arciduca Massimiliano il Dialogo contro i Luterani; ma tale invio potè verificarsi dopo l'uscita dal carcere, giacchè il Dialogo non fu composto prima, e ben si vede che il Campanella ebbe cura di farsi conoscere dall'Arciduca anche posteriormente.

Questo intanto ci conduce a parlare delle opere composte dal Campanella in Roma, de' suoi compagni di carcere, delle poesie che quivi dettò. Nel Syntagma, a proposito de' libri perduti in Padova, si legge: «In Roma dunque dettai di nuovo un piccolo Compendio di Fisiologia, né di esso mi avea dato mai più alcun pensiero, ma l'anno 1611 Tobia Adami l'ebbe da non so chi in Padova e lo pubblicò sotto il titolo di Prodromo di tutta la filosofia del Campanella. Inoltre cominciai un Compendio di Fisiologia, sperando di risarcire la perdita di un grosso volume; ed in esso proponeva le opinioni di tutti gli antichi e le comparava con le nostre, il quale libro mandai poi a Mario Tufo. Al medesimo Mario scrissi un trattato Della prestanza dell'arte cavalleresca». Poi, venendosi a parlare non più per incidente delle opere scritte in Roma, si legge ancora: «In Roma avea parimente scritto in versi toscani Sul modo di sapere e su cose fisiologiche, e perdei l'uno e l'altro libro in Napoli; scrissi anche in Roma una Poetica secondo i proprii principii, la quale diedi a Cinzio Albobrandini Card.l S. Giorgio, e trovasi nelle mani di molti, benchè uno spagnuolo l'abbia tradotta nella lingua sua e vi abbia apposto il suo nome: la qual cosa, allorchè ebbi a vederla in Napoli nel Regio Castello, l'anno 1618, mi mosse ad un riso veramente grandissimo; ma dovunque i nostri esemplari testificano contro il plagiario, e lo stesso ladro, allo scopo di covrire un po' meglio il furto, in fine si scusa perché, quantunque sia spagnuolo, sovente cita poeti italiani come l'Ariosto, il Tasso, il Guarini. Scrissi pure in Roma un Dialogo in lingua volgare, del modo di convincere gli eretici del nostro tempo e tutti i settarii insorgenti contro la Chiesa Romana, buono per qualunque mediocre ingegno, e alla sola prima disputa; lo diedi prima a Michele Bonello Card.le Alessandrino e ad Antonio Persio, ed anche a te non così per tempo io lo concessi, o amicissimo Naudeo, comunque non perché abbi a darlo in luce, mentre da lunga pezza oramai avea trasfuso questo dialogo nella Lettera anti-Luterana a' filosofi e principi oltramontani per instaurare la religione. Inoltre egualmente trovandomi in Roma, diedi agli amici Orazioni, parecchi Discorsi politici, molte Poesie toscane e latine anche da diffondersi col nome loro. Qui pure cominciai a comporre Versi toscani con metro latino, come si veggono nelle nostre Cantiche, e l'Arte metrica della lingua volgare in tutto simile alla latina, con regole sicure onde poter conoscere ed osservare la quantità di ciascuna sillaba, e diedi questa a Gio. Battista Clario medico dell'Arciduca Carlo in Roma e a due giovani Ascolani».

Tale è la serie delle opere composte in Roma nella fine del 1594, nel 1595, 1596 e quasi tutto il 1597, nuovo gruppo che viene ad aggiungersi a quelli delle opere precedenti e ad ingrossare di molto il Catalogo: ma gioverebbe conoscere quali di esse siano state scritte nel carcere e quali fuori, come pure con quale ordine di successione; e il Syntagma non ci dà lumi sufficienti per conoscerlo, che anzi ci apparisce sempre più un'esposizione non solo disordinata ma anche assai oscura in qualche punto di molta importanza. Trovando registrato in primo luogo il piccolo Compendio di Fisiologia, che venne pubblicato poi dall'Adami in Frankfort nel 1617 col titolo di Prodromus Philosophiae instaurandae, si sarebbe autorizzati a classificarlo prima di ogni altra opera di questo gruppo; tuttavia, guardando bene al Syntagma, si rileva che esso trovasi registrato in primo luogo per incidente. D'altro lato abbiamo nella Bibl. Magliabechiana (XII, 5) un Codice intitolato Compendium Ph.iae (sic) Campanellae ad Paulum Attilium, Romae 1595, e, come il prof.r Fiorentino ha fatto notare, esso corrisponde esattamente al Prodromus; possediamo quindi una data certa, la quale autorizza ad ammettere che la detta opera abbia dovuto essere composta nel carcere, ma non necessariamente in primo luogo. E bisogna aggiungere che non manca un fortissimo indizio, da noi trovato in un'opera appartenente ad un compagno di carcere del Campanella di cui si discorrerà tra poco, per lo quale si è autorizzati a dire che questo libro fu «il secondo» tra' libri da lui composti nel carcere; né abbiamo bisogno di far notare, che avendo esso la data certa del 1595, e non essendo stato il primo tra' libri composti in Roma, si può tanto meglio affermare che il trasferimento del Campanella alle carceri di questa città sia avvenuto nella fine del 1594.

Ciò posto, deve dirsi che in tale periodo egli abbia «cominciato» a scrivere l'altro Compendio di Fisiologia, diverso da quello ora contemplato, in risarcimento di un grosso volume perduto che comparava le opinioni degli antichi alle proprie, la quale circostanza autorizzerebbe a dire che egli avesse avuta l'intenzione di risarcire la perdita del libro di Fisiologia sottrattogli a Bologna, composto di «dispute contro tutte le sètte» o veramente del libro De Rerum universitate (confr. pag. 53 in nota). Di certo ne venne fuori l'inizio di ciò che fu poi detto l'«Epilogo» o «Epilogo magno di Filosofia», essendo state le dispute contro le sètte riserbate per un'appendice che fu composta più tardi col titolo di Quistioni; e vedremo che l'opera fu cominciata e poi proseguita in italiano, la quale novità, imitata in sèguito per lungo tempo, merita di essere additata. Ma il lavoro fu presto interrotto per comporre il Compendium Phisiologiae in latino, verosimilmente anche questa volta per dettarne lezioni, e forse a quel Paolo Attilio, che potè essere uno de' due giovani Ascolani sopra menzionati. Seguì poi, con ogni probabilità egualmente nel carcere, la composizione così del trattato della Prestanza dell'arte cavalleresca, come de' Versi toscani sul modo di sapere o su cose fisiologiche, primi tentativi delle poesie filosofiche alle quali il Campanella attese di poi, alcuni anni più tardi: ma dobbiamo assolutamente rimandare all'ultimo luogo la composizione della Poetica, al periodo in cui il Campanella già stava fuori carcere, e si agitava presso il Card.l S. Giorgio per poter tornare in Calabria, cioè nel 1596, come egli stesso dice in un'altra opera analoga; dobbiamo inoltre rimandare egualmente al periodo in cui già stava fuori carcere, ma a' primi tempi di questo periodo, la composizione del Dialogo del modo di convincere gli eretici, pel quale vedremo esservi una data e una dimora certa, lo scorcio del 1595 nel convento di S.ta Sabina. Invece gl'importanti Discorsi politici, che il Syntagma non specifica e che sappiamo essere stati inviati all'Arciduca Massimiliano e all'Imperatore, come anche molte Poesie italiane e latine, i Versi toscani con metro latino, e l'Arte metrica corrispondente che fu donata al Clario, si debbono assegnare al periodo trascorso nel carcere, visto che ne fu fatto dono al Clario il quale fu compagno di carcere del Campanella, come diremo tra poco.

Tutto considerato, bisogna riconoscere che il Campanella in Roma, lavorando assai più nel carcere che fuori, abbia atteso massimamente a procurarsi distrazioni, dapprima con la filosofia e di poi con la poesia; che abbia posto da parte gli sfoggi di teocrazia e di fervore religioso, mentre non gli era stato possibile utilizzare la Monarchia de' Cristiani e il Regime della Chiesa, ripigliando di poi il fervore pel cattolicismo nel suo Dialogo, quando gli fu necessario conciliarsi la benevolenza della Curia, per essere liberato dall'obbligo di risedere nel convento di S.ta Sabina e di non allontanarsi da Roma; che invece abbia posto mano alla politica e ad una specie notevole di politica ne' suoi Discorsi, quando gli fu necessario conciliarsi la benevolenza de' potenti del Nord ed averne lettere commendatizie. - Ci corre intanto l'obbligo di fermarci ancora un poco su questi Discorsi politici composti in Roma. Essi sarebbero i seguenti, e il titolo li qualifica abbastanza: Discorsi a' Principi d'Italia che per bene loro e del cristianesimo non debbono contradire alla Monarchia di Spagna ma favorirla, e come dal sospetto di quella si ponno guardare nel Papato e per quella contra infedeli, con modi veri e mirabili; ad essi venne forse aggiunto pure l'altro assai più brutto, che conservasi ms. nella Biblioteca naz. di Parigi e che 7 anni dopo, se non siamo male informati, venne tradotto in latino e dato alle stampe dal Mylius, Discorso circa il modo col quale i Paesi Bassi, volgarmente di Fiandra, si possino ridurre sotto l'obbedienza del Re Cattolico. Possiamo dire con certezza che i «Discorsi a' Principi d'Italia» non doverono essere scritti in quella forma che ce n'è rimasta: il Campanella ebbe in sèguito a ritoccarli ed anche ad accrescerli notevolmente, come si rileva dalla maniera che tenne nel farne menzione in varie circostanze, ed oltracciò dalle opere che vi si veggono citate e che furono certamente composte più tardi; così ne avremo ancora a parlare nel corso di questa narrazione, e ci riserbiamo di dirne qualche cosa di più a miglior tempo. Ma avendo qui riferite le parole del Syntagma che ad essi alludono, vogliamo richiamare l'attenzione sul fatto singolare, che mentre nel Syntagma si trova registrato sempre il titolo di ogni più umile lavoro, non si trovano invece i titoli de' detti Discorsi e specialmente di quelli a' Principi, che per moltissimi anni, insieme co' Discorsi sulla Monarchia di Spagna dei quali avremo a parlare più in là, furono tra le più stimate opere del Campanella, tanto che se ne trovano ancora molto sparse le copie manoscritte. Siamo nondimeno in grado di spiegarci il fatto, considerando che al Syntagma fu posto mano dal Campanella e dal Naudeo il 1631 in Roma, quando il filosofo godeva la protezione di Papa Urbano VIII, nemicissimo degli spagnuoli ed affettato protettore del Campanella principalmente per fare una dimostrazione di dispetto agli spagnuoli, da' quali il Campanella era stato tenuto tanti anni in carcere e da' quali era in ultima analisi fuggito. La comparsa nel Syntagma di quel titolo de' Discorsi a' Principi, che abbiamo sopra riportato, sarebbe stata una dissonanza enorme coi tempi, co' luoghi, con le circostanze, ciò che non avveniva pe' Discorsi sulla Monarchia di Spagna, dal quale semplice titolo non traspariva se se ne fosse detto bene o male. Dobbiamo poi anche notare, che nell'Informazione pubblicata dal Capialbi lo stesso Campanella fa intendere di avere scritti i Discorsi a' Principi in Padova, «mosso dall'opposizion che li facean li Venetiani»: ma forse, così dicendo, ebbe allora in animo di mascherare il ricordo delle peripezie di Roma; e poichè nel Syntagma non si trovano menzionati Discorsi politici composti in Padova, ma se ne trova invece fatta menzione al tempo della dimora in Roma, mentre d'altra parte qui veramente si offrì una buona occasione per comporli, noi ci siamo attenuti alla notizia comunque vaga del Syntagma, accettando quella dell'Informazione nel senso di stabilire, che i Discorsi a' Principi furono scritti prima di quelli sulla Monarchia di Spagna e in un periodo che del resto sarebbe circoscitto tra il 1593 e il 1595.

Ci faremo ora a vedere i compagni di carcere del Campanella, e le Poesie da lui composte nel carcere per quanto sarà possibile rinvenirne le tracce. Sicuramente fu con lui carcerato Gio. Battista Clario, che nel Syntagma è detto medico dell'Arciduca Carlo; verosimilmente lo furono anche i due giovani Ascolani, de' quali si ha notizia contemporaneamente al Clario, e forse uno di loro ha potuto essere il Paolo Attilio cui venne indirizzato il Compendio di Fisiologia. Non diremo essere stato compagno di carcere anche Giordano Bruno, comunque sia noto che nel tempo medesimo egli penava nel carcere dell'Inquisizione: tutto induce a credere che la sorte del Bruno fosse stata già definita, ed essendo destinato all'estremo supplizio, e dovendo esser tenuto in un carcere più sicuro giusta le regole del S.to Officio, egli si trovava forse nelle carceri di Tor di Nona, come ci è accaduto di rilevare per taluno colpito da gravissime imputazioni, la cui storia si legge nella Raccolta di scritture di S.to Officio esistente nel Trinity-College di Dublino. Ma con ogni probabilità, negli ultimi mesi della sua dimora nel carcere, il Campanella vide entrarvi anche un dotto napoletano, Colantonio Stigliola, che senza dubbio avea già conosciuto presso Gio. Battista Della Porta: ci è infatti venuto tra mano un processo di S.to Officio sinora ignoto contro lo Stigliola, dal quale apparisce che costui trovavasi già carcerato in Roma nel luglio 1595 e rimase carcerato fin dopo l'aprile 1596. Avremo più in là occasione di parlare dello Stigliola e di questo suo processo; per ora basti averlo menzionato quale probabile compagno di carcere del Campanella, importandoci molto di dire invece qualche cosa del Clario compagno di carcere certo. Le nostre ricerche intorno a costui ci menano a ritenere che egli sia stato appunto quel Gio. Battista Clario, di cui si hanno alcuni Dialoghi editi nel 1608, dove trovasi qualificato Protomedico della Stiria, mentre nel Syntagma è detto medico dell'Arciduca Carlo. Egli parrebbe Forlivese di origine, giacchè si ha pure un Francesco Clario appunto di Forlì, che nel 1585 diè alle stampe un Panegirico sull'umanità dell'Arciduca Carlo, dal quale era tenuto a studiare in Padova: ad ogni modo gioverà fermarci un poco su' Dialoghi di Gio. Battista Clario. Fin dalla Dedica di questi Dialoghi trovasi ricordato che essi vennero composti in Roma essendo l'autore molto giovane, ed è notevole che i tre primi hanno per interlocutori un Panfilo ed un Armenio entrambi carcerati. Panfilo vi si rileva giovane di forti studii, colmo di tutti i beni tanto da esserne invidiato, ed allora carcerato da tre anni per un solo e falso calunniatore, dolente di trovarsi in quelle «strane prigioni», accorato della mala opinione che da molti si sarebbe avuta di lui; Armenio vi si rileva già «altre volte trovatosi in simili conflitti», consolatore di Panfilo invitandolo a tener presente tra le altre cose, la bontà di quelli che dovranno giudicarlo; senza essere visionarii, ci pare di poter dire fin d'ora che si tratti qui delle prigioni di S.to Officio, le quali appunto compromettevano assai la riputazione, del Clario scoraggiato, del Campanella avvezzo a quel trattamento e fiducioso in fra Alberto Tragagliolo. Ancora Panfilo, molto erudito, disputa in filosofia mostrandosi più sovente peripatetico, ed Armenio, tanto più erudito, abbondantissimo in citazioni, parla anche di astrologia e menziona S. Bernardo, S. Gio. Crisostomo, Lattanzio, e «il secondo libro de' principii delle cose da lui composto in quella prigione in lingua latina»; non ci par dubbio che si alluda qui abbastanza chiaramente al secondo Compendio di Fisiologia, a quello composto in lingua latina dopo che n'era stato già cominciato un altro (scritto invece in italiano), al Compendio che tanti anni dopo fu pubblicato dall'Adami col titolo di Prodromus; ed ecco perché abbiamo detto più sopra aversi fortissimo indizio che prima sia stato cominciato il Compendio in italiano che divenne poi «l'Epilogo di Filosofia», e sempre nel carcere di Roma. Oltre a tutto ciò, nel Dialogo 7° del Clario, un altro interlocutore dice di avere avuto il giorno innanzi una disputa con un Telesiano, e fa sapere che il Telesio vuole estirpare la filosofia di Aristotile e difendere quella di Parmenide e Melisso, che la sua dottrina particolarmente nel Regno di Napoli è stata accettata, accresciuta, ampliata, «frà gl'altri da Tommaso Campanella, huomo in vero nato a tutte le scienze, il quale e con la voce e con gli scritti ha procurato di darle riputatione grandissima».

Dobbiamo poi aggiungere ancora un'altra circostanza tratta da altro fonte, che crediamo doversi riferire al Clario. Vedremo che durante l'ultimo processo patito dal Campanella, uno de' più cari amici suoi è carcerato egualmente (fra Pietro Presterà di Stilo) ebbe a dire di aver saputo dallo stesso Campanella che un astronomo «delle parti di Germania», carcerato con lui nella S.ta Inquisizione, gli aveva presagito la Monarchia del mondo, perocchè aveva sette pianeti ascendenti favorevoli: senza entrare ne' particolari della notizia, che saranno chiariti a miglior tempo, diciamo qui che l'astrologo in parola dovè essere appunto il Clario, sapendosi che era medico, e quindi, secondo il gusto del tempo, facile cultore di astrologia, oltrechè medico di Corte nella Stiria. Così il germe inoculato al Campanella in Cosenza ed Altomonte veniva scaldato nel carcere di Roma, e lo si vide poi sbocciare in Calabria, terminando nel più disastroso fra' processi: certamente il Campanella e il Clario, verosimilmente anche lo Stigliola, si eccitavano al pensiero dell'avvicinarsi di tempi nuovi, e questo si vede ogni giorno nelle persone carcerate; i tempi nuovi pertanto aveano pel filosofo un'altissima significazione. - Ma avendo il Campanella in questo tempo scritte anche molte Poesie, cerchiamo di rintracciare se tra quelle che finora conosciamo ve ne sia qualcuna da potersi riferire al periodo in esame. Noi crediamo doverci sempre d'ora in poi diligentemente occupare di tale ricerca ad ogni distinto periodo della vita del filosofo; poichè senza dubbio le poesie, composte quasi sempre a sfogo dell'animo in un circolo ristretto di persone intime, possono far conoscere le condizioni vere del Campanella anche ne' diversi tempi, assai meglio di ogni altra maniera di documenti, nei quali egli non fu sempre in grado di esprimere la pretta verità, ma sovente dovè piegarsi alle necessità del suo miserrimo stato. Pur troppo anche le poesie, prima di essere pubblicate, furono vagliate diligentemente, e parecchie fra esse mostrano tracce di mutilazioni evidentemente fatte per togliere di mezzo ciò che poteva compromettere l'autore, senza contare che alcune, di data posteriore, appariscono scritte espressamente per metterlo sott'altra luce: ma vi è rimasto sempre qualche cosa che lo mostra qual'era, e poi abbiamo oggi la fortuna di poter pubblicare non meno di 67 altre poesie inedite, eliminate nella «Scelta» che se ne fece non solamente perché erano di scarso valore letterario, ma anche perché contenevano cose le quali importava lasciar sepolte, ond'è che siamo in grado di trarne molto lume per la nostra narrazione. Naturalmente noi spigoleremo fin d'ora anche nelle dette poesie, intorno alle quali basti qui dichiarare che si trovarono in un manoscritto emerso nel processo di Napoli il 1602, manoscritto appartenente ad un altro caro amico del Campanella ed egualmente carcerato (fra Pietro Ponzio, germano di fra Dionisio), che ne fece raccolta fino al 2 agosto 1601, divulgandole anche sotto mano per Napoli a gloria dell'amico suo. Non abbiamo ad occuparci di poesie latine, poichè di esse non è pervenuta alcuna fino a noi, e quanto a poesie italiane con metro latino, le sole tre che ci rimangono non possono dirsi di questo periodo, siccome è chiaro anche dalle note che l'autore medesimo vi appose; ma in quelle con metro comune crediamo che ve ne sia taluna appartenente al periodo in esame. Così il Sonetto intitolato «Al carcere» ci sembra chiaro doversi riferire al carcere di Roma, non già a quello di Napoli come da tutti è stato creduto: si badi infatti alla 2a strofa di esso e alla chiusa:

«Come và al centro ogni cosa pisante

 . . . . . . . . . . . . . .

Così di gran scienza ogn'un amante

che audace passa dalla morta gora

al mar del vero di cui s'innamora

nel nostro hospitio al fin ferma le piante.

. . . . . . . . . . . . . .

che qui non val saper, favor ne pieta

io ti sò dir; del resto tutto tremo,

ch'è rocca sacra à tirannia secreta».

Una gran scienza, con la quale si passa dalla morta gora al mar del vero, sarebbe rimpicciolita di troppo riferendola alla politica, e se la tirannia spagnuola aveva una caratteristica, questa può dirsi il non essere segreta, ma chiara e brutalmente professata: trattasi dunque piuttosto del carcere di S.to Officio, e la nota apposta al Sonetto aiuta anche ad intenderlo; poichè dicendo essa semplicemente «è chiaro», eccita a considerare di quale specie di carcere si tratti, mentre non era stato creduto conveniente qualificarlo. Aggiungiamo che con quel Sonetto l'autore si rivolge a qualcuno, commentandogli il carcere in cui si trova; e chi sa che non glie l'ispirò lo Stigliola, quando vi giunse egli pure! Ma ecco un altro Sonetto che fa parte degl'inediti, e che mostra indubbiamente come le Poesie, quando parlano del carcere, non riflettano soltanto il carcere di Napoli: esso riguarda «un che morse nel S.to offitio in Roma»:

«Anima, ch'hor lasciasti il carcer tetro

di questo mondo, d'Italia, e di Roma,

del Santo Offitio, e della mortal soma,

vattene al ciel, che noi ti verrem dietro»

Qui il dubbio non è più possibile; questo povero carcerato moriva in Roma e non in Napoli, moriva nel S.to Officio in presenza del poeta e d'altri compagni di carcere. Deve dunque il Sonetto riferirsi al periodo del carcere di Roma, sebbene sia stato raccolto in Napoli; quivi esso fu raccolto per comunicazioni di reminiscenza, al pari dell'altro sopra menzionato. Richiamiamo poi anche l'attenzione sulla chiusa del Sonetto. In essa si parla

«Dell'aspettata nova redentione»

con tutto quello che segue; e ben si vede che già nel carcere di Roma fervevano le speranze, le quali poi menarono al carcere di Calabria e di Napoli; né il Sonetto ci sembra di un valore letterario troppo deficiente, in paragone di molti altri i quali furono pubblicati, sicchè l'essere rimasto fra gl'inediti deve naturalmente attribuirsi a motivi di convenienza politica e giudiziaria. Vi sarebbe inoltre, sempre fra gl'inediti, un Sonetto indirizzato «All'Accademia d'Avviati di Roma»: non riescendo punto verosimile che tra il 1600 e il 1601, nelle carceri di Napoli, l'autore abbia avuto motivo di pensare ad un'Accademia romana, conviene riportare tale Sonetto al periodo della dimora in Roma, bensì della dimora fuori carcere. Lo stesso diciamo, ma con minore asseveranza, circa quell'altro indirizzato «Alli defensori della Philosophia greca», che al pari del precedente è improntato ad alti e nobili sensi. Non è dubbio poi che alla dimora in Roma, e all'ultimo tratto di tale dimora, debba riferirsi il Sonetto «A Cesare D'Este» etc.: esso ci offre anche una data certa, atta a far conoscere sino a che tempo il Campanella continuò a dimorare in Roma: poichè quivi fu scritto, mentre gli spiriti erano eccitati dalla spedizione pel possesso di Ferrara che Papa Clemente intraprese contro Cesare D'Este. Ne riparleremo a suo luogo.

Uscito in libertà, il Campanella prese stanza nel convento di S.ta Sabina, e tutto induce a far ritenere che sia stata quella una stanza obbligatoria. Ivi compose il Dialogo o Discorso politico contra i Luterani, e Calvinisti, della vera Religione e del Lume Naturale Deformatori, come reca la copia ms. esistente nella Bibl. naz. di Parigi (Ital. n. nuov. 106), copia che si ha tutta la ragione di credere quella medesima destinata dal filosofo al Card.le Alessandrino: un'altra copia se ne ha in Roma nella Casanatense (XX, V, 28), ma molto scorretta, e di essa si servì il prof. Fiorentino per darci un sunto ed un profondo esame del Dialogo. La data precisa della composizione del libro deve dirsi lo scorcio dell'anno 1595; ciò risulta dalla data della lettera autografa del Campanella a fra Alberto Tragagliolo, annessa alla copia esistente in Parigi. Questa lettera fu già pubblicata dal D'Ancona, ma con varie inesattezze introdottevi da colui che la trascrisse, e particolarmente nella data, che fu detta «21 1Obre 1599» mentre pure si conosceva molto bene che in tal tempo il povero Campanella si trovava non nella quiete del convento di S.ta Sabina, ma nel colmo de' terrori del Castel nuovo di Napoli; noi la ripubblichiamo tra' nostri Documenti, avendola diligentemente ricopiata in Parigi. Da essa si vede che il Tragagliolo, con sua lettera, avea consigliato il Campanella di dedicare il Discorso al Card.le Alessandrino, protettore dell'Ordine Domenicano, cui aveva già presentato e raccomandato il filosofo; e costui supplica il Tragagliolo di volere lui medesimo presentare quel suo «primo Discorso», e farlo «raccomandato in quel bisogno che sa». Tale bisogno verosimilmente era la liberazione dall'obbligo di risedere in S.ta Sabina e la facoltà di poter tornare in Calabria, ciò che appunto induce ad ammettere un'uscita dal carcere già da alcuni mesi, in caso contrario l'istanza sarebbe riuscita impossibile: pertanto, malgrado il fervore cattolico spiegato nel Discorso in ammenda del suo passato, il Campanella non vide soddisfatto il suo desiderio e dovè aspettare ancora non meno di due altri anni. Nel Syntagma è detto che il Discorso o Dialogo fu dato pure ad Antonio Persio, e molto più tardi egualmente al Naudeo: inoltre nella Difesa scritta pel processo di Napoli, poi anche nella Lettera latina del 1607 al Papa pubblicata dal Centofanti, come pure nella copia medesima del Dialogo esistente nella Casanatense, è affermato che ne fu fatto invio del pari all'Arciduca Massimiliano; nella Difesa suddetta è affermato ancora che ne esisteva una copia presso Mario del Tufo. Non lasceremo poi di parlare di questo Dialogo, senza dire che vi figurano da interlocutori Gio. Geronimo del Tufo Marchese di Lavello, Giulio Cortese e Jacopo di Gaeta. Geronimo comincia dal dire di avere assistito a una disputa singolare in S.a Maria la nova, non di quelle solite tra i «nostri filosofi» e i peripatetici, ma a dirittura religiosa, sostenuta da M.° Tommaso da Capua con altri; espone quindi la nuova credenza, e Giacomo si fa a combatterla con la ragione, Giulio con la Bibbia; come ha notato il prof. Fiorentino, l'autore si nasconde sotto la persona di Giacomo, e si attiene sempre alla politica anzichè alla Teologia. Da parte nostra dobbiamo notare nel Campanella siffatta reminiscenza di Napoli e degli amici lasciati in questa città; essa mostra che la sua mente e le sue aspirazioni erano rivolte al dolce nido. Non abbiamo bisogno di dire chi fosse Gio. Geronimo Marchese di Lavello; quanto a Giulio Cortese, avremo ancora occasione di parlare di lui più in là, e quanto a Giacomo di Gaeta, gli scrittori di cose patrie ci dicono che egli era Cosentino, dimorante in Napoli, giurisperito, filosofo Telesiano ed oltracciò poeta; anche il Campanella lo fa intendere allorchè lo cita nel suo Sonetto al Telesio:

«Il buon Gaieta la gran donna adorna

con diafane vesti risplendenti,

onde a bellezza natural ritorna»

Aggiungiamo qui che oltre al Dialogo, il Campanella compose forse in S.ta Sabina anche l'Apologia pro Telesio e l'Apologia pro philosophis magnae Graeciae ad S.m Officium: difficilmente si potrebbe assegnare un tempo migliore a queste due Apologie, che si trovano menzionate in più documenti di alcuni anni dopo, senza che il Syntagma ci dia qualche lume intorno ad esse. Ma si tratta di una semplice supposizione e non vi si può insister troppo. Certamente poi vi compose la Poetica, che abbiamo già avuta occasione di dire scritta nel 1596 per testimonianza lasciatane dal Campanella medesimo: con ogni probabilità, quando ebbe provato che era andato a vuoto il tentativo fatto col Dialogo presso il Card.le Alessandrino, il Campanella dovè sentire vivamente la necessità di guadagnarsi la protezione di altri Cardinali, e massime quella del potente Segretario di Stato di Clemente VIII, il Card.l S. Giorgio, che si era già fatto notare per la protezione accordata all'infelice Torquato Tasso, e che si poteva sperare singolarmente benevolo dopo la presentazione di una Poetica. né può non recare meraviglia tanta operosità nel carcere e tanto abbandono fuori carcere; laonde bene a ragione il Campanella medesimo ebbe poi un giorno a dire, che senza le protratte carcerazioni egli non avrebbe mai composto un sì gran numero di opere.

La più gran parte del lungo tempo trascorso dal Campanella in Roma, dopo il carcere, si può dire che sia stata essenzialmente impiegata nel cercare protezioni presso varii Cardinali ed alti personaggi. Questo dimostrano le notizie inserte nel Syntagma e più ancora ne' varii documenti emersi coll'ultimo processo avuto più tardi pe' fatti di Calabria. Dal Syntagma apparisce che diede al Card.l S. Giorgio la sua Poetica, ma dalla Difesa scritta pel suo processo di Napoli, di poi egualmente da varie sue lettere del 1606 pubblicate dal Centofanti, apparisce aver dato allo stesso Card.l S. Giorgio anche la sua Monarchia de' Cristiani: sappiamo intanto che non vi guadagnò nulla; in un'attiva corrispondenza, che questo Cardinale ebbe a tenere col Nunzio intorno al Campanella pe' fatti di Calabria e pe' processi che ne seguirono, non troveremo il menomo indizio che il Cardinale siasi mai ricordato di aver conosciuto il filosofo. Ma giunse ad introdursi anche presso il Card.l Del Monte e il Card.l Farnese; e dalla Difesa scritta pel processo di Napoli apparisce, che presso quest'ultimo Cardinale egli protesse i frati napoletani di S. Domenico i quali aveano tumultuato, in opposizione a fra Marco da Marcianise agente de' Riformati, il quale si trovò poi Commissario della sua causa in Calabria; dovè quindi certamente in tale occasione rivedersi in Roma con fra Dionisio Ponzio, il quale sappiamo esservi stato lui pure in questo tempo ed avere agito nello stesso senso. Infine giunse a guadagnarsi la grazia dell'Ambasciatore di Spagna in Roma, che era il Duca di Sessa D. Antonio de Cardona coll'enorme trattamento di 8 mila ducati l'anno posti a carico del Regno di Napoli: dalla Difesa più volte menzionata apparisce che costui gli avrebbe prodigati molti favori; conviene per altro avvertire che le asserzioni di questo genere poterono esser messe innanzi pe' bisogni della causa. - Ma un fatto degno di essere ricordato fu questo, che già cominciavano a mostrarsi in Roma, nei colloquii privati, le preoccupazioni per la vicina fine del mondo, la quale si credeva potersi verificare col termine del secolo; e il Campanella vi partecipava, nel senso che dovessero accadere mutazioni prima che il mondo finisse. In una Dichiarazione importantissima da lui scritta al momento del suo arresto in Calabria, e da noi trovata nell'Archivio di Spagna in Simancas, leggesi il seguente brano: «Che habbino d'esser mutatione nel mondo io mi ricordo haver parlato col Cardinal de Monte, mentre se preparava la guerra de ferrara, et che la chiesa dovesse gir avante, et con un filosofo Spagnolo zoppo che sta in Roma ne me recorda il nome, che fa professione d'arte devinatoria, et con il Theologo del Cardinal farnese» etc.. Il Campanella dunque, già sotto l'impressione di un presagio di Monarchia, si occupava delle prossime mutazioni, per le quali, naturalmente, poteva tanto più accarezzare il concetto degli alti destini cui si credeva chiamato: e con questi pensieri in mente, si sforzava di ottenere la facoltà di poter partire per Napoli e restituirsi in Calabria.

La partenza del Campanella per Napoli non si può ritenere accaduta verso la fine del 1598, come è sembrato al Berti, sapendosi con certezza dalla Narrazione pubblicata dal Capialbi, che alla fine di luglio di tale anno egli era già arrivato in Calabria dopo di aver passato qualche tempo in Napoli. Sicuramente egli rimase nel convento di S.ta Sabina durante l'anno 1596, come si rileva dalla deposizione di un testimone, che fa parte dell'ultimo processo pe' fatti di Calabria; trovavasi poi tuttora in Roma quando si preparava la spedizione di Ferrara, vale a dire a' primi di 9bre 1597, come risulta dal brano della Dichiarazione pocanzi riportato. Tutti sanno che la spedizione di Ferrara, iniziata con la scomunica di D. Cesare D'Este cugino dell'ultimo Alfonso morto senza prole il 28 8bre 1597, sotto il pretesto che egli non fosse stato legittimato da Alfonso I suo padre, venne febbrilmente preparata a' primi di 9bre 1597: fu perfino richiamato dall'Ungheria Gio. Francesco Aldobrandini mandatovi dal Papa a combattere i turchi, ciò che contribuì a far giudicare tanto più severamente quella spoliazione, per la quale si ebbe l'assenso della Francia dopo l'assoluzione data a Errico IV. Il Carteggio dell'Aldobrandini Nunzio in Napoli fornisce esso pure alcune notizie intorno a' preparativi, tra le altre quella delle vive istanze Pontificie per avere il cav. Domenico Fontana, che era già «ingegniero della Regia Corte» in Napoli fin dal 1594, e che in tale condizione si occupava allora appunto de' disegni del Molo nuovo e della bella via di S. Lucia, e qualche anno dopo ebbe ad occuparsi dell'edificazione del nuovo Palazzo Reale: egualmente il Carteggio del Residente Veneto in Napoli fornisce altre notizie, e fra esse quella della cerimonia compita nell'Arcivescovado, ove i Canonici in circolo assisterono alla lettura della scomunica inflitta a D. Cesare con una candela bruna in mano, che poi gettarono a terra quando la lettura fu finita. Si consideri l'eccitamento degli animi in Roma. Come suole accadere, molti eruttarono poesie, e come suole del pari accadere ne' brutti argomenti, le poesie riuscirono orribili. Anche il Carteggio suddetto del Nunzio mostra allegato alle Lettere da Roma di quell'anno un cattivo Sonetto intorno a D. Cesare d'Este e alla resa di Ferrara: il Campanella volle egli pure far udire il suo canto, e diè fuora il Sonetto «a Cesare d'Este che ritenea Ferrara contro al Papa», Sonetto che abbiamo già avuto occasione di menzionare e che comincia col verso

«Tu, chi t'opponi alla promessa eterna».

Fu senza dubbio uno de' Sonetti peggio riusciti, con una chiusa affatto banale; ma forse, vellicando le orecchie della Curia, produsse ciò che altri lavori di polso non aveano prodotto, e agevolò il compimento de' desiderii del poeta. La data da doverglisi assegnare è quella de' primi giorni di 9bre 1597, e poco dopo bisogna ritenere che il Campanella abbia potuto ottenere di partire da Roma; in caso contrario riuscirebbe impossibile intendere un altro brano della Dichiarazione sua, che avremo a riportare fra breve.

Il secondo soggiorno del Campanella in Napoli si estese certamente all'inverno e alla primavera dell'anno 1598, e fin oltre la metà di luglio di tale anno. La sua salute lasciava qualche cosa a desiderare, e tutto induce a far ritenere che egli sia tornato nella casa ospitale del Marchese di Lavello presso Mario del Tufo. Il Syntagma ci dice solamente questo, «nell'anno 1598 terminai in Napoli un Epilogo di Fisiologia ed un'Etica», la qual cosa basterebbe a mostrare che il filosofo non potè trovarsi in Napoli assolutamente di passaggio. Si ricordi che in Roma egli aveva cominciato un nuovo «Compendio di Fisiologia» sperando di risarcire la perdita di un grosso volume, e che l'aveva poi mandato a Mario del Tufo (ved. pag. 77): certamente fu questo compendio appena cominciato che egli terminò, aggiungendovi l'Etica; ma vedremo che più tardi vi aggiunse pure la Politica, l'Economica e la Città del Sole, e ne risultò l'opera scritta in italiano col titolo «Epilogo magno di quello che della Natura delle cose ha filosofato e disputato fra T. Campanella» quale conservasi nella Casanatense (XX, V, 28) e nella Magliabechiana (VIII, 6), divenuta poi in latino Philosophiae realis epilogisticae partes quatuor etc. Noi seguiremo passo passo la composizione di quest'opera importante: ci basterà qui dire che essa fu cominciata in Roma assai probabilmente nella fine del 1594, continuata in Napoli sicuramente nel 1.° semestre del 1598 fino alla sua 2.a parte, l'Etica; e che sia stata cominciata fuori Napoli si rileva dalle prime parole del Proemio, «perché teco menar la vita non posso Signore» etc., il quale Signore è naturale ammettere che sia stato Mario del Tufo. Verosimilmente il Campanella ebbe in animo anche di rifare l'opera De sensu rerum, e per questo motivo commise al medico suo conterraneo Tiberio Carnevale di rilevare dal S.to Officio quali fossero le proposizioni trovate censurabili nel Telesio; ma vedremo a suo tempo che da diversi indizii apparisce avervi in realtà posto mano più tardi, e però al Catalogo delle opere del filosofo per l'anno 1598 1.° semestre passato in Napoli si deve aggiungere solamente la continuazione dell'Epilogo magno di Filosofia in italiano. - Non sembra poi dubbio, che durante questo periodo di tempo il Campanella abbia atteso ancora all'insegnamento secondo il suo costume, e più che a Francesco del Tufo, questa volta egli dovè dare un corso di lezioni a persone importanti in materie di ordine molto elevato. Nella sua opera Del senso delle cose, al libro 1.° cap. 13 si legge: «nelli 4 libri che hò fatto d'Astronomia contra Aristotile, Telesio, Tolomeo, e Copernico, hò fatto vedere questo al discepolo cortese» (nell'ediz. latina «... diligenter hoc Cortesio discipulo indicavi»). Vedremo che i libri di Astronomia furono almeno in parte composti nel 1603, e che l'opera Del senso delle cose, così come la possediamo, fu rifatta in italiano nel 1605; volendo quindi determinare il tempo, ed anche la specie di lezioni date al Cortese, è naturalissimo ammettere un insegnamento nel periodo di cui ci stiamo occupando, con ogni probabilità in astronomia, essendo poi stata alla memoria del Cortese dedicata l'opera che trattava della materia insegnatagli. né ci ripugna il credere che questo Cortese sia stato veramente Giulio Cortese, del quale vedremo tra poco le opinioni astrologiche scambiate col Campanella: egli era già vecchissimo, ed in questo stesso anno morì, ma allora anche i vecchi non si vergognavano di farsi uditori per apprendere ciò che desideravano di apprendere. Un altro discepolo poi, riferibile egualmente a questo periodo, è emerso dalle Lettere del Campanella pubblicate dal Berti; vogliamo dire il Marchese Spinola, padre dello Spinola che trovavasi Cardinale verso il 1630. Chi era questo Marchese? Due Cardinali Spinola si aveano verso il 1630: Agostino, figlio del celebre capitano Ambrogio e di Giovanna Basadonna, e Gio. Domenico, figlio di Gio. Maria e di Pelina Lercaro, per quanto si può cavare dal Deza, poiché né il Ciacconio, né il Guarnacci, né il Palazzi, né il Cardella offrono la genealogia di quest'ultimo Cardinale. Ma Gio. Maria non era Marchese, né facea vita in Napoli: non rimane quindi che Ambrogio del q.m Filippo, Marchese di Venafro dopo la morte del padre avvenuta in marzo 1584, e poi, coll'ammissione di Venafro al R.° Demanio pel decreto del 28 marzo 1586, rimasto Marchese di Sesto e Signore di Roccapipirozzi. Egli aveva 29 anni nel tempo di cui trattiamo, e intorno a lui e al fratello Federico, come intorno alle quattro sorelle, Lelia, Placidia, Maria e Maddalena, non mancano notizie nell'Archivio di Stato: dal Capaccio, nel Forastiero, fu poi registrato tra le nobili famiglie genovesi «state abitanti in Napoli», e si conosce che non prima del 1602, per un invito del fratello, si destarono in lui gli spiriti marziali, onde assoldati 9,000 uomini a sue spese s'improvvisò generale e riuscì tanto maravigliosamente nelle Fiandre. Il Campanella, nella sua prima venuta in Napoli, era troppo poco noto per avere un discepolo di questo rango: apparisce più probabile che l'abbia avuto nel 1598, e forse per lo stesso corso di astronomia.

Come pel periodo precedente, così anche per questo, varie altre notizie ci sono fornite da' documenti emersi coll'ultimo processo pei fatti di Calabria, segnatamente dalla Dichiarazione scritta al momento dell'arresto, e dalla Difesa scritta durante il processo. Nella Dichiarazione si legge il seguente brano, che tratta sempre delle mutazioni aspettate per la vicina fine del mondo: «ragionando con diversi Astrologi, in particulare con Giulio Cortese napolitano, con Col'Antonio Stigliola gran mathematico, et con Gio. Paulo Vernaleone, che stavano in Napoli hor son tre anni, ho inteso da loro che ci doveva esser mutatione di Stato». E più oltre: «el Prencipe de Bisignano, vedendolo io che desiderava questo, quelli giorni avante haveamo parlato con Giulio Cortese, et però le disse sta allegro che li Astrologi aspettano mutatione, et la mutatione fa per li huomini mal contenti». Come si vede, il Campanella parla qui di cose avvenute «hor son tre anni», e poichè la sua Dichiarazione fu scritta nella prima metà del 7bre 1599, strettamente dovremmo riportarci al cadere del 1596: ma essendo questo impossibile, conviene riportarci alla fine del 1597, tenendo conto delle cifre rappresentanti gli anni e non del periodo di tempo effettivamente trascorso, ciò che si trova da lui usato pure qualche altra volta; e così abbiamo detto doversi ammettere che gli sia stato concesso di poter partire da Roma poco dopo il 9bre 1597, in caso contrario sarebbe riuscito impossibile intendere quanto egli ebbe ad affermare nella sua Dichiarazione. Adunque, non appena giunto in Napoli, il Campanella ripigliò il tema delle aspettate mutazioni, consultando persone ritenute molto competenti in siffatta materia. Abbiamo già avuta occasione di nominare Gio. Paolo Vernalione, a proposito di Gio. Vincenzo Della Porta suo stretto amico: di lui sappiamo solamente che era stato maestro di matematiche di molto grido, ed al tempo di cui trattiamo viveva abitualmente fuori Napoli, coltivando le arti divinatorie nelle quali aveva acquistato grandissima riputazione. Giulio Cortese, che pure abbiamo trovato interlocutore nel Dialogo contro gli eretici, era prete e Teologo napoletano, tra gli Accademici Svegliati detto l'Attonito: di lui si hanno stampate alcune «Rime» con «varii opuscoli» (1588 e 1591), una «Oratione alle potenze italiane per lo soccorso della Lega germana contra il turco» (1593), e un libro «De Deo et Mundo sive de Catholica philosophia» (1595), essendo rimasto inedito, secondo il Toppi, un Poema intitolato «il Guiscardo», ed anche un trattatello in cui si mostrava che i principii della filosofia del Telesio erano molto conformi a quanto dicono le Sacre Lettere; la sua morte credesi dal Minieri-Riccio avvenuta nel 1593, ma deve riportarsi a più tardi, come si rileva pure dalla notizia che il Campanella ne dà, e del resto il Chioccarello di poco posteriore, nella parte ms. della sua opera «De viris illustribus» che si conserva nella Bibl. nazionale, vantandolo anche come astrologo lo dice morto appunto nel 1598 e sepolto in S. Eligio. Quanto a Colantonio Stigliola (latinamente Stelliola) che pure abbiamo già incontrato più sopra, egli era di maggior levatura e merita una più larga menzione. Nacque nel 1546 da Federico e da Giustina... certamente della città di Nola, sia pure che abbia accidentalmente vista la luce in Siderno come vuole il Macrì: si laureò medico in Salerno, ma rinunziò ben presto all'esercizio della medicina, e l'occasione fu il vedersi da un nobile posposto a un altro medico, il quale con le sue prescrizioni secondava la vanità del cliente. Coltivò assai la botanica, e le sue intime relazioni con Ferrante Imperato diedero motivo alla diceria che stretto dal bisogno, la quale circostanza era vera pur troppo, avesse venduto per 100 ducati all'Imperato l'opera della Storia naturale; ma sembra questa una delle non rare maldicenze a danno dell'Imperato, il quale, nella prefazione dell'opera che pubblicò il 1590, non mancò di citare lo Stigliola, qualificandolo «professore di scienze recondite» ed aggiungendo di aver comunicata con lui la maggior parte delle cose che allora dava in luce. Si dedicò infatti allo studio non solo della matematica, ma anche dell'astronomia e della chimica, ed amò, secondo i gusti del tempo, le cose astrologiche: esercitò l'architettura e fu ingegnere pubblico; ma, sempre povero, fu obbligato a dar lezioni per le case de' nobili come pure in casa sua (di matematica e di chimica, o filosofia vulcanica, come allora la chimica avea nome in Napoli), ed inoltre a tenere una Stamperia, alla quale attese in sèguito il suo figliuolo Felice. Abitava fuori porta Regale, quasi dirimpetto alla Chiesa di S. M. della Salute divenuta poi S. Domenico Soriano e là teneva pure la Stamperia, un poco più in su della Chiesa presente di S. Michele che allora era tutt'altra cosa, sull'area dell'attuale piazza Dante a quel tempo più angusta e addetta in gran parte a cavallerizza. Non ci costa che sia mai stato lettore pubblico, avendo avuto la lettura di matematica Francesco Chiaramonte fin dall'anno in cui quella lettura fu istituita, cioè dal 1607, e sappiamo che egli tenne l'ufficio d'ingegnere della città, non della Corte, poichè solo temporaneamente collaborò con suo padre Federico e suo fratello Modestino alla descrizione geografica del Regno e al perfezionamento di quella mappa che fu poi intagliata dal Cartari; egli si occupò invece dell'acqua stagnante, del porto e delle mura della città, sebbene inutilmente, come narra in una sua lettera al Principe Cesi, riportata dall'Odescalchi nelle Memorie storiche de' Lincei, essendo stato ascritto a quell'insigne Accademia. Di animo indipendente in filosofia, Pitagorico per elezione, al pari di tutti i Pitagorici si sforzava di seguire anche le abitudini del maestro: scrisse, com'è noto, un libro sulla «teriaca» (1577), un libro sul «Telescopio over Ispecillo celeste» (postumo, 1627), e i trattati dell'Enciclopedia Pitagorea, de' quali non ci è rimasto che l'indice (pubb.to ibidem): basterebbe per altro la sola sua lettera al Galilei, in data del 1° giugno 1616, per farlo stimare ed amare. Abbiamo già avuta occasione di dire che gli fu fatto un processo dal S.to Officio, rimanendo carcerato in Roma nel 1595 e probabilmente in compagnia del Campanella; morì l'11 aprile 1623.

Vi erano dunque come in Roma così in Napoli credenze di vicina fine del mondo, aspettative di mutazioni, e non vi partecipavano già i soli spiriti volgari ma le persone più dotte: il Campanella vi partecipava anche troppo, ed egli medesimo ammise di aver consolato, con l'annunzio di prossime mutazioni di Stato, il Principe di Bisignano che era mal contento e mostravasi desideroso di novità. Come mai il Principe di Bisignano si trovava in tali condizioni? C'interessa molto il conoscerlo, perocchè vedremo nominato anche lui, con D. Lelio Orsini e con varii altri Signori, tra coloro i quali avrebbero aiutato il movimento insurrezionale che il Campanella si fece a promuovere in Calabria; di tutti costoro converrà rintracciare le condizioni per le quali poterono essere nominati in una faccenda così grave, e poichè riesce difficile trovarne notizia negli scrittori in materia nobiliare, addetti a cantare solamente le glorie, bisogna rivolgersi agli Archivii di Stato, a' Carteggi ufficiali, a' Carteggi de' particolari, agli Avvisi del tempo, dovendo pure aver le date precise de' fatti che c'interessano. Nicola Bernardino Sanseverino, 5° ed ultimo Principe di Bisignano della 1a linea Sanseverino, successo a suo padre Pietrantonio fin dal 1562, era de' più potenti Signori del paese, possessore di un ingente territorio o «Stato» come allora si diceva. Sposò a 20 anni Isabella Feltria della Rovere sorella del Duca di Urbino che ne aveva appena 11: il matrimonio non fu felice, già prima di andarsene in Calabria gli sposi erano in disgusto tra loro, molti ne incolpavano la sposa, e per giunta a 20 anni essa cominciò a soffrire un'ulcerazione al naso e all'intero palato che l'afflisse per tutta la vita, onde appena ne nacque un figliuolo cui fu padrino il Gran Duca di Toscana; così nell'Arch. di Urbino e nell'Arch. Mediceo abbiamo rinvenute molte notizie intorno al Principe ed anche sue lettere in buon numero. Divenuto prodigo e sregolato, egli si ricinse ben presto di una nuova Corte riformando la sua casa e i suoi ufficiali, due volte se ne andò in Toscana e in Lombardia anche di nascosto, si diede ad una vita licenziosa, fece debiti e donazioni senza curarsi di chiedere l'assenso Regio che era di obbligo pe' feudatarii, onde venne a richiamare sopra di sè dapprima gli avvertimenti, di poi i rigori de' diversi Vicerè che si successero nel Regno; l'Archivio di Napoli ce ne offre già documenti nel 1574. Più volte si riunì con la Principessa, ma sempre finì per allontanarsene ben presto, ed una di queste volte, non senza voti clamorosi, pagati anche abbastanza cari ed accompagnati da preghiere pubbliche, la Principessa divenne gravida. Assicurata la successione il 21 aprile 1581, egli tornò e separarsi, ed ella ebbe voglia di tornarsene a Pesaro; ma fu fermata per via, in Bari, mercè un ordine Vicereale con comminatoria di D.i 100 mila, non potendosi permettere che fosse educato fuori Regno un futuro Principe di tanta forza; ed in Bari ebbe le cure di Giacomo Bonaventura di Lacedonia, medico riputatissimo, che là esercitava l'arte e che durante questa narrazione incontreremo ancora in Napoli presso il letto di morte del Conte di Lemos, donde passò in Roma archiatro di Clemente VIII. Ma riuscite inutili le cure, la Principessa attese in Napoli a provare le acque della Zolfatara di Pozzuoli, ansiosa di rimedii e segreti che le forniva anche il Gran Duca di Toscana, il quale ne aveva molti e ne ritraeva molto credito presso i Nobili napoletani, uccellata da' Gesuiti che seppero profittare delle discordie coniugali e giunsero a carpirne la ricchissima eredità, desolata infine per la morte dell'unico figliuolo appena quattordicenne cui si era dato il titolo di Duca di S. Marco, invogliata di finire i suoi giorni nel convento di S. Sebastiano, ma rimasta sempre tra le unghie de' Gesuiti. Fin da' primi anni delle discordie, D. Lelio Orsini, nipote di questi Signori essendo figlio di Felicia Sanseverino sorella del Principe, interpose i suoi buoni ufficii tra loro, bensì inutilmente, come risulta da una sua lunga lettera autografa del 1580 al Duca di Urbino. Ma nel 1590 il Principe, d'ordine del Vicerè, fu carcerato «per emendazione di vita», e gli fu assegnato anche un Curatore ed amministratore de' beni feudali: durante la prigionia avvenne la morte dell'unico suo figliuolo legittimo il Duca di S. Marco, che soccombè al vaiuolo il 27 9bre 1595, e si videro allora i parenti istituire una grossa lite di successione a' beni feudali, quantunque il Principe e la Principessa fossero ancora vivi. Essendo fin dal 1583 defunto il Duca di Gravina Ferdinando, D. Lelio, che non aveva nemmeno eredi ma che andava d'accordo con D.a Giulia Orsini sorella primogenita, pretendente all'eredità appunto perché primogenita, sostenne doversi a lui l'ufficio di Curatore del Principe, posto che al Principe dovea rimanere assegnato un Curatore per la sua prodigalità. D'altra parte il Conte della Saponara Ferrante Sanseverino, agnato collaterale in 9° grado, presentavasi quale erede legittimo de' Sanseverino, contrastando che a' beni feudali potessero succedere le femine. D. Lelio ottenne dal tribunale di dover surrogare Fabrizio di Sangro Duca di Vietri, il quale era stato assegnato Curatore del Principe ed amministratore dello Stato di Bisignano; e l'aveva già ottenuto nel principio del 1598, come si rileva da un'altra sua lettera al Duca di Urbino. Questi fatti e queste date hanno un'importanza notevolissima per bene intendere le voci che furono sparse al tempo della congiura di Calabria. Ma occorre ancora conoscere i particolari della prigionia del Principe di Bisignano, che con molto rigore e senza processo fu protratta per non meno di 8 anni. Nell'Archivio Mediceo si hanno due documenti scritti da un Gio. Vincenzo Ruffolo, il quale citando tutte le colpe ascritte al Principe, cerca di scusarlo affermando che sino al 1585 egli avea donati soli D.i 25mila, compresi 10mila a donne con le quali aveva avuti bastardi, e che dopo di essergli stato assegnato un Curatore i debiti erano divenuti gravissimi: ma nell'Archivio di Venezia si ha una breve notizia del Residente Scaramelli, che afferma essere i debiti del Principe ascesi a D.i 700mila fino al tempo del Curatore, e da quel tempo in poi, durante la prigionia, essere divenuti 1 milione e 600 mila. Ad ogni modo, nel luglio 1590, tornando lui dalla Riccia con una sua ganza e sèguito, nel passare per Gaeta venne ivi fermato e rinchiuso in fortezza d'ordine del Vicerè Conte di Miranda: D. Lelio continuò anche allora ad interessarsi di lui, e sappiamo che verso la fine del 1591 pregò caldamente in favor suo la Principessa che si riteneva causa della prigionia, e verosimilmente si cooperò a far venire quelle lettere commendatizie che si conosce essere state scritte dagli Ambasciatori cattolici, da più Cardinali e poi anche dal Papa: ma essendo stati emanati ordini rigorosi che niuno potesse trattare col Principe, dovè desistere; e forse per tale ragione se ne andò a Roma, dove rimase dal 1592 fino al 10bre 1594, quando per la morte del Duca di S. Marco dovè tornare in Napoli e ingolfarsi nella lite di successione. Di poi, in febbraio 1596, essendo state accolte le istanze del Principe dal nuovo Vicerè Conte Olivares, e avuto anche il consenso della Principessa, il Principe venne tradotto in Napoli, dove fu rinchiuso nel Castel nuovo, con ordine che potessero vederlo i soli parenti e il Duca di Termoli, il quale era ostile all'unione de' coniugi discordi: quivi egli rimase fino all'agosto 1598, uscendone dopo di aver fatto un simulacro di pacificazione ed anche una transazione con la Principessa, coll'obbligo di tenere la sua casa a Chiaia in luogo di carcere, e dietro una cauzione di D.i 20mila forniti appunto da D. Lelio Orsini; tutto ciò del resto non lo trattenne dallo scapparsene da Napoli verso la fine dello stesso mese, dopo di aver fatto un testamento in favore del Re. Nel lungo periodo della sua prigionia egli scrisse più volte al Gran Duca di Toscana, che da altri fonti sappiamo averlo allora favorito con larghi sussidii: questa corrispondenza, da noi rinvenuta, riesce molto utile per determinare le date. Così nel 1° semestre del 1598 egli trovavasi esasperato da circa 8 anni di prigionia, con disgrazie e vessazioni d'ogni maniera, entro il forte di Castel nuovo: quivi ebbe a visitarlo il Campanella, verosimilmente in compagnia di D. Lelio Orsini; ed è naturalissimo che il Principe siesi allora mostrato desideroso di mutazioni e che il Campanella l'abbia consolato annunziandole vicine, forse anche con una effusione di parole e di voti roventi da una parte e dall'altra. Vedremo poi che quando egli stesso, il Campanella, fu rinchiuso nel Castel nuovo, si consolò a sua volta e consolò i suoi compagni di sventura, con una poesia nella quale si ricordava la dimora del Principe nelle medesime carceri. né deve sfuggire che il Campanella, fin da' principii del 1598, era già in grado di conoscere la non lontana andata di D. Lelio Orsini in Calabria quale amministratore e governatore dello Stato di Bisignano, avendo così deciso il tribunale in favore di lui; se non che poi, tergiversando sempre ed anche processando il Presidente De Franchis coll'imputazione di aver manifestati i voti della Curia, ciò che recava la pena di morte, il Governo Vicereale menò in lungo l'ammissione di D. Lelio nell'ufficio, e l'accordò soltanto dietro un ordine di Spagna provocato dal medesimo D. Lelio, che dovè recarsi espressamente per questo a Madrid.

Ma finalmente il Campanella si decise a partire per la Calabria. Nella Difesa, che ebbe a scrivere ad occasione dell'ultimo suo processo, egli espose i motivi che lo spinsero a tale determinazione: era ammalato (egli disse) di occhi e di ernia, da più di dieci anni carcerato o infermo per sciatica, per tisi, per paralisi, come era provato da' medici, cioè Latino Tancredi, Michele Politi e Tiberio Carnevale, a consiglio de' quali, per ristabilirsi in salute, era andato a dimorare in provincia d'onde mancava da dodici anni. È certa qui una inesattezza di computo o piuttosto un'esagerazione pe' bisogni della causa, poichè l'assenza dalla provincia era durata un po' meno di nove anni e non già dodici; parimente i dieci anni di travagli, più volte così computati dal Campanella anche in altre occasioni, son dati in cifra rotonda un po' maggiore della vera. Ma le sue infermità, nel periodo di cui stiamo trattando, in grandissima parte dovevano esser vere, facendolo argomentare così le notizie che ce ne sono pervenute da altri fonti, come la speciale condizione di taluno de' medici da lui citati, che rendeva impossibile ogni finzione. Abbiamo infatti veduto che egli era stato realmente ammalato di occhi e sofferente di sciatica fin dalla sua prima venuta in Napoli, e quanto alla paralisi e alla tisi, non è impossibile che in Padova e in Roma abbia sofferto qualche cosa di simile durante le diverse prigionie: quanto all'ernia, sappiamo dalla sua opera Medicinalium che egli stesso se la curò secondo il consiglio di Arnaldo, ma essendo quinquagenario. Forse egli ne parlò nelle Difese, insieme alla tisi, per cercare di eludere il solito tormento della corda, poichè era ammesso non doversi gl'infermi di tali malattie porre alla corda, comunque del resto si solessero allora sostituirle altre maniere di tortura, in ispecie le stanghette, secondochè risulta dalle opere di tutti i trattatisti di quella età. Ma in ultima analisi le sue affermazioni non erano del tutto senza fondamento, e, come dicevamo, anche la speciale condizione di taluno de' medici da lui citati contribuisce a rendere credibile che motivi di salute lo avessero spinto a recarsi in Calabria. Alludiamo qui propriamente a Latino Tancredi, poichè Tiberio Carnevale e Michele Politi potevano essere ritenuti d'accordo col filosofo. Abbiamo già visto Tiberio Carnevale di Stilo, concittadino e speciale amico del Campanella; egli era d'altronde assai giovane a quel tempo, di appena 24 anni, e però di poca autorità, quantunque il Campanella ne facesse gran conto come si rileva dalla sua opera Medicinalium. Più autorevole era Michele Politi, e difatti lo si vide nell'anno seguente chiamato alla lettura di teorica della medicina, lasciata appunto da Latino Tancredi promosso alla filosofia per morte di Gio. Berardino Longo; ma era egli pure conterraneo del Campanella, forse di Riaci, sicuramente della Diocesi di Squillace. Quanto al Tancredi, lo abbiamo già visto da lungo tempo gran campione di dispute filosofiche (ved. pag. 25), ed era poi andato anche innanzi nello studio pubblico, giacchè dalla semplice lettura estraordinaria di medicina delle Domeniche (1584) era passato da un pezzo alla lettura di medicina ordinaria in surrogazione di Quinzio Buongiovanni promosso (1589); godeva inoltre grande stima e popolarità, tanto che nello studio giunse alla lettura di filosofia vacata per morte di Gio. Berardino Longo (1599) e più tardi alla dignità di Conte Palatino (1604), in società poi, divenuto molto ricco, giunse ad essere Barone della Podaria, terra presso Camerota; ma trovavasi contemporaneamente medico del Nunzio Aldobrandini, come è attestato dal Nunzio medesimo, e in tale qualità poteva essere interrogato anche confidenzialmente sulle cose esposte, sicchè il Campanella dovea guardarsi dal citarlo a caso. Tutto ciò per altro non escluderebbe che il Campanella si fosse deciso tanto più volentieri ad andarsene in Calabria, in quanto attendeva con fiducia vicine mutazioni; ma escluderebbe l'asserzione del Parrino e del Giannone, che egli fosse stato da Roma per condanna assegnato a Stilo. Bisogna considerare che quando egli scrisse le Difese, era tuttora vivo e giudice suo anche in detta causa fra Alberto Tragagliolo; non avrebbe quindi potuto in alcun modo esprimere un fatto men che vero innanzi ad un uomo minutamente informato di tutte le sue cose.

Adunque il Campanella liberamente partiva da Napoli, dopo di avervi questa seconda volta dimorato poco più di 7 mesi, sapendosi con certezza, come vedremo più sotto, essere la sua partenza avvenuta nella 2a metà del luglio 1598. Gioverà frattanto non seguirlo ancora nel suo viaggio, ma considerare un poco i fatti che mano mano si svolsero in Napoli e che naturalmente ebbero un'eco non lieve nelle Provincie; poichè avvenne un dissidio clamoroso tra i Nobili e il Vicerè, onde poterono riuscirne sempre più eccitate le speranze degl'insofferenti del giogo spagnuolo, mentre parecchie altre gravi ragioni le tenevano eccitate di molto.

Dal libro del Parrino emergono abbastanza bene le vivacissime discordie surte in Napoli tra' Nobili e il Vicerè, ad occasione del nuovo Banco privilegiato che s'intendeva istituire dal Saluzzo di Genova coi favore Vicereale: ma non emergono le violenze e le scellerate maniere di agire che tenne il Vicerè Conte Olivares, né le agitazioni e li scoppi di odii privati che si verificarono tra' Nobili durante quel trambusto; ce ne dànno pertanto notizia i Carteggi massime del Residente di Venezia e in piccola parte anche dell'Agente di Toscana, e da essi desumeremo ciò che ha maggiore attinenza con la nostra narrazione. Fin dal luglio 1598, come risulta dal Carteggio Veneto, cominciarono le preoccupazioni pel disegno del Banco Saluzzo. «Trattavasi, dice l'Agente di Toscana in una sua lettera dell'8 7bre, di erigere in questo Regno un depositario, il quale solo havesse tutti i depositi de' dinari vincolati,  et il negotio era mal sentito quà dall'universale, et giudicato  molto dannoso alla libertà et commercio pubblico»; onorevole maniera di giudicare il fatto, non resa bene dal Parrino, che l'espose come una quistione di comodità e di gelosia cittadina verso un forestiero qual'era il Saluzzo; per un fatto simile a' tempi nostri sarebbero corsi fiumi di eloquenza e d'inchiostro, ma allora si discusse un poco ne' Seggi e si decise di mandare con gran segreto a Madrid Gio. Battista Brancaccio fratello del Vescovo di Taranto, perché presentasse un reclamo a nome della città. Ed appunto questo segreto mosse a sdegno il Vicerè, e alla fine di agosto con brutti modi cominciò dal far carcerare Matteo Acquaviva d'Aragona Principe di Caserta, che fu preso mentre andava in carrozza, rinchiuso in Castello dell'Ovo e tenuto in una stanza nuda e senza letto; egualmente fece prendere D. Alfonso di Gennaro e rinchiuderlo in Vicaria nella stanza de' condannati a morte; poco dopo anche, a' primi di settembre, colse D. Ottavio Sanfelice e lo fece rinchiudere del pari in Vicaria, e sempre perché costoro si erano mostrati più operosi nel far decidere l'invio del Brancaccio a Madrid. Molti Nobili allora si nascosero e fuggirono, e tra essi il Conte della Rocca, il Marchese di Mottagioiosa, il Marchese Bonati: ma il Marchese di Mottagioiosa, ricoverato in un monastero, essendosi dopo qualche mese provato ad andare talvolta a casa di notte, pedinato dalle spie fu preso egualmente e rinchiuso in Castelnuovo. Intanto, fin dalla stessa 1.a settimana di settembre, quattro Seggi di Nobili si erano immediatamente riuniti, e scelti 12 Deputati li aveano fatti presentare al Vicerè per annunziargli che volevano mandare qualcuno a Madrid per querelarsi degli aggravii fatti alla Nobiltà, ma il Vicerè volle prender tempo, disse che lasciassero memoriale, e subito dopo guadagnò il Seggio di Portanova e tentò guadagnare l'Eletto del Popolo. Nello stesso mese di settembre i Nobili mandarono a Madrid D. Ottavio Tuttavilla de' Conti di Sarno, cui si unì Dezio Rocco quale inviato speciale del Principe di Caserta; ed ecco il Vicerè nuovamente occupato a cercare ogni mezzo per fare sfregio a' suoi oppositori. Trovavasi da tre anni rinchiuso in Castel S. Elmo un tale di cognome Ricca, agiato popolare, perché sorpreso in casa di una sorella del Tuttavilla, vedova e molto bella; il Vicerè lo fece subito liberare. Ma peggio anche, la sera del 26 8bre, fece da più di 60 birri circondare la casa di Fabrizio di Sangro Duca di Vietri alla piazza di S. Domenico, e imprigionarlo con la più grande sorpresa di tutti, dopo di avere concertato con un nemico di lui Gio. Antonio Carbone già Marchese di Padula, mediante un tal Cesare Russo-Romano, una più che turpe imputazione «de attentato crimine pessimo passive»! È questo uno de' fatti che hanno un certo interesse per la nostra narrazione, dappoichè naturalmente il Duca ne divenne invelenito, e si disse che avrebbe aiutata l'insurrezione di Calabria: dobbiamo quindi riferirne qualche cosa, facendo conoscere un po' addentro la persona del Duca e determinando le date precise de' travagli che soffrì; per fortuna non ci mancano i documenti, avendo anche trovata nell'Archivio di Urbino tutta una sua corrispondenza autografa dal 1594 al 1621, senza contare altre sue lettere esistenti nell'Archivio Mediceo le quali sono posteriori al periodo di cui stiamo trattando. Abbiamo avuta già occasione di menzionare Fabrizio di Sangro Duca di Vietri, come suocero del Marchese di Lavello e poi come Curatore del Principe di Bisignano: qui dobbiamo dire che egli era già vecchio in questo tempo, di 64 anni, con uno stato di servizio de' più onorevoli e costituito in un'alta dignità per l'ufficio che teneva. Secondogenito di Ferrante di Sangro, avea servito come luogotenente di suo padre nella guerra di Siena, poi come capo di una compagnia di 300 fanti italiani sulle galere del Principe Doria, poi come luogotenente di suo zio Geronimo, colonnello con mille fanti, trovatosi anche all'espugnazione di S. Quintino, poi come Agente speciale presso l'Ambasciatore Cattolico più volte in Roma: in sèguito, eletto Papa Paolo IV Carafa suo parente, fu da costui indotto a prender l'abito di clerico, inviato qual Nunzio a Venezia, designato anche Cardinale; ma scoppiata la guerra tra il Papa e il Re di Spagna, posto il Regno di Napoli in pericolo di cadere sotto le Sante Chiavi, egli partì da Roma e si schierò tra gli oppositori del Papa. Tale era la condotta del Nobile napoletano, che aveva una mente ed un braccio da poter mettere in servizio del suo paese: nessuna meraviglia che questa condotta oggi più che mai sia poco conosciuta ed abbia pochi imitatori. Non avea pertanto deposto ancora l'abito di chierico, e morto Paolo IV fu mandato a sorvegliare il Conclave; servì anche il nuovo Papa Pio IV quale inviato al Re di Spagna; ma dopo che vide perseguitati da lui i Carafeschi, depose l'abito di clerico e se ne tornò a casa. Ebbe quindi l'ufficio di Doganiere di Puglia già tenuto da suo padre (1574); poi fu creato Duca della terra di Vietri, che si aveva acquistata nel 1587, ed anche promosso all'ufficio di Scrivano di razione (1596), ufficio che tenne con abilità ed integrità. La colpa appostagli non fu creduta da alcuno, ma intanto egli rimase in prigione non meno di 16 mesi, né fu liberato se non dopo la venuta del successore del Conte Olivares ed anche 7 mesi dopo, l'8 febbraio 1600, avendo il suo medesimo difensore, Ottavio Stinca, destramente prolungata la trattazione della causa, fino a che non vide del tutto scomparse le influenze che l'avevano generata; e la decisione della gran Corte della Vicaria non poteva riuscire più onorevole pel Duca.

L'azione del Vicerè aveva intanto provocata una scissura in seno alla Nobiltà. Durante lo stesso ottobre 1598 egli era riuscito ad indurre gli Eletti della città a far mandare una lettera a Madrid, nella quale, mentre si condolevano della morte del Re, chiedevano che il Vicerè fosse confermato in ufficio per un altro triennio; e giunsero fino ad apporvi una firma falsa di D. Lelio Orsini, che era Eletto del Seggio di Nido ma che era poco prima già partito per Madrid allo scopo di difendere la sua nomina di Curatore ed Amministratore di Bisignano avversata dal Vicerè. Il Marchese di Padula, Pompeo Seripando, ed Ottavio di Capua, mandavano essi pure lettere a S. M.ta in favore dell'Olivares, ed a questi dissensi di ordine amministrativo vennero ben presto a mescersi gli odî privati. Tra gli avvenimenti di quest'ultimo genere vi furono tre archibugiate tirate il 28 dicembre a Scipione Orsini Conte di Pacentro, che ne rimase ucciso, ed un'archibugiata tirata al Conte di Montemiletto amico del Pacentro, rimanendone ucciso il cavallo; fu presto ritenuto da tutti che quelle archibugiate fossero partite dal Marchese di S.to Lucido e sua comitiva, ed ecco un altro fatto che c'interessa per la nostra narrazione, poichè egualmente di questo Marchese di S.to Lucido, il quale era già latitante e si teneva in campagna da fuoruscito con comitiva armata, si disse più tardi che avrebbe aiutata l'insurrezione di Calabria. - Non ci è riuscito veramente facile specificare con esattezza chi sia stato il Marchese di S.to Lucido di cui qui si tratta, mentre i libri delle famiglie nobili che noi conosciamo non fanno parola di azioni delittuose, e d'altronde il semplice titolo non determina l'individuo nella serie di coloro che ne sono stati fregiati. Ma qualche indizio, rilevato dal Carteggio Veneto e Toscano, e sufficientemente appoggiato anche da un ms. che si conserva nella Bibl. nazionale di Napoli, ci ha fatto persuasi che si tratti qui di Francesco Carafa, da parte del padre, Ottavio, 2.° Marchese di Anzi, e da parte della moglie, Giovannella Carafa, Marchese di S.to Lucido. Il primo suo delitto sarebbe stato nientemeno l'aver «fatto svenare alla presenza sua la Marchesa d'Anzi sua propria madre» per causa di onore, l'altro sarebbe stato l'aver fatto ammazzare il Conte di Pacentro, «perché havesse ingiuriato la casa del Marchese et col congiungersi con la madre et col vantarsene», la qual cosa teneva «commossa et quasi divisa la città». Infatti, non appena seguito il triste avvenimento, il primogenito del Conte di Pacentro, D. Ottavio Orsini, e insieme con lui il Marchese di Brienza, uscirono in campagna con cavalli, ma non giunsero ad incontrarsi col S.to Lucido, e il giovane Conte di Pacentro, nel luglio 1600, finì per far correre cartelli di sfida. Il S.to Lucido, che negò sempre la sua colpabilità, fu citato a comparire, e non essendo comparso venne dichiarato forgiudicato; spese molto, si avviò alla rovina della sua fortuna, e giunse a scansare allora gli effetti della forgiudica e a liberarsi più tardi da ogni travaglio. Ma tenne lungamente la campagna, si rifugiò anche per qualche tempo a Roma menandovi splendida vita, né venne in mano della giustizia che nell'agosto del 1600: uscì poi dal Castel nuovo con D.ti 30 mila di cauzione e fu abilitato a risedere in Vico, ma quivi, nell'ottobre dello stesso anno, fece udire che gli erano state tirate fucilate nella camera da letto attribuendole al Pacentro; ricominciarono quindi i dissidii ed egli tornò in prigione, dove fu stipulata la pace sub verbo Regio col Pacentro nel settembre 1601, e sebbene dopo la pace gli fosse stato accordato di tenere la casa loco carceris con la stessa cauzione di d.ti 30 mila, egli non uscì veramente di prigione co' detti obblighi che il 30 marzo 1602. D'altra parte il Conte di Pacentro, perché avea fatto correre i cartelli di sfida, e più ancora perché si voleva obbligarlo a far la pace, fu perseguitato e dovè ricoverarsi in una Chiesa, ma pure venne preso e chiuso in Castel nuovo nella data medesima di agosto 1600; poco dopo fu liberato con cauzione ed abilitato a stare in Pacentro, dove se ne andò nel settembre in compagnia di Carlo Capeco intrigato egualmente nell'affare del duello. Seguiti poi i reclami del S.to Lucido per le fucilate che diceva tirate nella sua camera, fu il Conte ricercato dalla giustizia in Pacentro e non vi fu trovato; ed eccolo di nuovo perseguitato e catturato, di poi liberato 8 giorni dopo fatta la pace, l'11 settembre 1601.

Per conchiudere intorno a' dissidii tra' Nobili e il Vicerè, aggiungiamo che la calma cominciò a vedersi sol quando si seppe essere stato deciso il richiamo del Conte Olivares e l'invio del Conte di Lemos. Egli medesimo, l'Olivares, in febbraio 1599 annunziò tale decisione, e non è esatto quanto dice il Parrino, che il Lemos fosse giunto all'improvviso: contemporaneamente il Consiglio Collaterale risolve che il Principe di Caserta e gli altri prigioni fossero abilitati a tenere la casa loco carceris, con la cauzione di d.ti mille ciascuno. Possiamo ora raggiungere il Campanella, che imbarcatosi in una feluca è già in vista delle spiagge calabresi.


CAP. II.

RITORNO DEL CAMPANELLA IN CALABRIA E SUA CONGIURA.

(1598-1599).

I. Non è dubbio che il Campanella sia arrivato in Calabria verso la fine di luglio 1598, e che la sua prima tappa sia stata il convento dell'Annunziata di Nicastro. In ciò si accordano diverse deposizioni che si ebbero più tardi nel processo consecutivo di eresia, e le notizie che si leggono nella Narrazione pubblicata dal Capialbi. Questa Narrazione, indubitatamente scritta dal Campanella medesimo, ci potrà d'ora innanzi servire di testo, almeno fino a che non giungeremo ad un periodo pel quale vi siano documenti d'importanza anche maggiore: ma profittando delle notizie in essa consegnate, non mancheremo mai di farne rigoroso riscontro con quelle provenienti da altri fonti, e massime con quelle appunto che il processo consecutivo fornì in numero ragguardevole. Ecco ciò che vi si legge intorno al presente momento della vita di fra Tommaso. «Nell'anno 1598 F. Thomaso Campanella tornò in Calabria, donde era stato assente X anni parte in Padova, parte in Roma, parte in Napoli, e nel fin di luglio sbarcò in Nicastro dove era priore nel suo convento F. Dionisio Pontio e la città si trovava interdetta per causa di giuridittione dal Vescovo, per esser fuggito in Roma. Et esso F. Thomaso a' preghi de' cittadini, e per lettera di M. Antonio del Tufo Vescovo di Milito suo antico protettore s'adoprò a metter pace tra il Vescovo e la città. Il che non succedendo per la malvagità di alcuni scomunicati, esso pigliò le parti del vicario del Vescovo, e fece eligger F. Dionisio Pontio per ambasciator al Vescovo et al S. Papa Clemente 8.°, che si trovavano a Ferrara. Il che dispiacque assai a D. Luigi Xarava avvocato fiscale scomunicato tre anni avanti dal Vescovo di Milito; e perseverante, e mantenitor delle brighe, desioso, che tutti fossero interdetti, e scomunicati come lui per sua discolpa appresso il Re, et pur ci era scomunicato il Principe dello Sciglio el governator del Pizzo, et altri baroni, et officiali».

Ci siamo già spiegati precedentemente sulla vera durata dell'assenza dalla Calabria, che altrove il Campanella affermò di dodici anni e qui afferma di dieci, ma che in realtà deve dirsi un po' meno di nove anni. Abbiamo pure detto che diverse deposizioni consegnate nel processo di eresia pe' fatti di Calabria attestano egualmente l'arrivo essere accaduto alla fine di luglio dell'anno 1598, e la prima fermata essere stata quella di Nicastro; ma dobbiamo aggiungere che in esse domina generalmente la credenza, che il Campanella fosse venuto in Calabria non appena liberato da' travagli patiti in Roma, e trovasi anche affermato che nel convento di Nicastro, essendo priore fra Dionisio, aveva stanza del pari il germano di lui fra Pietro Ponzio, ed inoltre fra Gio. Battista di Pizzoni in qualità di lettore. Così il Campanella ebbe a trovarsi immediatamente in compagnia di questi suoi intimi amici, i quali più o meno si avevano acquistato riputazione nella provincia; ed ecco la condizione loro secondo le notizie sparse nel processo, che siamo obbligati a citare quasi sempre per documentare quanto affermiamo.

Fra Dionisio, che pel suo spirito si era distinto anche in Napoli al tempo in cui là dimorava in qualità di studente, tanto più si era poi distinto in Calabria, avendo progredito negli studii, e principalmente essendo riuscito un oratore valentissimo; lasciava solo qualche cosa a desiderare circa costumi. Di natura impetuosa, irrequieta, ciarliera e vendicativa, già era stato una volta condannato per aver tagliata la faccia ad un frate, e in genere di lascivia se ne raccontava qualche brutto caso, avendo anche l'abitudine di parlarne troppo e nel senso il più laido. Ma come oratore, ad un facile eloquio accoppiava una quantità di risorse, e possedeva l'arte di commuovere potentemente l'uditorio; sapeva lagrimare a tempo, ed una volta, predicando a monache, seppe anche cadere in deliquio; né mancava di pungere i suoi avversarii perfino dal pergamo più o meno velatamente. Una posizione sempre più distinta si aveva acquistato tra' frati, ma in pari tempo si aveva acquistato odii roventi, pe' processi da lui energicamente provocati e sostenuti contro frati di fazione avversa, a' quali era imputato l'assassinio di suo zio il P.e Pietro Ponzio, che abbiamo già visto Provinciale pel 1587-88 e parte dell'89. Questo incidente, non senza interesse per la nostra narrazione, merita di essere conosciuto; e per fortuna, oltre i pochi cenni consegnati nel processo più volte citato, ne abbiamo parecchie notizie nel Carteggio del Nunzio Aldobrandini. Già mentre teneva l'ufficio di Provinciale, per la severità con la quale avea cercato di correggere i costumi orribili di un gran numero de' suoi frati, il P.e Pietro Ponzio era stato minacciato nella vita, e un fra Paolo Jannizzi della Grotteria sacerdote, che vedremo anche tra gl'imputati della congiura e dell'eresia del Campanella, era stato in agguato per ammazzarlo, sicchè ebbe a riportarne condanna di tre anni di galera che scontò, e mentre egli stava ancora alla catena il P.e Pietro fu ammazzato. Poniamo qui che fra Paolo trovavasi carcerato in Napoli durante la prima dimora del Campanella in questa città (1591), ed egli stesso narrò che vide una volta passare per la via il Campanella, e lo chiamò per pregarlo che volesse portare una sua lettera al P.e Rev.mo: tutto ciò pertanto non gli chiuse la via agli ufficii in sèguito, e stiamo per vedere che al tempo della congiura funzionava da priore nel convento di S. Giorgio. Ma, come dicevamo, il P.e Pietro Ponzio fu ammazzato, bensì per un'altra ragione ancora più notevole, perché la fazione avversa ne temeva il ritorno all'ufficio di Provinciale; e fra Dionisio perseguitò senza posa gli assassini di suo zio, facendo rimontare la colpa dell'assassinio fino al P.e Gio. Battista da Polistina, già Provinciale nel 1591-92 e parte del 93. Era ritenuto uccisore un fra Pietro di Catanzaro, che riuscì a fuggirsene a Costantinopoli tra' turchi: un fra Filippo Mandile da Taverna fece scovrire ogni cosa insieme con un fra Giacinto da Catanzaro, e fra Filippo venne per opera del Polistina condannato a 10 anni di esilio dalla provincia, ridotti poi per grazie successive a soli 2 anni; ma il Polistina medesimo finì per essere catturato coll'opera diretta di fra Dionisio, e rimase prigione 14 mesi in Roma, 15 in Calabria, 9 in Napoli. Egli si schermì efficacemente con le sue aderenze, dimandando di essere giudicato ora in Roma, ora in Calabria, ora in Napoli presso la Corte del Nunzio, dalla quale finalmente in gennaio 1598 venne liberato «ex hactenus deductis», dietro una relazione dell'Auditore sul processo ingarbugliato col passaggio per troppe mani e troppi luoghi, la quale conchiudeva «deficerent potius probationes quam jus». Fra Dionisio, che facendo comparire negli Atti il fratello Ferrante aveva in realtà agito personalmente per tale processo, e vi avea non solo assistito in Calabria ma anche in Napoli ed in Roma, si era elevato di molto insieme con la fazione avversa al Polistina; ma la liberazione di costui, appunto nel 1598, cominciava a segnare un principio di decadenza, e il Polistina relegato in un convento «loco carceris», coll'aiuto del P.e Giuseppe Dattilo da Cosenza ex-Provinciale lui pure, già preparava le sue vendette, mentre fra Dionisio, sdegnato per questa liberazione, mostravasi irrequieto anche più del solito.

Quanto a fra Pietro Ponzio germano di fra Dionisio, senza smentire il sangue caldo de' Ponzii, era d'indole più ritirata ed assai meno inframmettente: avea progredito fino ad un certo punto negli studii specialmente teologici, mostrando anche un grande trasporto per le buone lettere, ed avea saputo mantenersi ne' buoni costumi, ciò che non era comune a que' tempi. Così non si era fatto distinguer troppo, e poteva dirsi che avesse piuttosto goduta la prospera fortuna di fra Dionisio, come di poi ne patì l'avversa: intanto pel suo amore alle lettere venne a stringersi sempre più col Campanella, ammirandone con ardore il grande ingegno, e vedremo che gli si mostrò sempre tenero amico.

Finalmente quanto a fra Gio. Battista di Pizzoni, egli si era distinto molto più de' Ponzii negli studii, avendo coltivato non solamente la Teologia ma anche la filosofia, oltrechè era assai addentro nello studio della musica; ma in pari tempo si era distinto fuor di misura ne' cattivi costumi. Sebbene il suo modo di ragionare e di esprimersi non fosse punto brillante, e ne fa fede ciò che di lui si legge nel processo, aveva tuttavia una eccellente riputazione come lettore, non così come galantuomo. Noi lo lasciammo nel convento di Altomonte, al tempo in cui vi dimorava il Campanella: poco dopo d'ordine del P.e Pietro Ponzio Provinciale ne fu scacciato perché vizioso, e dovè cercare un ricovero nel convento di Rosarno per misericordia. Naturalmente si aggregò alla fazione di fra Gio. Battista di Polistina, ed elevato costui all'ufficio di Provinciale fu mandato Vicario a Cutro; ma finì coll'esserne scacciato a furia di popolo per le sue dissolutezze ed anche per diverse appropriazioni indebite, quindi condannato «ad poenam gravioris culpae». Fu mandato di poi lettore di logica a Briatico, ove ebbe tra' suoi scolari fra Pietro Presterà di Stilo, che un giorno dovè difenderlo dagli altri scolari i quali gli si ribellarono, e così pure fra Silvestro Melitano di Lauriana, che gli rimase attaccato sempre e gli fu buon compagno nelle cattive azioni; ma egualmente da Briatico dovè fuggire, essendo stata per colpa di lui uccisa una donna da' proprii fratelli, i quali divennero forbanditi e lo atterrirono con minacce assiduamente. Non avea mancato nemmeno di continuare nelle appropriazioni indebite, fra le quali ve ne fu una di certi scritti di prediche e considerazioni sull'Apocalisse appartenenti a fra Dionisio, che tolse dalle valigie di costui venuto di passaggio a Briatico, e mandò poi a vendere per mezzo di fra Silvestro di Lauriana; e fra Dionisio ne menò grande scalpore e lo vituperò per tutta la provincia, ma essendo stato appunto in quel tempo carcerato fra Gio. Battista di Polistina, egli seppe destreggiarsi abilmente passando alla fazione di fra Dionisio ed acquetandolo. Con siffatta evoluzione fu mandato lettore nello studio generale di Cosenza (1597), di dove, l'anno seguente, venne chiamato come Teologo del Vescovo di Nicotera, con cui visitò tutto lo Stato del Duca di Nocera defunto, per soddisfare a' gravami patiti da' vassalli, essendosene il Duca fatto scrupolo nel suo testamento. Adempiuta questa commissione, era stato assegnato al convento di Nicastro, dove era giunto appena da due mesi e trovavasi afflitto da certi malanni per commerci impuri, che ne attestavano la cattiva condotta. Il suo fra Silvestro di Lauriana, rimasto ignorante ed affatto bestiale, l'aveva seguito in Nicastro e l'assisteva con ogni cura; ma aveva anche relazioni colpevoli con un nipote del Pizzoni, fra Fabio, laico o «terzino» come allora si chiamavano questi frati non sacerdoti, e fra Gio. Battista lo tollerava senza risentirsene; invece dovè risentirsene fra Dionisio per lo scandalo che n'era sorto, onde poco tempo dopo fra Gio. Battista finì per abbandonare il convento di Nicastro. Il Campanella, verosimilmente ignaro di tutte queste lordure e del rimanente avvezzo a considerare i frati quali erano in realtà, vide in fra Gio. Battista un amico di vecchia data, divenuto anche abbastanza culto; e non gli negò la sua stima, ed ebbe pur troppo a pentirsene, essendogli riuscito un amico infedele. Si noti intanto la mancanza di morale e di carattere in questo fra Gio. Battista, che dovrà figurare di molto nella nostra narrazione, e però ci ha costretti ad una non breve esposizione della sua vita.

Ma non meno degno di essere rilevato è il grave turbamento in cui il Campanella trovò la città di Nicastro e tutta la Calabria, onde non potè non averne una profonda impressione. Si era da qualche tempo in un periodo acutissimo di lotte giurisdizionali, e quella di Nicastro fu una delle più gravi: l'argomento merita di essere ben ponderato, giacchè mentre da una parte il Campanella nella sua Narrazione dichiara mantenitore delle brighe qualche ufficiale Regio che ebbe a perseguitarlo, d'altra parte agli ufficiali Regii quel concorde sviluppo di esorbitanze Episcopali parve il principio di una vera e propria ribellione; e in ciò non solo il Carteggio del Nunzio Aldobrandini, ma anche l'Archivio di Napoli e perfino il Carteggio del Residente Veneto, ci offrono molte notizie e documenti. Limitandoci per ora alla sola quistione di Nicastro, ecco quanto possiamo dirne. Era Vescovo di Nicastro Pietro Francesco Montorio nobile Romano, altero, risentito, tutto imbevuto de' principii della supremazia ecclesiastica. Creato Vescovo nel febbraio 1594, cominciò dall'affacciare pretensioni pe' frutti del Vescovato già vacante e fece per questo mali officii presso la Curia Romana contro il Nunzio; poi negò al Duca di Ferolito, Conte di Nicastro, un dritto che costui possedeva di «fidare nelle erbe della Chiesa di Nicastro ed anche venderle agreste», e affacciò la strana pretensione che per tale controversia venisse citato a comparire innanzi al tribunale del Nunzio; poi avendo il Duca ottenuto un decreto favorevole del Sacro Regio Consiglio, tribunale competente, ed essendo stato mandato dalla R.a Audienza un Commissario per l'esecuzione del decreto, egli maltrattò il Commissario e lo scomunicò con tutti gli ufficiali della città, a capo de' quali era un Gio. Battista Carpenzano, facendo pubblicare dal suo Vicario un interdetto. E scrisse a Roma e fece da Roma scrivere al Nunzio che pativa travagli indebiti, ed appunto nell'aprile 1598 si permise di pubblicare una cedola venuta da Roma senza l'exequatur: allora il Governo, che si guardava bene dal tollerare un fatto simile, lo dichiarò licenziato dalla sua diocesi, e perché contumace pose sotto sequestro le rendite del Vescovato; ma egli fece dal Vicario scomunicare l'Auditor Gonzaga andato ad eseguire i detti ordini, e con lui il Vice Conte Gio. Antonio Falconi. Di rimbalzo gli ufficiali della città carcerarono parecchi gentiluomini aderenti del Vescovo, e volendo un giorno que' della Corte del Duca trarre agli arresti un cuoco del Vescovo che portava armi senza permesso, videro intervenire il Vescovo medesimo, il quale li caricò di contumelie, al punto che taluni trassero qualche colpo di archibugio in aria per farlo tacere, ed egli allora si allontanò dalla Diocesi. Ma al tempo medesimo i reggitori della città si occuparono di provvedere perché l'interdetto fosse revocato, e tenuto pubblico parlamento, si concluse di nominare fra Dionisio Ponzio ed Innico de Franza procuratori della città, perché potessero comparire a nome di essa in Reggio ed anche in Roma bisognando, a fine di ottenere da' superiori ecclesiastici la rivocazione dell'interdetto. Il pubblico istrumento di procura in data 28 agosto 1598, firmato dal dot.r Ottavio Serra sindaco, e da parecchi eletti di Nicastro, venne poi da fra Dionisio originalmente presentato al tribunale dell'eresia quale attestato di onore, e così abbiamo potuto averne piena conoscenza. - Che il Campanella in tale occasione abbia prese le parti del Vicario del Vescovo, riesce pienamente credibile, poichè in ultima analisi egli era ecclesiastico; ma che abbia potuto influire sulla elezione di fra Dionisio egli nuovo in Nicastro, e che l'invio di fra Dionisio e del Franza abbia potuto dispiacere all'Avvocato fiscale, si comprende poco. Avremo ad occuparci largamente anche dell'Avvocato fiscale, e lo vedremo in realtà scomunicato dal Vescovo di Mileto, ma vedremo pure in quel tempo, per varii fatti, qualche Auditore egualmente scomunicato, qualche altro avvertito di essere incorso nella scomunica, ed uno di loro è stato già menzionato più sopra; tutto ciò rincresceva senza dubbio al Vicerè, non al Re che stava troppo lontano ed occupato in altre cure, ma in fin de' conti attestava negli ufficiali colpiti una fedele esecuzione degli ordini ricevuti ed un lodevole adempimento del proprio dovere. Così l'Avvocato fiscale non poteva dispiacersi che le cose si avviassero alla quiete, né poteva ritenere per lui necessaria una discolpa: d'altronde il Governo aveva trovata una singolare maniera di rimediare agl'imbarazzi che nell'amministrazione derivavano dalle scomuniche degli ufficiali; mandava una «hortatoria» al Vescovo, e con ciò riteneva di aver provveduto per l'assoluzione, dandosi anche l'aria di considerare sospeso l'effetto delle scomuniche. Mettiamo qui che fra Dionisio e il Franza, si recarono a Reggio e quindi a Ferrara, dove si trovava Papa Clemente occupato a consolidarsi nel nuovo acquisto, né tornarono a Nicastro che al principio dell'anno successivo. Durante questo tempo l'affare del Vescovo di Nicastro si trattava nelle più alte sfere. Il Papa medesimo, nel settembre 1598, ne scrisse direttamente al Re, il quale rispose con una breve lettera molto dignitosa; il Residente Veneto per le sue vie coperte potè aver copia di entrambe le lettere e trasmetterle a Venezia, e così leggonsi nel suo Carteggio. Il Duca di Sessa Ambasciatore spagnuolo in Roma ne trattò col Card.l S. Giorgio, e nel Carteggio del Nunzio vi è la lista delle domande del Vescovo, tra le quali figura quella che tutti coloro i quali l'avevano insultato fossero gastigati, e tutti, ma principalmente il Carpenzano e il Falconi, non potessero più esercitare ufficii in Nicastro e nelle altre terre della Diocesi. Nell'ottobre furono concordati 10 capitoli, che conosciamo egualmente per cura del Residente Veneto, tra' quali primeggia la rivocazione del decreto del Sacro Regio Consiglio favorevole al Duca di Ferolito; ma il Vicerè fece difficoltà a rivocare il pronunziato solenne di un tribunale supremo di appello, onde le cose si protrassero fino al marzo dell'anno seguente. Ed allora l'interdetto fu tolto, ma non per opera di fra Dionisio, ciò che trovasi attestato pure dalla Narrazione. Vedremo poi che il Vicerè non attese nemmeno che l'interdetto fosse tolto, per rivocare, da parte sua, il divieto del ritorno del Vescovo nel Regno, ma costui non si mosse da Roma, sicchè, sopravvenuta la congiura di Calabria, diè motivo a far credere che egli pure vi partecipasse. E ciò basti pel momento circa i conflitti co' Vescovi; avremo tra poco occasione di parlare del conflitto col Vescovo di Mileto, per lo quale si trovò scomunicato l'Avvocato fiscale Xarava, ed anche il Principe di Scilla (corrottamente Sciglio) e il Governatore del Pizzo.

Proseguiamo ora a dire del Campanella, sempre con la scorta della Narrazione. «Alli 15 d'agosto poi esso Campanella andò a Stilo sua padria, dove il Vescovo di Milito era venuto a processar un Arciprete di Stignano, et Campanella andò con lui fino a Jeraci e dispiacque assai alli officiali scomunicati che havesse dato consulta di canoni e ragioni al Vicario di Nicastro et al Vescovo di Milito per aiuto delle giurdittioni. Di più tutte le città principali oltre le discordie tra gli Ecclesiastici, e Regii, erano divise in fattioni, e Stilo in particolare havea la fattione de' Carnelevari et Contestabili, et capo dell'una in campagna era Mauritio Rinaldis, et dell'altra M. Antonio Contestabile. Et in Catanzaro erano due fattioni: a l'una favoriva lo Xarava a l'altra D. Alfonso de Roxas governatore della provincia. Et tutti li conventi erano pieni di banditi particolarmente della diocesi di Milito, el Vescovo li dava de mangiare per zelo della giurdittione, quando erano assediati da sbirri. E Xarava ponea fama ch'il clero volesse ribellare».

Adunque alla metà di agosto 1598 il Campanella passò da Nicastro a Stilo, ma forse ciò accadde qualche giorno più tardi, poichè si hanno nel processo di eresia due deposizioni, che attestano essere andato a Stilo dopo un mese dal suo arrivo in Nicastro. Il Pizzoni ve l'accompagnò, rimanendovi anche lui per curarsi, come attestò perfino il suo confidente Lauriana che lo servì; e vi rimase qualche mese, poichè sappiamo esser venuto nell'ottobre a far parte del convento fra Pietro Presterà di Stilo, e costui allora lo medicò con le sue mani. Frattanto nel settembre, per un'accidentale venuta del Vescovo di Mileto a Stignano, ebbe il Campanella occasione di ossequiare questo Vescovo che era Marc'Antonio del Tufo, e di andare con lui «in visita verso la marina». Tale fatto trovasi nel processo attestato dal Pizzoni, che depose ancora essere accaduto nel settembre. Il Campanella naturalmente vi andò in qualità di Teologo, e giova ricordarsene, poichè vedremo in sèguito il Governo Spagnuolo assai mal prevenuto specialmente contro il Teologo del Vescovo di Mileto, mostrando d'imputare a lui le risoluzioni violente che dal Vescovo spesso si prendevano. Non apparisce e non è plausibile che quella visita sia durata molto: ad ogni modo il Campanella nel suo ritorno si fermò alquanto in Stignano presso suo padre, come attestò parimente il Pizzoni, e poi si ridusse a Stilo né ebbe mai più altra stanza: lo vedremo più tardi in varie escursioni, ma di breve durata, e pur sempre assegnato o meglio dimenticato in Stilo. È certo poi che le trattative di pace tra' Contestabili e Carnevali, registrate nella Narrazione subito dopo la visita fatta col Vescovo di Mileto, accaddero veramente non prima del maggio dell'anno successivo: questo risulta dal processo ed anche da altri cenni sparsi nella Narrazione medesima, sicchè non dobbiamo occuparcene per ora, e possiamo invece approfondire un poco le cose del Vescovo di Mileto, i conflitti giurisdizionali, le fazioni e inimicizie cittadine, le discordie de' componenti la R.a Audienza, i banditi in armi nella provincia. Lo stesso Campanella più volte affermò che questo grave turbamento sociale, unito alla comparsa di fenomeni meteorologici straordinarii, lo menò a credere tanto più fermamente alla vicina fine del mondo e a predicarla, onde poi alcuni presero animo a concertarsi per una ribellione: trattasi dunque di una materia in relazioni strettissime col nostro argomento, ed è necessario occuparcene di proposito; l'Archivio di Stato in Napoli, parzialmente anche il Carteggio del Nunzio Aldobrandini, ce ne forniscono molti documenti, e di essi bisogna senz'altro profittare.

Il Vescovo di Mileto (latinamente Melito) si era già fatto distinguere da un pezzo pel suo modo energico di procedere nelle quistioni giurisdizionali, un po' più di tutti gli altri suoi colleghi, che pur essi non mancavano di farle sorgere ogni momento e trattarle con poca mansuetudine e nessuna misura. Egli non trovavasi in conflitto per interessi personali come il Vescovo di Nicastro, ma per principii profondamente sentiti, e quanto è dubbio che il Campanella abbia potuto richiamare sopra di sè l'attenzione degli ufficiali Regii pel conflitto del Vescovo di Nicastro, altrettanto è sicuro che abbia dovuto esser notato pe' conflitti del Vescovo di Mileto; perché con costui egli si trovava in relazioni dirette, e da costui era stato scomunicato quell'Avvocato fiscale Xarava al quale egli attribuì tutte le sue sventure; solamente bisogna dire che abbia dovuto esser notato non così presto come apparirebbe dalla sua Narrazione, ma quando già si era fatto conoscere direttamente per altre cose. È pur troppo vero che il Vescovo di Mileto avesse procurato che i banditi, i quali si trovavano in asilo massime ne' conventi, fossero alimentati semprechè i birri li assediavano per catturarli: questo emerse poi anche dal processo del Campanella, e in realtà una tenerezza pe' malviventi rifugiati ed assediati si verificava del pari in altre Diocesi, con diversi modi singolari che non mancheremo di vedere: il Governo riteneva che pe' delitti gravi, «imperiosi, e di molto malo exemplo» come allora si diceva, non dovesse riconoscersi il diritto di asilo ne' conventi e nelle Chiese; ma i Vescovi rispondevano con le scomuniche a tutti coloro i quali eseguivano gli ordini del Governo, e con una maggiore protezione a' più tristi soggetti, onde si può immaginare quanti scandali ne dovessero nascere. I Cavalieri Gerosolimitani molto sparsi nel Regno, che col titolo di frati e col beneficio della giurisdizione ecclesiastica spesso si vedevano commettere prepotenze e delitti, scorrendo la campagna con comitive armate e chiudendosi in qualche castello di casale isolato senza che il Governo potesse raggiungerli, fornivano un altro grosso contingente di conflitti: al tempo del quale trattiamo, un cav.re fra Maurizio Telesio di Cosenza trovavasi nella condizione anzidetta, e il Governo avea mandato contro di lui l'Auditore Vincenzo di Lega, che era giunto a catturarlo e si occupava in prendere la relativa informazione; e subito da «un preite a nome del Rev.do Vescovo di Melito gli fu notificato in parola che lui et li detentori di detto fra Mauritio erano incorsi in censure, admonendoli a liberarlo». Ma il contingente maggiore era fornito da' così detti «diaconi selvaggi» o «clerici coniugati», una specialità fiorente nella Calabria, laici anche con mogli e figli, a' quali i Vescovi concedevano di poter indossare un ferraiolo nero, ed avendoli in tal guisa fatti clerici, pretendevano che fossero esenti dalle contribuzioni fiscali e dal peso degli alloggi, esenti anche dalla giurisdizione laica, o come allora si diceva «temporale»: i comuni o «Università» reclamavano, ed egualmente reclamavano i Baroni, nel vedersi sfuggire di mano i contribuenti e dover gravare di pesi insoffribili gli altri cittadini, come pure nel vedere invasi i dritti della giurisdizione baronale: il Governo mandava hortatorie, ma coloro che doveano consegnarle venivano scomunicati. Nel tempo di cui trattiamo, un Marcantonio Capito, diacono selvaggio della Diocesi di Mileto, avea bastonato un frate basiliano: la R.a Audienza intervenne, e il Capito si rifugiò in una Chiesa; il Vescovo, sempre per mantenere intatta la giurisdizione, non volle permettere che fosse estratto dalla Chiesa, né volle curarsi che fosse chiuso nelle carceri vescovili pel dovuto gastigo. In tale occasione l'Avvocato fiscale D. Luise Xarava dovè entrare nella Chiesa, prendere il Capito e farne consegna nelle carceri del Castello del Pizzo; ma finì per essere scomunicato lui, il governatore del Pizzo D. Fabrizio Poerio e il Principe di Scilla signore del luogo. Le hortatorie non mancarono, ma il timore della scomunica, che allora menava a conseguenze anche sociali non indifferenti, rendeva perplessi coloro i quali doveano presentarle: il Vicerè ebbe quindi a risentirsi con la R.a Audienza perché erano state fatte presentare «per banno», vale a dire coll'affissione, e la R.a Audienza ebbe a discolparsi negando il fatto, che pare essere stato solamente un progetto. Intanto il Vescovo, non rimasto pago alle scomuniche, nel febbraio 1598 mandò al castello del Pizzo suo fratello Placido Del Tufo, il quale sulla sua parola indusse il Castellano a far uscire il Capito dal carcere, e metterlo in una stanza, ma poi nella notte, coll'aiuto di due domestici del Vescovo e mediante una corda, lo fece fuggire e andare a ricoverarsi nel palazzo Vescovile; laonde il Vicerè ebbe ad ordinare l'arresto di Placido Del Tufo, il quale per lo meno dovè nascondersi e molto più tardi poi fu graziato. Così tese erano allora le relazioni tra il Governo e il Vescovo di Mileto. Più tardi non avendo il Vescovo dato alcun gastigo al Capito, ed avendolo anzi lasciato andar libero a Seminara, il Vicerè lo fece carcerare di nuovo, ma i preti, armati di accette ed aiutati anche da alcuni laici, lo liberarono a viva forza; questo accadde nel tempo in cui fervevano i concerti per la ribellione, sicchè appunto pel Capito avvenne quel «rumor di clerici di Seminara che ruppero li carceri gridando viva il Papa», come è registrato in altro luogo della Narrazione del Campanella (pag. 30), onde sembrò che il Vescovo di Mileto partecipasse a' concerti e che «il clero volesse ribellare».

Non molto dissimile era la condotta degli altri Vescovi della Calabria: ne daremo alcuni cenni riferibili al periodo di cui trattiamo ed anche a qualche anno successivo, ciò che servirà pure a mostrare che essi continuarono sempre nella loro via, perfino quando, scoverta la congiura, gli ufficiali Regii spiegarono una influenza esorbitante. Il Nunzio medesimo scriveva a Roma che alcuni Vescovi componevano con danaro ogni delitto de' clerici, sia facendo pagare una somma alla Curia, sia facendo dare una pingue elemosina a qualche luogo pio, onde presso gli ufficiali Regii s'incontravano difficoltà ad ottenere la consegna de' clerici prigioni. Ma specialmente i clerici selvaggi in tutta la Calabria davano troppi motivi di scandali, mentre erano ovunque aumentati al punto che il Vescovo di Mileto potè dire di averne nella sua Diocesi molto meno degli altri, né poi venivano sempre scelti tra le persone per bene: così l'Arcivescovo di S.ta Severina ne aveva creati in numero infinito, ed aveva anche introdotta un'altra classe col nome di «familiari», che non vivevano a sue spese e che tuttavia esigeva fossero esenti dalle tasse e dalla giurisdizione baronale e Regia, minacciando non solo la scomunica ma anche il carcere a chi gli presentasse le hortatorie; d'altra parte il Vescovo di Cariati li sceglieva perfino tra gl'inquisiti e i contumaci della Gran Corte della Vicaria, e s'intende che i reclami e i conflitti dovevano essere senza fine. Non bastando i clerici selvaggi e i familiari, altri Vescovi inventarono anche i «commissarii delle feste», laici deputati a far osservare la santificazione delle feste, pe' quali non solo esigevano le solite franchigie dalle tasse, dagli alloggi e dal foro laico, ma anche il dritto di portare armi proibite, concedendone essi la licenza: il Vescovo di Squillace ne avea creati 37, e in maggior numero ancora ne avea creati l'Arcivescovo di Reggio, il quale volle egualmente estese le franchigie a molte donne che in S.ta Agata indossavano abiti frateschi, come pure alle beghine o «bizoche» di Reggio, ed una volta, avendo i gabelloti trasmesso a queste beghine col consenso esplicito del Governo l'ordine di pagare le gabelle, fece venire da Roma ed affiggere alle porte delle Chiese ed a' luoghi pubblici della città un monitorio con le solite minacce, che citava que' gabelloti a comparire fra un dato termine in Roma, innanzi all'Auditorato della Camera Apostolica. Non poche altre pretensioni ed ingerenze indebite essi spiegavano con modi sempre nuovi in singoli casi. Il Vescovo di Nicotera costringeva con la scomunica il Castellano del luogo a ricevere nelle carceri del Castello clerici ed altri ecclesiastici prigioni in suo nome; quello di catanzaro accoglieva in un monastero di pentite la moglie di un uomo che con l'aiuto di essa aveva ammazzata la sua 1a moglie, ed esigeva dal Giudice, intervenuto per le debite informazioni, un decreto liberatorio in favore di quella donna senza neanche esaminarla. Il Vescovo di Squillace, dopo di avere scomunicato il Capitano di Stilo, non solamente si faceva consegnare dal Giudice un grosso malfattore a nome Colella Bua, col solito pretesto che era clerico selvaggio, ma anche un inquisito di stupro ed omicidio in persona di una parente, col pretesto che esso era domestico di una monaca. Il Vescovo di Gerace spediva monitorio al Capitano e al Giudice della città, perché sotto pena di scomunica, in forza della Bolla In coena Domini, consegnassero tra 18 ore un ladro di giumente e il rispettivo processo già formato, col pretesto che 12 anni prima era stato tonsurato (sebbene non avesse mai funzionato da clerico), oltrechè gli era stata trovata sulla persona un'orazione a S. Patrizio, la quale dovea vedersi se fosse superstiziosa e spettante al S.to Officio, ed ebbe il ladro e lo mandò via impunito; dippiù spediva un altro monitorio perché si rilasciasse un contumace, e si lacerasse l'informazione presa contro un inquisito del ratto di una donna, perché la carcerazione e l'informazione erano state eseguite nel giovedì in albis, e nulla di simile dovea farsi durante tutta la settimana dopo Pasqua. - Può bene immaginarsi la condotta del Clero inferiore dietro siffatti esempi. Lo stesso Nunzio scriveva a Roma: «molti si fanno clerici per esimersi dalla giuriditione temporale, et per una banda, circa negotii, fugir le gabelle delle robe et gli altri carichi che si portono seco, et per altra in essi, come sottoposti alla giurisditione ecclesiastica, far ciò che vogliono»: tali erano veramente i motivi precipui del loro moltiplicarsi in modo esorbitante, quali clerici secolari e regolari, e sotto le forme più svariate ed anche più strane. Lasciando da parte gli esempi della loro condotta individuale, appena ricorderemo la protezione che comunemente accordavano a' malfattori, ricoverandoli nelle loro case ed aiutandoli anche con le pratiche del loro ministero, le violenze alle quali si spingevano in massa nelle loro bizze o in quelle de' loro superiori. Qualche fatto di tal genere riesce abbastanza curioso ed istruttivo. P. es. in Roggiano, gli assoldati del Governo impegnano una zuffa co' banditi, li stringono in una casa, sono sul punto di prenderli; ed ecco i preti parenti de' banditi che vengono in quella casa col SS.mo Sacramento, poco dopo ne riescono avendo affidato a' banditi le mazze del pallio, e così conducono questi in una Chiesa sorridenti sotto gli occhi degli assoldati del Governo genuflessi ed umiliati. In Policastro alcuni clerici hanno una vertenza col domestico del Capitano, e il domestico vien chiuso in prigione; ma ecco i clerici, non contenti, con l'aiuto di altri laici rompono le carceri, prendono e feriscono quell'uomo, quindi lo traducono nella Chiesa dove lo schiaffeggiano e lo bastonano, mentre il Capitano non osa penetrarvi. Cosa si proponevano segnatamente i Vescovi con una condotta simile? Esercitare la prepotenza, niente altro che la prepotenza, per lo meno secondo il gusto del tempo tutto impregnato di prepotenza: e però non sapremmo menomamente farne ad essi un addebito speciale, bensì non sapremmo non riconoscere in essi le virtù e i vizii comuni, e non riconoscere negli uomini del Governo, tra le prepotenze comuni anche a loro, un po' di maggior cura, e laboriosissima cura, di avviare le cose verso l'equità e la giustizia; sconoscer questo, o peggio scambiare le parti, ci sembra una stranezza o una mistificazione. Cosa faceva il Governo, cosa faceva Roma in questi conflitti? Roma aveva in cima de' suoi pensieri non altro che «la superiorità ecclesiastica»: nessun provvedimento troviamo da parte sua nemmeno circa l'istituzione de' clerici selvaggi o coniugati evidentemente ingiusta: le sue istruzioni al Nunzio circa i torti de' Vescovi erano «et scusarli et difenderli sempre». Il Governo strepitava, mandava hortatorie a' Vescovi ed ordini rigorosi a' suoi ufficiali; ma la paura delle scomuniche, fino a quando l'abuso di esse non ne scemò l'efficacia, tratteneva ognuno, e il Governo medesimo in ultima analisi diveniva arrendevole e finiva poi sempre per pentirsene, come si verificò p. es. nel fatto di Marcantonio Capito. In conclusione né al Governo, né allo Xarava che dipendeva dagli ordini del Governo, riusciva conveniente mantener le brighe; e il Campanella in tutte queste brighe potè scorgere i segni della vicina fine del mondo, ma dovè anche scorgere che il Governo non era poi così forte come ne correva la fama.

Passiamo a vedere le controversie ed inimicizie tra' privati, le controversie tra' componenti la R.a Audienza, i banditi e forgiudicati. In ogni tempo i municipii della Calabria e della più gran parte del Regno, massime i più notevoli, erano stati travagliati dalle fazioni per diverse cause; in generale pel «possesso del reggimento» come allora si diceva, ossia per la riuscita nelle elezioni municipali, talvolta per fatti assolutamente privati, non esclusi quelli relativi agli amorazzi, assai più sovente pel semplice gusto della prepotenza ed anche per la necessità del soverchiare a fine di non essere soverchiati; da ciò l'aggrupparsi, l'offendere, il menar le mani, il divenire assassini e perfino predoni, anche quando si era già prima dato prova di nobili istinti e di tutt'altro genere di vita. Egualmente in questo si notava una recrudescenza, al tempo in cui il Campanella tornava in Calabria e si riduceva a Stilo; la cosa è provata da molti documenti che ne rimangono nell'Archivio di Stato. Vedremo più in là le fazioni di Stilo: per ora vogliamo dire che nella capitale e nella più considerevole città della Calabria ultra, già capitale fino al 1592, in Catanzaro ed in Reggio, fervevano le lotte in modo atroce, e romoreggiavano pure in Cosenza, in Rogliano, in Cassano, principalmente in Rossano, senza contare le terre minori. Anche qui citeremo i fatti del 1598-99 e di qualche altro anno successivo, per mostrare che il calore di queste lotte non si estinse nemmeno con le peripezie sofferte per la congiura. In Catanzaro si contrastavano da un pezzo l'amministrazione municipale da un lato i Morano e d'altro lato i Piterà aiutati dagli Spina, e questa lotta ebbe poi le sue conseguenze nello sviluppo de' fatti della congiura, come non a torto notò il Residente Veneto, sebbene vagamente, in una delle relazioni inviate al suo Governo. Gio. Geronimo Morano, che vedremo figurare nel modo più sinistro quando la congiura fu scoverta, avea goduto lungamente i beneficii dell'amministrazione municipale, traendone anche profitto col procedere nella qualità di Sindaco, per parte della città, all'acquisto di una casa appartenente a suo fratello Gio. Battista, destinata per residenza del tribunale della R.a Audienza; il Vicerè non mancò di chiederne spiegazioni, e furono fatti anche processi contro alcuni de' Morano ed alcuni de' Piterà, per ridurli più facilmente alla pace sotto cauzione, ma pur troppo senza successo; del resto non potremmo in poche parole esporre le violenze dell'uno e dell'altro gruppo di contendenti. Appunto nel 1598, l'elezione municipale in Catanzaro era stata impossibile per le difficoltà e nullità poste in campo da una delle fazioni, e dovè compiersi successivamente «col braccio» ossia coll'intervento della R.a Audienza, che incontrò pur essa talune difficoltà: per qualche tempo ancora le elezioni non poterono farsi altrimenti, e gli Spina finirono poi col venire a vie di fatto contro i Morano, e un Maurizio Spina assaltò i figli di Gio. Geronimo e ne ferì uno nel braccio. In Reggio il caso era anche più violento, ma per un fatto di onore passato tra due primarie famiglie, i Del Fosso e i Serio, postisi in armi coll'aiuto rispettivo dei Melissari e de' Monsolino, pe' quali parteggiarono ancora variamente taluni de' Filocamo, de' Laboccetta, de' Sagrignano, de' Baroni; da ciò il sorgere e persistere di una quantità di banditi, l'intimazione di una grossa sfida, l'uccisione di alcuni caporali incaricati della carcerazione de' più riottosi, l'assassinio di fra Paolo Monsolino cavaliere di Malta sugli scalini della Chiesa del Rosario, il rifugio dei Melissari colpevoli in questa Chiesa, la loro estrazione violenta da essa per parte degli ufficiali Regii, e i soliti interminabili conflitti di giurisdizione coll'Arcivescovo, onde l'Archivio di Stato e poi anche il Carteggio del Nunzio forniscono del pari notizie moltissime. Sin dal 1596 Gaspare del Fosso, figlio di Tommaso Sindaco de' nobili in Reggio, essendosi vantato di aver goduta una Signora, a quanto sembra, de' Serii, diè motivo all'inimicizia capitale tra le due famiglie e loro parentele. Inutilmente fu nel 1597 mandato l'Auditore Riccardo per la pacificazione; bisognò mandarvi nel 1598 l'Avvocato fiscale Xarava, che catturò e pose sotto processo Gio. Paolo Melissari, Geronimo Filocamo e Matteo Monsolino; non di meno, essendo liberi Fabrizio del Fosso e Gio. Domenico e Geronimo Melissari fratelli di Gio. Paolo, si preparò nel 1599 la sfida, con una grande agitazione della città, sotto i capi Francesco Pesello e Domizio Barone, sventata poi con la carcerazione di costoro; alcuni omicidii seguirono tale carcerazione, e dovè essere inviato nel 1600 l'Auditore Barbuto per le debite inquisizioni, ma sempre senza risultamento, sino a che non fu ucciso Paolo Monsolino ed eseguita la cattura violenta de' Melissari uccisori. La lunga durata di questa lotta, la partecipazione in essa d'individui fatti venire dalla Sicilia, l'occupazione di più paesi vicini per parte delle bande delle due fazioni, gli allarmi continui per le offese che s'infliggevano, tennero veramente agitato il paese in una zona ben più larga di quella di Reggio. Ricorderemo ancora, perché da un certo lato connessa co' fatti della nostra narrazione, la breve ma atroce lotta verificatasi in Cosenza tra Maurizio Barracco e Ireneo Parisi, entrambi cavalieri di Malta «potenti e di molto parentato»; il Barracco era anche persona culta, come lo attestano le Commedie che di lui ci sono rimaste. Appunto nel 1598, posero entrambi mano alla spada e non se ne sa il motivo, ma intervennero subito alcuni cittadini, memori delle gravi lotte tra' Parisi e i Cavalcanti che aveano già lungamente travagliata la città, e li divisero; intervenne anche il Governo, e potè avere nelle mani fra Maurizio Barracco ma non fra Ireneo Parisi, che giunse a mettersi in campagna, e con un suo fratello egualmente cavaliere, fra Pietro Antonio, diè principio alle solite imprese. Non sappiamo in qual modo, ma sappiamo con certezza che nel 1600 fra Maurizio Barracco era stato già ucciso, e fu fatta grazia agli uccisori probabilmente sicarii, pe' meriti acquistatisi da uno de' denunzianti della congiura. Infine menzioneremo appena le lotte violentissime di Rogliano, che fervevano appunto nel 1598 tra' Ricciulli e Lelio De Piro da una parte, e Pietro Toscano, Giulio De Piro, Giovanni Stefano e Pietro Arabia, e Desiderio Gio. Cotta dall'altra; dippiù quelle di Cassano tra i Durabili, i Siena, i Paterini ed altri, nelle quali allora si contavano già morti e feriti; da ultimo quelle di Rossano tra i Toscano e gl'Interzato, divenute atroci per essere stato Giulio Toscano ferito a morte da Scipione Interzato, e rese in sèguito anche più gravi per l'uccisione di Fabrizio Toscano da parte di fra Scipione Strambone, Gio. Vincenzo e Gio. Battista Cito, uniti a fra Giuseppe, Scipione e Giulio Interzato. Di tutte queste inimicizie si risentivano gravemente non solo le città, ma anche le campagne, essendone una conseguenza delle più tristi l'aumento de' banditi e non dell'infima classe: appunto nel 1598 il Vicerè riconosceva tale fatto, ed approvava che «saria de molto proposito procurare de pacificare le inimicitie predette con legarli de bona pleggeria»; ma questo precisamente non era così facile, e potea far verificare anche le solite quistioni allorchè si trattava, come spesso si trattava, di cavalieri di Malta. E però, ad occasione delle inimicizie di Rossano, nello stesso anno il Vicerè scriveva al Governatore di «non intromettersi nelle paci».

Quanto alle lotte tra' componenti la R.a Audienza, ecco ciò che possiamo dirne, con la scorta de' documenti da noi trovati. Era Governatore della provincia di Calabria ultra D. Alonso De Roxas de Anoya, che è stato detto pure De Roscias, De Roggias, De Rosas e De Rojas, senza dubbio pel desiderio di riprodurre alla meglio il suono ovvero la forma della chôla con cui scrivevasi il suo cognome in castigliano; erano membri dell'Audienza, che egli presedeva, gli Auditori Annibale David e Vincenzo Di Lega, i quali principalmente figurano nelle cose del Campanella, ma anche Antonio Santamaria, Gio. Lorenzo Martire, un Consaga, un Miranda, i quali troviamo sparsamente nominati nelle scritture di quel tempo; teneva l'Ufficio di Avvocato fiscale D. Luise Xarava, ed aggiungiamo pure che funzionava da Segretario dell'Audienza Guarino de Bernaudo, sostituto con pubblico istrumento a Camillo Passalacqua che godeva la Segreteria di entrambe le provincie di Calabria. D. Alonso de Roxas, sempre citato dal Campanella sotto l'aspetto più favorevole, apparteneva alla prima nobiltà (vedremo che la Viceregina Contessa di Lemos gli era parente), apparteneva quindi al numero de' privilegiati che si facevano presto una posizione. Nel 1594 lo troviamo provveduto dell'ufficio di Capitano di Lanciano, con una condizione che basta essa sola a faro intendere come agisse il Governo spagnuolo, vale a dire «non obstante che non vaca, per ordine di sua Excellentia»; nel 1595 lo troviamo Capitano di Cotrone. Ma nel 1598 dovè essere incaricato interinalmente dell'ufficio di Governatore, Preside o Vicerè della Calabria ultra, come allora anche si diceva magnificando ogni cosa, in sostituzione di D. Francesco de Regina Carafa Conte di Macchia; passato appunto in quell'anno dalla Calabria ultra a governare la Calabria citra. Buona pasta d'uomo, amico del quieto vivere e poco avveduto, non ismentì mai siffatte qualità in tutto il tempo in cui rimase al governo della provincia, amareggiato solamente dalle esorbitanze dell'avvocato fiscale Xarava, che egli non poteva comportare, come non aveano egualmente potuto comportarlo i suoi predecessori; del resto egli non dovea nemmeno occuparsi della persecuzione de' banditi, essendo questa affidata al Conte di Macchia che avea facoltà di attendervi in entrambe le provincie di Calabria. D. Luise Xarava del Castillo, citato sempre dal Campanella come un mostro, aveva qualità precisamente opposte a quelle del De Roxas; molti documenti abbiamo trovati intorno a lui nell'Archivio di Napoli, ma anche diverse sue lettere autografe abbiamo trovate nell'Archivio di Firenze, essendosi lui pure ingegnato di procurarsi le grazie del Gran Duca, coll'offrirgli e fargli lungamente aspettare una tavola di diaspro «una mesa de jaspe», trovata senza dubbio in Calabria ed ora forse esistente tra quelle che si ammirano nel Palazzo Pitti. Granatese di origine lo disse il Campanella nelle sue poesie, ma con ogni probabilità per rilevarne «il moresco core»: ad ogni modo egli era Avvocato fiscale in Calabria ultra già da alcuni anni, e molti documenti ce lo mostrano soverchiatore e riottoso, non senza anche una certa dose di avidità, ma al tempo medesimo operoso ed energico, tanto che i Vicerè di quell'età non cessavano di dargli commissioni scabrose nella provincia, sebbene dovessero poi quasi sempre finire per dirigergli qualche rimprovero. Fin dal 1590, per essere andato sopra una galeotta di D. Pietro De Leyva, generale delle galere, senza la licenza del Governatore, egli si pose in discordia con costui, e il Vicerè Conte di Miranda dovè intervenire a biasimare l'uno e l'altro. Nel 1594 lo stesso Conte di Miranda gli affidava «la visione delli conti delli sindici et altri administratori del peculio dela università di Catanzaro» da dieci anni in poi, e nel 1595 gli prorogò il termine assegnatogli per tale commissione: naturalmente egli dovè così riuscire bene accetto ad una e odioso a un'altra delle due fazioni che si laceravano in Catanzaro. Il Vicerè Conte di Olivares, dal 1596 in poi, gli affidò egualmente diverse missioni ed ebbe più volte a mostrarsi dispiaciuto di lui pel suo carattere. I contrasti, i diverbî, i soprusi da parte sua riescono abbastanza notevoli, qualche volta rasentano perfino il comico, e gioverà averne notizia, trattandosi di un individuo di tanto interesse per le cose del Campanella. Nel marzo 1596 il Vicerè è costretto a scrivere all'Audienza che faccia osservare all'Avvocato e al Procuratore fiscale gli ordini che tengono: l'Avvocato maltrattava il Procuratore, al punto che mentre costui se la passava con un po' d'allegria in casa tra le persone di sua famiglia, essendo l'ultima notte di carnevale, gli mandò un suo schiavo negro a tirare molte sassate alla porta e alle finestre. Poco dopo, in aprile, il Vicerè fa sapere all'Audienza di avere scritto all'Avvocato, «da che il suo stile è di scomponersi con tutti li officiali del tribunale» che tenga ogni buona corrispondenza col Governatore e gli Auditori, avvertendo che essi debbono eseguire il simile: infatti con sua lettera quasi contemporanea scrive all'Avvocato, «semo stati informati che al spesso per l'ingiusti termini di procedere che da voi si usano turbate la quiete di questo tribunale discomponendovi tanto con il magnifico governatore di quessa provintia quanto con li magnifici auditori, non tenendo con essi la correspondentia che si ricerca et doveti, volendo voi solo componer ogni cosa con extraordinaria authorità, il che non possemo credere, che quando lo sapessimo di certo, non mancariamo di fare contra di voi le debite provisioni che si ricercano». Nella stessa data è costretto a scrivergli che non faccia «tirare a costo del R.° fisco una piazza de algozino ordinario, e cossi anco una piazza di 5 ducati il mese di soldato di campagna da doi soi criati di casa»; e più tardi, in maggio, dietro le istanze dell'Avvocato scrive al Governatore che gli restituisca lo schiavo che si trova in suo potere, donde apparirebbe che questo schiavo fosse il ministro delle prepotenze dell'Avvocato. Verso lo stesso tempo vuol sapere dall'Avvocato perché è partito dall'Audienza, malgrado l'ordine che nessuno parta senza licenza scritta, e più tardi vuol sapere perché va poche volte al tribunale; in sèguito lo minaccia perché non ha eseguito gli ordini di tenere bona corrispondenza col Governatore, e contemporaneamente inculca al Governatore che tenga bona corrispondenza coll'Avvocato, altrimenti provvederà, notandogli che una volta si è sdegnato con lui al punto di fargli minaccia di volerlo carcerare; se non che è costretto a dimandare all'Avvocato, come mai, dovendosi inviare un Commissario a Policastro ed essendo stato scelto dal tribunale questo Commissario, egli ne abbia poi inviato un altro. Intanto, mentre gli si era ingiunto che non partisse dall'Audienza, accade un brutto fatto in Cassano, e lo stesso Vicerè ve lo manda «malgrado li precedenti ordini in contrario»; e negli anni seguenti lo manda a Reggio pe' gravi trambusti suscitati dalle lotte tra i Melissari e i Monsolino, ed egli carcera alcuni de' contendenti già menzionati altrove, ma si trova che ha fatto bandi, abbreviato i termini della forgiudica, promesso indulti, cose che nemmeno tutto il tribunale dell'Audienza avea facoltà di fare senza un ordine speciale, e quindi gli s'ingiunge di partire da Reggio e tornare all'Audienza; non di meno egli non se ne cura, e si trova dippiù che contro la volontà dell'Audienza ha fatto aprire le carceri, estrarre un carcerato e consegnarlo allo Stratico di Messina che lo reclamava, onde gli si ordina che lasci immediatamente Reggio e torni all'Audienza. Abbiamo poi veduto come egli appunto venisse mandato ad estrarre dalla Chiesa il diacono selvaggio Marcantonio Capito, affrontando lo sdegno e la scomunica del terribile Vescovo di Mileto; aggiungeremo che nel 1599 lo si trova mandato per un altro affare scabroso a Tropea dove un dot.r Francesco Blanco falso Commissario Regio con 34 soldati armati a modo di banditi faceva le parti di un vero Commissario, ed egli giunge ad arrestarne 21 col loro capo; di poi lo si trova colpito da rimproveri, per essersi intromesso in un processo condotto dal Capitano di S.ta Agata, arbitrandosi perfino di citare il Capitano a comparire davanti a lui. Questa maniera di agire dello Xarava si riscontra perfino negli anni posteriori, quando già il processo della congiura era terminato ed egli era divenuto Consigliere; e però deve dirsi che la prepotenza era nella natura sua, ma che l'energia di cui si mostrava dotato faceva tollerare dal Governo i suoi gravi difetti. Relativamente alla capacità, il Campanella, nell'Informazione pubblicata dal Capialbi, lo dichiara un ignorante in modo assoluto, «talmente che prese carcerato Gio. Francesco Branca medico di Castrovillari, perché scrisse al Campanella c'havea fatto un libro de adventu portentoso locustarum in Italiam, pensandosi che locustae volesse in latino dir fuste di Turchi». Forse, con la mente invasa dall'idea che ognuno tramasse per la congiura, vide anche in questo caso un gergo, ma l'equivoco sembra difficile, mentre non di rado venivano all'Audienza ordini del Vicerè per «l'extirpatione de' brucholi»; piuttosto l'aver solamente rilevata un'amicizia col Campanella lo decise per la carcerazione del Branca, ma del rimanente poteva bene appartenere a quella classe di spagnuoli che divoravano il Regno con l'aria di sapientoni, e davano origine a quel titolo di dileggio tuttora rimastovi de' «dottori della Salamanca». Certamente la qualità sua più brutta era la prepotenza e la bramosia di valere più degli altri: questa gli procurò l'avversione non solo di D. Alonso de Roxas ma anche di tutti gli Auditori. Infatti verso la fine del 1598 si verificò questo caso singolare, che l'Audienza non permise allo Xarava l'entrata nel tribunale ad esercitarvi il suo ufficio, adducendo che egli trovavasi scomunicato dal Vescovo di Mileto, la qual cosa era veramente accaduta già da qualche tempo: e il Vicerè non approvò la condotta dell'Audienza, ed ordinò di non fare allo Xarava un simile ostacolo, il quale si può comprendere solo ammettendo che l'Audienza avesse voluto tener lontano quell'uomo divenuto odioso per la sua prepotenza. Così la lotta tra' componenti la R.a Audienza mantenevasi tra lo Xarava da una parte e tutta l'Audienza dall'altra, e ad essa si appoggiavano anche le inimicizie delle due fazioni di Catanzaro, dopochè lo Xarava avea riveduto i conti dell'amministrazione municipale; né riesce difficile intendere quanto in pari tempo l'andamento di tutta la provincia dovesse risentirsi di un simile stato di cose.

Ci rimane a dire de' banditi e forgiudicati. Questa piaga già antica, non curata mai efficacemente in tutto il Regno e massime nella Calabria, presentava anch'essa una notevole recrudescenza, principalmente per gli scoppi de' conflitti derivanti dalle inimicizie private. Si era visto di molto peggio in passato, e si ricordava p. es. la desolazione della città di Terranova, che non si rialzò più mai dopo i conflitti de' banditi ingenerati dalle inimicizie de' Marini co' Geronimi. Consalvo Marino, forgiudicato, si era unito a Nino Martino de' Casali di Reggio (nome da doversi tener presente per intendere un certo punto della Dichiarazione del Campanella), e coll'adesione anche del nobile giovane Ferrante Ruffo aveva assoldato fino a 300 banditi a piede e a cavallo, aveva combattuto molto bene le milizie capitanate dal Conte di Nicastro, era una prima volta penetrato nella città con uno stratagemma, poi una seconda volta per sorpresa, mentre i cittadini riuniti in Chiesa festeggiavano il SS. Sacramento, e vi avea fatto uccidere barbaramente i suoi nemici; minacciò di volervi tornare ancora una terza volta, e il Governatore non seppe far di meglio che ordinare a tutti i cittadini di uscir fuori dalla città e da' casali in un giorno che fu la Domenica delle palme, e si sarebbe avuto questo spettacolo miserando, se nella notte precedente uno de' medesimi seguaci di Consalvo non l'avesse per carità di patria ucciso. Le inimicizie recavano sempre questa grave conseguenza, l'aumento de' banditi, ed essendo divenute così numerose nel tempo di cui trattiamo, i banditi erano numerosi egualmente, non a grosse compagnie ma disseminati dovunque; del resto e i conflitti giurisdizionali e le lotte tra' componenti la R.a Audienza, col rilassamento degli ordini pubblici che n'era la conseguenza inevitabile, facevano moltiplicare i delitti e con essi i fuorusciti, che poi divenivano banditi e fuorgiudicati; certo è che pure il Residente Veneto, con sua lettera del 9 giugno 1598, ebbe a partecipare al suo Governo questo aumento di fuorusciti, e da tale testimonianza le affermazioni del Campanella risultano indubitabilmente comprovate. La severità delle leggi, spinta troppo facilmente a certi estremi dagli ordini Vicereali, contribuiva essa pure all'aumento de' banditi. Purchè il delitto fosse tale da recare la pena di morte, e la categoria di questi delitti era allora larghissima, dietro una dispensa Vicereale dalla procedura ordinaria i delinquenti venivano con un bando citati a comparire sotto pena di forgiudica, essendo alle volte abbreviati i termini della comparsa a un punto, che questa diveniva perfino materialmente impossibile; rimasta quindi la citazione senza effetto, i delinquenti risultavano colpiti dalla forgiudica, cioè costituiti fuori ogni adito al giudizio, donde il nome di banditi e forgiudicati. Vedremo più opportunamente qualche altra particolarità di siffatta procedura, con tutte le sue terribili conseguenze, allorchè tratteremo del processo per la congiura del Campanella: qui dobbiamo dire che già da un pezzo erano state date al Governatore Conte di Macchia le solite facoltà straordinarie per la estirpazione de' fuorusciti, che basta leggere per capire come le popolazioni dovessero sentirsi malmenate più da' Commissionati contro i banditi che dai banditi medesimi, e quindi dovessero divenire favorevoli più che ostili a' banditi; ma si stimò necessario anche, a' primi del 1599, concedere straordinariamente alla R.a Audienza per mesi sei, e prorogare di poi ogni tre mesi «il rigoroso rimedio de abbreviare il termine dela forgiudicatione» contro coloro i quali commettessero omicidii proditorii mediante archibugiate. Intanto specialmente pel ricovero nelle case de' clerici, nelle Chiese e ne' conventi, i banditi e in gran parte anche i forgiudicati potevano eludere le persecuzioni con bastante successo: i clerici, che si rendeano colpevoli di queste «negoziazioni illecite», trattando o ricoverando i banditi in casa loro, abbiamo visto che cadevano sotto la giurisdizione del Nunzio, e costui era troppo lontano e disponeva di pochi mezzi per poter colpire dovunque e colpir giusto; i preti e i frati, che li ricoveravano nelle Chiese e ne' conventi, guadagnavano la benemerenza de' Vescovi, e spesso pure qualche cosa di più. Potremmo riferire molti aneddoti intorno al prezzo che non di rado costava a' banditi un tale ricovero, e segnatamente intorno alla demoralizzazione dei frati, che ne' conventi in ispecie rurali spingevano, aiutavano, ed anche personalmente intervenivano alle escursioni predatorie de' banditi ricoverati: ci ripugna il fare questa cronaca, la quale suol chiamarsi scandalosa, unicamente dacchè, o per malizia o per eccessivo zelo del bene, è piaciuto attribuire alla massa degli ecclesiastici d'ogni sorta e d'ogni grado una maniera di sentire e di vivere essenzialmente diversa da quella de' laici, una singolare ed impossibile immunità da' vizi del proprio tempo. Abbiamo visto che il Vescovo di Mileto procurava che ne' conventi si fornisse il vitto a' banditi ricoverati e assediati, e il Governo naturalmente se ne doleva: del pari si doleva che p. es. in Rossano contumaci e delinquenti «indifferentemente si serveno di tutte le ecclesie di detta città, et non solo ci habitano loro, ma ci conducono le moglie et altre donne, et armati di arme prohibite passeggiano per avanti le porte di dette ecclesie»; si doleva che p. es. in Reggio, essendosi alcuni banditi per causa di omicidio «andati a salvare dentro una ecclesia di detta città, et havendoli posto le guardie attorno, il Rev.do in Christo padre Arcivescovo non le ha voluto permettere se non per quaranta passi attorno detta ecclesia». Il Carteggio del Nunzio Aldobrandini, testimone non sospetto delle imprese de' frati in connivenza co' banditi, ci mostra che fin dal 1595 il Governo avea dirette calde istanze a Roma perché si facessero disabitare i conventi in campagna, dando di essi una lunga lista molto istruttiva. Ma se ne scrisse e riscrisse inutilmente in quell'anno ed anche nel 1596, né si venne ad una conclusione prima del 7bre 1599, al tempo in cui la congiura fu scoverta: allora soltanto si mandò da Roma un ordine a' Prelati di non permettere che i malviventi e i fuorusciti dimorassero nelle Chiese e ne' conventi, al quale ordine successe di poi un Breve in regola, che prescriveva potersi concedere a' ministri laici, non ostante la Bolla di Gregorio XIV, il fare l'estrazione de' banditi dalle Chiese ed altri luoghi pii, e ciò pel tempo di sei mesi, da prorogarsi quando ve ne fosse il bisogno. Ed ecco qualche Prelato muovere il dubbio, se i banditi che stavano già ricoverati da un pezzo dovessero pure concedersi a' ministri laici, e poi, scorsi i sei mesi e non venuta la proroga, si videro i frati «accettare ne' conventi più che mai i banditi e i delinquenti con grave scandolo»; onde il Nunzio, ricordando continuamente gli scandali, chiedeva con istanza la proroga, e si noti, non per la nequizia intrinseca della cosa, ma perché si stava «in pericolo di qualche stravaganza de' ministri Regii che li caccino violentemente». Ma si vide venire la proroga soltanto dopo un altro anno, e una nuova proroga farsi aspettare ancora otto mesi, e sempre non tutti i Prelati impegnati ad occuparsene con serietà, e in ispecie il Vescovo di Mileto dichiarato «fiacco a risolversi» da D.a Girolama Colonna zia del Duca di Monteleone, che si lagnava dei banditi cresciuti a dismisura nello Stato suo.

Per tutti i fatti sinora esposti, nell'arrivare in Calabria, il Campanella dovea naturalmente giudicare il Governo assai meno forte di quanto pareva da lontano: ma bisogna aggiungervi ancora un avvenimento, che egli non credè di dover menzionare nella sua Narrazione, e che è ricordato da varii documenti di quel tempo. Vogliamo dire la comparsa del Bassà Cicala con la flotta turca nel golfo di Squillace il 18 7bre del 1598, la sua discesa appunto al capo di Stilo per fare acqua, con la devastazione di molte vigne, fienili e case lungo un buon tratto della costa, e naturalmente anche con la presa di persone di que' luoghi; il suo allontanamento con poca molestia avuta dalle milizie del Principe di Squillace, ciò che strombazzavasi sempre quale disfatta de' turchi; il suo arrivo al seno, o, come allora dicevasi, «fossa» di S. Giovanni, solito suo luogo di fermata presso il Capo Spartivento, col ritirarsi delle poche galere di Napoli e di Sicilia che là si trovavano; il desiderio da lui mostrato di vedere la madre dimorante in Messina, e l'adempimento di questo suo desiderio che il Vicerè di Sicilia si affrettò a soddisfare. Già prima, nel maggio 1595, alcune galeotte di Biserta aveano fatta imboscata sotto Stilo, vi aveano preso il capitano di una terra di quelle marine, il capitano anche del battaglione (milizia provinciale) ed altri individui, guadagnando 8 mila scudi di riscatto: ora il Cicala vi scendeva egualmente e non v'era chi gli facesse opposizione; poi, mentre avea danneggiati luoghi soggetti a Spagna, otteneva ciò che voleva da' Proconsoli spagnuoli e ravvicinavasi alla madre conosciuta qual fervente cristiana. Chi era questo Cicala? Se ne sono dette di molte intorno a lui, ed è tempo di parlarne con la scorta de' documenti, che per verità non mancano così negli Archivii come nelle Biblioteche; egli fu poi nominato, e largamente nominato, nella congiura di Calabria, laonde merita tutta la nostra attenzione.

Tra i moltissimi genovesi stabiliti nell'Italia meridionale vi erano parecchi di cognome Cicala, ed alcuni di loro esercitavano l'industria del corsaro. Al tempo del quale trattiamo l'esercitava ancora un Edoardo Cicala, in ottime relazioni col Vicerè di Napoli, come risulta da più documenti che si leggono nell'Archivio di Stato: né sarà inutile conoscere che aveano legni in corso anche taluni nobili, come la Sig.ra Girolama Colonna citata più sopra, e il Marchese del Cirò di casa Spinelli, divenuto più tardi Principe di Tarsia; straordinariamente poi anche le Corti de' Vicerè, segnatamente le Viceregine con altri nobili ed impiegati di palazzo, armavano qualche legno contribuendo «per carata», allorchè v'era speranza di ricco bottino. Il Carteggio del Residente Veneto ne dà parecchie notizie, poichè la Serenissima, in pace co' turchi, non vedeva punto bene questi corsari di tutti gli altri Stati Cristiani, che turbavano profondamente il commercio, davano motivo ad abusi e recriminazioni senza fine, aizzavano i turchi alle rappresaglie se mai ve ne fosse stato bisogno; d'altronde in ultima analisi ne pagavano poi la pena le infelici popolazioni, abbandonate senza tutela, non essendovi forze sufficienti a guardarle da' corsari turchi, che erano moltissimi ed audacissimi. Forse dietro i richiami del Governo Veneto, il Re di tempo in tempo mandava ordini di proibizione dei legni corsari, e ce ne rimane tuttora qualcuno, press'a poco di questi tempi, nell'Archivio di Stato: ma gli ordini non venivano eseguiti, riuscendo tanto comodo il poter dare una prova di zelo contro i nemici del nome Cristiano e fare un'eccellente speculazione industriale. Come risulta dalle Relazioni degli Ambasciatori Veneti, il padre del Bassà Cicala era appunto un genovese stabilitosi in Messina, che «andava come corsaro depredando ogni luogo con una galeotta, con la quale fu fatto prigione finalmente da' turchi col figliuolo, che per esser giovinetto fu accettato in serraglio e con violenza fatto turco»; e questo accadde nella terribile ripresa dell'isola di Gerbi presso Tunisi, il 1560. Nessuna delle Relazioni Venete ne fornisce il nome; ma documenti da noi rinvenuti nell'Archivio di Stato, riferibili a un altro figliuolo suo del quale parleremo or ora, ci fanno conoscere che dovea chiamarsi Visconte Cicala. Tra le tante sue depredazioni vi era stata quella (se la memoria non ci tradisce) di Castelnuovo alle bocche di Cattaro, sull'estremo confine della Turchia, dove fece schiava la figlia di un Bey, avvenente fanciulla, che educò al Cristianesimo dandole il nome di Lucrezia, e tolse di poi in moglie avendone molti figli; un primo a nome Filippo, un secondo a nome Scipione che divenne poi il Bassà Cicala o Sinan Bassà, un terzo a nome Carlo, inoltre varie figliuole, tuttora, al tempo di cui trattiamo, dimoranti in Messina. Pe' meriti del padre, Filippo ebbe da Spagna una pensione di D.i 1100, pagabili, al solito, dalle casse di Napoli benchè fosse siciliano, e per tale motivo trovasi più volte nelle scritture dell'Archivio di Stato con la designazione di «Filippo Cicala del mag.co Visconte o «del q.m Visconte in Messina»; possiamo aggiungere che appunto nel 1598 egli morì, lasciando un figliuolo chiamato Visconte come l'avo. Carlo ottenne egualmente da Spagna una pensione di duc.ti 500, come pure il titolo di Conte Palatino dall'Imperatore, e il Bassà suo fratello si era impegnato di fargli avere dal Sultano il Ducato di Nixia o dell'Arcipelago, già goduto da Giovanni Miques ebreo portoghese favorito (la signoria di Nixia e di 12 isole, Nasso, Andro, Paro, Antiparo etc. etc. col pagamento di un tributo), onde l'avea fatto venire a Costantinopoli sin dal 1594; ma vediamo la carriera appunto di Scipione, che seppe giungere fra i turchi a' primi gradi dell'Impero.

Aveva Scipione Cicala 16 anni, allorchè fu preso da' turchi insieme col padre: costui per danaro potè riscattarsi, ma Scipione, di bella indole, piacque al Padischah e fu trattenuto nel serraglio. Non appena uscito dal serraglio andò alla guerra in Persia, e vi compì fortunatissime imprese, per valore ed ardire della persona, con inganni e stratagemmi, più che per giudizio e prudenza: dopo la morte di Osman divise con Fehrad, che ne divenne geloso, il comando dell'esercito contro i persiani. Sposò dapprima una, e poi, morta questa, ancora un'altra figlia di Rusten Bassà, la cui moglie era figlia del Sultano Suliman, molto influente col Serraglio, e ne ebbe due figliuole ed un figliuolo a nome Corcut. Fu Capudan nel 1581, lungamente governatore di Babilonia, poi di Diarbech (1590), poi Beglierbey dell'Arcipelago e Capitano del mare (1594), nel quale ufficio non godeva molta riputazione, non essendovisi mai esercitato. Si trovava realmente in questo tempo in Costantinopoli un capitano calabrese, che avea preso il nome di Giafer ed era «il più intendente» nelle cose del mare, come ne fa fede il Bailo Zane nella sua relazione; tuttavia il Cicala era sempre ritenuto pieno di ardire e di risorse; d'altronde gli fu posto a fianco quasi come guida e luogotenente, facendolo venire di Barberia, Arnaut Memi corsaro famoso e già vecchio, il cui nome vedremo figurare anche nella narrazione delle cose del Campanella. Ed appunto nel d.to anno 1594, il Cicala, venuto nella fossa di S. Giovanni con 95 galere, saccheggiò Reggio co' suoi casali, e poi Vibona, Catona, Condeianni, S. Nicola, Ardore, la Motta Bovalina, Cirò, Soverato, Montepavone, quattordici terre in tutto, distruggendo non solo le immagini de' Santi, le campane, le Chiese, le ossa di Mons.r Gaspare Ricciulli stimato Santo, le torri di guardia, le superbe stalle che il Governo teneva in Bovalina per le razze, ma ancora gli aranceti, gli oliveti, le vigne, le moltissime piantagioni di gelsi che servivano all'industria della seta tanto diffusa in quella regione. Era stato mandato contro di lui Carlo Spinelli, che dovrà pure figurare moltissimo nella nostra narrazione, e costui, senza forze sufficienti, non seppe far altro che ordinare la ritirata anche de' terrazzani ne' luoghi alpestri, lasciando al Cicala tutto l'agio di devastare il paese a suo talento. Ma le necessità della guerra lo fecero richiamare all'esercito, e nel 1596 fu l'eroe di quella battaglia di Agria che lo innalzò all'apice della sua gloria. Come è noto, l'Arciduca Massimiliano con Schvarzenberg e Tauffenbach, col Principe di Transilvania e Palfy, a capo di un grosso esercito composto di alemanni, ungheresi ed italiani, sbaragliò i turchi in modo da penetrare fin nel loro campo, e il Cicala, comandante della retroguardia, dovè avvertire il sultano Mehemet III che si salvasse, come difatti si salvò fuggendo co' suoi Spahi fino a Solnoc e Buda: ma poco dopo, calcolando che i cristiani dovessero trovarsi occupati a svaligiare le tende, il Cicala li sorprese e ne fece un macello, impadronendosi anche di tutta l'artiglieria e del bagaglio; morirono così 40 capi principali e tra essi i due Duchi di Holstein, morirono quasi tutti gl'italiani co' Conti Pietro di Collalto e Giulio Cesare Strasoldo, si salvò a stento l'Arciduca Massimiliano a Cassovia e il Principe di Transilvania a Tokai. All'annunzio inaspettato di sì gran vittoria, come scrisse il Bailo a Venezia, «il Sig.°r in premio della virtù e valor del Cigala in quella fattione si cacciò dal tulpante un pennacchio e glie lo diede, creandolo gran Visir; la Sultana ne fu turbatissima» (la Sultana madre protettrice del Visir Hibraim). Poco dopo fu reintegrato Hibraim, «Cigala fu lasciato in Adrianopoli, il Sig.°r era malinconico»; ma il Cigala fece dire da parte sua al Sig.°r, che «se voleva esser Re et Imperatore, non doveva ascoltar la madre», e la Sultana in gran collera lo fece relegare ad Erzerum, e lo minacciò anche di farlo strangolare. Passò così tutto l'anno 1597, ma in aprile del 1598 «il Cigala fu dichiarato Capitano del mare, la Sultana madre del Sig.°r minacciata di relegazione in Amasia o ritiro nel serraglio». Quest'ufficio era molto desiderato dal Cicala, tanto che lo si vide più tardi rifiutare il Visirato per rimanere nel Capitanato del mare, sia perché vi godeva maggior riposo, avendo già 54 anni di età passati in molti travagli, sia perché gli fruttava un 40 mila zecchini l'anno, ed egli avea bisogno di conciliarsi co' donativi il favore del Serraglio. I Baili Veneti non lo vedevano bene, poichè non era punto affezionato a Venezia, «dicendo, benchè nato in Messina, di discender da Genova, patria naturalmente poco amica a questa Ser.ma Republica»; eppure il solo suo amico fidato era il Capi-Agà, veneziano rinnegato, poichè veneziani, genovesi, corsi, napoletani ed anche calabresi in buon numero occupavano allora grossi ufficii nell'impero ottomano. I Baili lo dichiararono sempre sprezzatore di chicchessia, arrogante perfino col Sultano, bugiardo, ingannatore, avaro; tuttavia non mancarono mai di riconoscere in lui certe grandi qualità, e non lasciarono mai nulla intentato per renderselo propizio, come per ispiarne ogni passo. Già nella condotta de' Veneti in Costantinopoli, quale risulta dal Carteggio de' Baili, non si saprebbe cosa ammirare di più, se la pieghevolezza e la pazienza, o l'astuzia e l'impiego opportuno di tutti i mezzi atti all'acquisto di buone intelligenze e buone informazioni; oltre i zecchini, erano sempre distribuiti con giudizio rasi, velluti, cristalli, orologi, e verso il Cicala Capitano del mare si usava una larghezza anche maggiore. La Repubblica gli regalava 2 mila zecchini ogni anno, perché, dicevasi, tenea sgombro il mare da' pirati, e quando giungeva a Corfù e Zante, gli faceva dare non solo il presente in moneta ma anche ciò che poteva piacergli in vettovaglie fresche; un presente gli era del pari dato dalle navi veneziane, dovunque egli ne incontrasse nelle sue escursioni, e la Repubblica non ci trovava a ridire. In Costantinopoli poi, alla sua partenza come al suo arrivo, visite, complimenti e regali. Si compiaceva di pitture, e il Bailo gli manda miniature; altra volta gli manda lastre di vetro, carte di cosmografia, libri di storia, «per raddolcirne l'animo»; altra volta egli stesso chiede un orologio da tavola, «di quelli che battono forte»; la moglie, guastatosi un orologio, lo manda a casa del Bailo per farlo accomodare, e il Bailo le compiace e ne fa sempre relazione a Venezia. Ma «non legge prontamente franco (int. italiano), e si «fa leggere le lettere da persone che l'intendono», e il Bailo per le sue vie coperte giunge ad avere da queste persone copia delle lettere a misura che arrivano dall'Italia e le trasmette a Venezia; in tal guisa si hanno le copie delle lettere di Carlo suo fratello e diverse piccanti informazioni circa l'affare del Ducato di Nixia, che al Papa, alla Spagna, a' Vicerè di Napoli e di Sicilia parve una bella occasione per avere in mezzo a' turchi un uomo devoto a' cristiani, mentre al Bassà Cicala era parsa una bella occasione per attirare il fratello e la vecchia madre alla religione musulmana. Egualmente, dentro l'arsenale di Costantinopoli e a bordo delle galere che uscivano nelle escursioni annuali, sempre che poteva, il Bailo teneva qualche uomo di sua fiducia, il quale in determinate circostanze ed al ritorno dalle escursioni era interrogato in forma legale con giuramento, e la copia dell'interrogatorio veniva trasmessa in cifra, al pari di tutta l'enorme corrispondenza, a Venezia.

Come dicevamo, nell'estate del 1598 il Bassà Cicala fece la sua escursione con la flotta venendo in Calabria al capo di Stilo. Il Carteggio del Bailo da Costantinopoli c'informa che l'8 agosto era partito con 47 galere munite di zappe e scale, aumentate poi a 50 e travagliate durante il viaggio dalla peste; la quale circostanza forse eccitò tanto maggiormente nel Bassà il desiderio di rivedere dopo tanti anni la vecchia madre. Il Carteggio del Residente in Napoli c'informa, che giunto nel golfo di Squillace con 48 galere e 7 galeotte, fece il 19 7bre sbarcare al capo di Stilo gli uomini di tre sole galere, e che il 20 a tre ore di mattino ripartì lasciando anche le tracce del suo passaggio nelle coste della Roccella, Gerace, Condeianni e Bianco; quindi, non senza pericolo pel forte vento, penetrò nella fossa di S. Giovanni, dove si trovavano 6 galere di Sicilia e 6 di Napoli, le quali, tirati alcuni colpi di cannone, cedendo al numero si ritirarono a Messina. Il Duca di Maqueda Vicerè di Sicilia aveva già ordinato in Messina che niuno uscisse dalla città, pena la forca, temendo intelligenze co' turchi; in Reggio poi la guarnigione spagnuola, poco prima rinforzata con 600 uomini, non fece che continui spari di artiglieria, pretendendo che così il Cicala non sarebbe sbarcato. Ed ecco come il Residente Veneto riferì al Ser.mo Principe il sèguito dell'avvenimento: «dalla fossa di S. Giovanni Cigala il 23 espedì un christiano a Messina con lettere sue al V. Re e alla sua propria madre, dimandando di vederla, che si faccia riscatto di schiavi et bazaro, come V. Ser.tà intenderà distintamente dalle copie che saranno in queste: havendosi poi il 24 esseguito il mandar à Messina il figlio del Cigala con una galea per ostaggio, et la madre à lui con la galea General di Napoli, ciò è fino a Rigio, et di là con filuche fino all'armata, dove si fermò poche ore et ritornò piena di lagrime et di donativi, etiandio di qualche denaro non solo dal figliolo ma da tutti i capi di galea, et di militia, che honororono nella persona di lei il Bassà secondo l'usanza turca. Dicevasi che il giorno sequente partiriano per levante 14 galee con infermi, et che il Bassà col rimanente passava in Barbaria» etc.; (continua annunziando che Reggio 13 volte arsa ed afflitta da' turchi speravasi questa volta rimarrebbe illesa; dà quindi le copie delle lettere sud.te «tradotte dal turchesco»). Così fin d'allora le lettere scambiate in tale circostanza furono immediatamente note; e basta dire che le troviamo perfino negli Avvisi ossia ne' Giornali manoscritti del tempo; le troviamo pure stampate più tardi nel Glorioso trionfo di Paolo Gualtieri, ma sfuggite a tutti coloro i quali si sono occupati del Bassà Cicala a proposito del Campanella. Ecco poi le ulteriori notizie circa il colloquio tra il Bassà e la madre riferite dallo stesso Residente: «Il Cigala donò alla madre 2 mila cechini (sic) et la richiese di ricordarsi d'esser nata turca, ed a dargli come madre la benedittione del Profeta, et ella costantemente negò di farlo dicendo ch'essendo lui maledetto da Dio non poteva giovargli la benedittion di alcun'altro, ben promettendogli di pregar la divina M.tà fino all'ultimo sospiro della morte che à lui faccia quella gratia che hà fatto ad essa di conoscer la vera fede di Giesù christo, nella quale anch'essa con più ragione gli ricordava che lui era nato. Et viene affermato in lettere di persone di molto conto, ch'egli non lasciò nel spatio che furono insieme di accompagnar le lagrime della madre con qualche tenerezza». Il Cicala non tardò a partirsene senza fare altri danni in Calabria: ne fece bensì a Malta, sbarcando con 2 mila uomini in Gozo, e poi se ne andò alla Barberia, dove si trattenne costruendo un forte in Porto-farina; quindi si ritirò a Costantinopoli.

Un avvenimento di questa natura non potè non fare una grande impressione sul Campanella. Vedremo che tra' diversi presagi, sui quali egli allora rivolgeva la sua attenzione, vi era quello del medico ed astrologo M.° Antonio Arquato, che recava doversi l'Impero ottomano dividere in due parti, una delle quali si sarebbe convertita al Cristianesimo ed avrebbe combattuto l'altra: forse nella visita del Cicala alla madre egli intravvide che il presagio dovea verificarsi. All'opposto, come abbiamo detto, il Cicala agiva nel senso di condurre il fratello e la madre all'islamismo; né le sue azioni erano meglio giudicate presso i musulmani. Sappiamo che il Muftì, divenutogli nemico, enumerava diverse sue colpe; la principale fra queste era, che la prima volta uscito fosse andato a prendere il fratello per condurlo a Costantinopoli, ed andato in sèguito a visitare la madre ed avutala sulla galera, non si fosse curato di «liberarla di cristianità», per la qual cosa aveva offeso Dio e doveva riportarne gastigo. Ad ogni modo poi il Campanella non poteva non vedere in tutto ciò l'insigne debolezza del Governo, il quale non era in grado di opporsi alle imprese del Cicala, lasciava che devastasse il paese, e invece di combatterlo lo compiaceva nei suoi desiderii. - Pertanto verificavasi ancora un altro avvenimento degno del pari di essere ricordato. Il 30 7bre si conosceva in Napoli che al Re di Spagna era stata aperta una postema al petto, e se ne attendeva la prossima fine; l'8 8bre si annunziava che era morto. Al temuto Filippo II succedeva un Principe debole, e già, mentre ascendeva al trono, poco stimato: il fatto non era di lieve importanza; gl'insofferenti del giogo spagnuolo aveano motivo di rallegrarsi e di trarne i migliori augurii.

Ma è tempo di vedere la vita del Campanella in Stilo, ciò che egli vi diceva e faceva.

Il convento di S.ta Maria di Gesù, dove egli avea stanza, era un piccolo convento, annesso ad una Chiesetta, e rappresentava appena un Vicariato. Poteva contenere soltanto tre o quattro sacerdoti ed un laico assistente: allorchè vi giunse il Campanella, avea l'ufficio di Vicario fra Simone della Motta Placanica; i sudditi poi variavano spesso. Oltre il Pizzoni e il Lauriana avventizii, vi erano un fra Domenico di Riaci e un fra Domenico Petrolo di Stignano, il quale ultimo era veramente assegnato a Cosenza ma deputato a Stilo, e si rimaneva volentieri a casa sua in Stignano; sappiamo per altro che dopo la venuta del Campanella dimorò nel convento dal Natale al carnevale, per tutto l'inverno successivo e poi di nuovo più tardi, ma anche allora temporaneamente. In ottobre venne a starvi fra Pietro Presterà di Stilo, che vi dimorò sempre, e nel Capitolo tenuto in maggio dell'anno successivo fu creato Vicario del convento in luogo di fra Simone; poi vi venne anche un fra Gio. Battista di Placanica, che vi rimase solo per tre mesi, dal febbraio all'aprile. Il Campanella si strinse specialmente a fra Pietro di Stilo sua vecchia conoscenza, e a fra Domenico di Stignano proveniente dal luogo in cui dimorava la propria famiglia. Fra Domenico era stato novizio in Lombardia ed avea dimorato in Milano, mentre eravi pure un Padre Gonsales, che incontreremo nel corso di questa narrazione: estremamente impressionabile, ed anche manesco, avea bastonato alcuni frati ed era stato punito per tale mancanza, ma non avea fatto parlare di sè per altre cose. Quantunque già sacerdote e predicatore da due anni, era tuttora «studente formale» com'egli medesimo dichiarò, e seguì un corso di filosofia che il Campanella si fece a dettare in Stilo: segnatamente per tale circostanza venne a trovarsi in una certa intimità col Campanella, e quindi lo vedremo compagno di fra Tommaso ne' suoi travagli, testimone importante ma non sempre fedele, massimamente per la sua grande impressionabilità, rovina della causa di fra Tommaso per vigliaccheria, come ebbe a dirlo fra Pietro di Stilo. Quanto a fra Pietro, l'abbiamo già veduto condiscepolo ed amico del Campanella fin dagli anni più teneri, e dobbiamo aggiungere che fu con lui in familiarità sino a che vestì l'abito di religioso; di poi non ebbe più occasione di vederlo, eccettochè per circa due mesi in Cosenza nel 1588. Avea poco progredito negli studii, ma erasi mantenuto ne' buoni costumi e si distingueva tanto per l'ottimo cuore, quanto per una grande prudenza e un senso pratico squisito, che lo faceva di rado fallire nella giusta estimazione degli uomini e delle cose. Riconoscente al Pizzoni già suo lettore, ossequente al Polistina Provinciale, non aveva mai avuto simpatia per fra Dionisio, massime perché lo sapea proclive a' risentimenti, ed abituato a' discorsi più osceni: era stato anch'egli assegnato a Nicastro mentre fra Dionisio vi tenea l'ufficio di Priore, ma non volle andarvi e non si diè pace finchè non s'ebbe procurata un'altra assegnazione. Fu pel Campanella un amico tenero, disinteressato, costante; può dirsi essere stata quest'amicizia la cagione sola delle atroci sciagure che patì, e non di meno la mantenne sempre ed efficacemente; in somma vedremo in lui una simpatica e cara figura tra molta bordaglia.

Le occupazioni del Campanella nel convento di Stilo furono le sue solite; dar letture, specialmente di filosofia, e scrivere libri; ma oltracciò egli adempiva assiduamente a' suoi doveri di buon religioso, come fu poi attestato da frati non sospetti e da altre persone di Stilo che ne furono interrogate. Cominciando da quest'ultimo punto, dobbiamo dire assodato che recitava l'officio quotidianamente, talvolta insieme con fra Pietro di Stilo e con fra Domenico di Stignano; assisteva al coro, e solo si notava che «stava astratto», celebrava la Messa e «tutti l'ascoltavano volentieri» quantunque conoscessero che era stato inquisito dal S.to Officio; avea ricevuto dal Provinciale la licenza di predicare (ciò che conferma non trovarsi per penitenza a Stilo), e dall'altare «stando sopra una seggia... predicava cattolicamente, che tutto Stilo l'andava a udire, e diceva bellissime cose predicando l'Evangelio de verbo ad verbum». In somma dimostrava buona vita e «passava per uomo onesto», siccome del rimanente nessuno pose mai in dubbio anche pe' tempi anteriori trascorsi in Calabria, ne' quali, eccetto l'incidente dell'Ebreo, non si citò alcuno scandalo da lui dato. Fra i tanti atroci accusatori venuti a galla in sèguito, si trovò appena un solo individuo, il quale pel tempo cui siamo pervenuti depose dietro una voce incerta che egli, insieme con altri, avesse «fatto il crescite» con una certa Giulia nella propria cella; fra Pietro di Stilo poi affermò essersi detto che avea per innamorata una sorella di fra Domenico di Stignano ed avea peccato con lei, e perciò costui eragli nemico ed avea cercato di farlo ammazzare; ma senza alcun dubbio fra Pietro pose innanzi questa frottola per tentare di far nascere un argomento giuridico d'inimicizia, capace d'invalidare le gravi deposizioni di fra Domenico a carico del Campanella. Bisogna a tutto ciò aggiungere che il Campanella, col suo predicare, aveva in mente pure di eccitare il popolo a costruire pel suo convento una degna Chiesa, e giunse a scavarne le fondamenta. Nelle Difese, che ebbe a scrivere ad occasione del suo processo, egli addusse questo fatto in prova della sua pietà, e vedremo che vi alludeva pure quando nel carcere mostravasi pazzo e sosteneva i tormenti, gridando che avea fatto disegnare un convento in Stilo, un convento di S.to Stefano con tre monaci, la qual cosa possiamo bene intendere, dopochè il Capialbi ci ha fatto sapere che il convento di S. Maria di Gesù era stato fabbricato abusivamente nel territorio de' Certosini di S. Maria della Torre, e i Domenicani, rimasti soccombenti in una lite, furono abilitati da' Certosini a dimorarvi, ma riconoscendo il dominio loro e tenendo dipinte sulla porta del convento le immagini de' protettori de' Certosini S. Stefano e S. Brunone.

Quanto alle letture, occupazione da lui sempre amata, diede nella propria cella letture di filosofia, e ne profittarono, oltre a fra Domenico di Stignano pel tempo in cui dimorò nel convento, diversi individui di Stilo, tra gli altri Giulio Contestabile e Fulvio Vua assiduamente, e di tempo in tempo Gio. Gregorio Presinace, che trovasi più spesso detto Prestinace, suo stretto amico, dippiù alcuni giovani venuti da' paesi vicini, come i due fratelli Jacopo e Ferrante Moretti di Terranova. Tutti costoro si trovarono di poi involti nelle sventure del Campanella, e bisogna fin d'ora attendere a ricordarne i nomi.

Quanto alle opere, abbiamo per questo periodo un garbuglio molto difficile ad essere districato. La notizia delle opere scritte in Stilo nella fine del 1598 e parte del 1599, può rilevarsi da quattro fonti principali che per ordine di data sarebbero: le due Difese composte durante il processo (1600-601), la Lettera latina al Papa e Cardinali pubblicata dal Centofanti (1607), la Narrazione ed Informazione pubblicate dal Capialbi (1620), infine il Syntagma (redatto nel 1631 e pubblicato nel 1642); inoltre può anche fornire un po' di luce qualche circostanza inserta in talune delle opere medesime giunte sino a noi. Ma i fonti suddetti sono discordanti, e la qualche circostanza inserta nelle opere potrebbe rappresentare una interpolazione consecutiva; giacchè per lunghissimo tempo il Campanella ebbe bisogno di dimostrare che in Stilo era occupato a edificare, non a distruggere, in fatto di Stato e di Chiesa, e forse taluna delle opere fu da lui assegnata a questo periodo mentre non vi apparteneva. Diremo di un tratto che per quanto possiamo giudicarne, in Stilo, nel periodo sopra indicato, certamente egli compose una Tragedia secondo i principii della sua poetica, intitolata Maria Regina di Scozia, ed ancora un libro De Auxiliis contra Molinam pro Thomistis, aggiuntovi un trattato De Episcopo; con ogni probabilità compose inoltre il libro Della Monarchia di Spagna, e dippiù i Segnali della morte del mondo, che poi furono rifatti più volte e dati sotto il titolo di Articuli prophetales. La Tragedia nella 1.a Difesa si dice conosciuta in Stilo ed anche dal Principe della Roccella, che vedremo dapprima amico e più tardi persecutore del nostro filosofo; nell'Informazione poi, e del pari nel Syntagma, si dice esplicitamente composta in Stilo. Il libro De Auxiliis, col trattato De Episcopo, non si trova registrato nelle Difese, e questo dà un poco a pensare, ma lo si trova nella Lettera al Papa e Cardinali, dove si dichiara che componevasi di 150 articoli; lo si trova inoltre nell'Informazione, dove si aggiunge che fu scritto ad istanza del Commissario del S.to Officio di Roma, cioè del Tragagliolo, ed ancora nel Syntagma, dove è affermato, come negli altri fonti anzidetti, che fu composto in Stilo; solamente in entrambi questi due ultimi fonti non si dice nulla del trattato De Episcopo. Finquì non c'è alcuna obbiezione da fare: bisogna pertanto aggiungere che questi libri andarono poi perduti quando il Campanella fu catturato, ne mai più si è avuta finoggi notizia di essi. - Relativamente poi alla Monarchia di Spagna, di tanto maggiore importanza pel Nostro argomento, essa si trova registrata nelle Difese due volte, ma con un'aggiunta autografa, essendo stata taciuta quando le Difese furono scritte, e si trova registrata al sèguito del libro De Regimine ecclesiae, che è dato siccome scritto in Stilo, mentre sappiamo da altri fonti essere stato scritto in Padova, esserne stata mandata copia a Mario del Tufo, ed esserne stato poi perduto l'originale in Calabria; questo dà motivo di pensare che la Monarchia abbia potuto essere scritta nel carcere medesimo, bensì durante il 2.° semestre del 1600 e 1.° del 1601, pe' gravissimi bisogni della causa. D'altra parte la si trova registrata anche nell'Informazione siccome scritta in Stilo, con la particolarità che fu scritta ad istanza del Reggente Marthos Gorostiola, Biscaino, protettore del filosofo; frattanto nel Syntagma la si trova citata tra i libri composti nel carcere, ma dopo le tre ultime parti della Filosofia reale, la qual cosa non può assolutamente stare, giacchè vedremo in modo irrecusabile che alle dette tre parti della Filosofia fu posto mano dopo l'agosto 1601, mentre l'aggiunta della Monarchia nelle Difese era stata già fatta nel giugno 1601. Ben si rileva che alle affermazioni del Syntagma si può prestar fede assai meno che a quelle di qualunque altro fonte, ed anzi, per le troppe inesattezze che vi sono incorse, non si può prestar fede in modo alcuno. Ma il garbuglio riesce pur sempre difficilmente districabile, molto più perché nelle Difese dicesi la Monarchia scritta «ad instantiam praetoris», termine vago, che potrebbe indicare il Preside della provincia D. Alonso De Roxas ed anche il Capitano di Stilo, mentre dopo tale espressione il Campanella si dice «praetori hispano amicissimus, et gubernatoribus provintiae, qui eum ad praedicandum rogavit semper»; intanto nelle copie manoscritte della Monarchia, che tuttora esistono in buon numero, alle volte si trova citato semplicemente un «Sig. D. Alonso» a richiesta del quale il libro sarebbe stato scritto ed al quale l'autore l'avrebbe indirizzato dalla sua «celletta», dove si trovava uscito dall'infermità e da dieci anni di travagli, altre volte invece si trova ampiamente citato il «sig.r Reggente Marthos Gorostiola» nelle medesime circostanze, citato il «conventino di Stilo», il «Monasterio di Santa Maria di Giesù», dal quale l'autore avrebbe mandato il libro al Marthos, con la data iniziale e finale della composizione «15 di Xbre» e «31 di Xbre 1598». Non volendo intralciare ancora di più la narrazione nostra con altrettali minute disquisizioni, ci limitiamo a dire che si può ritenere essere stata la Monarchia di Spagna scritta veramente in Stilo oltrechè inviata confidenzialmente a D. Alonso de Roxas, e forse per covrire ciò che s'intendeva di fare («ad malum tegendum» come nelle Difese il Campanella mostra di prevedere che si sarebbe pensato circa le cose da lui scritte e dette in favore di Spagna); esser stata poi rifatta nel carcere durante il 2.° semestre del 1600 e 1.° del 1601, dopochè se n'era perduta la prima composizione in Calabria al momento della cattura, col confuso indirizzo al Sig.r D. Alonso, dovendo l'autore guardarsi dal mettere innanzi D. Alonso De Roxas, cui si era attribuita non la connivenza, ma la tolleranza de' maneggi per la congiura; essere stato da ultimo, con una interpolaziene posteriore, sempre pe' bisogni della causa, volendo eliminare affatto la reminiscenza di D. Alonso De Roxas e chiarire anche meglio le circostanze convenienti, apposto il nome del Reggente Marthos Gorostiola con tutte le particolarità suddette, e ciò dopochè il Marthos era trapassato, mentre si conosce che morì alla fine di gennaio 1601. Ma ciò che più c'importa si è il notare come per la Monarchia di Spagna non si possa stabilire altra data che quella o della fine del 1598, o del 2.° semestre del 1600, del tempo cioè nel quale o si meditava la congiura, o si dovea dimostrare ad ogni costo che non c'era stata congiura; e da ciò segue che precisamente nella forma in cui essa è giunta fino a noi, non si possa ritenere l'espressione certa degl'intimi convincimenti dell'autore, ma piuttosto l'espressione delle necessità supreme che stringevano l'autore da ogni lato. Sotto questo punto di luce, che ci sembra tanto più contemplabile dietro la nozione vera della data del libro, noi vorremmo che fosse considerata la Monarchia di Spagna da coloro i quali attendono a ricercare le dottrine del Campanella, non potendosi ammettere in alcun modo che essa sia stata scritta dieci anni dopo la carcerazione, cioè nel 1609, come è stato finoggi erroneamente ritenuto. Da ultimo, circa il libro de' Segnali della morte del mondo, anch'esso d'importanza grandissima per l'argomento nostro, lo si trova registrato nella 1.a Difesa sotto il titolo di Articuli prophetales (Doc. pag. 480), i quali Articuli si vedono poi costituire la 2.a Difesa; e questo mostra che essi abbiano dovuto essere redatti appunto dopo che era stata già scritta la 1.a Difesa, e redatti di seconda mano dopo che se n'era perduta la prima composizione in Calabria per la solita circostanza della cattura. Anche nelle copie degli Articuli prophetales giunte fino a noi, e rimaste manoscritte, il titolo dice «prout auctor prophetavit ac scripsit in anno 1599»; ma vedremo a suo tempo che fu questa una 3.a composizione fatta egualmente nel carcere, sibbene più tardi, il 1607, dopo che era stata per l'autore perduta la 2.a composizione, rimasta allegata nel processo, di dove oggi appena esce alla luce; intanto non farà meraviglia che nel Syntagma si trovino citati gli Articuli prophetales insieme con altri libri scritti in un tempo più inoltrato del carcere, mentre veramente la 3.a composizione fattane in tal tempo vedesi incomparabilmente più larga delle anteriori, sulle quali d'altronde l'autore non potea più fare alcuno assegnamento. Vi è poi anche un altro argomento atto a dimostrare che il Campanella compose davvero in Calabria un libro de' Segnali della morte del mondo, ed esso è che il povero padre del filosofo, come emerge dal processo, nella sua ignoranza manifestò ad una persona essere il figlio occupato in comporre «un libro che non lo fece né Luca, né Giovanni, né nisiuno degli apostoli» etc., e questo libro naturalmente non poteva essere altro che il libro di cui stiamo trattando: del resto dobbiamo pure fare avvertire, che per quanto si voglia ritenere prodigiosa la potenza mentale del Campanella, apparisce pur sempre impossibile che nelle più feroci strette del carcere, tra il 1600 e il 1.° semestre del 1601, con la sorveglianza assidua nella quale era tenuto, co' duri tormenti a' quali si trovava sottoposto, egli abbia potuto scrivere, oltre la 1.a Difesa, gli Articuli prophetales e la Monarchia di Spagna, senza una precedente composizione di questi libri fatta in Calabria. Con ciò chiudiamo la lunga discussione, che non parrà eccessiva a chi consideri l'importanza capitale dell'argomento.

II. Continuando il racconto della vita del Campanella giungiamo al periodo dell'azione da lui spiegata in Calabria, che menò alle pratiche definite di poi congiura o tentata ribellione. L'idea della vicina fine del mondo, accertata dalle profezie, da' calcoli astronomici, da' fenomeni meteorologici, dal turbamento ed anche dallo scontento del paese, fu da lui efficacemente divulgata, con la giunta de' grandi fatti che doveano precederla. Dapprima nelle conversazioni, poi anche nella predicazione alla quale attendeva nella Chiesa del convento, egli annunziò che per la vicina fine del mondo dovevano esservi mutazioni e novità, e con ciò spinse all'estremo limite l'agitazione di aspettativa in ogni ceto della provincia; in sèguito, trattando con individui audaci e ben disposti, persuase loro segretamente che era venuto il tempo della santa repubblica universale da doversi godere prima della fine del mondo, che bisognava mettersi in armi e raccogliere compagni per proclamarla; essi con le armi, egli unitamente a' suoi frati con la lingua, avrebbero contribuito al movimento, e vi sarebbero nuove leggi, nuove costumanze, assai migliori delle precedenti, naturalmente da lui meditate. Qui non più la sua Narrazione soltanto, ma anche la Dichiarazione che scrisse nel momento in cui fu catturato, le Difese presentate nel processo che ne seguì, le diverse Lettere che scrisse più tardi in sua discolpa, l'Apologia che annesse all'ultima composizione degli Articoli profetali, dànno notizie in grande abbondanza; se non che queste debbono essere sempre rigorosamente vagliate, riscontrandole con le relative deposizioni de' suoi compagni di sventura, le quali, d'altra parte, debbono essere vagliate egualmente con molto rigore, poichè senza dubbio non tutte degne di fede.

Diremo d'un tratto esservi ogni motivo di ritenere, che l'idea della vicina fine del mondo, nella maniera da lui concepita, sia stata l'espressione de' suoi intimi convincimenti, non già un trovato per raggiungere maliziosamente il suo scopo, in cui si comprendeva un alto interesse pubblico, e al tempo medesimo un interesse personale, il compimento degli alti destini a' quali si credeva nato; bensì egli stimò conveniente trarre da tale idea un sollecito partito, sembrandogli i tempi molto propizii, per iscuotere il giogo spagnuolo e fondare il sistema di governo politico-religioso, che aveva immaginato poter dare all'umanità un assetto felice. Innanzi l'estremo anelito del mondo doveva godersi il secolo d'oro, ma occorreva far qualche cosa per conseguirlo; doveva godersi la santa repubblica antevista da' profeti, da' filosofi, da' savii d'ogni genere, ma occorreva pure arditamente conquistarla e difenderla. Di certo nell'ultimo periodo della sua dimora in Roma, e ne' sette mesi che passò in Napoli, egli ebbe a rivedere i tanti libri di profezia e di astrologia, che troviamo da lui citati ne' suoi Articoli profetali, e che gli sarebbe stato impossibile avere in Stilo. Così, oltre i libri de' Profeti e dell'Apocalisse, avea rovistato i detti di S.ta Brigida, S.ta Caterina, Dionisio Cartusiano, S. Serafino da Fermo, S. Vincenzo Ferrer, Abate Gioacchino, fra Girolamo Savonarola, tutti in somma quei pensieri di menti esaltate e però inferme, venerati e sostenuti con uno strano abuso di così dette figure, che darebbero argomento interessante per una storia, la quale narrasse almeno i principali tra gli enormi danni da essi recati. Aggiuntevi le considerazioni fatte da Lattanzio Firmiano, S. Ireneo, S. Giustino, S. Berardino, Clemente Alessandrino, Tertulliano, Vittorino, S. Sulpizio, Martino, Origene, ed inoltre i detti delle Sibille, dei Filosofi, de' Poeti, compresi Dante e Petrarca, avea trovato una colluvie di ragioni in sostegno della sua tesi, ragioni che sarebbe inutile ripetere ed è poi facile rilevare anche da que' ristretti Articoli profetali dati in sua difesa e riportati ne' nostri Documenti. D'altronde nella sua casa medesima seppe che la cugina Emilia, prima che egli tornasse in Calabria, era stata tenuta per morta durante tre giorni, e poi ripigliata la vita avea discorso delle cose e de' fatti di un altro secolo, con grande stupore de' teologi, diretta nelle sue visioni da un Cappuccino di Stilo che egli trovò già defunto; e chi sa quali visioni e presagi avea dati fuori questa cugina convulsionaria e catalettica intorno allo stesso Campanella, che ebbe a dichiararsene stupefatto! In conclusione egli vide sempre più chiaro l'avvicinarsi della morte del mondo, e con essa la conversione delle nazioni, il secolo d'oro e la repubblica cristiana universale che dovea godersi prima della fine del nostro pianeta; vide inoltre che i frati di S. Domenico doveano predicare e preparare questa repubblica e questo secolo d'oro, né riesce difficile intendere che in ciò doveva essere a lui riserbata la parte principale. Ma insieme co' libri di profezia egli avea rovistato anche quelli di astronomia ed astrologia, segnatamente quelli del Cardano, del Cipriano, dello Scaligero, dell'Arquato, e rifatti anche varii calcoli, si era persuaso dell'avvicinamento del sole alla terra per 10 mila miglia, della restrizione della via del Zodiaco, dello spostamento degli apogei, delle figure e perfino de' poli, in somma di una quantità di volute dissorbitanze, e molta impressione gli avea fatta la comparsa di una nuova stella avvenuta nel 1572, la coincidenza delle ecclissi prevedute pel 1601, 1605, 1607, de' grandi sinodi o della congiunzione magna determinata pel 24 10bre 1603. Cumulando tutte queste cose con le profezie, egli era venuto sempre più nel concetto che non solo le mutazioni dovessero dirsi immancabili, ma anche assai vicine, instanti, e tali le ripetè in sèguito del pari nelle sue Poesie, dove sono esposti alcuni profetali ed egualmente la congiunzione magna con la data assegnatale: se non che egli poi non attese il 1603 per le mutazioni prevedute, ma si diede a volerle pel 1600 ed anche prima, la qual cosa merita di essere notata.

Diversi fenomeni straordinarii, avvenuti nel tempo di cui stiamo trattando e in una gran parte del 1599, gli sembrarono anche un preludio delle mutazioni aspettate; ma con ogni probabilità gli sembrarono al tempo stesso utili incidenti per mettersi in grado di compiere la mutazione da lui concepita, profittando della grave impressione avutane nel paese. Vi fu prima di tutto la terribile inondazione del Tevere, oltre quella del Po, avvenuta nella penultima settimana del 1598 e continuata tre giorni interi, dal martedì al venerdì: questo immenso disastro della capitale del mondo cattolico fu conosciuto in Calabria a' primi giorni del 1599 e vi fece grandissimo senso. Come è ricordato nella Narrazione, fra Dionisio, tornando da Ferrara, si trovò in Roma nel tempo del disastro, e giunto in Calabria raccontava qual testimone oculare lo spaventoso avvenimento. Il Campanella predisse allora che vi sarebbero terremoti, come ricordò nella Lettera scritta alcuni anni dopo al Card.l Farnese, e realmente se ne verificarono gravissimi in Calabria e Sicilia più tardi, con altri fenomeni che spaventarono le moltitudini e che menzioneremo qui tutt'insieme per non intralciare di troppo il nostro racconto. Vi fu dapprima una enorme invasione di bruchi, e poi una pioggia torrenziale che precisamente in Stilo, durante la settimana di Pasqua, recò danni molto gravi, essendo anche parso a parecchi di vedere in aria una scala nera con un cipresso in cima; in sèguito, da' 7 a' 10 giugno, si verificarono i terremoti, disastrosi specialmente per Reggio e Messina, e poi, nel luglio, si vide «una cometa marziale e mercuriale, vicina a terra, che scorrea da levante a ponente», e il Campanella vaticinò «romori nella provincia e incursione armata contro i Reggitori di essa», vaticinio molto significativo, specialmente tenuto conto del tempo in cui fu fatto. Ma a tutti questi fenomeni sovrastava la condizione torbidissima della Calabria per le tante cause già esposte. Il Campanella non mancò di ricordarla, dichiarando essergli sembrata egualmente un preludio delle mutazioni: «le menti degli uomini colpite, le escursioni de' turchi e de' fuorusciti (de' quali i conventi erano pieni), i conflitti giurisdizionali, le scomuniche de' magistrati, indicavano ragionevolmente che era per seguire l'universale mutazione della terra». Le cose stavano veramente così, ed anche circa le escursioni de' turchi, documenti del tempo ci dicono che i corsari di Barberia, capitanati dal vecchio Amurat come in sèguito si vedrà, discesero il Venerdì Santo presso la Roccella e vi catturarono 40 persone. C'era poi ancora un altro fatto molto più significativo che il Campanella espose nella sua Dichiarazione: «conobbi con ogn'un che parlavo che tutti erano disposti a mutatione, et per strada ogni villano sentiva lamentarsi: per questo io più andava credendo questo havere da essere». Indubitatamente tali circostanze favorevoli decisero il Campanella ad osare, né si potrebbe dire che avesse osato con poca prudenza. Vedremo infatti che dapprima si limitò ad annunziare le mutazioni immancabili e vicine, senza che le autorità spagnuole se ne offendessero, la qual cosa merita pure di essere notata; quindi si pose a promuovere non senza destrezza i maneggi e i concerti per attuare il movimento, confidando, come è solito ne' cospiratori, che tutti vi avrebbero preso parte, e che con l'esempio il movimento si sarebbe propagato.

Innanzi di scendere a' particolari, gioverà chiarire anche meglio i concetti del Campanella in questo tempo, e l'influenza di essi in Calabria. Naturalmente noi non li possiamo desumere che da quanto egli ne scrisse, ma bisogna tener presente che egli ne scrisse in un tempo in cui dovea salvarsi ad ogni costo; e però le sue affermazioni vanno accolte fino ad un certo punto. Il lato veramente caratteristico delle sue affermazioni era rappresentato dal doversi avere un periodo di felicità prima della fine del mondo. Egli non era uno di quegli ordinarii Avventisti, de' quali non sono mai mancati gli esempi fino a' giorni nostri, Avventisti, che predicando essere il mondo vicino a perire, hanno insegnato doversi oramai pensare solamente all'anima: egli riteneva che secondo la profezia naturale e divina, prima della fine del mondo c'era da godere lungamente, e bisognava aspettarsi mutazioni che avrebbero menato al secolo d'oro, il quale poi era anche più lungo di quanto la parola stessa potea far supporre, né sarebbe avvenuto in modo del tutto facile e piano. Doveano verificarsi irruzioni di barbari; doveano i Maomettani dividersi sotto due Re, uno de' quali avrebbe immediatamente abbracciata la fede cristiana e la repubblica, come poi le avrebbero abbracciate tutti gli altri, persuadendosi che la glorificazione di Dio era veramente questa repubblica e non già il loro paradiso; doveano inoltre venire alla fede anche gli Ebrei, i quali negano il Messia perché non videro tanta gloria in Cristo. Doveano venire Gog e Magog ed esser vinti da' Santi; dovea venire l'Anticristo che si sarebbe sforzato di sovvertire la repubblica già iniziata, ma del rimanente costui non avrebbe dato da fare che per soli due anni e mezzo o tre anni e mezzo. E dovea il Re di Spagna soggiogare tutte le genti e congregare tutti i Regni, facendo l'ufficio di Ciro, e il Pontefice Romano vi avrebbe regnato costituendo l'unum ovile et unus pastor, la qual cosa sarebbe riuscita utile ad entrambi, ed anzi al Re più che al Pontefice. Intanto egli co' suoi calabresi, armati e ritiratisi sulle montagne per difendersi da' nemici del Re e del Papa, avrebbe dato un piccol saggio della gran repubblica universale, né propriamente per acquistarsi uno Stato, ma per fare al Papa ed al Re un Seminario di uomini illustri nelle lettere e nelle armi da poter servire nelle missioni di pace e di guerra. Tali sono le precise parole che leggonsi nelle sue Difese: ma nessuno vorrà prendere sul serio che egli ritenesse davvero dovervi essere il secolo d'oro propriamente col Pontefice Romano e con un Ciro della tempra del Re Filippo III; questo garbuglio di Papa, di Re, e di Seminario di uomini illustri in loro servigio rasenta la canzonatura. Tutti, non esclusi coloro i quali si sono rifiutati ad ammettere in lui disegni e pratiche di congiura, hanno capito che egli avrebbe voluto istituire ciò che descrisse in sèguito nella sua Città del Sole; e vedremo che molti cenni intorno alla futura repubblica, emersi nel processo per bocca de' suoi compagni di sventura, vi corrispondono esattamente. Senza dubbio egli intendeva il secolo d'oro con un governo sacerdotale, come l'intendeva anche Platone, vale a dire con un capo politico e religioso ad un tempo; ma i principii che dovevano campeggiare nel secolo d'oro, e nella sua repubblica destinata a farlo gustare, erano ben diversi da quelli del Concilio di Trento e delle Prammatiche spagnuole. Creda dunque chi vuole alla sua fede nella Monarchia universale da doversi acquistare da Spagna, e nella Monarchia cristiana da doversi reggere da Roma; noi ci permetteremo sempre di dubitarne moltissimo, almeno pel periodo che stiamo svolgendo e che fu appunto quello in cui egli scrisse la Monarchia di Spagna. Certa solamente giudichiamo la sua fede nella «profezia naturale e divina» quale egli l'espose ne' documenti sopra indicati, e però non crediamo che in lui la maschera del profeta abbia coverto il volto del cospiratore. Ci mena a ritenerlo la sua devozione costante alla sapienza per istinto divino e all'astrologia, come pure la qualità medesima della sua impresa; giacchè, per quanto i più sublimi atti di patriottismo risultino spesso una sublime follia, riescirebbe incredibile la follia di voler liberare il suo paese, con mezzi tanto limitati, da una potenza così sterminata come era a que' tempi la spagnuola, senza la fede in eventi straordinarii più o meno vicini, e in una grande missione alla quale per osservazioni proprie e d'altrui si credeva chiamato. né riesce dubbio che egli solo, animato da queste convinzioni, potè con acconci discorsi ispirare a determinate persone il proponimento audace di liberarsi dalla signoria spagnuola e costituirsi in repubblica. La notizia pura e semplice della vicina fine del mondo, come già altre volte era avvenuto dovunque, avrebbe tutt'al più ispirata a' calabresi la donazione de' beni alla Chiesa per salvarsi l'anima; invece in parecchi di loro, stati già in relazione col Campanella e dediti a raccogliere compagni armati, si trovò non solo la notizia di vicine mutazioni ma anche la notizia della «prossima apertura de' sette sigilli», il proponimento della «fondazione di una repubblica» con norme analoghe a quelle più tardi esposte nella Città del Sole, e sempre sotto gli auspicii del Campanella, nuovo profeta, nuovo legislatore, nuovo Messia, dottissimo in tutte le scienze, capacissimo nella divinazione del futuro, inoltre possessore di spiriti quantunque egli lo negasse costantemente.

Vediamo ora i particolari della sua azione. Nelle conversazioni private, uno de' primi cui manifestò dovervi essere una repubblica fu certamente fra Gio. Battista di Pizzoni. Costui fin dal 7bre 1598, come affermò il Campanella nella sua confessione in tormentis, si preparava a difendere certe «conclusioni» nel Capitolo da doversi tenere nel maggio 1599, e tra esse v'era una de statu optimae reipublicae; il Campanella, richiesto di consigli, parlò di questa repubblica, e disse che si dovea avere prima della fine del mondo perché così era profetato. Un altro con cui parlò di mutazioni e di futura repubblica fu fra Dionisio, dopochè costui venne da Roma e narrò i particolari dell'inondazione del Tevere, i quali doverono realmente destare una sensazione profonda; ne parlò quindi certamente ad altri, e poco dopo, lasciato ogni riserbo, ne fece il tema di una delle solite prediche nella Chiesa del convento. Il giorno della Purificazione di Maria, cioè il 2 febbraio (1599), il Campanella per la prima volta predicò che dovevano esservi presto mutazioni, naturalmente «nel Regno de Napoli, che fu sempre de revolutione, et hebbe principio mezo et fine in brieve sotto diverse fameglie... tanto più che parlando alli popoli li vedea lamentarsi delli Ministri del Re de molte cose»; era stato sollecitato da molti amici a dire il parer suo sulle novità che si aspettavano, ed egli si prestò volentieri. Una seconda volta bene accertata predicò sullo stesso tema, nella Settimana Santa, o meglio subito dopo la Settimana Santa che da altri documenti sappiamo essersi in detto anno celebrata dal 4 agli 11 aprile, questa volta sicuramente a proposito delle pioggie torrenziali che contristarono la città. Giusta la deposizione processuale di un frate suo compagno, «predicando dall'altare sopra la seggia» egli avrebbe più volte parlato delle profezie e delle mutazioni, «benvero che nella predica non diceva che quelle profezie parlassero di sè, ma lo diceva poi»: frattanto bisogna riconoscere che non vi sono elementi per affermare che queste prediche fatte più volte siano state fatte veramente spesso; e però il Campanella nella sua Dichiarazione potè dire che giurava di non aver mai pensato che le parole della sua predica avrebbero mossa tanta gente. Invece vi sono parecchi elementi per dire, che diffusa questa voce delle mutazioni secondo le profezie accertate dal Campanella, molti si dirigevano a lui per conoscere la cosa più addentro, e in questi colloquii privati egli parlava con maggior libertà e si estendeva a ragionare più largamente del secolo d'oro, esprimendo a tempo e luogo qualche suo pensiero intorno al modo di prepararvisi e di contribuirvi. Tutto mena a far credere che le prediche siano state poche e poco esplicite, avendole principalmente destinate a far intendere che il mondo era sul punto di «andare sottosopra». Ad una di esse, verosimilmente alla 2a suddetta, fu presente l'Auditore Annibale David, venuto a Stilo per trattare la pace tra le famiglie de' Contestabili e de' Carnevali, e bisognerebbe non conoscere cosa fosse un Auditore, per ammettere che costui avrebbe potuto lasciar correre la predica laddove questa gli fosse parsa criminosa. Solamente, giusta una deposizione che può ritenersi attendibile, durante la predica egli avrebbe una volta esclamato, «oh s'io potessi dire a modo mio»! con che senza dubbio riusciva ad eccitare tanto maggiormente la curiosità di coloro i quali più s'interessavano per le cose nuove. Non fu dunque un predicatore entusiasta a modo p. es. di fra Girolamo Savonarola; fu invece un cauto e circospetto agitatore, il quale, senza creare propriamente un fermento, perocchè questo già esisteva dovunque ed era più vivo in Calabria, col suo prestigio non solo lo favorì, ma col minore strepito possibile lo diresse ad uno scopo patriottico anzi umanitario. Tutti gli dimandavano spiegazioni, massimamente i cittadini più animosi e avversi alla signoria spagnuola, i fuorusciti tanto più avversi al Governo per le loro speciali condizioni, i Signori e gli ufficiali stessi del Governo. Il Capitano Francesco Plutino gli comunicò certe profezie di un Abate Idruntino divulgate in Napoli, le quali accennavano a mutazioni da dover accadere in Sicilia, in Toscana, in Calabria, e gli dimandò l'avviso suo sopra di esse: il Campanella, secondo ciò che scrisse nella sua Dichiarazione, gli avrebbe semplicemente risposto che potevano esser vere, perché altri astrologi e savii predicevano lo stesso; pertanto un testimone non sospetto depose che il Capitano diceva con ammirazione, «voi vedrete quello che è il Campanella». Infine lo stesso Governatore della Provincia D. Alonso De Roxas si diresse a lui «per lettera di curiosità» dimandandogli notizia delle mutazioni che tutti si aspettavano; e il Campanella lo compiacque, forse anche in tale occasione gli mandò il suo libro della Monarchia di Spagna già scritto pel Marthos e posto da banda senza avervi più pensato. Ad ogni modo il Campanella e il Governatore rimasero in termini amichevoli: né veramente il Governatore sospettò mai del filosofo; bensì vedremo che non mancò di occuparsi della cattura dei frati, quando si giunse a fargliene comprendere i disegni.

Tutto ciò mostra che il nome del Campanella risuonava in una sfera larghissima; e la cosa merita di essere notata, poichè da lui medesimo nelle sue Difese, e poi da molti altri fino a' giorni nostri, è stato detto impossibile che un povero frate, da poco tempo venuto in Calabria, avesse concepito un così audace progetto, ed avuto tanto credito. Ma le sue stesse affermazioni in altri documenti, al pari degli atti processuali, mostrano che il suo credito era divenuto straordinario. Egli medesimo affermò, che «tutta la gente» accorreva a lui per dimandargli della «fine del mondo e della renovation del secolo» dopo che egli le avea predicate, che inoltre «quando caminava per le ville e pe' castelli, si vedeva innanzi stupefatto torme di uomini che chiedevano rimedii per le proprie infermità e per quelle delle pecore e de' buoi», ed egli li indicava, e «tutti ritornavano lodando Dio». Nell'insieme del processo che ne seguì, da qualunque lato, da' frati e da' laici, da' fautori e da' persecutori, da' più alti e da' più umili, egli trovasi riconosciuto ed acclamato sempre «dottissimo in tutte le scienze, grandemente dotto, grand'omo», e il suo credito si rivela altissimo ed incontrastato. A lui venivano «le migliara di persone»; e l'accorto e prudente fra Pietro di Stilo, suo angelo tutelare, lo riprendeva pel tanto conversare con laici: tutti chiamavano «beato» il povero padre suo, e i nobili e Signori, particolarmente il Marchese d'Arena e il Principe della Roccella, che dimoravano più d'appresso a Stilo, lo vedevano volentieri e talvolta lo chiamavano nei loro castelli. Non ci è noto di che discorressero; ma senza dubbio l'argomento principale de' discorsi doveva essere la vicina fine del mondo, con tutti i cataclismi e l'immancabile secolo d'oro che dovevano precederla: e merita pure di essere ricordato un fatto da molti deposto nel processo, che cioè egli aveva una forza di persuasiva straordinaria, «perché quando parlava tirava ognuno a lui». Ma vi era anche qualche motivo riposto, atto a spiegare il prestigio di cui godeva, poichè l'ingegno, gli studii, i libri composti non sarebbero stati sufficienti in Provincie nelle quali, bisogna riconoscerlo, neanche oggi queste cose rappresentano i fondamenti del credito. Vi era l'opinione che egli «avesse spiriti, comandasse spiriti, disponesse di spiriti»: lo si diceva pubblicamente in Calabria, e i più timorati pensavano che la sua scienza era o del demonio o d'Iddio, ma la massa de' frati, de' laici e di ogni ceto, riteneva con sicurezza che fosse del demonio. Si era giunto perfino a scovrire dove avesse il suo spirito familiare; l'avea nell'unghia. Così dicevasi a Stilo, e forse se ne può trovar la ragione in un'abitudine del Campanella di guardarsi le unghie, come più in là vedremo notato segnatamente da' terrazzani di S. Caterina, nel convento Domenicano di S. Nicola ove una volta si recò. Certo è che a cominciare da' frati suoi più intimi amici, come fra Dionisio Ponzio, ed anche fra Domenico Petrolo, ebbero, ognuno a sua volta, la curiosità di chiedere direttamente al Campanella se fosse vero che avea spiriti; tra le persone poi che trattarono con lui per la congiura, taluno gli dimandò in generale de' diavoli e dell'arte magica, qualche altro gli chiese uno spirito familiare per vincere al giuoco, altri chiesero segreti per avere donne; ancora, a tempo delle carcerazioni, taluno voleva che il Campanella «havesse fatto tanto con gli diavoli che l'havessero cavato de prigione». Fra Tommaso mostravasi quasi sempre infastidito di siffatte dimande, e ne prendeva talvolta occasione per manifestare che egli non credeva all'esistenza né de' diavoli né dell'inferno, ed anzi al Petrolo una volta disse che in Roma, dove era conosciuto, si riteneva che egli non credesse a queste cose; ma specialmente i laici non ne rimanevano persuasi, e qualcuno anche si scandalezzava che negasse i diavoli. Aggiungiamo che fra Dionisio medesimo gli domandava confidenzialmente se in Roma fosse stato mai condannato all'abiura, ed egli lo negava, ed adduceva quale unico motivo de' suoi travagli l'essere stato erroneamente creduto autore di un bruttissimo Sonetto contro Gesù Cristo: così non si divulgò mai il fatto dell'abiura, e il suo credito rimase anche da questa parte inalterato.

Siamo in maggio 1599. Avvennero allora due fatti interessanti per la nostra narrazione; il Capitolo de' Domenicani in Catanzaro, la trattativa di pacificazione delle famiglie de' Contestabili e de' Carnevali di Stilo.

Il Capitolo de' Domenicani in Catanzaro fu preseduto da fra Giuseppe Dattilo di Cosenza, essendo Definitore fra Gio. Battista di Polistina, due nomi che dimostrano assolutamente in auge la fazione avversa a quella di fra Dionisio Ponzio, e però avversa agli amici di costui, tra gli altri al Pizzoni che avea disertato il campo del Polistina, ed anche al Campanella antico amico di fra Dionisio. Comunque i Capitoli fossero di breve durata (questo di Catanzaro non durò più di quattro giorni), i più culti tra' frati costumavano darvi un saggio della loro abilità sostenendo «conclusioni», ossia facendo una disputa sopra alcune proposizioni che annunziavano in precedenza. Il Pizzoni, andatovi a sostenere le conclusioni che abbiamo già menzionate più sopra, si vide per la sua mala vita condannato al carcere, dietro proposta del Polistina che volle trarne vendetta. Per non esser preso se ne fuggì immediatamente, senza cappello e senza cappa, con grande scandalo della città, andando a rifugiarsi in un convento di Zoccolanti; ma fu subito richiamato, mercè l'opera del Vescovo di Catanzaro, perché sostenesse le conclusioni state già pubblicate, e le sostenne con plauso alla presenza anche del Governatore De Roxas e degli Auditori invitati ad intervenire alla disputa; di poi, saldati i suoi conti, se ne andò al piccolo convento di Pizzoni, dove era stato assegnato e dove più in là lo troveremo. Quanto al Campanella, egli avrebbe certamente disputato in quel Capitolo, ma non vi fu neanche chiamato; ed è certo che se ne lagnò in sèguito con fra Paolo della Grotteria, dicendo che «li litterati non erano premiati né exaltati secondo il dovere, et anzi sbassati et tenuti sotto contra ogne giustitia, et che a tale effecto non era esso stato chiamato al Capitolo di Catanzaro, perché essendo litterato cercavano di tenerlo sepolto». Le cose stavano realmente così, né c'è da farne le meraviglie: si è visto sempre tra' frati esaltata anche più del dovere la dottrina di qualcuno elevatosi un poco sul livello comune, poichè questo accredita l'Ordine, ma si è vista ben di rado onorata la dottrina nelle candidature agli ufficii; e del Campanella può dirsi con certezza che tra' frati non aveva e non ebbe mai sèguito, quantunque ne avesse tanto tra' laici. Più tardi, nelle Difese, egli scrisse che non aveva mai ambìto i gradi de' quali era degno nella Religione: ma il fatto è che nessuno pensò mai di dargli gradi, che non fu nemmeno chiamato al Capitolo e che ne rimase scontento. Quanto a fra Dionisio, egli non ebbe la conferma nel Priorato, rimase puro e semplice lettore ed assegnato al convento di Taverna; ma sdegnato ed inquieto andò vagando a lungo per la provincia, innanzi di recarsi al luogo assegnatogli. Scorse due settimane dalla celebrazione del Capitolo, si recò a Stilo presso il Campanella, con nessun gusto di fra Pietro di Stilo, che trovandosi in buoni termini col Polistina era stato creato Vicario di quel convento. Fra Pietro riprendeva il Campanella per questa sua amicizia con fra Dionisio, parendogli che quei di Stilo, soliti a visitarlo e a fargli ossequio, se ne allontanavano stomacati dall'udire fra Dionisio che parlava senza ritegno delle più laide oscenità, delle quali si vantava per giunta. Circa dieci giorni si trattenne fra Dionisio presso il Campanella: non sappiamo di quali argomenti si occupassero i due frati ne' loro colloquii, ma forse le tirate oscene di fra Dionisio servivano a mascherare gli argomenti veri. Certo è soltanto che negli ultimi giorni della sua dimora in Stilo, verso la fine di maggio, essendo venuti, ad occasione della pace tra' Contestabili e i Carnevali, da un lato Marcantonio Contestabile accompagnato da un Gio. Tommaso Caccìa di Squillace e d'altro lato Maurizio de Rinaldis di Guardavalle, tutti e tre fuorusciti, fra Dionisio si strinse in amicizia specialmente con Maurizio e col Caccìa che non aveva mai conosciuti. E dopo certi colloquii intimi, de' quali dovremo occuparci più in là, fra Dionisio partì in cerca di amici, e con essi se ne andò fino a Messina, senza che sia stato mai chiarito lo scopo di tale viaggio. Ci basterà qui, intorno a' detti colloquii, ricordare pel momento ciò che il Campanella ne disse nella sua Narrazione. «Erano stati in convento di Stilo Mauritio Rinaldi, e M. Antonio Contestabile per trattar la pace tra Carnelevari et Contestabili; et Fra Dionisio sendo di passaggio intervenne a questi trattati e strinse amicitia con Mauritio e trattò di uscir in campagna e dimandavano il Campanella essi e molti altri di quella cometa di Calabria et terremoti, et segnali della rinnovatione, e li dimandavano se venia rovina alla provincia come parea da ponente secondo il corso della cometa (come proprio venne Carlo Spinello che la travagliò) che cosa havevano da fare; e lui diceva mettersi sù le montagne con le armi come fecero li Venetiani nelle lacune quando venne Attila, et li Spagnoli in Asturia, quando intraro li Mori in Ispagna, e questo dicea per modo di ragionamento e mischiava li segni del giudizio universale col particolare della provincia, secondo s'usa, et ognuno pensava a cose nove, e sparlavano in diverse guise». La cometa fu vista veramente più tardi, in luglio, e d'altra parte il Campanella e fra Dionisio aveano già discorso con Maurizio, in casa di un sacerdote a nome Gio. Jacovo Sabinis, prima che Maurizio venisse nel convento, come risulta da' particolari della trattativa di pace; ad ogni modo le preoccupazioni vi erano, e ne fu discusso in guisa, che da queste discussioni prese origine e data quella serie di concerti e maneggi che diedero motivi all'accusa di congiura. Più volte in sèguito il Campanella affermò pure in sua discolpa, che fra Dionisio voleva uscire in campagna per ammazzare coloro i quali avevano ammazzato suo zio; ma questo fatto era già vecchio di alcuni anni, ed abbiamo veduto che vi erano stati per esso lunghi processi in Calabria e in Napoli menati innanzi da fra Dionisio; certamente costui, venuta la «rinnovazione del secolo», avrebbe vendicata la morte di suo zio, ma appunto questa rinnovazione bisognava innanzi tutto procurare fondando la repubblica.

La trattativa di pacificazione delle due nobili e ricche famiglie di Stilo, quella de' Contestabili e quella de' Carnevali, fu commessa al Campanella dal medesimo Auditore David che non aveva potuto riuscirvi: questo risulta dalla Dichiarazione che fu poi scritta da fra Tommaso, e mostra la considerazione di cui godeva non solo presso i cittadini di Stilo ma anche presso gli Agenti del Governo. Documenti da noi rinvenuti, nell'Archivio di Stato e nel Carteggio del Nunzio Aldobrandini, ci mettono in grado di far conoscere gl'individui delle due famiglie e taluni particolari che riflettono la loro inimicizia. La famiglia Contestabile componevasi allora di Paolo padre, Porfida madre, Giulio, Geronimo, Fabio e Marcantonio figli; Geronimo di Francesco avea sposato Laudomia sorella di costoro. La famiglia de' Carnevali era più sparpagliata: in una casa dimorava Prospero Carnevale col fratello Gio. Francesco vecchio sacerdote, e col figlio Fabrizio Arciprete; in un'altra casa dimorava Gio. Paolo altro figlio di Prospero con la sua famigliuola; in una terza casa gli altri figli di Prospero, Fabio e Tiberio (il medico, trasferitosi poi in Napoli come abbiamo già visto). Causa dell'inimicizia il solito gusto della prepotenza, col dominio segnatamente nell'amministrazione della città. De' Contestabili il più giovane, Marcantonio, era manesco e violento oltremodo: le scritture dell'Archivio di Stato lo mostrano omicida già prima del 1595, il Carteggio del Nunzio lo mostra fuoruscito per tentato omicidio in persona di Gio. Paolo Carnevale, il processo di eresia del Campanella ce lo mostra feritore dell'altro fuoruscito che soleva accompagnarlo, il Caccìa, mediante colpo di archibugio; del resto tutti i Contestabili si comportavano con alterigia e violenza, come lo mostra un documento che non ammette replica, proveniente dal governatore o capitano di Stilo. I Carnevali non avevano qualcuno de' loro da opporre a Marcantonio Contestabile, ed interessarono per questo un amico, Maurizio De Rinaldis di Guardavalle a que' tempi casale di Stilo, parimente giovane, nobile e fuoruscito per omicidio; costui naturalmente veniva favorito in tutti i modi da' Carnevali e loro parenti, e così D. Gio. Francesco e D. Fabrizio Carnevale si trovavano da Geronimo Contestabile e Geronimo di Francesco accusati presso il Nunzio di negoziazione illecita e ricetto di banditi, e il Nunzio li aveva citati a comparire, e per tale motivo figurano nel suo Carteggio. Con questi due gagliardi a fronte, Marcantonio e Maurizio, sostenevasi l'inimicizia, e non occorre dire quanto il paese ne fosse turbato: nel corso del processo del Campanella, essendo accaduto di doverne parlare, Giulio Contestabile depose che l'inimicizia esisteva tra Paolo suo padre e Prospero Carnevale, e tra lui Giulio e Gio. Paolo Carnevale; ma ognuno intende che egli volle attenuare le cose e porre nell'ombra il fuoruscito Marcantonio. Secondo ciò che il Campanella scrisse nella sua Dichiarazione, egli menò innanzi gli accordi fino a doversi «ratificare la pleggeria della pace», e però ebbe ad intrattenersi più volte con entrambe le parti e loro aderenti, e poi anche co' fuorusciti che ne rappresentavano il braccio forte: ma è lecito dubitare che avesse raggiunto tale risultamento, e che per raggiungerlo vi fosse bisogno della presenza de' fuorusciti. Ad ogni modo Marcantonio Contestabile, insieme al Caccìa, dimorò otto giorni nel convento di S. M.a di Gesù, dove stava sicuro pel dritto di asilo; i suoi parenti, e massime Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, vi accedevano tanto più spesso, e molti discorsi furono in tale circostanza scambiati col Campanella intorno alle future mutazioni. Maurizio, secondochè poi disse il Campanella, chiedeva di poter dimorare anche lui nel convento, ma il Campanella non volle, forse perché temè qualche possibile scena violenta tra lui e Marcantonio, e difatti essi rimasero sempre separati; si trattenne quindi nella casa di D. Gio. Jacovo Sabinis sacerdote, cognato di Gio. Paolo Carnevale, dove il Campanella lo vide andandovi di sera insieme con fra Dionisio e Gio. Gregorio Prestinace grande amico suo e compare di Maurizio; ma poi Maurizio venne anch'egli di sera nel convento, in sèguito vi venne pure di giorno, e naturalmente una gran parte de' colloquii cadde sulle mutazioni e sul miglior modo di profittarne. I discorsi scambiati su questo tema debbono essere minutamente riferiti e vagliati; ci occorre intanto dire che la pace non si effettuò, la qual cosa non può far meraviglia a chi consideri come si effettuavano allora le paci. Per regola se ne occupava un Auditore a ciò delegato dalla R.a Audienza, e le parti, dietro concessioni reciproche, finivano per sottoscrivere un atto, dando la parola sub nomine Regio al pacificatore e la fede vicendevolmente e personalmente tra loro, con promessa ed obbligo sotto determinata «pena pecuniaria et etiam corporale», di non dover più, dopo la data parola e fede, mostrarsi nemici. Naturalmente a tutto ciò non prendevano parte i fuorusciti, i quali si trovavano fuori la legge, ed avevano la missione pura e semplice di fare un aggravio e difendere da un aggravio, o per lo meno far paura mostrando la forza e potenza della parte che li sosteneva in campagna. Laonde, nel caso attuale, si capisce poco che Marcantonio e Maurizio fossero venuti per «ratificare la pleggeria della pace»; si capisce un po' meglio che Maurizio fosse venuto «per farsi vedere a Marc'Antonio Contestabile, acciò li Contestabili sapessero che i Carnelevari ancora hanno gente armata et non hanno paura», secondochè espose egualmente il Campanella nella Dichiarazione medesima. Con siffatta disposizione degli animi, con la presenza di persone armate di tutto punto, come le descrissero di poi nel processo diversi testimoni oculari, la pace non poteva effettuarsi; ma potè effettuarsi una tregua, e certamente vi contribuirono non poco i discorsi ed anche i progetti intorno alle mutazioni. Consecutivamente, nel processo, Giulio Contestabile disse aver lui rotta la trattativa, poichè avendone scritto a suo fratello Geronimo il quale dimorava in Napoli, costui rispose che il Campanella era stato inquisito di eresia e che perciò non voleva si trattasse con simile persona, onde poi essendo stata da lui divulgata la cosa, il Campanella gli divenne inimico capitale: ma si ravvisa qui facilmente il solito ripiego della inimicizia capitale, che si costumava mettere innanzi per invalidare le deposizioni contrarie; Giulio, nel tempo di cui trattiamo, era e rimase uno de' più fervidi seguaci del Campanella.

Si direbbe che il Campanella, in mezzo a quella balda gioventù, a contatto di que' focosi e audaci fuorusciti, la cui esuberanza di vita poteva esser diretta a uno scopo tanto migliore, non abbia veduto più alcuno ostacolo all'attuazione de' suoi disegni: di certo in pochi giorni egli si spinse incomparabilmente più di quanto avea fatto sin allora, ma pur sempre con cautela e circospezione. Sin allora, tra' discorsi generali intorno alle mutazioni e alla santa repubblica che dovea godersi prima della fine del mondo, egli aveva appena lasciato intravvedere in privato, alle persone intime, che le profezie additavano segnatamente lui stesso, che parevagli averlo Iddio «eletto proprio a insegnare la verità et levare molti abusi grandi che regnavano nella Chiesa», come disse a fra Domenico Petrolo e separatamente anche al Pizzoni: ma a fra Pietro di Stilo sappiamo che, presente l'altro amico Gio. Gregorio Prestinace col quale confabulava in segreto spessissimo, egli due volte avea fatto conoscere come godendo l'influsso di sette pianeti ascendenti favorevoli si aspettava di essere Monarca del mondo; la quale proposizione, tenendo conto del linguaggio fratesco, potrebbe anche semplicemente significare che si aspettava di essere capo di uno Stato. Inoltre si era lasciato sfuggire di bocca certi principii meno ortodossi, che aveano scandalizzato qualcuno, ma non già tutta quella massa di principii eretici, veri e supposti, che emerse in sèguito e che si deve riferire ad un periodo posteriore. Difatti, fra Francesco Merlino, al quale non vi è ragione di negar fede, trovandosi priore in Placanica ed avendo scambiate varie visite col Campanella, poteva affermare solamente di avere udito dire da lui che nel mondo si vive a caso, aggiungendo che molte cose furono dette dopo la carcerazione senza sapersi come uscissero in campo. Fra Gio. Battista di Placanica, al quale si può del pari aggiustar fede, avendo dimorato nel convento di Stilo dal febbraio all'aprile dello stesso anno, poteva affermare qualche cosa di più, ma non altro che questo: che il Campanella parlava degli atti venerei in modo da far credere che non costituissero veramente peccato, dicendo essere ogni membro destinato a certe funzioni, e certi organi fatti appunto per gli atti venerei; che paragonava la legge de' Turchi con quella de' Cristiani e la lodava in certe cerimonie; che giudicava inutili tanti Ordini religiosi, ritenendoli baie fatte per tener quieti i popoli; che non credeva poter le Messe giovare alle anime de' defunti quando il celebrante fosse in istato di peccato mortale; che discorrendo una volta dell'inferno con alcuni suoi discepoli avea detto «che inferno, che inferno!» Aggiungeva poi che avendo il Campanella domandato a Mons.r di Squillace ed al Provinciale la licenza di predicare in Monasterace, la licenza non gli fu concessa, ed in tale occasione si era spinto a dire qualche cosa in dileggio della scomunica. Forse anche dietro tale circostanza accadde, che avendogli il povero padre suo raccomandato di accettare una predicazione offertagli dalla città di Stilo col compenso di 200 ducati (verosimilmente la predicazione Quaresimale) per venire in aiuto alle sorelle che erano «pezzenti», egli disse che «non voleva fare l'officio di Cantanbanco»; per le quali parole rivelate da taluno di Stignano, insieme col fatto dell'avere fra Tommaso divinato l'avvenire de' suoi fratelli, e dell'essersi occupato a scrivere quel tale libro che non l'avea scritto né Luca né Giovanni, il povero Geronimo fu poi menato innanzi al S.to Officio in Napoli. Del resto non bisogna nemmeno credere che il Campanella avesse sempre manifestato con serietà proposizioni incriminabili, mentre, comunque i suoi biografi ce l'abbiano descritto grave e cogitabondo perché filosofo, è certo invece che soleva di continuo burlare e motteggiare specialmente i frati, e la tendenza sua a motteggiare, come al contraddire, era spesso il movente di altrettali proposizioni. Talora il suo motteggio riuscì davvero scandaloso; infatti più volte nell'incontrare alcuni frati di S. Francesco della Scarpa (altro convento di Stilo) mentre andavano nella loro Chiesa, alludendo a Gesù crocifisso egli si pose a dire, «dove andate? andate ad adorare un appiccato!» «Cose fratesche, cose ociose» le definiva fra Pietro di Stilo, aggiungendo sul Campanella, «quando burlava con li frati... dico che era malo», e a fra Pietro si può credere pienamente.

Ma ne' colloquii con Maurizio, con Marcantonio e Gio. Tommaso Caccìa, co' parenti o aderenti di costoro e con gli amici suoi che in questo tempo frequentavano pure la sua cella, egli si pose ad eccitare vivamente ciascuno che volesse profittare delle mutazioni, che volesse concorrere e trovare molti compagni i quali concorressero a fondare la repubblica, indicando il modo, disegnando il tempo e le alleanze, prevenendo e combattendo le obbiezioni, manifestando alcune riforme civili ed anche religiose che bisognava introdurre, atteggiandosi francamente a riformatore e legislatore; e fra Dionisio si pose a secondarlo, bensì con certi modi tutti suoi, e i più infiammati si posero a numerare le forze e gli amici; di poi ciascuno più o meno, non escluso il Campanella medesimo, si occupò veramente di procurare amici e di prepararsi al gran giorno. Come fu rivelato ne' processi consecutivi da Gio. Tommaso Caccìa, e del pari da fra Pietro di Stilo e dal Petrolo (ciò che mostra la credibilità delle rivelazioni del Caccìa), frequentavano la cella di fra Tommaso e parlavano segretamente con lui, oltre Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco cognati, Gio. Gregorio Prestinace «amico e familiare di notte e di giorno», Fulvio Vua, Tiberio Marullo; inoltre Scipione Marullo figlio di Tiberio, D. Gio. Jacovo Sabinis, Giulio Presterà, Francesco Vono, Fabrizio Campanella e Paolo Campanella, i quali ultimi sappiamo che dimoravano in Stignano. Erano le dette persone di Stilo, per la massima parte, delle migliori famiglie della città e ne' migliori anni della loro gioventù, come ci risulta da' documenti che per alcuni ci è riuscito di trovare; a ragione quindi il Campanella nelle sue Difese potè dire, che non si propose di servirsi soltanto di fuorusciti, i quali del resto considerava meno come nemici del Re che come uomini armati, menandoli nella retta via, ma «si propose di servirsi ancora di uomini dabbene non fuorusciti come dal processo è comprovato». A costoro si deve aggiungere un fra Scipione Politi conventuale di S. Francesco, che poco prima o poco dopo questo tempo rimanea sovente a pranzo col Campanella e qualche volta rimase con lui anche di sera, come fu attestato da fra Pietro di Stilo. Ma se tutti costoro ebbero colloquii intimi col Campanella, per la più gran parte di essi, riuscita a sfuggire alle ricerche del Governo, ce ne sono rimasti ignoti i particolari, mentre il Campanella soleva sempre parlare a non più di uno o due amici per volta: ed è facile intendere che segnatamente i particolari de' colloquii in persona di Gio. Gregorio Prestinace, amico sviscerato del Campanella e compare di Maurizio, sarebbero riusciti importantissimi, come pure, ad un grado minore ma sempre cospicuo, quelli in persona di Marcantonio Contestabile; possediamo intanto quelli nelle persone di Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, del Caccìa, di Maurizio, ed essi valgono a farci capire gli altri che ci mancano. Eccoci dunque a darne conto e senza parsimonia, anche a costo di doverci ripetere quando avremo a narrare lo svolgimento de' processi; giacchè possiamo desumere le notizie di tali colloquii, come di tutto l'andamento della congiura, solo da ciò che ne' processi si raccolse, e quindi siamo costretti a riferire le deposizioni ed anche a discutere la credibilità di esse ogni volta; così le ripetizioni riescono inevitabili e non può accadere altrimenti, semprechè non si voglia un racconto della congiura meramente fantastico o per lo meno non documentato.

I colloquii con Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco furono esposti dal Campanella medesimo nella sua Dichiarazione, e naturalmente riescono del tutto a carico di costoro, verso i quali il Campanella era allora animato da fortissimo risentimento, avendone avuto un orribile volta-faccia: ma apparirà evidente che per fare e dire come questi due fecero e dissero, aveano dovuto essere stati già eccitati dal Campanella, il quale del resto, anche in altri casi analoghi, parrebbe che procedendo con molta circospezione avesse talvolta eccitato gl'interlocutori a pronunziarsi, senza che egli medesimo si fosse pronunziato troppo. Giulio dunque si mostrava molto infiammato contro Spagna, ed un giorno nella stanza del Campanella, presente il Petrolo, calpestò ed ingiuriò l'immagine del Re Filippo dicendo «guarda a chi stamo soggetti, al Re delli uccelli»; e si lagnava degli ufficiali Regii e degli spagnuoli, che gli aveano posto il padre in prigione, favorendo, secondo lui, i Carnevali; e diceva che più volte era stato disposto ad andare in Turchia e che co' turchi si aiuterebbe, e altre volte vantavasi di avere, nell'anno precedente, concertato con alcuni soldati spagnuoli di ribellarsi perché il Re non li pagava. Geronimo di Francesco poi mostravasi non meno infiammato: si lagnava di aver dovuto spender molto delle sue sostanze pe' lunghi travagli patiti, e diceva di avere speranza solo nelle mutazioni che si aspettavano, avvertendo il Campanella che non si esternasse con Giulio suo cognato perché era amico infedele, ma che al tempo del negozio avrebbe fatto molto, perché era astuto e sagace. L'uno e l'altro poi, quando il Campanella diceva che sarebbero avvenute mutazioni, affermavano che vi avrebbero avuto gran parte, e indicavano Marcantonio come colui che aveva a sua disposizione molti banditi, ed amici e parenti, la qual cosa il Campanella giudicava esser bene, poichè succedendo una guerra si potea stare con chi vincesse. Ed una volta che il Campanella diceva loro che la terra di Stilo non avea bisogno di presidio, come era stato notato dal Principe di Squillace, perché tutti i passi sono stretti, essi affermavano che vi starebbero per liberarsi dal Governo spagnuolo, e numeravano i molti amici di Marcantonio, il figlio di Nino Martino con molti altri della piana (piana di Terranova), i Grassi con cinquanta compagni, i molti parenti di Mesiano patria della madre de' Contestabili. A queste rivelazioni potremmo aggiungere anche un'altra tratta da deposizioni di altri individui, che cioè il Di Francesco voleva dal Campanella uno spirito familiare per vincere al giuoco; ma ci preme tener dietro alla faccenda della congiura. I due cognati dunque avrebbero con Marcantonio, e con tutti que' fuorusciti e parenti, liberato Stilo da Spagna, e poi? I colloquii con altre persone, rivelati da chi non aveva un interesse diretto a nascondere qualche cosa, rispondono a tale dimanda. - Veniamo a Gio. Tommaso Caccìa. Con questo giovane bandito di Squillace, di soli 25 anni ed abbastanza incolto quantunque clerico, dipendente in tutto da Marcantonio Contestabile, i colloquii non furono molto larghi, eppure forniscono qualche utile notizia: il peggio è che essi risultano dalle deposizioni del Caccìa medesimo, e queste, per abuso, furono fatte anche nel tribunale laico fra tormenti atroci, e nel tribunale ecclesiastico fra gravi paure e seduzioni. Egli seppe da Marcantonio che il Campanella era un grande uomo, e presso di lui vide e conobbe Dionisio: trovatosi una volta solo col Campanella, ebbe curiosità di dimandargli qualche cosa intorno alla magia, ma il Campanella lo chiamò sciocco, perché credeva a' diavoli e all'inferno. Frattanto, nel parlare con Marcantonio, il Campanella diceva di voler fare nuove leggi, migliori di quelle de' Cristiani, e che quando predicherebbe si sarebbe conosciuta la verità, e volea perfino far mutare il modo di vestire solito, «et volea che si portasse una giobba longa o sia veste» (qualche cosa di ciò che fu poi scritto nella Città del Sole). E diceva che presto doveano esservi mutazioni, sollevazioni e rivoluzioni, perché così conosceva per scienza, astrologia e profezia, e perciò beato chi si trovasse armato, ed ognuno dovea star pronto e cercare di avere amici, che gli sarebbe stato utile assai. E una volta Giulio Contestabile, dopo di avere parlato segretamente col Campanella, dimandò al fratello Marcantonio: ebbene Marcantonio che ne dici? sarà vero ciò che dice fra Tommaso? E Marcantonio: troppo sarà vero e presto lo vedrai. Così egli poi, il Caccìa, si diede a cercare qualche amico, e condusse al convento un altro fuoruscito, Gio. Francesco d'Alessandria, e fece varii altri giri presso il Pizzoni, presso Dionisio etc. come vedremo a suo tempo.

Passiamo a' colloquii avuti con Maurizio de Rinaldis, colloquii d'interesse capitale, poichè, dopo il Campanella, egli fu il soggetto più importante in questa faccenda, onde a ragione, nelle lettere al suo Governo, il Residente di Venezia in Napoli lo indicò qual «capo secolare della congiura». Appunto per tale circostanza è necessario dare qualche notizia di più intorno alla persona sua: per disgrazia i documenti ci fanno difetto in modo straordinario; non di meno abbiamo tanto da poter mettere la sua nobile figura nel posto che le compete. Giovane a 27 anni, sposo a Giulia Vitale da cui avea avuta una figliuoletta a nome Costanza, apparteneva ad una delle più nobili famiglie di Stilo, che dimorava in Guardavalle, a que' tempi, come abbiamo già detto, casale di Stilo. Tutti gli storici particolari di Calabria, ripetendosi, parlano de' quattro fratelli de Rinaldis di Stilo, Patrizio, Nicola, Francesco e Ludovico, cospicui nelle armi, che furono dichiarati familiari da Carlo V pei meriti loro, ed ottennero di portare nel loro stemma l'aquila nera imperiale: noi ci siamo ritenuti in dovere di farne ricerca nell'Archivio di Stato, ed abbiamo rinvenuto che Nicola e Francesco furono una persona sola, e che vi fu invece un altro de Rinaldis premiato a nome Antonello, verosimilmente fratello di costoro, tutti figli di Tommaso de Rinaldis; i lettori potranno avere ogni cosa sott'occhio, consultando i nostri documenti. Il Parrino disse Maurizio «persona di non mediocri ricchezze», e vedremo il Campanella, benchè inesattamente, attribuire la persecuzione e morte di Maurizio al desiderio ingeneratosi nel fiscale della causa di avere un feudo che Maurizio possedeva. Secondo le notizie del Residente di Venezia che ne fece sempre in vita e in morte i più grandi elogi, egli era stato uomo d'arme, e tale troviamo veramente il costume di casa sua e de' pochi nobili di provincia non degenerati; avrebbe allora con ogni probabilità servito nel Battaglione a piedi della milizia provinciale. Del resto siamo per vederne l'assennatezza, la preveggenza, l'attività, la forza d'animo anche straordinaria, con la quale seppe esser superiore ad ogni risentimento e sfidare torture inaudite, non disgiunta per altro da un attaccamento tenace alla religione dei padri suoi, attaccamento dichiarato al Campanella fin da principio, per lo quale s'indusse poi a fare le più larghe rivelazioni a piè del patibolo «senza alcuna condizione di salvarsi la vita». Il Campanella dapprima sentì per lui la più viva simpatia, «per haverlo visto cossì pronto et audace» come si legge nella sua Dichiarazione; di poi lo proclamò «generoso», lo qualificò un «eroe», avendo udito che nelle atrocissime torture non avea rivelato nulla, come si legge nelle sue Poesie clandestine che oggi abbiamo la fortuna di poter pubblicare; da ultimo l'infamò con la più grande disinvoltura, avendo saputo che sotto il patibolo avea fatto rivelazioni, come si legge nelle stesse Poesie, nella Difesa, e in tutte le altre scritture analoghe date fuori in sèguito. Vedremo queste cose ampiamente a tempo e luogo, ma essendo finora conosciuta la sola parte ignominiosa attribuita a Maurizio dal Campanella, dobbiamo notare che essa non fu punto vera, premendoci di chiarire le qualità di Maurizio e al tempo stesso la credibilità delle sue rivelazioni; poichè i colloquii da lui avuti col Campanella, e tutti i fatti consecutivi, si desumono essenzialmente dalle sue rivelazioni, le quali sono degne di fede per loro medesime, più che per vederle appoggiate da quelle degli altri inquisiti che gli erano stati sempre a fianco. Aggiungiamo che Maurizio era fuoruscito dal novembre 1598, come fu deposto dal suo cognato e compagno Gio. Battista Vitale, nobile anche lui ma di un livello morale abbastanza inferiore: costui disse pure che si erano allontanati da Guardavalle «per certe pugnalate», e che queste pugnalate avessero prodotto omicidio lo attestò poi dovunque il Campanella, specificando nella sua Narrazione essere stati uccisi da Maurizio un suo cugino e una donna. Gio. Battista Vitale eragli compagno, e solevano insieme alloggiare in Davoli presso il sacerdote D. Marcantonio Pittella; ma questa volta, nella venuta a Stilo, Maurizio fu accompagnato solamente da un suo servitore a nome Tommaso Tirotta, il quale lo attestò nella sua deposizione, poichè egli pure, egualmente che il Pittella, fu poi inquisito per la congiura. - Come dicevamo, i colloquii del Campanella con Maurizio si desumono essenzialmente dalle rivelazioni di Maurizio, le quali furono di doppio ordine, le une relative alla congiura fatte nel tribunale laico, le altre relative all'eresia fatte a Delegati del S.to Officio; e poichè possediamo le une e le altre, le prime veramente in brani, ma bastevoli pel caso attuale, le seconde per intero, invitiamo i lettori a percorrerle, facendo anche il confronto con ciò che il Campanella espose nella sua Dichiarazione. In tale confronto si noterà certamente la concordanza da più lati tra il Campanella e Maurizio, malgrado il molto tempo e i terribili avvenimenti interceduti; e questo ci sembra anche un argomento non lieve per giudicare la veridicità di Maurizio egualmente nelle cose le quali il Campanella, pei bisogni della sua difesa, o tacque o espose per modo da mostrarne autore Maurizio.

In sostanza, sia pure che Maurizio abbia rivolto al Campanella le solite dimande sulle mutazioni e su ciò che vi era da fare, il Campanella, in presenza di fra Dionisio e del Prestinace, lodò che egli stesse in arme e l'eccitò ad avere molti compagni, poichè in tal guisa sarebbe divenuto grande, adducendo gli esempi del Caldora, del Piccinino, del Fortebracci; stigmatizzò con argomenti tratti dalla Bibbia la nuova numerazione fatta dal Governo (la numerazione de' fuochi fatta nel 1596, rifatta nel 1598, contro la quale Maurizio non era in grado di conoscere gli argomenti Biblici); infine gli disse di voler fondare la repubblica, dandogli animo a concorrervi con amici, ed egli si offrì. Solamente obbiettò che senza danari non si potea far nulla, ma il Campanella gli rispose che li avrebbe presi Marcantonio Contestabile dal Castello di Arena; e gli fece anche intendere che ne avea parlato ad uomini principali, tra gli altri a D. Lelio Orsini, il quale dovea venire a governare lo Stato di Bisignano e avrebbe aiutato l'impresa (supposizione del Campanella, se non artificio). Dichiarò inoltre Maurizio che non sarebbe intervenuto né avrebbe condotto gente, se non avesse vista già cominciata la guerra (la guerra da cui avrebbero dovuto scaturire le mutazioni di Stato); e il Campanella gli disse che avrebbe cominciato dal far ribellare Catanzaro, e si convenne che fra Dionisio, presente al colloquio, sarebbe andato a trovar gente in Catanzaro per fare la ribellione, onde egli vi acconsentì. Poi un giorno, essendosi visti alcuni legni turchi, fra Dionisio e il Campanella dissero voler andare a trattare di quel negozio, facendo intendere a Maurizio che bisognava cercare l'aiuto e il favore de' turchi, e fra Dionisio, in compagnia del Petrolo ovvero senza tale compagnia, mostrò di scendere alla marina per andarvi, sotto pretesto che dovea riscattare un suo fratello preso da loro; ond'egli più tardi, all'occasione della comparsa di Amurat Rays in quelle marine, si decise ad andare lui stesso a trattare, senza esservi stato propriamente mandato dal Campanella. D'altra parte il Prestinace gli disse che nella repubblica si sarebbe vissuto in comune, e il Campanella gli confermò questo, e gli disse pure che la generazione dovea farsi dagli uomini buoni, cioè valorosi e gagliardi (ciò che fu scritto poi nella Città del Sole); e il medesimo Campanella disse che voleva aprire i sette sigilli, che al tempo della guerra avrebbe fatto miracoli, che intendeva dar libri in volgare e far bruciare i latini, forse alludendo a' libri della fede, perché i latini imbrogliavano la gente, ed anche, parlando de' turchi, ne disse bene, e parlando di Gesù lo disse un grande uomo dabbene in guisa da far sospettare che non credesse alla divinità di lui. Maurizio dichiarò che la religione doveva esser messa da parte, e che non avrebbe mai consentito che se ne fosse trattato; ma il Campanella gli spiegò che intendeva solamente riformare gli abusi della religione. Intanto fra Dionisio interloquiva anch'egli, ma sempre in un senso irreligioso. Un giorno, e forse questa volta d'accordo col Campanella, notò che il Papa e i Cardinali non rispettavano i precetti ecclesiastici relativi al digiuno e all'astinenza dal mangiar carne; un altro giorno parlò di un fatto osceno commesso da un frate coll'ostia consacrata, e dell'annegamento di un sacerdote avvenuto in Roma insieme con le ostie che era andato a ritirare da una Chiesa durante l'inondazione del Tevere, volendo inferirne che l'Eucaristia non avesse il valore attribuitole, non essendosi verificato alcun miracolo in tali circostanze; un altro giorno, avendo visto nella Chiesa del convento Maurizio inginocchiato, gli disse all'orecchio che voleva gli uomini appunto così, che sapessero fingere. - Dobbiamo aggiungere che quando Maurizio trovava Giulio Contestabile presso il Campanella, come accadeva quasi sempre, Giulio non dava a diveder nulla, e Maurizio seppe dal Campanella la partecipazione di lui nella congiura sol quando erano stati già da un pezzo carcerati: inoltre che durante i colloquii fra Pietro di Stilo andava e veniva, ma non vi prendeva alcuna parte.

Commentando un poco questi fatti, che rappresentano la base di tutto ciò che accadde in sèguito, possiamo farci un concetto abbastanza chiaro della congiura e de' suoi capi. Il Campanella si rivela certamente il motore unico della macchina: nessuno sarebbe stato in grado di esserlo al pari di lui; così tutti in massa, congiurati, denunzianti, persecutori, giudici, inquisiti, non lo posero mai in dubbio. Consigliere intimo del Campanella era forse Gio. Gregorio Prestinace, rimasto assolutamente nell'ombra, perché riuscito a nascondersi nel tempo delle persecuzioni: conoscitore degli uomini e delle cose della provincia, egli dovè fornire al Campanella le notizie delle quali aveva bisogno, e difatti le rivelazioni processuali ce lo mostrano presente in tutti i colloquii, consapevole anche de' particolari della repubblica da doversi fondare; l'aver messo l'occhio su Maurizio, forse anche l'averlo fatto venire a Stilo col pretesto che bisognava controbilanciare l'influenza di Marcantonio Contestabile, dovè essere opera sua. Maurizio poi era il capo di coloro che avrebbero dovuto agire per l'insurrezione, ma prescelto dal Campanella, esecutore de' progetti del Campanella, mentre Marcantonio, pur sempre secondo i progetti del Campanella, avrebbe agito del pari ma in un'altra direzione: egli già uomo d'armi, assennato ed accorto, diede maggior consistenza a' progetti indicatigli, ne avviò anche i preparativi con molta efficacia come vedremo in sèguito, ma in somma accolse i progetti, non li creò; se si spinse a pratiche co' turchi non concertate precedentemente, ne avea pure avuto qualche cenno dal Campanella, e ad ogni modo queste sole sue pratiche non basterebbero a costituirlo capo di una congiura nella quale il Campanella si sarebbe trovato involto senza saperlo. Quanto a' frati, fra Dionisio conosceva già i progetti del Campanella, essendone verosimilmente il consigliere come vedremo del pari in persona del Pizzoni, ma non faceva che secondarli ed anche in modo tutto suo, rimescolando profondamente le coscienze di coloro i quali egli voleva spingere ne' concerti per la ribellione: non si potrebbe credere che egli ritenesse argomenti serii contro la fede cristiana quelli che svolse a Maurizio, senza far torto alla sua cultura che sappiamo essere stata non così scarsa, ma si deve piuttosto dire che ritenesse indispensabile scuotere in qualunque maniera la fede per destare gli animi e renderli audaci; così vedremo poi sempre le dette scempiaggini propalate da lui e da alcuni altri frati suoi adepti, ripetute con storpiature ed aggiunte da altri adepti insulsi ed esaltati, infine malamente attribuite al Campanella, il quale aveva senza dubbio convinzioni poco cattoliche, ma non partecipava alle dette scempiaggini, e voleva una religione anche come strumento di regno. Quanto al Petrolo, egli pure conosceva i progetti del Campanella e vi aveva aderito, come nel processo confessò, ma vi partecipava debolmente, secondo la sua umile posizione: infine quanto a fra Pietro di Stilo, egli li conosceva del pari e forse più addentro degli altri; ma vi partecipava meno di tutti, per la ragione che poco ci credeva, ed anzi quasi ne rideva, come vedremo a suo tempo. né lasceremo questi apprezzamenti senza fare avvertire che ciascuno di costoro mostrò in sèguito precisamente la condotta notata da Maurizio quando ebbe occasione d'incontrarsi con essi; la qual cosa aggiunge un peso sempre più grande alla credibilità delle rivelazioni di Maurizio. - Adunque non solo l'idea di un movimento insurrezionale per fondare la repubblica, ma anche il modo di procedervi, erano suggeriti dal Campanella, il quale in alcune circostanze apparve meno, perché seppe essere un cospiratore abbastanza circospetto. Infatti talvolta condusse il suo discorso in modo che la proposta d'insorgere venisse dal suo interlocutore, e talvolta anche fece parlare ma non parlò; nella faccenda dell'accordo col Turco invogliò soltanto ed anzi fece invogliare Maurizio ad attendervi, senza esporre francamente il suo concetto; ebbe perfino cura che qualche affiliato o qualche gruppo di affiliati non conoscesse l'altro. Bisognava cominciare dal far l'insurrezione in Catanzaro, poi, alla peggio, si sarebbero ritirati su' monti segnatamente a Stilo, verso cui i passi stretti rendeano difficile l'accedere delle milizie; il modo di fornirsi di danaro era preveduto, ma bisognava far coincidere il movimento con la venuta de' turchi, i quali avrebbero tenuto a bada gli spagnuoli. Questa faccenda dell'accordo del Turco fu poi sempre vivamente ripudiata dal Campanella, che disse l'accordo avvenuto con sua meraviglia e disapprovazione: ma s'intende che la cosa a que' tempi era tanto scandalosa da dover obbligare assolutamente a ripudiarla, ed egli, che avea saputo mantenersi in disparte da questo lato, potea lavarsene le mani con una certa apparenza di verità; tuttavia dobbiamo ricordare che professava dovere i turchi dividersi in due fazioni, l'una delle quali avrebbe combattuta l'altra, che pochi mesi prima avea saputo il Cicala andato in cerca di sua madre fervente cristiana e separatosi da essa non senza lagrime, che infine nel libro della Monarchia di Spagna aveva appunto insegnato come si potesse profittare di qualche capitano turco stato già cristiano, indicando il Cicala, l'Ochiali, lo Scanderbergo.

Presi i concerti suddetti, ognuno si pose all'opera. Maurizio profittò dell'occasione per trattare l'accordo co' turchi, e si recò sulle galere che erano veramente quelle di Amurat, chiedendo di riscattare quattro persone di Guardavalle come ci dice un frammento della Difesa di due imputati, mentre il Carteggio del Residente Veneto ci dice che Amurat appunto a' primi di giugno trovavasi sulle coste di Calabria, e il giorno 7 fece anche uno sbarco alla Catona presso Reggio; quindi si occupò senza dubbio di trovare amici, e disporli alla «fattione contro il Re». Marcantonio si pose anch'egli a cercare amici, e vedremo che tornò poi presso il Campanella col Caccìa ed un altro fuoruscito affiliato. Fra Dionisio andò a trovare qualche altro frate, e con lui e con un giovane che convertì per via si spinse fino a Messina; quindi tornò presso il Campanella, accompagnato anche dal Petrolo e da un terzo frate, che gli avea procurato l'acquisto di un'altro giovanotto. In questo mentre avvennero i terribili terremoti, già previsti e poi più volte ricordati dal Campanella, onde specialmente in Reggio ed anche in Messina si ebbe grave danno, essendo durati non meno di tre giorni e fino alla sera del 10 giugno. Il Campanella fu poco dopo chiamato dal Marchese d'Arena e dovè andare presso di lui.

Verso il 20 giugno il Campanella ebbe questa chiamata dal Marchese d'Arena, da non doversi confondere con un'altra chiamata posteriore, della quale soltanto si ha il ricordo nella sua Dichiarazione. Sappiamo che era allora Marchese d'Arena D. Scipione Concublet de Bavaria (corrottamente «De Bavero»), successo a D. Gio. Francesco suo padre e a D. Carlo suo fratello primogenito, morti l'uno in gennaio l'altro in settembre dello stesso anno 1582: egli viveva allora con la sua famiglia nel Castello d'Arena, ma nella 2.a metà di giugno, trovandosi in giro per que' paesi, era venuto a Monasterace, non lungi da Stilo, e quivi era ospite di D.a Dianora Toraldo Signora della terra, come la chiamò uno degli inquisiti che depose tale fatto nel processo. Dagli scrittori in materia di nobiltà, e meglio anche da' Cedolarii, conosciamo che Signore di Monasterace in quel tempo era Giuseppe Galeota, figlio di Mario e di Eleonora Toraldo: costei, figliuola di D. Gasparre Toraldo 5.° Signore di Badolato e sposa a Mario Galeota, era rimasta vedova fin dal 1590; non a torto quindi veniva considerata Signora di quella terra. Di là il Marchese fece chiamare il Campanella volendo parlare con lui; e il Campanella si recò in Monasterace, e vi si trattenne sei giorni. Quali argomenti trattasse il Campanella col Marchese non ci è noto, ma non è arrischiato l'ammettere che le vicine mutazioni da tutti aspettate fossero l'oggetto precipuo dei colloquii, bene inteso rimanendo nascosti i progetti del Campanella; poichè, quantunque il Marchese fosse poi stato nominato qual complice, sappiamo invece che egli doveva essere una delle vittime del movimento; ma interruppe i colloquii fra Dionisio, venuto con la sua comitiva a Monasterace in cerca del Campanella, che con quel sèguito fece ritorno a Stilo.

Ecco pertanto il giro che fra Dionisio finiva di compiere in quel momento. Licenziatosi in fretta dal Campanella e dagli altri congregati in Stilo, egli si recò a Condeianni, dove era Vicario del convento de' Domenicani fra Giuseppe Bitonto di S. Giorgio: abboccatosi con costui partì l'indomani per Oppido, ove risedeva in qualità di Viceconte il fratello Ferrante. Fra Giuseppe Bitonto, nello stesso giorno in cui partiva da lui fra Dionisio, si recava in S. Giorgio e quivi chiamava un suo cugino Cesare Pisano e con lui raggiungeva immediatamente fra Dionisio in Oppido: di là tutti e tre l'indomani si recarono insieme a Bagnara e quindi a Messina. Questo Cesare Pisano, figlio di Fabio, era un giovane di 24 anni, clerico, ma di costumi assai tristi: una volta avea servito per testimone al Polistina in Napoli contro fra Dionisio, quando si trattava la causa dell'omicidio di P.e Pietro Ponzio, e però al vederselo davanti, fra Dionisio ne rimase turbato; ma dietro assicurazioni del Bitonto presto s'acquetò. Trattavasi di uno di quelli che poteano servire nell'impresa disegnata, e non appena in viaggio, tra Oppido e Bagnara, fra Dionisio si occupò subito di catechizzarlo col metodo da lui prescelto, assistendolo pure fra Giuseppe Bitonto in tale ufficio: cominciò a dire che non c'era Dio, non c'era altro Dio che la natura, inezia la confessione, inezia il temere di far peccato, fra Tommaso Campanella avrebbe fatte nuove leggi essendo quasi un Messia; gli annunciò inoltre una fazione di grande importanza che si volea fare, per la quale occorrevano uomini di valore ed alla quale volea che avesse preso parte, giacchè sarebbe stata l'esaltazione sua, ma per allora non gli spiegò di che si trattasse. Giungendo a Bagnara e fermandovisi due giorni, fra Dionisio che era stato invitato a predicare vi fece una delle sue buone prediche sull'Evangelo, poichè, come diceva al Pisano, «sapeva predicare l'uno e l'altro». A Messina si trattennero circa sei giorni, dimorando i due frati nel convento de' Domenicani, e Cesare Pisano all'osteria: ritornarono quindi per la stessa via di Bagnara, e si ridussero, fra Dionisio ad Oppido presso il fratello Ferrante, il Pisano a S. Giorgio, il Bitonto a Condeianni. Ma dopo circa dieci giorni, fra Dionisio accompagnato da un fra Giuseppe Jatrinoli e da un giovanotto a nome Giuseppe Grillo figlio naturale di Gio. Alfonso, tornò a Condeianni; quivi si unì al Bitonto ed anche al Pisano che vi era venuto da S. Giorgio, e tutt'insieme si diressero a Stilo per vedervi il Campanella. In questo secondo viaggio si fermarono prima alla Motta Placanica, ove alloggiarono nel convento, l'indomani si recarono a Stignano, e là furono a pranzo in casa di Gio. Alfonso Grillo che era di Oppido ma dimorava a Stignano, coll'intervento di fra Domenico Petrolo, di un D. Marco Petrolo e di Geronimo Campanella padre di fra Tommaso, quindi passarono a Stilo menando con loro anche fra Domenico: non trovarono là fra Tommaso, ed avendo saputo che era in Monasterace vi si recarono immediatamente, rimanendo a Stilo il solo Giuseppe Grillo; in Monasterace poi si fermarono appena tre ore, e preso con loro il Campanella si ridussero tutti insieme a Stilo. Vedremo fra poco quali furono i discorsi scambiati col Campanella, ma per ora importa dire che nel pranzo di Stignano fra Dionisio fece uno de' suoi maggiori sproloquii, evidentemente per catechizzare Cesare Pisano e Giuseppe Grillo; e disse che non c'era Dio né Trinità al modo che si crede, sibbene uno spirito che governa e move il tutto, che Dio era la natura, che non c'erano diavoli, né inferno, né purgatorio, né paradiso, che Cristo non era vero figlio di Dio ma un semplice Nazareno, che il sacrificio della Messa facevasi per bere, che nell'ostia non c'era Cristo e potea rilevarsi dal fatto che la mangiano i vermi, che fra Tommaso Campanella volea predicare e fare nuove leggi e nuovi statuti, ed egli con lui, portando gli uomini alla libertà naturale. Gli altri frati applaudivano e commentavano, e ne sembravano intesi del pari i due Petrolo, i quali del resto andavano e venivano (come probabilmente faceva anche Geronimo Campanella) per rendere servigi agli ospiti, ma pure non mancavano d'interloquire; p. es. fra Domenico Petrolo diceva al Pisano, «che ti credi, che ci sia Dio Padre quel barbuto come si dipinge?», e tutti i frati continuavano separatamente a dire qualche cosa dello stesso genere. Così si sarebbe parlato contro la verginità di Maria, contro i miracoli di Gesù ed anche de' Santi, contro le relazioni tra Gesù e S. Giovanni, contro le prescrizioni della Chiesa, contro l'istituzione monastica di ambo i sessi, contro l'autorità e la moralità del Papa, de' Cardinali e de' Vescovi; fra Dionisio vi avrebbe pure narrato il solito fatto osceno contro il Sacramento dell'altare, aggiungendovi inoltre il fatto di un Inglese che in Roma diè un pugno al Sacramento senza alcuna conseguenza miracolosa, ma fu poi bruciato vivo d'ordine del Papa; e si può dire che queste ultime proposizioni furono probabilmente enunciate, mentre sulle altre rimane qualche dubbio. Con ciò si sarebbe parlato ancora di progetti del Campanella in un modo esageratissimo e scempiato; che egli era il vero legislatore e il vero Messia, che con la sua predica e dottrina, e col valore de' tanti che lo seguivano, avrebbe levato la fede di Cristo e si sarebbe impadronito del mondo; ma infine segnatamente fra Dionisio e il Bitonto gli comunicarono la risoluzione di ribellare il Regno e sottrarlo al dominio del Re di Spagna, e che per questo effetto aveano concerti con molti fuorusciti, ed anche con molti gentiluomini e Signori, tra' quali il Marchese d'Arena ed altri. Finalmente poi questi frati, compreso fra Domenico Petrolo, conchiusero che bisognava far parlare il Pisano col Campanella. - Come dicevamo, non trovarono il Campanella a Stilo ed andarono a cercarlo a Monasterace. In questa traversata s'incontrarono con Marcantonio Contestabile, Gio. Tommaso Caccìa ed un altro fuoruscito abbastanza rinomato per molti delitti, Gio. Francesco d'Alessandria, i quali si recavano del pari a Stilo presso il Campanella, e continuarono la loro via, probabilmente dietro l'assicurazione che fra Dionisio e compagni andavano a prenderlo e tra poco sarebbero tornati con lui. Essi trovarono infatti il Campanella a Monasterace, in casa della S.ra D.a Eleonora insieme col Marchese d'Arena, e seppero che vi stava già da sei giorni. Il Campanella prese subito licenza da questi Signori, e poco dopo, accompagnato da tutta la comitiva venuta a rilevarlo, tornò a Stilo. Durante il viaggio gli fu presentato il Pisano come uno degli amici; stando a cavallo gli domandò se era prete di Messa, e udito che era chierico, tenne qualche discorso con lui dilucidandogli alcuni dubbi. Secondochè il Pisano potè capire e riferire col suo limitato intelletto, il Campanella gli avrebbe confermato che non ci era vita futura, dicendo che i corpi nostri erano come quelli de' bruti e che le anime nostre si convertivano in non essere; quanto poi all'essenza di Dio, gli avrebbe detto di star contento a ciò che i frati gli aveano significato, trattandosi di cose troppo elevate per la sua intelligenza; così il Pisano rimase persuaso che quanto gli era stato detto da' frati veniva approvato dal Campanella.

Prima di andar oltre riesce necessario chiarire un poco tutto questo andirivieni. Vi sarebbero due maniere di spiegarlo; o che fra Dionisio, con la sua tendenza a vagare e col bisogno di una compagnia, tanto per soddisfare alla sua indole ciarliera quanto per provvedere alla sua sicurezza personale, sia andato fino a Messina per fare qualche acquisto associandosi a qualche compagno di viaggio, e poi abbia fatto lo stesso nel volersi recare a Stilo; ovvero, con l'impegno di trovare amici ed alleati per l'impresa da doversi compiere, siasi rivolto al suo germano Ferrante e ad altri individui di sua conoscenza, e tra essi a que' frati, che potevano fare al caso suo e raggranellare anche qualcuno, principalmente poi abbia adempito ad una missione segreta in Messina, e sia venuto da ultimo presso il Campanella per dar conto di questa missione e di tutti gli altri maneggi, presentando i frati amici insieme co' primi saggi della loro raccolta. Quando più tardi si dovè rendere ragione di questi viaggi ne' tribunali, si disse appunto che fra Dionisio era andato a Messina per comperar pepe, tostati e la Biblioteca Santa del Sisto, come il Bitonto per comperar materassi; del viaggio sussecutivo a Stilo non si rese ragione alcuna, e solo il Bitonto accennò all'essere andato a Stilo per pregare il Campanella che gli facesse avere l'incarico di qualche predicazione. Tutto ciò è possibile, ma è possibile anche l'altra versione, specialmente se si tengano presenti tutte le circostanze anteriori e posteriori: a noi pare molto accettevole la seconda maniera di spiegare la cosa, e giungiamo fino a credere che fra Dionisio abbia potuto andare in Messina per far arrivare cautamente al Cicala qualche sua lettera, giacchè un documento da noi trovato nell'Archivio di Spagna in Simancas ci mostra che appunto in questo tempo da Messina e dalla casa stessa del Cicala partivano le informazioni che costui desiderava, e poi, alcuni anni dopo, si vide fra Dionisio scappato dal carcere riparare appunto in casa del Cicala a Costantinopoli. Il viaggio a Messina fu più tardi minutamente vagliato intorno all'eresia e non intorno alla congiura: noi non vorremmo menomamente sembrare più crudeli del crudelissimo Avvocato fiscale che tanto aggravò la causa di questi disgraziati, e però ci limitiamo ad enunciare la nostra idea e ad abbandonarla alla meditazione de' lettori, ma ricordando che nel tempo in cui fra Dionisio si recava a Messina, Maurizio non aveva ancora avuta occasione di andar lui presso i turchi. Certamente poi da tutto l'insieme de' fatti successivi, ed anche soltanto da' fatti che si verificavano in quei giorni, si ha motivo di ritenere che i suddetti viaggi si connettevano col lavoro per la congiura.

In Stilo non sappiamo veramente quali discorsi siano stati allora fatti tra il Campanella e que' frati: sappiamo solo che l'indomani parlarono a lungo tra loro senza l'intervento del Pisano e del Grillo, e poi, rimanendosi fra Dionisio, ciascuno degli altri prese la volta della sua dimora. Ma vi erano già arrivati anche Marcantonio Contestabile col Caccìa e con Gio. Francesco d'Alessandria, il quale era stato sollecitato propriamente dal Caccìa. Nemmeno sappiamo i discorsi fatti col Contestabile; c'è tuttavia ogni ragione di credere che costui abbia dovuto egualmente render conto de' suoi maneggi e de' compagni che avea trovati. Sappiamo solamente i discorsi fatti dal Campanella in presenza del Caccìa e del D'Alessandria, secondochè li rivelò poi il Caccìa nel processo della congiura, ma, come abbiamo già avuta occasione di dire, alle rivelazioni del Caccìa non si può troppo aggiustar fede, essendo state fatte fra tormenti atroci. Secondo il Caccìa, nella sua cella insieme con fra Dionisio, il Campanella manifestò loro la congiura e i preparativi che già si faceano: ripetè che in quell'anno 1599 e 1600 dovevano esservi le grandi mutazioni, affermò che ci erano molti altri congiurati per fare le Provincie di Calabria repubblica, con l'aiuto anche del Turco e d'altri Signori, manifestò che «Mauritio e un altro di Reggio di Casaspano (sic) haveano fatto una gran quantità di forusciti», e che lui, il Campanella, «voleva essere Monarca del mondo et dare nova legge». In verità non apparisce credibile che quest'ultima proposizione abbia potuto essere stata detta ad un uomo come il Caccìa, e però tutta la rivelazione sua rimane infirmata: può ammettersi solamente che Gio. Francesco d'Alessandria dovè essere catechizzato nel senso delle prossime mutazioni e rivoluzioni, e tutti doverono essere infervorati a star pronti e a cercare altri compagni. Tre giorni durò la permanenza di questi fuorusciti nel convento di Stilo: il Campanella e fra Dionisio rimasero soli, ma per brevissimo tempo; giunse in fretta il Bitonto e fu necessario che il Campanella, insieme con lui e fra Dionisio, si mettesse di nuovo in viaggio. Passiamo a dire ciò che era accaduto.

Nel partire da Stilo, fra Giuseppe Bitonto e fra Giuseppe di Jatrinoli furono accompagnati da Cesare Pisano fino alla Motta Placanica; di là, separandosi dal Pisano, proseguirono fino a Castelvetere e si fermarono nel convento del loro Ordine; e sia per accidente, sia con premeditazione, videro un Felice Gagliardo di Gerace che stava nelle carceri di Castelvetere e tennero con lui un abboccamento. Questo Felice Gagliardo ci darà molto da dire nel sèguito della nostra narrazione. Giovane a 22 anni, di molto ingegno e di nessuna coscienza, temerario e peggio, avea preso moglie in Condeianni ma dimorava in Gerace con un Pietro Veronese suo patrigno, ed entrambi menavano pessima vita: nel Grande Archivio abbiamo intorno a loro trovato un documento che mostra come fin da due anni prima si dilettassero di grassazioni e di furti. Vedremo più tardi che Felice, stando poi carcerato in Napoli, continuava a tenere corrispondenza con una banda di fuorusciti, alla quale non era estraneo il Veronese e della quale facea parte un suo fratello a nome Lucio, che andò a finire ucciso come bandito con taglia, e Felice medesimo, liberatosi da' travagli per la congiura e l'eresia, andò poi a finire sul patibolo per delitti comuni. Egli avea da due anni conosciuto il Bitonto che era stato in Condeianni a predicare: in sèguito, essendo sorta inimicizia tra lui e il proprio cognato a nome Felice Regitano, gli avea tirato un colpo di fucile, per la qual cosa si trovava in carcere. Secondo il Bitonto, il Gagliardo lo chiamò per raccomandarsi che avesse pregato i suoi parenti in suo favore, procurandogli la remissione da parte loro; ma ciò non toglie che il Bitonto, a quanto pare, avesse fatto assegnamento sopra di lui per la ribellione; di fatti gli avrebbe detto di voler procurare l'accomodamento in Condeianni, e frattanto stesse di buon animo, chè vedrebbe succedere cose le quali gli sarebbero di grandissima utilità. Giunto a Condeianni, non mancò di trattare co' parenti del Gagliardo, ma costoro si negarono affatto: pertanto Cesare Pisano veniva carcerato, e il Bitonto dovè occuparsi di lui. - Di ritorno dal viaggio fatto, Cesare Pisano si era appropriata una giumenta del Principe della Roccella, che era pure Marchese di Castelvetere, e però fu preso dagli ufficiali del Principe e tratto alle carceri di Castelvetere: il Bitonto gli avrebbe detto che andasse di buon animo, che troverebbe là Felice Gagliardo amico suo; frattanto cercò subito che il Campanella e fra Dionisio parlassero al Principe della Roccella in favore di Cesare, e così ebbero a mettersi di nuovo in viaggio tutt'insieme per tale scopo.

Era il 1° o il 2° giorno di luglio, quando il Campanella, fra Dionisio e fra Giuseppe Bitonto, partiti da Stilo giungevano in Castelvetere. Quivi dapprima visitarono Cesare Pisano nel carcere, di poi così il Campanella come fra Dionisio si recarono presso il Principe per supplicarlo che lo liberasse: e pare che il Principe lo facesse sperare, tanto che circa venti giorni dopo, ritenendo la cosa ben certa, fra Dionisio ne annunziava la liberazione ad un altro frate che era zio di Cesare, fra Vincenzo Rodino di S. Giorgio; ma veramente il Principe non ne fece nulla. Intorno poi alle parole scambiate tra' frati e il prigioniero, secondo il Bitonto gli si sarebbe detto solamente di star di buon animo; secondo Felice Gagliardo si tenne un discorso lungo e segreto, ed oltracciò, finito il discorso, Cesare che già si era stretto a lui lo presentò al Campanella dicendo, «questo giovane è di Condeianni e potrà servire et mover genti», e il Campanella e fra Dionisio gli avrebbero entrambi detto di dar credito a quanto gli sarebbe stato comunicato da Cesare. Avvertiamo una volta per sempre che le asserzioni di Felice Gagliardo non si possono ritenere senza le più grandi riserve: ma è verosimile che il Bitonto, nell'altro suo abboccamento con lui, gli avesse parlato della ribellione, non senza condire il discorso con le teoriche antireligiose giusta il metodo di fra Dionisio, e che Cesare gli avesse continuato a parlare sempre più efficacemente nello stesso senso; così il Gagliardo potè essere presentato al Campanella e a fra Dionisio, venendo scambiata tra loro qualche parola di complimento e forse anche qualche allusione coverta alle imprese disegnate. Certo è che fu questa la prima volta in cui Felice Gagliardo venne a contatto col Campanella e con fra Dionisio, e per pochi istanti. Certo è del pari che Cesare, infatuato pe' discorsi precedentemente avuti con fra Dionisio e con gli altri frati, si fece a catechizzare Felice Gagliardo, il quale non avea veramente molto bisogno di essere catechizzato, e così pure gli altri che stavano o vennero successivamente nello stesso carcere per imputazioni diverse, durante i tre mesi e più che là fu rinchiuso. Con l'eccitamento del neofito e con la storditaggine che gli era propria, cominciò fin dalla prima sera a trattenersi con Felice Gagliardo su' noti argomenti, esagerando quanto aveva imparato ed aggiungendovi del suo. Non esisteva Trinità, l'ostia non conteneva Cristo (dimostrandolo col solito fatto osceno, che attribuiva a sè medesimo per vanteria ed anche al Bitonto), Cristo era un povero pezzente sporco «zazzaruso», che si scelse per compagni dodici altri pezzenti ed era in relazioni pessime con Giovanni; de' miracoli di Cristo non si dovea creder nulla perché riferiti da' suoi parenti ed amici; Lazzaro era risorto per via di erbe, e Maria era una schiava nera d'Egitto concubina di Giuseppe, e però nell'Officio si diceva «nigra sum»; nel morire le anime si convertivano in ombre fugaci e spiriti aerei e i corpi in pietre, non c'era inferno né paradiso né diavoli, cose inventate «ad terrorem», le vigilie co' digiuni erano state inventate per far morir presto, e poi le solite storie della mala vita de' Papi e dei Cardinali, de' conventi etc. E poi, che il Messia Campanella aveva armi e genti assai e denari, ed avrebbe conquistato più Stati e Regni che non ne conquistarono gli Apostoli, perché «vis unita fortior»; e presto vi sarebbero rivolture e Campanella farebbe nuove leggi. Pare impossibile che questo sciagurato ciarlasse tanto co' suoi compagni di carcere; ma egli medesimo ebbe poi a dire che discorse così largamente di eresia con loro, perché «credeva più facilmente indurli o confirmarli alla ribellione temporale».. «per vedere si loro erano boni per la ribellione». Avea dunque adottato pienamente il metodo di fra Dionisio, e con questo metodo egli infervorava alle cose nuove, oltre Felice Gagliardo, un Orazio Santa Croce di Gerace, un Geronimo Conia di Castelvetere, un Camillo Adimari di Altomonte paggio del Principe della Roccella, un Gio. Angelo Marrapodi di S.ta Agata mastrodatti: e pare che meno quest'ultimo di età più inoltrata e repugnante propriamente alle teoriche irreligiose, gli altri, che aveano da' 19 a' 30 anni di età, consentissero più o meno ma senza scoprirsi troppo; erano giovani e non de' più pacifici, stavano in carcere e non vedevano l'ora di uscirne, aveano quindi ragione di accogliere siffatte cose molto volentieri. L'essere poi stati, all'infuori del Gagliardo, più o meno discolpati dal medesimo Pisano negli ultimi momenti di sua vita, come ci mostra un documento da noi rinvenuto nell'Archivio dei Bianchi di giustizia, deve intendersi nel senso che essi, all'infuori del Gagliardo, non si manifestarono esplicitamente con lui; e per verità non avrebbero potuto manifestarsi, vedendolo facile a ciarlare così leggermente di cose tanto delicate. Secondo le rivelazioni che più tardi fecero contro di lui gl'individui suddetti, e segnatamente il Gagliardo ed il Conia, egli avrebbe loro esposta la congiura per filo e per segno, con molti particolari di grande importanza: probabilmente costoro vi erano stati già iniziati, ed anche poterono foggiare molte cose sulle notizie che allora ne correvano; non di meno deve ritenersi per certo che egli ne abbia parlato enfaticamente, dietro ciò che glie ne aveano detto in ispecie fra Dionisio, fra Giuseppe Bitonto e fra Giuseppe Jatrinoli. Pertanto è facile vedere che lo zelo del Campanella in favore di Cesare non va spiegato unicamente co' riguardi verso i suoi amici che glie lo raccomandarono; lo zelo stesso di fra Dionisio per quest'uomo, di cui non aveva avuto punto a lodarsi in passato, non va spiegato unicamente co' riguardi verso il Bitonto; senza dubbio le premure pel Pisano mettevano capo alla sua qualità di affiliato alla congiura.

Vediamo ora le ulteriori mosse del Campanella. È accertato che egli si trattenne due soli giorni in Castelvetere, e che tornato a Stilo, insieme con fra Dionisio, continuò d'accordo con costui a sollecitare amici e far raccolta di fuorusciti. Più volte avea scritto a fra Gio. Battista di Pizzoni, il quale ricoverava nel suo convento un fuoruscito molto noto, a nome Claudio figlio di Ferrante Crispo: oltracciò si trovava ricoverato nel convento di Soriano un altro fuoruscito non meno noto, Giulio Soldaniero di Borrello in compagnia di un suo servitore anche più agile di lui nelle armi, a nome Valerio Bruno di Motta Filocastro, e il Campanella pensò di far parlare egualmente a questo Soldaniero.

Fra Gio. Battista di Pizzoni risedeva appunto nel convento di Pizzoni, paesello distante poche miglia da Soriano: il convento era piccolo ed abbastanza isolato, e non conteneva più di due sacerdoti e due o tre «terzini o terzi habitelli» come solevano chiamarsi i frati inservienti; né occorre dire che in questa specie di conventi non c'era ombra di regole monastiche. Fra Gio. Battista vi aveva titolo di Vicario; con lui stava il suo fido fra Silvestro di Lauriana, e tra' terzini stava fra Fabio Pizzoni nipote di fra Gio. Battista, le cui relazioni con fra Silvestro aveano già dato da dire anche troppo. Non erano mai mancati i fuorusciti in quel convento, e il predecessore di fra Gio. Battista, fra Ferrante da Soriano, avea passato pericolo di essere precipitato dalle finestre per mano di quelli che si trovavano là ricoverati: avendovi giurisdizione il Vescovo di Mileto, ed obbligando costui, come già conosciamo, i superiori dei conventi a ricoverare i fuorusciti sotto pena delle censure ecclesiastiche, Claudio Crispo, giovane fuoruscito per omicidio, vi stava in piena regola, e fra Gio. Battista mantenevasi con lui in buonissime relazioni, anche perché, a quanto pare, gli serviva da braccio forte verso i suoi nemici. Aveva poi fra Gio. Battista avuta occasione di conoscere pure Giulio Soldaniero, ed ecco in che modo. Giulio, anche lui di soli 22 anni, possidente, con moglie, si era fatto capo di banditi, avendo ucciso due suoi cugini Marcello e Pietro Soldaniero, oltre una donna, Vera la Rocca, per ereditarne, come dicevasi, le sostanze; ma ne rimanea tuttora vivo un altro, Eusebio Soldaniero, e costui si era fatto bandito egualmente, per difendersi e per vendicare i suoi fratelli. Giulio risedeva ordinariamente nel convento di Soriano, convento magnifico, divenuto una delle maraviglie della Calabria, possedendo un'immagine portatavi nientemeno che da S.a Caterina e da M.a Maddalena: egli vi stava già da oltre otto mesi, avea quivi passata la quaresima assistendo a tutte le prediche fatte in tal tempo da fra Gio. Battista da Polistina (circostanza da ricordarsi), e per voto alla Madonna dell'Idria, fatto un giorno che gli toccò una ferita d'archibugio, si asteneva da' cibi di grasso il martedì; con tutto ciò i Superiori del convento affermavano esser lui uomo di mala vita, ma il Vescovo di Mileto non volea che venisse espulso. Eusebio risedeva ordinariamente in Serrata casale di Borrello; intanto un giorno corse voce che fosse venuto nel convento di Pizzoni per trovarsi più vicino a Giulio ed insidiarne la vita; Giulio scrisse allora una lettera minatoria a fra Gio. Battista, il quale si affrettò a dissipare l'equivoco, si diè premura di vederlo e rimase con lui in buoni termini. Potea dunque servire per invitare Giulio a far parte della congiura; e veramente come costui si fece poi a confidare al Priore di Soriano, più volte lo sollecitò in questo senso; tuttavia parve bene che gli si facesse udire anche la voce di fra Dionisio, e così fu convenuto, quando, dietro le insistenze del Campanella, dovendo anche aggiustare una faccenda d'interessi con un fra Marcello Basile francescano, fra Gio. Battista si risolvè di andare a Stilo.

Ma appunto in quel tempo, durante la prima settimana di luglio, il Campanella, chiamato un'altra volta dal Marchese, dovè recarsi ad Arena. Fra Gio. Battista di Pizzoni ve l'accompagnò, e così pure fra Dionisio, unitamente a Marcantonio Contestabile, Gio. Tommaso Caccìa e un altro fuoruscito, con molta probabilità Giovanni Morabito, che per essere di Filogasi conoscevasi col nome di Giovanni di Filogasi: vedremo infatti più tardi distintamente nominato questo Giovanni di Filogasi come uno della compagnia. Fece inoltre egualmente parte della compagnia questa volta il fratello del Campanella Gio. Pietro, armato anch'egli, come i fuorusciti predetti, di fucile e pistola (scoppetta e scoppettuolo, quest'ultimo noverato tra le armi proibite). Il Campanella fu alloggiato presso il Marchese in castello, nell'altura di Arena; tutti gli altri si rimasero nella terra, certamente in compagnia di Gio. Francesco d'Alessandria che soleva stare in Arena. Ma l'indomani fra Gio. Battista di Pizzoni e fra Dionisio se n'andarono alla volta di Soriano presso Giulio Soldaniero; ed ecco due uomini, già inimicissimi, in sèguito ravvicinati, ora stretti al punto da compiere insieme una missione molto delicata: volle poi fra Dionisio addurre l'antica inimicizia per mostrare che la cosa non fosse stata possibile, ma risulta da fonti numerosi e indubitabili che egli andò veramente presso il Soldaniero insieme con fra Gio. Battista, e la sua negativa medesima mostra che quest'andata aveva uno scopo compromettente.

La missione presso Giulio Soldaniero, eseguita senza dubbio con l'intesa del Campanella ne' primi giorni della sua dimora in Arena, per la grande importanza che ebbe in sèguito merita di essere conosciuta ne' suoi più minuti particolari. Giunti i due frati a Soriano, Dionisio dimandò subito del Soldaniero, ed immantinente ebbe luogo uno stretto colloquio. Fra Gio. Battista, che sembra essersi allora limitato a promuovere la reciproca conoscenza tra' due interlocutori, lasciando a fra Dionisio il còmpito di trattare, l'indomani se ne partì per Pizzoni: fra Dionisio poco dopo lo seguì senza che se ne sia mai conosciuto bene il motivo, avendo taluno detto che temeva che fra Gio. Battista conducesse il Campanella a Pizzoni, ed altri invece detto che voleva appunto condurre il Campanella a Pizzoni; ma più plausibile apparisce l'aver voluto far premura a fra Gio. Battista che senza perdita di tempo conducesse Claudio Crispo presso il Campanella. Certo è che nello stesso giorno poi fra Dionisio tornò e ripigliò i colloquii col Soldaniero, rimanendo una volta anche a pranzo con lui, e il giorno seguente tornò pure fra Gio. Battista accompagnato da Claudio Crispo e diretto ad Arena, allo scopo, come egli diceva, di procurarsi la protezione del Marchese per riscuotere un legato. Fra Dionisio si fermò in Soriano tutto quel giorno ed anche il giorno dopo, nel quale, essendo domenica, ad istanza di alcuni cittadini e propriamente di un Rutilio di Pucci, fece una predica e poi se ne andò egli pure ad Arena. Questo si può raccapezzare da' racconti contradittorii ed anche iniqui intorno a siffatta visita di fra Gio. Battista e fra Dionisio al Soldaniero. Certo è che i colloquii con costui, segnatamente per parte di fra Dionisio, continuarono in modo più o meno interrotto dal giovedì alla domenica, e non è difficile intendere su quali argomenti versassero. Fra Dionisio seguì il suo solito metodo di catechizzare, accennando le profezie, magnificando la persona del Campanella, esponendo i disegni della ribellione, ma sviluppando al tempo medesimo principii irreligiosi: senza dubbio si può e si deve usare molta riserva intorno alla misura di siffatti colloquii, avendo di poi influito le più infami circostanze ad estenderla oltre ogni limite come a suo tempo vedremo; ma intorno alla natura loro non può muoversi dubbio veruno, essendo una ripetizione di discorsi analoghi tenuti già in analoghe occasioni. Fra le varie rivelazioni discordi e bugiarde, abbiamo quelle del Priore e del Lettore di Soriano (fra Giuseppe d'Amico e fra Vincenzo di Lungro) che per verità non possono menomamente ritenersi disinteressate, ma ad ogni modo sono più serie di quelle del Soldaniero e compagno, ed ecco ciò che risulta da esse. Fra Dionisio avrebbe parlato della ribellione contro il Re, dicendo pure che molti Signori erano dalla parte de' congiurati; avrebbe inoltre esternato principii irreligiosi dando un pugno ad un crocifisso dipinto nel dormitorio e dicendo che non bisognava credergli, affermando che i Sacramenti erano stati istituiti per ragione di Stato, che non si dovea credere ad un poco di farina mista coll'acqua e poi cotta, che taluno (anzi egli stesso) avea fatto dell'ostia quell'uso osceno tante volte accennato, che i miracoli erano baie, ed il Campanella potea farli e li avrebbe fatti al tempo della ribellione. Queste cose il Soldaniero comunicò al Priore ed al Lettore di Soriano vari giorni dopo che fra Dionisio era partito dal convento, ed anzi al Priore comunicò dapprima le sole cose concernenti la ribellione e molto più tardi, in agosto, comunicò pure le cose di eresia. né attribuì mai a fra Gio. Battista, in quel tempo, l'aver detta alcuna cosa di eresia, comunque avesse affermato che più volte egli era stato da lui tentato per la ribellione; del rimanente disse al Lettore che il Campanella, fra Dionisio, fra Gio. Battista, fra Silvestro di Lauriana, fra Pietro di Stilo e fra Domenico di Stignano «erano tutta una cosa insieme»; così per la prima volta troviamo fatta menzione di questo gruppo, che con fra Giuseppe Bitonto, fra Giuseppe Jatrinoli e fra Paolo della Gretteria rappresentò tutto il gruppo de' frati promotori della ribellione. Non ci fermiamo sopra altre circostanze della ribellione e dell'eresia, che il Soldaniero manifestò più tardi, quando tradì nel modo più atroce i congiurati, e che per tale motivo non possono tutte accogliersi alla leggiera; probabilmente fra Dionisio disse molto più di quanto il Soldaniero comunicò al Priore ed al Lettore, ma ciò che ci risulta dalle rivelazioni di costoro basta per fare intendere, che sollecitato dal Pizzoni, persuaso da fra Dionisio, sotto gli auspicii del Campanella, il Soldaniero col suo Valerio Bruno per lo meno era in via di entrare a far parte della congiura. Dobbiamo poi notare un'altra circostanza importantissima, che fu rivelata dal medesimo Priore fra Giuseppe d'Amico. Un giorno, nell'agosto, gli fu mostrata dal Soldaniero una lettera scritta e sottoscritta dal Campanella, il cui carattere egli conosceva molto bene, e nella fine di essa si leggeva il seguente brano, «di quel tanto che vi ha ragionato il Padre lettore fra Dionisio, del tutto mi rimetto al mio locotenente fra Gio. Battista di Pizzone». Pur troppo il Campanella si spinse fino a dar fuori sue lettere, dirigendone non solo al Soldaniero ma anche a qualche altro fuoruscito; e vedremo che questa diretta al Soldaniero fu portata da fra Pietro di Stilo, come risulta da una spontanea deposizione di fra Pietro medesimo, al quale è impossibile negar fede. Dopo tutto ciò non farà meraviglia che nella Dichiarazione, e così pure nella Difesa, il Campanella non abbia mai parlato di queste sue relazioni col Soldaniero, ed invece abbia appena citato quest'uomo nella Dichiarazione tra gli amici di Maurizio, ed abbia poi ingarbugliato le cose di questo periodo nella Narrazione così come segue: «Sapendo Fra Dionisio ch'il Polistena volea farlo uccidere com'il zio per mezzo di Giulio Saldaneri, che stava ritirato in convento di S. Domenico di Suriano per haver ucciso dui proprii fratelli per la robba, però cercò guastar quella amicizia del Polistena col Saldaneri per via di Mauritio Rinaldi amico di Saldaneri, e volea uscir con loro in campagna risolutamente per ammazzar il Polistena. Però con tutti parlava di mutatione di secolo et del Regno». È facile rilevare che queste cose furono scritte assolutamente pel bisogno di scolparsi, ma sono ben lontane dalla verità.

Abbiamo veduto il Pizzoni con Claudio Crispo andare presso il Campanella ad Arena. Fu questo evidentemente un altro acquisto per la ribellione, e Claudio, nel processo consecutivo, confessò in tortura di aver trovato ad Arena il Campanella, che nel castello medesimo del Marchese, in una camera segreta, gli comunicò la ribellione, aggiungendo pure nientemeno che erano in aiuto di essa il Principe di Bisignano e D. Lelio Orsini, ed egli promise di trovar gente, e parlò con Gio. Tommaso Caccìa e Giovanni Morabito; sicuramente d'allora in poi il Crispo ed il Caccìa rimasero in molto stretta relazione tra loro. Ma secondo la Dichiarazione del Campanella, che fu poi confermata in un senso meno semplice dalla sua confessione in tortura, egli venne pregato da fra Gio. Battista di visitare Pizzoni e di parlare delle mutazioni al Crispo; e così andò a Pizzoni e là, coll'occasione di un discorso sulla fabbrica dell'Astrolabio, si fece a parlare delle mutazioni e della convenienza di trovarsi pronti e di avere molti compagni. Aggiunge ancora nella confessione, e poi nella Difesa, che fra Gio. Battista avea premura che si parlasse al Crispo, perché costui volea passare a nozze e conveniva distoglierlo da tale idea, ad oggetto di mantenerselo disponibile come suo braccio forte. Ma evidentemente questo fatto potea bene stare insieme con l'altro, eppure deve notarsi che la faccenda delle nozze non si pose innanzi fin da principio nella Dichiarazione, sibbene più tardi, allorchè vi fu tempo di poter trovare qualche pretesto: importa poi ben poco che il colloquio siasi tenuto in Arena o invece in Pizzoni, rimanendo sempre indubitato che si sollecitò Claudio Crispo a prender parte nelle mutazioni da dover accadere, ed egli si offerse, vantandosi anche di avere amici per l'impresa; in ciò si accordano tanto il Crispo quanto il Campanella. È verosimile che in Arena sia stato cominciato isolatamente, ed in Pizzoni poi sia stato proseguito con più largo uditorio, il discorso delle mutazioni con le relative conseguenze: poichè vedremo il convegno di Pizzoni avere avuta un'importanza assai più grande, e il Campanella dovè in sèguito studiarsi di restringerne le proporzioni, limitandolo al solo discorso per Claudio Crispo.

Dobbiamo ora notare un altro fatto che il Campanella affermò avvenuto durante la sua permanenza in Arena, l'avere cioè saputo per lettera di Giulio Contestabile che Maurizio era andato sulle galere d'Amurat Rais. Nella Dichiarazione egli disse che questa lettera era venuta a lui medesimo; nella confessione disse invece che era venuta a fra Gio. Battista di Pizzoni e a Claudio Crispo. La prima versione è certamente più probabile, come è più probabile che la lettera gli sia stata diretta da Maurizio in persona. Con questa lettera ci sembra chiaro che doveva essergli partecipata non già l'andata sulle galere di Amurat, a lui certamente già nota, ma la risposta di Costantinopoli, la notizia della sicura venuta del Cicala in settembre e dell'adesione sua a' loro progetti: una galera distaccata del medesimo Amurat, di quelle che si dicevano «lingue» perché prendevano e davano informazioni sulle coste, potè servire a tale scopo, sicchè Maurizio dovè recarvisi di nuovo e conoscere l'esito della trattativa. I particolari poi di ciò che si era convenuto furono da Maurizio spiegati al Campanella più tardi, quando potè abboccarsi con lui: ne parleremo dunque anche noi a suo tempo, e qui notiamo, che al punto cui siamo pervenuti il Campanella potè esser certo che le trattative col Turco erano state conchiuse. Aggiungiamo poi che la lettera la quale annunziava le trattative conchiuse fu con ogni probabilità recata da fra Pietro di Stilo, poichè troviamo fra Pietro venuto allora in Arena, a quanto pare accompagnato da Fabrizio Campanella parimente armato come Gio. Pietro Campanella: questa venuta di fra Pietro, il quale «era un poco parente di Maurizio» come ebbe poi a dire nel processo di eresia, dà motivo a credere che la lettera di annunzio delle trattative conchiuse dovè essere stata scritta dallo stesso Maurizio, e che fra Pietro, compreso della gravità di essa, non volle affidarla ad altre mani. Così accadde pure che lo stesso fra Pietro, dopo alcuni giorni, si fece latore di un'altra lettera scritta dal Campanella a Giulio Soldaniero, e si recò in sèguito a Davoli, appunto in quella terra in cui soleva risedere Maurizio presso il sacerdote D. Marcantonio Pittella. Aggiungiamo inoltre che poco dopo, in data del 25 luglio, Maurizio si fece a scrivere al Crispo che egli era «l'istessa persona con fra Tomase», per eccitarlo senza dubbio a seguirne i ragionamenti col mettergli innanzi la propria partecipazione all'impresa. Del pari in data del 25 luglio, da Davoli, Maurizio scrisse ad un Gio. Francesco Ferraima «che venesse a trovarlo senza dire né dove va né a chi va, e vada cautelatamente, e quando entra sia con honestà, et che Donno Marco Antonio Pittella li darà nova dove me ritrovo, et che entrii di notte, et che haveano da raggionare negotio importantissimo, il quale non patisce dilatione, e tardando sgarraremo (intend. sbaglieremo) negotio, che spero arrivaremo hoggi, et che desiderando haver contento dele cose ch'hà desiderate si ne venghi subito». Vedremo che queste lettere furono disgraziatamente trovate ed inserte nel processo che ne seguì: esse intanto mostrano che a quella data Maurizio, avuta l'assicurazione della non lontana venuta dell'armata turca e del poter procedere d'accordo con essa, si dava grandissima premura di affrettare i preparativi, e dopo aver cercato d'infondere la premura medesima nel Campanella e socii, cercava di eccitare personalmente gli amici a lui noti ed anche di raccoglierne de' nuovi. Le sue sollecitazioni non riuscirono inutili; ma già il solo annunzio dell'accordo co' turchi avea destato in tutti un gran movimento. Fra Gio. Battista, nella data medesima del 25 luglio, scriveva a un fra Pietro Musso da Monteleone una lettera, nella quale «trattava di congregatione di forasciti et arme», come già fra Dionisio gli avea pure scritto precedentemente in data del 10 giugno. E sembra che del pari al 25 luglio debba riferirsi una lettera di Claudio Crispo a un Geronimo Camarda, nella quale «li tratta della congiura et de la sicura vittoria nel mese di settembre, nomina fra Gio. Battista, fra Dionisio et il Campanella, saluta Donno Gio. Battista Cortese et Donno Gio. Andrea Milano, advertendo pur vengano con V. S. conferme semo stati a Filogasi con fra Gio. Battista de Pizzoni, et finisce venga in effetto quel che noi speramo». Anche queste lettere vedremo che caddero in mano degli ufficiali Regii e furono come le precedenti inserte nel processo, dal quale ebbe a rilevarle il Mastrodatti facendone il sunto che abbiamo fedelmente riportato: e bisogna aggiungere inoltre ciò che il Campanella manifestò nella sua confessione. Fra Gio. Battista e Claudio Crispo mandarono a chiamare perfino Eusebio Soldaniero; a tale scopo fra Silvestro di Lauriana si portò a Serrata, ma Eusebio non ci volle andare. Evidentemente si riteneva che questa impresa dovesse segnare il termine di tutti gli odii anche più implacabili, dovesse apportare il bacio della pace generale, come del resto si è preteso sempre in altrettali momenti; se non che Eusebio forse dubitò di qualche tranello da parte d'individui i quali erano in istretta relazione col suo nemico Giulio, e ad ogni modo non ne volle sapere. Intanto fra Dionisio se n'era in tutta fretta andato a Nicastro, per passare immediatamente a Taverna, dove era stato assegnato come lettore fin dal maggio senza aver mai curato di recarvisi, e quindi, messa in regola la sua posizione, ripigliare le sue escursioni per raccogliere amici, segnatamente in Catanzaro, dove era convenuto che avesse a spiegare la sua azione. Il Campanella poi, non appena potè lasciare il Marchese, se ne andò a Pizzoni, per infervorare gli amici già raccolti ed assicurarsi anche di Giulio Soldaniero, il quale avrebbe dovuto egualmente là convenire. Dobbiamo del resto rammentare che, oltre la sollecitazione di Maurizio, raddoppiò il fervore del Campanella la comparsa di quella tale cometa marziale e mercuriale, che appunto in luglio fu vista correre presso la terra da ponente a levante, e che egli interpretò per la venuta di gente dal di fuori contro i Reggitori della Provincia.

Erano già quindici giorni da che il Campanella si trovava in Arena, e di là potè finalmente recarsi in Pizzoni. Secondo fra Gio. Battista ciò accadde il 25 luglio; ma dovrebb'essere accaduto non così tardi, avendo lo stesso fra Gio. Battista dichiarato che due giorni prima fra Dionisio, di passaggio per Pizzoni, si era trattenuto un poco con lui, e sappiamo di certo per un documento inserto nel processo, che fra Dionisio il giorno 21 era già in Nicastro. O dunque il Campanella partì prima del 25, o fra Dionisio non si fermò punto in Pizzoni: questa seconda ipotesi è più probabile, giacchè da una parte fra Dionisio avea molta fretta, e d'altra parte fra Gio. Battista dichiarò che in questa sua fermata fra Dionisio gli avea tenuto discorsi di eresia, la qual cosa, come vedremo in sèguito, non si può accettare senza riserva. Il Campanella fu accompagnato a Pizzoni dagl'individui medesimi che l'avevano prima accompagnato in Arena, con queste poche varianti. Mancava fra Dionisio, già partito; vi era invece fra Pietro di Stilo, e con lui probabilmente, come abbiamo detto, Fabrizio Campanella armato. Quest'ultima circostanza risulterebbe dalla deposizione di fra Gio. Battista, che confusamente parlò di «parenti armati» i quali accompagnavano il Campanella in Arena; oltracciò dal fatto, che lo stesso Fabrizio Campanella lo accompagnò più tardi a Davoli presso Maurizio. E su tale proposito bisogna notare che il Campanella, nella sua Dichiarazione, cercò quasi di giustificare la compagnia di gente armata, col dire che un Colella e un Giovannello di Gioia l'aspettavano per ammazzare suo fratello che era con lui; la qual cosa in realtà non sarebbe per que' tempi inverosimile. Fra Gio. Battista medesimo, certamente insieme con Claudio Crispo, volle pur egli accompagnare il Campanella, e difatti si portò ad Arena, non senza rivedere il Soldaniero nel suo passaggio per Soriano; giunto quindi presso il Campanella entrò a far parte della comitiva. Si ebbe così una comitiva piuttosto numerosa, certamente più numerosa di quanto poteva comportare il piccolo convento destinato ad accoglierla, e però dovè fare una certa impressione; giacchè troviamo essersi detto più tardi che v'era stato in Pizzoni un gran convegno di congiurati e un gran banchetto, in cui si era stretto il fascio e si erano spinti innanzi gli accordi. Giulio Soldaniero, il quale avrebbe dovuto andarvi e non vi andò, giunse a dire che «se ricolsero in Pizzoni più di trenta cinque capi» de' quali non sapeva il nome, citando però tra coloro che conosceva Eusebio Soldaniero nemico suo per comprometterlo; forse anche l'aver creduto che vi si dovesse trovare Eusebio lo decise a non andarvi. E poichè si riteneva aver proceduto di pari passo la trasgressione nelle cose dello Stato e quella nelle cose della Chiesa, venne poi facilmente accolta pure la voce che nel banchetto, tenutosi di venerdì, si era mangiato carne e segnatamente si era mangiata la porchetta. Fra Paolo della Grotteria, il quale da Vallelonga convenne pure a Pizzoni ma vi giunse la sera sul tardi, depose che la riunione accadde realmente di venerdì, e potè dare soltanto la lista del desinare dell'indomani concepita in termini più che magri, quali si leggono ne' documenti annessi a questa narrazione: relativamente poi alle persone riunite, egli nominò, oltre il Campanella, fra Gio. Battista di Pizzoni, fra Silvestro di Lauriana che co' «due terzi habitelli faceva la cucina», fra Pietro di Stilo, un giovanetto che chiamavano Gio. Pietro (Gio. Pietro Campanella) «et con questo dui altri, uno basciotto et un altro alto negro» (Fabrizio Campanella e Marcantonio Contestabile); dippiù «v'erano dui figlioli di ferrante Chrispo, c'era anco uno di Squillace chiamato Gio. thomase caccia che diceano ch'era preite, c'era anco un altro giovane di Filogaso chiamato Gioanne, et non mi recordo il cognome... tutti questi sopra nominati stavano armati di scopette et scopettolo, eccetto uno dilli figli di Chrispo». Troppo furono ingrandite in sèguito le proporzioni di questo convegno: ma, tolte di mezzo le esagerazioni, rimane sempre che i principali fuorusciti di quelle parti facevano corona al Campanella e a fra Gio. Battista, meno Gio. Francesco d'Alessandria che forse accompagnò fra Dionisio, e Giulio Soldaniero che mancò all'appello. La riunione durò quattro o cinque giorni secondo il Pizzoni, sette giorni secondo fra Silvestro di Lauriana. Stando alle dichiarazioni di fra Paolo della Grotteria, «il Campanella e fra Gio. Battista di Pizzoni tutto il giorno parlavano con li banditi in secreto et a longo»; ma certamente non v'erano altri estranei co' quali potessero parlare. Stando alle dichiarazioni di fra Gio. Battista, precisamente il 28 luglio, nel passeggiare con lui in Chiesa, il Campanella gli avrebbe parlato in particolare delle sue previsioni e profezie, de' futuri rumori, ribellioni e mutazioni di Stati, dimandandogli se avesse aderenza con fuorusciti, ed invitandolo a volergli dare costoro a sua devozione e collegarsi con lui: ma non occorre far avvertire che tali discorsi erano passati tra loro molto tempo prima. Inoltre avrebbe detto che gli pareva di essere stato proprio eletto da Dio per insegnare la verità e levare molti abusi grandi che regnavano nella Chiesa e massime ne' Prelati, che i Sacramenti erano solo per ragione di Stato, che il canto usato dalla Chiesa era una cosa frivola e pareva quasi che con esso si burlasse Iddio: e poi che il Sacramento dell'altare era una semplice commemorazione e tutti gli altri Sacramenti non erano stati ordinati da Gesù, la Trinità era una chimera, e molte e molte altre eresie, le quali del rimanente gli sarebbero state già prima comunicate una per una da fra Dionisio Ponzio, allorchè, due giorni innanzi, era passato per Pizzoni. Ma vedremo a suo tempo quali e quante ragioni influissero a far parlare fra Gio. Battista in tal modo, senza per altro escludere che il Campanella alle volte esternasse tra gli amici da lui stimati più fidi (e fra Gio. Battista era del numero) qualcuna delle sue intime credenze, non che qualcuna delle riforme le quali avrebbe avuto in animo d'introdurre: intorno a ciò ci riserbiamo di esporre più in là, una volta per sempre, quanto ci risulterebbe più vero tra le tante cose che gli vennero attribuite. Vediamo intanto ciò che sarebbe avvenuto in Pizzoni secondo lo stesso Campanella: ecco come egli ne fece il racconto nella sua Dichiarazione. «Me venne a visitare (in Arena) fra Giovan Battista Cortese de Piczoni con Claudio Crispo, et pregato ch'io andase a Piczoni che l'haveriano havuto in favore grande, et cossì ci andai, mosso da paura che certi nemici della casa mia, Colella e Giovanello de Gioia, m'aspettavano per amazzare mio fratello che era con me, et do poi in Piczoni ragionai con loro, et havendo visto che fra Gio. Battista tenea un libro della fabrica dell'Astrolabia, et che parlava de cose future, richiesto da loro disse della mutatione che si aspettava secondo fra Gio. Battista havea detto a loro; et Claudio vantandosi d'havere amici se fosse bisogno de fare guerra, io le disse che sarebbe bene haverne assai, per che sempre giova, et che li Principi et Re tengono conto di coloro i quali han più amici, et sempre vi servirano, et cossì le disse quel che havea detto a Mauritio, il qual'ancora era amico di Claudio, et conobbi con ogn'un che parlavo, che tutti erano disposti a mutatione, et per strada ogni Villano sentiva lamentarsi; per questo io più andava credendo questo havere da essere». Quasi non occorre dire che tali cose furono certamente dette non al solo Claudio Crispo, ma anche a tutti gli altri là presenti, i quali il Campanella ebbe cura di non nominare; né a tali cose soltanto dovè limitarsi il discorso. Se si potesse accogliere pienamente quanto si fece poi a deporre fra Gio. Battista, il Campanella già si vantava di avere l'aiuto del Turco, essendosi negoziato col Bassà Cicala, e diceva che in principio gli bastavano la lingua a persuadere i popoli e le armi de' banditi, e poi avrebbe quelle di altri più potenti, che voleva predicare contro la tirannide di Re Filippo e de' suoi Principi, ed anche contro il Papa, i Cardinali e i Vescovi, che prima si doveva ammazzare il Vicerè di Catanzaro e poi gli ufficiali, ed allora alzar voce di ribellione e far repubblica. Non si potrebbe menomamente affermare che tutto ciò sia stato palesato a' convenuti in Pizzoni, ma è credibilissimo che qualche cosa di simile sia stata annunziata. Intanto il Campanella pensò pure ad assicurarsi del Soldaniero, e non avendolo visto, prese la grave determinazione di scrivergli una lettera, la quale fu consegnata da fra Pietro di Stilo, che si partì un giorno prima degli altri da Pizzoni per recarsi a Davoli, e passò a tale scopo per Soriano. Quando più tardi fu conosciuto l'iniquo volta-faccia del Soldaniero, fra Pietro, ritenendo senza dubbio che la cosa fosse stata già palesata, si diè premura di non nasconderla, e non solo attestò di aver consegnata al Soldaniero questa lettera, ma ancora di avergli detto per imbasciata che il Campanella «l'era molto servitore et che desiderava molto di vederlo», lodandogli grandemente fra Tommaso e pregandolo che volesse andare da lui; parrebbe pure che il Soldaniero gli avesse detto di essergli stati comunicati da fra Dionisio i progetti del Campanella con tutto il corredo delle eresie, e che fra Pietro gli avesse raccomandato di non palesar nulla di tali cose essendo fra Dionisio uno scapato. Da parte sua il Soldaniero negò sempre di aver ricevuta una lettera del Campanella, e ciò si spiega considerando che tale fatto l'avrebbe dato a divedere complice nell'impresa: ma abbiamo già avuta occasione di dire che il Priore di Soriano assicurò di aver letto egli medesimo una lettera del Campanella mostratagli dal Soldaniero, in fine della quale il Campanella diceva di rimettersi al suo locotenente fra Gio. Battista; v'è quindi ogni motivo di ritenere non solo che la lettera sia stata realmente inviata, ma anche che con essa il Campanella, non avendo potuto di persona trattare col Soldaniero, abbia accreditato fra Gio. Battista presso di lui.

Come si vede, quando le cose stringevano, fra Pietro di Stilo non rifuggì dall'impegnarsi personalmente nella faccenda della congiura. Amava moltissimo il Campanella, di cui non cessava di lodare la grande dottrina; si occupava pure di un matrimonio tra un suo fratello e una sorella (cugina) di fra Tommaso «pur sua parente», matrimonio che poi non ebbe effetto pe' dolorosi incidenti sopravvenuti; oltracciò era «un poco parente di Maurizio». Tali circostanze, emerse nel processo di eresia, spiegano il suo impegno diretto in questo momento assai delicato delle trattative: del resto possiamo dire che egli dubitò sempre della serietà dell'impresa, e sovente si permise di scherzare intorno ad essa: difatti, mentre ognuno se ne imprometteva onori e grandezze, egli soleva dire tra i frati che avrebbero preso una moglie per uno, e da parte sua moriva della voglia di prenderla, delle quali proposizioni dovè poi render conto al S.to Officio. Vedremo che il Campanella nella sua confessione in tortura, rivelando coloro i quali doveano con lui predicare per la repubblica, nominò il Pizzoni, il Petrolo, il Lauriana, fra Dionisio, e soggiunse che fra Pietro di Stilo avea saputo la cosa all'ultima ora, e nemmeno interamente, poichè non ispirava fiducia, essendo un pazzo! Evidentemente il Campanella volle nascondere qualche cosa, ma la definizione che diè del suo amico, messa in raffronto con gli scherzi di lui intorno a' beneficii della grande impresa, conferma che fra Pietro ci credeva poco, e vi si trovò impigliato per compiacenza più che per convincimento. Secondo le sue deposizioni, allorchè s'incontrarono in Arena, il Campanella gli avrebbe parlato delle profezie, delle mutazioni prossime e dell'esser bene per chi si trovasse armato, e presolo per la mano gli avrebbe detto, «fra Pietro, è stato scritto contro di me da quelli di Stilo al Nuntio et al Papa, ch'io ho amicitia di banniti, per questo io me spagnio, (int. mi spavento) un poco». Ma forse accadde appunto il contrario, e dovè fra Pietro spaventarsi un poco ed avvertire ancora una volta il Campanella, che qualcuno di Stilo avrebbe potuto rivelare la sua amicizia co' banditi: circa poi le profezie e tutto il resto, fra Pietro dovea aver conosciuto da lungo tempo ogni cosa, e forse anche per esse egli ebbe tanto meno la forza di contraddire al Campanella, mentre tutti vi credevano e a tutti una mutazione pareva inevitabile. Così non poche furono le ragioni che l'indussero ad uscire dalla sua riserva e farsi latore di lettere, le quali, se fossero cadute nelle mani degli ufficiali Regii, l'avrebbero compromesso nel peggior modo. Al momento cui siamo giunti, egli si recava a Davoli, alla residenza abituale di Maurizio; non sappiamo cosa vi andasse a fare, ma si può ben ritenere che andasse a consegnare a Maurizio qualche lettera del Campanella.

III. Oramai il lavoro ferveva da tutti i lati, e non giunse ad interromperlo nemmeno un avvenimento verificatosi in que' giorni appunto, avvenimento che contribuì in modo gravissimo alla rovina de' frati e di tutta l'impresa. Per commissione del P.e Generale una Visita si dovea fare ne' conventi delle Calabrie, essendo stato mandato qual Visitatore il P.e Marco da Marcianise, di cui abbiamo già avuta occasione di dire qualche cosa nel parlare de' tumulti di S. Domenico di Napoli. Fu questo il motivo per lo quale fra Dionisio ebbe fretta di portarsi a Nicastro e quindi a Taverna, volendo mettersi in regola e poi continuare la sua propaganda. Egli si sentiva minacciato di una sostituzione nel lettorato di Taverna e forse anche di qualche maggiore gastigo, per la protratta noncuranza dell'assegnazione avuta dal Capitolo. Ciò risulta da una sua lettera in data del 21 luglio da Nicastro, diretta a fra Vincenzo Rodino di S. Giorgio, nella quale, mentre gli annunzia la liberazione del Pisano per opera sua e del Campanella, credendola in realtà avvenuta, dice ancora, «molte altre cose passano che non le può sopportar penna»; partecipa inoltre l'arrivo del Visitatore nella Provincia, e mostra di credere che tale visita sia una conseguenza de' suoi memoriali al Papa contro l'ex-Provinciale fra Giuseppe Dattilo, denominato nel gergo fratesco il Cepolla; infine soggiunge che si sarebbe portato l'indomani a Taverna lettore, «per non dar sodisfatione ad alcuni che han cercato andarci». Evidentemente a quella data fra Dionisio non conosceva ancora chi fosse il Visitatore, in caso opposto non avrebbe mai potuto crederlo favorevole alla fazione sua. Ad ogni modo andò al suo posto in Taverna; se non che quivi, coll'indole sua irrequieta ed impetuosa, finì per aggravare moltissimo la sua condizione. Facea parte di quel convento un giovane frate, piccolo, rossetto (così ci viene descritto da più fonti), nativo di Nizza del Monferrato, a nome fra Cornelio: il Campanella nelle sue Difese lo disse lombardo, e nell'Informazione ci fece sapere che non era nemmeno regolarmente professo, sibbene un intruso; questa circostanza non potrebbe far maraviglia, visto il procedere scompigliato di que' tempi, ed è superfluo poi ricordare che la presenza de' napoletani e de' lombardi era allora un fatto ordinario ne' conventi Domenicani delle due regioni. Fra Dionisio, trovato questo frate alla mensa in un posto che invece spettava a lui, lo fece levare di là bruscamente; in questo si accorda ciò che disse il Campanella nell'Informazione e ciò che fu scritto negli Articoli difensivi dati da fra Dionisio nel consecutivo processo di eresia; ma quivi si aggiunse ancora, che innanzi a più e diversi frati lo avea confuso dicendogli che non intendeva la materia de censuris e la scomunica. Fra Cornelio vendicativo più dello stesso fra Dionisio, ed inoltre ambizioso e maligno all'eccesso, fu preso quale compagno dal Visitatore, dietro consiglio de' Polistina, del Dattilo e di tutta la fazione avversa a fra Dionisio: vedremo subito con quale spirito egli entrasse in ufficio, e sarà noto una volta di più come gravissimi fatti possano nascere dalle più lievi cause. Una rissa accaduta poco tempo dopo, nella quale fra Dionisio venne a ferire un frate, diè l'occasione alle prime avvisaglie. Questo è accennato anche dal Campanella nell'Informazione; ma nel processo di eresia è narrato in tutti i suoi particolari ed in un modo abbastanza comico dal Barone di Cropani, il quale fu uno de' carcerati come complice nella congiura, e disse di aver trattato con fra Dionisio solamente per siffatto motivo. «Havendo fra Dionisio una cagnola quale mangiò la piatanza ad un frate, quello frate venne in rissa con fra Dionisio, di maniera che fra Dionisio bastoniò quel frate, et per questo mi pregò andare dal Provintiale di Calabria che io lo facesse venire da lui, che con una correggia in canna se li voleva buttare alli piedi e dimandare l'assolutione de la scomunica incorsa». Veramente fra Dionisio non era soltanto incorso nella scomunica, sibbene, come ci fece sapere il Campanella nella Dichiarazione e poi nell'Informazione, sempre con qualche variante atta ad aiutare la sua causa, era stato dal Visitatore condannato al confine in Celico, casale di Cosenza, sotto pena della galera con la privazione del lettorato e dell'abito per tre anni: ma anche prima di conoscere tale condanna, egli si pose in giro, con la ragione o col pretesto di trovare amici che lo facessero assolvere, e al tempo stesso col proposito sempre più acuto di trovare amici per la ribellione. Vedremo più in là i particolari di quest'altro periodo della sua propaganda; per ora c'importa non lasciare troppo indietro il Campanella.

Dopo quattro o cinque giorni o poco più di permanenza in Pizzoni, il Campanella si ridusse a Stilo, e poi passò anche qualche giorno in seno alla famiglia in Stignano. Intanto, come risulta da ciò che scrisse nella sua Dichiarazione, Maurizio venne a Stilo, e non avendolo trovato, perché egli era già andato a Stignano, gli lasciò una lettera con la quale lo pregava di venire a trovarlo a Davoli per cose d'importanza: dopo qualche esitazione egli vi andò, accompagnato dal Petrolo e da Fabrizio Campanella, e trovato presso il Pittella Maurizio, costui gli fece conoscere ciò che avea trattato col Turco e gli mostrò anche una scrittura turchesca, la quale il Campanella non seppe leggere. Fermandoci dapprima su questa scrittura turchesca, dobbiamo dire che essa era senza dubbio un salvacondotto, come risultò dalla confessione medesima di Maurizio. Dobbiamo aggiungere che parecchi tra' più vicini a Maurizio la qualificarono egualmente: così il suo servitore Tommaso Tirotta dichiarò, che quando Maurizio mostrò al Campanella in presenza d'altri «lo scritto che ebbe da' turchi», lo disse un salvacondotto, e che un Pietro Jacovo Garzia diceva, «ora potremo andare sicuri che abbiamo il salvocondotto». Ma questo si ebbe dopo che si era «trattato et concluso con Morat Rays» della ribellione, come risultò dalle parole di Maurizio, e meglio ancora dalle parole del Campanella nella Dichiarazione, dove egli appunto espose ciò che Maurizio «havea capitulato con li turchi», riferendolo per dichiarare che se n'era mostrato dispiaciuto ed allarmato. Maurizio gli avrebbe detto che «esso havea trattato con Amurat sopra le galere che venisse l'armata del turco, che esso volea pigliare Catanzaro et la Provintia»: il Campanella non l'avrebbe approvato affatto, per la semplice ragione che i turchi erano nemici da non potervisi fidare e sempre giuravano il falso; Maurizio rispose «ch'havea capitulato con li turchi che non havessero assai a tener dominio in Calabria, ma solum assistere nel mare per fare paura a chi lo contrastasse, et che li turchi voleano solo il trafico in questo Regno et non altro», e gli mostrò la carta turchesca, ma il Campanella continuando a lamentarsi di lui avrebbe deciso di lasciare la sua amicizia. Questo espose il Campanella; dal canto suo Maurizio espose, che avendo comunicato ciò che avea trattato e concluso, «tutti (meno il Pittella che rimase indifferente) mostrorno haverne gran contento, et ne giubilorno, laudando et dicendo ch'havea fatto assai di quello che loro desideravano», bensì confermò aver fatto ogni cosa «da per se solo et non per conseglio ne per ordine et consenso di detto fra Thomase». Passando oltre per ora alla dispiacenza o al giubilo del Campanella, cominciamo dal rilevare che vi furono patti abbastanza chiari: l'armata del Turco avrebbe dovuto venire in Calabria (senza dubbio in un tempo determinato e in un numero di galere determinato) per far paura nel mare a chi contrastasse da questa via, facendo anche sbarchi ed occupando temporaneamente terre di Calabria; Maurizio, lui personalmente, avrebbe dovuto pigliare Catanzaro ed estendere la sua azione a tutta la Provincia, obbligandosi ad accordare a' turchi per l'avvenire vantaggi commerciali. Con ogni probabilità vi furono anche altri patti, e per lo meno i patti precedenti, p. es. quello dell'occupazione delle terre di Calabria da parte dei turchi, doverono essere meglio determinati. Dal processo consecutivo non emerse nulla intorno a ciò, ma bisogna ricordarsi che noi possediamo solamente i brani del processo concernenti le accuse contro gli ecclesiastici, e il Campanella, e tanto più il Pittella, dietro la leale confessione di Maurizio risultarono scagionati dall'accusa della convenzione col Turco. Questo non vuol dire che veramente il Campanella non ne avesse dirette le fila con molta astuzia, per mezzo di Maurizio dalla via di Amurat, e forse anche per mezzo di fra Dionisio dalla via di Messina, ma quest'ultima via rimase coperta, e l'altra riuscì tutta a carico di Maurizio, ond'è che non conosciamo il fatto in tutta la sua estensione. Nondimeno quel poco che ne conosciamo riesce di molta importanza. Era capitolato che i turchi «non havessero assai a tener dominio in Calabria», ma doveano dunque tenervi dominio, benchè temporaneo e di breve durata: così non fu una invenzione degli ufficiali Regii che si volea far occupare la Calabria da' turchi, e le rivelazioni di taluni complici (Claudio Crispo, Cesare Mileri), che dissero essersi convenuto di dare molte fortezze e terre in mano de' turchi, non furono propriamente effetto d'insinuazioni e di tormenti. E come potremmo credere che il Campanella fosse stato davvero interamente estraneo alle trattative e dispiaciuto per esse? Tutti i fatti precedenti e così pure i sussecutivi ci autorizzano a credere l'opposto. Concediamo pure che forse egli non avrebbe voluto l'occupazione turca, comunque limitata e temporanea, e che tale patto convenuto da Maurizio gli abbia recato sorpresa e dispiacere; ma è facile comprendere che non si poteva fare in modo diverso, e se veramente così avvenne per parte del Campanella, Maurizio, il quale rimane sempre il capo responsabile dell'azione con le armi, dovè a sua volta provare sorpresa e dispiacere, vedendo che volea farsi una guerra con idee alquanto fantastiche e punto consentanee alla realtà delle cose. Ad ogni modo non per questo il Campanella si pose in disparte, e se si decise a lasciare l'amicizia di Maurizio, tale sua decisione non ebbe effetto, come si rileva da ciò che avvenne ulteriormente in Davoli.

Maurizio, preoccupandosi del buono andamento delle cose in Catanzaro, ove era convenuto doversi fare lo sforzo principale della ribellione, volle che alcuni di questa città si costituissero centro de' congiurati, e desiderò che il Campanella li persuadesse con la sua eloquenza, di cui egli faceva gran conto avendola sperimentata sopra sè medesimo; e il Campanella non si negò menomamente, e si ebbe in tal guisa, dopo i convegni di Stilo e di Pizzoni, un terzo convegno parimente assai notato, quello di Davoli. Sia d'accordo col Campanella, come Maurizio affermò nella sua confessione, sia senza quest'accordo, come parrebbe dalla Dichiarazione del Campanella, Maurizio chiamò a Davoli due gentiluomini di Catanzaro assai maneschi, da lui giudicati «uomini di valore», Gio. Tommaso di Franza e Gio. Paolo di Cordova, il quale ultimo eragli anche parente per parte di madre; e li chiamò scrivendogli di venire «sotto colore che voleano trattare la natività loro», ciò che implicherebbe avergli accennato di dover trattare col Campanella, il quale veramente s'intendeva di oroscopi e di natività, ed essi non mancarono di venire, accompagnati da un Orazio Rania. Questo accadde nella prima settimana di agosto, conoscendosi con sicurezza che l'8 o il 9 di agosto il Campanella si trovava tuttora in Davoli, nel convento degli Agostiniani detto di S.a M.a del Trono: oggi ancora sono visibili i ruderi di questo convento e della sua Chiesa, sopra un colle a meno di un miglio dall'abitato; ed una statua di S.a Anna con la data appunto del 1599, ritirata dagli avanzi della Chiesa, è il più vivo ricordo del luogo e del tempo in cui avvenne una delle scene più memorabili della congiura. Al momento dell'arrivo di que' di Catanzaro fra Tommaso già vi era, e come abbiamo visto sopra, in compagnia di fra Domenico Petrolo e di Fabrizio Campanella; ma non risulta che costoro fossero presenti al colloquio, ed anzi lo stesso Maurizio si tenne in disparte dopochè fu esaurita l'esposizione delle solite cose generali de' prossimi mutamenti e del dovere star pronti; ciò si rileva dalla confessione sua, dalle deposizioni di Gio. Paolo e Gio. Tommaso ed anche dalla Difesa del Campanella, il quale si servì di questo fatto come di un argomento per sostenere che non vi era stato convegno. La riunione ebbe luogo presso il convento, in un castagneto, all'aperto, e come il Campanella scrisse nella sua Dichiarazione, essi cominciarono dal dimandargli segreti per aver donne che egli pose in burla (la solita maniera di considerare il Campanella); di poi, pregato da Maurizio che avesse detto a que' gentiluomini la faccenda delle mutazioni, egli le confermò, e «tutti gli si offersero che volesse esser capo et predicare» perché l'avrebbero seguitato; ma egli non volle e si partì per disgusto, andandosene a S.ta Caterina, e dopo tre giorni a Stilo. Non sarà inutile il dire che di poi, nel processo, tanto Gio. Paolo di Cordova quanto Gio. Tommaso di Franza confessarono il convegno avuto col Campanella, e lo confermò pure Tommaso Tirotta servitore di Maurizio: solamente il Cordova aggravò piuttosto la condizione di Orazio Rania che era già morto quando egli fece la sua deposizione (secondo il metodo abituale dei giudicabili), e il Franza nominò fra Dionisio come colui che gli avea già parlato delle mutazioni da parte del Campanella; l'uno e l'altro poi dissero che fra Dionisio veramente, più tardi in Catanzaro, richiese la loro opera per la ribellione, essendosi nel convegno discorso soltanto di un segreto che fra Dionisio avrebbe in sèguito manifestato. Ma per quanto apparisca possibile che fra Dionisio avesse già parlato col Franza, vedremo altrove che da parte di costui c'erano forti ragioni per le quali egli dovea sforzarsi di aggravare la mano su fra Dionisio in questo negozio, ed oltracciò in entrambi ci era tutta la convenienza di mostrare che le istanze per la ribellione erano state fatte più tardi. Secondo il Tirotta, nello stesso giorno del convegno, dopo il desinare, essi ripartirono. Ognuno intanto avrà notato trovarsi dalle parole medesime del Campanella accertato che tutti gli si offersero, facendogli premura che volesse esser capo con la predicazione; sicchè rimane soltanto ad interpetrare se egli veramente rifiutò ed anzi se poteva rifiutare, mentre tutto si edificava sulla base delle sue profezie e vaticinii, e la sua eloquenza era già da un pezzo impiegata a persuadere che dovea fondarsi la repubblica.

Ma durante il soggiorno del Campanella in Davoli accadde pure un fatto importantissimo, che ebbe le più gravi conseguenze. Appunto l'8 o il 9 agosto, non si sa per quale motivo, capitò al convento suddetto fra Domenico di Polistina, e seppe da fra Domenico Petrolo che il Campanella trovavasi nel convento e l'avrebbe veduto con piacere, che anzi desiderava di vederlo. Egli si presentò al Campanella in Chiesa, e gli fece i suoi saluti e le sue proteste di amicizia; ma il Campanella gli rispose che tra loro due non poteva esservi amicizia, trovandosi l'uno amico di fra Gio. Battista di Polistina e l'altro amico di fra Dionisio, tra' quali correva inimicizia grandissima. Il Polistina meravigliato di tale ricevimento si partì. Come mai il Campanella potè mostrarsi tanto scortese, ed anche tanto imprudente, mentre non ignorava la potenza e lo spirito d'intrigo de' Polistina? Bisognerebbe dirlo venuto in una grande boria, per la fiducia ispiratagli da' preparativi della sua impresa ottimamente avviati: ma è verosimile pure che fosse infastidito dal vedersi ronzare intorno un uomo di quella fatta, il quale probabilmente ne spiava i passi ed osava dichiararglisi amico. Intanto il Polistina montato a cavallo se ne partì in fretta, dirigendosi pel castagneto che era presso il convento: ma «caminato 10 o 12 passi, il garzone o sia vetturino gli disse, se andate per questa via voi sete morto, perché mentre ragionavi con il Campanella in Chiesa, li foresciti che erano alla porta hanno determinato di ammazzarvi mentre che passaremo nelle castagne, et così pigliò altra strada et andò a Suriano, dove trovò il Soldaniero nel convento, al quale raccontò il caso». È possibile che i seguaci di Maurizio, p. es. il Tirotta, Gio. Battista Vitale che sappiamo essere sempre stato anche lui in Davoli, forse pure qualche altro, consapevoli delle amicizie del Polistina e penetrati della poca opportunità della sua presenza in quel luogo, avessero borbottato propositi minacciosi verso di lui; è possibile pure che al vetturino non fosse tornata molto comoda la risoluzione di battere la via del castagneto, e avesse cercato di farla cambiare mettendo paura al Polistina: certo è che il Polistina si diresse ad un luogo e ad un uomo che facevano appunto per lui, avendo dovuto forse già conoscere dal Priore di Soriano suo amico le cose passate tra Dionisio e il Soldaniero, ed avendo dovuto sembrargli giunto oramai il momento di farla finita, poichè non v'era più da andare fiutando e si avea del resto già tanto in mano da poter perdere Dionisio e il Campanella. Egli si presentò al Soldaniero come uomo agitato ed afflitto per la paura avuta, e il Soldaniero, che avea conosciuto pure fra Gio. Battista di Polistina nella Quaresima passata, lo secondò dicendo che era stato già deciso che fra Gio. Battista e i suoi aderenti dovessero essere ammazzati d'ordine del Campanella ed altri complici, e quindi «non saria stato gran cosa» che avessero ammazzato anche lui; oltracciò soggiunse che erano stati fatti registri di eresie da doversi predicare al tempo della ribellione, che Dionisio gli avea parlato contro i miracoli di Cristo e de' Santi, che gli avea detto essere il significato delle lettere I N R I, poste in fronte al crocifisso, non già quello comunemente conosciuto ma quello di una pessima ingiuria in lingua ebraica, che infine gli avea raccontato quel tale fatto osceno commesso con l'ostia consacrata ed egli sospettava essere stato quel fatto commesso precisamente da fra Dionisio. Così raccontò poi le cose il Polistina, ed anche fra Cornelio che le seppe dal Polistina. Forse il Soldaniero non ciarlò tanto, ed è possibile pure che avesse accennato in confidenza quelle cose al Priore di Soriano, come altrove si è detto, e non già al Polistina: ad ogni modo vedremo più tardi che il Polistina e fra Cornelio su questa base architettarono il processo di eresia, riducendo il Soldaniero, con le buone o con le triste, non solo feroce accusatore ma anche persecutore a mano armata di coloro i quali avrebbero dovuto essergli compagni nella ribellione.

Indubitatamente col convegno di Davoli s'inaugurava un periodo di sempre maggiore attività ne' preparativi della ribellione. Maurizio continuò senza posa a sollecitare e a raccogliere aderenti: questo viene accertato pure da un altro brano della Dichiarazione del Campanella, il quale si lasciò andare sino a far nomi, onde poi gli ufficiali Regii non ebbero veramente a sforzare la loro immaginazione per convincersi che la congiura fosse una cosa molto seria. «Mauritio, quando fummo in Davoli, disse che volea far un giro, et trovar Gio. Battista Soldano, Giulio Soldanere et Carlo Bravo, et trovare li foragiti di Reggio et li Baroni et altri, et ch'esso poteva fare in dieci giorni ducento huomini, et certi di casa dello Stocco in Cosenza, et entrar in Catanzaro, et pigliar la città et tenerla, ma non disse quando stava per farlo». Intorno ad alcuni de' fuorusciti qui indicati abbiamo qualche notizia. Gio. Battista Soldano era un bandito di Ricadi, casale di Tropea: e bisogna dire che Maurizio abbia veramente fatto il giro che si proponeva e siasi recato fino a Tropea, giacchè vedremo poi parecchi di quella città e casali, né tutti fuorusciti, gravemente perseguitati per la congiura, come un Tranfo, un Furci, un Loiacono, un Politi, un Jannello, un Barbèri. Carlo Bravo era di Montesanto; insieme col fratello Fabrizio scorreva la campagna, ed avevano entrambi acquistato fama pe' molti delitti commessi. I fuorusciti di Reggio erano forse quelli che in numero di 42 comandava Don Giuseppe di Capoa, tra' quali stava pure il fratello di Felice Gagliardo, come risulta da lettere che il Capoa da Reggio inviava al Gagliardo quando costui pervenne carcerato in Napoli, e che, essendogli poi state ritrovate, furono inserte nel processo di eresia insieme con altre carte di pertinenza del S.to Officio. I Baroni erano parecchi: quelli di Reggio si chiamavano Domizio, Paolo e Gio. Domenico, e si trovavano implicati nelle prepotenze delle fazioni dei Melissari e de' Monsolini, ma esercitavano anche violenze per conto proprio. A miglior luogo avremo campo di far conoscere i documenti che abbiamo rinvenuti intorno a tutti costoro. Quanto a Giulio Soldaniero, ne sappiamo abbastanza dalle cose dette avanti; e non può non riceversi qui una certa impressione dal vedere che il Campanella, il quale avea fatto tanto per avere quest'uomo a sè, lo mette poi esclusivamente a carico di Maurizio. E da notarsi frattanto che Maurizio oramai si proponeva di entrare in Catanzaro e pigliar la città; sicchè non attendeva più, per moversi, che Catanzaro «si cominciasse a ribellare», come dapprima si era protestato con fra Tommaso. Egli medesimo nella sua confessione dichiarò essersi concluso «con fra Tomase et fra Dionisio, che quando fra Dionisio havesse finito di trattare, et havere quelli di Catanzaro, havesse avvisato, per che s'haveria pigliato espediente ad effettuare detta rebellione, et entrare a Catanzaro, et fra Tomase diceva, che si havea da gridare libertà, scassare le carcere et ammazzare l'officiali». Vedremo difatti più in là che fra Dionisio in Catanzaro trattava per far entrare incogniti e di notte tre a quattrocento uomini armati; e comunque si fosse detto che sarebbero entrati con lui e sarebbero rimasti sotto gli ordini di alcuni di Catanzaro tra' quali Gio. Tommaso di Franza, tutto mena a credere che avrebbero dovuto entrare, certamente in minor numero, sotto gli ordini di Maurizio: dopochè Maurizio si era obbligato co' turchi di pigliare Catanzaro, tanto meno poteva confidare ad altri, massime poi a coloro i quali deposero tale fatto, un'impresa così rilevante e a dirittura capitale. - Da parte sua il Campanella continuò parimente ad infervorare i suoi amici, come lo attestano fuori ogni dubbio due lettere scritte di suo pugno a Claudio Crispo, le quali disgraziatamente vennero poi a cadere in mano degli ufficiali Regii e furono inserte nel processo. La prima, a quanto pare, venne affidata a fra Paolo della Grotteria che non si curò di consegnarla: per negligenza del Mastrodatti non ne conosciamo la data, ma da parecchie circostanze si può bene desumere che dovè essere scritta a' primi di agosto, probabilmente da Davoli, ed inviata a Stilo perché di là fosse spedita a Pizzoni. Ecco il sunto che ne diede nel processo il Mastrodatti: «Desiderava raggionare con l'amici et per questo volea venire in Pizzoni, ma per che non li era stato scritto, ch'erano venuti, me parse soverchio per buoni rispetti non venire a trovarla, pur se dimani venerando (sic) venerò a stare con lei tre hore et poi ritornerò, et l'huomo non deve mai mutare (senza certo disegno) stanza, per che il mondo non pensi a male, però spero a San Domenico che serà alli 5 esser con V. S. et avanti, frà tanto anderà il P. Dionigio ad acconciare le cose sue in Catanzaro, et poi visti ci revederemo, et infine dice, si V. S. parla con li amici suoi, sia insieme col P. Gio. battista et dicali in quella maniera l'ho insegnato a lui, mentre eravamo sul ponte di legname qui». Sapendosi che il giorno di S. Domenico, determinato nel giorno 5, viene a cadere in agosto, e che fra Dionisio avea guastate le cose sue in Taverna e doveva accomodarle in Catanzaro appunto a' primi di agosto, riesce chiaro che la lettera dovè essere scritta precisamente poco avanti questo tempo. La circostanza poi del «ponte di legname» indicherebbe che il Campanella scriveva da Stilo, dove forse il Crispo l'aveva accompagnato insieme con gli altri, al ritorno da Pizzoni, e si era trattenuto a udire gli ultimi discorsi sul ponte dello Stilaro, fiume che scorre sotto Stilo: ma non è arrischiato l'ammettere, che per uno de' soliti artificii de' cospiratori, egli mostrasse di scrivere da questa città. E come mai, avendo da pochissimo tempo lasciato Pizzoni, sentiva già nuovamente il bisogno di andarvi? Probabilmente voleva parlare ad amici non intervenuti nel primo convegno, e però vedeva utile tenerne un secondo; forse anche volea comunicar loro doversi oramai disporre ad entrare in Catanzaro, ed ivi trovarsi pe' primi di settembre (al tempo della venuta de' turchi); ma si preoccupava di ciò che avrebbe potuto dirne il mondo, e difatti con la seconda lettera pregò il Crispo di voler lui venire a trovarlo. Intanto anche questa volta designava quasi suo luogotenente fra Gio. Battista, come già prima avea fatto verso il Soldaniero. La seconda lettera, che venne trovata sulla persona del Crispo, reca la data certa dell'8 agosto, e sappiamo sicuramente che a questa data il Campanella si trovava in Davoli, essendo allora appunto accaduto il suo incontro col Polistina. In essa egli scrive al Crispo, «che vogli venire con qualche amico, et particolarmente con Gio. Francesco d'Alisandria». Da tutto ciò si può ben rilevare che il Campanella non pensò mai veramente a tenersi in disparte, e continuò ad agire in que' modi e limiti che la sua posizione gli permetteva.

Lasciando Davoli, il Campanella si recava a S.ta Caterina e là rimaneva, come egli medesimo assicurò, «tre dì a spasso». Dagli atti del processo di eresia sappiamo che dimorò nel convento Domenicano di S. Nicola esistente in quella terra, e che i frati l'onorarono con banchetti, alcuno de' quali finì in un'orgia immonda, se deve credersi alla deposizione di una vedovella molto pudica e serva di Dio, ma altrettanto energumena contro fra Tommaso e con ogni probabilità tratta in inganno. Del resto un'orgia immonda tra' frati di quel tempo, dopo un desinare, non era cosa straordinaria, e il processo medesimo ne ricorda un'altra, comunque in proporzioni assai minori, avvenuta in Nicastro durante il priorato di fra Dionisio: ma dobbiamo notare che appunto in S.ta Caterina «diciano le genti che (il Campanella) non guardava hom'in faccia ma sempre si guardava la unghia», onde potè accreditarsi la voce che avesse il suo spirito familiare proprio nell'unghia. Ciò mostra solamente ch'egli stava in un contegno assai riservato: non sappiamo pertanto se nell'andare a S.ta Caterina abbia avuto qualche scopo recondito, ma è probabile che sia stato indotto a ripetervi le profezie sulle future mutazioni, ed oltracciò abbia dovuto abboccarsi con altri affiliati di quella terra, giacchè vedremo essere stati poi forgiudicati per la ribellione anche Franc.° Paolo Santaguida ed Antonio Merlino di S.ta Caterina. Ma finalmente se ne tornò a Stilo, né mai più ebbe ad allontanarsene fino al momento in cui la congiura fu scoperta. - Nell'occasione del suo ritorno a Stilo ritornò del pari al convento fra Domenico Petrolo, il quale, senza dubbio per la venuta del Visitatore in Calabria, avea dovuto finalmente decidersi a lasciare la casa sua in Stignano e ripigliare la vita claustrale troppo lungamente interrotta: era stato in convento durante il maggio per alcune settimane, quando si sciolse il Capitolo di Catanzaro, e vi si restituiva nell'agosto, rimanendo sempre, d'allora in poi, a fianco del Campanella, sicchè le sue rivelazioni destano pel periodo attuale il più grande interesse. Una delle prime visite ricevute dal Campanella in Stilo, come risulta anche dalla sua Dichiarazione, fu quella di fra Dionisio che andava ad Oppido, ed era sempre preoccupato del Visitatore; onde il Campanella gli avrebbe suggerito di «tornare a conciare le cose sue». Siamo in grado di poter dire che questa visita dovè accadere verso il 12 agosto, poichè fra Dionisio fu in Oppido la vigilia dell'Ascensione, vale a dire il 14 agosto, e vi rimase anche il 15; l'assicurò nel processo di eresia fra Pietro Ponzio, il quale fu egualmente in Oppido a quel tempo, dimorando presso l'altro fratello Ferrante, il Viceconte, che trovavasi allora colpito da scomunica, certamente per una delle solite baruffe giurisdizionali. Ben si scorge intanto che fra Dionisio non avea poi troppa fretta di «tornare a conciare le cose sue» come il Campanella disse di avergli suggerito, e piuttosto tornava ad andare qua e là, senza posa, con altri disegni. Siamo così ricondotti a parlare di lui e delle sue escursioni.

Movendo da Taverna, dopo le bastonate date in rissa e la nomina di fra Cornelio a Compagno del Visitatore, fra Dionisio era tornato a Nicastro, e quivi si era associato ad un Cesare Mileri di quella città, molto giovane, come lo dissero tutti coloro i quali ne parlarono, forse di 17 anni, sebbene un documento da noi rinvenuto nel Grande Archivio ce lo mostri di 27. Costui d'allora in poi seguì fra Dionisio in tutte le sue escursioni, onde vedremo che fu più tardi ritenuto complice, e resosi confesso fu atrocemente giustiziato. Anche egli avea bisogno di un indulto, non sappiamo per quale colpa, e fra Dionisio gli discorreva della tirannia del Re, degli enormi pesi fiscali, del non avergli il Re voluto mandare l'indulto, decidendolo così a volersi ribellare prendendo parte nella giornata che si farebbe; poichè nel 1600 il Regno dovea mutar padrone, e già con fra Tommaso e Maurizio aveano concertato la ribellione mercè l'aiuto del Turco e una massa di fuorusciti ed altra gente, e «il capo della congiura era D. Lelio Ursino, il quale si volea impatronire di tutto il Regno». Queste cose rivelò poi il Mileri, aggiungendovi le solite notizie dell'andata di Maurizio sulle galere di Amurat, della venuta del Turco promessa per settembre etc., le quali vennero forse da lui riferite per suggestione. Certo è che egli sollecitò pure per tale impresa un suo amico, Francesco Antonio delli Joy, e lo trovò già impegnato da fra Dionisio: ma sebbene avesse accompagnato fra Dionisio da per tutto, dapprima a Catanzaro, di poi a Stilo (come assicurò anche fra Pietro di Stilo), quindi certamente ad Oppido, e poi di nuovo a Catanzaro, a Girifalco, a Nicastro (come assicurò egli medesimo), sebbene avesse visto diverse persone parlare segretamente con fra Dionisio in tutti questi paesi, egli non seppe dare alcun nome; tale circostanza, e così pure l'altra che D. Lelio Orsini dovesse impadronirsi del Regno, attestano che fra Dionisio non procedeva senza cautela, sempre per altro annunciando frottole che potessero valere a dar animo, nel qual campo questa volta si spinse davvero un po' troppo. Secondo il Campanella, precisamente allorchè seppe la condanna pronunziata contro di lui dal Visitatore, nella sua esasperazione egli non conobbe più limiti, ed ogni arma gli parve buona purchè si raccogliesse presto un gran numero di seguaci: ecco come trovasi esposto nella Dichiarazione questo momento della propaganda di fra Dionisio. «Havendosi visto condemnato in galera tre anni, privato dell'havito et di lettorato, secondo che havea comunicato con Mauritio cominciò in Catanzaro a predicare rebellione secondo la prophetia mia, et per haver molti della sua parte predicò ch'in quessa congiura ci era il Papa et Cardinal San Giorgi, il Vescovo di Melito et de Nic.° (intend. ed il Vescovo di Nicastro), et don lelio Ursino et li signori del tufo, et tutti quelli ch'esso s'imaginò essere amici miei et suoi, et io giuro in verità che mai non ho parlato di queste cose et me pensai che per mezzo nostro se havessero a muovere». Vedremo tra poco la parte da doversi attribuire al Campanella in tutto ciò: qui gioverà soltanto notare che molto tempo dopo, nella Narrazione, egli disse semplicemente che fra Dionisio «tornò a trattare d'uscir in campagna per vendicarsi del Polistena, che per mezzo del Nizza pur lo maltrattava, tanto più che ci erano altri monaci in campagna e lui sparlava delle mutationi e signali del Campanella abusando le parole per suo disegno»; questa differenza merita di essere notata, poichè importa molto conoscere da chi veramente e per quale motivo fosse nata la voce della partecipazione del Papa, del Card.l S. Giorgio, di varii Vescovi e nobili alla congiura, ciò che dal Campanella fu narrato diversamente in diverse circostanze. Pertanto con le frottole suddette, la maggior parte delle quali a dirittura di nuovo conio, fra Dionisio continuava la raccolta di aderenti, e nel tempo medesimo mostrava un vivo desiderio di assoluzione per l'affare di Taverna. Così dalle deposizioni del Barone di Cropani, raccolte nel processo di eresia, sappiamo che egli si portò a Catanzaro, in casa di un prete suo amico a nome D. Geronimo Garzia, e là si rivolse appunto al Barone di Cropani, il quale era Antonino Sersale, appartenente a famiglia che vantava nobiltà di data antichissima ma d'influenza personale piuttosto ristretta, già prima domiciliato in Nicastro, ove probabilmente avea conosciuto fra Dionisio, e passato da qualche tempo ad abitare in Catanzaro. Il Barone andò a parlare per lui al Provinciale de' Domenicani, che era allora P.e Vincenzo della Grotteria, ma costui si scusò dicendo di non potere far nulla, poichè trovavasi nella Provincia il Visitatore, e gli suggerì d'impegnare il Vescovo; si rivolse al Vescovo, che era Nicolò de Horatiis da Bologna, e costui scrisse al Visitatore, il quale si scusò dicendo che la parte era presente e volea giustizia; si rivolse infine all'Auditore Vincenzo de Lega e lo pregò che scrivesse lui al Visitatore, e il De Lega scrisse, ma pur sempre inutilmente. E mentre si facevano tutte queste pratiche, dalle deposizioni raccolte nel processo della congiura sappiamo che fra Dionisio più volte parlò segnatamente con Gio. Tommaso di Franza, e poi anche con costui e Gio. Paolo di Cordova, inoltre con Giuseppe di Cumesi, Francesco Striveri, Tommaso Striveri, Nardo Rampano, Mario Fiaccavento, Gio. Battista Sanseverino, dippiù con Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia; non occorre ricordare che il Franza ed il Cordova erano appunto i due chiamati al convegno di Davoli; quanto al Lauro ed al Biblia, meritano essi pure una menzione speciale, per la tristissima parte che rappresentarono in sèguito. Fabio di Lauro era giovane a 20 anni, originario di Amantea e già frate Cappuccino, Gio. Battista Biblia era mercante, secondo il Campanella di origine Ebrea, ma nato e domiciliato in Catanzaro, dove la sua parentela era molto estesa, e suo fratello Marcantonio teneva l'ufficio di Credenziero della gabella della seta. Fabio e Gio. Battista se ne stavano ricoverati per debiti nel convento de' frati Zoccolanti o dell'Osservanza. Secondo alcune testimonianze che si leggono ne' brani del processo della congiura finoggi conosciuti, fra Dionisio non solo parlò più volte con costoro, ma scrisse anche una lettera segnatamente al Biblia. Secondo il Campanella (nell'Informazione), costoro medesimi diedero a fra Dionisio una lista d'individui i quali volevano uscire in campagna, e lo fecero parlare ora con l'uno ora con l'altro, per poi farli comparire come testimoni; la qual cosa si può bene ammettere, non escludendo che fra Dionisio avea modo di conoscere anche altri senza l'aiuto di Lauro e Biblia, e rimanendo sempre vero che con tutti costoro egli parlò della ribellione; ma avendone questa volta parlato in un senso diverso dal solito, importa vederlo più posatamente.

Non pare dubbio essersi questa volta fra Dionisio spinto fino a dire che il Papa, dolente di tanta miseria e tirannia, volea liberare il popolo rivendicando il Regno alla Chiesa cui apparteneva, ma contentandosi che si costituisse in repubblica col riconoscimento dell'alta Signoria ecclesiastica e pagamento di un mediocre tributo; che per divine rivelazioni ed ispirazioni sapevasi di certo dover questo accadere coll'aiuto di Dio; che erano già pronte a moversi moltissime città e terre, d'accordo anche col Turco, il quale avea promesso di venire in settembre per impedire qualunque soccorso alle forze Regie dalla via del mare; che molti predicatori, a capo de' quali il Campanella, avrebbero fatta conoscere la verità, essendo stata già da loro preparata e disposta ogni cosa per l'insurrezione; che vi era l'intesa di diversi Vescovi ed anche di parecchi Nobili desiderosi di uscire dalla servitù della Corona di Spagna; che era importante ed utile il prender parte all'impresa, e bisognava far entrare incogniti e di notte in Catanzaro tre a quattrocento uomini armati, i quali sarebbero rimasti sotto gli ordini di alcuni Catanzaresi e in un momento designato avrebbero servito per la rivolta. E nominava città e terre impegnate nell'impresa, nominava individui aderenti fuorusciti e non fuorusciti, nominava perfino i Vescovi ed i Nobili che vi avrebbero partecipato. Così de' Vescovi fu nominato in primo luogo quello di Mileto, Marcantonio del Tufo, che sapevasi tanto battagliero nelle cose giurisdizionali, oltrechè in ottime relazioni col Campanella ed accanito fautore de' fuorusciti; dippiù il Vescovo di Nicastro, Pier Francesco Montorio, che dopo quella lotta giurisdizionale così ardente, e dopo l'accomodamento fatto col Governo fin dal marzo, trattenevasi pur sempre in Roma senza sapersene il motivo, e dicevasi dover venire incognito in Calabria al momento opportuno; furono infine nominati ancora i Vescovi di Oppido e di Gerace e parimente quello di Catanzaro, il quale ultimo, per essersi impegnato presso il Visitatore in favore di fra Dionisio, si poteva far credere impegnato nell'impresa che costui promoveva, se non che, mentre era compreso tra' congiurati, per taluno di costoro era compreso al tempo medesimo tra le autorità da doversi uccidere in Catanzaro al primo momento della rivolta. Ma bisognerebbe essere di una ingenuità colossale, per voler trovare tutte coerenti e sensate le voci che si fanno circolare quando si prepara un'insurrezione. De' Nobili poi fu nominato un numero ancora più grande. In primo luogo, naturalmente, D. Lelio Orsini, il quale per verità era stato nominato da un pezzo, come colui che avendo in passato grandemente favorito il Campanella ne' travagli sofferti, essendo pur sempre in corrispondenza epistolare con lui, e dovendo venire a governare lo Stato di Bisignano, sarebbesi trovato non lontano dal campo della rivolta e in condizioni da poterla favorire ottimamente: si è visto che il Campanella medesimo avea già fatta balenare questa speranza a Maurizio, forse ne parlò pure a fra Gio. Battista di Pizzoni il quale non mancò di affermarlo nella prima deposizione sua, e stando così le cose, probabilmente egli dovè parlarne anche a fra Dionisio. Furono nominati ancora Mario del Tufo e Geronimo del Tufo figlio di Fabrizio, amici notissimi del Campanella e parenti del Vescovo di Mileto: in ispecie si diede una grande importanza a Geronimo che risedeva nel castello di Squillace, come ci mostra uno de' documenti rinvenuti in Simancas, e dicevasi che avrebbe dato quel castello a' rivoltosi, come di poi rivelò Gio. Paolo di Cordova. Non ci è riuscito finora di trovare a qual titolo egli risedesse nel castello di Squillace; abbiamo tuttavia trovato un documento che mostra essergli da non molto tempo morto il padre Governatore appunto della provincia di Calabria ultra, sicchè Geronimo anche per questo solo fatto avea potuto conoscere ben da vicino gli uomini e le cose di quella regione; ed abbiamo pure trovati due documenti di più anni dopo, che ce lo mostrano Capitano di Tropea, sicchè può presumersi aver tenuto egualmente nel 1599 l'ufficio di Capitano in Squillace, ufficio ripigliato più tardi in Tropea quando per la persona sua rimasero cancellati i ricordi della tentata ribellione. Fu nominato inoltre il Duca di Vietri Fabrizio di Sangro, che abbiamo visto congiunto per doppia parentela a' Signori Del Tufo, conosciuto certamente dal Campanella, carcerato già dal Conte Olivares ed in isperanza d'imminente liberazione per parte del successore Conte di Lemos giunto in Napoli fin dal 16 luglio; dippiù il Marchese di S.to Lucido Francesco Carafa, che abbiamo visto fuoruscito in campagna ricercato dalla giustizia, e che perdurava tuttora in questa condizione; infine il Principe di Bisignano Nicola Bernardino Sanseverino, che abbiamo visto lungamente carcerato non che privato dell'amministrazione de' suoi beni, e che allora sapevasi fuggito da Napoli, ma disposto a tornare e desideroso di andarsene agli Stati suoi in Calabria. Sommando tutto, si dicevano partecipanti e fautori della congiura, oltre il Papa e in suo nome il Card.l S. Giorgio, cinque Vescovi e sei Nobili di famiglie primarie napoletane, senza contare i Nobili di provincia, de' quali, al tempo cui siamo pervenuti, si conosceva solamente il Barone di Cropani, come risulta dalla confessione di Maurizio, mentre poi ne' processi se ne vide un certo numero tra gl'inquisiti, a ragione od a torto. Questo fatto, ritenuto da alcuni un grave argomento che la congiura fosse stata ben grossa, tanto che il Campanella dovè avervi solamente una piccola parte, ritenuto invece da altri un grave argomento che la congiura non avesse mai esistito, sicchè tutto dovè essere un'invenzione degli ufficiali Regii, può oramai ridursi al suo giusto valore e merita bene di essere ponderato.

Certamente dall'esposizione minuta ed ordinata de' fatti si rileva che il nome del Papa, sotto i cui auspicii avrebbe dovuto sorgere la repubblica, e così pure i nomi de' Vescovi, furono messi innanzi addirittura tardi, all'ultima ora, mentre per varii mesi non se n'era parlato in tal guisa, ed anzi se n'era parlato in dispregio. Si era detto che il Campanella avrebbe fatto nuove leggi e tolti gli abusi nella Chiesa di Dio, gli abusi introdotti appunto dal Papa, da' Cardinali e da' Vescovi, e si erano enunciati principii niente ortodossi e del tutto ereticali che avrebbero dovuto imperare nella repubblica. Non deposero mai altrimenti coloro i quali figurarono sin da principio ne' convegni col Campanella anche essendo stati a contatto di fra Dionisio prima dell'andata sua a Catanzaro (p. es. il Caccìa, il Pisano, Maurizio); nemmeno parlarono mai del Papa quale ispiratore del movimento Gio. Tommaso di Franza, Gio. Paolo di Cordova e lo stesso Cesare Mileri; appena il Franza dichiarò vagamente che si diceva trattarsi «di un negotio di gran qualità e servitio di Dio», la qual cosa neanche implicava propriamente gli auspicii del Papa. Invece quelli di Catanzaro dell'ultima ora, sollecitati esclusivamente da fra Dionisio, massime Biblia e Lauro, parlarono tanto del Papa e de' Vescovi, da far credere che la mutazione di Stato fosse voluta e promossa appunto dal Papa in servigio di Dio e della Santa Chiesa. Sembrerebbe questo un artificio ideato da costoro al momento in cui si rendevano denuncianti, per accrescere l'importanza del fatto che svelavano al Governo Vicereale; ma abbiamo la Dichiarazione del Campanella scritta in un momento in cui i garbugli non si erano ancora tanto moltiplicati, ed essa attesta egualmente la partecipazione del Papa e de' Vescovi essere stata divulgata da fra Dionisio, sicchè intorno al fatto non può elevarsi alcun dubbio; né deve sfuggire che ne risultano smentite le affermazioni tardive del Campanella, espresse nelle lettere del 1606-07 al Card.l S. Giorgio, al Papa etc. che cioè la partecipazione della Curia Romana, come la partecipazione de' turchi, al pari delle eresie, furono invenzioni sue e de' frati inquisiti per salvarsi. Relativamente alla partecipazione di que' parecchi Nobili, per certo anche da questo lato fra Dionisio si fece a parlare con la più grande disinvoltura, dando per fatto sicuro il loro aiuto morale e materiale; ma il Campanella medesimo avea dovuto dirne qualche cosa, e per lo meno avea dovuto comunicare i discorsi fatti col maggior numero di loro intorno alle prossime mutazioni, forse cercando d'illudere, forse illudendosi egli pure sulla parte che avrebbero presa allorchè il movimento si fosse mostrato serio e vigoroso. Ad ogni modo è pure degno di nota che da principio si parlò solamente di D. Lelio Orsini, e più tardi, assolutamente all'ultima ora, in Catanzaro e da fra Dionisio, si parlò di tutti gli altri. - In fondo poi questa miscela di elementi affatto eterogenei, resi anche più eterogenei dalla partecipazione del Turco, quest'accordo del Papa e del Turco che allora erano nemici davvero, e si facevano la guerra sul mare preparandosi a farsela di nuovo anche in Ungheria, quest'accordo de' Vescovi e de' Nobili che usurpavano a vicenda le rispettive giurisdizioni, e si trovavano in lotte continue, questa tolleranza del Papa, de' Vescovi e de' Nobili non solo pel Turco, ma anche per una repubblica nella quale dovea viversi con comunanza de' beni e perfino delle donne, tutte queste baie avrebbero fatto sorridere ognuno se le menti non fossero state eccitate al maggior segno; ma si sa che quando si aspettano mutazioni, le dicerie più strane possono correre e trovar credito senza ombra di difficoltà. Vedremo che il Vicerè, non appena seppe queste cose, le disse «una grande stravaganza, un'invenzione de' frati», e non si ingannò; tuttavia, abbondando sempre in tenerezza verso la Curia Romana, non lasciò mai di tenere gli occhi bene aperti sulle possibili mire ambiziose di essa. In quanto a' Vescovi, potevano dar da pensare specialmente quello di Mileto, che avea tollerato ed anche protetto un principio di ribellione in Seminara con le grida di Viva il Papa, più ancora quello di Nicastro, che malgrado gli accordi fatti non si era mosso da Roma forse per qualche disegno occulto, e del resto, dipendendo tutti dal Papa, bastava aver ritenuto la partecipazione del Papa per ritenere la partecipazione di tutti loro; difatti veramente il Vescovo di Nicastro teneva allora mano ad un intrigo nel Regno e giunse fino a provvedere armi per esso, ma l'intrigo si riferiva all'isola di Tremiti, non alla Calabria. Quanto a' Nobili, una nozione più esatta della condizione di ciascuno de' nominati bastava a fare eliminare per quasi tutti la possibilità della loro partecipazione alla congiura. Difatti D. Lelio Orsini, benchè avesse con la sua andata a Madrid ottenuta una risoluzione favorevole intorno all'ufficio di curatore ed amministratore de' beni di Bisignano assegnatogli dal R.° Consiglio, aspettava ancora il placet Regio, e l'aspettò poi un bel pezzo, come si rileva da una sua lettera che abbiamo rinvenuta nell'Archivio Mediceo: curatore di Bisignano, dopo la carcerazione del Duca di Vietri, era stato nominato Gio. Serio di Somma, il quale già trovavasi in Calabria anche con commissione contro i fuorusciti. Il Principe di Bisignano poteva ritornare in Napoli sicuro di non esservi ulteriormente carcerato, poichè sin dal gennaio 1599 S. M.ta aveva dato quest'ordine, ma tutte le sue pratiche dopo la fuga da Napoli mostravano in lui ben altra intenzione che quella di ribellarsi; difatti, dietro accordi col Duca di Sessa Ambasciatore spagnuolo a Roma, il 13 agosto 1599 tornò nel Regno, ed in ottima intelligenza col Vicerè andò ad abitare il suo palazzo a Chiaia. Il Duca di Vietri non poteva esser liberato prima che fosse compiuta la sua causa, la quale era appena cominciata; inutilmente, ad occasione dell'entrata in Napoli del Vicerè Conte di Lemos, innanzi al suo palazzo al largo di S. Domenico per tre giorni si era fatta gran festa con una spettacolosa illuminazione, e due fontane di vino aveano per tre ore ogni giorno rallegrato il popolino a sue spese; la durata della causa si protrasse sino al febbraio del 1600, e non prima di tale data potè uscire di carcere. Mario del Tufo per lo meno non era così potente da recare aiuti considerevoli in una faccenda come quella di ribellarsi al Re di Spagna; invece Geronimo del Tufo, per la sua speciale posizione, poteva recare un aiuto da non doversi disprezzare, e vedremo infatti che non appena fu conosciuta dal Governo la voce della partecipazione di lui alla congiura, fu subito carcerato. Infine anche il Marchese di S.to Lucido, egualmente per la sua speciale condizione, confortata da notevole ricchezza ed influenza, avrebbe potuto recare un aiuto da doversi tanto meno disprezzare; ma appunto con costui il Campanella non aveva mai avuta alcuna relazione, e come ci hanno mostrato le nostre ricerche egli trovavasi allora rifugiato a Roma ed attendeva solo a grandeggiare, sicchè la voce della sua partecipazione alla congiura non avea davvero ombra di fondamento. Non di meno, col mettere innanzi i nomi di quegli alti personaggi, fra Dionisio potè dare un prestigio grandissimo alla congiura, e col mettere innanzi i nomi de' Vescovi, del Card.l S. Giorgio e del Papa, potè ad un tempo farle acquistare sempre maggiore prestigio ed anche attenuare l'impressione destata dall'aiuto del Turco e dalla professione di principii eterodossi, notizia che si era abbastanza diffusa e che non avea potuto riuscire gradita a moltissimi fra coloro i quali avrebbero forse preso parte alla ribellione: d'altronde l'ora della venuta del Turco si avvicinava né c'era più tempo da perdere, e questa circostanza, ancor più dell'altra della sua esasperazione per la condanna avuta dal Visitatore, ci apparisce un motivo plausibile dell'essere ricorso a mezzi di eccitamento d'ogni genere, anche a mezzi del tutto diversi da quelli che avea fin allora prescelti. Ed essi fruttarono molto bene, giacchè fu raggranellato in Catanzaro un numero di congiurati non indifferente, massime se si considera il breve tempo impiegatovi, come ne' processi avremo occasione di vedere. In conclusione dunque l'aver fatto figurare nella congiura alti personaggi fu un tardo e industrioso ripiego di fra Dionisio: vedremo poi che nella sua confessione in tormentis il Campanella rivelò di aver detto, che dovendovi essere unum ovile et unus pastor, egli ed altri avrebbero «predicato in favore di questa repubblica profetizata in favore del Papa, et che il Papa li avrebbe esaltati perché si voleano pigliare alcuna parte della Provintia»; ma evidentemente fu questo anche da parte sua un tardo ed industrioso ripiego, che pur troppo riuscì ad aggravare la posizione sua, mentre né il Papa poteva proteggerlo come egli sperava, né il Governo poteva udire il nome del Papa senza un aggravamento de' suoi sospetti. Ma se non si ebbe una congiura tanto grossa, se n'ebbe tuttavia una abbastanza seria; né deve sfuggire, che pur quando si fecero figurare gli alti personaggi, il Campanella non fu lasciato nell'ombra, ma invece fu sempre tenuto nel posto principale. Vedremo che coloro i quali rivelarono la congiura al Governo, non posero a capo di essa altri che lui, con la grande scienza, con l'assistenza del diavolo, con l'intesa de' Nobili, de' Vescovi, del Papa e del Turco, con le armi del gran numero de' congiurati specialmente fuorusciti, e con la lingua de' molti predicatori di varii ordini monastici; né soltanto per queste rivelazioni, ma in verità per tutto ciò che sappiamo del modo in cui la congiura si svolse, è chiarissimo che il Campanella non vi prese una parte indiretta con le sue profezie, bensì una parte direttissima con pratiche e maneggi d'ogni sorta.

Ci rimane ora a narrare cosa abbia fatto e detto il Campanella in quest'ultimo periodo, durante l'agosto 1599, mentre fra Dionisio compiva il suo lavoro in Catanzaro, riassumere i concetti che lasciò intendere circa la futura repubblica ed i principii che avrebbero dovuto imperarvi, vedere fino a qual punto poteva sperare in un felice successo dell'insurrezione.

Egli non si mosse mai più da Stilo, avendo a fianco fra Domenico Petrolo come compagno abituale, e fra Pietro di Stilo come Superiore del convento. Non pare dubbio che in questo tempo abbia mantenute corrispondenze epistolari anche in cifra: vedremo che il Petrolo, al quale, malgrado i suoi terrori e tentennamenti, non si può negar fede, disse e sostenne sempre di aver avuto sott'occhi, segnatamente nel tempo della fuga, lettere in cifra venute al Campanella, che il Campanella medesimo gli affermò essere di fra Gio. Battista di Pizzoni; ed aggiungiamo che pure i delatori della congiura dissero aver viste cifre e segni nelle mani di fra Dionisio, la qual cosa verrebbe indirettamente confermata da quanto rivelava il Petrolo. né sappiamo di altre relazioni personali di una certa intimità, acquistate dal Campanella in tale periodo, oltre quelle già conosciute. Nelle passeggiate l'accompagnava quasi sempre il Petrolo, il quale ebbe poi a ricordare specialmente una contrada presso il convento denominata Lanzari, dove il Campanella, che la ricorda pure nella sua Dichiarazione, passeggiando gli avrebbe tenuto qualche discorso confidenziale segnatamente intorno a principii religiosi. Nella cella, come ebbe a dire lo stesso Petrolo e in parte pure qualche altro, continuarono i colloquii massimamente col Prestinace ed anche col Vua, inoltre co' due Marullo, con Giulio Contestabile e il Di Francesco, Paolo e Fabrizio Campanella, Giulio Presterà, Francesco Vono e fra Scipione Politi. Una volta con taluni di costoro si fece una scampagnata sul monte Consilino, il monte di Stilo lodato dal Campanella anche nelle sue Poesie, e non vi mancò il discorso della montagna, come quello del Redentore: ma di esso conosciamo appena qualche frase, la quale del rimanente basta a mostrare che vi si svolsero le più rosee speranze in un lieto avvenire; il monte fu chiamato «monte pingue e di libertà». E senza dubbio a misura che le speranze crescevano, vedendo le cose della congiura avviate tanto bene, con gl'individui sopra nominati, e con altri anche, il Campanella fu all'ultim'ora un po' meno guardingo, e di tratto in tratto enunciò alcuni principii politici e religiosi, che ci fanno capire con bastante larghezza quali idee fervessero nella sua mente: gli stessi aderenti suoi furono allora più espansivi co' loro parenti ed amici, onde accadde che solo durante la persecuzione venissero a galla molte notizie del detto genere, le quali sembrarono di nuovo conio e potrebbero tuttora credersi foggiate da' persecutori; ma vedremo che non manca il modo di convincerci che tale opinione sarebbe insostenibile, e che solamente può ammettersi la diffusione di una parte di dette notizie per non avere gl'inquisitori serbato il silenzio voluto dalle leggi. Vi furono per altro sempre cenni staccati, ed anche semplici «motti» come li disse il Petrolo, giacchè que' principii, in ispecie i religiosi, non riuscivano nemmeno graditi a tutti gli aderenti: abbiamo infatti veduto che quando il Campanella diede qualche barlume di riforma religiosa a Maurizio, costui dichiarò che non vi avrebbe mai consentito; qui dobbiamo aggiungere che p. es. Paolo Campanella, avendo una volta udite certe proposizioni intorno alla Trinità ed all'Eucaristia, dichiarò al fratello Fabrizio che avrebbe pagato 50 ducati per non udire quelle proposizioni; da ciò si vede che gli uditori doverono di tempo in tempo rimanere scandalizzati, ma sino a che durò il fascino della parola del Campanella, nessuno ebbe ardire di fargli opposizione. Del resto, se con gli amici e parenti spesso citati fu più o meno esplicito secondo il rispettivo grado di familiarità, con tutti gli altri fece appena intendere qualche cosa a sbalzi, bensì sempre in modo da destare un notevole entusiasmo, segnatamente dal lato politico, acquistandosi il titolo di Messia, non che di futuro Monarca del mondo.

Invano dunque si cercherebbe un quadro autentico, pieno ed intero, delle istituzioni politiche e religiose che il Campanella si proponeva di attuare con la futura repubblica; ma adunando le notizie sparse, ed ordinandole, si potrà avere un quadro notevolissimo. Basterà dare dapprima uno sguardo a ciò che fecero conoscere fra Pietro di Stilo e il Petrolo, i quali si trovarono più strettamente uniti al Campanella appunto all'ultima ora, e poi, per le convenienze della causa, a suggestione del medesimo Campanella, non tacquero le eresie da lui enunciate; quindi nel modo più sommario possibile, a fine di non incorrere in eccessive ripetizioni, dare un cenno di ciò che vedremo raccolto dal Vescovo di Squillace in un singolare processo, nel quale tra moltissimi interrogati figurarono anche i parenti liberi di Giulio e Marcantonio Contestabile, buona parte dei Carnevali, alcuni parenti del Prestinace, di fra Pietro di Stilo ec., Giulio Presterà e Francesco Vono con altri amici, conoscenti, estranei, dietro una citazione larghissima; aggiungendovi anche le notizie più degne di fede raccolte ne' processi principali, alcune delle quali abbiamo già avuta occasione di narrare, e mettendo un po' d'ordine in tutta questa farragine di cose, si avrà ciò che si cerca, non senza un certo riscontro molto notevole, onde ne rimane accresciuto il grado di credibilità. Naturalmente questa lunga serie di detti e fatti del Campanella non appartiene tutta all'ultimo periodo della congiura, ma, come abbiamo notato, vi appartiene per la più gran parte, essendosi il Campanella reso mano mano più esplicito; se non che oramai, al punto cui siamo pervenuti, una precisione cronologica, mentre riesce impossibile, riesce anche superflua, e senza mettere interamente da banda la cronologia, conviene sforzarsi di avere innanzi agli occhi tutto il complesso delle idee manifestate dal Campanella, onde farsene un concetto ben chiaro e meno fallace.

Guardiamo dapprima separatamente ciò che si seppe dalle rivelazioni di fra Pietro di Stilo e fra Domenico Petrolo. Secondo fra Pietro di Stilo, come abbiamo avuta occasione di dire anche altre volte, in presenza di lui e poi in presenza pure del Prestinace, il Campanella manifestò che era in aspettativa di divenire Monarca del mondo, avendoglielo presagito anche un astrologo nelle carceri del S.to Officio. Inoltre diceva che il Papa e il Re si accordavano a' latrocinii, che l'elezione del Papa non potea ritenersi canonica essendo le voci corrotte e riducendosi più voci ad una sola pel piatto che il Re donava a' Cardinali, che i Cardinali erano tiranni e propensi alla lussuria della peggiore specie; dippiù si burlava de' peccati della carne, de' quali «parlava assai largo» non ammettendo neanche gran differenza tra essi, e dicendo del peccato contro natura che era «un dito più sopra o un dito più giù nell'inferno» (evidentemente uno de' motteggi del Campanella). Si burlava del pari de' miracoli dicendo che erano «un'elavatione di mente..., un'applicatione de intentione di quello alla cui persona si faceva il miracolo», e che a questo modo ognuno potea farne ed egli ancora ne avrebbe fatti in prova della sua scienza e delle sue opere; infine avea detto al Petrolo essere il sacrificio dell'altare preferibile a quello della legge antica, tuttavia non esser vero, non contenendosi nell'ostia il corpo di Cristo. Secondo il Petrolo, era intenzione del Campanella mutare la provincia in repubblica, servendosi di due mezzi, della lingua, e delle armi specialmente de' banditi e del Turco, al quale avea mandato Maurizio de Rinaldis; e per predicare la libertá facea gran capitale del Pizzoni, di fra Dionisio, di fra Pietro e di lui ancora (confessione a proprio danno che rende il Petrolo degno di fede, benchè nelle cose di eresia, per insinuazione dello stesso Campanella, avesse detto troppo e lasciato che gl'Inquisitori caricassero le tinte). Dopo di avere discorso in pubblico delle profezie, il Campanella privatamente gli diceva che quelle profezie parlavano di lui, e che voleva predicare la libertá e contro gli abusi della Chiesa; e che tutte le genti hanno avuto i loro sacrifizii e il nostro era migliore di quello degli Ebrei, ma pure avea certe superstizioni e precisamente quella che nell'ostia ci fosse Iddio; che non c'erano miracoli, e ciò che dicevasi delle resurrezioni dovea attribuirsi ad «asmi et occupationi di core», compresa la resurrezione di Lazzaro, la quale era stata una finzione di Marta e Maddalena amiche di Cristo, avendo esse anche preparate industriosamente le cose in modo da far sentire il fetore del quatriduano; che la fornicazione non era quel peccato che si diceva, potendosi ogni membro adoperare all'uso cui era destinato; che non c'erano diavoli né inferno né paradiso, e se ne burlava, dicendo, allorchè si parlava de' diavoli e dell'inferno, «si pigliano là alla caldara della pece», ed allorchè si parlava della gloria del cielo, «oh questo mondo è buono e bello»; infine diceva che Iddio era la natura, ed all'ultima ora, parlandosi de' fichi pe' quali potè peccare Adamo, disse che quelle erano baie.

Veniamo alle notizie più cospicue e più credibili, che si ebbero dalle più diverse provenienze ne' processi principali, oltrechè nel processo detto di Squillace. Ricordiamo che Maurizio seppe doversi fondare una repubblica nella quale si vivrebbe in comune, si farebbe la generazione da' soli valorosi, si brucerebbero i libri latini di fede, si toglierebbero gli abusi della religione, e il Caccìa seppe che si farebbe una legge migliore di quella de' Cristiani e si muterebbero anche le vesti; aggiungiamo che Felice Gagliardo seppe da Cesare Pisano (quindi per provenienza di fra Dionisio), che si sarebbe usata una tabanella bianca, da scendere fino alle ginocchia con maniche lunghe, e un berretto ligato a modo di turbante, si sarebbero bruciati i libri (sic), composto un nuovo statuto, liberate le monache e fatto il crescite. Queste notizie del fare il crescite e dell'indossare nuova foggia di abiti vennero confermate anche da diversi in Squillace, segnatamente da Fabrizio Carnevale e da Gio. Jacovo Prestinace, ma secondo una voce pubblica: e fu confermato egualmente da diversi che il monte di Stilo dovesse dirsi monte pingue e di libertà. Parecchi ne' processi principali affermarono che il Campanella avesse detto non esistere Dio, Dio essere la natura etc., la Trinità essere una chimera, viversi nel mondo a caso, non essere l'anima immortale, non esistere né paradiso, né purgatorio, né inferno, né demonii; ma nel processo di Squillace nulla venne in luce intorno al negar Dio, bensì tutto il resto fu confermato; e non sembra dubbio che le proposizioni del Campanella alludessero ad un concetto di Dio, della Trinità, de' luoghi di premio e di pena, degli angeli buoni e tristi, diverso da quello ricevuto, senza aver mai negato tutto ciò, massime poi senza aver mai negato Dio creatore e l'immortalità dell'anima, e che le proposizioni anzidette sieno state diffuse da fra Dionisio per progetto e quindi attribuite al Campanella, ovvero anche ripetute dal volgo, nel quale già circolavano insieme con diverse altre ed attribuite sempre al Campanella. Solamente intorno a Gesù, a' suoi miracoli, all'ecclissi avvenuta nel tempo della sua morte, alla resurrezione, le notizie raccolte in tutti i processi si accordarono a confermare che egli non credesse alla divinità di Gesù (secondochè avea già fatto per la prima volta tralucere a Maurizio), e quindi non credesse nemmeno a tutto il resto compresa la verginità di Maria. Così avrebbe detto che Gesù era stato capo di setta, brav'uomo al pari di Mosè e di Maometto; che la resurrezione di Lazzaro era stata concertata da Marta e Maddalena e da Lazzaro medesimo, persone amiche di Gesù; che tutti gli altri miracoli erano stati narrati dagli Apostoli, i quali aveano scritta la Bibbia per introdurre la fede e poi ogni nazione l'aveva alterata per conto suo, e pure il miracolo di Mosè nel mar rosso era dovuto al flusso e riflusso del mare e che ognuno poteva far miracoli ed egli pure ne avrebbe fatti; che l'ecclissi nel tempo della morte di Gesù era stata accidentale e particolare, non miracolosa ed universale; che nella faccenda della resurrezione o poteva essere stato messo in croce un altro invece sua, o poteva essere stato il corpo suo sottratto e nascosto secondo il costume di varii legislatori. Del pari intorno a' Sacramenti, le notizie raccolte in tutti i processi confermarono essere da lui ritenuti istituzioni umane; segnatamente l'Eucaristia essere non altro che una commemorazione di Gesù, ed il Battesimo non essere indispensabile alla salvazione. È superfluo dire come considerasse gli atti degli Apostoli, tutto l'organismo della Chiesa e i precetti di essa, l'autorità del Papa, i Cardinali, i Prelati, la scomunica, il precetto del non mangiare carne in determinati giorni. Nel processo di Squillace vennero in luce diversi aneddoti su questi particolari, e li vedremo a suo tempo; così pure diverse cose che aveano recato scandalo, come il disgusto per le tante fraterie, la tolleranza e talvolta l'ammirazione per qualche cerimonia turca, la stima delle dottrine dei filosofi gentili alla pari di quelle de' Santi Padri, il poco rispetto per le dottrine di S. Tommaso e il nessun credito all'esserne stati gli scritti lodati da Gesù Cristo, l'avversione alle preghiere con molti paternostri, l'intolleranza per l'adorazione della croce «che era un pezzo di legno» e così pure per l'adorazione delle immagini de' Santi. Sotto quest'ultimo rispetto è assai notevole un fatto, che mostra fino a qual punto il Campanella fosse divenuto temerario: la Chiesa del convento accoglieva una Congregazione, la quale intitolavasi del Rosario e adoperava un libro di preghiere con certe invocazioni a Maria, a S. Domenico e ad altri Santi; il Campanella non voleva che si dicessero, e di sua mano le cancellò dal libro. Quale era dunque la specie di riforma che egli si proponeva?

Manifestamente il Campanella si proponeva fondare uno Stato secondo le norme che poi descrisse nel suo libro della Città del Sole. Il Berti con altri lo ha intravveduto, e non pertanto ha negato l'esistenza della congiura: noi lo riteniamo dimostrato, dopochè ci è riuscito mettere in luce tante particolarità, segnatamente con la scoperta de' processi di eresia; e crediamo che ne rimanga sempre più raffermata l'esistenza di una congiura promossa e diretta essenzialmente dal Campanella, congiura necessaria per sottrarsi al dominio di Spagna, sia pure in date circostanze di tempo e di opportunità. Un confronto di ciò che sparsamente disse il Campanella, durante la congiura, con ciò che scrisse più tardi nella Città del Sole e nelle Quistioni sull'ottima repubblica, toglie ogni dubbio, rimanendo benissimo chiarita la natura e la direzione dell'impresa, l'impossibilità di una partecipazione qualunque del Papa, de' Vescovi e de' Nobili in generale, e perfino la verità e la giusta misura de' concetti del Campanella emersi da' processi fattigli; poichè ogni qual volta ci sarà il riscontro, chi vorrà più dubitarne? In tal guisa il così detto eterno ed insolubile problema della congiura può avere una facile soluzione, più che non sia forse accaduto mai nella storia delle congiure: può intendersi qualche concetto che a prima vista apparisce strano, p. es. il dover essere Monarca e il voler fondare la repubblica, l'ammettere la comunanza delle donne, il non ritenere peccato la fornicazione etc; ed appunto può determinarsi con esattezza il lato dei principii religiosi, su' quali non meno occorrono chiarimenti, avendo troppe circostanze influito ad ottenebrare la verità. Il confronto suddetto dà modo di vedere chi realmente esagerò, chi parlò di propria iniziativa, chi interpetrò male, e quindi comprendere la parte precisa che ognuno rappresentò, così nella congiura, come ne' processi consecutivi. Si rileverà senza dubbio che molte falsità furono deposte, ma che in ultima analisi venne a scovrirsi meno di quanto c'era realmente di sotto; ed apparirà chiaro che la Città del Sole, benchè detta poetica, costituì allora, come costituì di poi, il complesso delle idee riposte di fra Tommaso, sicchè c'è da riflettere moltissimo prima di considerare il Campanella, quale risulterebbe da parecchie altre opere sue, scritte in circostanze che meritano di essere grandemente valutate.

Trattavasi dunque di attuare in politica una repubblica comunista della forma più spinta, sino ad avere alcuni lati analoghi a quelli sostenuti da certi seguaci del moderno nihilismo, e di attuare in religione quel Cristianesimo razionale, che fino a' giorni nostri ha continuato sempre ad apparire unica soluzione accettabile, presso coloro i quali hanno voluto risolvere il problema della destinazione e della coscienza umana in conformità de' progressi del pensiero umano; ma tutto ciò con particolari vedute nell'ordine spirituale e nel temporale, analogamente alle idee del tempo e più ancora all'educazione del Campanella. Lo studio degl'insegnamenti de' grandi filosofi, le ricerche assidue intorno al Cristianesimo primitivo, le abitudini della vita monastica, gli avevano fatto concepire la libertà in un modo ben diverso da quello che oggi si professa, gli aveano fatto anche accogliere certe pratiche religiose come p. es. l'adorazione perpetua, ad imitazione delle quarantore dei Cattolici, la confessione auricolare, spinta fino al punto di rivelare al Capo dello Stato i falli uditi comunque senza far nomi. Al Capo dello Stato era assegnata una sovranità reale ed effettiva, un'autorità assoluta nel temporale e nello spirituale; a' cittadini rimaneva una libertà, che era un imbrigliamento di qualunque moto e di qualunque sospiro, dietro un'ingerenza governativa delle più meticolose; perfino lo stomaco e gli organi sessuali erano regolati dalla legge. Di eguaglianza, come oggi si vorrebbe, neppure un'ombra; invece dato un grandissimo peso alla cultura e alla dottrina. Il Capo dello Stato doveva aver fatto studii colossali, pochi de' più savii partecipavano al potere, gl'incolti non doveano che servire. Specialmente per quella singolare maniera di libertà, se «la vita filosofica» ideata dal Campanella avesse potuto per un momento istituirsi, ognuno senza dubbio avrebbe finito per ribellarvisi, ed egli si sarebbe ben presto accorto che un consorzio civile non si rinnovella sopra principii astratti e senza sostrato nella realtà. Non c'è quindi a meravigliarsi che taluni, come p. es. il Giannone tra parecchi altri, abbiano profondamente sprezzato le vedute del Campanella; piuttosto c'è a meravigliarsi che taluni moderni, i quali s'intitolano democratici, abbiano menato vanto della repubblica Campanelliana iscrivendo il Campanella nel loro Olimpo.

Ebbe intanto con questo suo disegno di repubblica un pensiero altamente generoso per la provincia nativa ed anzi per l'intera umanità; e all'opposto di ciò che avviene agli attuali repubblicani, compromise onore e vita per esso, affrontando un mare immenso di guai con tale audacia, che a parecchi tra' più gravi scrittori il fatto è sembrato perfino impossibile, e questo, mentre il paese veramente gemeva sotto la più efferata tirannide, ma nessuno osava neanche immaginare una via qualunque di uscita. Ecco ciò che costituisce la sua vera gloria; e non risultano giustificate né le attenuazioni, né le meno benevole interpetrazioni, che riescono ad impicciolire la sua grande personalità civile, e a far disconoscere l'essenza vera della sua vita. È stato detto che la sua vanità l'avesse spinto in questa via: senza dubbio eravi in lui quell'orgoglio impaziente, naturale negli uomini i quali hanno saputo da loro soli divenire uomini di gran vaglia, ma non s'intende perché non abbia a dirsi essere stato spinto da una nobile ambizione, mentre d'altra parte bisogna anche riconoscergli la viva fede in eventi straordinarii e in una missione altissima alla quale credevasi destinato. Sorretto da una simile fede ed ambizione, egli seppe ispirare un vivo entusiasmo in uomini come Maurizio de Rinaldis, Marcantonio Contestabile, Prestinace, Vua, con una grossa mano di fuorusciti e di cittadini d'ogni classe, oltrechè in un certo numero di frati, i quali non rapresentarono punto la parte maggiore come erroneamente si è creduto: molti di costoro, e frati e laici, non ci risultano persone stimabili; ma né si può guardare tanto pel sottile ogni qual volta si tratti di persone impegnate per una ribellione a mano armata, né si può ritenere che gli elementi di stima fossero allora quelli medesimi di oggidì. Piuttosto bisogna dire, e non farà maraviglia, che i congiurati non abbiano avuta una mente adeguata alla grandezza dell'impresa, come il Campanella dichiarò con dolore più tardi, quando disse che «guastarono ogni suo pensier grande»: non di meno i principali fra loro appariscono sempre persone distinte e degne di considerazione. Non si potrebbe p. es. non vedere in Maurizio un tipo di uomo animato dal più puro sentimento di patriottismo e di libertà: egli nobile, egli ricco di largo censo e di amata famiglia, avea troppo da perdere nella futura repubblica comunista, e tuttavia non si curò di sapere qual parte avrebbe rappresentato in essa; compreso unicamente dal pensiero di sottrarre a Spagna e restituire a libertà la sua provincia nativa, si limitò a discutere e trovare i mezzi pel successo dell'insurrezione, accettando volenteroso la dittatura del Campanella sotto il fascino dell'energia intelligente di lui, soggiogato dalla potenza di quell'intelletto audacissimo, come ebbe poi a confessare nel modo più ingenuo. Lo stesso fra Dionisio Ponzio non si potrebbe non dire un tipo di cospiratore de' più distinti: è lecito credere che la sua vanità e il suo spirito vendicativo abbiano influito molto a farlo dedicare febbrilmente al trionfo della futura repubblica, nella quale d'altronde la sua cultura gli avrebbe fatto acquistare uno de' maggiori ufficii; ma non rifuggì dal prendere nella congiura il posto più pericoloso, agendo fin sotto gli occhi degli ufficiali Regii nella capitale della provincia, e seppe di poi, ne' giorni tristi, comportarsi indubitatamente meglio di tutti gli altri suoi compagni promotori della ribellione, meglio del Campanella medesimo, come vedremo a suo tempo. Nessuno vorrà credere che fra Dionisio si fosse spinto tanto innanzi, solamente per uscire in campagna ad oggetto di uccidere il Polistina, e che Maurizio avesse aderito a fra Dionisio, solamente per secondarne tale proponimento: per lo meno non era necessario mettere Catanzaro in moto e andare incontro a così enorme responsabilità per uno scopo così meschino, e se il Campanella, ne' giorni tristi, potè dir questa con tante altre cose, bisogna pure penetrarsi della sua posizione, che l'obbligava a parlare in tal guisa. Trattandosi di dover fondare una repubblica, ed essendo certo che il disegno di questa repubblica era calcata sulle norme che furono più tardi descritte nella Città del Sole, evidentemente l'unico autore e promotore della congiura dovè essere il Campanella. Ed al momento al quale siamo pervenuti egli poteva esser lieto dell'opera sua. Maurizio, in Davoli, aveva già assicurato che era in grado di riunire fra dieci giorni duecento fuorusciti, i quali sarebbero entrati di nascosto in Catanzaro per formare il nucleo dell'insurrezione, e parecchi erano anche i cittadini di Catanzaro già ben disposti non solo da fra Dionisio, ma principalmente da Gio. Tommaso di Franza e Gio. Paolo di Cordova, senza contare il Barone di Cropani; inoltre Marcantonio Contestabile avea già dovuto mettere in ordine la sua banda destinata ad assaltare il castello di Arena, e questa banda era molto notevole, come apparisce da' cenni che il Campanella ne fornì, ponendoli in bocca a Giulio Contestabile; infine, sotto l'influenza assidua del Campanella medesimo, un buon numero di affiliati trovavasi in Stilo e luoghi circonvicini per una larga zona. I turchi col Cicala doveano venire nella prima metà di settembre, e la grande aspettativa delle mutazioni che si era in tutti ingenerata, e il credito straordinario che il Campanella godeva, sia come scienziato, sia come astrologo, sia come possessore di spiriti, avrebbe anche fatto avere senza dubbio un contingente non lieve, più di quanto si suole ordinariamente sperare da' congiurati in altrettali occasioni. Non erano dunque poche le forze preparate, e bisogna riconoscere che parecchie ribellioni, in condizioni egualmente ponderose e gravi, furono iniziate con forze assai minori: si sarebbero poi dovuti saldare i conti con una potenza come la Spagna, ma appunto allora gli sconvolgimenti generali che si aspettavano avrebbero dato un soccorso incommensurabile. Così il Campanella poteva ritenere che non sarebbe rimasta senza effetto la sua «voglia ardente a far la gran semblea», poteva esser fiero di aver saputo «con senno e pazienza tante genti vincere»: tutti aveano fede viva in tempi migliori, e il banchetto sul monte di Stilo pose il suggello a questa fede in coloro che vi presero parte, riuscendo l'espressione della comune esultanza.

Ma si approssimavano invece anni di dolore con le più amare disillusioni. Mentre il Campanella trovavasi tuttora in S.ta Caterina e quindi il banchetto sul monte di Stilo non si era per anco tenuto, la congiura veniva denunziata al Governo: continuavano con fervore i preparativi da parte de' congiurati, e il Governo con altrettanto fervore faceva i suoi preparativi per averli tutti nelle mani.


CAP. III.

SCOPERTA DELLA CONGIURA E PROCESSI DI CALABRIA.

(dalla fine di agosto a tutto 10bre 1599).

I. Il 10 agosto 1599 Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia, che abbiamo veduto ricoverati per debiti nel convento de' frati Zoccolanti di Catanzaro e sollecitati da fra Dionisio a prender parte alla congiura, ne facevano una formale denunzia al Vicerè Conte di Lemos, innanzi all'Avvocato fiscale dell'Audienza di Calabria ultra D. Luise Xarava. Per incarico di costui, essi seguitavano a sorvegliare gli andamenti de' congiurati fingendosi sempre accesi per la rivolta, ed intanto ponevano in iscritto ciò che fino a quel momento aveano potuto raccogliere. Crediamo utile dare qui letteralmente tradotto l'importante documento da noi rinvenuto in Simancas, anche perché riscontrandone l'originale, vengano i lettori a familiarizzarsi co' documenti scritti nell'idioma spagnuolo.

«Relazione fedele e veridica a Sua Eccellenza circa la congiura e ribellione che finora è stata tentata ed al presente si tenta dagl'infrascritti, per quanto noi Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia abbiamo potuto tener notizia e procurato sapere con ogni diligenza, in servizio di Dio e del Re nostro signore. - Fra Tommaso Campanella di Stilo, dell'ordine di S. Domenico, persona che per tutto il mondo tiene il primato nelle scienze, che per maraviglia di esse è stato molti anni carcerato nell'Inquisizione, presupponendosi opera diabolica siccome al presente ci è stato veramente certificato, con intelligenza di D. Lelio Orsini e del Principe di Bisignano, del Duca di Vietri, del Vescovo di Nicastro e di molti altri Vescovi del Regno, di Signori titolati e Potentati, ed in particolare di Sua Santità e in nome suo del Card.l S. Giorgio, del Turco; e fra Dionisio e fra Pietro Ponzio di Nicastro, predicatori dell'ordine di S. Domenico, con copioso numero di altri predicatori frati di diverse Religioni e di persone principali di molte città e terre, con intelligenza di molte corporazioni dell'una e dell'altra provincia, hanno tentato e tentano quotidianamente di rivoltare ed ingannare i popoli contro il Re nostro signore, pubblicandolo tiranno del mondo, e con parole efficaci dànno ad intendere l'incomportabile malvagità de' suoi Ministri, i quali vendono come all'asta pubblica il sangue umano e la giustizia e tutto, usurpando con tirannia il sudore de' poveri con tanti tributi e pagamenti e assassinii che si veggono nel Regno di Napoli, Regno della Santa Chiesa occupato tirannicamente, dicendo che tutti i Re di Spagna sono dannati per avere usurpato gli Stati della Chiesa, sangue di Gesù Cristo, e che già è venuto il tempo che nostro signore Iddio, mosso a pietà, si compiace di togliere la sozzura (?) di tanta tirannia e servitù, e ciò per opera del suo Vicario, il quale, condolendosi della calamità de' popoli, ha risoluto porli nella pristina libertà di repubblica, come era per l'innanzi, pur che vogliano riconoscere per signora la Santa Chiesa, con darle soltanto il libero consenso e un mediocre tributo, dicendo che non bisognava spargere il sangue de' loro figli, padri e madri, in rovina de' proprii averi, mentre sperano che aggiusterà loro ogni cosa solamente col persuadere la verità e fare che ognuno si riconosca a sè medesimo e al servizio di Dio nostro signore, il cui aiuto dicono di tenere in ciò per divine rivelazioni ed ispirazioni, stimolando la gente con promesse di lauti guiderdoni e con la facilità del negozio, mentre tutte le città e terre delle dette provincie sono divise e nella maggior parte disposte a versare il sangue pel servizio di Dio e della Santa Chiesa e per la propria libertà, aggiungendo il poco governo e poco talento de' governanti che al presente si trovano nelle dette provincie, e questo dicono essere permesso divino, che sembra gli abbia accecati, dando agli animi di tutti fama immortale pe' secoli avvenire, come pure mettendo innanzi il gran profitto da trarsene. - Nella detta congiura sta Maurizio de Rinaldis di Guardavalle, persona nobile e di grande intelligenza, e fuoruscito con comitiva di più di 2,000 persone di Stilo, casali e dintorni, il quale ha sobillato col detto Campanella e tuttora va sobillando, e particolarmente in Catanzaro Matteo Famareda, Orazio Rania ed altri suoi concertano intimamente con lui. E perché nella detta congiura, la quale si tratta già da un anno, vi è pure l'intervento del Turco, che ha commesso ogni cosa al Cicala acciò esegua quanto i congiurati gli saranno per chiedere, nel mese scorso il detto Maurizio, inviato da' congiurati con una loro credenziale, s'imbarcò insieme con alcuni compagni nelle galere di Morat Rais che lo portò a parlare al Cicala, e di poi se ne tornarono alla marina di Stilo come è fama pubblica. E il detto Cicala sta già pronto a sua richiesta con 60 vele, che debbono servire ad andar costeggiando la Calabria ed impedire qualunque soccorso da mare. - Nella medesima congiura interviene Ferrante Moretto di Terranova della piana con un suo germano ed infinita gente di suoi aderenti. Vi sono pure molti della città di Reggio, S.ta Agata e Casali, e persone principali e potenti, e particolarmente della città di Seminara. Ci è ancora la maggior parte della città di Tropea, Mileto, Monteleone, Amantea, Fiumefreddo e città di Cosenza, Cassano, Castrovillari e Terranova-citra, Bisignano, Taverna, Cotrone, e la maggior parte del Principato di Squillace, ma specialmente infiniti della città di Nicastro, e molti di Rossano e Pietra Paola. Ci ha inoltre della città di Catanzaro Mario Flaccavento, parente di fra Dionisio e di Gio. Antonio Fabbrica con altri suoi compagni. Si trovano ora nelle provincie due compagnie di cavalli di uomini d'arme, che stanno a requisizione de' nemici. Vi sono ancora tutti i fuorusciti delle altre provincie, con altro infinito numero de' casali di Cosenza, e capipopolo di diversi luoghi. - La detta congiura, stata già trattata da tanto tempo, al presente è affrettata, e solo attendono la venuta del Principe di Bisignano, il quale verrà incognito, e così pure del Vescovo di Nicastro e di alcuni altri grandi personaggi. I congiurati, oltre che sperano felice successo per la moltitudine de' congiuranti e loro potere con guide del demonio che tratta col padre Campanella, sperano giovarsi molto della lingua tra' popoli, nel senso di far loro buone prediche, mentre concorrono molti predicatori di diverse religioni i quali si hanno diviso i luoghi tra loro, e per mezzo di essi si è quasi sempre trattato, e vanno promettendo grosse remunerazioni in nome di Sua Santità. Si scrivono tra loro con cifra di numeri e segni, i quali abbiamo visti in potere di fra Dionisio, che credendo tenerci nel suo partito, per la grande familiarità che da molti anni vi è stata tra lui e noi, ci ha comunicato tutto, promettendoci grandi cose, e con grande esagerazione ci facea premura in questo affare, nel quale non gli abbiamo dato rifiuto, per scovrire da lui quanto c'è e darne avviso a Sua Eccellenza, come abbiamo fatto in servizio di Sua Maestà. Guadagnate le provincie di Calabria, sperano di conquistare apertamente il resto del Regno, dicendo che la Calabria è la chiave, in dove si trovano le fortezze, munizioni e vettovaglie. - Tutte le dette cose per la maggior parte le abbiamo udite dalla bocca propria di fra Dionisio Ponzio, che per tale motivo va per diversi luoghi, e di Matteo Famareda, e vedutele per evidenti segnali e lettere di fra Dionisio che ci hanno mostrato. Speriamo d'ora innanzi tenere di ciò notizia più particolareggiata, sebbene quanto facciamo si faccia tutto con grandissimo pericolo di essere uccisi fin nelle nostre case; ma per servizio di Dio, di Sua Maestà e di Vostra Eccellenza, noi non ci curiamo di spargere il sangue e far notoria al mondo la nostra piena fedeltà e seguire le orme degli avi. - Dat. in Catanzaro il 10 agosto 1599. - Io Fabio di Lauro dò l'infrascritta relazione di mera volontà mia propria, e depongo come quassù in presenza dell'Avvocato fiscale di questa provincia in nome di Sua Maestà, sperando la sua grazia e guiderdone, mano propria. - Io Gio. Battista Biblia dò l'infrascritta relazione di mia propria volontà, e depongo come quassù in presenza del Sig. Avvocato fiscale di questa Provincia in nome di Sua Maestà, sperando la sua grazia e guiderdone, mano propria».

Successivamente, il 13 agosto, essi mandavano direttamente al Vicerè un'altra relazione. Con questa dicevano che meglio informati, poichè andavano ogni giorno cercando di sapere, avendo parlato con alcuni congiurati principali, «credendo essi di tenerli pe' loro più affezionati come avevano loro mostrato e mostravano», aveano potuto toccar con mano che già tutta la provincia era in ordine, che nella Città di Catanzaro vi erano tra' congiurati più di 100 persone principali, «e tra gli altri la Regia munizione stava in ordine per costoro»; che i corrieri e messi andavano tra loro quasi sempre di notte, ed erano per la maggior parte frati e clerici; che essi, i denunzianti, aveano mandato corriere «per avere qualche loro lettera» ed inviarla a S. E., come pure d'allora in poi avrebbero procurato «sapere tutti i nomi de' congiurati». In fondo, come ben si vede, non avevano ancora fatto altri progressi nelle scoverte alle quali attendevano; frattanto magnificavano il «pericolo di essere bruciati fin dentro le loro case» e dicevano che «per ore e momenti stavano aspettando la morte»; assicuravano che i congiurati aveano tra loro «persone grandi e molti di Corte», e soggiungevano che se non si rimediava presto, correva «grandissimo rischio di porsi in rivolta il mondo». Infine conchiudevano rimettendosi alla grazia di S. M.tà e di S. E. da cui speravano «competente rimunerazione di tale e tanto grande servigio». - Vedremo che in sèguito, attendendo sempre «a scovrire la congiura per ordine dell'Avvocato fiscale», giunsero realmente ad avere «tre lettere» le quali trasmisero alle Autorità, come risulta dal Carteggio Vicereale, e fecero pure qualche altra scoverta che troveremo espressa nelle loro deposizioni.

La prima denunzia giunse in Napoli, per mezzo del fiscale, il 18 agosto, la seconda, direttamente, il 24 agosto, e in tale ultima data il Vicerè ne trasmetteva copia a Madrid, dando conto de' provvedimenti fatti e della impressione ricevuta: tutto ciò si rileva dalla sua prima lettera scritta al Re su tale argomento. Fin dal 18, all'arrivo della prima denunzia, egli spedì subito un corriere all'Ambasciatore di Spagna in Roma D. Antonio de Cardona Duca di Sessa, avvertendolo di ciò che accadeva «e scrivendogli un'altra lettera da potersi mostrare a S. S.tà», nella quale diceva che certi frati e clerici in Calabria facevano trattative col Cicala, e che perciò supplicasse S. S.tà di «restar servita» di permettergli che per l'investigazione di tal negozio potesse prendere i frati e clerici che fossero colpevoli, ciò che S. S.tà fece con molto piacere, richiedendo che li traducesse alla carcere del Nunzio che teneva in Napoli, ma che se gli paresse altro, lo lasciava nelle sue mani. Dippiù, quantunque ritenesse la cosa senza fondamento, il Vicerè pensò ad inviare in Calabria una persona capace d'investigare con ogni segretezza e carcerare i frati nominati nella relazione, procurando di avere in poter suo tutte le loro carte; e scelse Carlo Spinelli, di cui avea trovato in Napoli molto buona relazione, e che oltre all'essere buon soldato era anche molto prudente ed accorto, e perciò si era servito di lui il Duca di Ossuna a tempo del tumulto della città (il tumulto contro l'Eletto Starace), e lo avea fatto Reggente della Vicaria, nella qual carica in pochi giorni avea presi i più colpevoli tra' delinquenti; lo scelse anche perché gli sembrò che sarebbe stato la persona la quale avrebbe potuto andare con minor rumore, con voce che sarebbe andato a difendere la costa (a difenderla dal Turco siccome avea fatto altra volta). Del resto, egli diceva, «mi pare grande stravaganza mischiare il Papa e il Card.l S. Giorgio col Turco; che se fosse stato col Re di Francia o con qualche potentato d'Italia non mi sorprendeva, poichè, secondo mi ha avvertito il Duca di Sessa, già altra volta si sono tentati questi rumori da gente inquieta e di poca sostanza; e così mi persuado che solamente da' frati sono uscite queste invenzioni, chè d'uno di loro tengo relazione essere apparecchiato, per credere di lui qualunque novità». Parevagli pure stravaganza ciò che dicevano del Principe di Bisignano, del Duca di Vietri e di D. Lelio Orsini: con tutto ciò, egli soggiungeva, «per non errare è mestieri pensar sempre al peggio». Aveva quindi ordinato al Fiscale di andare a S.ta Eufemia, ove dovea sbarcare Carlo Spinelli, per farvi una certa informazione, perché nell'Audienza non sospettassero a che fine egli là si recava, e di vedersi quivi con lo Spinelli, il quale, informato bene del caso, avrebbe nelle mani i frati e i più colpevoli, e glie ne darebbe avviso. Ripeteva poi ancora una volta che egli credeva tutto esser cosa senza fondamento, se non invenzione de' frati.

Il Vicerè D. Ferrante Ruiz de Castro Conte di Lemos era stato da poco tempo inviato a Napoli, in sostituzione del Conte Olivares, e vi era entrato appena il 16 luglio 1599, avendo avuta anche la missione di Ambasciatore straordinario di obbedienza al Papa: nella sua venuta avrebbe dovuto passare per Roma, ed invece con una certa sorpresa della Curia Pontificia, che trovasi espressa in una lettera al Nunzio, era «capitato a Napoli prima che a Roma». Fu detto che nel suo passaggio per Genova un frate Francescano lo avesse avvertito di tener d'occhio la Calabria, e che egli fece subito diligenze e si venne così a scovrire la congiura: ma tutto ciò non ci risulta esatto, e potrebbe stare soltanto che quel frate, appartenente ad un Ordine solito a servire da spia agli spagnuoli massime nelle cose di Levante, gli avesse parlato del Campanella come di un uomo torbido, capace di qualunque novità; questo potrebbe ritenersi adombrato nel periodo sopra riferito della lettera del Vicerè, mentre poi veramente egli conobbe la congiura solo per opera di Lauro e Biblia, e stentò molto a ritenerla cosa seria malgrado le rivelazioni di costoro. Fu detto pure, dal Parrino, che i due cittadini di Catanzaro, complici della congiura, la rivelarono perché la Divina Provvidenza toccò loro il cuore: ma ci risulta solamente certo che il loro cuore fu tocco dalla speranza di un buon guiderdone, avendo formalmente espresso questa speranza in entrambe le relazioni da loro scritte. Fu detto infine dal Campanella, nella sua Narrazione, che Lauro e Biblia si scovrirono avidi di mutazione con fra Dionisio, il quale secondo i segni e profezie di lui commendò il disegno loro, e di poi con la speranza di sollevarsi ed aggrandirsi parlarono allo Xarava, il quale essendo scomunicato e malcontento, «per scaricarsi appresso il Re la colpa della scomunica, e per vendicarsi degli ecclesiastici e d'altri nemici suoi in Catanzaro, disse falsamente a Lauro et a Biblia che questa era congiura di ribellar il regno e com'esso sempre l'havea pensato, e che c'intervenia il Vescovo di Milito, da cui era stato lui con tanti Baroni et Ufficiali scomunicato, e tutta casa del Tufo, el Vescovo di Nicastro che fece l'interditto, e che per effettuar questo F. Dionisio era andato a Ferrara, e che il Papa consentia e però non levava l'interditto, e che potean'esser altri Signori e s'informò con quanti havea amicitia il Campanella el F. Dionisio, e consertaro di metterli in processo, qual fece segretamente contra Prelati e Baroni et amici del Campanella e nemici suoi e delli prefati rivelanti; et ci posero anche D. Alonso de Roxas Governator della provincia, parte perch'era suo nemico di Xarava, parte perché non fossero obbligati a farlo consapevole di tal processo, perché non haveria consentito a tanta falsità». Ma questo si capisce facilmente essere un garbuglio, per far apparire Biblia e Lauro promotori di un movimento e lo Xarava autore di tutti i particolari della congiura; mentre invece, come abbiamo già avuta occasione di vedere, il Campanella medesimo, nella Dichiarazione che si decise a rilasciare appunto allo Xarava, disse che fra Dionisio avea predicato in Catanzaro ribellione secondo la profezia di lui, e per aver molti dalla sua parte avea nominate tutte quelle persone a cominciare dal Papa. Adunque la denunzia di Lauro e Biblia rivelò in tutto e per tutto le cose esageratamente ed artificiosamente propalate da fra Dionisio in Catanzaro: si può soltanto dire che le rivelò in un modo ancora più esagerato ed artificioso, con una grande impudenza, per accrescere il valore del servigio reso. né vi si vede poi accusato di complicità D. Alonso de Roxas, che realmente sappiamo essere stato, come ogni altro Governatore, in dissidio con lo Xarava; ma lo si vede soltanto genericamente posto in cattiva luce, assieme con altri ufficiali Regii, là dove è notato il poco governo e poco talento de' governanti delle Calabrie. Che se egli non fu fatto consapevole del processo, sappiamo non essere ciò accaduto per astuzia dello Xarava e de' rivelanti, ma per gli ordini dati dal Vicerè, il quale, a fine di mantenere il segreto, volle che l'Audienza non potesse nemmeno sospettare di qualche cosa all'arrivo dello Spinelli. Aggiungasi che nella denunzia non si vede per anco nominato il Vescovo di Mileto e la casa Del Tufo, degli individui di Catanzaro si trovano nominati appena Matteo Famareda, Orazio Rania e Mario Flaccavento, e fino al 13 agosto non erano stati ancora conosciuti altri nomi, mentre pure si accertava essere più di 100 i congiurati in quella città; onde deve dirsi non apparirvi alcuna traccia de' voluti nemici dello Xarava e de' rivelanti, che sarebbero stati nominati con la qualità di complici. In conclusione rimane solo che potè forse lo Xarava essere l'estensore della denunzia ma non l'inventore della congiura: potè essere l'estensore della denunzia, perocchè questa, sebbene scritta in un modo abbastanza scempiato, risulta sempre in una forma superiore a quella che avrebbero comportato le forze intellettuali de' rivelanti, come si desume pure da qualche altro documento scritto da uno di loro, che noi abbiamo rinvenuto nell'Archivio di Napoli e che a suo tempo daremo. - Pertanto il Vicerè mostrò un certo accorgimento nel non prestar fede a quella miscela de' Nobili, del Papa e del Turco, tutti d'accordo in una congiura, e nel crederla invece una invenzione di frati: ma la grave responsabilità inerente al suo ufficio l'obbligava a preoccuparsene senza ritardo, e naturalmente, trattandosi di persone ecclesiastiche, egli si diresse innanzi tutto a Roma.

Occupava allora la sedia Apostolica Papa Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini), e secondo il costume del tempo, spinto all'eccesso da questo Papa, brillava intorno a lui tutta la tribù degli Aldobrandini. Sarebbe inutile e disgustoso darne l'elenco, ma occorre alla nostra narrazione menzionarne almeno tre: 1.° Cinzio Aldobrandini Cardinale di S. Giorgio, nipote del Papa essendo figlio della sorella Giulia maritata ad Aurelio Personei, e per ragioni facili ad intendersi decorato del cognome materno, creato Cardinale insieme col cugino Pietro nel 1593, ma divenuto Segretario di Stato fin dal 1592, in sostituzione del Vescovo di Bertinoro; 2.° Pietro Card.le Aldobrandini, altro nipote del Papa essendo figlio del fratello Pietro sposo a Flaminia Ferracci, creato Cardinale a 21 anni, incaricato di alti affari e divenuto anche Camerlengo, da non confondersi con un altro Cardinale Aldobrandini (Silvestro), pronipote del Papa essendo figlio della nipote Olimpia maritata a Gio. Francesco Aldobrandini, creato Cardinale impubere, nel 1603; 3.° Jacopo Aldobrandini del ramo di Brunetto Aldobrandini, ramo rimasto in Firenze, figlio di Francesco e Clarice Ardinghelli, già Canonico di S. Lorenzo, poi Referendario della Segnatura sotto Sisto V, poi governatore di Fano etc., poi mandato Nunzio in Napoli nell'aprile 1593, e in dicembre dello stesso anno creato Vescovo di Troia in sostituzione di Monsignor Rebibba, non che assistente al soglio Pontificio. Importa molto distinguere principalmente Cinzio, Pietro e Jacopo, i quali si veggono talvolta confusi dagli scrittori delle cose del Campanella: importa del pari avere qualche notizia delle condizioni degli animi nelle Corti di Roma e di Napoli, mentre s'inauguravano trattative le quali ebbero un lungo sèguito, destando armeggi giurisdizionali tanto più delicati, in quanto riflettevano un delitto di lesa Maestà. In generale i Vicerè ostentavano sempre le migliori disposizioni verso Roma, e la Curia Pontificia non soleva tralasciar nulla per avere i Vicerè ben disposti, profittando molto di quella devozione che gli spagnuoli non mancavano mai di mettere in gran mostra, pur quando non la sentivano. Il Conte di Lemos, stato già nove mesi frate Zoccolante in gioventù, succedendo nel governo a quello tempestoso dell'Olivares, con la missione anche di Ambasciatore di obbedienza del nuovo Re presso S. S.tà e col desiderio riposto di ottenere un Vescovato ad un suo fratello per soprappiù illegittimo, fece concepire alla Curia le più belle speranze nella persona sua. Come scriveva il Cardinal S. Giorgio al Nunzio, anche prima di entrare nel Regno si era affrettato ad inviare «una lettera piena di obsequio et di humiltà, con la quale si essibisce di servire alle cose di S. S.tà et di tenere ogni buona intelligenza co' suoi Ministri». Dal canto suo, il Papa avea subito mandato non solo un Breve di risposta al Conte, ma anche un Breve alla Contessa, alla quale faceva la «spontanea gratia» dell'indulgenza plenaria il primo giorno che si sarebbe confessata e comunicata nel territorio del Regno, ed avrebbe pregato per la pace ed esaltazione della Chiesa: ed aveva ordinato al Nunzio di presentarlo ed «accompagnarlo con officio opportuno in voce, mostrandole spetialmente che S. S.tà si promette ch'ella debba essere instrumento efficace non pur di mantenere il marito così bene affetto et così riverente verso S. S.tà et verso questa S.ta Sede come si dichiara di voler essere, ma di accrescere la dispositione et riverenza et di farne apparir gli effetti all'occasioni». La grazia dell'indulgenza, naturalmente, venne impiegata il meglio possibile, ma qualche volta nemmeno se ne vide il frutto, ed allora si ricorse al Confessore del Vicerè, P.e Ferrante Mendozza Gesuita, che ebbe sempre molta influenza sull'animo de' Lemos padre e figlio. Il Nunzio, da parte sua, adempiva con premura all'ufficio; non lasciava mai nulla intentato e spiegava un'operosità instancabile, superiore a quanto comportasse l'età sua che non era fresca, ed anche il suo carattere che era di uomo svogliato e poco espansivo. Occupava così molto tempo «ne' negotii», con un certo scapito dell'amministrazione della giustizia e del buono andamento del Tribunale cui doveva attendere, come si vide dolorosamente anche nella causa del Campanella e socii. Non si potrebbe dirlo poco amante della giustizia, che anzi il suo Carteggio ce lo rivela sovente ammirabile, sia quando sollecita la Curia Pontificia a trovar modo di far gastigare la vita scandalosissima de' frati e de' clerici, e far perseguitare i malviventi ricoverati nelle Chiese e ne' monasteri, sia quando resiste alle sollecitazioni di essa a graziare delinquenti condannati dal Tribunale della Nunziatura e ad imporre alle Chiese predicatori raccomandati: ma erano moltissime le faccende che dovea trattare, e si sa che la prima cura sua doveva essere la preeminenza ecclesiastica e la raccolta delle ragguardevoli somme che dal Regno affluivano a Roma, sicchè tutto il resto veniva in seconda linea; pure tutto il resto non era poco, e alle faccende ordinarie se ne aggiungevano tante altre straordinarie, non mancando nemmeno le commendatizie presso il Vicerè per far avere impieghi! Frattanto nel tempo del quale discorriamo non v'era ancora bisogno che egli si affannasse molto a trovar favore e benevolenza nella Corte del Vicerè: si era in un periodo di grandi tenerezze che durò tre buoni mesi, e parecchie lettere del Card.l S. Giorgio attestano la letizia di Sua Beatitudine per la buona inclinazione, per la pietà, per la modestia del Vicerè, la premura di mostrargli che a Roma «non si davano manco volentieri le sodisfattioni di quello che si ricevevano».

In simili condizioni di cose il Vicerè si spinse a chiedere licenza di far carcerare gli ecclesiastici incolpati per poi procedere all'informazione, ed il Papa glie l'accordò immediatamente: ma vi fu qualche circostanza degna di nota da parte dell'uno ed anche dell'altro. Il Vicerè non disse che que' frati e clerici promovevano una congiura, sibbene che «trattavano col Cicala», o, come più chiaramente mostra la comunicazione fattane dal Card.l S. Giorgio al Nunzio, che avevano «commesso delitti gravissimi et atroci, et che per pigliar maggior vendetta dei loro nemici si sono indotti à chiamar Amorat Rais all'esterminio di certo luogo che possedono alla riva del mare»! Il Papa concesse la facoltà di farli carcerare, con la condizione di consegnarli poi nelle mani del Nunzio, o quando vi fosse timore che potessero fuggire e si volessero custodire nelle carceri Regie, di custodirli sempre come prigioni del Nunzio; ma aggiunse pure a costui, che mandasse «con le genti che spedirà contra l'E. S. coloro... un huomo suo, con l'intervento del quale si veda che per quello che tocca alle persone ecclesiastiche si tiene il conto che conviene della nostra giurisditione mentre non sono verificati gli eccessi che si pretendono contra di loro». né apparisce avere il Papa veramente aggiunto al Vicerè, come costui scrisse a Madrid, che «se gli paresse altro, lo lasciava nelle sue mani»: fu questa probabilmente una di quelle piccole vanterie alle quali bisogna bene essere preparati, giacchè ne vedremo talvolta negli ufficiali Regii e nello stesso Nunzio, rientrando nel gonfio e nel vano che tanto piacevano a que' tempi. - La comunicazione di ciò che a Roma si era deliberato fu scritta il 20 agosto, e pervenne al Nunzio per mezzo dello stesso Vicerè; il Nunzio glie ne diede notizia immediatamente, e disse che era pronto a far la sua parte sempre che occorresse; il Vicerè se ne mostrò contentissimo, e rispose che quando fosse tempo glie lo farebbe sapere. Ma certamente non pensava punto a soddisfare i desiderii del Papa, circa l'invio di una persona che rappresentasse il Nunzio con le genti che avrebbe spedite in Calabria. Difatti non se ne curò menomamente, né apparisce che la Curia se ne fosse risentita: vedremo che molto più tardi poi il Vicerè evocò tale provvedimento, ma per cercare di eludere l'obbligo di far esaminare gl'incolpati in Napoli, ed invece farli esaminare in Calabria da un Giudice secolare coll'intervento di un Commissario Apostolico. Pel momento egli volea veder chiaro e senza testimoni importuni, tanto più che parlavasi di complicità dello stesso Papa: laonde, siccome si è detto, commise la faccenda solo allo Spinelli e allo Xarava, escludendo perfino l'Audienza e quindi anche il preside di essa D. Alonso de Roxas Governatore della provincia.

Abbiamo già avuta occasione di far la conoscenza di D. Alonso de Roxas e di D. Luise Xarava, ed abbiamo notato l'animo mite e placido dell'uno, l'animo prepotente ed energico dell'altro, l'antagonismo esistente fra loro: è quasi superfluo dire che l'antagonismo si verificò anche pel fatto della congiura. Ma c'importa per ora far la conoscenza di Carlo Spinelli, al quale venne straordinariamente affidata la parte principale in questa faccenda. I documenti abbondano intorno a costui, poichè egli era veramente un personaggio reputato oltre ogni dire, con uno stato di servizio ragguardevolissimo; e senza ricercare le carte polverose degli Archivii, ogni napoletano, che s'interessa un poco almeno allo svolgimento delle arti belle nella sua città, ha potuto vederne le nobili sembianze in una statua armata e ritta, messa tra due brutte statue sedenti di Ercole e Pallade, e leggerne le molte azioni ricordate dall'epigrafe apposta al suo mausoleo, entro la chiesa di S. Domenico nella Cappella di S. Stefano, la 2.a a destra dell'altare maggiore. Appartenente alla linea degli Spinelli Baroni di S. Giorgio la montagna e Buonalbergo, nella provincia di Principato ultra, primogenito di Pirro Giovanni Spinelli e di Lucrezia Caracciolo, non avendo avuto figli con Maria Spinelli de' Principi di Tarsia, gli fu successore il fratello Gio. Battista, che dopo la morte di lui fu creato Principe di S. Giorgio. Come tutti i Nobili napoletani di alta carriera, indossò la toga e cinse la spada: fu Reggente della Vicaria sotto il Duca d'Ossuna, a' tempi del tumulto contro l'Eletto Starace (1585), ed in tale occasione si distinse molto, secondochè rilevasi da' documenti trovati in Simancas, mentre il Parrino non ne dice nulla: ma già avanti questo tempo si era distinto presso D. Giovanni D'Austria, dapprima in Granata contro i Mori ribelli, poi alle isole Echinadi e in Tunisi contro i turchi, quindi nella Francia e nel Belgio per tre anni, in sèguito da Commissario in Calabria contro i fuorusciti durante il Vicereato del Marchese di Mondejar, poi come colonnello a capo di 4000 fanti, insieme con Fra Vincenzo Carafa Prior d'Ungheria, nella presa del Regno di Portogallo (1580), poi nel governo della Germania inferiore sotto il Duca di Parma e Piacenza, trovandosi all'espugnazione di Bonn, di Vachtendonq etc. etc. Nominato Consigliere del Collaterale nel 22 febbraio 1590, fu nello stesso anno delegato contro i fuorusciti in tutto il Regno e massime negli Abruzzi infestati dal famoso Marco Sciarra, poi nel 1594 di nuovo in Calabria contro i turchi condotti dal Cicala: ma in queste due spedizioni non fu punto felice, e massime nella prima dovè la sua salvezza allo stesso Sciarra, il quale, riconosciutolo pel cavallo bianco che montava, ingiunse a' suoi che si astenessero dal colpirlo, per usargli quella cortesia di cui non di rado i briganti amano di far mostra. Il Campanella, nel suo libro della Monarchia di Spagna, scoccò una frecciata a lui e a tutti i capitani spagnuoli, dicendo che lo Spinelli riceveva donativi dallo Sciarra e non lo volle morto, secondo il sistema di tirare le cose in lungo a fine di rimanere lungamente con pingui stipendii e piena autorità: quanto all'aver tirato le cose in lungo, il fatto ci risulta vero, benchè sia nota l'intrinseca difficoltà di tali imprese non mai smentita; ma quanto al non avere lo Spinelli voluto morto Marco Sciarra, gli Storici dicono precisamente l'opposto. Vero è che mentre egli mostravasi bravo ed accorto, realmente «circumspetto» come s'intitolavano i Consiglieri del Collaterale, non mancava di essere feroce ed avido di guadagno per sè e per i suoi, come si vedeva spesso a quell'età; né sarà inutile dire che, al tempo del quale ci occupiamo, i molti debiti fatti dal padre suo e da lui medesimo lo tenevano nelle strettezze, dalle quali non uscì neanche dopo la spedizione di Calabria, poichè verso il 1603 dovè soffrire la vendita di Buonalbergo in suo danno, né questa terra tornò alla famiglia se non ricomprata dal fratello Gio. Battista nel 1612.

Abbiamo vedute le ragioni per le quali lo Spinelli fu prescelto dal Vicerè. Come risulta da cenni sparsi, egli andò qual Commissario, Luogotenente generale e Capitano a guerra nelle Calabrie: il testo della Commissione e delle Istruzioni si dovrebbe trovare nei Registri Curiae, dove, tra gli altri, solevano notarsi tutti i documenti di questo genere: ma non c'è riuscito di rinvenirlo, e con ogni probabilità se ne fece l'annotamento ne' Reg.i Curiae Secretorum, come si soleva nelle Commissioni di alta importanza. Non sappiamo con precisione quanta milizia lo Spinelli abbia avuta a condurre con sè. Ma il Campanella, nella sua Narrazione, ci lasciò scritto che vennero con lui due compagnie di spagnuoli, e veramente nelle relazioni dello Spinelli si trovano citati due capitani spagnuoli con le rispettive compagnie, D. Antonio Manrrique e D. Diego de Ayala. Pertanto un documento da noi rinvenuto nel Grande Archivio ci fa conoscere il nome di alcuni ufficiali napoletani che andarono con lo Spinelli, come persone di sua fiducia, e gli stipendii rispettivi e la sollecitudine con la quale vennero nominati e spediti. Questi furono, Mario Mirabella, Alfonso Dattolo e Vespasiano Jovene, capitani, inoltre Vincenzo Severino, che vedremo funzionare da segretario: lo stipendio dello Spinelli era di D.i 300, quello de' capitani di D.i 40, quello del Segretario di D.i 30 mensili, e il 23 agosto, un giorno innanzi che giungesse in Napoli la 2.a relazione da Lauro e Biblia, dalla Scrivania di razione era spedita la liberanza per un mensile anticipato a ciascuno di loro, e il 26 agosto se ne faceva il pagamento ovvero l'annotamento. Poichè a questa data dovevano essere già partiti, leggendosi nella lettera Vicereale del 24 agosto intorno allo Spinelli, che «lo ha inviato, e datogli istruzione di ciò che ha da fare e il segreto che ha da guardare»; ed oltracciò vedremo che una lettera Vicereale dello stesso giorno 24 allo Spinelli fu da lui ricevuta in Calabria, dove egli sbarcò il 27. Aggiungiamo che con lui dovè pure partire un Mastrodatti: e veramente così costumavasi, facendosene la nomina nella Lettera di Commissione, ed in una copia di lettera dello Xarava al Vicerè trovata a Simancas lo si vede affermato, con l'occasione che questo Mastrodatti morì poi in Calabria e bisognò prenderne un altro.

Ma mentre il Vicerè si studiava tanto di tenere la faccenda segreta, accadeva in Catanzaro qualche cosa che la svelava: altri Catanzaresi, il giorno 25, presentavano una nuova denunzia, e la consegnavano all'Audienza. È questa la denunzia che, trovata accidentalmente a' giorni nostri dal De Luca, fu depositata dal Baldacchini nell'Archivio dell'Accademia Pontaniana, e dall'Accademia trasmessa all'Archivio di Stato: pubblicata dall'Accademia e dal Berti può leggersi riprodotta ne' Documenti annessi a questa narrazione. In sostanza cinque cittadini Catanzaresi, vale a dire due fratelli Striveri, un Mario Flaccavento, un Gio. Battista Sanseverino e Gio. Tommaso di Franza che abbiamo già veduto al convegno di Davoli, deponevano che fra Dionisio era venuto a bella posta in Catanzaro per comunicar loro i vaticinii del Campanella e la prossima ribellione «che principierà innanti la metà di settembre», la partecipazione di diversi Signori e del Papa che farebbe entrare le sue genti nel Regno, la partecipazione de' principali cittadini di diverse terre, di 200 frati e di 200 fuoriusciti i quali si andavano riunendo e doveano dar principio alla rivolta, la partecipazione dell'armata turchesca che dovea comparire «alli 6 di settembre prossimo», infine la richiesta fatta loro da fra Dionisio di «accettarlo con più di tre o quattrocento huomini armati li quali li farà entrare incogniti e di notte» per rimanere nella loro obbedienza, conchiudendo che essi, fedelissimi vassalli, lo aveano «rebuttato» e se non fosse stato monaco lo avrebbero menato carcerato, e però lo denunziavano agli ufficiali Regii e pregavano che ne avessero dato avviso al Vicerè. La denunzia reca la data del 25 agosto, ed apparisce consegnata dagli Striveri, in nome loro ed in nome anche dei socii, agli Auditori Annibale David e Vincenzo De Lega: la copia legale che se ne ha, munita di suggello, è firmata da Guarino Bernaudo Segretario interino della R.a Audienza. - Evidentemente tra' congiurati si era per lo meno destato qualche sospetto che la congiura fosse stata scoverta: con ogni probabilità le confabulazioni tra Lauro, Biblia e lo Xarava, non poterono rimanere tanto nascoste da non trapelarne qualche notizia, onde que' cinque sciagurati pensarono di salvarsi con un atto di vigliaccheria, che del resto vedremo non aver avuto tanto valore almeno per qualche tempo, poichè giudicato tardivo ed incompleto. Naturalmente nella denunzia si parlò in modo principale di fra Dionisio, e il Campanella fu appena nominato pe' suoi vaticinii: ma ciò non deve far meraviglia, poichè in essa si palesavano i fatti avvenuti in Catanzaro, dove il solo fra Dionisio avea trattato, né poi conveniva a' denunzianti lo estendersi nelle particolarità, specialmente ad un periodo tanto inoltrato, per la ragione che sarebbero incorsi nella taccia di aver molto trattato con fra Dionisio; così il Franza certamente nascose di essere stato a Davoli presso il Campanella e Maurizio, col Cordova e col Rania, la qual cosa pure egli medesimo rivelò in sèguito, come trovasi registrato negli Atti esistenti in Firenze. E per finirla su questo incidente aggiungiamo che il Campanella, nell'Informazione e meglio ancora nella Narrazione, scrisse che Gio. Tommaso di Franza pagò 200 tallaroni allo Xarava in Castel dell'Ovo perché lo mettesse nel numero de' rivelanti: ma, come si vede, il Franza si era fatto rivelante già molto prima, e quindi parrebbe che se pagò realmente una somma, ciò abbia dovuto accadere piuttosto in principio, per far accettare la sua rivelazione; a meno che non l'abbia pagata quando, nel venire alla spedizione della causa, facendosi una cerna de' rivelanti per prenderli in benigna considerazione, fu quella denunzia fatta passare per buona, mentre dapprima era stata qualificata tardiva ed incompleta. Lasciando per altro siffatte interpetrazioni, sempre molto arrischiate, notiamo esservi anche motivo di dire, che con ogni probabilità il Campanella non conobbe l'esistenza di quest'altra denunzia e l'andamento vero delle prime fasi del processo; infatti egli disse ancora che lo Xarava, nella stessa occasione, diede egualmente cartelle, in cui erano scritte le rivelazioni da doversi fare, a Mario Flaccavento e a Tommaso Striveri che non erano stati esaminati in Calabria»; or bene quest'ultima circostanza, almeno per Tommaso Striveri, sappiamo certamente essere inesatta, risultando il contrario del pari dagli Atti esistenti in Firenze, mentre poi e l'uno e l'altro si trovano già rivelanti con la denunzia in quistione.

È del tutto naturale l'ammettere che la denunzia sia stata subito inviata al Vicerè, il quale ebbe poi a comunicarla allo Spinelli: ma essendo la cosa passata per la via dell'Audienza, il segreto fu svelato, e il motivo della venuta dello Spinelli fu presto capito. Ne dovè quindi trapelare qualche cosa, e parrebbe che specialmente D. Alonso il Governatore non si fosse creduto nel dovere di mantenere il segreto, onde poi lo Spinelli ebbe a dolersi di lui col Vicerè. Certamente, nello stesso giorno in cui la denunzia fu consegnata, il Vescovo di Catanzaro seppe ogni cosa; ed essendo amico di fra Dionisio, e tenero della Religione Domenicana che vedeva compromessa, avvertì fra Dionisio il quale trovavasi tuttavia in Catanzaro, eccitandolo a salvarsi. Costui prese allora nel suo convento la prima giumenta che gli capitò sotto mano e partì. Vedremo tra poco dove egli andò, pensando a tutt'altro che ad una fuga pura e semplice; per ora vogliamo accertare che questo accadde appunto il giorno 25, avendo da una parte, nel processo di eresia, una lettera del Vescovo al Visitatore in tale data, che copertamente accenna al fatto in quistione, e d'altra parte, nel Carteggio del Vicerè, una lagnanza dello Spinelli contro il Vescovo, che «fece fuggire fra Dionisio due giorni prima che egli arrivasse». E dobbiamo anche rettificare quanto ne disse nella sua Narrazione il Campanella, che si studiò di porre le cose sotto altra luce a questo modo: «Bibbia e Lauro consultati dallo Xarava avvisaro al F. Dionisio che si fuggisse perché venia Spinello contro lui; e poi il medesimo Xarava fè intendere questo al Vescovo di Catanzaro amico di F. Dionisio che lo facesse fuggire, perché saria stata la ruina del clero se F. Dionisio era preso; et il Vescovo che suspicò per le discordie, scomuniche et interdetti, che ci fosse qualche trattato, pregò F. Dionisio benchè ripugnante che fuggisse, e Bibbia e Lauro li donaro cavalcatura e commodità, perché con la fuga di Dionisio si donasse colore alla congiura arrivando Spinelli, e li dissero che pur facesse fuggire il Campanella et avvisaro a Mauritio che fuggisse». Ma invece nel Carteggio del Vicerè troviamo che lo Spinelli si lagnò di D. Alonso de Roxas perché avea proceduto «inconsideratamente»; e se si volesse ritenere che lo Spinelli non sia stato bene informato, avremmo pur sempre di certo che «la cavalcatura» non venne donata a Fra Dionisio da' rivelanti, ma venne da lui presa nel convento; infatti nel processo di eresia che poi si fece, tra le molte cose affermate intorno a fra Dionisio vi fu anche quella che avea «robbato una giumenta del convento» per fuggirsene; l'affermò fra Giuseppe d'Amico priore del convento di Soriano, e non apparisce alcun motivo plausibile per non prestargli fede. Circa poi all'avere i medesimi rivelanti detto a fra Dionisio che facesse fuggire il Campanella, e all'avere avvertito Maurizio che fuggisse, il Campanella medesimo nella sua Dichiarazione scritta, rilasciata allo Xarava, espose il fatto in un modo ben diverso.

Fra Dionisio, avvertito dal Vescovo, lasciò Catanzaro e si diresse al convento di Stilo, per far sapere al Campanella che la congiura era scoperta e che lo Spinelli veniva contro di loro; ma non gli propose di fuggire, sibbene, come rilevasi dalla Dichiarazione del Campanella, lo sollecitò che volesse uscire in campagna, insieme col Petrolo, con lui e Maurizio, e gli «pose fretta e paura»; gli disse che il non volerlo fare «sarà la ruina sua», e gli «dimandò lettera a Claudio Crispo» verosimilmente al medesimo scopo. Il Campanella si rifiutò all'audace progetto, divisando piuttosto scrivere all'Auditore David in sua discolpa e presentarsi a tal fine in Catanzaro; ma non attuò nemmeno questo suo pensiero e si ricoverò a Stignano. Dionisio se ne partì scontento, senza dubbio in cerca di Maurizio, che forse non trovò così presto, poichè egli era in giro a raccogliere i fuorusciti per la prossima insurrezione: quindi andò sino a Belforte a prendere con sè Gio. Tommaso Caccìa, ed insieme con costui lo vedremo poi andare a Pizzoni presso fra Gio. Battista, evidentemente per avvertirlo del pari e concertare anche con lui ciò che rimaneva a farsi. A Stignano il Campanella non andò già presso suo padre, ma in casa di un D. Marco Petrolo sacerdote: se non che dovè ben presto trovare qualche altro ricovero e nascondersi, pur sempre in Stignano, dietro un orribile voltafaccia da parte di D. Marco e quasi al tempo stesso da parte di altri vigliacchi già suoi amici di Stilo. Gli avvenimenti oramai s'incalzano, s'accavallano, s'intralciano, ed è impossibile riferirli seguitamente: diciamo qui appena, che divulgatasi la scoperta della congiura e saputasi la venuta dello Spinelli, D. Marco denunziò il Campanella che era venuto ad alloggiare in casa sua, e il clerico Giulio Contestabile non solo lo denunziò, ma procurò una Commissione a Geronimo di Francesco suo cognato per la persecuzione e la cattura di lui e de' complici! Tutto ciò rilevasi dagli Atti esistenti in Firenze: ne vedremo i particolari più in là, e per ora notiamo che la denunzia di D. Marco vi si trova riferita con la data del 28, onde si desumerebbe che tanto l'andata di fra Dionisio a Stilo, quanto la ritirata del Campanella a Stignano, doverono effettuarsi appunto in tale data; ma forse D. Marco, per mostrarsi più sollecito, la segnò con un poco di anticipazione.

Lo Spinelli giungeva in Calabria prendendo terra il 27 agosto a S. Eufemia; quivi dovè abboccarsi con lo Xarava, e il 28 era già in Catanzaro. Da questa città teneva continuamente corrispondenza col Vicerè, dandogli conto di ogni sua mossa e ricevendone gli ordini; ma la prima delle sue lettere che ci sono rimaste, trasmessa in copia a Madrid e così trovata in Simancas, reca la data del 30. Da essa si rileva che avea già scritte altre lettere e ricevutane una da Napoli del 24, e può desumersi che avea dovuto giungere in Calabria il 27. Comincia egli per dolersi sempre più di D. Alonso il Governatore, il quale «non contento di aver posto mano a procedere in quel negozio tanto inconsideratamente» avea commessa un'altra sbadataggine ancora più grossa. Nel mattino del 29 lo Spinelli avea fatto carcerare qual seduttore e capo-popolo Orazio Rania (che abbiamo visto in compagnia del Franza e del Cordova al convegno di Davoli), e non essendogli sembrato opportuno il prenderlo in poter suo, per dissimulare quanto poteva l'esser venuto per la faccenda della congiura sino a che gli fosse riuscito di assicurarsi di altri individui d'importanza, avvertì ed ordinò a D. Alonso, presente l'Avvocato fiscale, che tenesse il Rania con cautela; ed invece egli (che non dovè capire il motivo gravissimo dell'arresto) non gli pose guardie, e lo lasciò scappare tostochè lo Spinelli e il Fiscale si allontanarono; né si curò di riferire questa faccenda della fuga sino a poco prima di sera, mentre egli era fuggito sulle quattordici ore, e lo Spinelli si affrettò a darne conto al Vicerè. Ma subito, tra due ore, gli vennero a dire di aver trovato Orazio morto in una vigna, ed avendolo portato entro la città, si vide che era stato soffocato, non presentando alcuna ferita. S'iniziò allora un'informazione, e con questa occasione di ricercare chi avesse ucciso il Rania, si pose mano a prendere e carcerare i nominati e sospetti nella congiura; e di fatti se ne presero alcuni, e si scrisse e si provvide per quelli di fuora. Il giorno 30 lo Spinelli pensò anche assicurare da ogni sospetto che poteva tenersi i castelli di Gerace, S.ta Severina, Squillace, Nicastro, Monteleone, Oppido e Scilla, e provvide per alcuni di essi col mandare coloro che avea condotti seco come persone di sua fiducia, in qualità di sopraintendenti delle marine di detti luoghi. Si preoccupava inoltre de' Vescovi, venendogli nominati quelli di Mileto, di Nicastro, di Gerace, e quello di Catanzaro che avea fatto fuggire fra Dionisio due giorni prima che egli arrivasse; ed essendogli stato riferito che altri due frati con lettere sopra questa faccenda erano venuti al Vescovo di Catanzaro, e presupponendo che non avrebbero potuto fare a meno di riportar lettere, comandava che sei uomini stessero di guardia sulla loro via per prenderli. Infine diceva che la congiura stava molto innanzi, e il Campanella e il Ponzio la predicavano a tutti per indubitabile e di successo felice e molto conforme alla loro intenzione, di tal che i congiurati aveano gli animi assai sicuri e fiduciosi. - Queste cose lo Spinelli scriveva al Vicerè. Con ogni probabilità i frati a' quali egli alludeva erano fra Cornelio di Nizza e qualche suo compagno di viaggio, forse fra Domenico di Polistina strettamente collegatosi a lui da qualche tempo: infatti il processo istituito poi dal Visitatore ci mostra che, giuntagli il 28 agosto la lettera del Vescovo della quale più sopra si è parlato, egli mandò il 29 fra Cornelio in Catanzaro presso il Vescovo; così lo Spinelli, invece di frati complici della congiura, ebbe a trovare frati che erano già pronti a secondarlo, e che sappiamo di sicuro essersi recati spontaneamente presso di lui, dopo di aver veduto il Vescovo, per concertarsi sul miglior modo di perseguitare i congiurati. Quanto alla condotta di D. Alonso de Roxas, è possibile che lo Xarava, il quale anche teneva corrispondenza assidua col Vicerè, mosso dagli abituali rancori lo avesse tacciato di connivenza; ma lo Spinelli non giunse a tanto, e solo può dirsi che, o per naturale benignità, o piuttosto per ispirito di contradizione allo Xarava, D. Alonso non avesse preso le cose sul serio, e si fosse mostrato negligente. né risulta che il Vicerè se ne fosse risentito: vedremo tra poco che solamente gli ordinò di allontanarsi da Catanzaro, e di venirsene a Napoli subito, mentre per verità non poteva che essere d'inciampo. Il Campanella affermò di poi in più circostanze, che Spinelli e Xarava avessero processato anche lui, e nella Narrazione disse, che non lo carcerarono «perché era andato con una compagnia di soldati al rumor di clerici di Seminara, che ruppero li carceri gridando viva il Papa, et intendendo che volea Spinello con Xarava carcerarlo, fuggìo di là in Napoli». Sappiamo pertanto con certezza che l'affare di Seminara era accaduto verso la metà di luglio, e quindi tutt'al più D. Alonso poteva essersi là recato per prendere i colpevoli, come ne fu poi dato incarico più tardi allo Spinelli: ma non risulta vero che gli si fosse fatto un processo, e tanto meno che si fosse voluto carcerarlo, la qual cosa già non sarebbe venuto in mente ad alcuno, essendo D. Alonso parente della Viceregina (D.a Caterina de Roxas de Sandoval) come trovasi notato dal Residente di Venezia. Vedremo anzi che fra Cornelio si rivolse a lui per informarlo di quanto accadeva, e fu da lui sollecitato perché carcerasse almeno il Pizzoni e il Lauriana. Inoltre aggiungiamo che non cessò veramente dall'ufficio di Governatore di Calabria ultra, e documenti rinvenuti negli Archivii di Napoli e di Venezia ci mostrano che dopo la scoperta della congiura fece atto di autorità verso il Segretario dell'Audienza Guarino de Bernaudo o Bernardo, intimandogli di lasciare il posto a Camillo Passalacqua, da cui con regolare contratto, a que' tempi ammesso, il Bernaudo teneva il posto qual sostituto; che nell'aprile 1600 ebbe a trattare un negozio relativo alla nave veneta Lione e Ponte naufragata in Calabria, che lasciò l'ufficio appunto verso questo tempo, essendo stata data solamente in maggio 1600 la commissione di sindacato del suo governo giusta le prescrizioni delle Prammatiche, ed essendo stato nominato dopo il detto tempo qual suo successore un altro parente della Viceregina, D. Pietro de Borgia, che avea tenuto lo stesso ufficio nelle provincie riunite di Capitanata e Molise. Non vogliamo poi lasciare la narrazione degli avvenimenti che si verificarono al primo arrivo dello Spinelli in Calabria, senza notare essersi malamente affermato dal Parrino e dal Giannone che si trovò il cadavere di uno de' rei, fuggitivo dalle carceri, affogato nel mare, e che tale circostanza rese pubblico il fatto, onde i congiurati pensarono a salvarsi. Non vi fu affogamento nel mare ma qualche cosa di peggio, e quanto all'avere i congiurati pensato a salvarsi in sèguito di tale fatto, per verità anche lo Spinelli scrisse al Vicerè che molti individui sospetti si erano posti in sicuro dietro la fuga del Rania; ma evidentemente egli lo fece per aggravare la mano su D. Alonso e sbrigarsi di lui, mentre la sola carcerazione bastava a dar l'avviso, non potendo essa tenersi celata davvero in una piccola città. D'altronde si vide poi che la fuga medesima del Rania, e secondo gravi indizii anche la sua morte, fu opera di congiurati, e quindi si hanno anche troppe ragioni per ritenere che essi avevano molto prima pensato a' casi loro, ma pure non tanto efficacemente da non lasciarsi cogliere con bastante facilità.

Così non appena passato da S. Eufemia a Catanzaro, secondo la commissione avuta, Carlo Spinelli cominciava a carcerare gl'incolpati, ed insieme con lo Xarava e col Mastrodatti (poichè non occorreva altro per costituire il tribunale) metteva mano a fabbricare il processo, come allora si diceva. Di questo processo i lettori potranno formarsi un'idea col dare uno sguardo allo schema che ne abbiamo compilato, desumendone le notizie dalla indicazione de' folii, notata ne' brani che se ne citano negli Atti giudiziarii esistenti in Firenze. La sua intestazione fu, «Contra fratrem Thomam Campanellam, fratrem Dionisium Pontium et alios inquisitos de crimine tentatae rebellionis», poichè così trovasi notata dal Mastrodatti, che estrasse la copia di una deposizione in esso contenuta e la trasmise a' Giudici dell'eresia. La data poi, in cui cominciò, parrebbe essere stata quella del 31 agosto, poichè il Giannone, il quale ebbe sott'occhio una copia del processo, ci lasciò scritto che le deposizioni di Lauro e Biblia, le prime fra tutte, furono raccolte a quella data: solamente si può notare che, all'opposto di quanto egli affermò, le carcerazioni precederono l'audizione di Lauro e Biblia, essendo cominciate il giorno 29 e continuate attivamente il 30, colta l'occasione dell'assassinio del Rania. Con ogni probabilità apriva il processo la Commissione Vicereale data allo Spinelli, con la costituzione del tribunale, e la denunzia scritta di Lauro e Biblia; poi cominciavano le deposizioni con quelle fatte da costoro medesimi, e proseguivano con quelle di Francesco Striveri, Tommaso Striveri e Gio. Tommaso di Franza, tre soscrittori della 2.a denunzia, i quali, secondochè si rileva da una lettera posteriore dello Spinelli, furono dapprima uditi «non come principali né come testimoni», e più tardi, dietro ordine del Vicerè, imprigionati come complici insieme con gli altri loro compagni.

Il Vicerè dovè presto persuadersi che la congiura non era affatto una cosa senza fondamento, e si diè con tutta fretta a prendere misure di precauzione in Napoli, e a trasmettere ordini di rigore in Calabria, rimanendosi tuttavia nell'amena costa di Posilipo, a godervi insieme con la Viceregina i conviti e banchetti che i Nobili offrivano loro successivamente in quelle ville, ed affettando una calma che facea contrasto co' suoi provvedimenti. In Napoli, da principio egli avea mostrato di preoccuparsi soltanto delle prossime imprese de' turchi nel Regno, ed essendo venute notizie che i turchi volessero depredare Lanciano negli Abruzzi, ovvero Salerno più dappresso a Napoli, ad occasione delle Fiere che vi si dovevano tenere nel settembre, si diè moto in questo senso chiedendone l'avviso del Consiglio Collaterale; di poi, essendosi in Consiglio espresso l'avviso che tali notizie non potessero esser vere, mostrò di preoccuparsi di certe altre notizie di peste già venute dall'Adriatico, e facendo una singolare confusione, artificiosamente senza dubbio, tra la città di Fiume in Dalmazia e una terra denominata Fiume nella Marca d'Ancona (terra che non esisteva), contemplando anzi propriamente la borgata di Fiumicino, esistente sulla spiaggia Romana dal lato del Tirreno, diede in quest'altro senso ordini che fecero maravigliare la città, e che erano evidentemente diretti a tutelare il Regno da una mossa qualunque per parte di Roma, sia dalla via della Campania, sia dalla via degli Abruzzi, circostanza degna di essere rilevata. Emanò un Bando, che colpiva di pena di morte non solo chi desse pratica a' legni di quella provenienza, ma ancora accogliesse le persone che venendo da quelle parti cercassero di entrare nel Regno (28 agosto); mandò Commissarii a' passi di Sangermano, di Fondi, di Tagliacozzo; sospese le Fiere di Lanciano, di Salerno e di Nocera; propose perfino di sospendere anche il procaccio di Roma e di nominare gentiluomini quali deputati e custodi delle porte di Napoli! Ma poco dopo, convintosi che non avrebbe tardato a divulgarsi lo stato vero delle cose, rassicuratosi pel buono andamento della repressione, penetratosi pure delle difficoltà che sarebbero sorte con Roma in un momento in cui dovea rinnovarsi l'investitura del Regno, revocò il Bando (6 7bre), e così pure ogni altro ordine fin allora dato per la peste dello Stato Ecclesiastico. In Calabria poi spedì immediatamente ordine di far giustizia con celerità e severità su quelli che si erano avuti e si avrebbero nelle mani; e i documenti ci mostrano pure che intervenne con uno zelo assiduo ed abbastanza spinto ne' singoli casi, di tal che non sarebbe esatto l'attribuire soltanto allo Xarava e allo Spinelli le crudeltà commesse. Non appena gli capitò la 2.a denunzia de' cinque Catanzaresi, la ritenne poco seria ed ordinò che i denunzianti fossero imprigionati, ciò che lo Spinelli e lo Xarava non aveano ancora fatto. Inoltre, richiamando in Napoli D. Alonso de Roxas (4 7bre) «perché Carlo Spinelli potesse far meglio e più liberamente quello di cui era stato incaricato», ordinò allo Spinelli che se i Vescovi fossero colpevoli e cercassero di fuggire, li detenesse col dovuto rispetto ed avvertisse lui per la posta; egli ne avrebbe dato conto al Papa, potendogli già allora dire che mettevano in ballo lui e il Card.l S. Giorgio, e riteneva per certo che S. S.tà o gli rimetterebbe i Vescovi (altra piccola vanteria), o darebbe loro un gastigo esemplare trovandosi colpevoli. Avea del resto ordinato allo Spinelli di raccogliere tutto ciò che si deponeva contro i Nobili, i Vescovi ed il Papa, ma di notarlo a parte, senza inserirlo nel processo. Questo ci sembra copertamente accennato in una lettera dello Spinelli, il quale rammenta e ripete al Vicerè l'ordine avuto in cifra, e naturalmente a noi è riuscito impossibile interpetrarlo: ma se ne ha pure indizio in altre lettere, dove riferendosi qualche cosa concernente un Nobile od un Vescovo, come vedremo in sèguito, si avverte di «non averlo posto in iscritto»; e così risulterebbe verificato ciò che il Campanella affermò nella sua Narrazione, parlando del processo che lo Xarava «fece segretamente contra Prelati e Baroni, et amici del Campanella e nemici suoi» etc.

Lo Spinelli dal canto suo, assistito dallo Xarava, non avea molto bisogno di questi eccitamenti. Già fin da quando si trovò morto il Rania, egli vide che «restava con ciò confermata la macchina di questo trattato»; ma glie la confermavano sempre più le nuove rivelazioni che giorno per giorno si avevano a voce ed anche in iscritto, onde non solo si rassodava l'esistenza della congiura, ma anche si scopriva una cosa fin allora ignorata dal Governo, l'esistenza dell'eresia. Certamente dell'eresia gli cominciò a parlare fra Cornelio, poichè si trovano ripetute dallo Spinelli al Vicerè le parole stesse che vedremo da fra Cornelio scritte a Roma, avere cioè il Campanella diffuso eresie in Stilo, suoi casali e luoghi convicini; ma quasi al tempo medesimo ne ebbe notizia anche da altre vie. Cade qui opportunamente il parlare delle denunzie che da Stignano e da Stilo gli giunsero appunto in questi giorni. La corsa di fra Dionisio a Stilo, la quasi fuga del Campanella a Stignano, lo sbarco dello Spinelli in Calabria, doverono svelare lo stato delle cose anche in que' paesi, ed ecco, dopo le scellerate defezioni di Catanzaro, quelle ancora più scellerate di Stilo e suoi casali. Il Campanella avea potuto rimanere tutt'al più un sol giorno in casa di D. Marco Petrolo a Stignano, quando costui si spinse a scrivere al Vescovo di Squillace una lettera con la quale lo denunziava, perché gli avea detto «che era per predicare et promulgare nova legge in tutti questi populi, et esso l'avisa acciò siano castigati li tristi et scelerati Heresiarci et malfattori»; con queste parole ne fece un sunto il Mastrodatti. Ma non contento di ciò, da prete d'ingegno sottile, scritta la lettera in presenza di un Tiberio di Lamberti e consegnatala a costui perché la recasse al suo destino, D. Marco lo mandò prima a parlare con Carlo Spinelli; certamente egli dovè pensare che in tal modo, conservando interi i dritti dell'altare, si sarebbe mostrato tenerissimo anche de' diritti del trono, e difatti presso lo Spinelli trovavasi lo Xarava, e la lettera non giunse al Vescovo, sibbene fu ricevuta dallo Xarava ed inserta nel processo. Di poi il medesimo Lamberti, che dalle scritture del Grande Archivio sappiamo essere stato un avvocato di Stignano, fu più tardi chiamato a dar conto della cosa, e dovè palesare che il Campanella era stato in alloggio a Stignano presso D. Marco, e D. Marco fu tratto in prigione egualmente. Ma in Stilo si fece anche peggio. Il clerico Giulio Contestabile, non appena ebbe visto che il Campanella si era «assentato» a Stignano, diede in iscritto capi di accusa contro di lui, denunziando le sue prediche contro la fede e il Re, e parecchie persone che gli aveano dato ricetto, ed oltre tutto questo procurò dal Barone di Bagnara D. Carlo Ruffo, che avea ricevuto Commissione dallo Spinelli contro gl'incolpati, una Commissione di seconda mano per Geronimo di Francesco suo cognato a fine di perseguitare il Campanella e complici. E la Commissione fu subito accordata, ma il Campanella era stato preso quando essa giunse, onde il Di Francesco dovè limitarsi a carcerarne i parenti; e vedremo che il Campanella ne ebbe l'animo esulcerato, ne mosse vive lagnanze e diè sfogo al suo risentimento in tutti i modi, non esclusi i modi censurabili. Lo Spinelli, avuta la denunzia e saputo che il Campanella stava in que' luoghi, mandò subito l'Auditore Di Lega per prenderlo, siccome persona di maggior confidenza e che poteva farlo con minore scandalo, colorando la sua gita colà con un'altra causa; ma l'Auditore se ne tornò, non avendo potuto conchiuder nulla, perché il Campanella si era allontanato e nascosto. Allora, tanto per guardare que' luoghi, ne' quali potea scendere il Cicala e fare gran danno pe' molti congiurati che doveano trovarvisi, quanto per avere nelle mani il Campanella ed anche Maurizio, «venendogli affermato che non erano ancora partiti di là e stavano nascosti», lo Spinelli mandò ordine al capitano D. Antonio Manrrique, che con la sua compagnia andasse di guarnigione a Stilo e a Guardavalle patria di Maurizio; e fece partire un'altra compagnia del Battaglione per Stignano che credea patria del Campanella, provvedendo anche per altri luoghi dove si sospettava che quelli potessero tener pratiche ed occupando ogni passo per farli prendere tutti ad un tempo. Il 5 settembre l'Auditore Di Lega era già tornato e i detti provvedimenti erano stati già presi; di tal che la data della denunzia del Contestabile deve riportarsi agli ultimi giorni di agosto od a' primi di settembre, e nel detto tempo que' posti per lo meno si andavano guarnendo di milizie, ed ogni via di scampo si andava chiudendo pe' miseri perseguitati.

Intanto il numero de' carcerati cresceva, e poichè non c'era luogo in Catanzaro ove tenerli, non stimando conveniente tenerli nelle carceri ordinarie sibbene in luoghi segreti e separati gli uni dagli altri, lo Spinelli si determinò di stabilirsi nel castello di Squillace. Il 5 settembre vi si era già stabilito, e di là ne diede notizia al Vicerè, riferendogli la maggior parte delle cose dette sopra; così, all'infuori di pochi atti iniziali compiti in Catanzaro, il processo si svolse veramente nel castello di Squillace e molto più tardi in Gerace, col corredo di que' terribili tormenti, che per lungo tempo si ricordarono in quelle desolate provincie. Gli ordini del Vicerè aveano dovuto essere così insistenti, che già lo Spinelli, appena cinque o sei giorni dopo l'istituzione del processo sentiva il bisogno di giustificare che i carcerati «non erano stati tormentati fino allora, per essersi atteso ed attendersi alla cattura di quanti si sapevano dalle rivelazioni de' denunzianti, perché col tardare si correva pericolo di non averli più nelle mani». Nel medesimo castello di Squillace egli fece trarre in arresto Geronimo del Tufo che là risedeva ed era stato nominato da' rivelanti, a' quali, secondo le notizie avute, fra Dionisio avea detto che era de' congiurati ed avea promesso di consegnare il castello, oltre all'essersi prodotti pure altri indizii di avere intimamente comunicato e trattato con Maurizio, trovandosi anche stretto parente del Vescovo di Mileto. Era stato pure preso con gli altri il Barone di Cropani per aver detto certe parole sospette (non sappiamo quali), avendo trattato e confabulato con fra Dionisio; il quale avea fatto sapere che portava al detto Barone una lettera di un capo principale de' congiurati, e colui che ciò deponeva l'avea veduta. Gli altri carcerati di basso grado erano piccoli borghesi di Catanzaro, per quanto si può desumere da' primi scritti in una nota che lo Spinelli trasmise più tardi, vale a dire un Pietrantonio di Bergamo, un Nardo Rampano, uno Scipione Nania, un Nardo Curcio, un Marcello Salerno etc.; ma si stimava soltanto degna di annunzio la recentissima cattura di due frati (quella del Pizzoni e del Lauriana, che tra non guari vedremo dove e come e da chi eseguita), e la fuga del Maestro Giurato di Cropani, che per alcune sue parole era stato già carcerato in Cropani dallo Xarava, ed anche prima dell'arrivo dello Spinelli era riuscito ad evadere. Nel riferire al Vicerè tutte queste cose, come anche l'andata e il ritorno dell'Auditore Di Lega a Stilo, e l'invio del Capitano Manrrique e della compagnia del Battaglione a que' luoghi, lo Spinelli continuava sempre a partecipare i risultamenti delle investigazioni. E scriveva essersi trovato che il Campanella e fra Dionisio con altri frati andavano seducendo i popoli, «dicendo che tenevano ordine da chi potea mandarli per questo» e ciò non senza frutto, poichè già aveano molti seguaci, come di ogni cosa si andava prendendo informazione, «coll'avvertenza di registrare a parte ciò che S. E. aveva ordinato»; inoltre che que' due predicavano pubblicamente, in riunioni e conversazioni, alcune cose contro la fede, seminando e persuadendo eresie «in Stilo, suoi casali e luoghi convicini». Ma si fermava ancora sulle notizie concernenti i Nobili ed i Vescovi, e faceva sapere essersi deposto che il Vescovo di Nicastro e il Principe di Bisignano doveano venire incogniti in quelle parti, e notava che quel Vescovo teneva in Calabria tutta la sua casa e i suoi domestici, avendoli da un pezzo inviati da Roma ed essendo rimasto con un solo domestico; poteva quindi esser vero ciò che deponevasi, che avesse a venire di nascosto secondo il convenuto, onde sembravagli doverne avvertire S. E. perché potesse comandare di far diligenza in Roma e sapere se si trovasse là, giacchè, non essendovi, riuscirebbe accertata la deposizione. Aggiungeva di avere ordinato nelle marine che si tenesse molta oculatezza ne' luoghi d'imbarco, che nessuno potesse partire e imbarcarsi fuorchè ne' luoghi a ciò destinati, che si riconoscessero dagli ufficiali coloro i quali partivano; inoltre di aver posto in mare una feluca con persona di fiducia ed esperienza, perché non potesse passare barca senza essere visitata né salvarsi alcuno de' colpevoli, mentre poi si disponeva ad emanare contro gli assenti le provvidenze necessarie, e a far pronta e severa giustizia contro i colpevoli, come S. E. ordinava e un così grave delitto richiedeva, «essendo tanti coloro che se n'erano macchiati». - In tutto ciò è notevole specialmente la prevenzione dello Spinelli contro i Nobili ed i Vescovi; eppure contro i Nobili, od almeno contro i Nobili di ordine più elevato, non si avevano che dicerie vaghe anche troppo, e solamente contro i Vescovi poteva invocarsi il loro contegno sufficientemente ostile, ma tuttavia di una data non fresca ed anteriore di molto alla venuta del Campanella in Calabria. Gli faceva molta impressione il contegno del Vescovo di Catanzaro che avea consigliato fra Dionisio a fuggire, comunque potesse pensarsi che l'avesse fatto per riguardo alla condizione ecclesiastica di lui; così pure il contegno del Vescovo di Mileto che si era permesso di dire alcune parole rimasteci ignote, ma probabilmente allusive a soddisfazione pe' non lievi imbarazzi in cui il Governo si trovava, e certamente era questo il meno che dovesse aspettarsi da lui tanto uggioso verso il potere civile; infine anche il contegno del Vescovo di Nicastro, che si teneva tuttora lontano dalla sua residenza, dopo di avervi già da un pezzo mandati i suoi familiari, quasi fosse consapevole di prossimi tumulti. E il Vicerè finiva per accogliere del pari molto facilmente le prevenzioni contro i Vescovi, e prendeva le sue misure, oltre al suggerire lui medesimo misure di rigore contro gl'incolpati assenti.

Anche prima di avere maggiori indizii contro i Vescovi, l'8 settembre il Vicerè scriveva al suo Agente in Roma D. Alonso Manrrique, che trattava gli affari del Regno stando a lato dell'Ambasciatore, perché facesse sapere al Papa che il Campanella, fra Dionisio e fra Pietro Ponzio (questo povero fra Pietro era stato nominato da' primi rivelanti e continuava ad essere nominato senza la menoma colpa), si occupavano di far sollevare la Calabria facendo intendere al popolo «che tenevano ordine da chi potea mandarli per questo», come lo Spinelli aveva scritto; che alle persone di maggior levatura dicevano partecipare alla congiura alcuni Signori principali del Regno, ed aversi il favore di S. S.tà offerto per mezzo dell'Ill.mo Card.l S. Giorgio, ed incorniciando pure questa menzogna dicevano essere tra' congiurati il Papa, il Turco, il Card.l S. Giorgio, ed il Papa averli subito ad aiutare ed altre mille stravaganze; che inoltre i frati andavano seminando alcune eresie nelle conversazioni e sermoni che facevano, e che alcuni Vescovi, secondo le dichiarazioni prese, risultavano colpevoli, e se la colpa fosse tale da obbligare a metterli in prigione, lo si farebbe col rispetto dovuto, dandone subito conto a S. S.tà etc. Non sappiamo precisamente qual viso la Curia Pontificia avesse fatto ad una simile comunicazione, ma probabilmente prese tempo a deliberare, confidando che le dicerie si sarebbero poi trovate false. Intanto il Vicerè si preoccupava del non essere stati catturati i tre frati e Maurizio de Rinaldis, ed inviava ordine allo Spinelli che facesse Bando, col quale a chi consegnasse Maurizio vivo si darebbe il perdono per lui e per un altro purchè non fosse uno de' tre frati, e a chi lo consegnasse morto si darebbe indulto per la sola persona sua; ed egualmente si darebbe indulto a chiunque consegnasse fra Tommaso Campanella, fra Pietro Ponzio e fra Dionisio di Nicastro; egli riteneva questo un buon mezzo per prenderli, «segun la poca amistad que se guardan acà en general unos à otros» (osservazione che oggi ancora e sempre dovrebb'essere profondamente meditata da ogni napoletano). Inoltre preveniva tutta la costa, da Napoli alla Calabria, trasmettendo i connotati de' frati e del gentiluomo, perché si visitassero tutte le feluche in arrivo ne' porti; ed in Napoli teneva posta guardia nel mare, perché non vi si passasse senza toccare la città (onde si vede il suo pensiero, che quando i congiurati fossero riusciti a mettersi in mare si sarebbero diretti a Roma, la quale dovea essere per lui il centro del movimento, malgrado lo dissimulasse con ogni cura). Queste cose egli comunicava a Madrid, significando che quantunque tale congiura presentasse tanto poco fondamento, «era stata misericordia di Dio l'averla scoverta a tempo ed averla potuto prevenire, siccome lo avea fatto». Vedremo che mentre i suoi ordini così efficaci giungevano in Calabria, il Campanella era stato già preso, e quanto a Maurizio, lo Spinelli, mostrandosi poco propenso ad indultar complici, dopo di aver preparati molti mezzi e molti concerti, finiva per emanare un Bando assai più terribile.

E qui, prima d'inoltrarci nel racconto di queste catture, importa conoscere chi si prestò a dar la caccia agl'incolpati, e chi venne in aiuto del Governo nella feroce repressione della congiura non che nella difesa delle coste dal Turco. Solevasi allora «dare una Commissione» ad individui, che per guadagno si prestavano ovvero anche spontaneamente si offrivano a perseguitare i ricercati dalla giustizia, munendoli di lettere patenti, con licenza di scorrere la campagna a capo di una comitiva armata e con ordine a tutti di favorirne le mosse: erano questi i così detti «Commissionati» o «Commissarii di campagna», i quali talvolta, abusando della loro autorità, finivano per essere ricercati dalla giustizia essi medesimi. Solevasi inoltre adoperare i fuorusciti, che assumevano gli stessi incarichi e si dicevano «Guidati», venendo muniti di un guidatico o salvacondotto, dietro una promessa ed ordinariamente dietro una convenzione scritta od «albarano», in cui era ben determinato il servizio che doveano prestare, per poi ottenere l'indulto o assoluzione dei loro delitti. Nella repressione della congiura vi furono gli uni e gli altri. De' Guidati conosciamo appena qualcuno, come Giulio Soldaniero unitamente con Valerio Bruno, de' quali avremo a parlare lungamente in sèguito; ma l'Audienza ne trovò parecchi dopo il ritorno dello Spinelli dalla Calabria, fra gli altri un Carlo Logoteta, come a suo tempo vedremo. De' Commissionati conosciamo più d'uno e d'ogni risma, da' semplici così detti gentiluomini, quali un Gio. Battista Carlino e uno Scipione Silvestro, fino a' Nobili più o meno distinti, quali un Gio. Geronimo Morano fratello del Barone di Gagliato, ed anche D. Carlo Ruffo Barone di Bagnara, che era parente dello Spinelli ed ebbe poi per questi suoi servigi il titolo di Duca, divenendo il capo-stipite de' Duchi di Bagnara; quest'ultimo facevasi chiamare piuttosto «locotenente di Carlo Spinelli», ma siffatta parola più pomposa non esprimeva altro che una commissione avuta, e in qualche documento egli è detto né più né meno che «Commissionato». Vi furono d'altra parte diversi Nobili già titolati e di prim'ordine, che si distinsero specialmente per l'operosità spiegata contro l'attesa incursione dell'armata turca, e taluno di loro anche contro le persone de' fuggitivi, come il Principe della Roccella, il Principe di Scilla, il Principe di Scalèa, che erano pure tutti parenti dello Spinelli. Non sarà inutile qualche cenno intorno a costoro. - Il Principe di Scalèa era Francesco Spinelli, nipote di Carlo che avea sposato D.a Maria Spinelli, figliuolo di Gio. Battista e di Caterina Pignatelli. Capitano di una compagnia di gente d'arme, che trovavasi di guarnigione appunto in Calabria, era perciò stipendiato dalla R.a Corte come allora si diceva: lo vedremo assistere di persona nelle mosse che si fecero lungo la costa a fronte dell'armata turca, con cavalli e fanti dello Stato suo, oltre quelli della sua compagnia, avendo del resto sempre agito in tal modo, al pari di tutti gli altri Nobili che possedevano Stati in quelle provincie, tanto che si conosce averne poi miseramente incontrata la morte nell'anno successivo. Il Principe di Scilla (spagnolescamente Sciglio) era Vincenzo Ruffo, parente di Carlo Spinelli poichè figlio di Marcello e Giovanna Benavides de Alarcon, il quale Marcello era secondogenito di Paolo Ruffo 6.° Conte di Sinopoli e Caterina Spinelli figlia di Carlo 1.° Conte di Seminara: egli era divenuto Principe nel 1591, sposando la sua cugina Maria Ruffo Contessa di Nicotera e Principessa di Scilla, figlia di Fabrizio, che fu il 1.° Principe di Scilla. Abbiamo già avuta occasione di dire che in questo momento trovavasi scomunicato dal Vescovo di Mileto: egli teneva sempre 600 de' suoi vassalli pronti ad opporsi al Turco ove il bisogno lo richiedesse; vedremo che naturalmente in questa occasione non mancò di presentarsi con la maggiore premura e n'ebbe i più caldi elogi. - Il Principe della Roccella era Fabrizio Carafa, nipote di Carlo Spinelli, perché figlio di Girolamo Marchese di Castelvetere e di Livia Spinelli: s'intitolava 4.° Conte della Grotteria, 3.° Marchese di Castelvetere e 1.° Principe della Roccella, avendo avuto quest'ultimo titolo nel 1594, nel quale anno co' suoi vassalli si difese strenuamente contro il Cicala nel forte di Castelvetere. Questa volta il suo zelo non si spiegò contro il Turco, ma contro il Campanella, verso il quale avea pure già mostrato benevolenza, ammirandone qualche lavoro e fra gli altri la tragedia intitolata Maria Regina di Scozia: vedremo infatti, che accompagnò veramente lo Spinelli nelle mosse contro il Turco ma senza gente armata, e si distinse invece promovendo la cattura del Campanella, denunziando i rapporti di lui col Pisano e poi venendosene a Napoli con lo Spinelli, su quelle medesime galere che portavano il filosofo e tutti gli altri imputati in catene. L'Aldimari, che scrisse non meno di tre volumi in folio sulla famiglia Carafa, ce ne diè l'effigie, che lo rivela gaudente ed utilitario, e ci lasciò scritto come fosse tutto occupato nell'ingrandimento della sua casa; difatti la pose di poi in isfoggio e splendore anche in Napoli, dove fabbricò quel palazzo che tuttora si vede nella strada Trinità maggiore allora detta strada di Nido, sulle antiche case di D. Andrea Matteo d'Acquaviva Principe di Caserta, ed in sèguito il figliuolo Carlo, Vescovo di Aversa e Nunzio in Germania, vi fabbricò pure il palazzo tanto celebrato sulla riva del mare. - Veniamo al Barone di Bagnara D. Carlo Ruffo, figlio di Jacovo e di D.a Ippolita Spinelli, della linea di Esaù e Nicola Antonio Ruffo, successo a suo padre fin dal 3 marzo 1582. Era anch'egli parente di Carlo Spinelli per via della madre; apparteneva ad una famiglia di nobiltà notevole, ma non godeva una posizione finanziaria molto brillante. Teneva l'ufficio di Vice-Duca nello Stato del Duca di Monteleone Ettore Pignatelli, e si faceva raccomandare dalla Corte di Roma per mezzo del Nunzio, come era frequente e tristo vezzo di quella Corte, perché il Vicerè gli favorisse qualche impiego; d'altra parte il Vicerè ebbe una volta ad ordinare un'Informazione contro di lui specialmente per contrabbandi ed anche per aggravii e delitti; questo ci risulta da documenti che abbiamo rinvenuti nel Carteggio del Nunzio e nell'Archivio di Stato. Naturalmente non mancò di cogliere l'occasione che gli si offriva, per inaugurare il sistema d'ingrandirsi sulle sciagure del proprio paese; e vedremo che Carlo Spinelli cercò di favorirlo per ogni verso, anche con la menzogna, ed egli segnatamente verso i frati si mostrò un aguzzino de' più petulanti. - Ci rimane a dire di Gio. Geronimo Morano, che già abbiamo avuta occasione di nominare a proposito delle fazioni di Catanzaro. Era costui di nobile famiglia residente in Catanzaro ma proveniente da Stilo, donde emigrò il suo avo dello stesso nome Gio. Geronimo, come abbiamo rilevato da ricerche fatte nel Grande Archivio; ed appunto nel territorio di Stilo la sua famiglia possedeva un gran feudo detto Burgli russi o Burgorusso sulla marina tra Stilo e Guardavalle, ereditato per via di donne da Francesca Connestavolo ossia Contestabile di Stilo, oltre la Baronia di Gagliato già del Principe di Squillace, acquistata da Carlo Alfonso Morano e da costui ceduta al fratello Gio. Geronimo seniore nel 1543. Gio. Geronimo iuniore, di cui qui trattiamo, era secondogenito di Gio. Antonio, e quindi fratello di Gio. Battista Barone di Gagliato, il quale era morto nel 1594, lasciando una figliuola a nome Camilla e la vedova Anna Sances nata di Loise Sances fratello del Marchese di Grottola; né si creda questo un vano lusso di erudizione, mentre invece il Campanella medesimo ha rese indispensabili tali noiose ricerche, coll'aver messo innanzi, nella sua Narrazione, la parentela del Morano co' Sances, la figlia unica del Barone di Gagliato, il progetto di matrimonio di essa con un figlio del Morano ed anche il desiderio di un certo feudo, per ispiegare la persecuzione ed anzi la morte data a Maurizio de Rinaldis. Adunque la famiglia Morano era molto ricca, e lo stesso Gio. Geronimo trovavasi in buone condizioni, poichè oltre la così detta vita-milizia, cioè l'assegno di secondogenito, egli possedeva beni fideicommissati rimastigli dall'avo, ma si era già fatto notare per una colpevole avidità in beneficio della famiglia; se n'ha la prova in un documento rinvenuto nel Grande Archivio, dal quale si rileva che il Vicerè si era visto nell'obbligo di domandar conto alla R.a Audienza di Catanzaro del prezzo esorbitante pagato per una casa del Barone di Gagliato, che Gio. Geronimo, essendo Sindaco della città, aveva acquistato in nome di essa per provvedere di residenza il tribunale. Conoscitore de' luoghi e delle persone di Stilo e suoi casali, vedremo che egli si pose a perseguitare i principali incolpati, e cavalcando giorno e notte ebbe il tristo merito di raggiungerli con molta soddisfazione dello Spinelli e del Vicerè.

Ma un aiuto ancor più rilevante trovò il Governo nel Visitatore fra Marco di Marcianise e nel compagno di lui fra Cornelio di Nizza, i quali istituirono contemporaneamente con lo Spinelli e Xarava una gravissima Inquisizione, com'era nel loro dritto ed anche nel loro dovere, se non che la istituirono con una compiacenza estrema verso gli ufficiali Regii e co' più iniqui maneggi suggeriti dagli odii frateschi, ciechi ed interessati, segnatamente contro fra Dionisio e di rimbalzo contro il Campanella. Abbracciando le cose di eresia ed anche le cose della congiura, essi formarono un processo terribile, e spinsero la compiacenza al punto da tollerarvi l'ingerenza illecita degli ufficiali Regii e da comunicar loro ogni cosa; basta dire che rilasciarono perfino una copia legale de' primi e più gravi atti di un processo d'Inquisizione, i quali per tal modo giunsero al Vicerè in Napoli, e da costui furono mandati al Re in Ispagna, dove ancora oggi possono leggersi tra le carte conservate in Simancas. Naturalmente riuscirono così favorite fuor di misura le investigazioni governative, agevolate le catture de' frati ritenuti colpevoli, ribadite le atroci accuse: laonde bene a ragione lo Spinelli ebbe a lodarsene grandemente, per quanto ebbe a lamentarsene il Campanella, che da questo lato può dirsi davvero non essersi lamentato abbastanza. Difatti, scagliandosi contro fra Cornelio, nell'Informazione egli disse che il Visitatore era «huomo buono ma ingannato... che stava tanquam idolum et pastor»; ma se è certo che lasciò fare anche troppo a fra Cornelio, è certo egualmente che non perciò si astenne dalle violenze, dalle improntitudini e dagl'inganni, servendo «per niente con zelo» come disse il medesimo Campanella nella Narrazione, ma «non sine scientia». - C'incombe qui il debito di parlare del processo formato da costoro, mettendo da parte per ora quello formato dallo Spinelli e Xarava; poichè entrambi i processi furono iniziati appena con un giorno d'intervallo, e menati innanzi parallelamente, ond'è che bisogna dar conto di entrambi al tempo medesimo.

 II. Nel dover parlare del processo ecclesiastico di Calabria, conviene cominciare dagli antecedenti di esso che si tennero segreti, per poi passare ad esporne gli Atti quali furono distesi, commentandoli con ciò che venne a sapersene in sèguito. Negli antecedenti, come è facile capire, figurano i due Polistina legati a fra Cornelio, concordi nell'odio contro fra Dionisio e gli amici suoi: de' due Polistina figura veramente molto più fra Domenico, ma solo perché egli era il Procuratore di fra Gio. Battista, e fra Gio. Battista, avendo avuto quel lungo processo per l'assassinio del Provinciale P.e Pietro Ponzio, non poteva agire che copertamente; del resto troveremo anche lui abbastanza in mostra qualche volta. I procedimenti di costoro si rilevano non solo da quanto dissero poi in Napoli gl'infelici carcerati sottratti a' terrori di Calabria, ma anche da' Sommarii autentici di tutto il processo di eresia, compilati più tardi in Roma ed egualmente in Napoli, dove si trovano registrati i sunti delle lettere che fin dalla metà di agosto fra Cornelio scriveva al Generale dell'Ordine e poi al Card.l di S.ta Severina sommo Inquisitore in Roma, come pure i sunti delle dichiarazioni da lui fatte in sèguito al Vescovo di Termoli in Napoli, e delle deposizioni fatte in Roma quando il S.to Officio volle interrogarlo sul modo in cui era stato condotto il processo; ed ecco i particolari di questo importante momento. - Ricordiamo che fra Domenico di Polistina verso l'8 o il 9 agosto avea avuto un incontro col Campanella in Davoli, e di là, minacciato da' fuorusciti che si trovavano nel convento, s'era portato subito a Soriano presso il Soldaniero, il quale, secondo lui, impietosito per la paura a cui lo vedeva in preda, gli raccontò i maneggi di fra Dionisio, le eresie che costui professava e la ribellione che promoveva sotto gli auspicii del Campanella. Il Polistina si recò allora immediatamente presso fra Cornelio, che si trovava col Visitatore in Catanzaro, e gli raccontò ogni cosa. Senza perdita di tempo, il 14 agosto, fra Cornelio scrisse al Generale, vale a dire al P.e Ippolito Beccaria, di aver saputo «da un certo nobile» le eresie del Campanella, il quale si era fatto capo de' banditi in Stilo e diceva le cose de' Cristiani esser baie, che nel mese allora scorso, stando in compagnia di certi banditi, aveva indotto uno di loro a compiere un lurido fatto in dispregio dell'ostia consacrata, che diceva poter risuscitare morti, pigliar città, far comparire diavoli, che volea predicare nuova legge e già distribuiva le città e le signorie a que' suoi banditi, che due mesi prima avea mandato due di loro presso il Gran Turco per chiedere aiuto, e che parecchi erano complici in quel trattato, in ispecie fra Dionisio. Con altre lettere consecutive scrisse di aver udito che il Campanella predicava la libertà mescolando le cose della fede, e diceva che la vera fede non era stata ancora intesa, e sarebbe stata in breve predicata da lui, che infine tutta la città di Stilo era imbevuta de' suoi dogmi. Ma quando alcuni mesi dopo venne in Roma interrogato su ciò che avea scritto, confessò che fra Domenico da Polistina fu il primo a dargli notizia delle eresie del Campanella, narrando le escursioni fatte da quel frate a Davoli, poi a Soriano, e da ultimo a Catanzaro «tra il 10 e il 14 agosto»; confessò inoltre che alla data in cui scrisse la sua prima lettera, non avea veramente visto ancora quel nobile, il quale era Giulio Soldaniero, ma era stato assicurato da fra Domenico che di certo gli avrebbe parlato e gli avrebbe detto maggiori cose. E nel doversi recare a Roma, parlando in Napoli col Vescovo di Termoli, gli avea pure manifestato che il primo a rivelargli la faccenda della ribellione era stato un giovane a 20 anni, per nome Fabio di Lauro: onde apparisce che egli dovè mettersi in relazione co' denunzianti della congiura, senza dubbio per mezzo del medesimo Polistina e dietro un colloquio con lo Xarava. Aggiungasi che scrisse pure al Card.l di S.ta Severina diverse lettere, per una delle quali è conosciuta la data del 2 settembre, ed in esse affermò che il Campanella sprezzava il crocifisso ed aborriva i sacramenti, che prometteva nuova legge e nuovo Stato, che Stilo, Stignano, Monasterace, Pizzoni, Arena etc. etc. erano «infette delle opinioni di questo scellerato» e che nella sua venuta a Roma egli avrebbe potuto dare a voce altre informazioni; ma poi in Roma non seppe dir nulla oltre ciò che il processo recava, e in somma confessò di aver tratto i capi di accusa che servirono di base al processo da quanto gli dissero in parte il Polistina, in parte il Soldaniero e poi il Vescovo di Catanzaro, e perfino i rivelanti e gli ufficiali Regii; laonde non fece rimanere soddisfatto il S.to Officio, che anzi lo lasciò persuaso di avere affermato solo per sua immaginazione che tanti paesi fossero infetti di eresia, come lasciò persuasi i Giudici di Napoli di avere presupposto molte cose per «animosità». Adunque è ufficialmente assicurato che nell'istituire il processo campeggiò l'odio, e che le notizie de' fatti criminosi provennero da' Polistina, dal Soldaniero, dal Lauro, dallo Xarava, dal Vescovo di Catanzaro; massime dal Soldaniero, che è detto «un certo nobile» rimanendone nascosta la vera condizione.

Ma ciò non è tutto. Per istituire il processo occorreva a questi frati almeno un rivelante, e l'unico rivelante possibile appariva il Soldaniero, mentre il Polistina e gli altri frati della loro fazione erano troppo notoriamente nemici di fra Dionisio, e quindi, secondo la giurisprudenza del S.to Officio, non potevano testificare contro di lui, o meglio, testificando, le loro affermazioni non avrebbero avuta alcuna efficacia. Importava dunque poter disporre del Soldaniero; ma costui, sebbene rivelante de' frati congiurati a fra Domenico da Polistina, e poi anche a fra Gio. Battista da Polistina come egli medesimo affermò in sèguito, non voleva aderire a rappresentare questa parte pubblicamente, sicchè fu necessario di obbligarvelo. Come venne poi affermato nel processo da varii carcerati, a tempo delle loro difese, e come ripetè pure il Campanella nella sua Narrazione, fra Cornelio e fra Domenico da Polistina con molti soldati e birri circondarono il convento di Soriano e posero al Soldaniero l'alternativa, o di rivelare contro fra Dionisio e il Campanella, o di lasciarsi consegnare alla Corte dalla quale non poteva mancare di essere appiccato pe' suoi delitti: che anzi egli medesimo avrebbe confidato a qualcuno tali cose per iscusarsi, allorchè venne nelle carceri di Napoli ad istanza de' Giudici dell'eresia, aggiungendo che fra Cornelio fu in quella manovra assistito da Gio. Francesco Alemanno fiscale della Corte di Monteleone con 40 persone armate (onde comincia fin d'ora ad apparire l'azione di D. Carlo Ruffo), e i due frati da Polistina col Priore del convento lo persuasero a farsi rivelante, e fra Cornelio gli ottenne una promessa d'indulto da Carlo Spinelli coll'obbligo di perseguitare e consegnare i complici; avrebbe pure detto altre volte che l'indulto gli era costato tre mila ducati e la perdita dell'anima, e che i suddetti frati l'avevano ridotto in mano del diavolo. Forse egli, che veramente per quanto ne sappiamo ci risulta assai sollecitato ma non del tutto deciso a prender parte alla congiura, penò ben poco a resistere alle insistenze di fra Cornelio; forse pure, deciso da Maurizio negli ultimi tempi a partecipare alla congiura, e poi vedutala scoperta, richiese egli medesimo l'indulto, sborsando per esso danari e più ancora sciupandone nella persecuzione de' fuorusciti, ma non tanto quanto esageratamente affermò, siccome suole accadere allorchè si parla di danaro perduto; sicuramente poi egli rivelò più di quel che sapeva e si prestò a dire tutto ciò che fra Cornelio avea raccolto dalle tante diverse vie e perfino dagli ufficiali Regii, onde in sèguito si mostrò di poco buona memoria su quanto avea rivelato, e si potè realmente sentire oppresso da' rimorsi. Ma vera o finta che sia stata quella manovra di fra Cornelio, certo è che costui richiese ed ottenne un guidatico, che equivaleva ad una promessa d'indulto non solo per Giulio Soldaniero ma anche pel servitore e compagno di lui Valerio Bruno: questo si rileva dalla copia legalizzata dell'indulto, che fu poi presentata da fra Dionisio nelle sue difese, e che giova conoscere anche per intendere appieno la procedura in corso relativamente agl'indulti, la qual cosa riuscirà a chiarire qualche altro punto oscuro nel sèguito di questa narrazione. Con una maniera di scrivere che non fa onore al Severino Segretario di Carlo Spinelli, vi si dice: a «dì 3 de 9bre 1599 nel pizzo, per quanto li mesi passati frà cornelio del monte secretario del padre visitatore... scrisse a noi alcune lettere dicendone che dovessimo guidare à Giulio Soldaniero et valerio Bruno che haverebbeno fatto alcuni servitij nella materia della sedutione de popoli ch'haveano incominciato à fare fra Thomase Campanella de stilo fra Dionisio ponso de necastro et mauritio de Rinaldis de guarda valle avisandoci de più detto fra cornelio che il detto Giulio et valerio come pratthichi del paese haveriano fatto assai onde ngi parse guidarli per alcuni giorni nelli quali ngi portorno carcerati... etc. et havendono continuato al servitio non sparagnando cosa che da noi li è stata commessa, per li quali servitii ngi habbiamo fatta provisione de indultu sincome con la presente li induldamo et per induldati li dichiaramo et agratiamo de tutti li lloro delitti per la potestà che tenemo..» etc.. Furono dunque costoro, per opera di fra Cornelio, dapprima guidati e più tardi indultati da Carlo Spinelli. Fra Marco e fra Cornelio, nella qualità d'Inquisitori non avrebbero potuto farlo: avrebbero potuto soltanto nominare Commissionati dopo di avere richiesto ed ottenuto l'aiuto del braccio secolare; e difatti il Visitatore ne nominò alcuni; come un Carlo di Paola amico di Gio. Tommaso Caccìa, e un Ottavio Gagliardo Castellano di Monteleone, che vedremo or ora nell'esercizio del loro mestiere. Pertanto, non appena ingaggiato un testimone opportuno, fra Cornelio pose rapidamente mano al processo, e di questo andiamo oramai a dar conto, esponendone gli atti così come furono compilati, ma accompagnandoli co' debiti commenti.

Il processo che diremo ecclesiastico, perché fatto da ecclesiastici, e concernente non la sola eresia ma anche la congiura, cominciò con la data del 1.° settembre 1599. Gli si diede il titolo «Inquisitionis acta contra Patres Fratres Thomam Campanellam, Dionisium de Neocastro, Jo. Baptistam de Pizzone et alios Inquisitos, Squillacensis» (intend. Squillacensis dioecesis), con la sottoscrizione «Marcianese Visitatore, Nizza». Percorrendo questo processo, il Visitatore fra Marco di Marcianise vi si trova sempre come protagonista, ma si rileva dalle prime carte fino alle ultime, ed anche da ciò che seguì, ogni cosa essere stata manipolata da fra Cornelio di Nizza, nella qualità espressa in più modi, di Socio della Visita, Segretario, Scriba e cancellario, Notario, talvolta anche coll'aureola di «dottore dell'una e dell'altra legge». Nell'esordio, in nome di Dio e della Beata Vergine, il Visitatore dice che per voce pubblica, non di malevoli ma d'individui degni di fede più illustri e religiosi, i suddetti frati hanno macchinato contro la Maestà Divina ed umana; enumera 36 capi di eresia e di ribellione che, il Campanella come settario, e gli altri come capi principali, fautori e complici, affermavano, comunicavano tra loro ed erano anche preparati a far credere agli altri; enuncia la deliberazione di procedere tanto per proprio ufficio, quanto per richiesta di D. Alonso il Governatore, di Carlo Spinelli Cavaliere e Consigliere di Stato, di tutti gli Ufficiali del Re e del molto Illustre e Rev.do Vescovo di Catanzaro. Come si vede, fu adottata la maniera di procedere per pubblica voce e fama, mentre c'era un accusatore (il Polistina) o almeno un denunziante (il Soldaniero), e sarebbe stato più conforme a verità l'adottare altra maniera di procedere, ricevendo da uno di costoro una scritta o una deposizione in presenza di testimoni e servendosi di essa come base secondo la giurisprudenza. Continua il Visitatore dicendo che, per prendere e tenere in carcere i colpevoli, ha mandato nel medesimo giorno fra Cornelio a Catanzaro a fine di implorare l'aiuto del braccio Regio, ottenuto il quale assai volentieri dal Governatore e dallo Spinelli, ha rilasciato le lettere di cattura procedendo senza ritardo in una causa così grave, fino a che non sia provveduto meglio dal Papa e dal S.to Officio; delle lettere di cattura riporta poi anche la formola. In sèguito sono allegate solamente due lettere originali, una del Vescovo di Catanzaro e l'altra di D. Alonso di Roxas. Nella prima, del 25 agosto, il Vescovo dice che si è trattato un negozio di molta importanza, il quale laddove seguisse, recherebbe «gran danno e disriputatione» alla Religione Domenicana, che egli «ha remediato quanto ha potuto», ma vorrebbe che il Visitatore o qualche suo fidato venisse a Catanzaro per potergli liberamente parlare; e il Visitatore aggiunge che, arrivata questa lettera il 28, egli nel giorno seguente mandò fra Cornelio rivestito di tutta la sua autorità; ma, come ben si vede, in questa lettera, nella quale pare che copertamente si accenni all'aver fatto fuggire fra Dionisio, non è punto espressa la richiesta di procedere contro i frati, che anzi trasparisce un pensiero del tutto diverso. Nella seconda lettera, di difficilissima lezione, che è di D. Alonso il Governatore, si ha una risposta a fra Cornelio del 2 settembre, in cui D. Alonso chiaramente dice di aver «ricevuta la relazione del negozio» dalla Paternità sua, e spera che la Paternità sua abbia subito nelle mani qualcuno de' pretesi rei, e almeno fra Gio. Battista di Pizzone e il suo compagno (vale a dire il Lauriana): laonde nemmeno si trova qui la richiesta di procedere da parte di D. Alonso, il quale, per sua disgrazia, era sempre l'ultimo a sapere ciò che accadeva, ed anche questa volta, invece di dirlo lui al Visitatore, lo seppe da fra Cornelio. Infine si ha la Commissione data dal Visitatore il 3 settembre a Carlo di Paola di carcerare i frati suddetti, comandando a' Superiori di non fare ostacolo sotto pena della scomunica ed anche della galera per 10 anni; poi la presentazione fatta al Visitatore il 4 settembre da D. Carlo Ruffo, nel castello di Monteleone, de' due frati carcerati da Carlo di Paola, con la preghiera del Visitatore a D. Carlo di tenerli nelle carceri Ducali a nome del Papa e del Generale; da ultimo la formola del precetto adottato per gli esami da istituirsi. Dopo questi atti iniziali vengono i processi verbali delle deposizioni, cominciando da quelle del Pizzoni, del Soldaniero e del Lauriana.

Ecco pertanto in che modo furono presi il Pizzoni ed il Lauriana. Essi dimoravano nel loro convento di Pizzoni, e nella notte del venerdì 3 settembre, due ore innanzi l'alba, Carlo di Paola ed una mano di soldati con le micce accese giunsero sotto il convento. Poco prima di costoro, nella medesima notte, era quivi giunto anche fra Dionisio accompagnato da Gio. Tommaso Caccìa, sicuramente per abboccarsi col Pizzoni come già più sopra si è detto. Secondo il Pizzoni, egli e il Lauriana pensavano che potessero essere ricercati dalla giustizia per una sella, o una giumenta di un tale, che «tenevano presa» nel convento; ma poichè avea già parlato con fra Dionisio, avea dovuto capire perfettamente di che si trattasse, e infatti, secondo il Lauriana, avendo lui dimandato cosa pensasse della venuta di quella gente armata, il Pizzoni rispose, «sta a vedere che saremo presi per le cose del Campanella». Gio. Tommaso Caccìa cominciò a dire «olà, che gente sete, state largo», e quelli di sotto risposero che erano gente del Battaglione e che venivano da Squillace o andavano a Squillace; allora fra Dionisio e il Lauriana si diedero a sonare le campane all'arme, accorsero i terrazzani di Pizzoni, e seppero dagli armati che volevano riposarsi un poco e udir la Messa, per poi proseguire il loro viaggio; fu quindi aperto il convento, e saputosi che Carlo di Paola comandava quella gente, Gio. Tommaso Caccìa che lo conosceva gli andò incontro per riceverlo. Fra Dionisio, non appena intese che era gente di Monteleone, si travestì da secolare e profittando della folla, che verosimilmente avea fatta raccogliere a bella posta, se ne andò via senza essere conosciuto; il Pizzoni disse la Messa, può immaginarsi con quale animo, e Carlo di Paola con la sua gente l'udì; finita la Messa, fu presentata la Commissione del Visitatore, ed entrambi i frati furono condotti a Monteleone.

Nello stesso giorno 4 settembre, dopo che D. Carlo Ruffo ebbe presentato i due carcerati al Visitatore e gli ebbe da lui ricevuti in consegna, il Visitatore e fra Cornelio cominciarono ad esaminare il Pizzoni; ed ecco i risultamenti dell'esame, che non possiamo dispensarci dal riferire con una certa larghezza quantunque assai ci pesi l'entrare in molte particolarità, giacchè sopra di esso e degli altri seguenti si fondò quel famoso processo, che durò più anni e diè materia a 4 volumi di scritture. Interrogato sul modo e sul motivo presumibile della sua cattura, il Pizzoni ne espose le principali circostanze, ma tacque la presenza di fra Dionisio nel convento, e subito dichiarò essersi immaginato che dovesse venire interrogato «come testimone» sulle cose del Campanella e fra Dionisio, i quali erano stati in Pizzoni nel luglio scorso; di poi, dietro analoghe interrogazioni, esposte le relazioni precedenti avute con loro, li qualificò «uomini tristi», affermando che in Pizzoni il Campanella gli avea detto di volerlo «far homo», poichè aveva profezie di gran rumori e ribellioni le quali profezie erano per lui, che bisognava trovarsi armati, che si collegasse a lui ed avendo aderenze con fuorusciti glie li mettesse a sua devozione; ma egli rifiutò ogni sua proposta, e il Campanella sdegnato disse che giustamente fra Gio. Battista (di Polistina) glie l'aveva dichiarato un traditore. Soggiunse che il Campanella avea detto pure sembrargli che Iddio l'avesse proprio eletto ad insegnare la verità e togliere gli abusi della Chiesa, che i Sacramenti erano per ragione di Stato, che il canto in Chiesa era cosa frivola. Ma gl'Inquisitori non si contentarono di queste poche rivelazioni, e sebbene egli accennasse a voler dire qualche altra cosa, decisero di riporlo in carcere per atterrirlo: ed egli «atterrito» pregò di voler parlare, ed espose una quantità di eresie dettegli dal Campanella circa l'Eucaristia, i Sacramenti in generale, il crocifisso, la verginità di Maria, gli atti carnali, la verità de' detti degli Apostoli, i miracoli, i demonii, il Papa, la Trinità, eresie che affermò avere udite dalla bocca del Campanella, in piccola parte in Stilo e poi in Pizzoni; dietro interrogazioni aggiunse che pure fra Dionisio gli avea già prima palesate le medesime opinioni dicendo che le teneva per vere, che gli aveva inoltre raccontato il fatto osceno di un tale verso l'ostia consacrata, ed egli, il Pizzoni, sospettò che quel tale fosse stato fra Tommaso! Dietro altre interrogazioni rivelò che in Stilo il Campanella gli avea detto essere Maurizio stato sulle galere di Amurat, e fra Dionisio gli avea parlato degli albarani fatti tra loro; che entrambi volevano far la repubblica con l'aiuto di molti potentati, e dapprima con la lingua e con le armi de' fuorusciti, come Maurizio, il D'Alessandria, il Cosentino, i figli di Jacobo grasso e Giulio Soldaniero, il quale «dovea sapere il tutto di questo fatto che gli fu pienamente narrato et comunicato dal Pontio»; che avevano aderenti in Stilo, in Catanzaro e in Davoli, e il favore di D. Lelio Orsini, del Bassà Cicala e perfino de' Veneziani, pensando lui che in Padova, dove il Campanella era stato, si avea fatto amici Veneziani e glie l'avea comunicato! Aggiunse che il Barone di Cropani era pure fautore come gli avea detto fra Dionisio, che si doveva ammazzare il Governatore e gli Ufficiali e poi gridar repubblica, che tra' frati erano complici il Petrolo, il Bitonto, il Jatrinoli e fra Paolo della Grotteria, e dietro interrogazione dichiarò di aver parlato non per timore del carcere ma spontaneamente! - Come ben si scorge, il Pizzoni rivelò tutto ed anche qualche cosa di più, solo pensando a salvare la sua persona e non avvedendosi che in tal modo la comprometteva maggiormente. Vedremo che, secondo il carattere suo versipelle, egli pensò poi di far credere a fra Tommaso aver parlato dell'eresia per sottrarsi alla furia secolare, e non aver parlato propriamente di ribellione, o almeno di quella ribellione che si diceva; ma il fatto è che parlò dell'una e dell'altra cosa ampiamente, senza far figurare il Papa nella congiura sol perché non sapeva che fra Dionisio avesse propagata una simile frottola in Catanzaro, e si può ben credere che questo non dovè dispiacere  agl'Inquisitori. Vedremo pure che egli in ultima analisi non smentì mai queste sue deposizioni, pur troppo ostili al Campanella più che a fra Dionisio, ma solo si dolse che fra Cornelio avea scritto nel processo verbale frati «complici» mentre si era parlato di frati «familiari» del Campanella, ed oltracciò avea scritto essersi da lui deposto che il Soldaniero conosceva tutto, omettendo di leggerlo prima della sottoscrizione per non incontrare una smentita: giunse veramente a dare per sospetto tanto fra Cornelio quanto il Visitatore, e disse falso tutto il processo per le male arti usate nel far deporre dagl'inquisiti e per le estorsioni fatte, ma ciò a fine d'invalidare le cose emerse in sèguito contro di lui, senza ritrattare quelle da lui deposte contro gli altri. Certamente più cose recano maraviglia in quel processo verbale, ma sopratutto il trovarvi da lui dichiarato di aver deposto non per timore del carcere bensì spontaneamente, mentre pure, come vi si legge, durante l'esame fu ordinata la riconduzione dell'inquisito nel carcere «ad terrorem» ed egli pregò che si continuasse l'esame «terrore ductus», la qual cosa non era neanche conforme alla procedura ecclesiastica. Ma ben altro venne a sapersi in sèguito, e non dal solo Pizzoni, sibbene anche da parecchi altri suoi compagni di sventura, e giova parlarne una volta per sempre, poichè fu quello un metodo tenuto con tutti gli altri frati via via che vennero presi ed interrogati. Si esaminò con una lista di notizie tra mano (evidentemente la lista de' capi di accusa crescente a misura che si raccoglievano anche le deposizioni) «rinfrescando la memoria» di colui che era esaminato; s'insinuò doversi «dare qualche satisfatione a' Giudici secolari, e che poi passata quella furia sarebbero tutti andati in Roma al S.to Officio e là si saria accomodata ogni cosa»; si volle che fosse deposto il più gran numero di eresie, dicendo che si farebbe cosa grata al Generale, e che in tal modo ne succederebbe la remissione al S.to Officio; si promise una sollecita scarcerazione se le deposizioni corrispondessero a quanto si pretendeva, e nel caso contrario si fecero minacce di consegna a' Giudici secolari; si permise a D. Carlo Ruffo, il quale spaventava ed ingannava i carcerati con false notizie, che assistesse agli esami d'Inquisizione, mentre la procedura ecclesiastica, fondata tutta sul più stretto segreto, non consentiva la presenza di estranei, salvo due testimoni in qualche caso, da doversi notare nel processo verbale. Fin da principio la deposizione del Pizzoni fu fatta servire di norma agli altri, leggendola loro in privato, e si annunziò falsamente che il Pizzoni era stato scarcerato dopo di aver deposto in quella guisa, e si progredì nelle minacce e maltrattamenti, nello scrivere in un modo e leggere in un altro, non facendo mai processi verbali delle sedute cominciate e non proseguite, come talora accadde anche ripetutamente per un solo interrogato, tacendo sempre i molteplici incidenti sorti per le resistenze degli esaminati ad attestare quelle cose che personalmente ad essi non costavano. Ma intorno a ciò occorrerà tenere un conto speciale de' fatti in ciascun caso.

Dopo il Pizzoni, nel giorno seguente, fu esaminato il Soldaniero. A tale scopo il Visitatore, «essendogli stato rivelato potersi da un certo Giulio Soldaniero dimorante nel convento di Soriano avere una fida testimonianza in questa faccenda», commise a fra Cornelio di recarsi a Soriano per riceverla; e fra Cornelio vi si recò immediatamente, e dispose che il Priore e il Lettore del convento fossero presenti all'esame quali testimoni. Il Soldaniero disse aver lui mandato a Monteleone, non potendovi andare personalmente, ad avvertire che volea comunicare qualche cosa; essersi in luglio presentato a lui fra Dionisio da parte del Campanella che stava in Arena ed egli non conosceva, per dirgli «hora sete homo» (sempre la medesima storia con le medesime parole); che facendo quanto diceva il Campanella sarebbe stato poco a divenire lui Principe e fra Dionisio Cardinale; che il Campanella aveva inviato lettere al Gran Turco con le galere di Amurat, volendogli «dare questo Regno in mano», perché gli mandasse aiuto per mare mentre egli avrebbe fatta la ribellione; che voleva adoperare due mezzi, cioè la lingua e le armi. Aggiunse che il Campanella aveva molte opinioni terribili, e venendo a specificarle disse che volea predicare la libertà e contro la tirannide del Re Filippo, degli Ufficiali e dei Numeratori, che Cristo non era Dio, che le lettere I N R I significavano una pessima ingiuria, che fra Dionisio comunicandogli queste cose diè un pugno ad un crocifisso dipinto sul muro del dormitorio; che il Campanella e fra Dionisio professavano i Sacramenti essere per ragione di Stato e il Sacramento dell'altare essere una bagattella, che fra Dionisio avea commesso un fatto osceno contro l'ostia consacrata portandola «per sei ad otto giorni» in certe parti vergognose del corpo, che gli raccontò avere un inglese in Roma dato un pugno al Sacramento; e poi che il Campanella credeva non esservi Dio, non esservi né paradiso né inferno né diavoli, non esservi miracoli, e che fra Dionisio assicurava «veri miracoli poter fare solo il Campanella e non altri» e ne avrebbe fatti al tempo della predicazione, oltracciò essere invulnerabile. Del rimanente dichiarò di non aver mai veduto il Campanella, di essere stato dissuaso da fra Dionisio intorno all'astinenza dal mangiar carne nei giorni pe' quali avea fatto voto e ne' giorni proibiti dalla Chiesa, di aver udito tutte le cose suddette anche da fra Gio. Battista di Pizzoni venuto egualmente a parlargli da parte del Campanella, di averle udite del pari da fra Pietro di Stilo venuto a sollecitarlo perché si recasse presso il Campanella, ed a pregarlo che almeno non volesse palesar nulla di questo fatto, di aver saputo da fra Dionisio e fra Gio. Battista che la setta si faceva in Stilo e che si preparavano prediche in scriptis e si davano a' complici. Sviluppando la faccenda della ribellione, dichiarò di aver saputo da' suddetti due frati che si era deciso di liberare il Regno dalla tirannide del Re Filippo e «darlo al turco sotto tributo» riducendo la provincia in repubblica, che il Turco avrebbe fornito aiuto per mare ed a tale scopo aveano mandato presso il Cicala un gentiluomo e ne aveano ricevuto polizini: dietro interrogazioni aggiunse che non gli aveano parlato dell'aiuto de' Veneziani, ma del favore di sette Principi, nominandogli solamente Lelio Orsini che dovea venire a governare lo Stato di Bisignano e potea dare più di mille soldati; che di particolari gli aveano nominato Gio. Tommaso Caccìa, Marcantonio Contestabile, Giovanni di Filogasi, Gio. Battista Cosentino, Eusebio Soldaniero ed altri, essendo stati più di 35 capi allorchè si riunirono in Pizzoni, e de' frati che doveano predicare, oltre il Campanella, fra Dionisio e fra Gio. Battista, gli aveano nominato fra Pietro di Stilo, fra Paolo della Grotteria e fra Silvestro di Lauriana. Infine dichiarò che gli aveano detto doversi cominciare dal far ribellare Catanzaro ammazzando il Governatore, il Vescovo e gli Ufficiali, di poi si sarebbe ribellato Stilo e i luoghi vicini: dietro interrogazione disse che non sapeva dove si trovavano il Campanella e fra Dionisio, ma che gli avevano detto essere stati carcerati il Pizzoni e il Lauriana, e conchiuse aver rivelato tutto ciò per solo riguardo alla fede, pel servizio di Sua M.tà e per l'estirpazione dell'eresia. - Tale fu la deposizione del Soldaniero, e riescono senza dubbio sorprendenti le parole con le quali venne conchiusa, mentre vi erano state promesse di un guidatico e di un indulto già convenute appena qualche giorno innanzi; del resto si comprende che essa fu composta in famiglia, mettendo in carta quanto si era precedentemente deciso che egli dovesse rivelare, massime riguardo al Campanella e agli altri frati, perché riguardo a fra Dionisio, senza dubbio costui dovè dirgli una gran parte delle cose che il Soldaniero affermò, essendosi sempre comportato in questa guisa nel far proseliti per la ribellione prima della sua andata a Catanzaro: intorno alle cose dette da fra Dionisio dovè radunarsi tutto ciò che si era potuto conoscere da altri fonti, specialmente su' particolari della ribellione, che non potevano mai essere stati comunicati con larghezza al Soldaniero, e tanto meno in un primo colloquio, ond'è che si veggono rivelati così goffamente; ma anche una notevole quantità di eresie dovè essere aggiunta, e però in sèguito si vide il Soldaniero molto impacciato innanzi a' Giudici, ricordando abbastanza male ciò che avea rivelato. Pertanto, oltre il gran disordine di redazione e la trivialissima dicitura con circostanze scioccamente esagerate, vi si nota la molta cura di non far apparire il Soldaniero complice o socius criminis: da parte di lui si trova nominato tra' ribelli Eusebio Soldaniero, che sappiamo suo capitale nemico e rifiutatosi ad intervenire a' colloquii per la ribellione, e non nominato Maurizio de Rinaldis, che sappiamo suo conoscente ed amico e adoperatosi perché egli aderisse alla ribellione; oltracciò vi si trova taciuta la circostanza della lettera inviatagli dal Campanella per mezzo di fra Pietro di Stilo e da lui non rifiutata, ciò che conoscevasi pure dal Priore del convento il quale assisteva alla deposizione, tanto che egli stesso lo rivelò in sèguito, allorchè fu chiamato in Napoli per essere udito in questa causa. In somma tutto fu concertato per guisa da far risultare il Soldaniero un testimone inoppugnabile, quantunque nei casi di lesa Maestà, come in quelli di eresia, i socii nel delitto fossero testimoni pienamente validi.

Il 6 settembre si venne all'esame del Lauriana in Monteleone. Come già il Pizzoni, egli fu interrogato dal Visitatore e da fra Cornelio sul modo e sul motivo presumibile della sua cattura; ed espose tutte le circostanze, non esclusa quella della presenza di fra Dionisio e del Caccìa giunti in convento poco tempo prima, e del travestimento e della fuga di fra Dionisio non appena riconosciuta la qualità della gente armata (con che già la condizione del Pizzoni rimanea vulnerata); inoltre dichiarò subito che il Pizzoni medesimo gli avea detto, «sta a vedere che saremo presi per le cose del Campanella». Dietro interrogazioni, venne ad esporre le sue relazioni antecedenti col Campanella e fra Dionisio, li dichiarò del pari «homini tristi» da che vennero a Pizzoni nel luglio scorso (sempre secondo la solita dicitura), ed espose le relazioni avute col Pizzoni che qualificò uomo da bene. Dipoi rivelò che stando il Campanella in Pizzoni con fra Gio. Battista e fra Dionisio, nel dopo pranzo, disse una quantità di eresie: non esservi Dio ma alla natura aver noi messo nome Dio, non esservi né paradiso né inferno né diavoli, i Sacramenti essere per ragione di Stato; e poi contro il Sacramento dell'Eucaristia, contro i miracoli e che il Campanella «avea fatti e volea fare miracoli», contro la verità de' detti degli Apostoli, contro la proibizione degli atti carnali, e che il Campanella volea fare nuova legge. Dietro altre interrogazioni soggiunse che egli non aderì mai a queste cose, che forse fra Dionisio aderiva poichè una volta, presente il Campanella, gli avea detto qualche parola in dispregio dell'ostia, ed anche non essere peccato ciò che rimane occulto! Ma interrogato se il Pizzoni aderiva, disse di non saperne niente, e qui cominciarono le minacce degl'Inquisitori: gli fu intimato di dire la verità sotto la pena della galera accresciuta di altri sei anni, e frattanto che ritornasse in carcere; ed egli, ripensandoci alquanto, pregò che continuassero l'esame. Dichiarò allora che il Pizzoni aderiva, poichè lo aveva esortato a credere in quelle cose, aggiungendo che non aveva mai udito il Campanella e fra Dionisio predicarle in pubblico, bensì aveva udito esprimere da loro il voto che venisse presto quel giorno in cui potessero predicarle pubblicamente, e che sospettava trovarsi pure fra Pietro di Stilo tra' settarii «per essere intrinseco del Campanella»! Interrogato poi sulla congiura disse che stando il Campanella in camera con fra Dionisio, il Pizzoni, lui, e «mastro Gio. Pietro di Stilo fratello del Campanella» parlò delle rivoluzioni di Stati e di tre gran terremoti da dover accadere in un giorno nel 1600, del voler essere apparecchiato a ribellar la provincia e farla repubblica, dell'aiuto de' fuorusciti per opera di Maurizio e dell'aiuto del Turco dalla via di mare, onde «si pigliarebbe Reggio et poi a poco a poco le altre terre»; e dietro successive interrogazioni aggiunse di sapere che Maurizio avea trattato col Turco, che non avea notizie di altri potentati salvo il Turco, né di altri Principi e particolari «salvo il Maurizio e il fratello del Campanella, e de' frati fra Domenico di Stignano e fra Pietro di Stilo, perché attendeva allhora a far la cucina per loro». Infine, dietro apposita interrogazione, disse di aver rivelato liberamente, e di non aver «deviato né per carcere né per cosa nessuna». - Anche qui è sorprendente la conchiusione di non aver avuto paura del carcere, dopo tutto ciò che è registrato nel processo verbale. Ma non occorre fermarci troppo su questo esame, in cui si vede chiaro lo stampo degli altri esami precedenti. Solo accade di notarvi che nella faccenda della ribellione, parlando de' congiurati non claustrali, il Lauriana tacque i nomi del Crispo, del Morabito, del Caccìa, del Contestabile, di quanti altri avea dovuto vedere in Pizzoni nel tempo al quale il suo esame si riferiva, essendosi limitato a nominare appena il fratello del Campanella e Maurizio de Rinaldis: ma si può ritenere che que' nomi non furono da lui pronunziati perché non gli vennero suggeriti, riuscendo difficile potergli accordare un certo grado di accorgimento, quando non mostrò neanche quello di tacere la presenza di fra Dionisio nel convento allorchè si era proceduto alla cattura sua e del Pizzoni. Tutto ciò che depose dovè essergli suggerito, poichè realmente egli era così dappoco, da non potersi ammettere che gli fossero stati fatti tanti discorsi e tante confidenze; conoscendo egli medesimo il suo valore, si era facilmente adattato a' più umili servigi presso il Pizzoni e a «fare la cucina», sicchè potè forse prestare qualche opera materiale ed anche udire qualche cosa alla sfuggita, ma non più di questo. E vedremo ad esuberanza più tardi che in fondo non sapea nulla, e fu prima lusingato e poi intimidito dagl'Inquisitori, non escluso D. Carlo Ruffo, il quale presenziò del pari l'esame di lui; onde accadde che in sèguito si mostrò tentennante e vario nel peggior modo, non ricordando più una parola sola di ciò che gli si era fatto deporre; e tra l'incubo del rimorso e il terrore del poter essere incriminato qual falso testimone, finì per accumularne tante, che lo stesso Pizzoni, il quale avea procurato di servirsene per appoggio nelle cose sue, dovè dichiararlo testimone falso e contribuire a renderlo il ludibrio di tutti i compagni di carcere.

Così menavasi innanzi il processo ecclesiastico, e pur troppo il metodo non fu mai cambiato per tutto il tempo in cui esso si svolse nella Calabria: invano si cercò di apprestarvi qualche rimedio, e continuò sempre, anzi in modo anche più grave, l'impiego delle minacce e maltrattamenti non che delle lusinghe e false promesse, l'uso di non scrivere ne' processi verbali se non quello che piaceva a' Giudici, l'intervento degli Ufficiali Regii nelle sedute del tribunale, e poi la comunicazione scritta, a loro richiesta, delle cose che vi si raccoglievano, fino a quando la causa non venne tratta a Napoli e commessa a Giudici molto più degni. Da' precedenti è manifesto che non si creavano accuse essenzialmente false, e questo c'interessa molto che rimanga ben fermato: non si creavano accuse essenzialmente false, poichè è indubitato che le cose le quali si raccoglievano, così dal lato religioso come dal lato politico, erano state nella loro massima parte ventilate tra gl'inquisiti; ma è indubitato del pari che si esageravano nel peggior modo, si accumulavano interamente sul capo di ciascuno inquisito senza distinzioni, e sopratutto con le arti più inique si facevano testimoniare anche da coloro i quali ne sapevano poco o nulla, per ribadirle in guisa da chiudere ogni via di scampo agl'incolpati. E già con le sole tre deposizioni finora esposte si era pervenuto a risultamenti della più grande importanza, ed è certo che più tardi lo Xarava ottenne di vederle e di averne copia. Si trovano infatti nel processo segni ed appunti marginali sulle cose della ribellione vergati da una mano differente da quella solita a far lo stesso sulle cose di eresia, e non è per nulla arrischiato l'ammettere che que' segni ed appunti sieno stati vergati dallo Xarava: inoltre si trova ancora in Simancas la copia di queste deposizioni tutte intere, estratta, collazionata e firmata da fra Cornelio per ordine del Visitatore in data del 12 settembre, con la speciosa clausola «praevia protestatione in forma et citra poenam sanguinis et ad evitandum poenas irregularitatis», mentre le prescrizioni categoriche della procedura ecclesiastica lo vietavano assolutamente. - Possiamo frattanto ritornare allo Spinelli e allo Xarava, e vedere i progressi che costoro fecero nella persecuzione e cattura degl'incolpati, come pure nella compilazione del processo al quale attendevano.

La più importante cattura di que' giorni fu quella del Campanella in compagnia di fra Domenico Petrolo, avvenuta nella sera del 6 settembre; dopo di essa va registrata quella di Claudio Crispo, avvenuta l'8 settembre. La cattura del Campanella merita naturalmente di essere narrata in tutti i suoi più minuti particolari, e ce li forniscono assai bene sopratutto le deposizioni che il Petrolo fece in più volte nel tribunale per l'eresia ed anche nel tribunale per la congiura, poichè nel processo di eresia si trovano fortunatamente anche le deposizioni da lui fatte intorno alla congiura, trasmesse in copia da un tribunale all'altro; del resto il Campanella medesimo ne scrisse parecchie circostanze nella sua Dichiarazione e poi nelle sue Difese, nelle sue Poesie e da ultimo nella sua Narrazione, e questa volta le notizie di entrambi i fonti concordano ne' punti essenziali. Lasciammo il Campanella, verso il 27 agosto, allontanatosi da Stilo dietro l'avviso e la sollecitazione di fra Dionisio, ridottosi a Stignano e là denunziato dall'ospite suo D. Marco Petrolo, denunziato anche dal suo amico e discepolo Giulio Contestabile, e nascostosi in qualche altra casa pur sempre a Stignano. Maurizio, con ogni probabilità avvertito del pari da fra Dionisio, corse pur egli a Stilo per abboccarsi con lui, e non trovandolo, gli scrisse due volte di tornare a Stilo «chè esso lo salvava»; ma il Campanella si rifiutò egualmente di unirsi con lui, mentre il padre suo piangendo diceva volerlo «meglio morto che uscito in campagna», e si ricoverò sulla collina presso Stignano in un convento di Francescani detto di S. Maria di Titi. Maurizio corse ancora su quel convento, e il Campanella, che stava col Petrolo a pranzo, se ne fuggì, e fu seguito da Maurizio per sette miglia senza farsi raggiungere, sino a che, presso la Roccella, trovò un contadino a nome Antonio Mesuraca, il quale, avendo qualche obbligazione verso il padre di lui, lo accolse insieme col Petrolo con promessa di trovar loro un imbarco, li tenne seco tre giorni, ma poi li tradì. Questo ci lasciò scritto il Campanella, ma fra Domenico Petrolo aggiunse molte altre particolarità. Secondo il Petrolo, essendo in Stilo, ed avendo udito da fra Dionisio le voci che correvano contro di lui, il Campanella gli disse, «fra Dominico, si come quando io sono stato a piacere tu mi sei stato bono amico et hai imparato da me, mi par ragionevole che ancora m'habbi da seguire in questi travagli et non abbandonarme, ma esserme fidele amico», e così fuggirono insieme. Maurizio allora in più lettere invitò il Campanella a tornare a Stilo, dicendogli che andasse a tre ore di notte ed escludesse ogni altro dalla sua compagnia eccetto fra Dionisio, ma egli, il Petrolo, dissuase il Campanella dal farlo, perché non si accreditasse sempre più la voce de' suoi disegni di ribellione, e poi una persona venne da Stilo e disse che fra Pietro l'avvertiva di stare all'erta dubitando di Maurizio: arrivava intanto a Stignano gente armata, e il Petrolo, travestitosi da ortolano, e munito di una zappa, racconciando i canali lungo la via per non essere riconosciuto, si diresse verso S. Maria di Titi, e il Campanella lo raggiunse, e ricoveratisi nel convento mandarono un frate ad informarsi dello stato delle cose; il frate tornò dicendo che in Stignano non c'era gente, ma in Stilo c'era, e mentre pranzavano, nella sera seguente, venne un corriere spedito da fra Pietro di Stilo che li avvertiva di fuggire perché Maurizio li voleva ammazzare. Giunse infatti Maurizio, e non trovandoli, li seguitò per più di dodici miglia a fine di ammazzarli ed indultarsi (!); essi fuggirono verso la Motta Placanica, ma per via il Campanella mutò parere e disse che era meglio andare verso la Roccella, e così facendo, nella notte, incontrarono Gio. Antonio Mesuraca amico di fra Tommaso, il quale li condusse fuori la terra in una casa in campagna, e là rimasero tutto il sabato, la domenica e il lunedì, e nella sera di tale giorno furono tratti in arresto. Guardando le date, si ha che la fuga da Stilo dovè accadere tra il 27 e il 28 agosto, quella da Stignano il 2 settembre, quella da S. Maria di Titi la sera del 3, la permanenza presso la Roccella il 4, il 5 e 6 settembre; ma ecco ancora alcune notizie su' fatti di questi ultimi tre giorni, come le rivelò il Petrolo. Non appena giunti nella casa di Mesuraca, costui fece travestire anche il Campanella da secolare, ed almeno per qualche tempo i due fuggiaschi si tennero insieme nascosti nella paglia al di fuori della casa; quivi il Campanella avrebbe detto al Petrolo che si era trattato l'aiuto del Turco e c'era un albarano avuto da Maurizio, che da 13 anni tenea sullo stomaco que' pensieri di ribellione insieme con fra Dionisio, che costui era stato da lui mandato alla piana (piana di Terranova) per tenere in ordine le genti e i fuorusciti di quel posto, ed avendo alcune scritture in cifra, e domandato dal Petrolo cosa significassero, avrebbe detto che quelle erano lettere del Pizzoni scritte in un modo inteso solo tra loro; ma è evidente che siffatti discorsi rappresentavano per lo meno la continuazione di discorsi anteriori e non trattavano già quegli argomenti per la prima volta, come si proponeva di far credere il Petrolo quando li rivelò. Inoltre allora appunto, nel mangiare alcuni fichi, il Petrolo avrebbe dimandato al Campanella se quelle erano le frutta per le quali peccò Adamo, e il Campanella avrebbe risposto con uno scherzo e detto che quelle erano baie. Ancora il Campanella avrebbe parlato al Mesuraca dell'aver mandato Maurizio al Turco, dell'aspettativa in cui si era delle galere del Turco, dell'aver lui procurato che queste venissero, e dimandatogli se venivano ed avuto per risposta che ne venivano trenta, avrebbe detto, «queste vengono per me, per che Mauritio hà parlato ali turchi, però trovati modo di mettermivi di sopra che vi farò grand'homo»; la qual cosa non ci pare affatto inverosimile, giacchè, pur non essendo vero che Maurizio fosse stato mandato proprio da lui, importava in quel momento il farlo credere per dare animo a tutti e tenere il Mesuraca in fede. Ma come il tempo passava, gli animi si abbattevano e il Mesuraca faceva i suoi conti. Il Petrolo pregò il Mesuraca che volesse porlo in disparte dal Campanella, non avendo il coraggio di andarsene per la quantità di gente armata che era sparsa in quella regione e che al vedere la sua corona l'avrebbe preso in iscambio del Campanella; d'altra parte il Campanella, essendo solo col Petrolo, lo pregò che volesse radergli la corona, ma il Petrolo si rifiutò, ed egli fattosi malinconico diceva, «Dio te lo perdoni, che non me lasciasti pigliare da Turchi questi giorni passati, quando vennero sotto la torre di Badolato», mostrandosi persuaso che non l'avrebbero fatto schiavo perché amico di Maurizio. Infine la sera del 6 settembre, venne uno stuolo di armati, e i due miseri traditi, aspramente legati, furono condotti a Castelvetere. Dalle notizie che fornisce il Carteggio del Vicerè si ha che il Mesuraca avea rivelata la faccenda al Principe della Roccella, e costui gli avea promesso un buon guiderdone. Dalle notizie che forniscono gli Atti giudiziarii esistenti in Firenze si ha che, al momento della cattura, il Campanella disse, «io vengo volentieri, et dirò quanto si voleva fare et dimostrarò con che ragione si voleva fare», aggiungendo al Mesuraca che «fussero raccomandati li parenti suoi, per che esso andava a morire in potere della Giustitia»; ma il Petrolo a sua volta disse, «ammazzatime, non me levati vivo». Dolevasi pure molto il Campanella de' Contestabili di Stilo, dicendo che essi l'aveano fatto carcerare: da parte sua il Mesuraca si scusava dicendo che avea dovuto agire a quel modo, per timore del Principe di cui era vassallo, e soggiungeva al Campanella che subito sarebbe morto «e che venea per questo Xarava el Baron della Bagnara el Baron di Gagliato con più di 200 persone, li quali venuti li dissero che dovea morire e che F. G. Battista di Pizzoni havea detto tante heresie con la ribellione».

Ma come mai il Campanella si era mostrato così restio ai consigli di fra Dionisio e poi agl'inviti ripetuti di Maurizio, e si era spinto ad una fuga disordinata innanzi a costui? La cosa più naturale è certamente il ritenere che ognuno avesse agito secondo gli dettavano le proprie qualità dell'animo. Fra Dionisio, coraggioso e bollente, dovè pensare che il meglio possibile fosse il cadere da forti sul campo, e cominciò in tal guisa a spiegare quella sua condotta, che vedremo ammirevole nella fortuna avversa. Maurizio, coraggiosissimo ma prudente, dovè scorgere impossibile anche l'uscita in campagna quando si era già raccolto un così gran numero di milizie, e d'altra parte era già cominciata a manifestarsi la demoralizzazione de' congiurati; non ignorante delle arti di guerra, dovè giudicare non impossibile uno scampo, malgrado la presenza di tanti nemici, e difatti mostrò bene di saperlo trovare fino a che si trattò di schermirsi da loro, e vedremo che ebbe a soccombere solo per gli elementi avversi; dovè quindi realmente avere in animo di salvare il Campanella, salvarlo malgrado la renitenza di lui, onde fece quella corsa, prova del suo coraggio, da Guardavalle a Stilo e poi a Stignano e poi sulla via di Placanica, mentre quei posti già venivano occupati dalle milizie. Ma non si può menomamente ammettere che egli avesse avuto in animo di uccidere il Campanella e il Petrolo per indultarsi; tale concetto è respinto da quanto sappiamo della vita di Maurizio e delle condizioni stesse occorrenti per avere un indulto. Abbiamo visto che l'indulto bisognava pattuirlo coll'autorità mercè una convenzione od almeno una promessa antecedente, ed era lecito a Maurizio, uno de' capi, compromesso quanto il Campanella e forse più, sperare un indulto, e sperarlo senza patti espressi ed al momento al quale si era giunti? E se lo avesse sperato, gli sarebbe convenuto di esigere che il Campanella si fosse recato presso di lui egli solo e non già insieme col Petrolo, mentre così avrebbe potuto presentare due compromessi invece di uno? né poi si capisce perché avrebbe dovuto ucciderli, mentre si sa che acquistavasi maggior merito presentando vivi quelli che erano fortemente ricercati dalla giustizia. Fra Pietro di Stilo, tenerissimo del Campanella e trepidante per lui, potè per un momento pensare che le calde insistenze di Maurizio nascondessero un agguato a fine d'indultarsi, tanto più che avea sotto gli occhi esempi di perfidia incredibile, capaci anche troppo di far vacillare la sua ordinaria avvedutezza e serenità di giudizio. D'altra parte il Petrolo, timidissimo ed avvilito fuor di misura, come lo rivelano le parole che pronunziò quando fu catturato e poi quelle che gli vedremo pronunziare quando si trovò al cospetto degl'Inquisitori, potè scorgere un grave pericolo nell'unirsi a Maurizio e in sèguito un pericolo ancora più grave nel possibile risentimento di Maurizio per aver consigliato di non unirsi con lui. Ma non si può facilmente sostenere che tanto da parte del Petrolo, quanto da parte del Campanella, fosse stato accolto il pensiero di fra Pietro di Stilo, e che la loro fuga innanzi a Maurizio fosse stata motivata dalla credenza che costui volesse ucciderli a fine d'indultarsi, mentre veramente un tale motivo della persecuzione di Maurizio fu da loro addotto abbastanza tardi e per convenienza della loro causa. Infatti il Petrolo da principio disse che Maurizio voleva ucciderlo perché egli avea dissuaso il Campanella dal recarsi presso di lui, la qual cosa evidentemente non avea potuto nemmeno giungere all'orecchio di Maurizio: il Campanella poi da principio, nella Dichiarazione che scrisse ne' primi giorni della sua prigionia, parlò della persecuzione di Maurizio nel senso che costui volea salvarlo ed egli si rifiutò di associarvisi essendone disgustato; più tardi, nella Difesa, scrisse che Maurizio voleva ucciderlo perché temeva che egli rivelasse l'accordo da lui preso col Turco, e perché era sdegnato dell'aver fatto salvare Giulio Contestabile da' furori di lui; assai più tardi, scorsi già parecchi anni, nella Narrazione, scrisse che Maurizio voleva ucciderlo ed indultarsi. A noi sembra che il Campanella, potentissimo in cognizioni ed in astuzie, dovè credere più pericoloso per lui il trovarsi armato di un fucile in campagna, che armato di sottigliezze nel foro, quantunque non ignorasse che nel foro avrebbe incontrato manigoldi piuttosto che giudici; dovè quindi sembrargli suo primo bisogno distaccarsi appunto da fra Dionisio e da Maurizio, che aveano rappresentato una parte attiva più appariscente, e dopo ciò tentare ancora uno scampo in mare presso il Turco mediante una persona che avea motivo di ritenere fidata, quale il Mesuraca, mentre in terra vedeva perfino taluni de' più accesi nella faccenda della congiura voltargli brutalmente le spalle ed agire a suo danno.

Proseguiamo intanto la narrazione de' fatti del Campanella dopo la sua cattura. Abbiamo visto che molti accorsero quando fu preso, in particolare i più grossi Commissionati, il Morano ed il Ruffo co' loro armigeri, e può intendersene facilmente il motivo: ognuno volea farsi bello di questa cattura, la quale in realtà fu eseguita dagli armigeri del Principe della Roccella, onde a costui venne poi attribuita, quantunque egli non avesse fatto altro che spedire i suoi bravi e promettere in nome del Re un buon guiderdone al Mesuraca che gli diè l'avviso, non risultando che siasi recato egli medesimo sopra luogo, siccome da taluni Storici fu detto. Così quel gran numero di armati servì solo ad accompagnare il Campanella e il Petrolo fino a Castelvetere; ma doverono forse esser pure condotti con costoro tredici altri individui catturati in quelle vicinanze, che lo Spinelli, nel riferire in fretta al Vicerè l'importante avvenimento, annunziò essere stati trovati in compagnia de' due frati vestiti da secolari, i quali volevano imbarcarsi ed andare in cerca delle galere toscane o di qualche legno inglese o dirigersi in Turchia, mentre sappiamo da parecchie testimonianze che veramente i due frati erano stati essi soli in mano del Mesuraca. Quegli aguzzini contristavano per via l'animo del Campanella, annunziandogli che dovea morire e manifestandogli che il Pizzoni avea rivelato grandi cose di eresia e di ribellione (ciò che realmente era noto a D. Carlo Ruffo stato presente agl'interrogatorii); inoltre s'ingegnavano di sapere da lui i complici, e raccolsero infatti diversi nomi, segnatamente quello di Mario del Tufo, che uno di loro affermò essere stato pronunziato dal Campanella in tale occasione; ma il Campanella ebbe poi a negarlo assolutamente, spiegando la cosa col dire, che avea manifestato doversi Mario del Tufo, e tutti coloro che erano amici suoi, guardare di non esser presi, perché li sarebbero andati carcerando. E in questo mentre, riflettendo alla condotta del Pizzoni, egli «pensò subito che questa fu arte del Pizzoni per fuggir la furia secolare, et avvisò... a F. Domenico di Stignano ch'era seco carcerato, che pur dicesse heresie»: così ci fece sapere egli medesimo nella sua Narrazione, e vedremo infatti che fra Domenico finì per rivelarlo, senza per altro scagionare il Campanella come eretico; solo non può accettarsi che egli avesse pur allora artificiosamente manifestato essersi «più presto negotiato con Turchi e non col Papa, ma per hereticare, e che però Mauritio era andato sopra le galere di Amurat Rais» etc. e che «così piacque poi allo Xarava che ci entrassero i Turchi» e lo fece deporre a' primi rivelanti. Di questi rivelanti abbiamo la denunzia autentica scritta fin dal 13 agosto, nella quale aveano già parlato de' turchi e dell'andata di Maurizio; rimane quindi vero solamente che piacque alle Autorità il raccogliere, bene o male, che egli non tenesse intelligenze col Papa, essendo stato trovato in via di fuggirsene in tutt'altra direzione che in quella di Roma; vedremo infatti che così scrisse lo Spinelli al Vicerè, il quale lo accettò immediatamente, senza dubbio perché riusciva soddisfacentissimo il non aversi ad occupare di un soggetto così scabroso qual'era il Papa, e il poter mettere sempre più in luce soggetti tanto odiosi quali erano i turchi. - Venne poi, qualche giorno dopo, nelle prigioni di Castelvetere anche lo Xarava, non accorso col Morano e col Ruffo al momento della cattura, come potrebbe credersi leggendo la Narrazione, ma inviato subito dallo Spinelli «perché procurasse di aver chiarimenti dalla bocca di lui sulla congiura della quale era imputato, prima che egli trattasse con alcuno», ed anche «perché venisse sicuro» da Castelvetere a Squillace, come rilevasi dal Carteggio Vicereale. Probabilmente lo Xarava si comportò col Campanella in un modo affatto diverso da quello usato dal Morano e dal Ruffo, dandogli buone parole, condolendosi e lusingandolo, per mantenerlo ben disposto a largheggiare in una «Dichiarazione che volle fare di sua mano» innanzi a lui. La scrisse difatti molto larga e con qualche condiscendenza, siccome si rileva specialmente verso la fine di essa, là dove si trovano due periodi, in uno de' quali sono registrati certi nomi di fuorusciti, e in un altro, più chiaramente aggiunto, è registrato il nome del Rania, di cui egli non si era ricordato prima e da ultimo si ricordò dietro suggerimento dello Xarava: siffatta circostanza, e poi il suo silenzio costante su questa Dichiarazione scritta, e il suo odio mortale verso lo Xarava manifestato sempre con gli epiteti più atroci in prosa ed anche in versi, ci menano a credere non aver lui mai più potuto rammentare senza vivissimo sdegno che, sebbene maestro in astuzie, si fosse lasciato trarre in inganno da quest'uomo di «volpino pelo», mentre solamente più tardi, dopo ottenuta la Dichiarazione, lo Xarava dovè scovrirsi nel senso di sostenere che questi frati avessero a morire jure belli, inconsulto Pontifice.

La Dichiarazione del Campanella merita di essere ben ponderata. Abbiamo già dovuto riportare sparsamente, durante tutta questa narrazione, le notizie che vi si contengono, ma non possiamo dispensarci dal darne qui uno schizzo, per vederla nel suo complesso e farvi qualche commento. In essa, accennati i suoi studii di profezia, i prossimi mutamenti da lui aspettati «nel Regno de Napoli che fu sempre de revolutione», i pareri analoghi anche di varii uomini insigni napoletani e stranieri, le cose prodigiose apparse in quell'anno, la sua predica intorno a questi fatti, la pace tentata tra' Contestabili e i Carnevali, il Campanella rivela diffusamente i desiderii d'indipendenza dal Governo spagnuolo che gli manifestarono Geronimo di Francesco e Giulio Contestabile, l'odio di Giulio verso gli Ufficiali spagnuoli, l'oltraggio da lui fatto ad un'immagine del Re Filippo in presenza anche del Petrolo, la fiducia di lui in Marcantonio e ne' numerosi amici e parenti e perfino ne' turchi. Poi cita altri individui di Stilo co' quali ha parlato della prossima mutazione, e dice che col Pizzoni e fra Dionisio ne parlavano sovente, ed essi mostravano di gradirla. In sèguito viene a Maurizio e racconta che costui lo interrogò sulle mutazioni, mostrandosene lieto, e aggiungendo che se così fosse stato avrebbero avuto molti amici, e che egli, il Campanella, gli disse che chi tiene molti amici può diventar grande, adducendo molti esempi di uomini divenuti grandi ed animandolo al bene. Poi parla dell'andata ad Arena ed a Pizzoni, dove vide il Crispo, e dice che discorrendosi delle mutazioni, costui si vantò di avere amici se vi fosse bisogno di far guerra, ed egli approvò che ne avesse molti. Ma da una lettera di Giulio Contestabile seppe che Maurizio era andato sulle galere di Amurat, e recatosi quindi a Davoli presso il Pittella, seppe da Maurizio che realmente vi era stato ed avea trattato che venisse l'armata turca, giacchè volea pigliare Catanzaro e la provincia, ed avea «capitolato» che i turchi non avrebbero dovuto tenere dominio a lungo ma solo assistere nel mare, contentandosi poi del traffico nel Regno, e gli mostrò una scrittura in lingua turchesca, ed egli si lamentò di quest'atto, facendogli notare che i turchi non osservano fede, e volea rompere ogni relazione con lui. Vide allora il Franza, il Cordova ed un altro, chiamati da Maurizio a Davoli, e pregato di parlare delle mutazioni non potè non confermarle; fu anche invitato a volere esser capo e predicare, ma si negò e si partì per disgusto. Intanto fra Dionisio, perseguitato dal Visitatore, andò a Catanzaro a predicare ribellione secondo la profezia di lui, e per avere molti aderenti disse che nella congiura c'era il Papa, il Card.l S. Giorgio, il Vescovo di Mileto etc. D. Lelio Orsini, i Signori del Tufo e tutti coloro che s'immaginò essere amici di lui e suoi; ma egli giura di non aver mai parlato di tali cose, né pensato che per mezzo di loro frati si avessero a muovere. Poi fra Dionisio andò a sollecitarlo perché uscisse in campagna, ma egli non volle e riparò a Stignano; in sèguito Maurizio gli mandò a dire di ritornare perché l'avrebbe salvato, ma egli pure si rifiutò andandosene a S. Maria di Titi, e Maurizio cercò di raggiungerlo ed egli fuggì, dandosi nelle mani di Mesuraca, il quale promise di salvarlo in mare, lo nutrì per tre giorni e poi lo consegnò alla giustizia. Infine, ricordando che del pari in Roma e in Napoli si prevedevano mutazioni, dice voler rendere conto a S. M.tà di quello che Dio manda al mondo per il bene comune, che egli guarda alla salute comune e per essa vuole morire. Dichiara che a fra Dionisio spetta dire il resto, avendo lui trattato il negozio con fatti, mentre egli, il Campanella, l'ha trattato solo con parole. In sèguito aggiunge varii nomi di fuorusciti co' quali Maurizio diceva voler pigliare Catanzaro, e manifesta che l'altra persona, la quale venne col Franza e col Cordova in Davoli, era il Rania, ricordandolo dietro le parole dello Xarava. - Come ben si vede, in questa Dichiarazione la congiura non è menomamente negata, che anzi è esposta in tutti i suoi più minuti particolari, e perfino chiarita in quel suo lato che riusciva ancora oscuro e confuso alle Autorità, vale a dire la partecipazione del Papa, dei Vescovi e de' Nobili, insieme co' turchi; soltanto essa è attribuita ad altri, e il Campanella vi figura appena come colui che vi ha dato innocentemente occasione, col parlare delle profezie e de' presagi di mutazioni prossime, ed un poco anche col consigliare a trovarsi armati e in buon numero coloro i quali vi si mostravano propensi. Era il meno che egli potesse dichiarare sul conto proprio, e bisogna riconoscere che, quantunque avesse scritto in un momento di suprema angoscia, seppe dichiararlo con la solita abilità ed anche con molta unzione, mostrandosi quasi indifferente alle mutazioni, le quali sarebbero avvenute come Dio avrebbe voluto; né fuor di proposito egli giurava di non aver mai predicato ribellione, e parlato di tali cose, e pensato che per mezzo di loro frati avessero a muoversi, riferendosi a' maneggi fatti in Catanzaro, e alla partecipazione del Papa, de' Vescovi e de' Nobili. Intanto nominava parecchi, anche troppi, i quali avrebbero dovuto rispondere della congiura. In primo luogo nominava i Contestabili col Di Francesco, e massime Giulio, citandone detti e fatti assai gravi, ciò che si spiega col suo vivissimo risentimento verso di loro; inoltre il Pizzoni ed anche il Crispo, citando appena il nome del primo ed aggravando la mano sul secondo, ciò che si spiega coll'essergli noto che il Pizzoni avea già deposto in materia di eresia e di ribellione, senza per altro sospettare che avesse deposto tanto; sopra tutti poi nominava fra Dionisio e Maurizio, citandone azioni gravissime e tali da renderli i soli veramente responsabili di tutto, ciò che può spiegarsi unicamente coll'ammettere che egli credeva essersi costoro già posti in salvo, mentre sapeva che Maurizio vi avea pensato da alcuni giorni. Rimaneva alle Autorità il decifrare come potessero trovarsi insieme i Contestabili e Maurizio inimici, senza un certo tratto di unione, e se il Campanella potesse veramente ritenersi estraneo a questi maneggi: disgraziatamente la cosa riusciva molto facile ad intendersi, ed anzi era già conosciuta molto bene a quell'ora; né occorre far notare che dopo siffatta Dichiarazione ci volle in sèguito molta disinvoltura da parte del Campanella, per dire che la congiura era stata un'invenzione dello Xarava, de' denunzianti e del Governo! Certamente egli non potè trovarsi contento di aver rilasciata quella Dichiarazione. Quando ebbe a vedere fra Dionisio e Maurizio in carcere, dovè rimanerne confuso, e si conosce che più tardi, anche per conto suo, cercò d'impugnare il contenuto della Dichiarazione, ma, naturalmente, invano. All'opposto lo Xarava dovè rimanerne soddisfattissimo; e si può argomentarlo dal fatto che, invogliato dalla felice riuscita della sua pratica, corse immediatamente a far lo stesso col Pizzoni.

A questo tempo, verso l'11 settembre, si deve con tutta probabilità riferire l'andata dello Xarava a Monteleone, per avere anche dal Pizzoni una Dichiarazione scritta, e dare un'occhiata al processo che il Visitatore e fra Cornelio aveano iniziato: ciò può desumersi dalla data della copia degli Atti di tale processo a lui rilasciata, che è il 12 settembre, e dalla data del trasporto da lui fatto del Campanella e del Petrolo da Castelvetere a Squillace, che una relazione dello Spinelli ci mostra essere avvenuto il 14 settembre. Tenendo presenti queste date, si può calcolare che verso l'11 settembre lo Xarava, ottenuta la Dichiarazione scritta dal Campanella, ne andò a chiedere un'altra al Pizzoni; e in tale circostanza vide il processo ecclesiastico e vi fece al margine que' segni e quegli appunti di cui si è parlato altrove, e scorgendo che le tre prime deposizioni avevano un'importanza grandissima, se ne fece subito estrarre la copia. Quanto alla Dichiarazione scritta dal Pizzoni, ne conosciamo l'esistenza ed anche il contenuto dagli Atti che si conservano nell'Archivio di Firenze, con quest'altro particolare, che ad essa andava unito un «Alfabeto in cifra del Pizzoni col Campanella». Nella Dichiarazione, secondo il sunto fattone dal Mastrodatti, il Pizzoni scrisse che «fra Tomase Campanella, et fra Dionisio Ponsio havendosi scoverto di volere introdurre nove leggi, et nuovo modo di vivere, introducendo la libertà con il favore di alcune profetie, et delli Cieli, per Astrologia, andavano procurando amicitia di banniti per dar principio à tal impresa, et havendolo ripreso di queste male prattiche, pensieri, et false profetie, che non sono cose di riuscire, loro risposero che era codardo, e da poco, et che loro non sono tanto impotenti quanto esso fra Gio. Battista si crede, per che adesso li bastano questi pochi banniti à dar principio à tal impresa, et che dopoi alcuni mesi scorsa la nova haveriano havuto soccorso da Venetiani, et da Turchi, et altri Principi, et particolare da D. Lelio Ursino, il quale diceva esser andato à Sua Maestà in spagna, per ottenere, di venire protettore, et poi soccedere nel Principato di Bisignano et ottenere di tenere Compagnia di gente armata, sotto pretesto di guardare il Stato, ma poi dato principio a tale rivoltare, li darà in suo favore la gente predetta armata, et il Stato ancora, et che lui tiene nelle sue terre un fra Gregorio di Nicastro che và explorando le genti sotto habito di Merciaro, et venditore di figure». In somma il Pizzoni non scrisse diversamente da quanto avea deposto innanzi al Visitatore e a fra Cornelio riguardo alla congiura, ed anzi rivelò qualche cosa di meno, aumentando solo l'importanza della parte che avrebbe dovuto rappresentare D. Lelio Orsini: se non che scrisse tutto di suo pugno, in modo da non poter più poi sostenere che talune cose fossero state falsamente aggiunte, siccome fece per la deposizione redatta da fra Cornelio; e sappiamo che lo Xarava questa volta ebbe cura di corredarla di una fede del Mastrodatti e della testimonianza di due persone, che certificarono la Dichiarazione essere stata scritta dal Pizzoni in presenza dello Xarava, e da lui consegnata al medesimo. Ma l'Alfabeto in cifra fu scritto veramente dal Pizzoni e comunicato in parte dallo Xarava a fra Cornelio, il quale poi l'allegò nel processo suo senza citarne il fonte, ovvero fu inventato da fra Cornelio e comunicato da lui allo Xarava, il quale senza citarne del pari il fonte, lo pose a capo della Dichiarazione del Pizzoni? Questo rimane dubbio; bensì non vedendo fatta alcuna parola dell'Alfabeto nella Dichiarazione scritta, e sapendo che il Pizzoni lo negò sempre in sèguito, bisogna piuttosto dire che fra Cornelio, nella sua nequizia, dovè sbizzarrirsi ad inventarlo dietro il cenno dato da' primi rivelanti e poi fatto confermare dal Petrolo innanzi a lui qualche giorno dopo. Si può intanto vederlo tra' documenti che pubblichiamo, ridotto alle firme del Campanella e del Pizzoni, così come fra Cornelio l'allegò nel processo suo.

Non prima del 14 settembre il Campanella fu tradotto dalle carceri di Castelvetere a quelle di Squillace; ma non avea per anco lasciato le carceri di Castelvetere, che vi accadeva un fatto importante, del quale dobbiamo ancora dar conto. Ricordiamo che là si trovavano rinchiusi Felice Gagliardo, Orazio Santacroce, Geronimo Conia, Gio. Angelo Marrapodi, Camillo Adimari, ed inoltre Cesare Pisano, il quale vi era stato visitato dal Campanella con fra Dionisio e fra Giuseppe Bitonto ne' primi giorni di luglio, ed era stato anche da lui raccomandato al Principe della Roccella; ricordiamo che Cesare Pisano fin d'allora cercò sempre d'indurre o di raffermare nella ribellione tutti costoro (giacchè taluni, come il Gagliardo ed il Conia, sembra certo che vi fossero stati già iniziati dal Bitonto e dal Jatrinoli), magnificando i disegni del Campanella e predicando eresie in quantità. Non appena seppero che il Campanella ed il Petrolo venivano rinchiusi in quelle medesime carceri e che la congiura era stata scoperta, con tutti i particolari che se ne andavano diffondendo, que' cinque scellerati, per farsi merito e provvedere alla loro salvezza, pregarono il Castellano di rappresentare al Principe della Roccella che Cesare Pisano, fin da quando venne carcerato, si era sempre sforzato d'indurli a prender parte a questa congiura, ed oltracciò denunziarono lo stesso Pisano al Vescovo di Gerace per le eresie che andava loro persuadendo; né trovarono difficile il giustificarsi per non aver rivelato prima di allora, adducendo che ritennero lungamente essere il Pisano un matto, ma poi, udita la carcerazione del Campanella, doverono ritenere queste cose per vere e quindi subito le rivelarono. Ciò risulta tanto dagli Atti esistenti in Firenze, quanto dal processo ecclesiastico. Il Principe della Roccella, ricordatosi che fra Tommaso gli avea raccomandato il Pisano, scrisse una lettera a Carlo Spinelli, avvisandolo dell'intercessione del Campanella per Pisano, al quale avea parlato della congiura e naturalmente dovè partecipare ancora quanto gli era stato rivelato da' cinque prigionieri; ed accadde che costoro, al contrario di quanto si aspettavano, finirono dietro questa lettera per venire, unitamente col Pisano, sotto la giurisdizione dello Spinelli e Xarava, rimanendo a lungo, in qualità di presunti complici, carcerati ed anche straziati, come rilevasi dalle loro deposizioni e confessioni in tortura riferite negli Atti esistenti in Firenze. D'altro lato il Vescovo di Gerace, secondo lo stile del S.to Officio, non tardò un solo momento ad occuparsi della denunzia, inviando qual suo Delegato l'Abate Curiale de Curiali per prendere Informazione del fatto nelle carceri di Castelvetere: questa Informazione, composta degli esami di tutti e cinque i denunzianti, trovasi integralmente inserta nel 1.° volume del processo ecclesiastico ed è in data del 13 settembre, non mancando nemmeno nel suo esordio la notizia, in verità molto confusamente e scioccamente espressa, del trovarsi allora «preso del pari, fermamente carcerato e detenuto in detto castello, fra Tommaso Campanella». Non staremo a ripetere le eresie, in gran parte goffe, che si rivelarono in quella circostanza, tanto più che ne abbiamo dato qualche cenno a suo tempo, nel narrare la carcerazione del Pisano e i varii discorsi da lui tenuti nel carcere, e dovremo parlarne ancora a proposito degli ulteriori esami a' quali fu sottoposto nell'uno e nell'altro tribunale, dove ogni volta le ripetè; d'altronde un saggio de' principali esami dell'Informazione trovasi anche ne' Documenti che pubblichiamo. C'importa soltanto notare che in ispecie Felice Gagliardo depose avere il Pisano affermato che tutte quelle eresie gli erano state insegnate da fra Tommaso Campanella, dal Bitonto ed altri monaci, ed il resto de' denunzianti depose, insieme col Gagliardo, che il Messia Campanella, con armi, danari e gente molta, doveva assaltare il Regno, pigliare Stati e far nuove leggi.

Per tal modo le condizioni giuridiche del Campanella divenivano rapidamente assai tristi: gli Atti del processo ecclesiastico, la Dichiarazione scritta del Pizzoni, e quasi contemporaneamente le deposizioni unanimi de' compagni di carcere del Pisano, confutavano del tutto la Dichiarazione sua in quanto all'esser lui rimasto estraneo a' maneggi di congiura; del resto essa era stata già confutata in precedenza, e molto più seriamente, da alcune lettere trovate sulla persona di Claudio Crispo catturato appena qualche giorno dopo di lui. - Propriamente l'8 settembre il Crispo fu catturato da Gio. Geronimo Morano; non sappiamo né dove né come, ma sappiamo che al momento della cattura tentò di lacerare due lettere, e che il Morano se ne impossessò. Questo risulta da una relazione dello Spinelli al Vicerè trovata in Simancas, come pure dalle notizie riportate negli Atti esistenti in Firenze. Le lettere erano quelle delle quali abbiamo già tenuto conto parlando delle trattative di congiura, l'una di Maurizio, in data del 25 luglio, che diceva al Crispo essere lui, Maurizio, «l'istessa persona con fra Tomase», e l'altra del Campanella medesimo, in data degli 8 agosto, che gli diceva di «venire con qualche amico et particolarmente con Gio. Francesco d'Alisandria». Vedremo tra poco che un'altra lettera del Campanella al Crispo fu trovata in potere di fra Paolo della Grotteria quando costui fu preso, ed essa era ancor più compromettente; onde si scorge che la non partecipazione alla congiura, dichiarata dal Campanella, veniva giorno per giorno smentita anche da documenti autentici. Il Crispo fu tratto direttamente alle carceri di Squillace, e le lettere furono inserte nel processo.

Ma è necessario tornare al Visitatore e a fra Cornelio. Essi avevano proseguito a far carcerare frati, dando lettere di cattura a D. Carlo Ruffo ed agli altri Commissionati. Fin dal mese antecedente fra Cornelio avea fatta una perquisizione delle carte e corrispondenze epistolari di tutti que' frati che si sapeva essere conoscenti ed amici di fra Dionisio e del Campanella; in sèguito di tale perquisizione fu preso fra Vincenzo Rodino di S. Giorgio, Vicario di Tropea e zio di Cesare Pisano, essendosi trovata presso di lui una lettera di fra Dionisio del 21 luglio, con la quale gli raccomandava un frate, annunziandogli pure la presenza del Visitatore nella provincia e la liberazione di Cesare già avvenuta, come egli credeva, dietro le raccomandazioni sue e del Campanella; inoltre fu preso anche fra Alessandro di S. Giorgio lettore di Tropea, senza che risultino veramente chiari i motivi della sua cattura. Questi due frati vennero esaminati dopo il Pizzoni e il Lauriana, l'8 settembre; ma le loro relazioni con fra Dionisio, e più ancora col Campanella, erano tanto lontane, che appena poterono dar conto della opinione che essi ne avevano, e fu deliberato di non procedere oltre negli esami, «acciò non venissero a conoscere il modo d'interrogare in quella causa»; il giorno dopo furono quindi rilasciati entrambi, non senza però l'obbligo di presentarsi ad ogni richiesta, dando una idonea cauzione da prestarsi nelle mani del Vice-Duca di Monteleone, ossia D. Carlo Ruffo. Il Campanella disse poi, nella sua Difesa, che fra Cornelio ricevè per la liberazione di questi due frati D.i cento; è possibile che questa somma abbia rappresentata la cauzione, la quale forse non venne mai più restituita. - Ma furono presi ancora altri frati di molto maggiore importanza, i cui nomi erano stati profferti da' primi esaminati o da' primi rivelanti, cioè a dire fra Pietro di Stilo, fra Paolo della Grotteria, fra Pietro Ponzio, fra Giuseppe Bitonto; il solo fra Giuseppe Jatrinoli non fu preso, forse neanche cercato, e gli stessi Giudici che vennero dopo ne ignorarono sempre il motivo. Prima di tutti, fra Pietro di Stilo, come egli medesimo raccontò, fu preso il 7 settembre nel suo convento; lo stesso Carlo di Paola, che prese il Pizzoni e il Lauriana, unitamente con un Donato Antonio Mottola carcerò fra Pietro, come risulta dagli Atti esistenti in Firenze; e fra Pietro narrò pure di essere stato condotto dapprima alla Motta, poi alla Roccella e a Castelvetere, quindi a Monteleone, da ultimo a Squillace. Giunse a Squillace qualche giorno prima del Campanella; vedremo infatti che fu quivi esaminato dal Visitatore e fra Cornelio il giorno 13, poco prima che vi giungesse il Campanella col Petrolo, e venne rinchiuso nelle carceri dette «il Carbone», delle quali si fa parola anche in qualche documento esistente nel Grande Archivio. Non conosciamo propriamente perché fu condotto da Monteleone a Squillace; ma forse dovè esservi un ordine dello Spinelli in questo senso sia per tenere tutti i frati, ed anzi tutti gli ecclesiastici, meglio custoditi, sia per tenerli tutti riuniti e pronti ad essere inviati a Napoli, secondochè il Vicerè avea comandato. Quanto a fra Paolo della Grotteria, egli fu preso un po' più tardi nel suo convento di Grotteria da Ottavio Gagliardo, con questa particolarità importantissima, che sulla sua persona fu trovata una lettera del Campanella a Claudio Crispo, ed inoltre un libercolo manoscritto di segreti e «più cose di forfanterie, e tra le altre ci era per andare invisibile, et un altro capitolo per sciogliere l'huomeni e donne ligate», come pure per non confessare alla corda. La lettera del Campanella parrebbe che fosse appunto quella scritta a' primi di agosto, nella quale egli diceva che avrebbe desiderato parlare con gli amici e che per questo avrebbe voluto recarsi a Pizzoni, ma perché non gli era stato scritto che quelli erano venuti, se ne asteneva, e vi si sarebbe recato l'indomani laddove avesse saputo che fossero venuti, non convenendo mutare stanza senza certo disegno perché il mondo non pensi a male etc. (se n'è parlato a pag. 203-204): era una lettera che destava legittimi sospetti, e verosimilmente fra Paolo, cui si era dato l'incarico di recarla da Stilo a Pizzoni, non si curò o non potè aver modo di farla capitare al suo destino e non provvide nemmeno a farla scomparire; essa fu data allo Xarava ed inserta nel processo della congiura. Il libercolo manoscritto, contenendo cose superstiziose, fu mandato a D. Carlo Ruffo e da costui passato a fra Cornelio, il quale l'allegò al processo di eresia; fu molto notato in sèguito da taluni il trovarvisi un segreto per non confessare alla corda, ma non c'era da farne molto caso, mentre rappresenta una piccola parte di molte altre goffaggini, e la corda doveva allora temersi da chiunque, non dai soli frati né per la sola causa della congiura. Veniamo a fra Pietro Ponzio. Egli fu preso in Oppido, insieme col fratello Ferrante che sappiamo in ufficio di Vice-Conte o governatore di Oppido, per mano di Scipione e Marcello Silvestro e Pietro Paolo Salerno mandati da D. Carlo Ruffo, il quale poi gli disse essere stato catturato perché fratello di fra Dionisio; e veramente egli non aveva altre colpe che questa parentela ed un'affettuosa amicizia pel Campanella, ed intanto era stato fin da principio denunziato come uno de' tre frati che menavano innanzi la congiura. Inoltre fu preso anche fra Giuseppe Bitonto, e costui in circostanze degne di nota. Fuggito dal convento di Condeianni dove avea l'ufficio di Vicario, e portatosi in una vigna di Gio. Tommaso Campo suo zio, nelle vicinanze di S. Giorgio, egli si era nascosto in un pagliaio, vestito da secolare, fattasi radere la corona e crescere la barba, ed armatosi di fucile e di pugnale. Ottavio Gagliardo, con Muzio Barone e Gio. Domenico Rodino, lo presero in quel pagliaio, «armato di scoppettuolo di tre palmi et un pugnale, et a tempo lo volsero pigliare, volse rancare il pugnale», come si legge negli Atti esistenti in Firenze. Vedremo più in là i particolari anche degli abiti così del Bitonto, come del Campanella e del Petrolo, che furono i tre frati fin qui presi in veste secolare; vedremo dippiù essere stati presi pure alcuni altri frati, né soltanto Domenicani, ma questi furono di secondaria importanza, in numero anche più ristretto, e presi più tardi, sicchè non occorre parlarne in questo momento.

Ecco ora il sèguito delle deposizioni che il Visitatore e fra Cornelio raccolsero da taluni de' suddetti frati, giacchè non poterono esaminarli tutti. - Il 14 settembre, recatisi a Squillace, interrogarono dapprima fra Pietro di Stilo. Fra Pietro disse essere stato avvertito da molti secolari che avrebbe sofferto grandi travagli per causa del Campanella, ma non aver voluto fuggire perché sentivasi netto in coscienza, e dopo di avere esposte le sue antiche relazioni col Campanella, quanto all'opinione che ne avea, rispose di tenerlo «in alcune cose per bono et in alcune cose sceleratissimo» per quello che avea «sentito dire». Ma qui si mossero a sdegno gli Inquisitori: volevano che fra Pietro dichiarasse di aver udito dalla bocca del Campanella le cose che doveva esporre (senza ancora sapere quali esse fossero), e in fretta e furia ordinarono che venisse rinchiuso in un carcere criminale «più strettamente e più duramente». Si seppe in sèguito, quando egli venne in Napoli, che fu tenuto dieci giorni in una «fossa» o «trapasso» come allora si diceva, e di là fu fatto poi risalire di sopra «al Carbone»; si seppe pure che fin da' giorni precedenti, mentre era nella carcere della Motta e poi di Monteleone, gli erano state fatte minacce e lusinghe da D. Carlo Ruffo e dal Castellano Ottavio Gagliardo, come pure da fra Cornelio e dal Visitatore, il quale «pareva che dependesse da fra Cornelio», e segnatamente a Squillace costui lo facea condurre innanzi a' Giudici secolari e diceva loro «ve lo consegno per tre ore, fate di lui quel che vi piace», e poi lo lusingavano con la promessa di una immediata liberazione se avesse rivelato ciò che volevano, e gli assicuravano che il Pizzoni era stato già liberato perché avea parlato, e gli consigliavano di confessarsi perché l'indomani avrebbe avuto la ruota, e il Visitatore lo eccitava a deporre liberamente cose di S.to Officio perché a questo modo si poteva avere la remissione al foro ecclesiastico. Fu quindi più volte richiamato ed inutilmente interrogato tra le lusinghe e le minacce, senza che se ne fosse redatto il processo verbale. Ma come mai fra Pietro potè qualificare così prontamente il Campanella «in alcune cose sceleratissimo»? Passiamo sopra alla parola, che potè essere adoperata da fra Cornelio invece di qualche altra meno grave che fra Pietro ebbe a pronunziare; quanto alla sostanza, si venne poi a conoscere che nelle carceri di Monteleone egli ebbe modo di sapere qualche cosa dal Pizzoni, il quale gli dovè certamente dire di aver rivelato molte cose di eresia, giusta le sollecitazioni del Visitatore, per poter uscire dalle mani de' giudici secolari; egli dunque si metteva parimente in siffatta via (ma vedremo con quanta discrezione), se non che non poteva dichiarare di aver udito cose di eresia dalla bocca del Campanella, senza incorrere nella responsabilità di non averle rivelate alle Autorità competenti, tanto più che trovavasi Vicario del convento in cui il Campanella avea stanza. Ad ogni modo fra Pietro, il meno acceso, il più quieto tra tutti, seppe dare egli solo un certo esempio di fortezza, della quale si può intendere la misura considerando il terrore e la demoralizzazione generale: fino all'ultimo fra Cornelio ebbe a dirgli, «tu solo non puoi portare il carro, et si tu solo sarai pertinace, tu solo morirai», ed egli seppe resistere a tante pressioni.

Nel giorno medesimo gl'Inquisitori interrogarono fra Domenico Petrolo, e costui, secondo la natura sua, si mostrò in tutt'altro modo. Non appena giunto al cospetto del Visitatore egli si gittò a terra e disse, «Padre, non son degno di esser chiamato figlio tuo, ho peccato verso Dio, chiedo misericordia, poichè ho offeso Dio gravemente»; pure, dopo di aver dichiarato come era stato preso col Campanella in abito secolare, essendo fuggito insieme da Stilo perché fra Tommaso fidava molto in lui, non volle spiegare il motivo per lo quale il Campanella era fuggito; disse solo che la Corte era contro di lui e che fra Dionisio glie l'avea avvertito, ma negò di saperne il motivo. Ed allora gl'Inquisitori ordinarono, con la solita formola, che fosse ricondotto in carcere e custodito «più strettamente e più duramente»; ma egli li pregò che ripigliassero il suo esame, e subito ne venne fuori una deposizione la quale certamente conteneva un po' più di quello che egli poteva sapere. Affermò che la Corte era contro il Campanella, perché costui «era mal christiano et havea opinioni terribili et tentava rebellione». E poi enumerò le opinioni terribili: diceva parergli essere stato eletto da Dio per predicare la verità e togliere gli abusi della Chiesa di Dio, essere i Sacramenti per ragione di Stato, non trovarsi il corpo di Cristo nell'ostia consacrata, non doversi adorare il crocifisso, esser lecito il coito, non esser veri i miracoli di Cristo, come l'ecclissi al tempo della passione non che la resurrezione di Lazzaro, saper lui fare miracoli e volerli fare in conferma della propria dottrina quando predicherebbe; inoltre non esservi paradiso né inferno, essere l'autorità del Papa usurpata, non esservi Dio e la natura aver avuto il nome di Dio, non esservi Trinità, non doversi osservare il precetto dell'astinenza dal mangiar carne ne' giorni proibiti. Disse di aver udite tali cose dalla bocca del Campanella, che ne parlava ancor più liberamente quando si trovava in compagnia sua, di fra Pietro e di fra Dionisio, e spesso ne parlava pure in presenza de' secolari, tra' quali i più intrinseci erano Tiberio e Scipione Marullo, Fulvio Vua, Gio. Gregorio Prestinace, Giulio Contestabile, Geronimo di Francesco, Giulio Presterà, Francesco Vono, Fabrizio e Paolo Campanella, inoltre fra Scipione Politi Conventuale. Affermò ancora di ritenere che fra Dionisio credesse a quelle opinioni per certe parole dette in dispregio dell'ostia, e di sospettare ancora di fra Pietro di Stilo, perché una volta gli avea detto esser bene che ciascun frate pigliasse moglie, e lui sentirsi morire se non prendeva moglie. Quanto al Pizzoni, lo conosceva per amico intrinseco del Campanella, e sapeva che si scrivevano lettere in cifra le quali egli avea vedute, inoltre una volta que' due andarono insieme ad Arena, e per tutto ciò lo riteneva aderente alle opinioni del Campanella. Infine interrogato intorno alla mutazione di Stato che il Campanella procurava nella provincia, palesò la predica fatta da fra Tommaso intorno alle mutazioni da dover accadere nel 1600, e le profezie alle quali si appoggiava, e il disegno di mutare la provincia in repubblica servendosi della lingua e delle armi de' banditi e del Turco; aggiunse che non volea predicar solo, ma anche con altri, facendo gran capitale del Pizzoni, di fra Dionisio, di fra Pietro di Stilo, ed ancora di lui fra Domenico Petrolo! Aggiunse inoltre che avea mandato presso Morat Rais Maurizio, il quale avea trattato la venuta dell'armata ed avuti per questo albarani del Turco, siccome seppe allorchè stavano con fra Tommaso presso il Mesuraca; che fra Dionisio trattava di far ribellare Catanzaro e il Campanella Stilo con altri luoghi, e che non erano a sua conoscenza altri fuorusciti aderenti eccetto Maurizio, mentre de' frati sapeva che erano pure molto amici del Campanella fra Paolo della Grotteria, fra Giuseppe Jatrinoli e fra Giuseppe Bitonto. Al solito, ebbe in ultimo a dichiarare di non aver deposto per timore del carcere «ma per zelo della fede e di Dio». - Fu questa la deposizione del Petrolo, la quale abbiamo voluto riportare con una certa larghezza, perché associata alle precedenti del Pizzoni, del Soldaniero e del Lauriana, consolidò la base del processo ecclesiastico. Certamente è notevole la specchiata concordanza di tutte queste deposizioni; ma se da ciò si può inferire che la massa delle cose deposte dovè esser vera, si può anche inferire che vi dovè essere un solo suggeritore per tutti i deponenti. E qui si vede in modo non dubbio l'efficacia del suggeritore, poichè il Petrolo, avvilito, si lasciò condurre fino a nominare sè medesimo tra coloro i quali doveano predicare la libertà. Senza dubbio, specialmente dal lato dell'eresia, egli disse più di quanto conosceva: si seppe in sèguito che mentre era per rientrare in carcere dietro l'ordine dato dagl'Inquisitori, fra Cornelio lo ritirò da parte e gli lesse l'esame del Pizzoni, come pure che erano presenti al suo interrogatorio il Provinciale, l'Avvocato fiscale e il Capitano di campagna, e che non si scrisse precisamente così come egli rispose alle interrogazioni. Ma pur troppo l'esame da lui sottoscritto potè poi essere spiegato meglio in qualche punto, non già disdetto, anche perché in questo caso s'incorreva nell'imputazione di falsa testimonianza; e per tal modo rimaneva ognuno illaqueato senza via d'uscita. Del rimanente il Petrolo si fece sempre a negare la sua partecipazione all'eresia, dicendo, «in altro son grandissimo peccatore, ma contro la fede non ho peccato»; e in che dunque egli era peccatore, e per quale peccato egli chiedeva spontaneamente perdono agl'Inquisitori fin dal principio del suo esame? Tolta di mezzo la faccenda dell'eresia, non rimane altro che la faccenda della congiura.

Dopo il 14 settembre gl'Inquisitori sospesero le loro operazioni e non interrogarono il Campanella. Ignoriamo il motivo di questo fatto: forse volevano avere in precedenza la deposizione di fra Pietro di Stilo e sperarono di averla da un giorno all'altro, ma inutilmente; forse lo Spinelli, malgrado la buona corrispondenza degl'Inquisitori, ottenuta la Dichiarazione scritta dal Campanella, temè che questa potesse da un esame verbale riuscire invalidata in qualche punto, e vedremo che si diè invece ad insistere presso il Vicerè perché si venisse con lui a tortura senza perdita di tempo. Intanto il 17 settembre il Card.l di S.ta Severina inviava una lettera importantissima a fra Cornelio, con la quale, comunicandogli una deliberazione presa dalla Congregazione del S.to Officio dietro le lettere di lui intorno alle cose di Calabria, gli annunziava di avere scritto, per ordine di Sua Beatitudine, al Governatore della provincia ed a' Vescovi di Catanzaro e di Squillace, che procurassero con ogni diligenza la cattura del Campanella, di fra Dionisio ed altri suoi complici (s'ignorava in Roma a quel tempo trovarsi il Campanella già carcerato), con questa aggiunta, «et seguendo la carceratione del Campanella, la Santità Sua hà ordinato, che si faccia condurre in Napoli sicuramente in mano di Monsignor Nuntio, che poi appresso si deliberarà della persona sua». Gli significava inoltre che mandasse la copia delle informazioni prese circa le eresie, e che occorrendo di dover prendere altre informazioni lo facesse unitamente co' Vescovi de' luoghi ne' quali si aveva ad esaminare, con ogni «secretezza e diligenza»: Questa lettera insieme con due altre (sicuramente le lettere pe' due Vescovi) non giunse che il 2 ottobre a fra Cornelio, la cui residenza non era ben nota in Roma; con ogni probabilità giunse anche prima quella pel Governatore, e così lo Spinelli e fra Cornelio doverono conoscere la deliberazione di Roma avanti il 2 ottobre, restandone naturalmente ben poco contenti. Senza dubbio in Roma, dove si sapevano appieno gli odii feroci e le azioni delittuose de' frati Domenicani, massimamente di Calabria, non si era punto sicuri che tutto procedesse in regola, e si voleva una migliore guarentigia dell'onesto andamento delle Informazioni. Grande era difatti la cura che in ciò metteva il S.to Officio, almeno in Italia, dove le cose non procedevano come p. es. in Ispagna: possono ritenere il contrario soltanto coloro i quali non hanno alcuna conoscenza degli Atti di questo tribunale, che vuol'essere giudicato col confronto de' procedimenti de' tribunali laici in analoghe condizioni, vale a dire nel trattare de' delitti di lesa Maestà, mentre il concetto del S.to Officio era quello di trattare de' delitti di lesa Maestà Divina. Le lettere medesime scritte da fra Cornelio al P.e Generale e al Card.l di S.ta Severina doverono per la loro virulenza contribuire a mettere in sospetto la Sacra Congregazione; ed anche circa la faccenda della congiura si vide il Papa, mediante il Card.l Segretario di Stato Cinzio Aldobrandini, come già fin da principio (20 agosto), del pari e sempre più in sèguito (26 settembre), esigere che la causa dei frati e clerici imputati si facesse «per rispetti gravi più tosto in Napoli» con l'intervento del Nunzio, ricevendoli il Nunzio «come prigioni suoi». Ebbe dunque allora il Campanella un qualche aiuto dal S.to Officio e dalla Curia Romana: se non che fra Cornelio, solleticato pure dalla speranza d'ingrandirsi sulle miserie dei frati, non lasciò così facilmente la preda, ed attese al miglior modo di servirsi della licenza rimastagli di procedere ad altre Informazioni unitamente co' Vescovi. Non potè più interrogare il Campanella, il quale perciò non ebbe a trovarsi innanzi a Giudici se non quando venne condotto in Napoli; potè bensi travagliare ancora gli altri frati e perfino taluni clerici, aggravando sempre più le condizioni del Campanella e di fra Dionisio; ma dovè passare un po' di tempo, durante il quale vi fu una tregua nel processo ecclesiastico.

III. Facciamoci intanto a vedere le mosse ulteriori dello Spinelli. Conosciuta la cattura di fra Tommaso, con una sua lunga lettera in data 8 settembre egli annunciava al Vicerè di aver avuto già questo «capo principale della sedizione e un altro compagno suo della sua fazione e setta», oltre all'essersi assicurato subito della maggior parte di quelli che fra Dionisio avea nominati e i due primi rivelanti aveano atteso a scovrire per ordine dell'Avvocato fiscale; né era chiusa per anco la sua relazione, che poteva annunziare di più la consegna allora allora fattagli da Gio. Geronimo Morano di Claudio Crispo, in cui potere si erano trovate due lettere «che verificavano le altre tre avute da' primi rivelanti», con la speranza che gli confesserebbe molte cose essendo amico e compagno di Maurizio. Diceva essersi avuto fra Tommaso «per mezzo e diligenza» del Principe della Roccella «suo nipote» e di un vassallo di lui, al quale era stato promesso, secondochè pure avea promesso il detto Principe, il guiderdone per un servizio tanto segnalato. Ed essendosi raccolto che il Campanella non cercava di fuggirsene a Roma, mostravasi persuaso che nella congiura non c'era la volontà del Papa «come egli e fra Dionisio andavano pubblicando»; tuttavia affermava che se la congiura non fosse stata scoverta ed impedita in tempo, era per succederne molto danno. Mostrava anche di ritenere che S. E. avrebbe comandato di assicurarsi della persona di Mario del Tufo nominato dal Campanella, sebbene egli, lo Spinelli, non l'avesse «posto in iscritto», mentre pure gli veniva nominato da altra parte; e faceva inoltre notare che fra Dionisio aveva nominato a' rivelanti anche il Marchese di S.to Lucido, di cui Maurizio avrebbe avuto tre lettere. Quanto poi a' Vescovi non gli era riuscito di sapere nulla più di ciò che fra Dionisio aveva comunicato a' due rivelanti, eccetto alcune parole che il Vescovo di Mileto si era lasciato dire e che l'Avvocato fiscale avea già riferite a S. E. «non per anco poste in iscritto», ma da porsi «con molta brevità e in quella maniera» che S. E. avea ordinato (d'onde si vede che lo Xarava tenea del pari corrispondenza col Vicerè, e ne' punti più scabrosi procedevasi con grande riserva, prendendo parte il Vicerè medesimo alla formazione del processo); riferiva pure il braccio datogli dal Visitatore, e rivelava il merito di D. Carlo Ruffo suo «parente», che avea preso due frati della stessa setta (il Pizzoni e il Lauriana), e che aveva atteso ed attendeva a quel negozio con tanta diligenza ed accuratezza da sperare di raggiungere per mezzo suo buona parte dell'effetto di questo servizio, e per dargli più animo supplicava S. E. che restasse servita di scrivere tanto a lui quanto al Principe suo nipote, riconoscendo loro i servizii prestati (così questa volta egli cominciava senza ritardo a giustificare la qualità attribuitagli, in suos munificus). Faceva inoltre conoscere di aver inviato l'Avvocato fiscale per tradurre il Campanella da Castelvetere, e per assicurarsi, cammin facendo, de' parenti di lui e degli altri de' quali udirebbe il nome, avendo cominciato a dirli, «prima che se ne penta» (ciò che mostra lo Spinelli malizioso per lo meno quanto lo Xarava). Aggiungeva di aver fatto già trarre in arresto i denunzianti tardivi di Catanzaro e partecipava le buone speranze di avere nelle mani Maurizio e tutti gli altri, pe' molti provvedimenti e le molte intelligenze prese, manifestando che non si farebbe a promettere indulti, se non in caso di grande necessità e di segnalato servizio, quando non si potesse fare diversamente; ed offrendosi a dimandarli altri che non fossero inquisiti di tal delitto, per presentare quelli che lo fossero, lo concederebbe più facilmente «a fine di non indultare complici» (veggasi dunque se Maurizio poteva sperare un indulto). E dubitando che, dietro la cattura del Campanella, procurerebbero di mettersi in salvo molti che non si sapevano, «e potrebb'essere anche dei Vescovi stati nominati», avea posto nel mare di ponente due feluche, le quali scorrendo per quelle marine impedissero la fuga dei colpevoli (d'onde si vede che egli eccettuava appena il Papa, ma avrebbe voluto nelle sue mani tanto i Nobili che i Vescovi). Infine mandava a S. E. la lista di coloro che erano stati carcerati fino a quel momento. La lista comprendeva 34 persone d'ogni ceto; Nobili distinti, come il Barone di Cropani e Geronimo del Tufo; altri Nobili e particolari quasi tutti Catanzaresi, tra' quali due catturati in abito di pellegrini, quattro su' cinque denunzianti tardivi, compreso il Franza e con lui pure il Cordova, inoltre i due Moretti di Terranova (già studenti del Campanella) e Claudio Crispo fuoruscito; finalmente frati, il Pizzoni e il Lauriana carcerati in Monteleone, il Campanella e il Petrolo a quella data tuttora in Castelvetere. Evidentemente in circa dieci giorni si era fatto molto.

In sèguito, il 13 settembre, tradotto il Campanella col Petrolo a Squillace, ed avuta conoscenza della sua Dichiarazione scritta, egli cercò subito di sapere qualche altra cosa da lui; ma non vi riuscì, ed anzi ebbe a sentirsi negare che avesse nominato Mario del Tufo quale aderente alla congiura. Mandò allora al Vicerè, in data del 14, un'altra sua lettera, unendovi una copia della Dichiarazione del Campanella, e in pari tempo una 2.a copia dell'Informazione presa dal Visitatore e da fra Cornelio, per la quale risultava non solo comprovata la congiura, ma anche posta in luce la eresia; né si rimase dal profittare di quest'ultima circostanza, per tentare di far accrescere l'ingerenza del Governo contro i frati, che già erano quasi tutti in suo potere. Difatti, nella sua lettera, dopo di avere informato il Vicerè dell'arrivo del Campanella a Squillace, e dell'intento che avea di seminare e introdurre eresie, provato coll'Informazione presa dal Visitatore, «mercè il cui aiuto e buona corrispondenza si erano carcerati e si andavano carcerando gli altri frati compagni ed intrinseci del Campanella» (vale a dire fra Pietro di Stilo, fra Paolo della Grotteria, fra Pietro Ponzio), egli subito esprimeva la sua opinione, che contro di loro «sarebbe molto necessario potersi qui procedere a tortura, perché senza di essa non si potrà chiarire né provare il danno che il detto Campanella ha prodotto nelle genti di queste parti, persuadendo ed insegnando loro cose ed opinioni tanto abominevoli, secondo che egli credeva e cercava d'insinuare; e stando in quel concetto in cui i popoli lo tenevano, con tanto grande applauso e sèguito, si può per questo credere che abbia fatto qualche danno con la sua falsa dottrina, avendo in sì poco tempo ridotto tanti a sua devozione». Sottometteva quindi a S. E., che «si potrebbe procurare il braccio di Sua Santità o Inquisizione, per procedere qui come alcuni anni dietro si è fatto in Reggio e S.ta Agata, dove, essendo stata scoverta una certa setta di eresia, s'inviò il Dottor Panza, il quale coll'intervento di un Commissario Apostolico procedè all'estirpazione e gastigo degli eretici». Poi annunziava le altre catture fatte e le ulteriori notizie raccolte anche co' tormenti cominciati a darsi, i provvedimenti adottati in particolare contro Maurizio fuggiasco e qualche altro provvedimento da potersi adottare, ed oltracciò la comparsa de' primi legni turchi e poi di tutta l'armata nemica. - Le cose, come ben si vede, s'intralciano sempre più, in modo da non poterle narrare che partitamente, e serbando per quanto si può l'ordine dato ad esse dallo Spinelli nel riferirle.

Abbiamo visto che già agli 8 settembre vi erano 34 carcerati, e, fra essi, quattro su' cinque denunzianti tardivi; in sèguito fu preso anche l'altro. Francesco Striveri e Gio. Tommaso di Franza furono i primi ad essere catturati e vennero tradotti a Squillace con gli altri; Mario Flaccavento fu preso in Catanzaro, e così pure Gio. Battista Sanseverino, che stava già confinato in casa con pleggeria d'ordine dell'Audienza per altra causa; infine fu preso ancora Gio. Tommaso Striveri che si era nascosto, ma fu preso più tardi, dopo Gio. Paolo di Cordova, e può ritenersi per certo che tutti costoro furono tradotti del pari a Squillace. Come si legge nella relazione mandata dallo Spinelli il 14, fin allora si era assicurato degl'individui sospetti e nominati «così da fra Dionisio come dal Campanella», e tra essi aveva avuti quattro fuorusciti di quelli che andavano in compagnia loro e trattavano coi detti frati di far la massa di gente», a uno de' quali, trovato con lettere del Campanella, si era data la corda nella notte passata ed avea confessato. Questo tale si capisce facilmente che era Claudio Crispo; gli altri, come è manifesto dalla qualità indicata di accompagnatori de' frati, ed anche dall'ordine con cui si trovano nominati ne' folii del processo, dovevano essere: Cesare Mileri, che non sappiamo da chi fosse stato preso, Cesare Pisano, che non era veramente fuoruscito ma già colpito da cattura per reato comune, e che dovè perciò passare dalle carceri del Principe della Roccella a quelle del Governo, infine Gio. Tommaso Caccìa, che sappiamo essere stato preso da Giulio Soldaniero, il quale inaugurò con lui l'adempimento dell'obbligo assunto di presentare i congiurati per meritarsi l'indulto. Dippiù, come annunziava del pari lo Spinelli, erano stati carcerati tutti i parenti e gli amici stretti di Maurizio, perché, col timore della dimostrazione che si facea, si potesse avere qualche lume intorno a lui e prenderlo; si era per altro ricorso anche a' provvedimenti straordinarii di citarlo a comparire col termine di quattro giorni, entro i quali non presentandosi sarebbe stato dichiarato forgiudicato, traditore e ribelle a S. M.tà, e si sarebbe proceduto alla confisca de' beni, mentre al tempo stesso si era pubblicato Bando, che niuno gli desse ricetto ed aiuto, e tenendone notizia si dovesse farne rivelazione, imponendosi pena di morte naturale e confisca di beni a' contravventori. Per finirla intorno a' provvedimenti riputati opportuni, bisogna pure aggiungere che lo Spinelli faceva conoscere al Vicerè, avere D. Carlo Ruffo «scoverto da un frate carcerato nel Castello di Monteleone» che D. Lelio Orsini aveva inviato e teneva nella provincia di Basilicata un fra Gregorio di Nicastro, della stessa Religione e del partito e pratica del Campanella, che andava facendo l'ufficio medesimo dell'adunar gente in quella provincia, e per averlo nelle mani proponeva una Commissione contro fuorusciti al detto D. Carlo. Ma ricordiamo che il fatto si trova affermato nella Dichiarazione scritta dal Pizzoni, sicchè non fu scoverto da D. Carlo; è chiaro quindi che lo Spinelli voleva ad ogni modo, questa volta anche con la menzogna, procurare al suo parente un ufficio non di lieve importanza; e per quanto sappiamo il Vicerè non ne fece nulla, anche perché, come riferì il Residente di Venezia, avrebbe voluto dare una larga Commissione al proprio figliuolo D. Francesco de Castro.

Intanto il processo contro i laici già presi menavasi innanzi con la massima alacrità. Dicemmo che si ebbero dapprima, il 31 agosto, le deposizioni di Lauro e Biblia. Come è facile intendere, essi confermarono quanto aveano attestato nella denunzia, ma vi aggiunsero qualche altra notizia raccolta posteriormente. - Fabio di Lauro espose le cose dettegli da fra Dionisio, la riuscita dell'affare a motivo delle rivoluzioni e mutazioni previste dal Campanella pel 1600, onde tenevano castelli e fortezze a loro divozione, e i capi aveano dato al Campanella l'incarico di persuadere i popoli; e che il Campanella teneva tutte le lettere de' congiurati maggiori, e fra Dionisio mostrò la cifra con la quale si scriveano, come pure una lettera firmata da Maurizio e dal Campanella, con la quale gli dicevano di recarsi subito a Davoli, ove in fatti fra Dionisio si recò insieme con Cesare Mileri, come seppe dal vetturino che ricondusse i cavalli. Che inoltre Orazio Rania, fattosi intimo di lui e di Biblia, comunicò loro essere andato a Davoli col Franza e col Cordova per concertare la ribellione e poi a Stilo presso il Campanella, e che a' «5 del presente mese di agosto» Matteo Famareda, amico particolare di Maurizio e che l'avea tenuto in casa sua molti giorni, gli avea detto che Maurizio e il Campanella voleano riformare il mondo, e che Maurizio era andato sulle galere di Amurat Rais. - Gio. Battista Biblia espose egualmente le cose dette da fra Dionisio, i preparativi degli animi delle genti alla sollevazione affidati al Campanella e ad altri predicatori; dippiù le cose raccontategli dal Rania, l'andata di lui col Franza e col Cordova presso il Campanella per parlare di detto negozio, la precedente andata di Maurizio al Cicala sopra le galere di Amurat Rais, il salvacondotto ottenuto dal Cicala per Maurizio e il Campanella, la promessa di venire da quelle parti con 60 vele; infine ciò che fra Dionisio gli aveva ultimamente detto, l'andata di Francescantonio dell'Ioy con altri di Squillace, insieme con Maurizio, presso il Campanella. - L'uno e l'altro poi indicarono sempre fra Dionisio come colui che promulgava i pronostici e gli eccitamenti del Campanella, sollecitava a prendere le armi contro il Re per far la provincia repubblica, dava per certo il concorso di Signori e genti principali, e concludeva doversi in un giorno di settembre gridare libertà, perché sarebbero entrati in Catanzaro 200 fuorusciti, i quali avrebbero ammazzato gli Ufficiali del Re, scassinate le carceri, liberati i prigioni, armatili della munizione della Corte etc. etc. Sicuramente essi deposero molte altre cose, poichè a noi è pervenuto soltanto ciò che riusciva a carico del Campanella, di fra Dionisio e delle persone ecclesiastiche, circostanza che non si deve mai dimenticare, così per queste come per tutte le altre deposizioni. Sappiamo infatti, dal Carteggio Vicereale, che essi aveano raccolte e consegnate «tre lettere», sulle quali senza dubbio diedero spiegazioni; queste lettere doveano provenire da Maurizio, e il Campanella nella sua Narrazione non mancò di ricordarle, riducendole a due. Ma in fondo ben si vede che, all'infuori delle importanti notizie sul convegno di Davoli, le quali spargevano luce anche sull'uccisione del Rania, questi due rivelanti non aggiunsero molte cose, e scemarono enormemente le notizie esageratissime rivelate con la denunzia: basta dire che affermarono appena 200 uomini dover entrare in Catanzaro, mentre dapprima aveano rivelato che Maurizio ne comandava 2,000, né fecero più alcun cenno del Papa e de' Vescovi. Quest'ultima variante è molto notevole. Essa può spiegarsi con ciò che disse il Campanella nella Narrazione e poi nell'Informazione, che cioè «non poteano far verisimile il primo processo contro il Papa e i Prelati» (o, più propriamente, la prima dichiarazione contro il Papa e i Prelati), e che a' denunzianti lo Xarava «faceva mutare ogni giorno l'esamina a suo gusto»; ma può spiegarsi anche con ciò che trovasi accennato nel Carteggio Vicereale, che cioè tra le istruzioni date vi era quella di «notare a parte» o «non porre in scritto» nel processo quanto concerneva il Papa, i Vescovi e i Nobili napoletani di alto bordo.

Seguirono le deposizioni de' denunzianti tardivi, de' quali parrebbe essere stati esaminati soltanto Francesco Striveri e Gio. Tommaso di Franza, e dopo qualche giorno anche Gio. Tommaso Striveri. Tutti costoro, al pari di Lauro e Biblia, deposero di aver conosciuto per mezzo di fra Dionisio la sapienza, i pronostici e l'influenza del Campanella, e i progetti di lui e di Maurizio, come pure di essere stati sollecitati da fra Dionisio a prendervi parte; ma ciascuno aggiunse qualche cosa di più. - Francesco Striveri affermò che fra Dionisio gli avea mostrata una lista di Catanzaresi di valore, formata da Maurizio e dal Campanella e «ne nominò molti» (ma evidentemente il Campanella era qui messo innanzi a torto); inoltre affermò di aver saputo dal Franza l'andata di costui col Cordova e col Rania a Davoli, per vedere Maurizio e il Campanella; il quale disse loro volergli confidare un negozio di molta qualità ed importanza, e che avrebbe poi mandato fra Dionisio a chiarire ogni cosa, si fermò a ragionare a lungo col Rania, come fece anche Maurizio, e poi disse che Iddio li avea mandati là, dovendo confidargli un gran negozio come avrebbe loro manifestato fra Dionisio. Evidentemente costui si era messo d'accordo col Franza, il quale avea capito di non poter più nascondere l'andata a Davoli, dopo di averlo assolutamente taciuto nella denunzia; e ben si vede che raccontando le cose a quel modo, tutto si rovesciava sul Rania, il quale era morto, e si cercava mostrare che a Davoli non si era parlato di ribellione, essendo stato questo discorso riservato a fra Dionisio; ma chi vorrà credere che il Campanella, mentre faceva perfino intervenire Iddio nell'andata di quelle tre persone a Davoli, poichè dovea confidar loro un grave negozio, si rimetteva poi a farlo conoscere per mezzo di fra Dionisio? - Gio. Tommaso di Franza espose molto minutamente i particolari dell'andata a Davoli, ed importa anche a noi conoscerli bene, essendo stato questo uno dei principali argomenti su cui si fondò l'accusa contro il Campanella. Egli disse avergli fra Dionisio fatto sapere che il Campanella lo supplicava di dare ascolto a quanto mandava pregando e di rispondere maturamente, trattandosi di un negozio molto grande che dapprima gli sembrerebbe un poco agro, ed egli rispose «che si era cosa honorata e da farsi, l'haveria fatta»: ed allora fra Dionisio cominciò a parlare delle future guerre e romori del 1600, che il Campanella avea previsto per astrologia, aggiungendo questa volta le previsioni fatte nello stesso senso dal Marchese di Vigliena, «homo sapiente in le scientie sopranaturali». Egli quindi si recò a Davoli col Cordova e col Rania, e trovò nel monastero, presso Maurizio, il Campanella; il quale gli prese la mano e gli dimandò come se la passasse con le inimicizie di Catanzaro, ed egli rispose che stava travagliatissimo. «E fra Tomase cominciò ad essagerare, e dire: queste inimicitie forriano finite, si dal principio si fosse posto mano all'armi, et non se havesse proceso con la penna; e li domandò ancora che faceva il Governatore de la Provintia, et s'attendeva come l'altri ministri del Re à mal trattare li Popoli, et havendoli risposto, che per tutto era un paese, detto fra Tomase disse, queste cose dureranno molto poco, per che lo hò conosciuto per via d'Astrologia, e revelatione, che presto hanno da essere in questo Regno revolutioni infinite, e guerre, et circa di questo Io vi voglio comunicare un negotio di molta qualità et molto utile che pare che Iddio vi habbia portato cquà, perché per quando vi serà rivelato lo possiate fare, et da cquà à poco tempo per fra Dionisio vi mandarò a confidare il secreto dal quale cavarete grand'utile, e Mauritio de Rinaldo diceva ad esso deponente che volessero attendere alle parole del Padre fra Tomase, per che era negotio di gran qualità et servitio di Dio; et dopò fra Tomase si pigliò Oratio Rania et raggionaro più di due hore strettamente, e tra lo raggionare lo fra Tomase più volte abbracciò lo detto Oratio, mostrandoli grande amorevolezza, et à tempo si licentiaro, fra Tomase, et Mauritio l'incaricò molto, che facessero quello, che frà Dionisio l'havria detto». Fu questa la deposizione del Franza, ed abbiamo già manifestato il nostro giudizio sopra di essa, giudicando quella di Francesco Striveri.

Venne in sèguito la deposizione di Gio. Paolo di Cordova, e dopo di essa quella di Gio. Tommaso Striveri, il quale non si era potuto carcerare così presto. Il Cordova fu preso col suo fratello Muzio, e la sua deposizione non riuscì dissimile dalle precedenti. Egli disse che era andato a Davoli presso Maurizio, il quale gli era parente dal lato di sua madre: quivi il Campanella se lo chiamò da parte insieme col Franza, e cominciò a dire: «Iddio v'ha portati cquà perché intendiati da me un negotio ch'importa molto», ed esposte le previsioni sue pel 1600, e detto che «molti savii antichi hanno desiderato veder quest'anno», conchiuse che avrebbe loro mandato in Catanzaro fra Dionisio, il quale gli avrebbe dichiarato ogni cosa. Aggiunse inoltre il Cordova che dopo un 15 giorni (vale a dire il 23 agosto, circostanza probabilmente falsata) recatisi presso fra Dionisio, costui «li raccontò la congiura, dicendoli, che in detta congiura c'interveneva ancora lo Prencipe di Bisignano, lo Marchese di S.to Lucito, Geronimo dello Tufo, che havea promesso dare lo Castello di Squillace in potere delli congiurati, et che lo Turco, et altri potentati haveriano aggiutato, et che quando li parlò fra Tomase Campanella né esso deposante disse niente à lo Mauritio né lo Mauritio ne trattò con esso». Nemmeno qui ripeteremo il nostro giudizio su tale racconto: solo faremo avvertire che non vi si trova più citato il Rania, e ne vedremo tra poco la ragione; faremo avvertire inoltre, che costoro son tutti unanimi nell'affermare la profonda convinzione del Campanella intorno a' futuri mutamenti, e l'energica azione sua perché se ne traesse profitto. Intanto lo Spinelli e lo Xarava sottoposero il Cordova alla tortura, e così il Cordova fu il primo ad inaugurare la serie de' tormentati; ciò si desume da' medesimi Atti che si conservano in Firenze, e sino ad un certo punto anche dalla lettera dello Spinelli in data dei 14. né finirono qui le miserie del Cordova. Tra le altre cose ebbe a domandarglisi conto anche dell'uccisione del Rania: ma questo accadde un po' più tardi, quando, come si legge nella lettera dello Spinelli, si ebbe la testimonianza di una persona andata da parte di due imputati ad avvertire il Rania che fuggisse, con la circostanza poi verificatasi che il Rania si trovò morto non lungi da una possessione di costoro; e senza dubbio, in Catanzaro, solamente il Cordova ed il Franza potevano avere interesse di far tacere per sempre il Rania, che già avea parlato anche troppo col Biblia, ma probabilmente i due imputati furono i fratelli Cordova, Gio. Paolo e Muzio. Per Gio. Paolo c'è sicuramente in processo la deposizione di un Agazio Cormasio, il quale attestò di avere udito che Gio. Paolo, «dubitandosi che Oratio non l'havesse scoverto, procurò di farlo fuggire et ammazzare». A lui dunque si deve riferire ciò che lo Spinelli diceva, cioè che egli, prima della deposizione di questo testimone, avea avuta la corda pel negozio principale e non era stato confesso, e col detto del testimone e con altri ammennicoli che si andavano accumulando gli si tornerebbe a ripeterla. Così il Cordova nel negozio principale non era stato confesso, vale a dire che col tormento non avea dichiarato nulla di quanto gli s'imputava, ma avea persistito nella sua deposizione, secondochè ci risulta dagli Atti che si conservano in Firenze. Bisogna pure aggiungere che la corda gli fu data senza parsimonia, poichè da una deposizione del Di Francesco fatta più tardi in Napoli, nel tribunale per l'eresia, risulterebbe che gli fu data per non meno di sette ore: ma l'Avvocato che lo difese la disse di cinque ore, sebbene fosse stato scritto solamente di un'ora e mezzo, e ci fece pure sapere che il fratello Muzio fu egualmente «tormentato senza causa con cinque ore di corda et acqua» vale a dire acqua fredda sul corpo già prima sospeso e da sospendersi di nuovo alla corda.

Quanto a Gio. Tommaso Striveri, costui depose che il 22 agosto, essendo andato insieme col suo fratello Francesco e col Franza al monastero de' Domenicani per udir la Messa, trovarono là un monaco che gli cominciò a lodare grandemente il Campanella, e poi si pose a parlare in disparte dapprima col Franza e poco dopo con Francesco suo fratello; il quale in sèguito gli disse che quel monaco (fra Dionisio) gli avea parlato delle predizioni e profezie del Campanella, della prossima ribellione in tutti i suoi particolari; del trattato col Turco, e di tutti coloro che v'intervenivano, mostrando una lista di que' di Catanzaro. Evidentemente Gio. Tommaso si era messo d'accordo col fratello Gio. Francesco, e deponeva in tal guisa, per dar forza alla deposizione di lui e tirare indietro la persona propria: come mai, per una semplice notizia avuta dal fratello, egli si era compiaciuto di sottoscrivere la denunzia, la quale rivelava una sollecitazione diretta, e poi avea finito per nascondersi e sottrarsi ad ogni ricerca? - Dobbiamo qui notare che i documenti finoggi conosciuti ci dànno notizia delle deposizioni de' tre soli denunzianti tardivi soprannominati, e non mostrano punto che alcuno di loro sia stato sottoposto a tortura: si potrebbe dire che fossero stati tutti risparmiati, sapendosi da un lato che lo Spinelli gli avea perfino da principio lasciati liberi, e d'altro lato che non erano stati neanche tutti esaminati in Calabria secondochè affermò il Campanella nella sua Narrazione. Ma il Capialbi, in una nota a questo punto della Narrazione, asserì, che il Franza, il Flaccavento e Tommaso Striveri, ebbero la tortura; forse lo rilevò dalla Difesa del Cordova rimastaci ancora ignota, e se così accadde, bisogna riconoscere che, giuridicamente parlando, pel Franza e Gio. Tommaso Striveri la tortura sarebbe stata di piena regola.

È probabile che dopo queste sieno venute le deposizioni di Giulio Soldaniero, e quindi le altre di testimoni di minore importanza, secondochè si può argomentare dall'ordine di successione del numero de' folii processuali. Comunque sia, le deposizioni del Soldaniero si fanno notare per una grandissima parsimonia, mentre furono così abbondanti in Soriano alla presenza di fra Cornelio, e vedremo che tornarono ad essere abbondanti più tardi in Gerace, innanzi allo stesso fra Cornelio ed altri, di tal che si direbbe aver avuta solamente questo frate la virtù di svegliarne i ricordi. Egli non depose altro se non l'avere udito pubblicamente in Soriano, che Gio. Tommaso Caccìa con Francesco d'Alessandria, Marcantonio Contestabile, Giovanni di Filogasi, Claudio Crispo, il Campanella, fra Dionisio, fra Pietro di Stilo ed altri che non ricordava, verso la metà di luglio (i calabresi dicevano e dicono ancora «giugnetto») in numero di oltre 25 si erano riuniti nel convento di Pizzoni per concertare tra loro il modo di effettuare la rivolta. Il Mastrodatti non mancò di ricordare che, al momento di deporre, egli era «guidato» dal Sig. Carlo Spinelli.

Ma più grande importanza si annetteva dallo Spinelli alle confessioni di uno de' fuorusciti, «in potere del quale si erano trovate alcune lettere del Campanella concernenti la causa che trattavano», senza dubbio Claudio Crispo. Costui dovè essere quasi contemporaneamente esaminato e tormentato, poichè dalla relazione dello Spinelli risulta esserglisi data la corda nella notte del 13, vale a dire non appena lo Xarava ritornò a Squillace, traducendo seco il Campanella e il Petrolo. Fu allora, con gli Atti concernenti questi prigioni più importanti, cominciato il 2° volume del processo di Calabria, siccome mostrano le citazioni de' folii processuali: da' numeri d'ordine de' folii si vede che s'inserirono in questo volume dapprima gli Atti concernenti il Campanella, la sua cattura, la sua Dichiarazione etc., poi gli Atti concernenti il Crispo e così in sèguito quelli degli altri incolpati maggiori, il Mileri, il Gagliardo e compagni, il Pisani, il Caccìa, fino a fra Dionisio, a Maurizio e Gio. Battista Vitale presi assai più tardi; e il sèguito del 1° volume fu riserbato agl'incolpati minori, alle semplici testimonianze, alle rimanenti denunzie ed altri documenti che si ebbero mano mano. La deposizione e confessione del Crispo si trovano accennate negli Atti conservati in Firenze e nella lettera dello Spinelli più volte citata. Egli dovea rispondere innanzi tutto del significato delle due lettere trovate sulla sua persona al momento in cui fu preso, l'una di Maurizio, l'altra del Campanella (ved. pag. 284), alle quali vennero in sèguito ad aggiungersene due altre, la prima scrittagli egualmente da fra Tommaso e trovata sulla persona di fra Paolo della Grotteria, e di essa abbiamo pure già parlato più sopra (ved. pag. 286), la seconda scritta da lui medesimo a Geronimo Camarda, della quale abbiamo parimente parlato altrove, ma ci occorre ricordare che vi si diceva della congiura e della sicura vittoria nel mese di settembre, nominando fra Gio. Battista, fra Dionisio e il Campanella, salutando D. Gio. Battista Cortese e D. Gio. Andrea Milano, e conchiudendo «venghi in effetto quel che noi speramo». Il Crispo non potè non accettare che le due prime lettere erano state a lui dirette, come non potè negare che l'ultima lettera era stata scritta da lui e che il fra Gio. Battista in essa nominato era appunto il Pizzoni; non sappiamo poi ciò che disse intorno alla lettera scrittagli da fra Tommaso e non pervenuta al suo destino essendo rimasta presso fra Paolo, come del pari non sappiamo altro della deposizione da lui fatta, ma parrebbe che avesse affacciato scuse giudicate inverosimili, onde si venne immediatamente al «remedium juris et facti» come allora si diceva, cioè alla tortura. Gli Atti conservati in Firenze ci fanno sapere che nella tortura confessò di essere andato col Pizzoni a trovare il Campanella in Arena, presso il Marchese di Arena, e ritiratisi in una camera il Campanella gli comunicò la ribellione, ed egli promise di trovar gente, come infatti parlò al Caccìa e a Giovanni Morabito, e che questi erano i compagni a' quali il Campanella alludeva nella sua lettera; inoltre che per quanto si ricordava, allorchè il Campanella e il Pizzoni trattarono di detta ribellione c'era presente anche Marcantonio Contestabile, il quale partecipava alla congiura e venne poi anche a Pizzoni col Caccìa allorchè il Campanella vi si recò, e si parlò della congiura e il Campanella sollecitò «che si fosse presto posta in esecutione», e disse che Gio. Francesco d'Alessandria e Gio. Paolo Carnevale vi prendevano parte e che «in aggiuto di detta ribellione ci era il Prencipe di Bisignano et D. Lelio Ursino». Inoltre che il Campanella disse «come havea mandato Mauritio in Torchia à trattare con il Turco per far venire l'armata nel mese di settembre per che li voleva dare molte fortellezze in mano», e che Maurizio avea parlato a Cicala e che costui sarebbe venuto o avrebbe mandato l'armata, e per concludere questo fatto erano due volte venute le galere di Amurat. Non si ebbe dunque dal Crispo una deposizione sufficiente, e si ebbe invece una confessione in tortura molto larga. Lo Spinelli, nella sua lettera, narrando questa confessione non entrò in molti particolari; si limitò a riprodurre il modo in cui si era concepita la rivolta (il solito modo), aggiungendo che l'imputato era «convinto di essere stato sulle galere di Amurat»; ma ciò non risulta punto dal processo, e sembra che lo Spinelli abbia voluto fare impressione sull'animo del Vicerè, e suggellarvi la gravezza della congiura, dando per fatto oramai inconcusso la richiesta dell'aiuto del Turco. Intanto ci è pur troppo motivo di ritenere, che una parte delle cose confessate dal Crispo sia stata suggerita con le notizie degl'interrogatorii avuti da' frati Inquisitori, e ripetuta da quell'infelice per l'atrocità de' tormenti. Difatti egli avea potuto veramente conoscere perfino in Arena, prima che in Pizzoni, l'andata di Maurizio presso il Turco, ma non è facilmente credibile che avesse conosciuto essere stato Maurizio propriamente inviato dal Campanella a dirittura in Turchia, con la deliberazione di dare molte fortezze nelle mani del Turco; tanto meno poi è credibile che avesse udito propriamente dalla bocca del Campanella l'aiuto all'impresa da parte del Principe di Bisignano e di D. Lelio Orsini; e così può spiegarsi che in punto di morte «strillava al cielo» disdicendo le cose dette, come vedremo a suo tempo. Non conosciamo con particolarità in che modo gli sia stata amministrata la tortura, ma il Campanella, nella sua Difesa, a proposito di lui parlò di «horrenda tormenta non scripta», ciò che riesce pienamente credibile: ad ogni modo, oltre i documenti autentici da lui non negati, ci fu anche la confessione in tortura, laonde la sua sorte potea dirsi decisa. E qui non sarà inutile far notare che un sì pronto ricorso alla tortura, ed anche alla tortura più atroce, era pienamente ammesso trattandosi di delitti di lesa Maestà: ne' delitti comuni bisognava prima esaurire il processo informativo co' mezzi ordinarii, quindi mettere l'imputato «alla larga» (barbaramente dicevasi «reus debet poni ad largam») dandogli una copia degl'indizii raccolti contro di lui, e dopo tutto ciò potevasi venire alla tortura; ma ne' delitti di lesa Maestà era dovunque riconosciuto che la tortura potesse darsi durante il processo informativo, co' più lievi indizii e adoperando tormenti non nuovi ma atroci. Da quest'ultimo lato nel processo presente noi troviamo quasi sempre menzionata soltanto la corda, perché essa era, come dicevasi, la «regina tormentorum» e serviva di base a moltissime altre sevizie; difatti per alcuni imputati, anche di minor conto del Crispo, sappiamo che la durata di amministrazione della corda «non si misurò coll'ampollina», ma si prolungò per più e più ore, e che alla corda si unirono i ceppi a' piedi con la sospensione di grossi pesi, il bastone tra' piedi per mantenere gli arti inferiori allontanati l'uno dall'altro, l'aspersione di acqua fredda sul corpo nell'intermezzo della corda, ed inoltre la flagellazione durante la sospensione alla corda; né mancò qualche maniera di tormento del tutto eccezionale, come l'essere trascinato alla coda del cavallo per le strade della città, e poi anche in Napoli il così detto polledro, la così detta veglia, come vedremo per ciascun caso.

Dopo il Crispo venne la volta di Cesare Mileri; ma lo Spinelli non potè più attendere al processo, pel fatto importantissimo dell'arrivo dell'armata turca, preceduta da due legni di quella nazione che a modo di esploratori erano già da quattro giorni comparsi alla marina di Stilo. Lo Spinelli diè subito notizia al Vicerè della comparsa di questi legni e delle loro mosse, ma conosciuto l'arrivo dell'armata fu costretto a recarsi sul posto. E noi lo seguiremo nella sua escursione. Aggiungeremo soltanto che ne' giorni de' quali abbiamo trattato, essendo stati presi tutti i parenti e gl'intrinseci di Maurizio, dovè esser preso tra gli altri Tommaso Tirotta suo servitore, e dovè raccogliersene immediatamente la deposizione, che fu inserta nel volume 1° del processo, come quella di un ordinario testimone. Gli Atti esistenti in Firenze ne danno alcuni particolari. Egli depose che conosceva il Campanella e fra Dionisio, vedutisi con Maurizio in Stilo e in Davoli, che in Stilo il Campanella si vedeva con Maurizio nelle case di D. Gio. Jacovo Sabinis, Gio. Paolo Carnevale, Ottavio Sabinis, e in Davoli in casa di D. Marcantonio Pittella; narrò inoltre il convegno di Davoli nel castagneto presso il monastero di S.ta Maria del Trono con tutte le persone che v'intervennero, e che parlarono quattro o cinque ore, notando che in quella circostanza Maurizio mostrò al Campanella e a que' di Catanzaro una carta avuta da' turchi, la quale dicevano essere un salvacondotto, e un Pietro Jacovo Garzia disse che si poteva oramai andar sicuri perché si aveva il salvacondotto. Ma bisogna sempre tener presente che a noi è pervenuta soltanto la parte delle rivelazioni concernente le persone ecclesiastiche, e che quindi vi poterono essere, intorno a Maurizio ed al resto de' laici, molte altre rivelazioni le quali ci rimangono tuttora ignote.

Veniamo all'incidente dell'armata turca, che ben si comprende quanto riuscisse ad aggravare nella mente de' Giudici la colpabilità degl'imputati. Fin dal «venerdì 10 settembre due legni turchi vennero alla marina di S.ta Caterina e Guardavalle, dove le altre due volte aveano toccato quando Maurizio de Rinaldis salì sulle galere di Amurat Rais; non fecero essi questa volta altro che parlarsi, venendo l'uno dalla direzione del capo delle Colonne e l'altro dal capo di Bianco, e subito che giunsero alla marina di Guardavalle dove si riunirono, quello del capo delle Colonne tornò per la stessa via, e l'altro prese la via dell'alto mare ritornando nella seconda notte al luogo medesimo, dove fece fuoco dando segnale alla terra, poichè sperava di là qualche avviso». Nel riferire l'avvenimento, il 14 settembre, lo Spinelli manifestava la sua fondata supposizione che ciò fosse pel concerto che aveano fatto, «essendogli, allora che stava scrivendo, sopraggiunto dal Principe della Roccella suo nipote l'avviso dell'arrivo dell'armata in quelle parti». Oltre questa comunicazione del Principe della Roccella, ve ne fu un'altra del Marchese di Sorito, che dalle scritture esistenti nel Grande Archivio sappiamo essere allora D. Andrea Arduino, creato Marchese nel 1598: lo Spinelli l'annunziò al Vicerè con molto mistero e non ne sappiamo nulla, ma questo appunto c'induce a credere che si riferisse a quanto accadeva in terra ferma, e con ogni probabilità a fatti e detti del Vescovo di Mileto, nella cui diocesi era compreso, se non andiamo errati, il paesello detto Sorito, oggi distrutto dalla malaria. Ecco intanto le particolarità dell'arrivo dell'armata, le ulteriori sue mosse e le mosse dello Spinelli: le conosciamo da una lettera posteriore di costui (17 settembre) e da una relazione del Capitano Diego de Ayala che trovavasi di guarnigione a Reggio con la sua compagnia (16 settembre). L'armata comparve nella marina di Stilo il 13 settembre a 22 ore, e lo Spinelli, non appena avutane la nuova, lasciando i carcerati allo Xarava con buona guardia nel castello di Squillace, alla stessa ora del 14 mosse lungo la costa ed andò poi a fermarsi in Castelvetere; egli condusse con sè la Compagnia di cavalleggieri di D. Cesare d'Avalos, ridotta a 60 uomini, attesochè 28 di essi erano rimasti infermi nel presidio di Rende in Calabria citra, ed inoltre la Compagnia del Principe di Sulmona, per accudire a portar soccorso dove gli sembrasse necessario. Il 15, alla torre di Stilo sulla marina, ebbe a sapere che l'armata era comparsa il 13 a 20 miglia dalla costa, e che da essa si erano distaccate quattro galere ed erano venute verso terra, e di poi aveano posta in mare una barchetta facendo molti segnali, ciò che avea dato a capire a tutti che erano venute pel fatto della congiura; e non trovando alcuna corrispondenza, giacchè la più gran parte de' congiurati era stata presa e gli altri erano fuggiaschi, particolarmente per le guardie state messe in tutta la costa, si erano ritirate; l'armata nella notte del 15 avea salpato pel capo di Bianco, di dove si erano tornate ancora a mandare le dette quattro galere, le quali aveano fatti i medesimi segnali, confermando che erano venute per la detta causa e mostrando che facevano le ricerche medesime delle due galeotte apparse il venerdì 10; ed infine, non avendo potuto ricevere segnali da terra né prendere alcuno, le dette quattro galere erano andate ad unirsi alle altre che stavano aspettando al capo del Bianco, prendendo poi subito la direzione di Ragusa. Queste cose scriveva lo Spinelli al Vicerè, e senza dubbio la preoccupazione di un concerto tra l'armata e la costa avea potuto fargli travedere molte cose, ma anche soltanto l'essersi l'armata diretta dapprima alla marina di Stilo riusciva pur sempre assai notevole, benchè non fosse cosa nuova; ed egli non mancò di farne costare legalmente le mosse e i segnali, procurando dichiarazioni e deposizioni, che fin d'allora potè annunziare al Vicerè e che tutto induce a credere essere state quelle di Gio. Antonio Mesuraca, Paris Manfrè, Gio. Vittorio Nicosia e Vittorio Giacco, inserte poi nel 1.° volume del processo. Faceva contemporaneamente sapere che si andava tuttavia prendendo molta gente, e che oltre quelli de' quali avea mandata la lista ne' giorni passati, teneva presi altri 25 individui (sicchè in data del 17 c'erano già 59 carcerati). Infine diceva volersi rimanere in Castelvetere, essendo quel luogo sulla marina ove il più delle volte l'armata solea venire a far acqua, e lontano da Stilo otto miglia, mentre per la costa di Reggio si era provveduto in maniera che, oltre a quanto avea ordinato a D. Diego de Ayala, vi avrebbe atteso anche il Principe di Scilla suo parente, il quale sarebbe stato un soccorso molto buono.

L'armata pertanto, giusta la sua abitudine, il 14 settembre andava a dar fondo alla fossa di S. Giovanni; D. Diego de Ayala ne inviava subito avviso al Vicerè, e il 16 poi gli riferiva l'accaduto. Entrò nella fossa con 26 galere Reali, rimorchiando due navi Ragusee che avea prese all'uscita del canale e che andavano in levante con passaporto, e accordò riscatto di quattro mila ducati alla più grande restituendola come l'avea presa. Il 15, nel mattino, si spiccarono da essa due galere di fanale, con disegno di fare una ricognizione della muraglia di Reggio e mandare qualche spia a terra; venendo presso la muraglia, furono dal Castello tirati quattro colpi con un cannone ed un altro pezzo di rinforzo che là si aveva, e i colpi giunsero in molta vicinanza di esse, onde si posero bene al largo e si diressero verso la Madonna di Piedigrotta di Messina, dove, essendo al sicuro dalle galere di Spagna, presero una piccola nave carica di grano che stava in ormeggio, salvandosi a terra tutta la sua ciurma. Con questa preda tornarono all'armata, e subito, a 22 ore, giunsero altre quattro galere di più, essendo al numero di trenta; conchiusero poi anche il riscatto di questa nave, dandola per due mila ducati (così la Spagna proteggeva i suoi sudditi da' quali pure traeva somme incredibili). Ma due prigioni cristiani fuggirono dall'armata e palesarono a D. Diego molte cose. Uno di loro, molto esperto, disse che con l'armata erano venuti il Cicala, suo figlio ed Arnaut Memi, e che portavano cento pezzi co' loro carretti per menarli a terra, e molte scale ed altri arnesi, e che avevano in mente di prender Lipari o un luogo presso Cotrone denominato l'Isola, sebbene non si fosse tenuto consiglio fin dall'uscita da Costantinopoli; che si erano staccate da quell'armata nove galere, giacchè erano 39, con ordine di andare in cerca di quelle di Toscana per prenderle. L'altro prigione disse che l'armata non aspettava più il riscatto di quelle navi per uscire dalla fossa di S. Giovanni: ma non per questo il D'Ayala si teneva sicuro che non vi fosse il disegno di venire a Reggio, e diceva che sebbene fosse tanto scaduto e male andato per malattia, avea in questa occasione ricuperato tanto animo da poter attendere di persona a ciò che occorreva per la difesa di quella terra, in modo che s'imprometteva felice successo. Aggiungeva che nella marina si erano presi assai buoni provvedimenti, tanto da aver riuniti 400 cavalli con quelli della Compagnia del Principe di Scalèa, i quali scorrevano la terra giorno e notte con molta vigilanza, e c'erano 200 fanti, buona gente, in imboscata, acciò i turchi non si addentrassero nella terra fino a' poderi ed a' casali, perché era impossibile impedire la loro discesa a terra per fare acqua, avendola a un palmo dal mare in tutta quella marina, ed usando tenere le prode rivolte a terra e trarre continuamente cannonate. Aggiungeva ancora che il più gran numero di turchi spiccati a terra era stato di 500, e che gli dicevano tutti gl'individui di combattimento poter essere tremila e seicento, le quali cose egli andava a comunicare a Carlo Spinelli. - Certamente tutte le notizie date da que' prigioni Cristiani non potevano esser prese sul serio, tanto più che non una volta i Turchi si erano serviti di questo mezzo, per dare false indicazioni: il disegno d'impossessarsi di Lipari, ovvero dell'Isola, due punti opposti, era una indicazione per lo meno estremamente vaga, e sarebbe riuscito del tutto strano che lo scopo della spedizione fosse a conoscenza di chiunque si trovava a bordo; rimaneva quindi meno soggetta ad inganni soltanto la notizia palpabile e non indifferente del trovarsi sulla flotta molta artiglieria da campo e un buon numero di uomini destinati a combattere. Ma un'altra relazione di D. Diego de Ayala, dello stesso giorno, veniva a dar conto di una scaramuccia che si era avuta a terra tra 500 turchi e una truppa di soldati spagnuoli, tanto contesa da esservi stato bisogno di molti colpi di cannone delle galere per favorire la gente che si era partita da esse, onde si ebbero quattro turchi morti e molti feriti, un solo degli spagnuoli, e secondo la resistenza che loro si fece, D. Diego riteneva che si sarebbero tenute poche scaramucce. Egli faceva pure sapere che il Principe di Scilla era allora allora giunto in quel luogo con 600 uomini di soccorso tra fanti e cavalli, essendo tanto servitore di S. M.tà che in tutti gli anni in cui veniva l'armata egli dava soccorso alle terre senza recar loro spese, perché arrivava in una giornata da Scilla a Reggio, e comunque si trovasse in Sinopoli allorchè tenne avviso dell'armata, venne con grande diligenza; si profondeva quindi in elogi verso di lui. Da ultimo diceva che si era sempre più accertato, per mezzo di un altro cristiano allora venuto e fuggito dalle galere, esser vera la notizia già trasmessa a S. E. che l'armata portava cento cannoni co' carretti per menarli a terra, con scale e macchine, e di tutto andava a dare avviso a Carlo Spinelli.

Da parte sua lo Spinelli quattro giorni dopo, il 20 settembre, compiva le notizie dell'armata e ne significava le ulteriori mosse e la definitiva partenza. Le 30 galere, apparse il 13 al capo di Stilo, dalla costa di Bianco se n'andarono il 15 alla fossa di S. Giovanni, e furono allora viste da Reggio: i Sindaci gli diedero avviso che sull'annottare del 15 due feluche furono viste venire da Messina o da qualche luogo circonvicino ed unirsi con l'armata, senza sapersi da chi e per che causa erano state inviate (forse erano le solite corrispondenze che venivano al Cicala dalla sua casa paterna in Messina). La detta armata era stata sempre nella fossa, senza aver preso terra in nessun'altra parte; ed essendo i turchi usciti a far acqua, gli spagnuoli si pararono loro dinanzi, li maltrattarono facendoli ritirare, e presero un rinnegato, il quale confessò che il Cicala trasportava cento pezzi di artiglieria di ruota, tutti falconetti e con tutta la munizione di guerra, che gli esami e dichiarazioni di molti congiurati stati già presi confermavano doversi ripartire in que' castelli i quali essi doveano prendere e tenere. Secondo gli ordini dati alle torri e guardie della marina, a mezzanotte del 18 trasmisero avviso e ne fecero segnali per tutta la costa, che l'armata era partita dalla fossa e veniva verso la parte sua; per tale motivo egli montò a cavallo co' Principi di Scalèa e di Roccella suoi nipoti e si recò alla marina, dove avea fatto scendere sessanta cavalleggieri di D. Cesare d'Avalos e la Compagnia di Sulmona armata alla leggiera, e mettendoli in imboscata dietro certe siepi, stando al fiume Alaro dove molte volte l'armata era stata solita di far acqua, comparve la detta armata che veniva a terra, e come giunse proprio al fiume, tenendo vento favorevole, fece trinchetto e si spinse verso l'alto mare. Così egli uscì con tutta la cavalleria alla spiaggia, seguendola fino al capo di Stilo, e vedendo che tanto più avea presa la rotta di levante e mostrava di ritirarsi, ordinò a' 60 cavalleggieri di D. Cesare e alla Compagnia di Sulmona che andassero seguendola fino alla costa di Squillace, attesochè nella costa di Catanzaro, in Cutri, stava la Compagnia di Bisignano; ed oltracciò fece munire l'Isola co' soldati del Battaglione, che se per caso all'annottare chinasse al capo delle colonne, si trovasse gente da farle opposizione. Ma a suo parere, essendo stato a guardarla da una rupe fino alle 24 ore, egli considerò che si era ritirata in tutto e per tutto, giacchè la via da essa presa era quella di Cefalonia; e quando poi facesse cambiamento di rotta, egli teneva già i provvedimenti e dati gli ordini necessarii.

Per finirla intorno a quest'incidente dell'armata turca, aggiungiamo essere in sèguito pervenuto al Viceré avviso da Corfù, che il giorno 21 l'armata trovavasi di ritorno in Turchia a 30 miglia da quell'isola, e poi ancora un nuovo avviso che il 24 se ne trovava a 6 miglia, ed avendo là riscosso il donativo solito a darlesi si era diretta a Costantinopoli, dicendogli pure che il Cicala stava molto confuso del poco effetto avuto in Calabria e dell'essere stato trattato tanto male nella fossa di S. Giovanni. - Ma lasciando da parte questa pretesa confusione per una scaramuccia cui la vanità spagnuola dava tanta importanza, gioverà piuttosto cercare d'intendere come mai il Cicala avesse abbandonata così presto la partita in Calabria. Forse egli potè dapprima sospettare qualche inganno, non vedendo dalla costa alcuna corrispondenza a' segnali fatti quando giunse alla marina di Stilo; ma con la venuta delle due feluche alla fossa di S. Giovanni dovè conoscere il vero stato delle cose, la congiura scoverta, i congiurati presi o fuggiaschi, tutta la costa guernita di milizie, come ebbe pure a sperimentare con la scaramuccia avvenuta; ed allora dovè riflettere che l'opera sua sarebbe stata oramai non soltanto inutile ma dannosa, non potendo riuscire che ad una strage massimamente degl'infelici già presi. Il Campanella, nella sua Narrazione, dichiarando falsissima la venuta de' turchi d'accordo co' congiurati, mentre nella Dichiarazione avea pur troppo manifestato il contrario, scrisse che «ogni anno solean venir a far preda con l'armata e quell'anno non vennero, o non sbarcaro, come doveano s'era vero; e fu miracolo divino, perché haveano ordinato in Squillaci di strangular tutti li carcerati se li Turchi sbarcavano in terra». Non sappiamo veramente che quest'ordine vi sia stato, ma siamo inclinati a crederlo; solamente, senza fare intervenire il miracolo divino, ci pare che si possa bene ammettere la previdenza del Cicala. E vogliamo anche rettificare qui ciò che fu scritto dal Sagredo, il quale, oltre all'aver riferito inesattamente le trattative fatte da' congiurati co' turchi e la feroce repressione della congiura secondo le voci erronee che ne corsero a quel tempo, lasciandosi benanche trasportare da una certa antipatia verso il Cicala perché nemico di Venezia, asserì che costui «sotto pretesto d'haver trovato ben munite le marine negò l'appoggio a' ribelli... e fu al suo ritorno a Costantinopoli di ciò aggravato». Le nostre ricerche nell'Archivio Veneto ci hanno invece fatto vedere che la Porta non seppe nulla della congiura e dell'appoggio che il Cicala avrebbe dovuto darle, onde non gli si ebbe a movere alcun rimprovero per la sua condotta verso i congiurati calabresi; ma che veramente egli non avea recata «nessuna sodisfattione con la sua uscita di quest'anno», onde si sparse la voce che gli sarebbe stato tolto l'ufficio di Capitano del mare, la qual cosa poi non si verificò.

Ma è tempo oramai di vedere l'atteggiamento del Vicerè dietro le relazioni successivamente avute. Non appena gli fu partecipato che il Campanella era prigione, con la circostanza che nella sua fuga non avea presa la via di Roma, egli ne mandò subito la notizia a Madrid, insieme con la lettera dello Spinelli e la lista degl'individui catturati fino a quel momento. Compiaciuto che tra costoro vi fosse il Campanella «principale promotore di quella rivolta», con un compagno suo e dippiù con due altri frati dello stesso ordine, diceva essere stata gran fortuna l'aver preso il «capo di quella macchinazione» il quale l'avrebbe fatta conoscere interamente; e mostravasi egli pure persuaso, che dalla via nella quale si era messo il Campanella con la sua compagnia si scorgeva «quanto grande vigliaccheria era stata il mettere il Papa in quel ballo», poichè se ci avesse avuta qualche cosa, sarebbe andato a Roma e non già in Turchia, dove gli dicevano che si era diretto. Ma non ci è noto che avesse adottato il consiglio dello Spinelli di far carcerare in Napoli Mario del Tufo e di richiedere a Roma il Marchese di S.to Lucido; abbiamo invece ogni motivo di ritenere che non se ne fosse curato, giacchè per lo meno il Residente Veneto non avrebbe mancato di darne notizia. In sèguito, avendogli lo Spinelli mandato copia della Dichiarazione di fra Tommaso, col parere che si venisse subito a tortura ne' frati in Calabria, siccome altra volta si era fatto in materia di eresia, il Vicerè ne scrisse subito al Duca di Sessa e a D. Alonso Manrrique e partecipò tutto, comprese la copia della Dichiarazione del Campanella e la lettera dello Spinelli, a Madrid. Ordinò di procurare da S. S.tà che rimettesse a lui il gastigo de' frati di Calabria, «i quali non solo erano traditori, sibbene anche i maggiori eretici che si fossero mai visti»; e bisogna dire che egli si lusingasse troppo di avere ammaliata la Curia Pontificia con le sue proteste di devozione e di tenerezza, per poterle dirigere una dimanda simile. Inviando poi la Dichiarazione del Campanella a Madrid, mostrava di credere aversi proprio per quella a vedere come, nel modo che teneva, rivelasse con parole equivoche di essere eretico! E aggiungeva che «gli dicevano esser cosa orrenda le eresie le quali gli si provavano in un'Informazione presa coll'intervento del Visitatore del suo ordine», e che «grazie a Dio era stato impedito a tempo». Infine esprimeva il suo parere che il Cicala per questa volta se ne tornerebbe con la gola al posto suo, senza essere signore di Calabria come si pensava, se pure non cercasse d'investire qualche terra marittima, ciò che intendeva poter recare poco danno secondochè Carlo Spinelli gli avea scritto. Contemporaneamente, mercè un'altra lettera della stessa data, si faceva a raccomandare Lauro e Biblia, i quali continuavano a reclamare la ricompensa, e, come ci mostra il Carteggio Veneto, qualche settimana dopo si ricoverarono in Napoli. Egli avea loro assicurato che S. M.tà avrebbe data una ricompensa corrispondente al servizio fatto, ed essi allora gli scrivevano di supplicare S. M.tà che deliberasse di dar loro la ricompensa, giacchè per suo Real servizio aveano rinnegato i loro parenti ed amici, e si vedevano nella impossibilità di vivere in quella terra; e così egli supplicava S. M.tà dicendo che per certo meritavano una ricompensa, ma aggiungendo che avrebbe cercato di sapere da loro cosa pretendessero e ne avrebbe dato conto (ottimo modo per pigliar tempo e mostrarsi zelante così con quegli scellerati come con S. M.tà). Ancora, allorchè gli giunsero le lettere del Capitano De Ayala e dello stesso Spinelli sull'arrivo e sulle mosse dell'armata turca, le inviava senz'altro a Madrid; e supplicava S. M.tà di ordinare che si scrivesse al Principe di Scilla, che aveva atteso subito a soccorrere co' 600 uomini di fanteria e cavalleria, e così pure al Principe di Scalèa, riconoscendo il loro ben servito in quella occasione. E finalmente, con un'altra sua lettera, inviava la relazione dello Spinelli intorno alla partenza dell'armata turca, con una seconda relazione della quale parleremo tra poco, notando come al nemico fosse accaduto il rovescio de' disegni che avea concepiti, mentre si restituiva a casa sua con tanto poca riputazione, ed aggiungendo di avere pur allora avuto avviso da Corfù che il 21 settembre il Cicala era comparso con la sua armata a 30 miglia da quell'isola in ritorno alle sue coste. Partecipava inoltre che S. S.tà gli avea concesso di «poter dare la corda a' frati e clerici catturati per quella rivoluzione, con l'intervento del Nunzio», e però egli avea subito spedito un corriere a Carlo Spinelli, perché li mandasse a Napoli con persona prudente e di confidenza. - Ben si vede come fin d'allora fosse stato dato ordine che i prigioni ecclesiastici venissero spediti a Napoli; ma per loro disgrazia l'ordine non potè essere eseguito così presto, poichè, come vedremo, non si credè opportuno servirsi della via di terra e dovè aspettarsi che le galere fossero disponibili per servirsi della via di mare: quanto poi alla licenza avuta dal Papa di dar la corda a quegli ecclesiastici, bisogna in siffatte parole riconoscere un'altra di quelle piccole vanterie delle quali gli spagnuoli si dilettavano molto. La lettera del Card.l S. Giorgio al Nunzio, la quale tratta dell'incidente, mostra che il Vicerè, adottando precisamente il parere dello Spinelli, avea dimandato che s'inviasse un Commissario per conto della Chiesa al luogo in cui gli ecclesiastici prigioni erano custoditi, perché intervenisse «agli essamini et à tutti gli atti» che si farebbero, e per rendere meno ingrata la domanda avea detto che quel Commissario poteva essere spedito dal Nunzio e rappresentare il Nunzio: ma S. S.tà avea fatto sentire all'Agente di S. E. che i prigioni ecclesiastici doveano condursi a Napoli, essendo parso che per rispetti gravi la causa si facesse piuttosto in Napoli con la presenza del Nunzio addirittura; e comandava al Nunzio di ricevere i prigioni, quando verrebbero a Napoli, come prigioni suoi, e di attendere alla causa con tutta la diligenza necessaria, mentre d'altro lato i Ministri del S.to Officio interverrebbero nella parte dell'esame concernente l'eresia. La stessa lettera ci mostra pure che il Vicerè, al tempo medesimo, si era doluto con S. S.tà del Vescovo di Mileto perché proteggeva i fuorusciti e si comportava poco bene con parole e con fatti; inoltre avea dimandata l'assoluzione dalla scomunica che quel Vescovo avea lanciata contro il Principe di Scilla ed altri (vale a dire D. Fabrizio Poerio e D. Luise Xarava), essendo stato restituito alla Chiesa quel Marcantonio Capito che avea dato occasione alla scomunica, ed il Papa comandava al Nunzio di far venire il Vescovo in Napoli, prendere informazioni e riferire, poichè intendeva soddisfare S. E. su questi due punti.

Avendo il Vicerè mandate non poche lettere e relazioni a Madrid, potrebbe credersi che di là fossero venuti a quest'ora ordini e provvedimenti: nulla di tutto ciò; appena nel mese successivo venne una lettera di S. M.tà in risposta a quante ne erano state fin allora mandate, e però non accade dovercene pel momento occupare. Frattanto in Napoli si erano già cominciate a divulgare le notizie di Calabria; il Vicerè medesimo, smesso il segreto, ne avea discorso con gli Agenti degli altri Stati accreditati presso la sua persona, come sappiamo da' Carteggi dell'Agente di Toscana e del Residente di Venezia. Abbiamo già avuta occasione di parlare di Giulio Battaglino Agente di Toscana, napoletano e prete, attaccatissimo  al Gran Duca per servitù di vecchia data. Egli trovavasi in cordiali relazioni col Vicerè e con la Viceregina, avendoli accompagnati nella loro venuta da Spagna, dove si era temporaneamente ma inutilmente portato dietro ordine del Gran Duca, per cercare di ottenergli dal nuovo Sovrano Filippo III un miglioramento di titolo per parte de' Ministri Regii, che gli davano semplicemente l'Eccellenza: specialmente era ben visto dalla Viceregina, per la quale, già da che stava in Ispagna, avea fatto venire dal Gran Duca una delle solite cassette degli olii ed un quadretto, né cessò mai più dal far venire e vetri e bambocci di Lucca, e poi cappelli di paglia, e poi un fucile, poichè la Viceregina si dilettava pure di caccia, e tra le ville, che insieme col Vicerè onorava, c'era anche quella del Battaglino posta sull'alto di Posilipo. Basterà dire che potè scrivere al Gran Duca: «queste Ecc.ze mi amano et mi tengono in assai buona opinione, confidano loro negotii, et mi ammette la Sig.ra Contessa particolarmente padrona del marito (scritto in cifra) a' trattenimenti del giocar seco alla primiera»; inoltre, «la Sig.ra Vice Reina mi chiama come creato di casa etiandio mentre la stà a letto». Con una simile qualità egli nelle sue lettere riesce molto esatto, ma è più che sobrio ed aggiunge poco o nulla alle cose che conosciamo mediante il Carteggio Vicereale; con la qualità di prete poi egli dà prova perfino di lepidezza, quando fa intravvedere che il Campanella sarà bruciato vivo come eretico. Il 21 settembre egli ebbe dal Vicerè «pieno ragguaglio delle cose di Calabria», e non mancò di far venire dal Gran Duca lettere di congratulazione per la «scoverta et insieme oppressa congiura». Quanto al Residente di Venezia, occupava allora tale ufficio Gio. Carlo Scaramelli, venuto in Napoli nel luglio 1597, già vecchio in diplomazia avendo funzionato da Segretario pure in Costantinopoli, e quindi da lungo tempo consapevole de' malanni e delle miserie de' calabresi, de' quali in Costantinopoli si trovava una colonia. Assai più diffuso del Battaglino, nelle sue lettere egli scriveva quanto poteva raccogliere da ogni parte, e quindi scriveva anche parecchie frottole le quali dovevano allora aver corso nella città, ciò che ha pure il suo lato importante. Così rilevasi che fin dalla 2a settimana di settembre già era penetrata in Napoli la notizia della scoperta della congiura, la quale riferivasi a Catanzaro, promossa dal Campanella, in relazione col Turco che avrebbe dovuto occupare Stilo! Ma il 21 settembre veramente il Vicerè gli comunicò varii particolari, in ispecie quelli relativi alle mosse dell'armata turca, ed egli non mancò mai d'innestare alle notizie autentiche quelle di piazza, come l'essere stato il Campanella preso in abito militare etc. etc. Noi non intendiamo qui fermarci sulle lettere del Residente per ismentire le voci inesatte che vi si trovano raccolte: ci basterà avervi notato il curioso miscuglio delle notizie di piazza e delle notizie di Corte, miscuglio che si vedrà continuato anche in sèguito, nello svolgimento de' processi e nelle rassegne delle esecuzioni. Ma dobbiamo per ora far avvertire questo fatto, che sebbene, da buon veneziano, dovesse essere inclinato a ritenere la Spagna maestra di artificii ed inganni anche ferocissimi, così all'estero come all'interno, egli non pose mai in dubbio la congiura, né allora né in sèguito; solamente più tardi raccolse anche l'opinione manifestata da molti, che coloro i quali aveano da principio maneggiato tale negozio, l'avessero aggrandito in voce per aggrandire loro stessi in effetti, ciò che è avvenuto realmente sempre in ogni negozio di questo genere e non vale ad infermarne l'essenza. Aggiungiamo che le date e le notizie medesime, con poche varianti, si riscontrano anche negli Avvisi del tempo, che i lettori potranno consultare tra' nostri Documenti; vogliamo soltanto notarvi, che al pari delle lettere del Residente Veneto, essi diedero anche i nomi di taluni congiurati perfino di secondo rango. Oltre fra Dionisio Ponzio e Maurizio de Rinaldis, le lettere del Residente fecero conoscere Claudio Crispo di Pizzoni e Cesare Mileri di Nicastro; e gli Avvisi fecero conoscere il Barone di Cropani e Muzio Susanna di Catanzaro. Ma ci conviene tornare oramai a Carlo Spinelli, allo Xarava e agl'infelici prigioni calabresi.

Stava ancora lo Spinelli in Castelvetere, quando furono presi in Stilo e condotti a lui Giulio Contestabile ed un altro (certamente Geronimo di Francesco); immediatamente, il 28 settembre, egli ne fece relazione al Vicerè. In questa seconda relazione, scritta da Castelvetere, rammentava che per altre cause avea inviato in alloggiamento a Stilo la Compagnia di D. Antonio Manrrique, e faceva sapere di aver data a costui una nota di alcune persone che con dissimulazione e tempo avrebbe dovuto catturare, particolarmente un Giulio Contestabile clerico ne' quattr'ordini sacri, intorno al quale diceva: «mi sarei recato fino a Costantinopoli per prenderlo, se avessi saputo di certo che là si fosse trovato» (onde si vede che alle così dette spagnolate partecipavano già molto bene anche i napoletani), «essendo questo clerico uno de' più vigliacchi e de' principali nella congiura, così come fra Tommaso Campanella, per quello che tengo provato contro di lui, come pure per avere questo vigliacco preso il ritratto del Re Nostro Signore e postolo sotto i suoi piedi, dicendogli mille ingiurie come sta provato». Ora D. Antonio avea colto ad un tempo costui ed anche l'altro parimente congiurato, e trovandosi il Contestabile clerico e soggetto del Vescovo di Squillace, egli aspettava l'ordine di S. E., per sapere cosa avesse a fare di lui, e se S. E. comandasse d'inviarlo insieme co' frati, perché così avrebbe eseguito; e frattanto faceva sapere che avrebbe tradotto que' prigioni a Squillace con gli altri, recandosi là tra giorni. Aggiungeva che in conformità degli ordini avuti per far prendere i clerici di Seminara, colpevoli di resistenza alla giustizia e di ripresa di carcerati dalle mani di essa, avea provveduto in guisa che, essendo presi, li consegnerebbe in nome di S. E. al Vescovo di Mileto; e a tale proposito diceva, «questi clerici vanno armati di ogni specie d'armi, e sempre stanno nelle Chiese con altri fuorusciti favorendosi vicendevolmente, ciò che questi Vescovi permettono, e temo che la maggior parte delle vigliaccherie che si fanno sieno imputabili a' clerici, propriamente perché non vengono gastigati e sono di esempio agli altri». - Ma come mai era avvenuto un simile cambiamento verso il Contestabile e il Di Francesco? Il Campanella non ne parlò nella sua Narrazione, tuttavia ne abbiamo notizie sufficienti negli Atti giudiziarii che si conservano in Firenze, e non ne manca qualche cenno anche nel processo di eresia. Sappiamo che dopo la denunzia del Contestabile e la richiesta di una Commissione al Di Francesco contro il Campanella e complici, la Commissione fu accordata: entrambi si diedero alla ricerca degl'incolpati, e come assai più tardi ebbe a dire fra Pietro di Stilo nel processo di eresia, entrambi cercarono di far pigliare Gio. Geronimo Prestinace morto o vivo; quanto poi al Campanella, come ci mostrano gli Atti di Firenze, essendo stato lui già preso, ne furono dal Di Francesco carcerati i parenti. Abbiamo visto che il Campanella si mostrò esasperato contro di loro fin dal momento della sua cattura, e che nello scrivere la sua Dichiarazione calcò la mano particolarmente sul Contestabile e il Di Francesco, esponendo fra le altre cose l'oltraggio fatto da Giulio al ritratto del Re; ma in sèguito, e forse nel sapere che il suo vecchio padre e il suo fratello Gio. Pietro erano venuti nelle stesse carceri di Squillace per mano di que' ribaldi, egli diede contro il Contestabile una formale denunzia o «capi in scriptis» come allora si diceva; ed anche il Petrolo diede una Dichiarazione scritta nello stesso senso, che trovasi integralmente inserta nella Difesa del Contestabile, e che poi in Napoli disse di avere scritta ad istigazione del Campanella. Si trattava sempre dell'oltraggio fatto dal Contestabile al ritratto del Re Filippo nella camera di fra Tommaso, e non vi fu nemmeno una completa uniformità nella esposizione delle circostanze occorse da parte di entrambi i rivelanti, senza dubbio perché non ebbero agio di ridursele bene a memoria tra loro. Ad ogni modo ne risultò la cattura di lui e del Di Francesco, mentre non si era per anco compita l'informazione commessa all'Auditore Di Lega su i capi che il Contestabile avea dato contro il Campanella, e condotti dapprima a Castelvetere, tra il 22 e il 23 settembre, vennero anch'essi nelle carceri di Squillace al sèguito di Carlo Spinelli.

A Squillace intanto lo Xarava non era rimasto inoperoso. Tutto induce a ritenere aver lui, anche da solo, atteso a continuare gl'interrogatorii e le torture: poichè dalla numerazione de' folii del volume 2.° del processo veniamo a conoscere che, dopo Claudio Crispo, furono successivamente esaminati Cesare Mileri e diversi testimoni, il Gagliardo, il Conia, il Marrapodi, l'Adimari, e poi il Pisano, e vedremo che in una relazione dello stesso Xarava, del 28 settembre, è citata una deposizione del Pisano, la quale, trovandosi integralmente riportata in copia nel processo d'eresia, mostra essere stata fatta il 24 settembre alla presenza del solo Xarava; oltracciò anche nella relazione predetta è annunziata l'esecuzione capitale di due disgraziati avvenuta il 27, ed è scusato il ritardo nella spedizione de' rimanenti con l'assenza dello Spinelli e con la malattia e morte del Mastrodatti, onde si era mandato a chiamare un altro che lo sostituisse. Calcolando tutte queste circostanze e tenendo presenti le date, bisogna conchiudere che lo Xarava abbia agito egli solo, mentre lo Spinelli era occupato a guardare le mosse dell'armata turca, e che poi, menati a termine gli Atti, lo Spinelli sia intervenuto nella spedizione, ossia nella pronunzia della condanna di coloro pe' quali non rimaneva a far altro. Ecco ora i risultamenti degli esami per ciascuno de' soprannominati, giusta i cenni che se ne hanno negli Atti conservati in Firenze.

Cesare Mileri depose essergli stato detto da fra Dionisio che avea concertato con fra Tommaso e Maurizio una congiura per ribellare il Regno, che per questo aveano l'aiuto del Turco, che intendevano d'impadronirsi di molte terre, che «il capo di detta congiura era D. Lelio Ursino il quale si voleva impatronire di tutto il Regno», che a tale effetto aveano concertato di fare una massa di fuorusciti ed altre genti, ed in ogni terra tenevano molti congiurati «preparati pel momento in cui giungesse l'armata del Turco»; che fra Tommaso diceva dovere questo Regno nel 1600 mutare padrone e dovervi essere gran rivolture, che egli si offerse di stare in ordine con altri congiurati e di trovare altri compagni; che dopo andò a vedere Francesco Antonio Dell'Ioy amico suo e gli comunicò la congiura, e costui gli disse che stava in ordine poichè fra Dionisio già glie l'avea comunicata, e parimente Gio. Francesco di Nuzzi gli disse lo stesso. Aggiunse che tanto fra Dionisio quanto il Dell'Ioy dicevano essere in quel concerto molti fuorusciti ed altra gente di qualità di quella provincia, ed egli lo sapeva, perché da giugno in poi, sino a che fra Dionisio si pose in fuga, egli l'accompagnò in alcune terre, in Catanzaro, in Girifalco, in Nicastro ed altre, nelle quali fra Dionisio parlava segretamente con diverse persone e poi gli diceva che quelle persone dovevano prender parte alla rivolta. Aggiunse ancora essergli stato detto da fra Dionisio, che egli medesimo e il Campanella avevano mandato in Turchia a trattare col Turco acciò fosse venuto in soccorso «volendogli dare molte fortellezze e terre in potere», e che a tale effetto nel mese di giugno era venuto Amurat Rais con le galere per conchiudere la ribellione, e su quelle galere era andato Maurizio de Rinaldis ed avea conchiuso che l'armata fosse venuta in settembre; che egli, il Mileri, con quelli da lui nominati «e tutti gli altri che erano concorsi», aveano concertato che alla venuta dell'armata turchesca sarebbero entrati nelle terre, avrebbero ammazzato tutti gli Ufficiali e coloro i quali ricusavano di aderire, e avrebbero dato aiuto all'armata turchesca «acciò fusse entrata dentro dette provintie et impatronitasi delle terre con fortellezze». Infine, interrogato sulla causa della ribellione, depose che «fra dionisio, quando li cominciò à ragionare di questa rebellione, li disse, che il Rè era uno tiranno et mandava tanti alloggiamenti, et li facea pagare pagamenti fiscali et non l'havea voluto mandare l'indulto, e li tenea cossì oppressati, e perciò li persuase si fusse rebellato perché saria vissuto liberamente et senza tanti travagli, et esso deposante si contentò ribellarsi per vivere liberamente senza essere soggetto alla Corte, et aspettava la giornata che si havea da fare». Fu questa la deposizione del Mileri, ed essa mostra che questo giovane senza esperienza, il quale certamente non era stato fatto consapevole di molte particolarità sulla congiura, dovè non solo perdersi di animo, ma anche concepire grandi speranze di potersi salvare prestandosi alle più estese rivelazioni. Dopo che ebbe deposto, gli fu amministrata la tortura, durante la quale confermò ogni cosa, ma rettificò ciò che concerneva Gio. Francesco Nuzzi, dicendo che non era intervenuto nel trattato. È lecito credere che non dovè sottostare ad una grossa tortura, poichè evidentemente avea rivelato anche troppe cose, e in quanto a sè medesimo avea confessato nel più ampio modo: la tortura dovè essergli amministrata, come allora si diceva, «ad tollendam omnem maculam et ad afficiendos complices», e riesce senza dubbio notevolissimo che in essa egli ebbe piuttosto a diminuire le rivelazioni fatte. Circa poi il merito di queste rivelazioni, non può non colpire che mentre aveva accompagnato fra Dionisio per diverse terre e vistolo confabulare con parecchi, non fosse giunto a conoscere il nome di alcuno, neppure delle persone di Nicastro sua città natale, oltrechè, impegnatosi a trovar socii, in tanto tempo non avesse saputo trovare che il solo Dell'Ioy; e frattanto diceva essersi «concertato con tutti gli altri che erano concorsi» e con costoro dover fare la rivolta ed aiutare l'armata turca, per darle le terre e le fortezze, come ripeteva più volte. Si può facilmente qui vedere la sollecitazione dello Xarava, che con ogni probabilità dovè perfidamente lusingare l'ingenuo cospiratore, e co' suoi interrogatorii suggerirgli quanto volle che egli deponesse. Il Mileri avea ben potuto conoscere che c'era un progetto di rivolta e decidersi a prendervi parte; forse avea potuto anche udire da fra Dionisio le mutazioni previste dal Campanella, poniamo anche doversi avere l'aiuto del Turco, e perfino dover essere D. Lelio Orsini il futuro padrone del Regno, perocchè fra Dionisio si era già posto in via di dirne d'ogni specie per eccitare gli animi: ma difficilmente avea potuto sapere più di questo, onde si spiega il fatto che a suo tempo vedremo, dell'avere cioè anche lui, quando veniva barbaramente giustiziato, con altissime grida smentite le cose dette. Intanto rileviamo che egli era «confesso», e quindi spacciato.

Dopo di lui venne la volta del Gagliardo e compagni, i quali intendevano sempre di rappresentare la parte di rivelanti, esponendo le cose dette loro da Cesare Pisano, mentre il tribunale pretendeva che fossero complici. Ma parrebbe che gli esami di costoro fossero stati fatti in Castelvetere, e poi ripetuti anche con la tortura in Gerace: quest'ultima circostanza è sicura, come vedremo più oltre; la prima trovasi attestata dal Gagliardo medesimo, ma in una sua confessione posteriore di varii anni, avutasi quando, per altri delitti, stava per essere giustiziato.

Felice Gagliardo fece un'amplissima deposizione. Narrò che già prima della venuta di Cesare nelle carceri, fra Giuseppe Bitonto avea detto che tratterebbe le cose di lui in Condeianni, e frattanto stesse di buon animo «che vederà succedere cose che li saranno di grandissima utilità». Narrò poi la visita fatta al Pisano dal Campanella, da fra Dionisio e dal Bitonto, nelle carceri di Castelvetere verso il 1° luglio, con ragionamenti segreti e la presentazione che il Pisano fece di lui al Campanella, siccome uomo che potea «servire et movere genti», e le parole dettegli da fra Tommaso, «dati credito a quello che vi dirà et raggionerà Cesare, per che quanto ve dirà depende da me» (le quali proposizioni servirono pur esse in sèguito come gravissimo capo di accusa contro il Campanella); inoltre narrò le parole dettegli da fra Dionisio, «attendetivi à disbrigare, perché fra Gioseppo vicario de Condeianne vi procurarà la remessione delle parti, et come sareti fore, raggionaremo di meglio garbo, fra tanto Cesare Pisano vi raggionarà a luongo, datili credito»! Narrò di avere udito da detto Cesare e da' frati che erano venuti ad oggetto di trattare col Principe della Roccella per fare liberar Cesare, il quale di poi comunicò così a lui come al Marrapodi e al Conia, che il Bitonto in S. Giorgio gli avea detto essere Campanella il primo uomo del mondo, ed essere andato molto tempo in giro trattando con molti potenti e particolarmente col Turco mediante lettere, «per far sollevare questo Regno, et levarlo dalla suggezione di Rè di Spagna et metterlo in libertà, et che per tale effetto havea uniti li fuorusciti dell'una et l'altra provintia di Calabria al numero di 800, et che pensavano un giorno di questo mese di Settembre fare detta sollevatione, et che volesse esso Cesare entrare in detta congiura, et che convocasse quanti amici et parenti potesse, al che esso Cesare s'offerse». Aggiunse di aver udito parimente da Cesare che alla congiura partecipava il Vice-Conte di Oppido fratello di fra Dionisio, e che stando in Oppido in compagnia di detti frati e del Vice-Conte, il Campanella scrisse una lettera e la mandò per lui a' fratelli Moretti, i quali vennero allora in Oppido e si riunirono in segreto soli, e presero concerti per la rivolta. Aggiunse pure di avere udito dallo stesso Cesare che «il Campanella havea stabilito alli congiurati nova sorte di vestiti, cioè una tabanella bianca fino alle ginocchie con maniche lunghe, et un coppolicchio (intend. berrettino) ligato à modo di turbante di Turcho, et che havea da mutare linguaggio, et che voleano uccidere tutti li Preiti, et Monaci che non voleano adherire, et che voleano brusciare tutti li libri et fare nuovo statuto, et che voleano liberare tutte le Monache dalli monasterij, et voleano fare il crescite etc. e gridare à tempo del sollevamento, viva la libertà et mora Rè di Spagna, et che voleano tagliare à pezzi lo Governatore, et auditori et tutti quelli che non erano della loro parte, et così fare voleano à Stilo et altre terre, et uccidere tutti li Signori della Provincia, quali chiamavano tiranni, et nel Castello di Stilo s'havea da gridare, viva la libertà, et mora il Rè, et volevano fare Stilo Repubblica et chiamare il detto Castello Mons pinguis, et che fra Tomase si havea da chiamare il Messia venturo, come già detto Cesare lo chiamava, et fatta detta sollevatione, haveano d'andare per ogni terra li predicatori à predicare la libertà, et che saria venuta l'armata del Turco à darli aggiuto». - Per verità non si può non riconoscere che avessero dovuto realmente esservi stati discorsi molto spinti non solo sulla congiura ma anche su' disegni delle riforme le quali si sarebbero attuate nella futura repubblica, sia tra il Bitonto e il Pisano, sia, come è pure assai credibile, tra il Bitonto e lo stesso Gagliardo prima della carcerazione di costui: lo mostrano le notizie perfino su' nuovi abiti da doversi indossare, alludendo senza dubbio a' cittadini del nuovo Stato, e su' libri da doversi bruciare, alludendo senza dubbio a' libri latini in materia di fede e di pratiche religiose; le quali notizie furono anche accertate da fonti abbastanza sicuri, ma venendo in processo molto tempo dopo e senza alcun rapporto con la deposizione del Gagliardo. Si direbbe pure che sempre nuove notizie avessero dovuto di tempo in tempo giungere a' detenuti nelle carceri di Castelvetere, poichè essi sapevano perfino il tempo della venuta dell'armata turca, la quale notizia non poteva conoscersi ancora allorchè furono rinchiusi nel carcere: ma qui probabilmente influì la voce che già se n'era diffusa, ovvero anche la studiata maniera d'interrogare dello Xarava facilmente compresa dal Gagliardo, il quale per certo non era uomo da farsi scrupolo per le menzogne. Quanto poi all'essersi i Moretti concertati col Campanella, con gli altri frati e con Ferrante Ponzio in Oppido, dietro una lettera scritta loro da fra Tommaso e portata da Cesare Pisano, è possibile che costui l'abbia detto tra' compagni di carcere, per vantare l'opera sua ed anche per accrescere l'importanza della congiura con nomi di persone molto riputate; ma da nessun'altra parte emerse mai alcun cenno di una escursione del Campanella in Oppido, e del resto vedremo che il Pisano medesimo sul punto di morte si disdisse esplicitamente intorno a' Moretti.

Seguì l'esame di Geronimo Conia. Egli fece una deposizione non dissimile da quella del Gagliardo, dicendo ancora di avere udito da Cesare Pisano, che gli piacevano i pensieri del Campanella comunicatigli da fra Dionisio, che più volte avea condotto Eusebio Soldaniero a Stilo presso il Campanella, che costui e fra Dionisio aveano trattato co' Vescovi di Mileto e di Oppido i quali gli offersero aiuto, e il Vescovo di Mileto avea favorito i fuorusciti della sua diocesi per tenerli ad ogni sua richiesta o devozione, ed aveva anche scritto al Vescovo di Gerace ed al Principe della Roccella per far liberare Cesare. Aggiunse che Cesare era andato col Campanella, con fra Dionisio, col Bitonto e col Jatrinoli, alla Grotteria presso fra Paolo, e quivi mandato a chiamare Notar Domenico Spasari, il Campanella e fra Paolo cercarono persuaderlo di consentire alla congiura, come uomo potente che egli era, perché confidavano potersi la Grotteria guardare con cento uomini; ma lo Spasari disse di non poter dare altro aiuto che di danaro, e fra Paolo disse che se ne sarebbe poi parlato, e il Campanella disse che non v'era bisogno di danaro ma si contentava di ciò che avrebbe trattato con fra Paolo. Aggiunse infine, sempre a detto di Cesare, che di questa congiura si era cominciato a parlare fin da quaresima scorsa, al tempo in cui il Campanella leggeva filosofia a' fratelli Moretti, ma nel maggio propriamente si era cominciata ad ordire. - Tale fu la deposizione del Conia. Essa non ci dà, come quella del Gagliardo, indizii d'intelligenze anteriori tra il Conia ed i frati, ma pure vi si può notare la rivelazione delle intelligenze corse tra il Campanella ed alcuni Vescovi, ciò che mostrerebbe perfino avere fra Dionisio già messo innanzi i Vescovi prima della sua andata a Catanzaro; in fondo poi essa riusciva ad aggravare di molto le condizioni di fra Paolo, ed esprimeva sempre le vanterie di Cesare Pisano, il quale in realtà parrebbe che avesse voluto mostrare ai suoi compagni di carcere non esservi alcuno più di lui informato delle cose della congiura.

Successivamente si ebbero le deposizioni di Gio. Angelo Marrapodi, di Orazio Santacroce e Camillo Adimari. Costoro, come si espresse il Mastrodatti nelle scritture che possediamo, deposero nel modo medesimo del Gagliardo: solamente il Marrapodi aggiunse di non aver voluto condiscendere, e di aver avuto dal Pisano la raccomandazione che almeno non dicesse nulla; l'Adimari, dal canto suo, aggiunse che non l'aveano rivelato prima perché non gli diedero credito, e quando udirono essere stato carcerato il Campanella, tennero quelle cose per vere e le rivelarono al Principe. Tutto per verità induce a credere che costoro, compreso il Conia, non avessero condisceso in modo formale alle premure del Pisano, il quale, come vedremo a suo tempo, sul punto di morire li scusò interamente, nominandoli ad uno ad uno e tralasciando solo il nome del Gagliardo.

Veniamo all'esame di Cesare Pisano. Intorno a costui sappiamo che fece la sua deposizione, ebbe il tormento, ratificò la confessione fatta in tormento e nello stesso giorno fu sottoposto a un nuovo esame che porta la data di Squillace 24 settembre: abbiamo dunque una data certa che ristabilisce la cronologia precisa del nostro racconto. Nella deposizione il Pisano cercò di vendicarsi del Gagliardo. Disse che non conosceva il Campanella né fra Dionisio, ma solo il Bitonto, il quale gli era cugino; che col Bitonto erano venuti alle carceri di Castelvetere due altri frati, uno de' quali seppe dal Gagliardo essere il Campanella, e vide que' frati e il Gagliardo parlare un pezzo segretamente, e quindi Felice gli disse che aveano parlato di negromanzia lodandogli il Campanella come un grande uomo. Negò il fatto della congiura, ma attestò che il Gagliardo, dopo di aver conferito co' frati disse, «questi Monaci parlano di gran cose, non per Dio posso credere che loro ne possano uscire». Fu allora posto alla corda, malgrado la sua qualità di clerico; e la corda dovè essere terribile, o dovè fargli un terribile effetto, poichè in essa rivelò tutta la congiura. Narrò che nel maggio scorso era andato a Bagnara e Messina col Bitonto e fra Dionisio, e che il Bitonto, prima d'imbarcarsi gli disse, «stà di buon animo, che voglio che te trovi ad una fattione che volimo fare, che sarà l'esaltatione tua», aggiungendo che era cosa di grande importanza, che vi bisognavano uomini di valore e che al ritorno glie la dichiarerebbe; come infatti, al ritorno, incontrati i detti frati con fra Giuseppe Jatrinoli e il bastardo di Alfonso Grillo di Oppido, gli dissero di andare con loro a Stilo per vedere il Campanella, ed avendo la sera pranzato in Stignano, quivi fra Dionisio e il Bitonto gli comunicarono che col Campanella avrebbero presa risoluzione di ribellare il Regno e sottrarlo al dominio del Re di Spagna, avendo con loro molti fuorusciti e molti gentiluomini e Signori, tra' quali nominarono il Marchese di Arena. Giunti a Monasterace dove trovavasi il Marchese, fra Dionisio e il Bitonto parlarono un pezzo segretamente col Campanella, ed insieme si recarono presso il Marchese, quindi i tre frati col resto della compagnia se n'andarono a Stilo: nel convento di Stilo trovarono parecchi fuorusciti, e l'indomani i frati negoziarono a lungo col Campanella, e di poi costui, nel licenziarsi dal Bitonto e dal Jatrinoli, poichè fra Dionisio rimase con lui, disse che andassero con cautela e segretezza. Aggiunse che, incontrato un gentiluomo di casa Prestinace, i detti frati Bitonto e Jatrinoli parlarono strettamente con costui, e poi gli comunicarono essere anche costui de' congiurati. Aggiunse che il Bitonto gli disse inoltre avere fra Dionisio predicato in Terranova, ed avere quivi concertata la ribellione col proprio fratello, e con altri. - Questo sunto della confessione del Pisano certamente non è completo: sappiamo infatti dalla sua «esculpatione» in punto di morte, che disdisse quanto avea detto «alla corda che ebbe in Squillace» circa Orazio Santacroce e il fratello di lui, come pure circa Geronimo Conia; ciò serva una volta di più a fare avvertire che ci rimane sempre a conoscere non poco intorno a' laici involti in questa causa. Pertanto la confessione fu da lui ratificata, come per regola si dovea sempre fare scorse 24 ore. E nello stesso giorno si volle interrogarlo sulla nuova legge che il Campanella intendeva di pubblicare, e qui il Mastrodatti che fece il Riassunto degl'indizii scrive di omettere le eresie nefandissime e detestabilissime dette dal Pisano «propter earum turpitudinem»: ma avendo la copia del processo verbale, che fu poi in Napoli trasmessa al tribunale per l'eresia, possiamo dare un piccolo saggio almeno dei tratti principali, massime in rapporto alle cose del nuovo Stato da fondarsi ed alla partecipazione de' voluti complici. Disse dunque che a Stignano, in casa del Grillo, oltre i frati suddetti era venuto anche fra Domenico Petrolo, e si era parlato del Campanella affermando che «era lo primo homo del mondo, et il vero legislatore et vero Messia che havea da reducere li huomini alla libertà naturale con la vera raggione, poi che Christo con dudici poveri huomini s'haveano impatronito del mondo, et esso campanella voleva monstrare come era tutto falso, et che con la sua predica et dottrina, et con il valore de tanti che lo sequitavano con le arme haveria levato la fede de cristo, et impatronitosi esso del mondo dicendo che il Papa, et l'Ecclesia non erano vere, ma era autorità usurpata, et che se l'haveano pigliata per dominar' il mondo, et che li monasterii di monaci et moneche l'haveano fatti acciò non se creassero homini, et che il Papa et Cardinali, Arcevescovi, et altri prelati erano tutti tirandi et sodomiti, et che Cristo era un pover'homo, et che s'havea pigliato per apostuli dudici peczienti, et che li miraculi che havea fatto tanto Cristo, quanto li santi non era vero, ma erano stati scritti dalli detti apostuli soi parenti, et che li miraculi fatti da san' Francesco de paula non erano miraculi, ma che l'havea fatti in virtù dell'herbe perche era girugico; et che non era vera la santiss.a Trinità, mà che era un solo Idio, et che la madonna santiss.a era moglie di san'Gioseppe, et che non nce era inferno, ne purgatorio, ne diavoli, ne angeli, et che l'anime tanto di turchi, quanto di Cristiani quando passavano da questa vita tutte andavano à Dio». E qui una serie di goffe ed immonde scempiaggini contro gli Apostoli, contro i Sacramenti, in ispecie contro il sacrificio della Messa, e poi «che il campanella era il vero messia che havea da redurre il mondo in libertà et levarlo da tirannia della setta che steva, et che ogniuno potria essere signore che s'haveriano spartuto bonamente tutte le cose tra loro in comune se goderiano li signore (forse si godevano li Signori) alli quali chiamavano tiranni del mondo, et che Dio non fece ecceptione di nullo, et tutte le robbe le creò per servitio de tutti, le quali cose havendo inteso esso deposante, si bene non le credeva in tutto, concorreva con lloro che li dicevano; questo è pensiero deli litterati, et predicaturi di farlo conoscere al mondo, che delli populi non voleano altro eccetto le arme, et cossì esso deposante nce concorreva de buon'animo à detta rebellione». Dietro altre interrogazioni disse che ciò era accaduto in giugno, dieci o dodici giorni prima della sua carcerazione, che nelle carceri di Castelvetere avea comunicato tutte queste cose a Felice Gagliardo, il quale «li respose che esso le sapeva più prima, poi che nce l'haveano detto li predetti fra Gioseppe bitonti et frà Gioseppe Jatrinoli che ad altri esso deponente non l'hà detto, mà tutti li predetti monaci erano di detta openione che alla loro persuasione esso deposante nci concorreva più per la libertà della rebellione che per altro». - È inutile ora fermarsi sul valore di queste rivelazioni del Pisano: si dissero poi molte cose almeno per attenuarle, ma vedremo che sul punto di morte egli le smentì appena in piccola parte e ne aggiunse alcune altre, affermando di averle omesse «ad instigatione et prighiere di fra Thomase Campanella» quando erano carcerati «in la città di Squillaci». Intanto egli era confesso sull'accusa di aver consentito alla ribellione, e quindi non doveva aspettarsi che una condanna capitale: ma occorreva ancora fare una confronta tra lui ed altri che si trovavano in Gerace, e quindi fu riserbato ad ulteriori esami ed ulteriori strazii in quella città.

Dopo il Pisano potè forse essere esaminato qualche altro testimone di nessuna importanza, come un Domenico Messina, ed ancora Giuseppe Grillo, il quale fece del pari una deposizione insignificante; poichè disse solo aver conosciuto fra Dionisio in Oppido, quando vi andò a vedere suo fratello Ferrante, e poi averlo accompagnato, due giorni dopo, a Condeianni, di dove, unitamente col Bitonto, col Jatrinoli e col Pisano, venne ad alloggiare per una sera in una casa di Gio. Alfonso suo padre, e l'indomani se ne partirono e non li vide più. Ma per certo le confronte del Pisano con altri, e gl'importanti esami di Gio. Tommaso Caccìa, che dalla numerazione de' folii del processo risultano al sèguito di quelli finora narrati, non si fecero in Squillace: lo attestò più tardi in Napoli, nel tribunale per l'eresia, fra Domenico Petrolo, il quale disse che il Caccìa «in Squillaci non fù essaminato... et in hieraci hebbe la corda»; ciò che del resto si spiega con l'incidente della mancanza del Mastrodatti, e con l'ordine dello Spinelli che si cominciasse a far giustizia e che il tribunale si trasferisse a Gerace. Vi fu dunque una temporanea sospensione dello svolgimento del processo, durante la quale si ebbe l'esecuzione di Claudio Crispo e Cesare Mileri, che conosciamo mercè una relazione dello Xarava, ed ancora la tanto aspettata cattura di fra Dionisio, di Maurizio, di Gio. Battista Vitale ed un altro, che conosciamo mercè una lettera di Gio. Geronimo Morano; questi due documenti, da noi rinvenuti in Simancas, ci pongono in grado di esporre i fatti anzidetti in tutti i loro particolari. - Lo Xarava, ottenuta dal Pisano quella deposizione infarcita di eresia, ebbe cura d'inviarne copia al Vicerè per trarre profitto di tale circostanza, come già altra volta lo Spinelli avea fatto: esagerando ogni cosa fuor di misura, egli voleva indurre il Vicerè ad ottenere senz'altro da Roma la licenza di proseguire in Calabria il processo contro gli ecclesiastici, ed è notevole l'accanimento che in tale occasione mostrava contro il Campanella. «Tra gli altri, egli scriveva, che hanno confessato il trattato e congiura di ribellarsi contro il Re nostro Signore, uno che si chiama Cesare Pisano, gentiluomo della terra di S. Giorgio, ha deposto le eresie che V. E. potrà comandare di vedere con la copia del capitolo della sua confessione che va con questa; il quale capitolo mi è sembrato d'inviare a V. E. perché possa considerare il danno che questo maledetto eresiarca del Campanella deve aver fatto in queste provincie, avendo contaminata la maggior parte della gente di esse con la sua abominevole e falsa dottrina, che secondo confidava di trarre ad esecuzione il suo dannato intento, come già avea concertato con la venuta dell'armata, è segno certo che tenea molti a sua devozione i quali seguivano la sua falsa setta, perché essendo uomo di tanto pellegrina intelligenza, siccome mostra, non può immaginarsi che si mettesse a tentare un'impresa tanto ardua senza sufficiente fondamento di aiuto, e tale da potergli assicurare il successo che si prometteva e dava ad intendere a tutti; e per potere scovrire queste cose e sradicare e gastigare coloro che sono incorsi in simili errori contro Dio e S. M.tà, non potendosi farlo interamente senza il braccio di S. S.tà, per esservi in mezzo tanti ecclesiastici che sono gli autori da' quali si debbono sapere gli altri, potrà V. E. comandare che si prenda l'espediente che meglio le sembrerà convenire». Ma S. E. avea preso l'espediente, fin da che lo Spinelli glie ne avea scritto altra volta, e non avea potuto ottenere da Roma quanto si desiderava.

Il 27 settembre si fecero le prime esecuzioni capitali in persona di Claudio Crispo e Cesare Mileri, e per dare l'esempio in più largo teatro, si fecero in Catanzaro. La relazione medesima dello Xarava, scritta il giorno dopo, ne dà le notizie autentiche, e solamente tace i nomi de' giustiziati: ma oltrechè non ci sarebbero altri cui poter riferire quelle esecuzioni, i nomi suddetti emergono anche da testimonianze raccolte nel processo di eresia; d'altronde li cita con tutta esattezza una lettera del Residente Veneto, la quale fornisce anche particolari molto precisi comunque incompiuti, mentre due lettere dell'Agente di Toscana accennano il fatto senza nomi e senza troppi particolari. «Si è cominciato, scriveva lo Xarava il 28, a far giustizia di questi carcerati con la dimostrazione che il delitto richiede, essendosi ieri mandato a eseguire quella di due in Catanzaro: furono condannati ad essere arrotati, tanagliati e strozzati in mezzo alla piazza, e ad esser quivi appiccati per un piede, a dopo 24 ore a essere fatti in quarti e poste le loro teste in una gabbia sopra la porta principale della città col titolo de' loro nomi e del delitto, inoltre ad avere diroccate le loro case e confiscati i loro beni». Tutte queste circostanze ed in ispecie le ultime sono degne di nota. Il Campanella, nell'Informazione, scrisse che «nullo fu condannato per ribello veramente, non confiscandosi beni, né spianandosi le case loro», ma pur troppo non fu così: scrisse inoltre, nella Narrazione, che «dui morti in Catanzaro da Xarava si ritrattaro» e da questo lato, senza parlare della contradizione coll'altro asserto, dobbiamo dire che vi fu realmente qualche cosa di simile, difatti più tardi in Napoli, nel processo dì eresia, il Barone di Cropani e il Di Francesco attestarono che que' disgraziati, con altissime grida, dicevano aver confessato la ribellione per forza di tormento e persuasione dello Xarava. Noi abbiamo a suo tempo fatto osservare che ciascuno di loro avea dovuto confessare più cose che non gli costavano, l'uno pe' tormenti, l'altro per le persuasioni dell'interrogante, e però potea bene spiegarsi una loro consecutiva ritrattazione, bensì parziale: ma del resto l'orribile strazio che si fece di loro dovè farli gridare pur troppo, e forse dire di non sentirsi colpevoli di ribellione, non potendo nemmeno capacitarsi che un disegno delittuoso si dovesse punire come un delitto consumato. Intanto essi morivano entrambi nel modo più atroce, mentre c'era anche una sensibile differenza nel grado della loro colpa. Il Crispo lasciava un fratello giovanetto ed il padre, Ferrante; il Mileri lasciava due sorelle fanciulle senza alcuno appoggio, e nell'Archivio di Stato abbiamo rinvenuto un documento che ne attesta la misera fine.

IV. Compiute le due prime esecuzioni, il tribunale venne trasferito a Gerace, dove lo Spinelli avea determinato di far residenza per ragioni che tra poco ci saranno chiare, ingiungendo allo Xarava che vi si recasse. Il giorno 29 lo Xarava partì per quella città «con tutti i carcerati», tra' quali Cesare Pisano che dovea confrontarsi con altri detenuti appunto in Gerace; ma quivi occorse pure aspettare l'arrivo di un altro Mastrodatti capace di servire all'ufficio, che lo Xarava avea mandato a chiamare. Vi fu dunque un trasporto di tutti i carcerati, durante il quale i frati poterono vedersi ma non mettersi in relazione tra loro, e si ebbe in sèguito dal Petrolo, nel tribunale per l'eresia, la notizia di un fatto del Campanella avvenuto in tale occasione. Solevano i prigioni tradursi a coppie, «ligati a mano a mano con una corda» formando una catena: una squadra di armati li accompagnava, e il capo di squadra era allora uno spagnuolo. Costui marciando a cavallo dovè dirigere al Campanella qualche parola discorrendogli di morte: il Campanella filosoficamente gli disse che non v'era morte, ma mutazione di essere; il Petrolo, che veniva dietro di lui, udì quelle parole e poi le ripetè, confessando di non saper bene «come lui l'accomodasse».

Scorsi pochi giorni, venne la notizia che fra Dionisio, Maurizio e Gio. Battista Vitale, erano stati presi: il 30 settembre Gio. Geronimo Morano, con una sua lettera da Monopoli, l'annunziava al Vicerè in Napoli e naturalmente anche allo Spinelli in Calabria. Il Morano scriveva che partitosi di Cosenza in traccia di Maurizio e del cognato di lui con due altri compagni, caminando giorno e notte e tenendo sempre nuove fresche, avea preso fra Dionisio in Monopoli; poi, continuando sempre sulla traccia di Maurizio, avea preso in Nardò un Gio. Ludovico Todesco, ed avea quivi saputo che Maurizio si era imbarcato a Brindisi sopra una Marsigliana comandata da Francesco Maresca per recarsi a Venezia; avendolo seguìto per terra ed avendo saputo che la Marsigliana dovea caricare olio a Monopoli, erasi quivi diretto ed avea trovata la nave ancorata a due miglia dalla città, non permettendo il mare procelloso né che la nave si potesse avvicinare, né che la gente potesse montare a bordo. Il 30, calmatosi il mare, il Governatore di Nardò Agostino di Guardisciola ed il Giudice Stefano Garonfalo, con due feluche, si spinsero verso la Marsigliana, presero Maurizio e il Vitale e li consegnarono al Morano. Costui, il giorno dopo, traduceva tutti que' prigioni in Calabria a Carlo Spinelli. Dandone l'annunzio al Vicerè, egli scrivea: «riceva V. E. l'animo con che l'ho servito, et non haria sparagnato la vita per condurre infine questo servigio, come farò in ogni altra occasione del servitio di sua Maestà et di V. E.». - Adunque Maurizio avea saputo sfuggire a' suoi persecutori, traversando nientemeno che le provincie di Basilicata, Bari e terra d'Otranto, in compagnia di fra Dionisio, Gio. Battista Vitale e un Gio. Ludovico Todesco, il quale ultimo vedesi soltanto qui nominato, e mostra bene esserci rimasto ignoto un certo numero di congiurati anche d'importanza; se il braccio del Governo, aiutato anche dalla fortuna di mare, finì per raggiungerlo, ciò non toglie nulla alla destrezza che egli seppe mostrare. D'altra parte tutto ciò conferma abbastanza aver lui veramente avuto in animo di salvare il Campanella, quando si diede a corrergli dietro fin oltre Stignano; poichè se si fosse proposto di guadagnare l'indulto col sacrificio di un complice, potea bene sacrificare fra Dionisio, che agli occhi del Governo avea quasi lo stesso valore del Campanella. Si vede pertanto come erri il Giannone nell'affermare che «alcuni spensierati furono presi senza contrasto, fra' quali fu Maurizio di Rinaldo»; non saprebbe dirsi per quale fatalità la nobile figura di Maurizio abbia dovuto rimanere falsata da tutti i lati. Conosciamo poi che fra Dionisio era vestito da secolare, avendo fin dalla notte del 3 settembre, nel fuggire da Pizzoni, deposta la tonaca fratesca; ma gli Atti conservati in Firenze fanno sapere di più, che avea preso il nome di D. Pietro Antonio Grasso e si era munito di una fede di sanità della città di Lecce; quest'ultima circostanza mostrerebbe che i fuggiaschi avessero dovuto percorrere tutta la terra d'Otranto per trovare un imbarco. Aggiungiamo che i principali armigeri di Gio. Geronimo Morano, nella persecuzione e cattura di que' fuggiaschi, doverono essere Aurelio Biase e Giuseppe Pascalone, giacchè essi vennero poi a deporre col Morano segnatamente sulla cattura di fra Dionisio. Aggiungiamo ancora un altro fatto avvenuto a fra Dionisio nel suo arrivo in Calabria, siccome egli medesimo ebbe poi a narrarlo in Napoli nel tribunale per l'eresia: mentre veniva tradotto a Gerace, passando per Cosenza, il Governatore, che era in quel tempo D. Francesco de Regina Conte di Macchia, ebbe curiosità di vederlo e di dimandargli se era della setta del Campanella e se credeva che la fornicazione fosse peccato, giacchè il Campanella riteneva che non lo fosse; ed egli si fece a smentire così l'esistenza della setta, come la credenza falsamente attribuita al Campanella.

Il Vicerè, con sue lettere del 4 e dell'8 ottobre, inviò subito a Madrid la relazione del Morano e quella dello Xarava. - Nel partecipare la notizia dell'importante cattura di Maurizio e compagni «capi della congiura di Calabria», fece anche conoscere come fin dal 28 settembre era stato da lui ordinato allo Spinelli che, dopo giustiziati quattro de' più colpevoli, inviasse tutti gli altri in Napoli a buon ricapito, avendo voluto che fossero quivi tradotti a fine d'investigar bene le loro colpe e quivi gastigarli; e però nel giorno precedente avea scritto che, vagliata bene la causa di Maurizio de Rinaldis, facesse giustizia anche di lui, ed inviasse in Napoli gli altri con tutti i rimanenti incolpati. - Nel partecipare poi l'esecuzione già avvenuta de' due «trovati colpevoli nella congiura che andavano fomentando», inviò pure l'ultima dichiarazione di Cesare Pisano, e nel tempo medesimo la copia dell'Informazione presa dal Visitatore contro il Campanella (questa era rimasta in Napoli fin allora), per mostrare a S. M.tà ciò che essi andavano disseminando pel paese, e ripetè che aveva ordinato l'invio di tutti i carcerati, per investigare molto radicalmente tale negozio, e dare il gastigo che conveniva.

Si scrisse allora finalmente una lettera da Madrid, in risposta ad otto lettere Vicereali, cioè a dire in risposta a tutte le lettere che erano state mandate intorno alla congiura: ne abbiamo rinvenuta in Simancas la minuta senza data, ma questa si può facilmente desumere, leggendovisi che l'ultima lettera ricevuta era quella del 4 ottobre. In essa S. M.tà si sbaglia sul nome del Campanella che chiama Matteo, ma con solenne gravità si compiace che la congiura sia stata scoverta, approva le misure prese, ringrazia la divina Provvidenza e rinforza gli ordini di rigore verso gli incolpati. «Ho gradito molto, egli dice, essere stata (la congiura) scoverta così a tempo, che voi abbiate potuto arrestare, come lo faceste, mercè la prevenzione e i così buoni rimedii, come li applicaste, i danni che poteano seguire dal rimanere celata più a lungo; a Dio si debbono grazie di tutto, e fu molto savio dar conto a S. S.tà del negozio e del trovarsi alcuni ecclesiastici colpevoli e indiziati in questi delitti, perché con sua autorizzazione e commissione poteste procedere contro di loro, come lo faceste, e l'avere ordinato che si esegua la giustizia de' quattro più colpevoli in questo delitto, come lo sarà, e così ve ne dò incarico e comando, che ordiniate di procedersi contro gli altri i quali appariranno di esserlo, con un rigore che la gravezza de' loro delitti merita; ma con un certo intervallo, per dar tempo che si scovrano i rimanenti complici che in que' delitti si abbiano, e si sradichi ad un tempo questa mala semente di eresia e ribellione, procurando di sapere con particolarità se abbiano tenuto qualche intelligenza con Cicala, e se sieno compresi in essa quegl'individui che nel principio i carcerati nominavano, de' quali, e nemmeno di alcuno di loro, non si è visto finora che siasi proceduto all'arresto». Era dunque un disappunto per S. M.tà che qualche Vescovo o qualche Nobile di alto rango non si trovasse già nelle mani del fisco; d'altra parte non obbliava i denunzianti e conchiudeva: «A Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia, che avvisaste essere coloro i quali scovrirono la congiura di questa gente, darò ricompensa come voi glie la offriste per tale servizio, ed è giusto che si dimandi, e perché si agisca più oculatamente, mi avviserete con brevità di ciò che si potrà fare per loro; e di mano in mano mi riferirete con particolarità ciò che si andrà facendo in questo negozio, che per essere della qualità che è, conviene saperlo». Dopo tutto ciò si potrà ancora gridare contro la crudeltà dello Xarava e dello Spinelli, ma si dovrà convenire che costoro interpetrarono perfettamente le intenzioni non solo del Vicerè ma anche del Re.

Aggiungiamo qui le notizie sulle cose di Calabria, che al momento cui siamo pervenuti l'Agente di Toscana, e il Residente Veneto trasmettevano a' loro Governi. - L'Agente di Toscana, nel partecipare che due prigioni erano stati tanagliati e strozzati con titolo di ribellione, faceva anche sapere essere partite quattro galere per levare il Card.l Guevara, e quattro altre partire allora per Lipari e Calabria (10 ottobre), a fine di mutare le compagnie spagnuole; aggiungeva che forse con esse sarebbero venuti in Napoli i prigioni della congiura calabrese. Poco dopo annunziava essersi congratulato col Vicerè, da parte della Serenissima Casa di Toscana, per la scoverta e la repressione della congiura (12 ottobre), aggiungendo che il Vicerè gli avea dato conto dell'esecuzione fatta e del trovarsi carcerati più di cento, tra' quali otto frati col Campanella; inoltre faceva sapere il richiamo dello Spinelli, a suo avviso insieme co' prigioni, e la commissione di formare i processi da affidarsi a' dottori. - Il Residente Veneto, giusta il suo costume, partecipava le notizie raccolte da ogni maniera di fonte. Erano usciti in campagna circa 200 calabresi tra colpevoli e intimoriti, essendosi trovati molti disposti per la libertà di coscienza, con la quale il Campanella disegnava allettare gli animi. Un Maurizio de Rinaldis, dapprima uomo d'arme in servizio del Re, poi contumace per omicidii, favorevole alla ribellione ed anche all'eresia, insieme con un fra Dionisio Ponzio si era ritirato nelle montagne di Cosenza, mettendosi a capo de' fuorusciti, e si temeva che avrebbe potuto là mantenersi a lungo (29 settembre e 5 ottobre). Il Vicerè che avea già in animo di mandare suo figlio in Calabria, ne era dissuaso dal Consiglio per la poca età di lui e la gravità del negozio, e andrebbe il Presidente Montoya per le cose di giustizia e un D. Alonso Rosa per le cose di campagna (confusione di nomi e di fatti). Alcuni calabresi, mandati dalla Corte contro i fuorusciti, li avevano combattuti «con spararsi reciprocamente senza balla» (voci popolari). Intanto era venuta nuova certa che Maurizio e il Ponzio erano stati «ritenti in una filucca 16 miglia in mare per opera di loro particolari nemici a' quali furono promessi gran premii», onde gli animi si erano sollevati. S. S.tà avea fatto spedire un Breve al Nunzio, perché i religiosi colpevoli potessero venire puniti anche nella vita in Napoli, ma formandosi i processi coll'assistenza de' ministri ecclesiastici. Tutti i prigioni sarebbero quanto prima tradotti in Napoli, ed intanto erano stati giustiziati alcuni laici in Catanzaro i quali avevano dichiarato Signori e cittadini napoletani essere partecipi di quella congiura «senza haver saputo però nominare alcuno, il che perturbò assai in generale questa città». Più tardi (12 ottobre), specificava i nomi de' due giustiziati, Crispo e Mileri, e il genere del loro supplizio, «perché con Mauritio Rinaldo, anch'esso retento, mandarono un prete a Costantinopoli a trattar col Cigala» (voci popolari). Inoltre indicava il numero de' prigioni, riducendoli a 60, al di sotto del vero, «la maggior parte huomini di qualche conto, essendo anco fra essi alcuni baroni», con la voce che nella famosa fiera del 18 ottobre in Monteleone se ne sarebbero giustiziati alcuni, e gli altri, insieme con gli ecclesiastici, sarebbero venuti a Napoli. Infine annunziava che il Lauro e il Biblia, rivelanti della congiura, erano già in Napoli, «ricercando ricognitione tale che possano vivere sicuri delle insidie dei parenti numerosissimi degli imputati». - Come si vede, tra molte stramberie, non mancano qui notizie degne di nota: è facile scorgerle, ma sopra due di esse dobbiamo richiamare l'attenzione e fare qualche commento. In primo luogo dobbiamo notare che in Napoli, a' 5 di ottobre, gli animi erano perturbati a motivo dell'affermata partecipazione di Signori e cittadini napoletani nella congiura, senza che se ne sapessero i nomi: ciò mostra che il Vicerè non solo non avea seguito l'avviso dello Spinelli di carcerare alcuni di costoro, ma non avea neanche fatto trapelarne i nomi. In secondo luogo dobbiamo notare che il Vicerè volea mandare suo figlio in Calabria e poi ci mandò il Montoya siccome è attestato pure dal Residente in un'altra sua lettera anteriore, nella quale dice che il Vicerè volea mandare suo figlio con due de' Consiglieri primarii del Governo: forse intendeva mandarlo come Governatore in luogo del De Roxas, ma poi se ne astenne per riguardo a Carlo Spinelli; e quanto al Montoya, vedremo che egli andò difatti a Catanzaro per commissioni speciali, ma alquanto più tardi, segnatamente per l'omicidio di Marco Antonio Biblia fratello di Gio. Battista, pugnalato in odio di costui che aveva rivelata la congiura.

Intanto lo Xarava, provvedutosi del nuovo Mastrodatti, ripigliava il corso del processo e delle torture in Gerace. Egli dovè dapprima far le confronte di Cesare Pisano col Gagliardo, Santacroce, Marrapodi, Adimari, e un po' più tardi col Conia, siccome trovasi disegnato nella citata sua relazione, e fino ad un certo punto può desumersi ancora dalla numerazione de' folii del processo, la quale al sèguito delle deposizioni sopra riferite mostra una grossa lacuna, appena occupata da un «nuovo esame» del Santacroce. Questa lacuna si spiega assai bene col fatto che le confronte, i nuovi esami ed anche le torture non diedero risultamenti degni di nota. Certo è che Felice Gagliardo ebbe la tortura e «si vide in pericolo di morte a Jeraci», poi ebbe «una seconda corda a Napoli et hebbe a morire», e queste prime torture furono «crodelissime, con funicelle, acqua freda e bastonate, et non confessò»; in tal guisa si espresse egli medesimo innanzi a' Delegati del S.to Officio, sul punto di essere giustiziato, varii anni dopo. Certo è pure che Gio. Angelo Marrapodi «hebbe la corda a hierace»; lo dichiarò nel processo di eresia in Napoli un suo figliuolo giovanetto, che lo seguì pe' diversi luoghi in cui stiè carcerato, vivendo col fare qualche servigio a taluni de' frati egualmente carcerati. Infine è indubitato che Geronimo Conia fu sottoposto egli pure ad un nuovo esame e alla tortura, ma un po' più tardi, dopo l'esame e la tortura del Caccìa; e di costui sappiamo con sicurezza essere stato esaminato e torturato in Gerace, poichè, nel processo di eresia fatto in Napoli, si ha una deposizione del Petrolo, il quale esplicitamente attesta che il Caccìa «à Squillace non fù essaminato... et à hieraci hebbe la corda». Come dicevamo, né da' nuovi esami né dalle torture doverono ottenersi risultamenti degni di nota; e però di alcuni di questi Atti non si ebbe a fare alcuna menzione ne' Riassunti degl'indizii, di altri, come quelli del Santacroce e del Conia, si riportò un piccolo brano che in realtà non ci apprende nulla di nuovo.

Importante invece riuscì, se non l'esame, la confessione in tortura di Gio. Tommaso Caccìa, il quale comunque clerico ne' 4 ordini, al pari del Pisano, non fu risparmiato dallo Xarava. Egli era stato catturato da Giulio Soldaniero e condotto dapprima a Squillace, di poi a Gerace, e qui fu sottoposto agl'interrogatorii. Nulla troviamo registrato intorno alla sua deposizione, ciò che autorizza a ritenere aver lui deposto negativamente; ma in tortura confessò con molta ampiezza, e narrò tutte le circostanze nelle quali si era impegnato per la ribellione. Recandosi un giorno con Marcantonio Contestabile e Gio. Francesco d'Alessandria a Stilo, prima di giungervi incontrarono fra Dionisio che andava con Cesare Pisano ed uno o due altri monaci, e fra Dionisio disse a Marcantonio che andava a Monasterace a trovare il Campanella, e così essi se n'andarono a Stilo, nel monastero, ove trovarono Giuseppe Grillo che disse di stare aspettando fra Dionisio; nella sera venne il Campanella con fra Dionisio, il Pisano e gli altri due monaci e mangiarono, quindi, partiti gli altri e rimasti soli col Campanella e fra Dionisio, nella sua cella fra Tommaso dichiarò la congiura e i preparativi di essa, e che «volea essere monarca del mondo e dare nova legge». E sempre diceva che «in quest'anno 1599 e 1600» dovevano accadere grandi mutazioni, sollevazioni e rivoluzioni, così conoscendo per scienza, astrologia e profezie, e però beato chi in questo tempo si trovasse con forza d'armi, ed ognuno dovea stare preparato e procurare di cercare amici, aggiungendo, così fra Tommaso come fra Dionisio, che Maurizio De Rinaldi e un altro di Reggio, di Casaspano, aveano preparata una quantità di fuorusciti tenendoli pronti per quella giornata. Allora insieme con Marcantonio Contestabile e Gio. Francesco d'Alessandria, ad istanza del Campanella e di fra Dionisio, concertarono di ribellarsi, e i detti frati dicevano esservi molti altri congiurati per fare la Calabria repubblica e ribellarsi dalla soggezione del Re e degli ufficiali, con l'aiuto del Turco e di altri Signori che aveano a loro divozione. Inoltre, tornato di poi a Belforte, fra Dionisio venne a chiamarlo da parte di Claudio Crispo che avea da parlargli in Pizzoni, ed egli vi si recò insieme con fra Dionisio: l'indomani, vedutisi col Crispo, con fra Dionisio e fra Gio. Battista di Pizzoni, si parlò di nuovo della congiura, e il Crispo diceva di avere apparecchiati molti fuorusciti per la giornata della ribellione. Aggiunse pure che mentre era nel monastero di Stilo, vennero più volte a parlare segretamente col Campanella Fulvio Vua, Gio. Gregorio Prestinace, Tiberio Marullo, Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, ed egli non udì di che parlassero ma giudicò che dovessero trovarsi in detta ribellione. Questa sua confessione egli poi ratificò, e nella ratifica disse pure che a Stilo Giulio Contestabile un giorno, dopo di avere parlato segretamente al Campanella, dimandò a Marcantonio cosa gli paresse di quanto il Campanella diceva e se lo ritenesse per vero, e Marcantonio rispose che troppo era vero e presto lo vedrebbe. - Adunque il Caccìa rivelò tanto il convegno di Stilo quanto il convegno di Pizzoni; ma specialmente intorno a quest'ultimo non rivelò tutto, e disse pure diverse cose che per lo meno non avea potuto udire in Stilo, come p. es. l'aiuto del Turco e l'aiuto de' Signori, de' quali aiuti sappiamo che in Stilo non si era parlato ancora. Queste ed altrettali circostanze gli furono probabilmente estorte dallo Xarava con l'atrocità de' tormenti, giacchè i tormenti dati al Caccìa non solo furono atrocissimi, ma ancora furono dati mentre egli avea la febbre. Molti l'attestarono in sèguito nel processo di eresia, e basta citare fra Pietro di Stilo e Geronimo di Francesco, il quale disse che a tale proposito fu consultato il medico, e costui per timore affermò che il tormento si poteva dare. Così non recherà sorpresa che egli pure, al momento di essere giustiziato, abbia avuto a fare ritrattazioni: ma in fondo, sul punto essenziale della quistione, egli era «confesso», e quindi non poteva aspettarsi altro che una condanna di morte.

Dopo il Caccìa, come abbiamo già avuta occasione di dire, fu esaminato e torturato il Conia, il quale, nella confessione in tortura, giusta il sunto molto arruffato datone dal Mastrodatti, affermò che c'era stato concerto di ribellione tra il Campanella, fra Dionisio ed altri nel modo più volte ripetuto, da porsi ad effetto alla venuta dell'armata turca che essi aspettavano. - Successivamente furono compilati gli Atti relativi alla cattura di fra Dionisio; ma la sua condizione di ecclesiastico non permetteva di fare altro intorno a lui, e si proseguirono gl'interrogatorii de' laici, vale a dire di Maurizio, del Vitale, e con ogni probabilità anche del Todesco.

Maurizio, chiamato a fare la sua deposizione, non rivelò nulla. Disse che si era allontanato, avendo udito che Carlo Spinelli catturava coloro i quali aveano parlato col Campanella e fra Dionisio; che avea parlato col Campanella una volta in casa di D. Gio. Jacopo Sabinis, ed un'altra volta a Davoli, nel monastero, verso la metà di luglio, stando allora in casa di D. Marco Antonio Pittella, ma aveano trattato della loro «natività». Gli furono quindi amministrate torture atrocissime, ed egli egualmente non rivelò mai nulla, ond'è che ne' Riassunti degl'indizii non se ne trova fatta menzione. Ma è indubitato che ebbe torture enormi, alle quali se ne aggiunsero poi altre non meno atroci, rimanendone una nozione abbastanza confusa. Nella sua ultima rivelazione fatta in Napoli innanzi a' Delegati del S.to Officio, sul punto di essere giustiziato, egli disse puramente e semplicemente di avere avuto «più volte la corda», senza aver mai voluto manifestare cosa alcuna contro i frati; il Residente Veneto, in una sua lettera della quale si parlerà più oltre, scrisse che avea «sofferto in tre mesi quaranta hore di corda et altri tormenti... senza haver mai confessato alcuna cosa»; ma Mons.r Mandina, che fu giudice per l'eresia e potè saperlo in modo autentico, lo disse «per septuaginta horas tortus et nihil confessus», e tutto induce a credere che egli parlasse propriamente delle torture avute in Napoli, non già di quelle di Calabria, che doverono essere certamente più atroci. Ed intanto questa prova di maravigliosa fortezza non recava alcun vantaggio alla sua causa: con la protesta di applicare la tortura «non pro veritate habenda sed pro praecisa responsione habenda et citra praejudicium probatorum» il fisco soleva annullare i benefici effetti di una risposta negativa in tortura; e Maurizio, se non risultava confesso, pur troppo risultava «convinto» dalle concordi testimonianze avverse, a capo delle quali la Dichiarazione del Campanella, oltrechè dalle stesse sue lettere venute nelle mani della giustizia. E però la sorte sua non poteva esser dubbia.

Quanto a Gio. Battista Vitale, egli avrebbe voluto imitare Maurizio ma non ci riuscì. Nella deposizione disse, che essendosi scoverto un trattato fatto da fra Dionisio e dal Campanella di ribellarsi e far venire i turchi «et si dicea che Mauritio era andato in torchia per questo effetto», e vedendosi che si carceravano tutti gli amici che aveano conversato co' predetti, Maurizio risolvè che se ne fossero andati a Venezia e a S.ta Maria di Loreto, sino a che passasse la furia e si scoprisse la verità; e così partirono da Davoli, dove stavano già da nove mesi in casa di D. Marco Antonio Pittella. Si venne quindi alla tortura, ed egli non resse allo strazio: ecco qui raccolti e disposti alla meglio i brani sparsi della sua lunga confessione. Narrò che da nove mesi erano assenti da Guardavalle insieme con Maurizio «per certe pugnalate», ricoverati a Davoli in casa del Pittella, e con costui Maurizio diceva avergli il Campanella manifestato che «quest'anno» doveano esservi grandi guerre e rivoluzioni e il Regno dovea mutare padrone, e che insieme col Campanella aveano concertato di far gente e far ribellare quelle provincie. Che dopo alcuni giorni Maurizio era andato a trovare il Campanella, e quindi avea detto che con lui e fra Dionisio si era concluso di effettuare detta ribellione, e per facilitarla «volevano invocare l'aggiuto et favore del turco che li mandasse l'armata, con la quale e con l'aggiuto de' Popoli haveriano levato questo regno dal dominio del Rè di Spagna e fattolo republica, et che esso fra Thomase haveria fatto nova legge, et ridotto ogni huomo à libertà naturale, et mandato molti predicatori predicando la libertà, et che haveano parlato à questo effetto a molti di Stilo parenti del detto Mauritio di Casa Carnevale e Sabinis come di casa Condestabile, et altri loro parenti et amici; alli quali fra Tomase con fra Dionisio haveano parlato, et procuravano far pacificare li Carnevali con li Conestabili, per che si haveano da trovare in detta rebellione per quanto diceva detto Mauritio». E dietro interrogazione, specificando meglio le persone, aggiunse, «che Mauritio li disse, quando tornò da Stilo, che li parenti suoi et altri, che s'haveano da trovare a detta rebellione, erano Gio. Paolo e Fabio Carnevale, Ottavio Sabinis, Gio. Jacovo Sabinis, Marc'Antonio Conestabile, Giulio Conestabile, Fabio Conestabile, et Geronimo di Francesco che tutti si erano offerti a detta rebellione». Aggiunse ancora che dapprima intese dire da tutti quelli di Davoli che nel monastero di S. Maria del Trono di detta terra erano venuti Gio. Paolo di Cordova ed Orazio Rania ed aveano parlato col Campanella «et fra Dionisio»; e poi, passando per la casa del Pittella, costui gli disse «come Oratio Rania, Gio. Paolo di Cordova, et Gio. Tomase di Franza erano venuti à trovare Mauritio et fra Tomase Campanella, et haveano trattato detta rebellione dentro lo monastero di S.ta Maria del Truono». Aggiunse che Maurizio «ogni hora dava animo ad esso deposante et a Donno Marco Antonio Pittella», che dopo essere sceso dalle galere de' turchi raccontò al Pittella l'appuntamento preso con Amurat Rais, che in giugno con Geronimo Baldaya fuoruscito si era partito per raccogliere gente, e Geronimo diceva «lassa fare a me ch'io busco gente assai che staranno in ordine per la giornata che vene l'armata del Turco, et allhora daremo dentro»; che il Pittella diceva esservi in Catanzaro molti gentilhuomini ed altri i quali partecipavano alla congiura, e che venivano spesso lettere da Catanzaro a Maurizio e i corrieri dicevano mandarle il Rania; che Maurizio «con questo pretendea farsi gran homo per che saria stato padrone di molte terre... et persuadeva lo Donno Marco Antonio et esso deposante se voleano concorrere con esso et ritrovarsi à questa fattione che li saria stato gran utile; lo Donno Marco Antonio si offerse a questo, et esso deposante disse, io vengo dove vai tu, per che a me me tieni alla maneca» (intend. affibiato a te). - La tortura data al Vitale fu del pari straordinaria: da un brano della Difesa de' Cordova si ha che fu perfino trascinato alla coda di un cavallo (ad caudam equi raptatus). Ciò spiega sempre più la rivelazione da lui fatta di tanti nomi e di tanti particolari, che per lo meno non poteva conoscere, mentre da molti indizii apparisce che i capi della congiura conducevano le cose con cautela, e non mettevano ogni cosa a conoscenza di tutti: basterebbe la sola deposizione del Caccìa a mostrarlo, e d'altronde vedremo p. es. lo stesso Maurizio, nella sua ultima rivelazione, smentire la partecipazione del Pittella, che il Vitale nominava con tanta larghezza. Facciamo queste avvertenze, perché non rechi poi meraviglia il vedere questo disgraziato, nel suo estremo supplizio, dichiarare che tutto gli era stato estorto dallo Xarava per forza di tormenti. Egli pertanto era «confesso» e quindi votato alla morte.

Come dicevamo, forse anche Gio. Ludovico Todesco fu esaminato dopo costoro. A lui si poteva per lo meno imputare che avesse aiutato Maurizio nella fuga, onde a' termini del Bando dello Spinelli era reo di morte: e il vedere dalla numerazione de' folii del processo l'inserzione di quel Bando al sèguito degli Atti relativi al Vitale darebbe motivo di credere che per l'appunto il Todesco dovè essere inquisito e forse condannato in virtù del suddetto Bando. Ma non ce n'è notizia ne' Riassunti degl'indizii a noi pervenuti con gli Atti esistenti in Firenze; e ciò vorrebbe dire non aver lui avuto nulla a rivelare intorno agli ecclesiastici, che sono contemplati in que' Riassunti. Dicasi lo stesso di tanti e tanti altri carcerati già fin da' primordii della repressione della congiura. Per lo meno i principali tra loro, come Geronimo del Tufo, il Barone di Cropani, Ferrante Ponzio, i due Moretti etc. etc., difficilmente si può credere che non sieno stati esaminati in Calabria; e così pure Geronimo di Francesco che fu preso in compagnia di Giulio Contestabile, con tanta prevenzione e tanto sdegno dello Spinelli. Il Contestabile, per la sua qualità di clerico ne' quattro ordini sacri, dovè esser lasciato al foro ecclesiastico, siccome già lo Spinelli si proponeva (ved. pag. 316); se non si procedè con lui come col Pisano e col Caccìa, questo verosimilmente accadde perché egli vestiva tuttora l'abito clericale, mentre il Pisano e il Caccìa l'aveano deposto da un pezzo; risulta infatti da una numerosa quantità di documenti conservati nell'Archivio di Stato che era teorica del Governo, combattuta continuamente da' Vescovi, non doversi ritener clerici coloro i quali da un pezzo ne aveano deposto l'abito. Ma pel Di Francesco ci pare impossibile che non siasi proceduto ad interrogatorii d'ogni maniera; probabilmente egli dovè essere negativo in tutto.

Aggiungiamo qui che il Pittella, indiziato per tante vie e poi così fortemente compromesso dal Vitale, fu catturato da un Gio. Andrea Spina, ma mentre era tradotto in carcere a cavallo, riuscì a fuggire: lungamente ricercato dalla giustizia vedremo che fu poi catturato di nuovo, ma molto più tardi, nel 1601, e quindi lo troveremo in Napoli. Di tutti gli altri nominati dal Vitale abbiamo solamente notizia che fu catturato Gio. Paolo Carnevale e con lui Tiberio Carnevale, ma non Fabio Carnevale né Fabio Contestabile, che troveremo in qualità di testimoni in un'altra Informazione ecclesiastica presa dal Vescovo di Squillace nel novembre e dicembre di questo stesso anno 1599. Quanto poi a Marcantonio Contestabile, egli rimase sempre contumace, e vedremo che dal tribunale di Napoli fu dichiarato forgiudicato, con Gio. Francesco d'Alessandria, Alessandro Tranfo, Matteo Famareda, Francesc'Antonio dell'Ioy, e Tulibio dello Doce (o Dolce), come del pari Gio. Geronimo Prestinace e forse anche Fulvio Vua, che sappiamo essersi entrambi nascosti; inoltre Geronimo Baldaya, che fu certamente preso ed interrogato circa una lettera di Maurizio a Gio. Francesco Ferrayma trovata chiusa presso di lui, dovè essere rilasciato e poi ricercato di nuovo, probabilmente dietro le confessioni del Vitale, e vedremo anche lui dichiarato forgiudicato, ma presentatosi e processato in Napoli, liberato e poi ricercato ulteriormente, come si dirà a suo tempo. Aggiungiamo ancora che delle altre persone ecclesiastiche nominate o sospettate come aderenti alla congiura fu successivamente preso un certo numero, all'infuori del Jatrinoli e di Gio. Jacovo Sabinis, i quali doverono rimanere fuggiaschi, non essendoci pervenuta alcuna notizia di Atti giudiziarii concernenti le loro persone. Fin dal 23 settembre era stato già preso fra Scipione Politi Francescano, conosciuto come amico intimo del Campanella; l'Auditore Gio. Lorenzo Martire andò a carcerarlo nel convento medesimo di Stilo dove egli dimorava. Fu poi preso l'8 ottobre fra Pietro Musso di Monteleone Domenicano, che il barricello di Monteleone carcerò sotto il castello di quella città: un fra Leonardo suddito di fra Pietro, mentre costui volea farlo carcerare, lo denunziò come amico del Campanella, e un D. Domenico Pulerà di Pimeni presentò allo Xarava due lettere dirette a fra Pietro e rinvenute fin da luglio in un libro di lui durante una visita che gli fece, una di fra Dionisio del 10 giugno e l'altra del Pizzoni del 25 luglio, nelle quali si parlava di congregazione di fuorusciti e di armi; inoltre un nipote di questo fra Pietro andò caritatevolmente a deporre che il Pizzoni era stato in luglio a visitare suo zio nel convento di Maierato e gli portò due pistole ed un fucile, ed egli stesso, fra Pietro, si procurò un'altra pistola e con queste armi se ne andò, soggiungendo che nell'udire la cattura del Campanella e di fra Dionisio avea detto che gli dispiaceva. Inoltre fu preso un fra Vittorio d'Aquaro sacerdote Agostiniano, il 9 ottobre, sulla via di Mamola, mentre tornava dalla Sicilia in Calabria: fu preso un fra Giuseppe da Polistina, terziario Domenicano, in Reggio, mentre di là s'imbarcava per Messina, ad oggetto di ricuperare certe robe lasciate in eredità al suo convento. E furono presi alcuni altri, ma ancora più tardi, e li vedremo a suo tempo.

Intanto fra Cornelio e il Visitatore, decisi a non lasciare la preda, ripigliarono lo svolgimento del loro processo unitamente col Vescovo di Gerace, che li secondò nel modo più sciagurato: ciò accadde il 13 ottobre, e si ebbe in tal modo il così detto processo di Gerace, fatto da costoro assistendo alle sedute e facendo sentire la loro influenza lo Spinelli, lo Xarava, diversi altri laici, co' metodi soliti ed anzi peggiorati; sicchè gli ordini di Roma, dettati dall'amore della verità e della giustizia, riuscirono del tutto infruttuosi. Era allora Vescovo di Gerace fra Vincenzo Bonardo romano, già Segretario della Congregazione dell'Indice e poi Maestro del Sacro Palazzo, uomo punto tiepido nella difesa de' dritti giurisdizionali ed anzi prepotente siccome abbiamo avuto opportunità di vedere altrove (pag. 121-122): ma dovè forse allora essere invaso anche lui dal terrore che lo Spinelli e lo Xarava aveano finito per incutere in quelle sventurate provincie, onde si annullò interamente innanzi a fra Cornelio e agli ufficiali Regii; né sarebbe troppo arrischiato l'ammettere che lo Spinelli, sollecitamente informato dal Governo della deliberazione presa in Roma e nota fin dal 17 settembre, circa gli esami de' frati da farsi dal Visitatore e fra Cornelio insieme coi Vescovi locali, avesse lasciato Squillace e fatto tradurre tutti i prigioni a Gerace, precisamente per profittare della debolezza in cui era caduto il Vescovo di quel luogo. Certamente in Gerace gli ordini di Roma per lo meno non furono interpetrati a dovere. Lungi dal prendere altre informazioni con secretezza e diligenza laddove occorressero, si volle procedere all'esame non solo di diversi altri prigioni ma anche di quelli già esaminati scegliendo opportunamente gl'individui che sarebbero risultati in danno: così fu esaminato di nuovo Giulio Soldaniero senza rivelarne la condizione di guidato, fu esaminato il clerico Pisano che era stato già perfino torturato dallo Xarava e il clerico Caccìa che fu lasciato poco dopo torturare egualmente senza prenderne nota e senza farne alcuna rimostranza, ma non furono esaminati il clerico Contestabile e i frati Politi, Musso, Aquaro, Polistina, oltre fra Dionisio, verosimilmente perché si sapeva dover risultare per lo meno negativi; e furono dal Vescovo e dal Visitatore commessi gl'interrogatorii a fra Cornelio «come bene informato di tutto il negozio», con la più grande condiscendenza verso gli ufficiali Regii, con una estesa pubblicità e col solito corredo delle suggestioni, delle minacce, de' terrori, senza farne mai parola ne' processi verbali. Allorchè gl'infelici prigioni vennero in Napoli, questi fatti si scovrirono mano mano, né soltanto per opera degl'interessati ma anche per opera degli altri carcerati, come p. es. del Contestabile e del Di Francesco, che aveano vista o udita una parte di quegli scandali: lo Xarava medesimo disse ingenuamente al Vescovo di Termoli Giudice dell'eresia, che il Pizzoni non voleva confessare ma che alle insistenze di lui testificò, e il Vescovo non mancò di farlo sapere a Roma, togliendo così ogni dubbio possibile su' fatti asserti. - I prigioni si trovavano nelle carceri del castello dette «la Marchesa». Fra Cornelio andava là a catechizzarli individualmente, manifestando sempre che «per sutterfugger lo giudicio temporale» bisognava deporre eresie: questo fece anche col Pizzoni eccitandolo a confermare l'esame primitivo, come attestò poi il Di Francesco che trovavasi nella medesima carcere; ma principalmente egli cercò di catechizzare coloro i quali non si erano esaminati ancora, e massime i due clerici, Cesare Pisano, che non ne avea bisogno essendosi già prestato, e Gio. Tommaso Caccìa, che dovea pur trovare qualche modo di scampare la vita, e poteva sperarlo solo dalla remissione al foro ecclesiastico. Qualche volta il Visitatore accompagnava fra Cornelio in tale ufficio, e se non trovavano arrendevolezza, minacciavano i riluttanti, giuravano che non sarebbero usciti dal castello che in pezzi, sputavano sul viso, come fecero p. es. col Petrolo, il quale non intendeva di confermare tutto l'esame di Squillace. Allorchè poi si teneva seduta, ci era il Vescovo, il Visitatore, fra Cornelio, il Mastrodatti della Curia Vescovile Biagio Perlongo, e qualche sacerdote come testimone, p. es. Curiale de' Curiali, Ferrante Guido, Gio. Antonio de Rinaldis, Antonio Lucissa; fra Cornelio, intitolandosi anche utriusque juris doctor, dirigeva gl'interrogatorii ed avea cura di mettersi sempre in mostra, ciò che si rivela ottimamente da' processi verbali. Ma ci era anche Carlo Spinelli, lo Xarava, ed inoltre il Capitano di campagna (il Ruffo) con un certo numero di birri, e fu notato che mentre fra Cornelio sedeva sopra uno sgabello con poca dignità, lo Spinelli e lo Xarava erano adagiati sopra sedie a modo di Giudici; nelle mani di costoro si lasciavano pure talvolta gl'imputati, ed essi li interrogavano egualmente circa l'eresie, che anzi sappiamo essere stato presente anche il Principe di Scalèa in una di queste sedute straordinarie. Accadde inoltre talvolta, nelle sedute formali, che sorgessero contestazioni sulle cose scritte, non venendo trovate concordi con le cose dette, e s'interrompessero le sedute con scene di violenza, le quali aveano un sèguito entro le carceri, dove si finivano di redigere e firmare gli esami: intanto nulla di tutto ciò si rileva menomamente da' processi verbali. Tra le scene di violenza, meritano di essere ricordate quelle avvenute col Petrolo e con fra Pietro di Stilo. Il Petrolo dalla sala del tribunale fu bruscamente rimandato in carcere, e il Capitano di campagna gli tolse mantello e cappello per fargli sfregio, sicchè i suoi compagni di carcere lo videro rientrare in quella foggia «che pareva un pescatore»; ma dopo tre giorni venne fra Cornelio a fargli premura che firmasse il processo verbale, quindi fu chiamato al luogo della corda in presenza del Visitatore, dello Xarava e del Mastrodatti, e dicendogli fra Cornelio che il processo verbale era stato emendato, lo Xarava afferrandolo pel petto lo condusse alla banca e l'obbligò a firmare. Fra Pietro di Stilo poi, come già in Squillace così pure in Gerace, fu più volte interrogato senza che si scrivesse nulla, perché rifiutava di dire ciò che si voleva; gli furono allora mostrati da fra Cornelio alcuni ferri, co' quali gli minacciava di fargli stringere il petto, e il Capitano di campagna, che era presente, faceva mostra di averne compassione; poi finalmente, dopo parecchi tentativi, si potè redigere il processo verbale del suo esame. Ora nella procedura ecclesiastica, e così anche nella procedura secolare pe' delitti comuni, il solo condurre l'imputato nel luogo de' tormenti equivaleva a un primo grado di tortura detto territio, e la tortura, in qualsivoglia grado, non poteva amministrarsi che dopo di avere compiti gli esami informativi e ripetitivi, e data all'imputato la copia degl'indizii raccolti contro di lui. Gravissime dunque furono le irregolarità, con le quali si menarono innanzi gli Atti del processo di Gerace, e le circostanze suddette debbono servire ad essi di commento; passiamo ora a farne l'esposizione nel miglior modo che ci sarà possibile.

Primo fra tutti, il 13 ottobre, fu esaminato fra Pietro Ponzio. Rispondendo a diverse interrogazioni, egli disse ingenuamente che credeva di essere stato carcerato perché fratello di fra Dionisio, espose dove e come e perché lo avea visto negli ultimi tempi, attestò l'amicizia di lui col Campanella da più di 14 anni avendo sempre continuato ad essere amici, dichiarò di aver saputo che era stato preso a Monopoli dicendosi comunemente che procurava una ribellione col Campanella ed altri frati e secolari, negò che fra Dionisio gli avesse mai parlato di tal cosa. Ed a fine di non fargli conoscere il modo di esame che era stato adottato, i Giudici decisero di non procedere oltre con lui. - Fu quindi esaminato fra Paolo Jannizzi della Grotteria. Egli disse che credeva di essere stato carcerato per un fatto occorsogli a Filogasi (avea dato uno schiaffo al Baglivo di quella terra), ma che intese essere stato carcerato per le cose del Campanella; narrò che due volte sole avea visto il Campanella, la prima in Napoli sette o otto anni avanti, allorchè egli, fra Paolo, trovavasi in carcere e il Campanella passando per la via fu da lui pregato di far giungere una sua lettera al P.e Superiore, la seconda in Pizzoni, dove lo trovò verso la metà di luglio col fratello giovanetto e due altre persone a lui ignote, oltre i due figliuoli di Ferrante Crispo, il Caccìa e Giovanni di Filogasi, tutti armati di fucile e pistola, eccetto uno de' figli di Crispo. Disse di non sapere che costoro, in Pizzoni, avessero mangiato carne di venerdì, ma che fra Gio. Battista di Pizzoni, venendo da Monteleone a Gerace, gli avea detto di essere stato carcerato per questa causa; negò di aver parlato di altro col Campanella che di cose comuni, avendogli il Campanella, insieme con fra Gio. Battista, detto solamente che i letterati non erano premiati né esaltati secondo il dovere; ma attestò che costoro «tutto il giorno parlavano con li banniti in secreto et a longo», e dietro interrogazione aggiunse che per le cose stategli dette e per quelle da lui viste teneva il Campanella «per homo tristo et per malissimo christiano, et il simile... di fra Gio. Battista di Pizzone». Si scusò intorno al libro di negromanzia, affermando non essere di suo carattere e non averlo nemmeno letto. Dietro altra interrogazione disse di aver conosciuto fra Dionisio e di averlo, negli ultimi tempi, visto in Pizzoni solamente per una notte di passaggio, né avergli parlato per le antiche inimicizie che avea seco; ed aggiunse che era stato inquisito di aver voluto ammazzare fra Ponzio Provinciale, onde avea riportata la condanna di tre anni di galera ed avea scontato questa pena.

In una 2.a seduta, il 16 ottobre, furono esaminati molti altri, e ne' processi verbali trovasi notato che l'interrogatorio fu commesso a fra Cornelio. Comparve dapprima fra Pietro di Stilo, del quale gioverà ricordare che in Squillace era stato interrotto l'esame non appena cominciato. Egli continuando quell'esame, dietro interrogazioni, disse avere udito dal Campanella che il Papa e il Re si accordavano a' latrocinii, che l'elezione del Papa non era canonica contando per una sola le molte voci de' pensionati del Re, che il vivere della Corte Romana era biasimevole, che il Papa facea molte cose contro il dovere, i Cardinali erano tiranni e lussuriosi della peggiore specie; inoltre che si burlava del peccato della carne, senza ritenerlo veramente lecito, e soltanto per detto del Petrolo egli sapeva che una volta avea manifestato non esservi nell'ostia consacrata il corpo di Cristo. Dietro altre interrogazioni speciali disse che il Campanella si burlava de' miracoli, affermando che egli pure ne farebbe «in comprobatione della sua scientia et delle sue opere, et che i miracoli non erano altro che una applicatione de intentione di quello alla cui persona si faceva il miracolo, et ch'ognuno potea far miracoli in questo modo»; che mai gli era occorso di averlo udito chiamarsi Messia né Profeta, bensì Monarca, avendo detto anche «in presentia di Gio. Gregorio Presinacio nella camera sua... che tutti gl'altri homini che di niente erano venuti a qualche dignità o imperio haveano havuti solamente tre pianeti ascendenti favorevoli, ma che esso n'havea setti, et che per questo aspettava la Monarchia del mondo come anco li fu detto da un valentuomo astrologo delle parti di Germania che si trovava nell'inquisitione». Circa all'averlo udito discorrere di mutazioni di Stato, disse che in Arena, nel palazzo del Marchese, gli avea detto che era stato scritto contro di lui da quelli di Stilo al Nunzio ed al Papa che avesse amicizia co' banditi, e che per scienza e per profezie di S.ta Brigida e del Savonarola egli provava «ch'in quest'anno seranno gran revolutioni et mutationi di stato... et questi stati muteranno regni et si faranno republiche et sarà bono in questi tempi per chi si troverà armato et che haverà arme assai di difender se stesso», soggiungendo che non sapeva «si volesse dire di se stesso ma havea molti amici et adherenti». Specificando poi questi amici disse che i principali erano Giulio Contestabile, Fulvio Bua e sopra gli altri Gio. Gregorio Presinacio; tra' monaci poi fra Dionisio e M.° Scipione Politi Conventuale. Per detto del Petrolo affermò, sempre dietro interrogazioni, che il Contestabile avea calpestato il ritratto del Re Filippo, e prescelto quello del Gran Turco. Circa fra Dionisio, tre volte costui era venuto a Stilo da che egli era Vicario nel convento; nulla avea detto mai contro la fede, se non che parlava pubblicamente del peccato di carne della più brutta specie e perfino se ne gloriava. Circa Giulio Soldaniero, lo conosceva per avergli una volta portata una lettera del Campanella, e pregatolo da parte di fra Tommaso che si recasse da lui ma senza discorrere di altro. Tutto ciò non parve ai Giudici conforme a verità, e fu deciso di rimandarlo nelle carceri per poi continuare l'esame, e frattanto gli si domandò se avesse mai detto di volere prender moglie, e subito fra Pietro accettò di averlo detto spesso e in molti luoghi ma per burla.

Nel medesimo giorno, quantunque dal processo verbale dell'esame di fra Pietro di Stilo si rilevi che era già tardi, furono esaminati il Bitonto e tutti i rimanenti frati. - Il Bitonto dovè prima di tutto dar conto del come e perché si trovasse senza abito monastico, senza chierica e con lunga barba; e rispose che fu preso mentre dormiva e non gli fu dato tempo di vestirsi, che s'avea tolta la corona per certe infermità e la barba gli era cresciuta! E narrò che si era rifugiato in una vigna, poichè gli fu detto dovere esser preso come amico del Campanella. Quindi narrò la sua antica conoscenza col Campanella, la visita fattagli in giugno con fra Dionisio, fra Jatrinoli, il Pisano e il Grillo, trattando cose di frati, e la fermata a Stignano in casa Grillo, dove il Petrolo e il padre del Campanella gli aveano donato qualche vivanda e fra Dionisio avea detto certi concetti predicabili; ma i Giudici non ne furono contenti. Dietro altre interrogazioni, disse di conoscere Cesare Pisano suo parente e di essere andato con lui a Bagnara e a Messina; negò di aver mai consacrate più particole fuor di bisogno, negò di aver mai saputo un abuso osceno dell'ostia consacrata. Circa fra Dionisio, disse di averlo conosciuto da molto tempo, di essere stato con lui e col Pisano in Oppido, in Bagnara dove predicò, ed in Messina dove egli comperò materasse e fra Dionisio libri, zafferano e pepe; aggiunse di averlo visto poi un'altra volta ed essere andato allora con lui e col Pisano presso il Campanella per pregarlo che gli procurasse qualche predica, tornando poi per Castelvetere dove trovò carcerato il Gagliardo; aggiunse ancora di averlo visto una terza volta quando con lui e col Campanella andarono a Castelvetere, dove visitò il Pisano carcerato ed ebbe occasione di incontrarsi ancora col Gagliardo, dicendogli soltanto che stesse di buon animo. I Giudici non furono contenti, e l'avvertirono che continuerebbero l'esame «etiam rigorose». - Venne quindi chiamato il Pizzoni, e rilettogli l'esame primitivo, egli lo confermò e ratificò in tutto e per tutto. Lo stesso fece il Lauriana e si giunse finalmente al Petrolo. Il Petrolo confermò del pari il suo esame primitivo ma volle emendate due cose; la prima, che il Campanella avesse comunicate le sue opinioni a' gentiluomini da lui nominati, ciò che era stato detto per errore; la seconda, che egli avesse lasciato l'abito per timore di esser preso ed ucciso dalla Corte, mentre dovea dirsi per timore di essere ucciso da Maurizio de Rinaldis, avendo lui, Petrolo, sconsigliato il Campanella di recarsi presso Maurizio.

Il 18 ottobre, fu esaminato Giulio Soldaniero, il quale egualmente confermò e ratificò l'esame primitivo. Due cose pertanto si fanno notare nel processo verbale del suo nuovo esame; la prima, che il Visitatore neanche questa volta vi fu presente; la seconda, che fra Cornelio gli suggerì «che avverta aver detto queste cose per zelo della fede e della religione, come pure della fedeltà che deve al Serenissimo Re, e non per odio ne passione alcuna», e il Soldaniero rispose, «io l'ho detto per zelo della fede et per fideltà ch'ho portato et porto a Re Filippo nostro Signore et non per odio ne passione alcuna»!

Il giorno seguente, 19 ottobre, furono esaminati il Pisano e il Caccìa, ed anche per costoro fu dato a fra Cornelio l'incarico di esaminare, quasi che fossero semplici testimoni e non già principali. Il Pisano fu, al solito, loquace oltre misura. Disse trovarsi carcerato «per conto della rebellione procurata in questi Stati», e dietro successive interrogazioni rispose, che andando lui carcerato in Castelvetere, il Bitonto gli disse di stare allegramente perché avrebbe nelle carceri trovato il Gagliardo molto amico suo, ed andatovi, il Gagliardo gli si presentò come amico del Bitonto, il quale era stato una volta col Jatrinoli a visitarlo in quelle carceri; e così egli, il Pisano, cominciò allora a parlare al Gagliardo della ribellione. Ma qui i Giudici gl'imposero silenzio, volendo che trattasse solo delle cose della fede. Ed egli disse che cominciò a parlargli del Campanella nuovo Messia, il quale volea fare nuova legge; e ripetè le solite proposizioni da lui manifestate contro Cristo, contro la Trinità, ammettendo «un solo Dio o sia spirito che governa il tutto et move gli cieli», contro i miracoli di Cristo e la sacra scrittura, che era stata dettata dagli amici di Cristo: ma negò di avere intorno a Maria detto altro, se non che fosse moglie di S. Giuseppe e nera, appoggiandosi al nigra sum; confessò di aver parlato delle cattive relazioni tra Gesù e S. Giovanni, comunque non vi avesse creduto, ed attestò che giammai fu redarguito intorno a ciò né dal Gagliardo né da alcun altro. Aggiunse aver negato il purgatorio, l'inferno e il paradiso, negato anche il Sacramento dell'altare, raccontando che nella cena di Stignano fra Dionisio l'avea predicato con gli esempi di pugnalate date all'ostia, del pugno datole da un inglese in Roma e di qualche altro fatto osceno; non accettò che questo fosse stato commesso da lui, e nemmeno dal Bitonto. Proseguì la storia delle proposizioni da lui dette al Gagliardo contro il Papa e i Cardinali, contro l'istituzione monastica, contro Cristo, contro i digiuni, contro l'immortalità dell'anima; negò qualunque altra cosa appostagli, e specialmente di aver detto che né per Cristo né pe' paternostri si sarebbe mai fuori di carcere ma solo co' danari. Circa il Campanella disse di aver manifestato che era nuovo Messia, farebbe miracoli come Cristo, predicherebbe la libertà, ed avrebbe più seguaci ed acquisterebbe più Stati, perché avrebbe la virtù unita con l'armi. Negò poi di professare i detti errori e disse di averli manifestati a que' compagni di carcere «per indurli o confirmarli alla rebellione temporale», attribuendo a fra Dionisio l'averglieli insegnati in que' viaggi ad Oppido, Bagnara e Messina, e poi a Stignano ed a Stilo, nei quali l'accompagnò insieme col Bitonto. E qui fece un'altra volta la noiosa ripetizione di tutte le cose dette, nel modo in cui le aveva espresse fra Dionisio, dal quale solamente affermò di averle udite, mentre gli altri frati plaudivano. Circa i suoi compagni di carcere in Castelvetere, manifestò l'opinione che Felice Gagliardo non solo professasse quegli errori ma anche ne sapesse più di lui, essendone stato istruito dal Bitonto, e così pure Orazio Santacroce «al quale aveano confidata ogni cosa» e dal quale udì che gli piaceva la ribellione progettata da' frati perché volea vendicarsi del Vescovo di Gerace ed ammazzarlo con le sue mani! Finì dunque per accusare anche il Bitonto, mostrandosi, da parte sua, pentito di aver manifestato quegli errori. Da ultimo interrogato se avesse conosciuto il Campanella e se gli avesse mai parlato, disse di averlo veduto soltanto per dodici ore, quando da Monasterace lo accompagnò a Stilo insieme co' frati, i quali lo presentarono a fra Tommaso come uno degli amici, e fra Tommaso, perché erano a cavallo, si volse a lui e disse «bene, bene», e non iscambiarono altre parole.

Si passò quindi all'esame di Caccìa. Costui disse egualmente trovarsi carcerato «per causa della rebellione procurata in questi Stati»; ma i Giudici gli vietarono di proseguire e gli ordinarono di rispondere alle interrogazioni, ed egli disse di credere che veniva esaminato «per conto delle cose di fra Thomaso Campanella et di fra Dionisio Pontio et di fra Gio. Battista di Pizzoni per conto delle sue heresie et opinioni». Narrò che avea conosciuto il Campanella una volta in Stilo, quando vi andò col Contestabile verso la fine del maggio, rimanendovi per otto giorni, un'altra volta parimente in Stilo rimanendovi tre giorni, ed una terza volta in Arena. Avea conosciuto pure fra Dionisio le due prime volte che era stato presso il Campanella, e poi una terza volta quando l'accompagnò a Pizzoni, di dove fra Dionisio subito fuggì per timore di Carlo di Paola venuto a carcerare fra Gio. Battista e il Lauriana. Aveva inoltre conosciuto il Pizzoni nel convento in cui era Vicario, ed era stato quattro volte presso di lui. Disse di ritenerli tutti e tre «per homini tristissimi et pessimi et per mali Christiani» per alcune cose scandalose che aveva udite da loro. E cominciando dal Campanella narrò, che avendogli dimandato se conoscesse arte magica, il Campanella gli disse «o chiotto, e tu credi che ci siano diavoli?... pezzo di chiotto, non cè ne diavoli ne inferno»; ed altra volta disse di volere «far nova legge, et che quando cominciasse a predicare che allora si sentirebbe la verità et la legge che esso volea fare, la quale sarà la vera legge di vivere et meglio di questa delli Christiani», soggiungendo: «non me communicò il particulare della legge o della verità che pretendia di predicare, si bene intesi da esso proprio nel sudetto loco che volea far mutar il modo di vestire da quello che s'usa adesso et volea che si portasse una giobba longa o sia veste, ma non sò come o di che colore». Venendo a fra Dionisio disse che una volta, lui presente, volendo andare a Messa, egli se ne burlò, chiamandola una bagattella; né altro udì mai da lui contro la fede. Infine, venendo al Pizzoni, disse che una volta, avendogli detto di sgridare il nipote Fabio già frate che da poco tempo avea deposto l'abito monastico e si facea chiamar Lucio, perché avea mangiato carne nella sera della vigilia di S. Bartolomeo, non lo volle fare, burlandolo col dire che vigilia s'intendeva il dì e non la notte; e un'altra volta, nel leggere lui, il Caccìa, un tratto di Plinio in cui si parlava della natura, dimandato al Pizzoni cosa fosse questa natura di cui parlava Plinio, egli rispose che la natura era ciò che noi chiamiamo Dio, e che non v'era altro Dio che la natura. Dichiarò di non conoscere altri frati, e di ritenere che que' tre credessero realmente a quelle opinioni, mentre egli non vi avea mai creduto e si era sempre allontanato da loro quando le aveva udite. Ma era venuto a conoscenza de' Giudici che nel convento degli Agostiniani di Belforte, dove egli soleva dimorare, una volta, avendo lui trovato su di un tavolo un Gesù crocifisso lo avea gettato a terra, e si volle sopra di ciò interrogarlo; ed egli rispose che si trattava solo di una testa di crocifisso, la quale non avea nemmeno riconosciuta, e facendogli ingombro, l'avea gettata a terra. Notiamo poi che la qualità di clerico fu ammessa da' Giudici tanto pel Caccìa quanto pel Pisano, e trovasi debitamente registrata nei processi verbali.

È questo, in succinto, il processo di Gerace, che per la presenza del Vescovo nella compilazione di esso riuscì tanto più grave, non avendo il Vescovo in realtà fatto altro che covrire e lasciar passare la malvagità de' frati Inquisitori e la prepotenza degli ufficiali Regii. Ma dobbiamo ancora vedere il valore delle deposizioni raccolte. E cominciando da quella di fra Pietro Ponzio, possiamo dire che essa non aggiunse nulla, e servì solo a mostrare che veramente fra Pietro non era stato fatto consapevole di queste faccende. La deposizione poi di fra Paolo della Grotteria aggravò certamente le condizioni del Campanella e di fra Gio. Battista, massime dal lato della congiura, quantunque non avesse fornito che semplici indizii ed apprezzamenti degni di un ex-galeotto, il quale non si faceva scrupolo di calcare la mano su' compagni nell'impresa, credendo di propiziarsi i Giudici in questa guisa. Ma grave riusciva sopra tutte le altre la deposizione di fra Pietro di Stilo: egli rivelava finalmente parecchie e non lievi cose tanto circa l'eresia quanto circa la congiura, ed evidentemente dovea saperne molte di più, giacché, e per l'amicizia che lo legava al Campanella, e per la sua posizione di Vicario del convento che lo costituiva responsabile di aver tollerato cose simili, avea tutto l'interesse di celare quanto più poteva. Senza dubbio, dopo tante rivelazioni fatte dal Pizzoni e dal Petrolo, dopo tante rivelazioni fatte anche da' laici, le quali aveano già condotto alla morte il Crispo e il Mileri, negare ulteriormente era di grandissimo pericolo per lui, di niun vantaggio alla causa: adunque non trattavasi più solamente di dir cose di eresia per sottrarsi alla Corte temporale, ma anche di lasciare la parte dell'ingenuo che oramai non poteva più persuadere alcuno, badando tuttavia a rivelare il meno possibile. E rivelò le cose certamente più comuni e più frequenti a trovarsi in bocca al Campanella, e parlò soltanto delle opinioni di lui sul Re, sul Papa e sulla elezione Papale, sulla poca importanza de' peccati di carne e la nessuna importanza de' miracoli, e se non tacque l'opinione sul Sacramento dell'altare, ciò accadde perché essa era nota al Petrolo ed egli era in grado di capire che costui non avea dovuto tacerla. Così, con la stessa altissima probabilità con la quale si è detto che il Pizzoni, seguìto poi dal Petrolo, rivelò tutto ed anche qualche cosa di più, può dirsi che fra Pietro di Stilo rivelò molto meno di quanto conosceva: e naturalmente deve dirsi, che l'avere taluni abbondato nelle rivelazioni delle cose di eresia, con la speranza di sfuggire in tal modo la Corte temporale, va inteso non già nel senso di avere inventate le eresie, ma nel senso di non averle nascoste. Per farsi un giusto concetto della causa, interessa grandemente che tutto ciò sia ben fermato. Le violenze, usate da fra Cornelio poterono esser dirette a pretendere che fra Pietro facesse altre e più gravi rivelazioni, ma quelle che fra Pietro fece non vennero strappate a forza: difatti vedremo in sèguito dichiarato da lui che «fra Cornelio scriveva troppo diffusamente», ridotta così l'asprezza ma non negata la qualità delle sue rivelazioni; e veramente è naturale ammettere che tanto la parola «sceleratissimo» usata verso il Campanella nel primo esame, quanto diverse altre parole aggravanti usate nel secondo esame, non sieno state le precise parole di fra Pietro, ma, attenuate pure convenientemente queste parole, il fondo delle cose non riusciva sostanzialmente modificato. Lo stesso deve dirsi delle rivelazioni di fra Pietro circa la congiura. È superfluo notare quanto sia grave il fatto deposto che il Campanella riteneva dover essere monarca del mondo in virtù di sette pianeti favorevoli, ciò che era suggellato anche coll'autorità di un astrologo germanico; nella premura di scolparlo dell'essersi lasciata dare la qualità di Messia e di Profeta, fra Pietro non dovè calcolare l'importanza della sua rivelazione. Del resto si sforzò di dire che il Campanella, dietro i presagi e le profezie di future repubbliche, raccomandava di avere molte armi per difendere sè stesso, ma non potè nascondere che avea molti amici e aderenti, la qual cosa doveva essere un fatto più che notorio. E fra essi nominò Giulio Contestabile, senza dubbio pel risentimento eccitato dalla sua mala condotta, e più ancora per la necessità di dover dire la faccenda dell'oltraggio fatto all'immagine del Re, essendo ciò conosciuto anche dal Petrolo; nominò il Vua e il Presinacio, certamente perché li sapeva nascosti ed al sicuro dalle unghie del fisco; ma non nominò Maurizio e con lui quanti altri egli dovea aver visti e conosciuti nella sua posizione di Vicario del convento di Stilo. Dei frati poi nominò appena fra Dionisio per la ragione che era un aderente manifesto anche troppo, e fra Scipione Politi per una ragione rimasta ignota ma che ci dovè essere, poichè questo frate, sebbene nominato da tante e così gravi testimonianze e già carcerato, non fu menomamente travagliato. Da ultimo non potè nascondere che conosceva il Soldaniero e gli avea portata una lettera del Campanella, essendosi probabilmente persuaso che il Soldaniero, nel suo volta-faccia, avea dovuto rivelare e forse anche presentare questa lettera. Come ben si vede, egualmente da siffatto lato la deposizione di fra Pietro venne ad aggravare la condizione del Campanella, sebbene fosse stata condotta con una discrezione notevolissima. I Giudici non poterono essere soddisfatti, perché si aspettavano da lui molto più, e manifestamente non a torto. Anche per noi, attese le qualità di fra Pietro, questa deposizione non può non avere una importanza grande, né solo per quello che dice, ma anche per quello che non dice e lascia trasparire sufficientemente. Il Campanella aveva presagi di vicine mutazioni ed anche presagi grandiosi per la persona sua, insinuava l'utilità di armarsi, aveva molti aderenti e scriveva a fuorusciti per chiamarli a sè: questi grandi tratti bastano a chiarire la causa, e nella farragine di deposizioni d'ogni risma, trovandone taluna come questa, non sospetta, sopra di essa conviene fondarsi per avere una guida meno fallace nella intralciata quistione.

Poco ci tratterrà il giudizio sul valore delle rimanenti deposizioni. Il Bitonto, negativo in tutto, trovò una scusa per ogni interrogazione, ma una scusa tale da sfidare qualche volta la pazienza de' Giudici, e per tal modo non recò alcun vantaggio a sè né agli altri. Il Pizzoni poi giunse solo a confermare quanto avea deposto, mentre pure sappiamo che voleva per lo meno emendate alcune cose e non vi riuscì; questo ci comprova che nella prima deposizione avea rivelato più del vero. Lo stesso va detto pel Petrolo, le cui emendazioni non mutarono sostanzialmente le cose, dovendosi tuttavia notare, che quella introdotta per ispiegare meglio la sua fuga venne troppo tardi per potere veramente scusar lui denigrando Maurizio. Del Lauriana poi, come del Soldaniero, è inutile occuparsi: con ogni probabilità essi non avrebbero nemmeno saputo ripetere tutte lo cose dette nella loro prima deposizione, laddove a qualche Giudice, e p. es. al Vescovo, fosse venuto in mente di esigerlo; intanto tutti costoro ribadivano le accuse, e le cause del Campanella riuscivano sempre peggiorate. Quanto al Pisano, egli, poco più o poco meno, ripetè sempre le solite cose, come lo abbiamo visto innanzi al Delegato del Vescovo di Gerace e poi innanzi allo Xarava, e come lo vedremo sul punto di essere giustiziato; tuttavia questa volta si mostrò risentito e vendicativo più del solito verso coloro i quali riteneva essere stati rivelatori delle cose sue, specialmente verso il Santacroce, oltre il Gagliardo. Tale sua costanza nelle deposizioni, mentre addimostrava che egli diceva il vero, riusciva aggravante massime per fra Dionisio e gli altri frati compreso il Campanella, sebbene anche questa volta egli avesse dichiarato un po' meno del vero le brevi relazioni avute direttamente con lui. Infine quanto al Caccìa, costui veramente aggiunse cose di eresia ed aggravò sempre più le condizioni del Campanella, di fra Dionisio e del Pizzoni: non ne conosceva molte, e ciò prova da una parte che non glie ne furono artificiosamente suggerite da alcuno quando trovavasi nelle carceri, e d'altra parte che in realtà non v'era ne' frati il proposito di seminare eresie, come fra Cornelio e i Giudici laici pretendevano; invece quelle poche che dichiarò, e il modo in cui disse di averle sapute, provano che se fra Dionisio ne parlava, ciò avveniva realmente perché voleva, a modo suo, spiriti forti i soldati della futura ribellione, e se ne parlava il Campanella, ciò avveniva o perché vi era condotto dalla necessità dietro certe dimande, o perché alludeva a' principii religiosi che avrebbero avuto impero nel futuro Stato.

Pertanto una copia di questo processo, come veniva certamente spedita a Roma, così veniva anche rilasciata agli ufficiali Regii. Gli Atti esistenti in Firenze mostrano indubitabilmente tale compiacenza de' Giudici ecclesiastici, e fanno rilevare che questa copia rimase come allegato di tutto il processo di tentata ribellione, mentre la copia dell'Informazione presa da fra Cornelio e dal Visitatore era stata inserta nel 1.° volume de' processi medesimi. Il Vescovo di Gerace verosimilmente chiuse gli occhi sopra una simile infrazione delle norme assolute del S.to Officio e degli ordini formali di Roma, che intimavano diligenza e segretezza, come li chiuse certamente sopra gli esami fatti e le torture inflitte da' Giudici laici al Pisano e al Caccìa, mentre venivano riconosciuti clerici ne' quattro ordini sacri. Del resto avea chiusi gli occhi anche sulla mancanza di segretezza durante gli esami, per l'intervento degli ufficiali Regii e della loro gente armata, la qual cosa si fece sentire in modo non lieve a carico de' poveri inquisiti; giacchè non solo divennero sempre più diffuse le voci di congiura e di eresia, ma ne andarono per le piazze le più minute particolarità, e così in qualche altra Informazione, che si ebbe a prendere posteriormente, si trovarono generalizzate assai più di quanto era legittimamente imputabile agl'inquisiti. Vedremo tra poco che in una nuova Informazione commessa da Roma al Vescovo di Squillace, e presa in novembre e dicembre di questo stesso anno, si raccolsero molte e molte cose specialmente «de fama publica, de auditu incerto post carcerationem», e non si potrebbe dire con precisione quante ne avessero disseminate gl'inquisiti e quante i Giudici. Ma a' Giudici medesimi, segnatamente a quelli ecclesiastici, nocque non poco la loro sciagurata maniera di procedere: lo zelo eccessivo di fra Cornelio, secondato per lo meno dalla notevole acquiescenza del Visitatore, al contrario di ciò che costoro si attendevano, come ingenerò sospetto in Roma, così ingenerò disgusto e sospetto nel pubblico; il processo di eresia fatto in Napoli venne poi a rivelare le voci corse sul proposito, e gioverà qui riferirle. «Comunemente fra Cornelio e il Visitatore si tenevano Vescovi»; di fra Cornelio «dicevasi che lo volevano fare sin fino Arcivescovo di Toledo»! Era questa senza dubbio una caricatura, ma da essa si desume l'impressione che i procedimenti di fra Cornelio aveano destata: né vale il dire che tali voci vennero messe innanzi dagl'inquisiti che aveano interesse di farlo, come fra Pietro di Stilo, il Petrolo, ed anche il Bitonto, il quale disse perfino di avere udito l'Avvocato fiscale assicurare fra Cornelio «che se li saria procurato un Vescovato»; vedremo più tardi fra Cornelio, deluso e malcontento, recarsi da Napoli in Ispagna, ed il Nunzio risentirsene con vivacità, la qual cosa non potrebbe spiegarsi senza ritenere che le voci corse avessero davvero un fondamento. D'altra parte dicevano «alcuni preti in Hieraci, che fra Cornelio havea preso de li dinari da Misuracha acciò che andasse contra li monaci e facesse tutto il possibile contra di essi e questo per havere la taglia»; molti attestarono ancora avere udito dal padre del Pisano, ed egualmente dal Caccìa, che entrambi aveano dato danaro ed altre robe a fra Cornelio dietro promessa di farli rimettere al foro ecclesiastico, ed egli li avea traditi. Il Campanella medesimo raccolse poi queste voci e le addusse nelle sue Difese; ma per verità almeno quanto al Mesuraca, non occorreva l'opera di fra Cornelio e non era stata neanche bandita una taglia o premio per la cattura del Campanella; quanto poi al Pisano ed al Caccìa, la cosa potè esser vera, essendo avvenuto pure qualche altro fatto che pose in evidenza lo spirito di profitto di quel tristo frate. Il fatto fu questo. Allorchè l'opera sua era compiuta, e rimaneva soltanto che gl'inquisiti fossero tradotti a Napoli, egli cercò danaro da' conventi di Calabria sotto pretesto di sovvenire gl'inquisiti; il danaro fu sborsato, ma non giunse a coloro pe' quali era stato raccolto, e il Visitatore anche questa volta per lo meno lasciò fare. Il Vescovo di Termoli, Giudice dell'eresia in Napoli, volle poi informarsi di tale faccenda e scrisse a Roma intorno al Visitatore e a fra Cornelio in questi sensi: «la verità è che si fecero dar molti denari per provedere a questi carcerati, et non gli è stato provisto, mà frà Cornelio li hà spesi in venir à Roma, et si come intendo ne diede conto alli superiori in Calabria».

Passiamo ora a narrare le ultime gesta dello Spinelli e dello Xarava in quelle sventurate provincie. Secondo gli ordini già dati dal Vicerè, essi dovevano far giustiziare quattro de' più colpevoli, ed inoltre anche Maurizio dopo di averne vagliata bene la causa, quindi tradurre tutti i rimanenti carcerati in Napoli. Ma, come il Vicerè medesimo fece sapere a Madrid con sua lettera del 20 ottobre, essendo i carcerati più di cento, e tra loro venticinque fuorusciti ed otto o dieci frati, a fine di risparmiare questo peso alle terre per le quali avrebbero dovuto passare, egli ordinò a D. Garzia di Toledo che con quattro galere, raccogliendo i soldati inviati a Lipari e ad altre parti, se ne venisse al Pizzo o a Scalèa e di là avvertisse lo Spinelli di recarsi con tutti i carcerati ad uno di que' posti, per imbarcarsi con loro nelle galere e tornarsene in Napoli; quivi giunti, egli diceva, «se ne vedranno le colpe e si procederà con loro come meglio convenga, procurando di esaminare radicalmente il fatto di questo negozio e quelli che vi si troveranno colpevoli». Sappiamo che le galere erano partite da Napoli il 10 8bre (ved. pag. 330), ma l'adempimento della loro commissione a Lipari e poi il mare procelloso furono cagione di tanto ritardo, che gli ordini del Vicerè si poterono eseguire solamente ai primi di novembre. Da' folii del processo finora noti non apparisce che in tutto questo tempo si fossero fatti altri esami di qualche importanza: ma bisogna sempre ricordarsi che la massa de' sunti a noi pervenuti è solo quella che direttamente o indirettamente riguarda gl'inquisiti ecclesiastici, e mentre da una parte si trova ancora in que' sunti qualche cosa di siffatto genere, d'altra parte sappiamo che vi furono perfino altri laici «convinti e confessi» e poi giustiziati nel porto di Napoli; riesce quindi manifesto che fino all'ultimo momento la persecuzione continuò e il tribunale non cessò mai di funzionare. Noi abbiamo cercato di raccogliere in un elenco i nomi di tutti coloro i quali si trovano citati in ogni maniera di documenti, e massime ne' processi, come carcerati o perseguitati per la causa del Campanella: i lettori lo troveranno in una delle Illustrazioni annesse a' Documenti e potranno prender conoscenza di questi nomi. Qui ne menzioneremo appena taluni, che non abbiamo ancora avuta occasione di citare e che poi vedremo emergere nel corso degli avvenimenti; p. es. Francesco Antonio di Oliviero di Nicastro, che il Campanella nelle carceri di Napoli segretamente ebbe a compiangere perché del tutto estraneo a que' maneggi; Marco Antonio Giovino (corrottamente Ingioino) di Catanzaro, a' cui fratelli venne poi imputata l'uccisione del fratello del Biblia per vendetta. Ma principalmente dobbiamo menzionare taluni catturati da Giulio Soldaniero e Valerio Bruno, i quali, dopo di aver consegnato Gio. Tommaso Caccìa, continuarono in siffatti servizii e si meritarono poi l'indulto consegnando «in Gerace» Gio. Battista Bonazza alias Cosentino di Nicastro, Fabio Furci, Scipio lo Jacono, Cola Politi, Conte Jannello, Marcello Barberi, tutti di Tropea, ed Orazio Paparotta (o forse meglio Paparatto) di Nicotera. I nomi di costoro con la qualità di «forasciti et rebelli» si leggono appunto nell'indulto concesso dallo Spinelli al Soldaniero e al Bruno, ed i primi tre, il Bonazza, il Furci e il Lo Jacono son detti «confessati in tortura et condennati a morte», gli altri son detti «carcerati in questo tribunale per tormentarli». Sul Bonazza noi abbiamo rinvenuto nel Grande Archivio documenti i quali mostrano essere stato già prima del 1599 catturato e condannato a morte e poi mandato alle galere per omicidio; bisogna perciò dire che in quest'anno fosse evaso ed ascritto tra' congiurati siccome anche il Pizzoni attestò; per fermo le parole dell'indulto non lasciano dubbio circa la nuova imputazione fatta a lui ed a' suoi compagni e dànno il modo d'interpetrare i nomi e la condizione di almeno tre su' quattro individui che vennero più tardi impiccati sulle galere in vista di Napoli come ribelli, senza essersene saputo mai altro. I processi ecclesiastici fanno anche conoscere per incidente come e dove il Bonazza e i suoi compagni furono presi: essi erano rifugiati nel convento di S. Francesco di Paola di Tropea e vennero assediati dal Soldaniero con la sua comitiva, ed anche da un Camillo di Fiore con un'altra comitiva; costoro promisero che catturando que' rifugiati li avrebbero consegnati nelle carceri Vescovili, ed invece, burlando il Vicario, li tradussero a Monteleone e poi a Gerace nelle mani dello Spinelli, onde il Vescovo di Tropea ebbe a scomunicarli.

Come pe' laici, egualmente per gli ecclesiastici continuarono le catture e si prese anche qualche Informazione, ma sempre d'ordine dello Spinelli; e da questo lato abbiamo notizie incomparabilmente più complete, fornendole gli Atti esistenti in Firenze ed inoltre i Preliminari del processo di eresia fatto in Napoli. Mentre il tribunale ecclesiastico funzionava in Gerace, il 13 ottobre fu catturato fra Francesco di Tiriolo Domenicano, essendogli stata trovata una licenza per andare in Candia e Venezia, una carta scritta in turco e certe lettere nelle quali si diceva dover lui andare in Turchia per fare un riscatto; lo prese il Capitano Manfusio nel convento di Cutro. Verso il 18 ottobre fu catturato D. Gio. Battista Cortese clerico del Casale di Pimeni in casa di Gio. Vincenzo Camarda, ed inoltre D. Gio. Andrea Milano sacerdote di Filogasi, mentre si ritirava nella sua abitazione; si ricorderà che entrambi erano stati nominati nella lettera scritta dal Crispo a Geronimo Camarda e caduta nelle mani del fisco. Il 20 ottobre fu catturato anche D. Marco Petrolo di Stignano, quel buon sacerdote che dopo aver dato ricetto al Campanella lo denunziò; un Ferrante de Sanctis napoletano lo prese di notte in casa del cognato. Verso il 23 ottobre fu catturato D. Colafrancesco Santaguida di S.ta Caterina sacerdote, mentre assisteva a certe lezioni; lo prese Gio. Battista Carlino Commissionato dello Spinelli, perché quattro testimoni deposero esser lui andato in giugno sulle galere turche e statovi circa un'ora in compagnia di diversi altri, fra' quali i due clerici Giovanni Ursetta e Valentino Samà della stessa terra, e costoro furono egualmente catturati. E fino all'ultimo momento, quando i prigioni erano sul punto d'imbarcarsi al Pizzo, fu ricordato D. Domenico Pulerà che abbiamo visto altrove denunziante di fra Pietro Musso: era sacerdote di Pimeni e stava a Filogasi presso il Vescovo di Mileto; lo Spinelli credè bene di chiamarlo al Pizzo e farlo imbarcare egualmente. Aggiungeremo che fu unito agli altri anche un Giulio di Arena, clerico coniugato di Maierato, il quale fu preso dal Governatore del Pizzo e condotto sulle galere, onde si trovò poi nella lista degli ecclesiastici prigioni, senza che apparisca alcun altro provvedimento per lui: le nostre ricerche nell'Archivio di Stato ci hanno fatto trovare un documento, il quale mostra che questo clerico veniva richiesto da Napoli per altri delitti. Aggiungeremo ancora che il 31 ottobre, se pure non è uno sbaglio del Mastrodatti nella indicazione del mese, fu presa una Informazione a Stilo dall'Auditore De Lega intorno alle relazioni tra Giulio Contestabile, il Campanella ed altri: dodici testimoni, tra' quali due donne, attestarono più o meno l'amicizia del Campanella con Giulio e col Di Francesco, con Marcantonio Contestabile, col Caccìa ed altri fuorusciti, col Vua e col Prestinace che si erano assentati; taluno affermò pure che il Di Francesco una volta avea dimandato uno spirito familiare al Campanella e costui rispose che non ne sapeva niente; altri affermarono di più che il Di Francesco e il Campanella avevano insieme mangiato carne in giorni proibiti! Ciò mostra che oramai tra le popolazioni le notizie dell'ordine temporale e dello spirituale correvano congiunte in guisa, che pure i Giudici laici avevano a raccogliere da persone indifferenti fatti dell'una e dell'altra categoria.

I carcerati riuniti per essere tradotti a Napoli furono al numero di 156, come risultò appunto nel loro arrivo e troveremo accertato da diversi fonti. Ognuno avrà visto che erano stati messi insieme tanto quelli ritenuti veramente colpevoli quanto i semplici sospetti, gl'imputati e parecchi testimoni: basta ricordare che a lato di fra Tommaso trovavasi carcerato non solo il fratello Gio. Pietro, ma anche il vecchio padre Geronimo, a lato di fra Dionisio trovavasi fra Pietro Ponzio suo fratello etc. Ma ognuno avrà visto pure che molti, e non di lieve importanza, erano riusciti a tenersi nascosti; abbiamo altrove citati parecchi di costoro e potremmo citarne ancora diversi altri, come p. es. Ottavio Sabinis, Paolo e Fabrizio Campanella, Geronimo Ranieri etc. E però, tenuto conto anco dei fuggiaschi e perseguitati, il numero de' compromessi risulta sempre ragguardevole; né si deve passare sotto silenzio che dietro quella mostruosa denunzia di Lauro e Biblia il numero de' carcerati dovè essere dapprima molto più grande e dovè poi mano mano assottigliarsi, certamente per una parte assai insignificante in via di pura e semplice giustizia; la qual cosa ci conduce a parlare anche, da una parte, dell'accanimento e ferocia dimostrata dal volgo verso il Campanella e i suoi aderenti veri o supposti, e, d'altra parte, delle iniquità e ruberie commesse da' Giudici laici in tale occasione. Il Campanella in più luoghi de' suoi scritti diè chiare prove del suo profondo disgusto verso que' di Stilo in particolare, e le popolazioni in generale, per l'accanita persecuzione che n'ebbe, e il concetto del «popolo», che egli, repubblicano, ebbe a farsi dietro la persecuzione sofferta, merita di essere rilevato: si può vederlo nelle sue Poesie, dove segnatamente egli l'espresse con più calore. In altri suoi scritti poi affermò esservi stato un numero grandissimo di carcerati, ben superiore a quello che conosciamo tradotto in Napoli dallo Spinelli, e un numero ragguardevole di «riscatti» e di «composte», nominando perfino gl'individui che vi furono soggetti, oltre le cupidige e le promesse di titoli e di ricompense a' rivelanti e persecutori. Nelle Lettere che scrisse il 1606-07 al Papa, a' Cardinali etc. egli spesso accennò a questi fatti; nella 3a lettera al Papa, da noi pubblicata, scrisse, che «fingendo di salvarla (la Calabria) la spopolaro, la sacchiaro, la compostaro». Nella Narrazione poi naturalmente si espresse con molto maggiore larghezza. «Seguio Spinelli e Xarava a carcerar quasi due mila persone in tutte le terre, dove era stato Campanella e F. Dionisio, et alcuni Baroni... Quelli che non preveniro d'accusare e fur accusati, si sforzaro riscattarsi con denari e chi pagava mille, chi due mila, chi tre mila, chi cento, chi cinquecento docati per non andar carcerati alli Commissarii et à Xarava e Spinelli. Pagaro assai quelli che già eran carcerati e subito eran liberati... Colui che nominava più gente, et dicea il tale, el tale ponno esser complici quello era più stimato da Spinelli e Xarava, e chi volea dir una parola in difesa loro era carcerato per ribelle, e se pagava era liberato, se no era afflitto miserabilmente, come anche quelli che murmuravano delle composte si facevano alle terre oltre della paga che dava loro il Rè e faceano ciò che lor piacea non solo impunemente, ma premiati, e travagliando li contradicenti alle composte loro». E nell'Informazione, accennate anche le promesse di titoli di Conti e Marchesi fatte ad ognuno che rivelasse, scendendo a' particolari de' riscatti soggiunse: «Si compostaro assai gente in danari, dicendosi, che dovean morire jure belli, et ognuno volea perder più presto la robba, che la vita, però davano quanto teneano, et io sò che G. Francesco Branca di Castrovillari pagò docati mille. G. Francesco Suppa di S. Caterina col figlio docati mille. Cicco Vono col nepote di Stignano 2500 libre di seta, Giulio Saldaneri pigliato nel convento di Suriano per opera di F. Cornelio, e del Polistena, indultato perché dicesse heresia, e ribellione, docati 3000, et la propria anima come esso stesso solea dire, come appar in processo del S. Officio. Gio. Thomaso di Franza tallaroni 200, li Moretti M. Antonio (volea dire Ferrante) et Jacopo fratelli, furo compostati 7000 docati in Jeraci, e perché poi non li volsero pagare, furo condotti in Napoli con gli altri, che non si volsero ritrattare: ci son altri più compostati; oltre le terre e casali per dove passavano, come salvatori della provincia, qual hanno ruinata e disertata con le scorrerie che faceano». In verità il numero di due mila carcerati non corrisponde menomamente alle notizie su' progressi delle catture, quali risultano dalle relazioni dello Spinelli al Vicerè e da quelle degli Agenti di Firenze e di Venezia a' loro Governi; ma noi non rifuggiamo punto dal credere che la lista di carcerati e le altre indicazioni datene dallo Spinelli rappresentarono solo quella parte di essi che non potè liberarsi co' riscatti, tale essendo stato pur troppo il costume di quei tempi, favorito da' poteri enormi che ne' casi straordinarii solevano concedersi anche per la sola persecuzione de' fuorusciti, ed aggravato dalla necessità di servirsi di tanti Commissionati avidi e ladri, onde le regioni sottoposte a simili flagelli rimanevano veramente disertate. È naturalissimo che lo Spinelli abbia seguito anche in Calabria il sistema scellerato di quell'età, e si può ritenere per certo che i suoi Commissionati ne abbiano fatte d'ogni genere, non essendo neanche quelli di ordine più elevato rimasti paghi alle ricompense di nobiltà, alle quali ci è pervenuta notizia che aspiravano; poichè, come del Visitatore e di fra Cornelio si disse che attendevano Vescovati, parimente si disse di D. Carlo Ruffo che pretendeva essere Principe di Stilo, di Gio. Geronimo Morano che pretendeva un Marchesato, di Ottavio Gagliardo che pretendeva una Baronia. Ma i profitti non doverono essere tanto grandi in persona dello Spinelli, sapendosi, come abbiamo già avuta occasione di notare altrove, che egli rimase pur sempre nelle strettezze (ved. pag. 237): tuttavia un documento rinvenuto nell'Archivio di Stato ci mostra che lo Spinelli dovè ottenere dal Vicerè anche prima di partire dalla Calabria, in data del 31 ottobre, una sanatoria straordinaria, mediante ordine all'Audienza di Calabria ultra di «non intromettersi nelli negotii da lui fatti nella predetta provincia, etiam per la sua absentia». Ciò comproverebbe che le affermazioni del Campanella non furono del tutto infondate, e che i carcerati messi insieme per essere tradotti in Napoli rappresentarono realmente la parte residuale di un più gran numero, il quale forse andò diminuendo al punto, da dover essere negli ultimi tempi rinforzato anche con individui a' quali fin allora non si era data importanza; la qualità degli ecclesiastici, che abbiamo visto carcerati negli ultimi tempi, menerebbe perfino a una simile conclusione. Ripetiamo poi che vi doverono essere molti fuggiaschi, e la Turchia dovè offrire anche questa volta il luogo di rifugio agli esuli: se dovessimo credere alle voci corse allora, fino a tre mesi dopo la partenza de' carcerati continuava ancora l'emigrazione in Turchia, ed aveva raggiunta una cifra esorbitante. Queste voci erano senza dubbio esagerate; ma vedremo nelle Allegazioni del fisco in Napoli posti a carico del Campanella, oltre gl'infelici giustiziati, i «molti altri contumaci che erano fuggiti e che aveano perduto i beni e la patria»!

Alla fine di ottobre D. Garzia di Toledo, Consigliere del Collaterale anche lui come lo Spinelli, Castellano di S. Elmo in Napoli, Comandante le Regie galere per quegli anni, era già con quattro galere a Tropea «per imbarcare i prigioni Calavresi»; questo ci mostra il carteggio del Residente di Venezia, con la notizia di una lettera a lui scritta da D. Garzia da quel luogo e in quella data, a proposito di certi schiavi e cannoni che egli avea comperati da un capitano veneziano. D'altro lato lo Spinelli, che avea dovuto recarsi a Catanzaro per presedere alla nuova elezione del «reggimento» della città, il 3 novembre giungeva al Pizzo, come si rileva dal luogo e dalla data dell'indulto concesso al Soldaniero ed al Bruno: con lui trovavasi la massa de' carcerati, la quale fu fatta fermare propriamente in Bivona, borgata oggi diruta, posta sulla spiaggia al sud del Pizzo, ed ecco quanto sappiamo intorno al viaggio fatto da quegl'infelici. Da Gerace i carcerati furono condotti in lunga catena a coppie, percorrendo un buon tratto di paese e dando uno spettacolo straordinario alle città e terre per le quali passavano. Massime i più gravemente incolpati si facevano notare per la loro età giovanile: poichè de' frati, il Campanella non avea che 31 anno, fra Pietro Ponzio 30, fra Dionisio probabilmente 32 o poco meno, fra Pietro di Stilo 27, il Petrolo 26, il Lauriana 28, il Bitonto 32, il Pizzoni 35, fra Paolo 38; de' laici e clerici poi Maurizio non avea che 27 anni, il Caccìa e il Pisano 25, Giulio Contestabile 32, Geronimo di Francesco 26, Felice Gagliardo 22, Geronimo Conia 21, Giuseppe Grillo 19 etc. etc. Per ogni verso essi avrebbero dovuto destare una profonda pietà; non di meno dalle rivelazioni avute in Napoli col processo di eresia conosciamo che il volgo, cioè a dire l'immensa maggioranza, li chiamava «inimici di Dio e del Re». L'avere essi trattato co' turchi, l'aver voluto dare la provincia a' turchi, l'essersi imbevuti di eresia, l'essersi proposti di far la vita dissoluta, come n'erano corse le voci, avea certamente eccitato ognuno contro di loro, senza contare l'odio e il disprezzo che suole accompagnare chi non riesce in altrettali imprese: il Campanella, già prima tanto esaltato, venne allora mostrato a dito con gioia feroce dalle moltitudini, che esalavano la loro ignoranza e i loro istinti di brutale malvagità, invano negati dagli adulatori del popolo ancora più spregevoli degli adulatori de' Principi; dovè quindi convincersi appieno che

«Il popolo è una bestia varia e grossa»

come di poi cantò. In Monteleone vi fu una fermata della carovana, e Padri Gesuiti confortarono a ben morire alcuni de' carcerati, che avrebbero dovuto essere «quattro de' più colpevoli» aggiuntovi poi «benanco Maurizio de Rinaldis», secondo gli ordini dati dal Vicerè fin da' primi di ottobre: ma effettivamente sappiamo solo i nomi di Maurizio e di Gio. Battista Vitale, che sarebbero stati confortati, e sappiamo che il Vitale non volle dare ascolto alle esortazioni de' Padri Gesuiti, ripetendo le eresie insinuategli da fra Dionisio. Ma presto la carovana si rimise in via e poggiò a Bivona, dove la raggiunsero fra Cornelio e fra Gio. Battista di Polistina, i quali con la loro presenza e la loro unione contristarono ancora gli infelici frati prigionieri. Secondo il Pizzoni, che trovavasi legato a mano a mano con fra Paolo della Grotteria in un magazzino di sali, il Campanella, mediante un soldato del Capitano Figueroa, l'avrebbe quivi minacciato di porlo in più grave intrigo laddove non attendesse a ritrattarsi: secondo fra Pietro di Stilo ed anche secondo il Petrolo, fra Gio. Battista di Polistina avrebbe detto a ciascuno di loro che badassero bene a deporre contro fra Dionisio, aggiungendo a queste raccomandazioni lusinghe e minacce, come vedremo nel processo di eresia svoltosi in Napoli. Che era intanto avvenuto, perché in Monteleone non si facessero più le esecuzioni capitali prescritte? Ce lo dice il Carteggio Vicereale e quello del Residente di Venezia, il quale ultimo ci fornisce a tale proposito notevoli particolari. Secondo il Residente, «haveva d.to Spinelli sentenciato Mauritio Rinaldi, Capo secolare della congiura, di essere à Monteleone segato vivo à traverso, ma non havendo per tempi fortunevoli potuto le galee prender porto in quella parte, hà riservato così fatto spettacolo da farsi in questa città a beneplacito del Vicerè». Anche in un'altra lettera posteriore, scritta con più di un mese e mezzo di intervallo, il Residente tornò a menzionare l'atroce ed insolita condanna di Maurizio «di esser segato vivo tra due tavole», e ciò dà motivo di ritenere che non sia stata questa una delle ordinarie frottole in corso per la città; quanto poi al motivo per cui la condanna non fu eseguita, bisogna dire che le galere non poterono tenersi al sicuro ed aspettare impunemente qualche giorno. Infatti una lettera Vicereale, scritta quando i carcerati vennero in Napoli, ci dice che «si aveano da giustiziare in Monteleone sei che erano convinti e confessi, e per non far trattenere le galere, li condussero con gli altri», ciò che spiega pure quanto sappiamo de' conforti a ben morire prestati ad alcuni da' Gesuiti in Monteleone. Vi fu dunque una semplice mancanza di tempo, avendo dato verosimilmente fretta il mare procelloso in un posto di poco sicuro ancoraggio. Ma alfine i carcerati s'imbarcarono, e con loro, oltre lo Spinelli e lo Xarava, anche fra Cornelio e il Visitatore; e si imbarcarono dippiù taluni di quelli che si erano distinti nella repressione della congiura. Certamente s'imbarcò sulla capitana di D. Garzia il Principe della Roccella accompagnato da molti dei suoi servitori «con l'occasione dell'anno santo», vale a dire del Giubileo che era stato indetto, come abbiamo rilevato da un'altra Informazione di S.to Officio; e ben s'intende che costui, al pari degli altri suoi socii in benemerenza, andava a riceversi i sorrisi, le lodi e i favori, che il Vicerè si sarebbe benignato di accordargli.

Lasciamo ora che gl'infelici prigioni arrivino in Napoli, ove ripiglieremo la cronaca de' loro strazii, e fermiamoci ancora a vedere ciò che accadde in Calabria durante e dopo la loro partenza, sempre in rapporto al nostro argomento.

Il fatto più importante per noi fu la novella Informazione, che il Vescovo di Squillace ebbe a prendere sulle cose del Campanella, per commissione di Roma. Avuta la copia dell'Informazione presa dal Vescovo di Gerace, la Sacra Congregazione Romana evidentemente non poteva rimanerne soddisfatta: per lo meno, essendo stato affermato così da fra Cornelio come dal Vicerè che Stilo con le sue vicinanze fosse tutto imbevuto delle eresie del Campanella, la cosa non risultava menomamente chiarita; sorgeva dunque l'assoluto bisogno di una ulteriore Informazione, e questa fu subito commessa al Vescovo di Squillace, nella cui diocesi erano comprese la città di Stilo e le altre terre delle quali volea conoscersi la condizione vera. Il testo dell'Informazione o «Processo di Squillace» non ci è pervenuto, ma ce ne sono pervenuti i Sommarii molto precisi, redatti in Roma e mandati a' Giudici dell'eresia in Napoli, e ci è pervenuto anche tutto intero un Supplimento alla detta Informazione commesso da uno di cotesti Giudici, il Vescovo di Termoli. Tra le deposizioni, che fanno parte del Supplimento, ve ne sono due che ricordano le deposizioni anteriori del 5 novembre e del 19 dicembre 1599, le quali date servono a mostrare quella del processo di cui parliamo, cominciato anche un po' prima che il Campanella e socii partissero dalla Calabria, proseguito per due mesi e verosimilmente anche più, atteso il gran numero di coloro che furono chiamati a deporre: il Supplimento stesso ci mostra che presedè alla formazione del processo il Vescovo in persona, Tommaso Sirleto, insigne uomo appartenente all'insigne famiglia de' Sirleti di Guardavalle patria di Maurizio, assistito dal suo Vicario generale Agazio Mantegna. Furono chiamati a deporre tutti i frati dei conventi di Stilo e di quelli delle terre vicine, p. es. di quelli di S.ta Caterina, come ne diè notizia una delle deposizioni raccolte nel processo di eresia fatto in Napoli; ma furono chiamati anche molti ecclesiastici secolari e molti laici delle migliori famiglie di Stilo e luoghi vicini, come si rileva da' nomi che si leggono a capo di ciascuna deposizione. Gioverà ricordare quelli che sono stati già citati finora, e qualche altro che si dovrà ancora citare nel corso di questa narrazione, segnatamente quelli che si fanno notare per qualche condizione speciale; poichè ricordarli tutti sarebbe perfino inutile, mentre si possono rilevare da' Sommarii del processo. Furono dunque tra coloro che deposero, naturalmente a carico, dei Contestabili Paolo e Fabio, che sappiamo essere l'uno padre e l'altro fratello di Giulio e di Marcantonio; de' Carnevali poi Gio. Francesco e Fabrizio, che abbiamo veduto altrove essere ecclesiastici, l'uno zio e l'altro fratello di Gio. Paolo, dippiù Fabio altro fratello, Prospero padre e Minico (Domenico) altro zio. Vi fu ancora Giulio Presterà, che sappiamo giovane e medico, amico del Campanella, Gio. Jacovo Prestinace che ci risulta cugino di Gio. Gregorio l'intrinseco del Campanella, Francesco Plutino il capitano nominato dal Campanella nella sua Dichiarazione, Francesco Vono che abbiamo visto del pari amico del Campanella, che vedremo nominato da lui nella sua pazzia e che sappiamo essersi liberato dalle persecuzioni per la congiura mercè molte libbre di seta. Potremmo citare altri nomi degni di menzione, come uno Scipione Presterà, un Gio. Maria Gregoraci, diversi Jeracitano, qualcuno de' Crea, Vigliarolo, Principato etc. tutti di Stilo, e parecchi che ci risultano di Guardavalle, di Stignano, di S.ta Caterina, di Riaci, di Camini, di Girifalco. Ci limiteremo ad aggiungere che vi fu pure quel Tiberio Lamberti che presentò la denunzia di D. Marco Petrolo, vi furono due donne (Francesca Scivara e Caterina di Francesco), infine anche un Marcello Salinitri e un Carlo Licandro, i quali, deponendo contro il Campanella, non nascosero di essergli nemici, senza che ne apparisca il motivo. E noteremo che il non esservi stati taluni altri conosciuti come stretti amici del Campanella, p. es. Tiberio e Scipione Marullo, i fratelli D. Gio. Jacobo e Ottavio Sabinis, rende sempre più credibile che costoro si tenessero nascosti; la qual cosa può dirsi con fondamento anche maggiore per quelli egualmente conosciuti come parenti di fra Tommaso, p. es. Paolo e Fabrizio Campanella, de' quali si deposero alcune proposizioni già manifestate dal Campanella e commentate da loro, senza vederli interrogati e senza saperli carcerati e partiti per Napoli.

Assai ci pesa il dover dare un cenno di ciò che emerse da questo processo di Squillace, poichè da una parte riesce impossibile esporre tutta la colluvie di cose che si raccolse, e d'altra parte esponendo con un po' d'ordine le cose principali riesce inevitabile una riproduzione di quanto si è detto a proposito delle opinioni manifestate dal Campanella nel periodo della congiura. Ma gioverà conoscere testualmente le cose principali co' nomi di coloro che le rivelarono, e apprezzarne il valore e l'importanza. Cominciando dalle cose riferibili al nuovo Stato, si affermò che il Campanella «volea fondare una nuova setta per vivere liberamente et fare il crescite» (test. Fabrizio Carnevale, Marcello Salinitri, Gio. Consueva), che «voleva far mutare habito et vestimenti et dire che ci era libertà di coscienza» (Gio. Jacobo Prestinace), che nella «nuova setta di libertà» s'indosserebbero «certi habitelli et copulini» (Ottavio Buccina), che gli uomini si abbiglierebbero «con veste bianche sino al ginocchio, con una tovaglia alla testa che pendi à dietro, et con un capellino in testa» (Gio. Jacobo di Reggio), ed era con altri salito sul monte di Stilo, dove mangiarono ed intitolarono quel monte «monte pingue e di libertà» (Scipione Presterà, Francesco Bartolo etc.); che era Profeta, che volea farsi chiamare il Messia di Dio della verità etc. (Gio. Andrea Crea, Geronimo Jeracitano, Gio. Francesco Carnevale, Giuseppe Ranieri ed altri). Venendo alle cose riferibili alla Religione ed alla Chiesa, bisogna notare che in questo processo non vi fu alcuna deposizione intorno all'opinione della non esistenza di Dio attribuita al Campanella pei processi anteriori, ma intorno a Gesù, alla sua resurrezione, a' miracoli, non che intorno al Crocifisso, si depose avere il Campanella detto, che Gesù «non è stato figliolo di Dio» (Gio. Andrea Crea), che «fu bravo huomo e capo di sette» (Marcello Salinitri a detto di Giulio Contestabile, Francesco Plutino etc.), che nella predica avea dichiarato essere il precetto quod tibi non vis alteri ne feceris stato detto da un filosofo gentile prima di Cristo (Tiberio Vigliarolo), che «non bisognava si adorasse il Crocifisso perché era un pezzo di legno» (Paolo Contestabile e Fabio Contestabile a detto di Marco Antonio che l'aveva udito dal Caccìa), che «non si doveva credere ad un appiccato» (Giulio Presterà, Luzio Paparo, Lorenzo Politi, Desiderio Lucane), che «Cristo avea potuto fare che ci fosse un altro in croce e che esso non fosse morto» (fra Scipione Barili a detto di fra Scipione Politi), che «le cose che si dice haver fatto Moisè tutte sono state per ingannare li popoli» (fra Francesco Merlino), che «bravo huomo era stato Mosè e Maumetto e Christo, e che se bene Martino Lutero haveva acquistato 26 o 27 Provincie non haveva fatto nulla» (Francesco Plutino). Quanto alla Trinità, a' Sacramenti, all'Eucaristia, all'inferno, purgatorio e paradiso, si depose avere il Campanella detto, «che tutte le cose della nostra fede si possono passare eccetto che questa cosa della Trinità, che vi sieno tre persone in una» (Gio. Gregorio Argiro), che era stato udito Paolo Campanella parlare al fratello Fabrizio di proposizioni di fra Tommaso intorno alla Trinità ed ai Sacramenti, dicendo che «non credeva si consacri hostia», e soggiungendo «havrei pagato cinquanta ducati a non intendere queste cose» (Gio. Domenico Pilegi), che il Campanella medesimo avea detto a Fabrizio «provarsi che il sacramento non era sacramento» (Gio. Jacobo Vigliarolo), che «aveva uno spirito nell'unghia» (fra Berardino), che non credeva esservi il diavolo, chiamandolo babao per far temere le genti (Carlo Licandro), che avea detto a Fabio Contestabile «si pigliasse spassi e piaceri... che del resto è pensiero di chi è» (Fabio Contestabile), ritenendo non esservi inferno (Fabio Carnevale, Desiderio Lucane ed altri). Quanto ad orazioni, che il Campanella avea cancellato da un libro di preghiere, appartenente alla Congregazione del Rosario e presentato allora al Vescovo, alcune invocazioni a Maria, a S. Domenico, a S. Giacinto, a S.ta Caterina, per ottener grazia, «che non voleva si dicessero» (Gio. Francesco Carnevale), ed era stato direttamente veduto quando le cancellava (Fabio Carnevale, Fabio Contestabile). Ed ancora avea detto «la fornicazione non essere peccato,... essere cose naturali» (fra Gio. Battista di Placanica); e una volta «con altri nella propria cella fece il crescite con una certa Giulia» (Gio. Maria Gregoraci). Ed avea mangiato carne in giorni proibiti (molti), anche in casa di Geronimo di Francesco e del suo zio Domenico Campanella (Fabrizio Carnevale, Fabio Contestabile), adducendo la regola Apostolica comedite quod appositum est vobis (Gio. M.a Gregoraci); e una volta chiese chi avesse prescritto tali proibizioni e gli fu risposto, la Chiesa, e il Campanella soggiunse «chi è la Chiesa? li fu detto che sono il Papa, Cardinali et altri Prelati, et il Campanella rispose, il Papa e Cardinali chi sono? li fu detto che sono huomini, il Campanella rispose, io ancora sono huomo» (Prospero Vitale). E la sua scienza era «una Cabala che imparò da un Armeno» (Gio. Jeracitano), ed «havea promesso a Geronimo di Francesco uno spirito familiare per vincere al giuoco» (Gio. M.a Gregoraci). Che nel predicare a Stilo «metteva comparatione sopra gl'idoli», e riteneva «che i figliuoletti de' Turchi morendo non vanno all'inferno, perché crescendo potriano conoscere la fede e si fariano Christiani», oltracciò che «Dio ha altro modo di salvar l'homini che per il battesmo» (diversi). Che non credeva alla scomunica, che nelle prediche «essaltava più del dovere li filosofi et scrittori Gentili» e ne' discorsi diceva che «S. Thomasso fù huomo et che alla dottrina sua si può aggiungere, et che era cavata da altri Dottori antichi et particolarmente da Lattantio firmiano, al quale havea gran credito»; né era vero che il Crocifisso avesse detto a S. Tommaso bene scripsisti de me Thoma (Tiberio Vigliarolo, Gio. Antonio Primerano, Lorenzo Consueva). Nemmeno credeva che gli Atti degli Apostoli facessero fede, «perché quello che trattano lo trattano per traditione di S. Paolo» (Gio. Battista Rinaldo). Che infine non mostrava di gradire tante diverse Fraterie (fra Gio. Battista di Placanica), non credeva che bisognasse «dire Paternostri che erano cose perse» (Paolo e Fabio Contestabile a detto di Marcantonio), né credeva giovare a' defunti la Messa detta o fatta dire da chi si trovava in peccato mortale (diversi).

Furono queste le cose essenziali rilevate col processo di Squillace, in materia di eresia più che in materia politica, attesa la qualità della Commissione data al Vescovo, e, come si vede, esse venivano a colpire propriamente il Campanella e non altri; appena qualche volta, da uno o due testimoni, fu nominato con lui fra Dionisio, segnatamente ad occasione del voler fondare la nuova setta e del doversi disprezzare il crocifisso. Invece fu da qualcuno tratto in iscena il povero vecchio Geronimo padre del Campanella, come testimone ed anche come principale. Si depose aver lui detto che richiedendo al figlio di voler predicare a Stilo, il figlio rispose che non volea «fare l'officio di Canta in banco» (Marcello Fonte), che inoltre «gli avea preconizzato tanto il bene quanto il male da dover accadere a' suoi figliuoli» (Callisto Jeracitano), che infine avea composto quel tale libro che superava quelli degli Apostoli (Scipione Ciordo). Ne abbiamo già parlato abbastanza altrove e non occorre insistervi ulteriormente. - Quale intanto deve dirsi il valore e l'importanza di siffatto processo? In verità fa molta impressione il vedere che la massima parte delle cose deposte si sia avuta con le clausole «de fama publica, de auditu incerto», e non di rado pure, ciò che è sempre più notevole, con la clausola «post carcerationem»; questo dà fondato motivo di ritenere che le opinioni incriminabili poterono anche esser diffuse in molta parte per colpa de' Giudici de' processi anteriori, che ne fecero correre le voci per le piazze, dalle quali taluni testimoni specificatamente affermarono di averle raccolte. Ma mettendo pure da parte tutti i testimoni che deposero per voce pubblica, ne rimangono sempre alcuni che deposero cose udite o viste direttamente, ovvero cose udite o viste da persone state molto dappresso al Campanella, e per la loro condizione speciale riescono a dare alle loro deposizioni una gravità notevole. Basta dire che più d'uno affermò di avere udito quanti deponeva da fra Scipione Politi conosciutissimo amico del Campanella, e, a quel che pare, solito a mantenere vive le sue conversazioni col riferire le opinioni delle quali il Campanella gli avea tenuto discorso; qualche altro affermò di avere udito quanto deponeva da D. Marco Petrolo, da D. Marco Antonio Pittella, da Paolo e Fabrizio Campanella, da Giulio Contestabile, da Marcantonio Contestabile; né deve sfuggire che deposero i Carnevali malgrado avessero Gio. Paolo e Tiberio carcerati, deposero i Contestabili malgrado avessero Giulio carcerato e Marcantonio perseguitato, depose Desiderio Lucane che sappiamo avere anche lui un figlio carcerato. Adunque, per un certo numero di cose raccolte con questo processo, non si può sconoscerne menomamente la provenienza dal Campanella, essendovi anche una concordanza significante tra esse e quelle che da altri fonti ci risultano appartenenti senza dubbio a lui; né deve sfuggire che molti, p. es. Giulio Presterà, Francesco Vono, il capitano Plutino, i quali certamente ebbero relazioni col Campanella, e così pure tanti altri, poterono deporre per voce pubblica ciò che aveano saputo direttamente, non convenendo loro di dire che l'aveano saputo direttamente da lui, perché sarebbero divenuti responsabili del non averlo denunziato. In conclusione poteva dirsi una calunnia l'avere il Campanella imbevuto di eresie la città di Stilo e luoghi circonvicini, ma non già l'avere di tempo in tempo enunciati principii punto ortodossi. E risultava grandemente notevole la raccolta fatta di simiglianti principii, perocchè di tutta la massa delle accuse, che vedesi ridotta a 34 capi nel Sommario complessivo dell'ultimo processo di eresia, 8 o 9 capi soltanto non riuscivano né confermati né smentiti dalle deposizioni di Squillace, ma 13 ne riuscivano confermati, e 9 altri ne sorgevano interamente nuovi. Oltracciò si avevano elementi tali da mostrare il giusto valore della scusa che già si meditava, che cioè i frati inquisiti di congiura avessero rivelato e fatto rivelare cose di eresia a fine di scansare la Corte temporale. È superfluo dire quanto le condizioni del Campanella ne divenissero aggravate, e non è arrischiato l'ammettere che segnatamente per questo processo di Squillace egli abbia dovuto rimanere tanto dolente di «Stilo ingrato» che egli onorava; di Stilo infatti, e amici suoi per giunta, erano principalmente coloro i quali avevano questa volta dato materia a «fabbricare processi con processi» come egli cantò nelle sue Poesie.

Ci rimane a dire qualche cosa delle condizioni nelle quali la Calabria si venne a trovare dopo la partenza dello Spinelli co' carcerati. Abbiamo già avuto altrove occasione di vedere che le quistioni giurisdizionali e le inimicizie private non ebbero alcuna tregua; naturalmente i fuorusciti medesimi, pel rigore eccessivo e le vessazioni spropositate, erano già cresciuti di numero, ed abbiamo un documento il quale ci mostra esserne stato lo Spinelli medesimo, avanti di partire, interpellato dal Vicerè. I Governatori che successero nella Calabria ultra, D. Pietro di Borgia, e poi D. Garzia di Toledo sopra nominato, e poi D. Carlo de Cardines Marchese di Laino etc., come pure quelli della Calabria citra, D. Alonso de Lemos, D. Antonio Grisone, e poi D. Lelio Orsini l'amico del Campanella, rivestiti essi medesimi, più o meno, di poteri straordinarii, ed aiutati anche da Commissarii speciali, si affaticarono per più anni alla «extirpatione de' forasciti» senza mai venirne a capo. L'Audienza di Calabria ultra, rimasta priva dell'Avvocato fiscale e poi provvedutane in persona di Gio. Andrea Morra, fece conoscere al Vicerè il suo imbarazzo per «l'ordine di non intromettersi in le cose ha fatto il spettabile Carlo Spinelli», poichè si era preso un Carlo Logoteta di Reggio che da tre anni scorreva la campagna, e così due altri, e se ne trovavano ancora molti, tutti guidati dallo Spinelli: ma il Vicerè nemmeno credè opportuno di revocare l'ordine, e comandò d'inviare alla Vicaria i catturati ed a lui una nota particolare e distinta di tutti i guidati, che naturalmente l'Audienza non avea modo di conoscere. La città di Catanzaro, già tanto conturbata dalle fazioni municipali, si risentì pel nuovo «reggimento» istituito dallo Spinelli, e l'Audienza fece sapere al Vicerè che la città pretendeva «di non essere stata intesa in la busciola et forma dell'electione fatta per il spettabile Carlo Spinello... e si era ordinato al Capitaneo et Sindico di detta Città che apresse la cascia dove stava tutto lo che si era fatto per raggione di detta busciola, la quale non si ha possuto aprire per star'in poter'del rettore del Jesu di detta Città con una delle chiave, al quale essendosi ciò notificato etiam in scriptis non l'ha voluto dare»; ma il Vicerè anche in tale occasione non volle scovrire lo Spinelli, diè ragione a' Gesuiti e comandò di «non far altra diligentia per aprire la sopradetta cascia» dovendosi solo «osservare la detta busciola che stava ordinata o pur farsi l'electione del Governo come si faceva per prima». E nominati più tardi gli Eletti deputati a far l'elezione del nuovo reggimento, si trovò affisso nella piazza pubblica un «cartello infamatorio» contro quegli Eletti; e si venne con poteri straordinarii alla cattura di un Marcantonio Paladino ritenuto autore di detto cartello, ed allora di notte fu rotto il carcere «di fora, con scarpelli et violentia grande» e fu fatto fuggire il Paladino con gli altri carcerati, onde si ebbero nuove Informazioni e nuove catture. Ma un avvenimento ancor più notevole fu l'uccisione di Marcantonio Biblia, fratello di Gio. Battista denunziante della congiura, pugnalato verso la fine di novembre in Catanzaro. Abbiamo già avuta occasione di dire altrove che questo Marcantonio Biblia era credenziere della gabella della seta di Catanzaro fin dal 1595. L'Archivio di Stato ci offre più memoriali di Gio. Battista Biblia al Viceré, co' quali «fa intendere come per havere scoverto esso supplicante la congiura et rebellione tentata in disservitio d'Iddio et de sua M.tà da Marco Antonio giovino et altri... l'istesso Marco Antonio ha fatto occidere nella città di Catanzaro a pugnalate Marc'Antonio suo frate da Gio. et Scipione giovino fratelli del detto Marco Antonio», e ricordando altri omicidii già commessi da costui conchiude col ricorrere «alli piedi di V. E. che resti servita ordinare che il detto Marco Antonio sia afforcato come V. E. s'è degnato ordinare acciò l'altri non presumano fare l'istesso in persona d'esso supplicante et fratelli rimasti». E abbiamo, al sèguito di questi memoriali, le Commissioni speciali date dal Vicerè dapprima al Consigliere D. Giovanni Montoja de Cardona, poi al Giudice D. Giovanni Ruiz Valdevieto, quello stesso che troveremo assai più tardi membro del tribunale costituito in Napoli per giudicare il Campanella e gli altri frati intorno alla congiura. Nel suo sdegno il Vicerè cominciò col dare gli ordini più severi: «farreti sfrattare tutti li parenti di detti delinquenti sino al quarto grado dove à voi parirà più convenire, et confiscarrete et farrete confiscare li beni delli delinquenti predetti et deroccare le loro case, et procederreti contra d'essi, loro complici, et fautori à tutti l'altri atti che saranno de giustitia usque ad sententiam inclusive» etc.; ma poi, tornato a più miti consigli, dispensando il supplicante dalle spese per la Commissione, diede ordini meno brutali e prescrisse di procedere «usque ad sententiam exclusive». Ci manca finora ogni altra notizia sull'esito di queste Commissioni, ma vedremo che Gio. Battista Biblia ci guadagnò l'ufficio che già teneva il fratello, oltre il privilegio di nobiltà, come egualmente Fabio di Lauro ebbe altri favori e grazie in ricompensa della denunzia fatta.

Tornando al Campanella, notiamo che con questo di Squillace si chiuse la serie de' processi di Calabria, e ricordiamo che ve ne furono non meno di quattro. Vi fu un processo propriamente pei laici formato dallo Spinelli e Xarava, appena iniziato in Catanzaro, proseguito in Squillace, finito per una piccola parte in Gerace: in esso si trattò della congiura, ed oltrechè vennero giudicati e condannati alcuni clerici, non fu risparmiato il Campanella, essendosi avuta da lui, come anche dal Pizzoni, una Dichiarazione d'importanza grandissima. Vi furono tre processi per gli ecclesiastici e propriamente pe' frati, uno formato da fra Marco e fra Cornelio in Monteleone e per una piccola parte in Squillace, un altro formato dagli stessi Giudici unitamente col Vescovo di Gerace in Gerace, un altro formato dal Vescovo di Squillace con la sua Corte ordinaria in Squillace: nel primo si trattò dell'eresia e della congiura ad un tempo, nel secondo della sola eresia, e in entrambi si ebbero di mira tutti i frati incriminati, e si fece sentire l'influenza della malvagità fratesca e della ferocia degli ufficiali Regii; nell'ultimo si trattò della sola eresia, si ebbe di mira esclusivamente il Campanella e non si fece sentire alcuna perniciosa influenza almeno in un modo diretto. Il Campanella non fu mai chiamato innanzi a' Giudici durante tutti questi processi, ma fuori ogni dubbio entrambe le sue cause peggiorarono costantemente.


INDICE DEL VOL. I.

Prefazione                        

Cap. I. - Primi anni del Campanella e sue peregrinazioni

(1568-1598)                           

I. Nascita del Campanella in Stilo; la sua famiglia; i suoi primi studii (1). Veste l'abito di clerico; emigra con la famiglia a Stignano; suoi studii ulteriori (5). Entra nell'ordine Domenicano in Placanica; va novizio a S. Giorgio; passa studente a Nicastro ove fa conoscenza co' Ponzii e con fra Gio. Battista di Pizzoni (8). È mandato a Cosenza ove non giunge a conoscere il Telesio, poco dopo ad Altomonte; sua intimità con un astrologo ebreo e persecuzione avutane dai superiori; sua partenza per Napoli in compagnia dell'ebreo con molto scandalo (12).

II. Arrivo del Campanella in Napoli nella casa del Marchese di Lavello presso il figliuolo di lui Mario del Tufo (22). La sua disputa in S.ta M.a la nuova; i Domenicani di Napoli (23). I Signori Del Tufo amici e protettori del Campanella (28). Altre conoscenze fatte in Napoli; il Sangro, l'Orsini, i fratelli Della Porta (32). Malattie sofferte e curate dal Campanella in Napoli; il P.e Aquario e il P.e Serafino di Nocera (37). Opere da lui composte fin allora e suo privato insegnamento (39). La Biblioteca di S. Domenico e lo Studio pubblico di Napoli; parole dette dal Campanella in dispregio della scomunica; sua cattura per ordine del Nunzio e suo primo processo (42).

III. Trasferimento del Campanella prigione a Roma; condanna all'abiura come veementemente sospetto dì eresia (50). Uscita dal carcere; opere composte in Roma in tale periodo (52). D. Lelio Orsini e l'Abate Persio in Roma (53). Andata del Campanella a Firenze; sua visita al Gran Duca, ed informazioni date dal Battaglino Agente di Toscana in Napoli, ad occasione di una cattedra che gli si voleva concedere in Pisa (57). Visita della Biblioteca Palatina; parere di Baccio Valori sul filosofo; disputa di lui con Ferrante De Rossi e il P.e Medici; informazioni date sul suo conto dal P.e Generale Beccaria (59). Partenza per Padova; fermata in Bologna, ove gli sono tolte tutte le opere e sono inviate al S.to Officio di Roma (62). Arrivo a Padova; dimora nel convento di S. Agostino e nuovo processo per gravissima violenza patita dal P.e Generale (63). Liberazione; altre opere composte in Padova e suo privato insegnamento in questa città (64). Due nuovi processi per varii capi di accusa; il processo per non rivelazione di un giudaizzante va a terminare in Roma; importanza di questo 3° processo; sua influenza sulle opere allora composte (67).

IV. Nuovo trasferimento del Campanella prigione a Roma e termine del suo processo; sua difesa dalle diverse imputazioni (72). È liberato non senza commendatizie anche dell'Imperatore e dell'Arciduca Massimiliano procurate da Gio. Battista Clario; va nel convento di S.ta Sabina (75). Opere da lui composte in Roma dentro del carcere; suoi compagni di prigionia, Gio. Battista Clario, due Ascolani e probabilmente anche Colantonio Stigliola; poesie da lui scritte in tale periodo (76). Opere composte in S.ta Sabina; impegno di acquistarsi la protezione di alcuni Cardinali; ultima poesia scritta in Roma (85). Ritorno in Napoli; ciò che quivi compose; suo insegnamento e suoi scolari (90). Discorsi sulle future mutazioni col Cortese, Vernalione e Stigliola; notizie circa costoro (92). Consola con l'annunzio delle mutazioni il P.pe di Bisignano prigione nel Castel nuovo; notizie circa costui (96). Parte per la Calabria; stato di Napoli in quel tempo; dissenso de' Nobili col Vicerè e tra di loro; carcerazione del Sangro Duca di Vietri e forgiudica del Carafa Marchese di S.to Lucido; notizie circa costoro .

Cap. II. - Ritorno del Campanella in Calabria e sua congiura

(1598-1599)                              

I. Fermata per un mese nel convento di Nicastro, ove dimorano gli antichi amici; Fra Dionisio e fra Pietro Ponzio, fra Gio. Battista di Pizzoni; loro progressi (110). Dissensi giurisdizionali del Governo col Vescovo di Nicastro e turbamento della città; fra Dionisio ed Innico di Franza sono inviati per questo a Reggio e poi a Ferrara presso il Papa (114). Andata del Campanella a Stilo nel convento di S.ta Maria di Gesù; visita de' paesi della marina col Vescovo di Mileto (116). Marcantonio del Tufo Vescovo di Mileto e i suoi conflitti giurisdizionali; conflitti analoghi di altri Vescovi nella Calabria (117). Controversie ed inimicizie cittadine molto gravi (123). Lotte tra' componenti la R.a Audienza di Catanzaro; D. Alonso de Roxas Governatore; D. Luise Xarava Avvocato fiscale (126). Banditi e forgiudicati nella provincia; loro rifugio ne' conventi e nelle Chiese (131). Discesa de' turchi al Capo di Stilo col Bassà Cicala, e notizie intorno a costui; sua dimanda di rivedere la madre alla fossa di S. Giovanni, soddisfatta dal Vicerè di Sicilia (134). Vita del Campanella nel convento di Stilo; suoi compagni ed amici, specialmente fra Domenico Petrolo di Stignano e fra Pietro Presterà di Stilo superiore del convento (142). Costumi, insegnamento ed opere del Campanella in tal tempo; in particolare del suo libro della Monarchia di Spagna e di quello de' Segnali della morte del mondo.

II. Convinto della vicina fine del mondo e de' grandi fatti che doveano precederla, massime della santa repubblica e secolo d'oro da doversi prima godere, il Campanella fomenta una viva agitazione di aspettativa nella provincia (149). Argomenti da lui trovati ne' libri di profezia e di astronomia per ritenere prossime grandi mutazioni; fenomeni meteorologici che insieme col grave perturbamento della provincia glie le fanno giudicare imminenti; suoi concetti circa tali mutazioni (150). Conversazioni particolari e poi prediche nella Chiesa del convento sul detto tema; moltissimi gli dimandano chiarimenti, perfino il Governatore della provincia; gran credito acquistatosi dal Campanella e motivi di esso (155). Capitolo de' Domenicani, nel quale il Campanella non è chiamato e fra Dionisio risulta in decadenza; trattativa di pace tra' Contestabili e i Carnevali di Stilo, affidata al Campanella dall'Auditore David (159). Componenti delle dette famiglie; Marcantonio Contestabile e Maurizio de Rinaldis, fuorusciti, ne rappresentano il braccio forte (161). Proposizioni del Campanella un po' più spinte anche in materie religiose, oltrechè in politica, aspettandosi, per predizioni astrologiche, di essere Monarca del mondo; amici co' quali conversava, atteggiandosi a riformatore e legislatore (164). Colloquii con Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, con Marcantonio Contestabile e Gio. Tommaso Caccìa egualmente fuoruscito (168). Colloquii con Maurizio de Rinaldis, e notizie circa costui; il Campanella, presenti fra Dionisio e il Petrolo, lo decide a voler concorrere con amici a fondare la repubblica, e gli fa copertamente intendere che sarebbe utile profittare dell'aiuto del Turco (169). Commenti su questi fatti; al Campanella devesi non solo l'idea ma anche l'indicazione de' mezzi per attuarla, rimanendo a lui riservato l'ufficio di futuro capo della repubblica (173). Tutti si pongono all'opera; Maurizio va sulle galere di Amurat venuto alle coste di Calabria; il Campanella è chiamato dal Marchese di Arena a Monasterace (175). Fra Dionisio va con un fra Giuseppe Bitonto e un Cesare Pisano fino a Messina; durante il viaggio sviluppa eresie per eccitare il Pisano; di poi con la stessa compagnia, e con l'aggiunta di un fra Giuseppe di Jatrinoli e un Giuseppe Grillo, dopo altri discorsi di eresie in Stignano, torna presso il Campanella riconducendolo da Monasterace a Stilo (176). Anche Marcantonio Contestabile e il Caccìa, con un altro fuoruscito, tornano a Stilo (180). Altra escursione del Campanella con fra Dionisio e il Bitonto a Castelvetere, per pregare il P.pe della Roccella in favore di Cesare Pisano ivi carcerato; nel carcere veggono un Felice Gagliardo, al quale, come ad altri carcerati, il Pisano parla de' progetti del Campanella e ripete i discorsi di eresia (181). Tornato a Stilo il Campanella eccita il Pizzoni a parlare con Giulio Soldaniero fuoruscito; intanto è chiamato di nuovo dal Marchese di Arena in Arena (184). Il Pizzoni, fra Dionisio e Gio. Pietro fratello del Campanella, come pure Marcantonio Contestabile col Caccìa e un altro fuoruscito, accompagnano fra Tommaso ad Arena; fra Dionisio col Pizzoni ne partono per parlare al Soldaniero in Soriano; colloquii di fra Dionisio col Soldaniero, manifestando i disegni del Campanella e molto eresie (186). Il Pizzoni con un altro fuoruscito a nome Claudio Crispo ritorna ad Arena; giunge quivi una lettera che annunzia avere Maurizio preso gli accordi col Turco; fra Pietro di Stilo con Fabrizio Campanella armato viene egli pure in Arena, forse latore della lettera; altre lettere di Maurizio, di Claudio Crispo e del Pizzoni (188). Comparisce una cometa che raddoppia il fervore del Campanella; tutta la compagnia va in Pizzoni; convegno e banchetto di Pizzoni; fra Pietro di Stilo va a Soriano recando una lettera del Campanella al Soldaniero; parte presa da fra Pietro nella congiura.

III. Venuta di fra Marco da Marcianise per una visita nella provincia di Calabria; fra Dionisio va al convento di Taverna già assegnatogli; vi fa quistione con fra Cornelio di Nizza e bastona un altro frate; fra Cornelio è scelto per suo Compagno da fra Marco (196). Il Campanella torna a Stilo, e chiamato da Maurizio va presso di lui col Petrolo e Fabrizio Campanella a Davoli; Maurizio espone i patti conchiusi col Turco; son chiamati Gio. Tommaso di Franza e Gio. Paolo di Cordova che vengono con Orazio Rania da Catanzaro; concerto con costoro per fare un'insurrezione in Catanzaro (197). Incontro di Gio. Battista di Polistina, nemico di fra Dionisio, col Campanella in Davoli: parole scortesi dettegli dal Campanella; fra Gio. Battista va a Soriano, e il Soldaniero gli comunica la faccenda della congiura e dell'eresia (201). Maurizio va in giro a raccogliere fuorusciti; il Campanella scrive al Crispo e poi va a S.ta Caterina; fra Dionisio, condannato dal Visitatore, si rimette in giro con un Cesare Mileri e finisce per andare a Catanzaro, dove mostra gran premura di essere assoluto, e cerca affiliati per la congiura, dicendo che vi partecipavano il Papa, il Card.l S. Giorgio, diversi Vescovi, diversi Nobili (202). Parla col Franza, col Cordova, con due fratelli Striveri ed altri, parimente con Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia; tratta per fare entrare in Catanzaro 4 a 5 cento uomini incogniti e di notte; enumera gli aiuti che si avranno, mettendo innanzi per la prima volta la frottola dell'intervento di alti personaggi, che evidentemente non poteano intervenire (207). Intanto il Campanella in Stilo mantiene corrispondenze anche in cifra, continua nei colloquii con maggiore espansione, fa una scampagnata con gli amici sul monte di Stilo eccitando le più vive speranze (215). Cenni delle istituzioni politiche e religiose in progetto, come si può desumerli principalmente dalle deposizioni che si ebbero in sèguito da fra Pietro di Stilo e dal Petrolo, e poi da moltissimi altri (217). Trattavasi di fondare ciò che fu scritto di poi nella Città del Sole; si ha un notevole riscontro tra le cose allora dette e quelle in sèguito scritte, e rimangono così chiarite la congiura e le sue cause, non che la parte presavi dal Campanella, e perfino la verità o la falsità di molte cose deposte nel processo (220). L'idea non era punto democratica ma altamente patriottica, e per essa il Campanella compromise tutto, facendola abbracciare egualmente non da soli malfattori, ma anche da uomini stimabilissimi come Maurizio e fra Dionisio tra gli altri; né i preparativi erano di poca importanza quando la congiura fu scoperta .

Cap. III. - Scoperta della congiura e processi di Calabria (dalla fine di agosto a tutto 1Obre 1599).                     

I. Fabio di Lauro e Gio. Batt. Biblia denunziano la congiura al Fiscale di Calabria; poi mandano una 2a relazione al Vicerè, il quale ne scrive subito a Roma e a Madrid, e fa partire Carlo Spinelli per investigare e punire (226). Il Vicerè Conte di Lemos; suoi dubbi sulla congiura, la quale venne in fondo rivelata secondo le esagerazioni affermate da fra Dionisio (230). Clemente VIII e il Nunzio Aldobrandini; tenerezze di Roma col Vicerè a quel tempo; la richiesta da parte del Vicerè, di poter carcerare i frati, è accordata dal Papa (232). Carlo Spinelli e i suoi antecedenti; istruzioni solite a darsi in analoghe circostanze; capitani e soldati partiti con lo Spinelli (235). Nuova denunzia tardiva ed incompleta da parte di 5 Catanzaresi, tra' quali il Franza già stato a Davoli, per salvarsi; la denunzia, passata per la via dell'Audienza, svela il segreto della congiura e fa intendere che lo Spinelli veniva per essa; il Vescovo di Catanzaro ne dà avviso a fra Dionisio il quale se ne parte immediatamente (239). Fra Dionisio va a Stilo per sollecitare il Campanella ad uscire col Petrolo in campagna; il Campanella si nega e ripara a Stignano presso D. Marco Petrolo, il quale lo denunzia; Giulio Contestabile lo denunzia egualmente, e procura una commissione al cognato Di Francesco contro di lui (242). Lo Spinelli giunge in Catanzaro, fa prendere il Rania e lo affida al Governatore, ma il Rania fugge e poco dopo è rinvenuto soffocato in una vigna presso la città; lo Spinelli si duole del Governatore ed inizia il processo (243). Il Vicerè in Napoli affetta preoccupazione per un voluto sbarco di turchi in Abruzzo e una voluta peste nella Marca d'Ancona; emana bandi per la peste in realtà diretti a premunirsi dalla parte di Roma; ma poi, viste bene avviate le cose di Calabria, revoca i bandi e spedisce ordini di rigore contro i congiurati (246). La denunzia di D. Marco Petrolo è mandata allo Xarava e il denunziante finisce per essere carcerato come ricettatore; la commissione al Di Francesco giunge un po' tardi, e costui può soltanto carcerare i parenti del Campanella (248). Crescendo il numero de' carcerati lo Spinelli ordina di tradurli nel castello di Squillace, dove il processo continua, venendo carcerato anche Geronimo del Tufo; prevenzioni verso i Nobili e i Vescovi (250). Guidati e Commissionati contro i presunti colpevoli; il Soldaniero ed il Bruno, Gio. Geronimo Morano e D. Carlo Ruffo Barone di Bagnara; Nobili titolati venuti in aiuto del Governo, il P.pe della Roccella, il P.pe Di Scilla, il P.pe di Scalèa; notizie intorno a costoro (253). Altro aiuto potente dato da fra Marco e fra Cornelio, accordatisi col Governo nell'istituire un processo a' frati, co' più iniqui maneggi suggeriti dagli odii frateschi (257).

II. Antecedenti segreti del processo ecclesiastico di Calabria; fra Domenico da Polistina e fra Cornelio; colloquii di costui con lo Spinelli, Xarava e Lauro; sue comunicazioni esagerate al Card.l S.ta Severina e al P.e Generale; costringe il Soldaniero a far da denunziante e persecutore de' congiurati, procurandogli anche un guidatico e una promessa d'indulto dallo Spinelli (258). Titolo e data del processo; 36 capi di accusa; assertiva di richiesta a procedere anche da parte dello Spinelli, del Governatore e perfino del Vescovo di Catanzaro; lettere del Vescovo e del Governatore; commenti (262). Commissione data dal Visitatore fra Marco di catturare il Pizzoni e il Lauriana; particolari della cattura; fra Dionisio col Caccìa stava con loro, ma travestito se ne fugge (263). I due frati prigioni dati in consegna a D. Carlo Ruffo nelle carceri di Monteleone; esame del Pizzoni che svela ogni cosa anche con esagerazione e malignità; artifizii e terrori per avere simili deposizioni (264). Esame del Soldaniero commesso dal Visitatore a fra Cornelio, tutto ben concertato; esame del Lauriana, e giudizio su tale esame; commento sul processo, che in fondo non creava fatti essenzialmente falsi, ma li traeva a luce, li esagerava anche e li ribadiva con male arti (267). Intanto il Campanella è catturato insieme col Petrolo; particolari della cattura; ricovero in S.ta M.a di Titi; arrivo di Maurizio, fuga per sottrarsi a Maurizio, ricovero e travestimento presso Gio. Antonio Mesuraca a' dintorni della Roccella, tradimento del Mesuraca; commento in particolare sulla condotta di Maurizio (272). Il Campanella è tradotto alle carceri di Castelvetere; apprende per via che il Pizzoni ha rivelato anche eresie e consiglia al Petrolo di far lo stesso: lo Xarava viene a Castelvetere e riceve dal Campanella una Dichiarazione scritta; sunto della Dichiarazione e giudizio sopra di essa (277). Lo Xarava portasi a Monteleone e riceve una Dichiarazione scritta anche dal Pizzoni; inoltre una cifra di cui si sarebbero serviti il Pizzoni e il Campanella, e una copia delle deposizioni fin allora raccolte da' due frati col processo ecclesiastico (281). Passaggio del Campanella col Petrolo dalle carceri di Castelvetere a quelle di Squillace; intanto nelle carceri di Castelvetere il Gagliardo e compagni, saputa la carcerazione di lui, denunziano al P.pe della Roccella il Pisano amico del Campanella che li aveva eccitati alla congiura, e lo denunziano anche al Vescovo di Gerace per le eresie loro manifestate; il P.pe comunica queste cose allo Spinelli, ma i denunzianti son ritenuti partecipi della congiura; d'altro lato il Vescovo di Gerace fa prendere un'Informazione, che rende la condizione del Campanella sempre peggiore (283). È preso dal Morano Claudio Crispo, e gli si trovano due lettere, l'una di Maurizio, l'altra del Campanella; fra Marco e fra Cornelio continuano a far carcerare frati; son presi e poi rilasciati fra Vincenzo Rodino e fra Alessandro di S. Giorgio; son presi fra Pietro di Stilo, fra Paolo della Grotteria, fra Pietro Ponzio, fra Giuseppe Bitonto; fra Paolo è trovato in possesso di una lettera del Campanella al Crispo e di libercolo di segreti e cose superstiziose; il Bitonto è trovato in abito secolare ed armato (284). Deposizioni che i due Inquisitori raccolgono da taluni di costoro; esame di fra Pietro di Stilo interrotto; esame del Petrolo, che avvilito depone tutto anche con esagerazione (287). Lettera del Card.l di S.ta Severina a fra Cornelio, che prescrive doversi mandare il Campanella a Napoli, e prendere le informazioni unitamente co' Vescovi de' luoghi; così il Campanella non è sottoposto ad alcun esame in Calabria (290).

III. Catturato il Campanella, lo Spinelli ne dà partecipazione al Vicerè, affrettandosi a riconoscere che il Papa non dovea aver che fare nella congiura; dà notizia anche di varii incidenti e de' provvedimenti presi; manda una lista di 34 carcerati; di poi informa che erano state anche seminate eresie, ed erano apparsi i primi legni turchi ben presto seguiti da tutta l'armata (291). Altre catture di que' giorni e continuazione del processo contro i laici; sono esaminati Lauro e Biblia e poi gli Striveri col Franza; particolari di questi esami e commenti (294). Esame di Gio. Paolo di Cordova e di suo fratello Muzio; prime torture molto gravi; debbono rispondere anche della morte del Rania; è esaminato il Soldaniero, di poi Claudio Crispo, che finisce per confessare ampiamente in tortura; giudizii su tali esami (298). Inoltre sono esaminati Cesare Mileri e Tommaso Tirotta, ma lo Spinelli è costretto a partire per l'arrivo dei legni turchi; mosse de' primi legni comparsi nella marina di S.ta Caterina e Guardavalle; fanno segnali ma non hanno risposta; poi sopraggiunge l'armata che si mantiene lontana dalla costa e manda 4 galere verso Stilo che fanno pure segnali inutilmente, quindi si dirige verso il capo di Bianco; lo Spinelli va con truppa a Castelvetere per sorvegliarne le mosse, mentre continuano le catture degl'incolpati (303). L'armata con 26 galere va, come al solito, alla fossa di S. Giovanni avendo preso due navi Ragusèe; due galere vanno verso Reggio donde si tirano cannonate, e prendono un'altra nave; due schiavi cristiani fuggiaschi dànno notizie dell'armata e de' voluti disegni del Cicala; succede una scaramuccia tra gli spagnuoli e 500 turchi discesi a terra per fare acqua; dopo ciò l'armata torna verso Castelvetere, ma tenendo vento favorevole si dirige verso Cefalonia; lo Spinelli se ne torna a Squillace (306). Viene notizia da Corfù che l'armata si ritira a Costantinopoli; notizie inesatte date poi dal Campanella e da qualche storico circa le cose dell'armata; non vi furono rimproveri al Cicala in Costantinopoli per non avere soccorso i congiurati (308). Lettere e giudizii del Vicerè su tutti questi fatti; scrive a Roma immediatamente, partecipando che i frati erano anche eretici, e dimandando che se ne rimetta a lui il gastigo; scrive a Madrid per la ricompensa a Lauro e Biblia, ed annunzia l'accertato ritiro del Cicala verso Costantinopoli (309). Roma fa sapere che la causa del Campanella deve farsi in Napoli, e che venendo i prigioni debbono essere tenuti come prigioni del Nunzio; aderisce poi ad un'altra richiesta del Vicerè, che il Vescovo di Mileto venga a Napoli, e che siano assoluti il P.pe di Scilla, il Poerio Governatore del Pizzo e lo Xarava, quando veramente fosse stato riposto nella Chiesa, donde era stato estratto, un clerico che avea data occasione alla scomunica (311). Il Vicerè partecipa la scoperta della congiura agli Agenti di altri Stati accreditati presso di lui; relazione del Battaglino e dello Scaramelli; costui trasmette a Venezia anche le notizie di piazza, oltre quelle di Corte, e non pone mai in dubbio l'esistenza della congiura (313). Carcerazione di Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, dietro formale denunzia del Campanella, forse esasperato per la carcerazione di suo padre e suo fratello seguìta per opera di costoro; il Petrolo, sollecitato dal Campanella, fa una denunzia nello stesso senso (315). Continuazione degli esami in Squillace, presedendovi il solo Xarava; particolari della deposizione di Cesare Mileri, che confessa ampiamente, convalidando in tortura le cose confessate; esami del Gagliardo, Conia, Marrapodi, Santacroce e Adimari (317). Esame di Cesare Pisano, che dapprima nega, poi in tortura confessa ogni cosa; quindi sottoposto a nuovo esame, circa la nuova legge del Campanella, rivela una quantità di eresie; esami secondarii di Domenico Messina e di Giuseppe Grillo; la causa è sospesa per morte del Mastrodatti (322). Prime esecuzioni in persona di Claudio Crispo e Cesare Mileri in Catanzaro; sono arrotati, tanagliati, strozzati, quindi appiccati per un piede e poi squartati; le loro teste son poste in gabbia sulla porta della città, le loro case diroccate, i beni confiscati (326).

IV. Trasferimento del tribunale e di tutti i prigioni a Gerace; notizia della cattura di fra Dionisio, Gio. Ludovico Todesco, Maurizio e Gio. Battista Vitale, per opera del Morano alle marine di Puglia; invio a Madrid dell'esame del Pisano infarcito di eresie e della copia dell'Informazione presa da fra Marco e fra Cornelio (327). Risposta da Madrid con ordine che si usi rigore, e che si facciano proposte per premiare i denunzianti (329). Notizie che allora correvano in Napoli sulle cose di Calabria; relazioni ulteriori dell'Agente di Toscana e del Residente Veneto (330). Si ripigliano le sedute del tribunale in Gerace con le confronte del Pisano, e con nuovi esami ed anche torture del Gagliardo, Santacroce, Marrapodi, Conia etc., seguìte dalla confessione in tortura del Caccìa (332). Esami di Maurizio e del Vitale, verosimilmente anche di Gio. Ludovico Todesco e di varii altri già carcerati; notizie di coloro che furono presi successivamente, e di coloro che riuscirono a nascondersi o a fuggire (334). Intanto fra Marco e fra Cornelio ripigliano il loro processo coll'intervento del Vescovo di Gerace, e talvolta alla presenza di Spinelli, Xarava, ed altri laici; molti e gravi abusi verificatisi non ostante l'intervento del Vescovo (339). Sono esaminati fra Pietro Ponzio, fra Paolo, e poi fra Pietro di Stilo, il Bitonto, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo; inoltre il Soldaniero, il Pisano e il Caccìa (341). Giudizio sul processo di Gerace, sull'opera di fra Cornelio e sulle deposizioni raccolte (347). Anche di questo processo è rilasciata copia agli ufficiali Regii; triste giudizio del pubblico; malvagità di fra Cornelio (350). Ultime gesta dello Spinelli; altri esami ed altri catturati anche negli ultimi tempi; catturati dal Soldaniero e dal Bruno, oltre il Caccìa, un Bonazza, un Furci, un Loiacono etc. (351). Catturati anche altri ecclesiastici per ordine dello Spinelli; informazione particolare sulle relazioni di Giulio Contestabile col Campanella (354). Prigioni 156, ma molti imputati sono nascosti o vanno fuggiaschi; altri sono stati rilasciati dietro pagamenti (356). D. Garzia di Toledo con 4 galere a Tropea; i prigioni in lunga catena son diretti a quella volta; bestiale atteggiamento delle moltitudini verso di loro (359). Manca il tempo di giustiziare Maurizio, condannato ad essere segato vivo, insieme con 4 altri più colpevoli in Monteleone; imbarco di tutti i prigioni e de' loro persecutori a Bivona; fatti notevoli al momento dell'imbarco (360). Un'altra Informazione è commessa da Roma al Vescovo di Squillace; molti esaminati, molte cose raccolte: giudizio su questo nuovo processo (361). Condizioni nelle quali rimane la Calabria dopo la partenza dello Spinelli co' prigioni per Napoli; il fratello del Biblia è pugnalato in Catanzaro; col processo di Squillace si chiude la serie de' processi di Calabria, risultando sempre più gravi le condizioni del Campanella (367).


VOL. II.

NARRAZIONE, PARTE II.




CAP. IV.

PROCESSI DI NAPOLI E PAZZIA DEL CAMPANELLA.

A. - Processo della congiura (primi mesi del 1600).

I. Al declinare del giorno 8 novembre 1599, le quattro galere provenienti dalla Calabria giungevano in vista di Napoli, e poco dopo un battello spiccavasi dal Regio "tarcenale", come allora si diceva, ed andava ad incontrarle. Nella sera, all'entrare in porto, dalle antenne di ciascuna galera si vide spenzolare un uomo appiccato, e due altri si videro squartare in mezzo alle galere medesime, "per spavento del populo di questa città, concorso in numero infinito alla fama di questi funesti spettacoli"(1). L'indomani, i carcerati venivano sbarcati e rinchiusi parte nel Castel nuovo e parte nel Castello dell'uovo.

Ecco come era andata la faccenda di queste esecuzioni: ce ne danno notizie abbastanza precise in ispecie tre documenti autentici da noi raccolti, una lettera Vicereale del 9 novembre rinvenuta in Simancas, e due certificati scritti più tardi da' sacerdoti che avevano assistito alcuni di quegl'infelici, inserti poi nel processo di eresia. Il Vicerè scriveva a S. M.tà: "D. Garzia di Toledo con le quattro galere giunse ieri con Carlo Spinelli e i prigioni di Calabria, de' quali si aveano da giustiziare in Monteleone sei che erano convinti e confessi, e per non trattenere le galere li condussero con gli altri. Prima di sera mi avvertirono di quanto accadeva, e comandai che andassero ad incontrare le galere alcuni Religiosi i quali li aiutassero a ben morire, e che all'entrata del porto ne appiccassero quattro alle antenne e ne squartassero due, come si fece; ma ordinai che dapprima li strozzassero, ed essi morirono molto bene confessando i loro delitti, quantunque uno rimanesse pertinace sino all'ultimo ed infine morisse come gli altri. Oggi i prigioni sono stati posti ne' Castelli" etc.(2). Adunque l'ordine delle esecuzioni anche questa volta fu dato dal Vicerè; e da una lettera del Nunzio, come vedremo più sotto, risulta che le galere si fermarono in Nisida per entrare la sera nel porto, od almeno che si era diffusa la voce di questo avvenimento, senza dubbio insieme con la fama del funesto spettacolo, secondo l'espressione del Residente Veneto. né fu vero che que' due infelici venissero squartati vivi, siccome dissero di poi il Parrino e il Giannone ed anzi lo stesso Residente, il quale lo riferì al suo Governo del pari il 9 novembre, mostrando bene che tale era stata l'impressione avutane in Napoli; il Vicerè fu tanto caritatevole da pensare non solo a questo, ma anche a far salvare le anime di quegl'infelici coll'invio de' Religiosi, mentre sulle galere non mancavano mai i rispettivi Cappellani, sicchè in Madrid doverono rimanerne edificatissimi. Un certificato appunto del Cappellano della galera denominata S.ta Maria, D. Eligio Marti, che poi con la stessa qualità passò a servire nell'ospedale degl'Incurabili, ed un certificato di Gio. Luca de Crescenzio de' Padri Ministri degl'infermi, o Padri della Crocella com'erano chiamati volgarmente, ci rivelano il resto, mostrandoci a quale ordine di Religiosi il Vicerè fosse ricorso(3). Erano allora in gran voga, e giustamente, i Padri Ministri degli infermi: lo stesso venerabile Camillo de Lellis li avea condotti in Napoli nel 1588, ed avea fatto grandemente apprezzare la loro caritatevole istituzione, sicchè ben presto, per le beneficenze di D.a Giulia Castelli, ebbero una distinta casa di Noviziato di rimpetto al Castello dell'ovo (alle Crocelle), oltrechè s'istallarono negli ospedali dell'Annunziata, degl'Incurabili, di S. Giacomo, venendo poi anche il De Lellis pel servizio corporale degl'infermi all'Annunziata; solo più tardi, col crescere della loro fortuna, preferirono il servizio spirituale, onde finirono per mantenersi in riputazione principalmente con la volgare credenza che avessero una speciale preghiera per abbreviare l'agonia degl'infermi accelerandone la morte! Più Religiosi di quest'ordine andarono a confortare quelli che doveano essere giustiziati, e al De Crescenzio toccò di confortare Gio. Battista Vitale, "il quale fu all'hora affocato dalli ministri di giustitia sopra uno schiffo e poi squartato in mezzo alle dette galere"; ma "in quel medesimo tempo che stava per morire, publice et in presentia nostra, e del fiscale sciarava, che si ritrovava in dette galere con detto Carlo Spinello, dichiarò, che quello che esso havea detto contro quelle persone da lui nominate nelle sue depositioni, e specialmente contro monaci, tanto in materia di Ribellione, quanto in materia di heresia non era vero, ma che il tutto havea detto per dolori de' tormenti datili dal predetto "fiscale sciarava". Al Marti poi toccò di udire la stessa dichiarazione, durante il viaggio, non solo dal Vitale ma anche dai Caccìa e dal Pisano, e da ultimo toccò di trovarsi presente ed aiutare a ben morire "apparandosi detto acto di giustitia sopra la detta galiera S.ta Maria" per Gio. Battista Vitale e per Gio. Tommaso Caccìa, i quali ad alta voce innanzi al fiscale Sciarava là presente ripeterono la dichiarazione e volevano che fosse scritta; "qual dechiaratione da loro facta, fu eseguita la detta giustitia, et furono li predetti Gio. Battista et Gio. Thomaso affoghati sopra uno schifo, et poi squartati in mezo di dette Galiere". Intanto come mai il Vicerè non disse nulla su tale proposito, e parlò invece della temporanea pertinacia irreligiosa mostrata da uno di questi infelici? Verosimilmente essi fecero dichiarazioni di discolpe, ma parziali, avendo in realtà rivelato per atroci torture più di quello che conoscevano, e noi l'abbiamo fatto avvertire a suo tempo, né il Vitale potè smentire ciò che avea rivelato in materia di eresia, mentre non era stato mai interrogato su tale materia; quanto poi alla pertinacia di uno di loro, la cosa fu vera ed accadde appunto in persona del Vitale. Difatti si ebbe in sèguito la testimonianza di Maurizio, il quale sul punto di morte narrò a' Delegati del S.to Officio che suo cognato "che fu giustitiato qua in Napoli sopra il molo dentro mare... non si voleva convertere, perché diceva havere inteso da fra Dionisio che non ci era Christo, ciò e, che non ci credeva"(4). Si ebbe poi anche, nel processo di eresia, la testimonianza del Barone di Cropani, il quale a detto altrui, giacchè soffrendo il mal di mare non vide nulla, disse che "tre che furo giustificiati sopra la galera", dove egli si trovava, gridavano essere stato loro estorto co' tormenti quanto aveano rivelato intorno alla ribellione, aggiungendo che "un Gio. Battista de Nicastro quale fu giustificato non si voleva convertire, ma disse che voleva andare a casa del diavolo, et ivi aspettare don loyse sciarava, si ben ala fine si ridusse et morì devotamente"(5). È facile ravvisare che si alluderebbe qui propriamente a Gio. Battista Bonazza, il quale come vedremo or ora dovè essere giustiziato del pari; se non che in quanto alla pertinacia irreligiosa da lui mostrata probabilmente il Barone equivocò, confondendolo con Gio. Battista Vitale.

Ma, oltre il Caccìa e il Vitale, vi furono quattro altri semplicemente appiccati, e su' nomi di costoro non abbiamo la benchè menoma notizia. Forse nell'Archivio de' Padri Ministri degl'infermi, che dicono trovarsi in Roma, potrebbe aversene qualche cenno; ma è difficile che costoro abbiano avuti registri particolareggiati come vedremo averli i Bianchi di giustizia, i quali confortarono alcuni altri più tardi, e sicuramente non ne dicono nulla né gli Annali del Lenzo, né le Memorie storiche del Regi, che abbiamo appositamente consultato. Nondimeno per tre di loro, anche dietro l'indizio datone dal Barone di Cropani, possiamo dire essere stati con ogni probabilità quelli presi dal Soldaniero e già condannati a morte, cioè Gio. Battista Bonazza alias Cosentino, Fabio Furci e Scipio lo Jacono; il quarto dovè essere uno della stessa comitiva, ovvero Gio. Ludovico Tedesco che fu preso con fra Dionisio, col Vitale e col Maurizio, ma non abbiamo qualche elemento di una certa consistenza per affermarlo. Il Campanella nella sua Narrazione disse: "4 banditi né confessi, né nominati in cosa di ribellione appiccaro nel molo Xarava e Spinelli, perché si dicesse in Ispagna, ch'era verificata la ribellione"; ma almeno i tre sopracitati erano confessi, ed il primo di loro, il Bonazza o Cosentino, era stato nominato dal Pizzoni oltrechè dal Soldaniero.

Del rimanente è verissimo che lo stesso Vicerè esagerava l'importanza dell'affare, per magnificare il servizio reso alla Corona di Spagna e per far valere le pretensioni del potere civile verso l'ecclesiastico: ce lo dimostrano le relazioni del Residente Veneto e del Nunzio Pontificio. Il Residente, nel giorno medesimo dello sbarco de' carcerati, si diè premura di vedere il Vicerè, che gli disse il loro numero essere di 156, de' quali "ottantasei rei convinti da non poter fuggir la morte et gli altri indiciati"! Egli trasmise questa notizia al suo Governo, e contemporaneamente partecipò anche il genere di morte ideato dallo Spinelli per Maurizio (ciò che farebbe credere essergli stato del pari comunicato dal Vicerè), partecipò il supplizio inflitto a sei de' carcerati sulle galere, ed aggiunse che il Campanella ed il Ponzio negavano la ribellione ma confessavano l'eresia, per tentare, come credevasi, di "prolongar la pena con esser condotti a Roma"; quest'ultimo apprezzamento usciva in campo per la prima volta e potè forse provenire dal medesimo Vicerè, ma senza dubbio il fatto era riferibile agli altri frati e clerici e non già a' due che venivano citati. Il Nunzio poi avea veduto anche prima il Vicerè, "havendo... havuto notitia che le Galere erano a Nisida per entrar al notte (sic) in porto", allo scopo di ricordargli che ordinasse al carceriere del Castello di tenere a sua istanza gli ecclesiastici carcerati, i quali avea saputo essere al numero di 14 (al di sotto del vero); e il Vicerè gli disse che tutti i carcerati erano 160, che tra gli ecclesiastici vi erano 8 clerici selvaggi della diocesi del Vescovo di Mileto (la qual cosa non era vera), che aveva anche qualche indizio contro il Teologo di quel Vescovo (tale era stato nell'anno precedente il Campanella), e perciò scrivesse al Vescovo di venire a Napoli insieme col Teologo, aggiungendo che farebbe tenere i carcerati nel Castello ad istanza di lui, ma in quanto alla congiura era necessario l'intervento di qualcuno de' suoi ufficiali negli esami. Ricordiamo che, nel settembre, il Vicerè aveva espresso desiderio che si mandasse in Calabria un delegato del Nunzio, il quale sarebbe intervenuto negli esami degli ecclesiastici da farsi innanzi agli ufficiali Regii, e da Roma si era scritto che la causa degli ecclesiastici dovea farsi in Napoli dal Nunzio, vale a dire nel modo normale: ora, venuti i carcerati in Napoli, il Vicerè affacciava la medesima pretensione, ma naturalmente sotto forma diversa e senza dubbio più temperata, e per appoggiarla metteva innanzi, ad occasione del processo di congiura, i clerici selvaggi, Mons.r di Mileto e il suo Teologo, mentre sapeva bene che non c'era alcuna relazione tra essi e la congiura. Da ciò si vede pure che non nacque allora la contesa giurisdizionale, siccome scrissero poi il Parrino e il Giannone, ma soltanto si rinfocolò, non potendo nemmeno entrare in mente che per vederla nascere dovessero passare oltre due mesi, quando tra l'uno Stato e l'altro non si faceva che lottare per la giurisdizione ogni giorno. Il Nunzio non tardò a trasmettere a Roma le pretensioni del Vicerè, tanto sul modo di formare il tribunale, quanto sul far venire a Napoli Mons.r di Mileto, e in tale circostanza partecipò le esecuzioni fatte, aggiungendo che avea mandato una prima volta il suo Mastrodatti in Castello, e non si era potuto dargli udienza, l'avea mandato una seconda volta e gli si era detto che i carcerati erano tenuti ad istanza del Vicerè! Faceva inoltre conoscere che si era presentato a lui fra Cornelio del Monte e gli aveva consegnato gli esami raccolti in Calabria d'ordine del Card.l di S.ta Severina, annunziando che dirigevasi a Roma per dar conto del suo operato, ed egli intanto avrebbe letto questi esami per valersene a tempo opportuno. - Come ben s'intende, fra Cornelio consegnava il processo di Monteleone e quello di Gerace, che d'allora in poi rimasero nelle mani del Nunzio, mentre una copia ne era stata già mandata dalla Calabria a Roma; ed è notevole, da una parte, che il Nunzio non aveva mai saputo nulla de' processi fatti in Calabria da ecclesiastici, e d'altra parte, che nemmeno questa volta fra Marco di Marcianise credè opportuno di mostrarsi, la qual cosa apparisce da una lettera posteriore scritta dal Nunzio al Vescovo di Gerace(6).

Pertanto il Vicerè si era già dato pensiero del tribunale pei laici, avea fatta la scelta del personale, e nella stessa sua lettera del 9 novembre l'annunziava a Madrid. "Avendo trattato nel Consiglio Collaterale della gravità di questo negozio e come conveniva procedervi con molta ponderazione, ho stabilito di nominare in qualità di Delegato Marco Antonio d'Aponte del Consiglio di S.ta Chiara, che è un uomo molto letterato, molto savio e di molta prudenza, e in qualità di Fiscale D. Giovanni Sanchez del medesimo Consiglio, che lo assistesse il dottor D. Luigi Xarava Avvocato fiscale di Catanzaro, e che mi dessero conto nel Collaterale di tutto ciò che si andrebbe facendo, perché lì si risolvesse ciò che fosse più conveniente. Credo bene che S. S.tà debba volere quanto all'eresia che il Nunzio giudichi i frati e i clerici, quanto alla ribellione procurerò che giudichiamo tutti". Noi abbiamo potuto trovare nell'Archivio di Stato in Napoli la lettera Vicereale di commissione, la quale venne spedita a' suddetti Consiglieri il 15 novembre, e ci dà anche il nome del Mastrodatti di cui si prescrisse servirsi, che fu Giuliano Canale. Ricordato l'invio dello Spinelli in Calabria per la congiura che vi si trattava, l'informazione e gli atti da lui compiti, il gastigo dato a' più colpevoli e il trasporto in Napoli di tutti gli altri contro i quali non era "tanta subsistentia et chiarezza", il Vicerè si esprimeva in questi termini: "vi dicemo et ordiniamo, che reconoscendo le dette informationi et atti, debbiate nomine regio et nostro, summarie, simpliciter et de plano, sine strepitu et figura Judicii procedere ad omnes et singulos actus usque ad sententiam exclusive, però delli incidenti di maggior momento, che in ciò occorreranno, ci ne verrete a far relatione nel regio collaterale consiglio, et quando seranno le cause a sententia, debbiate similmente venire a farcine relatione, attal' che in presentia nostra si possano votare et sententiare, e dopoi essequirle (sic) quello che serà sententiato, et potrete procedere a tutti li atti incumbenti etiam in dì festivi et feriali, non compiendo che si vada ritardando in questo la bona et breve administratione della giustitia" etc.(7). È una grande iattura che sieno perduti appunto i volumi intitolati Notamentorum relativi a questo periodo: in essi si sarebbero certamente trovate, co' processi verbali del Consiglio, le notizie, i pareri e le risoluzioni prese nei suddetti incidenti di maggior momento e nelle sentenze da doversi emettere(8). La perdita è rincrescevolissima, poichè siamo ridotti ad avere a nostra disposizione un numero ristrettissimo di documenti, mentre sappiamo che il processo ebbe a travagliare almeno un 130 persone, e sebbene fosse stato spinto innanzi con quella sollecitudine che il Vicerè aveva ordinata, rimase aperto per più anni, come crediamo di poter dimostrare con sicurezza. - Per ora gioverà dare qualche notizia su' Consiglieri delegati a formare il tribunale pe' laici. Essi erano entrambi assai distinti personaggi. Marco Antonio d'Aponte, o de Ponte, apparteneva alla nobile famiglia di questo nome ascritta al Seggio di Portanova, alla quale, oltre varie Signorie, vennero mano mano i titoli di Marchesi di Morcone, di S. Angelo, della Padula, di Collonise, e poi anche quello di Duchi di Flumeri. Marco Antonio era del ramo di Nicolò 3.° de Ponte, primogenito di Gio. Felice Signore di S. Angelo e di Vincenza Galeota; Consigliere fin dal 1594 in luogo di Pompeo Salernitano, Prefetto dei Deputati della pecunia nel 1598, divenne poi Membro del supremo Consiglio d'Italia, 1.° Marchese di S. Angelo, Presidente del sacro Regio Consiglio, Reggente del Collaterale. Il Santanna nella sua Storia de' De Ponte, ce ne diede il ritratto, che lo rivela uomo autorevole ed austero: molti ce ne trasmisero le lodi, un Codice manoscritto, che si conserva nella Nazionale di Napoli, ci trasmise le pessime qualità de' tre suoi figliuoli che ne amareggiarono gli ultimi anni(9). Quanto a D. Giovanni Sances de Luna, apparteneva anch'egli ad una nobile famiglia di origine spagnuola, ascritta al Seggio di Montagna nel 1570, ed insignita del Marchesato di Grottola nel 1574. Era secondogenito di D. Alonso iuniore 1.° Marchese di Grottola, Tesoriere Generale, Consigliere del Collaterale e Grasciere, e di D.a Caterina de Luna figlia di D. Giovanni Martinez de Luna Castellano di Milano per Carlo V.° e poi Generale d'armata. Divenne, per donazione del padre, Signore di S. Arpino, comunque glie ne fosse stato contrastato il possesso da' suoi parenti con molte liti transatte più tardi(10). Consigliere fin dal 1593 godè sempre moltissima riputazione, "fu amato, riverito e dopo morte desiderato" come dice il De Lellis. Una circostanza del suo parentado merita qui speciale menzione: la sua cugina D. Anna Sances, figlia di D. Loise Sances fratello del 1.° Marchese di Grottola, avea sposato Gio. Battista Morano Barone di Gagliato e quindi era cognata di Gio. Geronimo Morano: trovavasi poi già intavolato a questo periodo un matrimonio tra l'unica e ricca erede del Barone, D.a Camilla Morano, e un altro D. Giovanni Sances cugino di lei e del Consigliere, figlio di D. Giulio Sances. Potremmo aggiungere ancora che una sua nipote D.a Caterina Sances, nata da D. Alonso 2.° Marchese di Grottola e D.a Beatrice de Marinis, sposò il fratello di Carlo Spinelli D. Gio. Battista, che divenne Marchese di Buonalbergo(11). Abbiamo già notato altrove, che il Campanella ha reso la circostanza del parentado del Sances col Morano assai importante per la nostra narrazione.

Mentre il tribunale pe' laici si costituiva, il Nunzio incontrava difficoltà perfino a far ammettere che gli ecclesiastici fossero tenuti nel Castello come carcerati suoi, la qual cosa pure era stata antecedentemente consentita. Dapprima andò presso di lui lo Xarava, a fine di persuaderlo che essendo costoro imputati di ribellione, non si dovevano rimettere al foro ecclesiastico; di poi vi andò D. Alonso Manrrique a nome del Vicerè per lo stesso oggetto, e quest'ultimo si servì di un mezzo abbastanza adoperato dagli alti ufficiali spagnuoli, quello cioè di mantenersi nelle grazie di Roma e al tempo stesso nelle grazie della Corte di Madrid che si mostrava tanto tenera per Roma, scovrendo e compromettendo gli alti ufficiali napoletani; "questi Ministri, egli diceva, che pretendono che nel caso di ribellione possa procedere il Principe di propria autorità, potrebbero fare qualche male offitio alla Corte di S. M.ia contro S. E.". Ma il Nunzio, che a queste parole riconosceva subito la grande devozione del Manrrique verso Sua B.ne, non poteva cedere, e in una udienza avuta dal Vicerè sostenne assolutamente che gli ecclesiastici dovessero tenersi come carcerati suoi, giusta gli ordini che da un pezzo e ripetutamente aveva avuti da Roma; tuttavia "per facilitare il negotio" diè "speranza" che S. S.ta avrebbe accordato l'intervento di un ufficiale Regio negli esami di essi intorno alla congiura, tanto più che il Vicerè gli fece destramente intendere che voleva intervenirvi di persona, ed egli ne rimase preoccupato. Così, in dato, del 12 novembre, fu scritto dal Vicerè al Castellano, che tenesse gli ecclesiastici carcerati in nome del Nunzio, e da costui, con la relazione di tutto l'andamento dell'affare, fu scritto a Roma che sarebbe bene accordare l'intervento di un ufficiale Regio negli esami degli ecclesiastici. - Pertanto, procuratasi una copia del biglietto del Vicerè, il Nunzio mandò subito a chiedere al Castellano se il biglietto gli fosse pervenuto, e il Castellano rispose che l'avea ricevuto, ma che nel tempo medesimo gli era stato detto di non dargli esecuzione se il Nunzio non si fosse recato personalmente in Castello! Queste tergiversazioni continue, e il disegno mostrato dal Vicerè d'intervenire egli medesimo negli esami degli ecclesiastici, davano a pensare al Nunzio che si volesse intaccarne la giurisdizione. E in siffatto senso, il 16 novembre, egli scriveva a Roma, aggiungendo che, se fosse costretto a fare qualche cosa, proporrebbe di lasciar trattare prima la causa dell'eresia, per la quale si dava anche premura di notare che era disponibile soltanto il Vicario Arcivescovile di Napoli, trovandosi assente il Vescovo di Caserta, e però bisognava ordinare chi dovesse sostituirlo, laddove così fosse sembrato a Roma(12). Il Vescovo di Caserta D. Benedetto Mandina de' Clerici regolari, già Nunzio in Polonia, era a quel tempo il "Ministro della S.ta ed universale Inquisizione" o "Inquisizione de Urbe", successo in tale ufficio al Vescovo di Sorrento Mons.r Baldino morto nell'aprile 1598; trattandosi di un processo clamoroso e non ordinario, dovendovi essere un tribunale più largamente costituito, egli appariva un giudice naturalmente designato.

Si può ben dire che dalla parte del Vicerè e de' suoi ufficiali, più del solito fine di custodire la giurisdizione Regia, vi fosse una grande diffidenza verso Roma; questo riuscirà sempre più chiaro in sèguito, ma fin d'ora è già chiaro abbastanza. Quantunque ognuno de' Regii si fosse affrettato a dire che evidentemente il Papa non teneva mano a' disegni del Campanella, in fondo nessuno dimenticò giammai che il nome del Papa era stato pronunziato come quello del gran motore dell'impresa; e così, per anni ed anni, il sospetto di una segreta protezione di Roma non fu mai abbandonato da tutti i Vicerè ed alti ufficiali, e influì anche troppo sulle loro determinazioni intorno al Campanella. Dalla parte di Roma, quasi non occorre dirlo, non eravi il benchè menomo interesse pel povero frate, ma tutti i pensieri erano rivolti a far "conoscere la superiorità ecclesiastica" giusta un'espressione del Nunzio; eppure avrebbe dovuto oramai farvisi strada anche il sospetto, poichè i dubbii già concepiti sulla bontà de' procedimenti usati con quegli ecclesiastici, nella Calabria, ricevevano una potente conferma dalle spiegazioni orali che fra Cornelio dava in Roma appunto a quei giorni.

Fra Cornelio, venuto co' carcerati in Napoli, dopo di aver consegnato al Nunzio i processi ne' quali avea rappresentata quella parte che conosciamo, si disponeva ad andar subito a Roma, e da una lettera del Nunzio si rileva che dovè partire il 12 novembre(13). Intanto non avea mancato di visitare nel Castel nuovo almeno taluno de' frati carcerati. Dalla testimonianza di un altro carcerato per delitti comuni, inserta nel processo di eresia, sappiamo che visitò fra Silvestre di Lauriana, ed ecco in che modo fu riferita questa visita: "venne una volta un certo frate rossetto compagno del visitatore di Calabria, et fra Silvestre li dimandò alcuni dinari quali erano stati contribuiti in Calabria dali conventi, et massime che fra Silvestre disse haver detto tutto quello che havea voluto detto frate rosso llà in Calabria, et questo frate rosso lo consolò, dicendo che non poteva patere cosa alcuna perché esso era solo testimonio, è così li diede nove carlini"(14). Naturalmente dovè vedere ancora qualche altro, ma non ce n'è rimasta alcuna notizia: sappiamo invece che giunto col procaccio in Roma, fu subito interrogato dal S.to Officio, e i risultamenti dell'interrogatorio si leggono ne' Sommarii del processo di eresia(15). Noi abbiamo già avuta occasione di darne un cenno altrove (ved. vol. 1.° pag. 259). In sostanza venne a dichiarare che prima fra Domenico da Polistina e poi il Soldaniero, e il Vescovo di Catanzaro e gli ufficiali Regii gli comunicarono tutte quelle cose che egli registrò nel processo; non potè determinare e neanche legittimare la provenienza di parecchie gravi accuse contro il Campanella, espresse nelle lettere che avea già scritte al Generale dell'Ordine e al Card.l di S.ta Severina, sia quanto a detti e fatti del Campanella, sia quanto alla diffusione delle eresie di costui in molti paesi che avea specificatamente indicati; non potè dare altre informazioni al di là di quelle inserte nel processo, mentre in più lettere aveva affermato di poterle dare meglio a voce. Per tutti i versi egli "non soddisfece", e in verità sarebbe stato ragionevole un buon processo contro questo malvagio frate; ma si conosce che uno de' lati più deboli del S.to Officio, sia amministrato da' Commissarii speciali sia dagli Ordinarii, era appunto il rispettare coloro i quali bene o male davano prova di zelo nella scoperta delle cose d'Inquisizione. Così la città di Napoli non potè mai ottenere, malgrado i più insistenti reclami, che ad evitare le tante testimonianze false nelle cause di S.to Officio fosse lecito di conoscere i nomi de' testimoni; Roma vi si negò ostinatamente, non dissimulando che preferiva il rischio di avere testimoni falsi al rischio di non trovar testimoni, e contentandosi di ovviare alle testimonianze incerte con le ripetute, pazienti, laboriose informazioni. Vedremo che questo precisamente accadde nella causa del Campanella, non senza aggravare nell'animo del Vicerè e de' suoi ufficiali il sospetto che si volesse, con le lungaggini, sottrarre il Campanella e i frati inquisiti al gastigo che si meritavano. Ma se in Roma non rimaneva più dubbio che il processo era stato iniziato malamente, non si sarebbe anche dovuto ingenerare il sospetto per l'intervento degli ufficiali Regii nella causa della ribellione e tanto più rifiutarsi ad ammetterlo? Così avrebbe dovuto essere; ma si conosce, o almeno si conosceva ottimamente da' padri nostri, che Roma scansa volentieri la lotta con chi si mostra duro.

Il 17 novembre il Card.l S. Giorgio scriveva che S. S.tà stimava ragionevole l'intervento di qualche ufficiale Regio nella causa della congiura, e parimente la venuta del Vescovo di Mileto alla presenza del Vicerè; stimava insomma ragionevoli tutte le dimande Vicereali, se non che dichiarava dovere il Nunzio permettere all'ufficiale Regio "d'intervenire in effetto ma non già d'ingerirsi nel resto, et spetialmente nelle materie tangenti al S.to Officio", dovere inoltre ad ogni modo assicurarsi bene che fossero i prigioni "custoditi come prigioni suoi, et tenuti a sua libera dispositione". Evidentemente c'era un singolare contrasto d'idee, una indeterminazione curiosa, una voglia mal celata di rendere la concessione illusoria. In un'altra lettera del 19 si ripetevano le medesime cose, dicendosi, quanto agli esami degli ecclesiastici, che S. S.tà "giudicava conveniente che mentre s'interrogavano delle materie concernenti tal congiura, v'intervenisse qualcheduno per il Fisco Regio conforme all'instanza del Vicerè", donde parrebbe che volesse concedersi tutt'al più la presenza di un Avvocato fiscale Regio: dichiaravasi poi S. Stà molto soddisfatta del vigore mostrato dal Nunzio nella difesa della giurisdizione, avendo "preteso vanamente i Ministri regii di procedere di propria autorità nel caso, et nelle "persone de i sodetti". Ma la Corte di Napoli non aveva preteso di assistere vanamente al giudizio, sibbene di prendervi parte, poichè aveva anzi preteso che il tribunale dovesse comporsi tutto di laici, e i Ministri Regii non erano tanto dolci da contentarsi delle semplici apparenze, onde la quistione ebbe a durare ancora un pezzo. - Nella stessa data del 19, il Nunzio poteva finalmente scrivere a Roma che il Vicerè, dietro le sue lagnanze, avea mandato al Castellano un altro biglietto, col quale gli ordinava di ammettere chiunque fosse stato da lui inviato per eseguire qualunque suo ordine. E scriveva pure al Card.l di S.ta Severina, dicendo che gli ecclesiastici inquisiti erano 14 (ancora non sapeva che erano in maggior numero), e la carcere sua era "una sola et non interamente sicura per simili huomini", e però avea ricercato il Vicerè che si contentasse metterli in Castel nuovo a sua istanza come era seguito: donde risulta sempre più manifesto non esservi stata veramente mai, tra il potere civile e l'ecclesiastico, una quistione intorno al doversi quegl'inquisiti tenere nelle carceri Regie o in quella del Nunzio, il quale, al pari di tutti i suoi predecessori e dello stesso Arcivescovo, continuamente profittava delle carceri Regie per gì'inquisiti ed anche pe' condannati di una certa importanza. Infine scriveva ancora il Nunzio a' Vescovi di Squillace e di Gerace, dicendo che i carcerati erano giunti e si doveano con loro eseguire gli ordini che S. S.ta avrebbe dati. Ci mancano le lettere di questi Vescovi, e così pure quella del Card.l di S.ta Severina, alle quali il Nunzio rispondeva, e però non conosciamo il motivo preciso di queste risposte del Nunzio abbastanza oscure; ma parrebbe che il Card.l di S.ta Severina avesse giudicato poco corretto che gl'inquisiti ecclesiastici fossero tuttora rimasti in mano delle forze Regie, e che i Vescovi di Squillace e di Gerace avessero fatto tardivamente avvertire che si badasse bene alle qualità di clerici nelle persone del Caccìa e del Pisano.

Non si saprebbe dire veramente perché il Nunzio avesse tardato fino al 23 novembre per mandare a riconoscere gli ecclesiastici carcerati, mentre ne aveva facoltà fin dal 15: comunque sia, a quella data egli mandò il suo Auditore, il Rev.do Antonio Peri fiorentino, che vedremo figurare anche troppo durante il processo di eresia, poichè il Nunzio, occupato in altri affari, si fece sovente sostituire da lui. Lo mandò al Castellano con un suo biglietto che può leggersi tra' Documenti; qui occorre soltanto notare essere stato questa volta il Castellano più che gentile, avendo non solo fatta dare una stanza per gl'interrogatorii, ma anche "offerto ministri et ogni altra cosa per la tortura"! Nell'udire un simile sfoggio di cortesia da parte del Castellano, Mons.r Nunzio, che fino allora non era riuscito a nulla con lui, dovè rimanerne lusingato tanto, che non mancò di riferire anche quell'offerta a Roma(16). - È necessario pertanto fare la conoscenza di questo Castellano. Egli era D. Alonso de Mendozza e Alarcon, di nobilissima famiglia, discendente da quel D. Ferdinando di Alarcon, il quale tenne prigione Re Francesco di Francia dopo la rotta di Pavia, fu creato Marchese della Valle Siciliana e poi anche di Rende, e maritando l'unica sua figlia a un Mendozza, volle che tutti i successori prendessero perfino il suo nome, onde si ebbe una serie di Ferdinandi de Mendozza e Alarcon Marchesi della Valle, che ingarbuglia un poco la storia della famiglia. D. Alonso era terzogenito di D. Diego de Mendozza, quarto figlio di D. Ferdinando Pietro Gonzales de Mendozza, 2.° Marchese della Valle, che morì governando lo Stato di Milano; egli avea sposato D. Maria de Mendozza figlia di suo zio D. Alvaro e di D. Anna di Toledo. Secondo il costume del tempo, l'ufficio di Castellano del Castel nuovo era da anni nelle mani dei Mendozza. Dopo la morte di D. Ferdinando Pietro Gonzales, 2.° Marchese della Valle, era passato al figlio D. Alvaro, e in una delle assenze di costui, che guerreggiò in Fiandra con molto valore, fu retto da D. Diego padre di D. Alonso; più tardi, nel 1595, D. Alvaro medesimo con licenza del Re ne fece rinunzia a D. Alonso suo genero, e tale rinunzia fu confermata nel 1596, continuando poi nel medesimo ufficio, dopo la morte di D. Alonso, anche i due figliuoli di costui D. Alvaro e D. Diego iuniori successivamente(17). Tutti questi particolari non debbono reputarsi inutili, che anzi dovremo darne ancora altri più in là, essendo stato il Campanella in relazione con qualche persona della famiglia Mendozza e della parentela di essa.

Ecco ora un saggio della ricognizione fatta dall'Auditore del Nunzio il 23 novembre; ne prendiamo alcuni brani dal 1.° volume del processo di eresia, dove essa trovasi inserta. Precisamente come scrisse il Nunzio a Roma nella stessa data, si volle rilevare quali e quanti fossero gli ecclesiastici inquisiti, i loro nomi ed il luogo in cui si trovavano carcerati: così per la prima volta s'incontra un breve interrogatorio del Campanella e di tutti gli altri ecclesiastici, con la descrizione degli abiti di coloro che furono presi travestiti da secolari; non di rado vi s'incontra pure la notizia della patria, parenti, età e circostanze in cui ciascuno fu preso(18). Il Campanella venne interrogato prima di ogni altro, e diamo qui la descrizione che se ne fece, e le due risposte che si ebbero alle due interrogazioni fattegli. "Fu esaminato un certo giovane, con barba nera, vestito di abiti laicali, con cappello nero, casacca nera, calzoni di pelle, ferraiolo di lana come volgarmente si dice panno di Morano arbaso, e deferitogli il giuramento" etc. rispose: "Signore, Io mi chiamo Fra Thomasi Campanella dell'ordine di San Domenico, sono di una terra chiamata Stilo in Calabria ultra, mio patre si domanda Geronimo Campanella et mia matre Catherina basile. L'essercitio mio è di Religioso, dire l'offitio, messa, predicare et confessare, et l'habitatione mia è in Stilo nel convento detto Santa Maria di Gesù di detto ordine di S. Domenico, et si ben mi ritrovo vestito di questa maniera, è perché fuggiva l'ira di miei inimici che mi persequitavano, cioè l'Avocato fiscale Don luisi Sciarava et Gio. Geronimo Morano che mi veniva appresso"... "Nell'anno 1581 mi pare ch'io entrassi nella Religione, et per prima era chierico". Due cose si fanno qui notare: l'una è che sua madre vien detta Caterina Basile, mentre è stato assicurato che ne' libri parrocchiali leggevasi Caterina Martello, e su questo ci siamo già spiegati fin dal principio della nostra narrazione (ved. vol. 1.° pag. 2); l'altra è che il Campanella scusa qui la sua fuga dicendo che gli "veniva appresso" Gio. Geronimo Morano, non Maurizio de Rinaldis. - Seguì l'interrogatorio fatto a fra Pietro di Stilo, nel quale si parlò ancora del Campanella, e ne diamo semplicemente le risposte. "Havrà da dudeci anni ch'io sono entrato nella Religione, et havrà da undici anni che hò fatto la professione, et di presente quando fui preso carcerato steva à Stilo nel monisterio di S.ta Maria del Gesù dove io era vicario"... "In detto convento vi erano quattro sacerdoti di messa et uno laico assistenti computati con me, et fra Dionisio Pontio ci soleva venire come una furia, et andava et veniva; li quattro sacerdoti sono prima io, il secondo fra Thomasi Campanella, il terzo fra Domenico di Riaci, il quarto fra Simone della Motta (si noti che il Petrolo non c'era), et non fu di altri che fugissero di detti frati solo il Campanella avertito da fra Dionisio pontio che venne à dire che era stato avisato che veniva il s.r Carlo Spinello contro di loro, et così si ne partirno, et questo è quello ch'io so della fuga loro-". - Lasciando poi tutti gli altri interrogatorii, riporteremo soltanto quelli di fra Domenico Petrolo, di fra Giuseppe Bitonto e di fra Dionisio, con la descrizione de' loro travestimenti. Quanto a fra Domenico si scrisse: "Fu esaminato un certo giovane con piccola barba, vestito di abiti laicali, con casacca nera di panno d'arbascio, calzoni di panno color lionato, con ferraiolo egualmente di panno nero d'arbascio, dietro giuramento" etc. rispose, "Io mi chiamo fra Domenico de Stignano dell'ordine di S.to Domenico, et son figlio ad Augustino petrone (sic) et a lucretia pelegia, et l'essercitio mio è di studente sacerdote di Messa, et ha dui anni ch'hò predicato et sono stato assignato al convento di Cosensa et deputato al convento di S.ta Maria di Gesù di Stilo"; né gli fu dimandato altro. Quanto a fra Giuseppe Bitonto, troviamo: "Fu esaminato un certo giovane con barba castagnaccia, vestito di abiti laicali, con giubba bianca, cappello nero e calzoni di arbascio nero e ferraiolo di panno nero, con giuramento interrogato" etc. rispose, "Io mi chiamo fra Gioseppe Bitonto di san Giorgio et sono sacerdote di Messa et lettore" etc. "Quando fui preso carcerato fui preso in casa fuori alla vigna d'un mio zio, che mi ni era ritirato là per pagura di non essere preso, gia che si diceva che tutti l'amici del Campanella dovevano essere presi et però mi ritrovo in questo habito che mi presero che steva dormendo, et li sbirri mi levorno la tunica et l'habito, et in questo carcere di notte e giorno stò solo". Infine quanto a fra Dionisio si scrisse: "Fu esaminato un certo giovane con barba nera vestito di abiti laicali, con casacca di ciambellotto, calzoni di scottano nero e ferraiolo nero, con giuramento interrogato" etc. rispose, "Io mi chiamo fra Dionisio Pontio da Nicastro et son frate dell'ordine di S.to Domenico et l'essercitio mio è di sacerdote lettore et predicatore et mio padre si chiamò Jacovo pontio et mia madre si chiamò lisabetta monizza"... "Io fui preso carcerato à Monopoli dove io era fugito et scappato da molti soldati nel convento di piczoni, perche mi fu detto da claudio crispo che erano venuti detti homini per carcerare li frati in detto monisterio". Si può qui notare che egli dicevasi avvertito dal Crispo, il quale era stato solito di dimorare in quel convento e forse allora vi mancava, non già dal Caccìa il quale veramente l'aveva avvertito, e non conveniva che fosse nominato, per nascondere che era là venuto in sua compagnia. - Facendo questa rassegna, l'Auditore ebbe a trovare non 14 ma 21 ecclesiastici, come si rileva dalla Ricognizione originale, ed ebbe a sapere che altri tre di loro erano stati rinchiusi nel Castello dell'uovo, probabilmente per semplice disavvertenza: questi erano infatti fra Pietro Ponzio, Cesare Pisano e Giulio Contestabile, ma nella lista che ne fu redatta lo stesso giorno e che può leggersi tra' Documenti(19), fu messo non già il Contestabile, sibbene Gio. Tommaso Caccìa che era stato già giustiziato! Chi si permise tale sostituzione evidentemente dolosa? Sarebbe difficile dirlo; ma poichè insieme coll'Auditore non v'era alcuno ufficiale Regio che avrebbe potuto far nascere tale equivoco, bisogna piuttosto dire che l'abbia fatto nascere il Nunzio medesimo, per mostrarsi ignaro di questo grave e d'altronde irrimediabile oltraggio arrecato alla giurisdizione. Il Vescovo di Squillace fin dal giorno 11 avea scritto un'altra volta al Nunzio nominandogli in particolare un clerico, naturalmente della propria diocesi, che con ogni probabilità dovè essere il Caccìa; il Nunzio gli rispose che questo clerico era stato condotto in Napoli, e intorno a lui doveva eseguirsi l'ordine che S. S.tà darebbe, come altra volta gli avea scritto(20); sicchè il trovarselo nella lista gli potè servire di ottima scusa. Ma se questo non fosse stato un artificio suo, avrebbe dovuto poi venire il giorno delle lagnanze e de' risentimenti presso il Vicerè, allo scoprirsi dell'inganno; ora siffatto giorno non venne mai, e ciò mostra che Mons.r Nunzio non vide perché non volle vedere, o per lo meno che le sue grandi cure intorno alla giurisdizione non erano dirette a proteggere le persone ecclesiastiche, le quali potevano perfino scomparire senza che egli se ne avvedesse.

Nel medesimo giorno 23 novembre il Nunzio mandò a Roma la notizia della ricognizione fatta e la lista de' carcerati ecclesiastici, che raggiungevano appunto il numero di 23, con l'osservazione che se n'erano trovati 9 di più ed un solo clerico selvaggio. Nel giorno 26 tornò sull'argomento e ripetè l'istanza che venisse l'ordine circa le persone le quali doveano costituire il tribunale per l'eresia, accertando che in questa materia i Ministri Regii non avevano alcuna pretensione d'intervenire, ma soggiunse: "temo bene che nel capo della congiura e ribellione non sia per bastare à medesimi Ministri l'intervenire, ma che vorranno apparirci principali, et che sotto lor nome si faccino i Processi non ostante che di ragione non convenga, per che ritraggo che dicono altra volta haverlo usato, et che sia solito de Principi in simili casi proceder de facto". Questo gli venne confermato poco dopo dal medesimo Vicerè in una udienza avuta, e mentre egli insisteva sulla necessità "che tutto apparisse fatto coram Judice ecclesiastico", il Vicerè mandò a chiamare il Reggente d'Aponte (che era Gio. Francesco Marchese di Morcone, cugino del Consigliere, figlio di Gio. Antonio e di Costanza Lanaria), e costui disse che "havevano trovato che con altre occasioni era stato dalli Antecessori di S. S.tà commesso ad uno de Ministri Regii che intervenisse come delegato Apostolico in trattar simili cause"; il Vicerè soggiunse che se ne farebbe istanza a Roma. Il Nunzio allora non obiettò altro, ma chiese che i tre ecclesiastici rinchiusi nel Castello dell'ovo si facessero condurre in Castel nuovo, e l'ordine in questo senso fu subito dato; fece in pari tempo notare che i carcerati ecclesiastici si erano trovati in maggior numero, ma un solo veramente era clerico selvaggio, e il Vicerè disse che non pensava che erano tanti! Insomma il Vicerè all'occorrenza rappresentava anche la parte dell'ingenuo, e mostrava sufficiente abilità in questo armeggìo.

Non si tardò a commettere le trattative all'Ambasciatore di Spagna ed all'Agente Vicereale in Roma. Una lettera del Vicerè, in data del 30 novembre, ci pone in grado di conoscere lo stato delle cose dalla parte del Governo di Napoli: sarà bene riportarla qui tutta intera in italiano(21). "Già tengo dato conto a V. M.tà dell'aver tradotto qua i prigioni di Calabria, e della giustizia che si fece di sei di loro all'entrata del porto. Contro i laici si va procedendo, avendo delegato per Giudice il Consigliere Marco Antonio de Aponte, e per Fiscale D. Giovanni Sanchez, con ordine che ci vadano sempre dando conto in Collaterale di quanto si farà. I frati e clerici tengo posti tutti in Castel nuovo, con ordine che stiano lì in nome di S. S.tà e del Nunzio che risiede qui per lui, ma segretamente ho ordinato al Castellano che non lasci trarre di là nessuno. S. S.tà inviò ordine al Nunzio che risiede qui, perché con lui, o col Giudice che egli deputerebbe pel compimento di questa causa, entrasse sempre un'altra persona di parte mia. Io non mi sono contentato con questo, e però faccio istanza per mezzo del Duca di Sessa e di D. Alonso Manrrique che mi rimetta la causa, e quando non potessi ottener questo, che S. S.tà nomini i Giudici che io le presenterò, o mi mandi un Breve perché io possa presto nominarli in suo nome. Perciò ho trovato un decreto emanato al tempo delle rivolte del Principe di Salerno da due Reggenti di questo Collaterale, nel quale si nominano Giudici creati da S. S.tà e S. M.tà, e così con questo ed altre ragioni convenienti faccio l'istanza suddetta, e in tale stato tengo il negozio. L'Inquisizione ancora, da parte sua, tratta di volere coloro che sono inquisiti di eresia; io vado rispondendo a tutto con buone ragioni e parole, e almeno procurerò che i capi principali, per una via o per l'altra, non escano di qui senza aver giustizia di loro" etc. Quest'ultima proposizione si vedrà affermata ancora più energicamente nelle lettere Vicereali consecutive, ed essa fa intendere il deciso proponimento del Governo contro il Campanella e socii, malgrado che da parte di Roma non apparisse alcuna premura di secondarlo.

Naturalmente a Roma tutta questa insistenza per farle sacrificare i dritti giurisdizionali non piaceva punto, e già, mettendo in un sol fascio i negozii comuni e quello de' carcerati per la congiura (26 novembre), il Card.l S. Giorgio dolevasi col Nunzio, perché i Ministri Regii non sapevano lasciare i loro abusi e il Vicerè non riusciva quale si era mostrato da principio: allorchè poi comparve D. Alonso Manrrique (2 dicembre) con quella specie di dimande sopra menzionate, si affrettava a partecipare al Nunzio la maraviglia destata dal vedere che i Ministri Regii pretendevano "di fare la causa soli". Ma non tardò nemmeno a fargli sapere (4 e 5 dicembre) la risoluzione di S. S.tà, che la causa della congiura dovesse farsi da lui "et da un Ministro Regio non coniugato in sua compagnia, che non essendo Chierico pigli la prima Tonsura per questa occasione, non essendosi lasciato persuadere S. B.ne di delegare persona meramente Laica"; ed aggiunse pure l'altra risoluzione di S. S.tà "di far venire a Roma... finita la causa della congiura" coloro tra gli ecclesiastici che erano inquisiti o sospetti di eresia, onde non solo non accadeva di deputare alcuno in luogo del Vescovo di Caserta, ma neanche si doveano agitare in Napoli siffatte materie. Evidentemente con quest'ultima risoluzione la Curia Pontificia rinfocolava i sospetti e si preparava un'altra difficoltà, imperocchè non poteva presumersi con qualche fondamento l'assoluzione di tutti gli ecclesiastici, in una causa di congiura in cui vi erano già state dieci condanne di morte con otto esecuzioni, né doveva attendersi agevolmente il rinvio a Roma di coloro i quali sarebbero riusciti condannati, senza far loro espiare la pena nel Regno. Intanto, poco dopo, il Card.l  S. Giorgio fece anche sapere che si spedirebbe un Breve particolare sopra il tribunale della congiura, ma desiderando il Vicerè che la causa non si differisse ulteriormente, S. S.tà voleva che il Nunzio vi mettesse subito mano, senza nemmeno aspettare il Breve, contentandosi inoltre "che il Fiscale e il Notaro sieno quali il Vicerè gli vorrà". - Come si vede, pretendendo sempre di più e con gran fretta, quasi non lasciando tempo alle repliche, il Governo guadagnò molto e sollecitamente. Il Papa non si riserbò nemmeno la conoscenza personale del Ministro Regio che doveva intitolarsi Delegato Apostolico e procedere in nome della S.ta Sede: bastava che, essendo celibe, avesse la tonsura, e non avendola se la procurasse, senza contare che avrebbe poi dovuto sempre il Nunzio trovarsi d'accordo con questo Ministro Regio, poichè in caso di disparità chi mai avrebbe sciolta la differenza? Ben di rado la sostanza fu tanto barbaramente sacrificata alla forma. Una relazione di D. Alonso Manrrique in data di Roma 4 dicembre, la quale fu poi mandata in copia a Madrid, ci fa conoscere i particolari delle trattative da lui fatte, e le notizie e i consigli che dava(22). Ci basterà notare che nelle trattative egli svolse l'argomento, che il Vicerè non si fermava in puntigli di giurisdizione, ma solo desiderava riuscire ad accertare il delitto e gastigarlo per soddisfazione del suo Re, e a tal fine era un mezzo più a proposito quello de' Ministri di S. M.tà che quello del Nunzio: quanto poi alle notizie ed a' consigli che dava, gioverà riportare le sue stesse parole. "In tal negozio mi rimane solo a dire che desidero infinitamente che si riesca a mettere in luce la verità, essendo molti di avviso che non vi sia nulla da accertare in riguardo al Re, e che a' prigioni non debba mancare il tutore, come altre volte ho scritto a V. E.; oltracciò ho potuto capire che hanno in progetto lasciar finire questa causa, e subito che sia conchiusa, richiedere i prigioni per la causa della fede, e tradurli qua, dove, dicono alcuni, se si giustificano intorno alla fede, sfuggiranno quest'altra pena, o per lo meno ne sarà l'esecuzione poco rigorosa, come accade nelle cause dell'inquisizione. V. E. vedrà ciò che si conviene fare. Abbastanza buono sarebbe che agisse in guisa da far commettere al Nunzio la causa della fede, perché fatte costì le prove e riusciti convinti di qualcuno de' due delitti, non avendo null'altro da far provare, si possa meglio insistere per l'esecuzione della sentenza, chè se non si rimette costà il fare questa causa, passa pericolo che si porti qua". Il consiglio del Manrrique, senza mostrare un negoziatore di alta levatura, mostra un uomo accorto, ed è superfluo dire che fu presto seguito.

Il Nunzio ricevè le lettere del Card.l S. Giorgio per mezzo dello stesso Governo di Napoli, poichè sovente le staffette Regie servivano anche per lui, e il 10 dicembre, avuta un'udienza, fece conoscere la risoluzione di Roma al Vicerè, il quale già ne era informato e potè comunicargli la risoluzione sua di deputare il Consigliere D. Pietro de Vera d'Aragona clerico di prima tonsura. Costui era spagnuolo e veramente assai distinto magistrato, Consigliere dal 1588, "erudito e giusto" come lo disse il Toppi(23); ma apparteneva ad una famiglia tutta devotissima al Governo, avendo pure un cugino, Diego de Vera, in funzione di Pro-segretario del Vicerè appunto a quel tempo, inoltre uno zio, Francesco de Vera, Ambasciatore di S. M.tà presso la Repubblica Veneta. Il Nunzio, che lo conosceva, ebbe a dichiararlo "uno de' principali del detto Consiglio, così in lettere come in altre qualità"(24). E si offerse subito a cominciare la causa "etiam senza il Breve"; ma riferendo queste cose a Roma espresse pure la sua opinione che passerebbe altro tempo prima di cominciare, ed intanto potea venire il Breve, "per non haver a mettere le lettere in processo per fondar la giuriditione". Più tardi, il 17 dicembre, riferì la comunicazione fattagli dal Vicerè dell'aver già nominato il De Vera per Giudice e lo stesso D. Giovanni Sances per Fiscale, la visita fattagli da costoro in sèguito di questa nomina, e la sua novella offerta di esser pronto a trattare la causa; ma aggiunse che il Vicerè stimava a proposito "aspettar detto Breve quanto alli ecclesiastici, poichè intanto si potea trattar contro laici". - Oramai, concluso l'affare, il Vicerè non avea più tanta fretta, o voleva egli pure un documento il quale suggellasse ciò che si era ottenuto e che lo rendeva molto soddisfatto. Questa sua soddisfazione rilevasi da una lettera che mandava a Madrid fin dal 13 dicembre, insieme con una copia della relazione di D. Alonso Manrrique, rilevandosi in pari tempo la sua costante premura che il Campanella fosse gastigato e l'annunzio della prossima esecuzione di altri laici già condannati(25) "... S. S.tà si risolvè di fare quanto V. Mtà potrà comandar di vedere da questa copia di lettera di D. Alonso, che non mi pare si sia fatto poco; e così ho nominato D. Pietro De Vera, che è il Decano del Consiglio, tanto per le molte e buone parti che tiene, quanto per essere tonsurato, e credo che l'avrà per molto bene; stimai anche nominare fiscale lo stesso D. Giovanni Sanchez, e Mastrodatti il medesimo; così comincerà subito a procedersi nel negozio, e di ciò che farà il dottore Marco Antonio de Ponte co' laici si darà copia a D. Pietro de Vera e al suo compagno pel procedere contro i frati e clerici. Odo che contro il Campanella sono ben provati tanto il delitto della ribellione quanto il delitto dell'eresia; procurerò, se posso, che si faccia giustizia pel primo, sebbene non riesca a persuadermi che li vogliano tradurre a Roma per l'eresia; ma, per sì o per no, farò istanza che quanto riguarda l'Inquisizione si rimetta qui al Nunzio. Di alcuni de' laici che sono convinti e confessi comincerà a farsi giustizia secondo la colpa di ciascuno; di ciò che si farà andrò dando conto a V. M.tà" etc.

Adunque il Vicerè poteva tenersi certo che il Campanella non la scamperebbe, e facendo trattare in Napoli anche la causa dell'eresia, per lo meno veniva ad assicurarsi che il povero frate non sarebbe mai più sfuggito dalle sue mani. Vedremo che il far trattare la causa dell'eresia in Napoli, non offendendo la giurisdizione, fu accordato senza la menoma difficoltà, laonde non si ebbero controversie da questo lato, e con la promessa del Breve sulla costituzione del tribunale per la congiura nel modo convenuto, ebbe realmente termine la contesa giurisdizionale. Noi abbiamo voluto esporla in tutti i suoi più minuti particolari, giacchè essa non rappresenta una delle contese ordinarie, e i suoi particolari soltanto possono dare qualche luce su' fatti che si svolsero di poi, sull'andamento e sugli esiti de' processi. Naturalmente il processo di congiura pe' laici sottostava all'azione, legale a que' tempi, del Vicerè e del Consiglio Collaterale, e il processo di eresia per gli ecclesiastici sottostava all'azione legale del Papa e della Sacra Congregazione Cardinalizia; basta dire che le sentenze erano profferite dai Giudici così come le imponevano le risoluzioni superiori dietro la relazione de' fatti delle cause. Ma sul processo di congiura per gli ecclesiastici chi avrebbe avuto influenza? Certamente col Breve Papale il Nunzio ed il Consigliere sarebbero risultati "Delegati Apostolici", ma poteva attendersi dal Consigliere che si fosse posto alla dipendenza del Papa e non già del Vicerè? Il fatto è che ciascuna delle due parti avea presa la sua strada, che il corso delle trattative ci fa vedere in un modo abbastanza chiaro, e ci permette di giudicare in un modo meno fallace. Dalla parte del Vicerè si voleva il gastigo del Campanella e degli ecclesiastici più compromessi, conforme al gastigo che già era stato dato e si continuava a dare ai laici; bene o male si credeva alla congiura e la si voleva punita. Dalla parte del Papa si voleva riconosciuta "la superiorità ecclesiastica", che "tutto apparisse fatto coram Judice ecclesiastico" secondo le espressioni del Nunzio; e ritenendosi non esservi "nulla da accertare in quanto al Re", si voleva che non mancasse "il tutore" agl'inquisiti, secondo l'espressione del Manrrique. Ora se così ritenevasi, se conoscevasi pure essere stato malamente condotto in Calabria il processo primo e fondamentale da fra Cornelio, occorreva una tutela efficace, ed è agevole intendere che quel Breve sarebbe venuto a tutelare i diritti giurisdizionali, non le persone degl'inquisiti; è agevole anzi intendere che il desiderio di un tutore rappresentava piuttosto un argomento per non lasciarsi strappare del tutto le prerogative ecclesiastiche. Anche ammettendo, come noi ammettiamo, che il Campanella fosse stato giuridicamente colpevole, sarebbe stata giusta l'istituzione di un tribunale che avesse data guarentigia d'imparzialità, e l'espediente al quale si era ricorso non poteva riuscire a darla; poteva solo creare nuovi imbarazzi, come difatti li creò, senza giovare efficacemente al povero Campanella. Vedremo a suo luogo i termini ne' quali il Breve fu redatto, vedremo anche la condotta che tenne il Nunzio ulteriormente, e rimarrà dimostrato appieno ciò che qui affermiamo.

È tempo ora di occuparci della vita che menava il Campanella e tutta la turba degl'infelici venuti di Calabria: ecco quanto possiamo dirne, secondo le notizie che si trovano sparse qua e là nel processo e nelle altre scritture di S.{to} Officio. Una parte de' carcerati trovavasi nel Castello dell'uovo, e fra essi il Barone di Cropani, Ferrante Ponzio, Gio. Paolo e Tiberio Carnevale, Jacobo e Ferrante Moretti, Francesco Antonio d'Oliviero, Marco Antonio Giovino, Geronimo di Francesco, Giuseppe Grillo, Felice Gagliardo; la parte maggiore trovavasi nel Castel nuovo, e ci basterà nominare solamente Geronimo del Tufo, Maurizio de Rinaldis, e insieme con tutti gli altri ecclesiastici ed anche co' parenti suoi il Campanella. Mano mano molti carcerati dal Castello dell'uovo passarono del pari nel Castel nuovo, e segnatamente Ferrante Ponzio, Francesco Antonio d'Oliviero etc.; ma perfino un anno e mezzo dopo questo tempo di cui parliamo ve n'erano sempre alcuni nel Castello dell'uovo, p. es. il Gagliardo. Gioverà rammentare in breve qualche particolarità del Castel nuovo, poichè non ci mancano elementi per definire la parte di esso occupata da' carcerati calabresi, il torrione in cui il Campanella fu rinchiuso, ciò che ci sembra dover riuscire interessante al cuore di ogni persona bennata. Come conoscono gli amatori delle cose patrie, nel Castel nuovo si distingue il maschio o castello Angioino del 1283, fornito delle cinque maestose torri, due delle quali verso il mare e tre verso terra, e la falsabraca o revellino Aragonese del 1486, con le sue torri e cortine molto basse, poi successivamente elevate, che a' giorni nostri abbiamo visto con poco giudizio spianare. A' tempi de' quali trattiamo, la falsabraca con le sue torri in gran parte quadre era incomparabilmente più bassa di quanto possiamo ben ricordare averla vista, e le cinque torri del maschio, veri torrioni si elevavano un poco di più sul livello de' bastioni rispettivi, i quali non raggiungevano l'altezza attuale, come si può vedere abbastanza bene p. es. dalla gran carta di Napoli incisa da Alessandro Baratta nel 1628, che ogni amatore delle cose belle della città ha certamente ammirata nel Museo di S. Martino, E possiamo aggiungere che a que' tempi si chiamava impropriamente "reveglino" lo spazio compreso tra il maschio e la falsabraca; infatti nel processo vedremo parlarsi di uno scritto buttato giù dalla "cancella... al reveglino tra le due porte, che risponde ala finestra dela carcere del Campanella", in un momento in cui egli veniva sorpreso da una visita del luogotenente del Castello in cerca di scritti. Le cinque torri Angioine poi si chiamavano, la prima sul mare, ad oriente, Bibirella, nome improntato certamente da quella porzione di mare che essa guarda e che ancor oggi dicesi dal volgo beveriello, l'altra egualmente sul mare, ad occidente, Talassia, vale a dire marina, dal nome greco corrispondente; le due laterali alla porta maggiore verso terra, costeggianti il magnifico Arco d'Alfonso, si chiamavano torri della porta; l'ultima, ad oriente, sì chiamava dell'Incoronata, del Governatore o del Castellano, perché vi abitava appunto il Castellano. Siffatti nomi non s'incontrano nel processo, ma nelle scritture ed anche ne' libri del tempo (basti citare il Capaccio), ed importa conoscerli per potersi intendere: nel processo s'incontra solamente più volte citata "la loggetta delle carceri... il piano della loggetta... l'arco e il corridoio della loggetta", dove potevano in alcune ore i carcerati minori salire e passeggiare, ed inoltre citato, il "torrione" da cui il Campanella dava i suoi Sonetti a Maurizio "calandoli con uno filacciolo", "il torrione" da cui il Campanella, mostratosi pazzo, predicava la crociata al "populo che andava a vedere ad impiccar uno", il quale spettacolo si conosce che eccezionalmente si dava nella piazza del Castello, mentre ordinariamente si dava nella piazza del Mercato. E vedremo da' Registri de' Bianchi di giustizia risultare, che l'esecuzione di Cesare Pisano fu fatta fare "vicino la Guardiola del Castello" (presso a poco dove fino a' giorni nostri è stata la posta delle lettere), e quella di Maurizio innanzi la "Chiesa di Monserrato" (che sta quasi dirimpetto) vale a dire all'ingresso dell'attuale Strada di Porto, che allora dicevasi Piazza dell'Olmo, vale a dire di prospetto alla torre del Castellano, senza dubbio per metterle sotto gli occhi del Campanella e de' suoi calabresi. Da tutto ciò può desumersi con bastante certezza che il Campanella sia stato rinchiuso nella torre del Castellano, sotto gli appartamenti di D. Alonso de Mondezza, e che le carceri occupavano i piani inferiori di questa torre e i bastioni vicini, tanto verso la torre Bibirella, quanto verso la torre corrispondente della porta, trovandosi appunto sulla sommità di questi bastioni la loggetta del Castello. La massa de' calabresi era mista con altri là detenuti, per imputazione o per condanna, sia in nome del potere civile sia in nome del potere ecclesiastico, e ne vedremo figurare parecchi nel corso di questa narrazione: occupavano molti il carcere così detto "del civile", occupavano altri il carcere criminale che stava più in alto e componevasi di camere più piccole, dove erano rinchiusi uno, due e fin quattro individui, secondo l'importanza di essi, disponendo per solito di un sol letto ogni coppia e venendo spesso tramutati da una camera nell'altra. I miserabili ricevevano un carlino al giorno (circa 40 centesimi), e sappiamo che così vivevano moltissimi, tra gli altri il padre del Campanella, il Tirotta, gli stessi frati, come fra Paolo della Grotteria, fra Pietro di Stilo, il Petrolo, il Bitonto, e senza dubbio anche il Campanella, dopochè fra Cornelio si aveva appropriato il danaro raccolto in Calabria per loro. Mercè qualche inserviente, e sopratutto qualche parente venuto di Calabria per assisterli, i carcerati potevano provvedersi delle cose necessarie al vitto, che erano soggette a visita quando s'introducevano nel Castello; e così sappiamo che un giovanetto Aquilio Marrapodi figlio di Gio. Angelo, oltre il padre, serviva i Ponzii, il Petrolo, il Lauriana e il Pizzoni, comprando "per questi monaci foglie, fave, carcioffi, radici et altre cose da mangiare"(26); potremmo perfino dare qualche lista della magra spesa quotidiana che si faceva anche per taluni de' carcerati del Castello dell'uovo, essendo notata sul rovescio di alcune carte sequestrate al Gagliardo ed allegate nel processo(27). Naturalmente i carcerati non mancavano di profittare di questo mezzo e di qualche altro ancora per mandarsi cartoline e biglietti, ciò che per altro era proibito; ma solamente più tardi dando pochi soldi a uno de' due carcerieri Alonso Martines ed Onofrio, nominati anche nella Narrazione del Campanella, riuscirono ad avere diverse concessioni che a tempo proprio vedremo. Gli ecclesiastici, servendosi, principalmente di motti latini, poterono con tanto maggiore facilità mettersi in qualche relazione tra loro dalle finestre: poichè sappiamo con certezza essere stati perfino i più compromessi, dal primo momento, posti nelle "segrete", ossia in camere capaci di una sola persona e tenute strettamente chiuse, non già nelle così dette "fosse"; in queste furono posti al tempo de' loro esami, quando i Giudici solevano darne l'ordine per indurli a confessare. Le fosse si trovavano a piede del torrione del Castello, e ricevevano luce da aperture che corrispondevano alla parete dell'antico fossato, il quale circondava il Castello e in origine poteva anche ricevere acqua dal mare; del resto non ne mancavano di quelle affatto oscure, e rinomata fra tutte era la fossa del miglio o del coccodrillo, nota fin dal tempo degli Aragonesi, nella quale il Campanella narrò di essere stato posto prima del tormento. Alcuni lavori fatti durante la prima metà di questo secolo, ad occasione dell'ampliamento della fonderia di cannoni là eretta, posero in mostra queste fosse con lagrimevoli iscrizioni ed anche con qualche residuo di scheletro, la qual cosa ribadisce che il torrione delle carceri, dimora del Campanella, sia stato quello che abbiamo indicato(28). Si aveano dunque, da sotto in sopra, le fosse, la carcere del civile a pian terreno, le carceri criminali che occupavano i due piani superiori: e sappiamo che nel primo periodo della prigionia il Campanella trovavasi in una carcere criminale del piano più elevato, e Maurizio in un'altra del piano più basso immediatamente sottoposta alla prima, sicchè poterono talvolta scambiarsi qualche parola, e perfino, mediante un filo, trasmettersi qualche carta(29). Ogni lettore umano, passando in vista del Castel nuovo, vorrà, speriamo, rivolgere uno sguardo a quel torrione, con un pio ricordo de' generosi, che tanto vi patirono senza che l'opera loro sia stata nemmeno riconosciuta.

A due cose attese il Campanella assiduamente fin da' primi tempi della sua prigionia in Napoli, sollecitare la ritrattazione da coloro i quali aveano rivelato, dare animo a coloro i quali si erano mantenuti negativi o in qualunque modo gli si mostravano tuttora amici. Come già in Calabria, così in Napoli, egli rivolse le sollecitazioni particolarmente al Pizzoni e al Petrolo; non occorse che sollecitasse il Lauriana, perché anzi costui in Gerace gli avea scritta egli medesimo una lettera, nella quale, gli comunicava l'esame di Monteleone, gli prometteva con giuramento che si sarebbe ritrattato, e finiva per dimandargli il modo di potersi ritrattare. né stentiamo a credere che talvolta le sollecitazioni del Campanella non sieno state espresse in forma di preghiere, onde i sollecitati poterono dire di avere avuto da lui "minacce"; se non che i pochi documenti che ne sono rimasti non lo confermano, e d'altronde vi furono tanti motivi di asserire e di smentire a vicenda queste cose, da non poterne facilmente assodare la verità. Al Petrolo, come dicemmo a tempo e luogo, avea fatte alcune sollecitazioni per via, tra Squillace e Gerace, direttamente; altre glie ne potè fare mediante Cesare Pisano in Monteleone, e poi ancora altre in Napoli ne fece di persona dalla finestra. Così gli avrebbe detto che bisognava ritrattarsi o altrimenti capiterebbe male, che era caduto in irregolarità avendo deposto in causa capitale contro particolari etc.; ma vedremo ulteriormente, che quando si pose a scrivere Poesie gli scrisse anche un Sonetto al medesimo scopo, ed in esso non si leggono minacce bensì le maggiori lusinghe. Al Pizzoni poi avea pure fatte sollecitazioni mediante fra Pietro Ponzio in Gerace, ed altre glie ne fece in Napoli per lo stesso mezzo, giacchè vedremo con certezza aver lui potuto parlare con fra Pietro dalla finestra; ma poi gli riuscì di mettersi in comunicazione diretta col Pizzoni mediante lo scambio di un Breviario, e ciò che se ne disse in sèguito mostra che nemmeno vi furono minacce; ecco pertanto come il fatto venne riferito(30). Si trovavano ciascuno in una segreta. Il Campanella dimandò al carceriere Alonso Martines un Breviario, e il carceriere gli portò quello del Pizzoni. Nel Breviario "fra Gio. Battista pose molti signacoli di carta larghi, fatti à posta di certi modelli di musica rigati con le note, et d'una lettera nella quale si vedea che li fosse stato dato avviso, che la Causa era già stata rimessa al sig.r Nuntio et à Don Pietro di Vera, et in detti signaculi scriveva ch'esso fra Gio. Battista havea detto à frà Silvestro che insieme seco deponesse cose di santo officio per scampar quella gran furia, perche in quel muodo la Corte secolare à viva forza l'harebbe punito per l'heresie, e Ribellione, il che non harebbe fatto per la sola ribellione, ma di fatto l'harebbe appiccati, già che quelli di Catanzaro, che la revelorno, dissero, ch'il Papa la favoriva" etc. Dimandava anche il Pizzoni, in quelle cartoline, chi fosse stato quel frate che, secondo la cronaca di S. Domenico, ebbe dalla B.ta Vergine la rivelazione che mai monaco di S. Domenico sarebbe stato eretico, se molto tempo innanzi non avesse deposto l'abito, e diceva di confidare che avrebbe potuto facilmente ritrattarsi, e ricordava diverse autorità, come il Cipolla Veronese, che permetteva dir cose di eresia a' condannati a morte per essere protetti dal S.to Officio, e S. Girolamo che concedeva il mendacio ad evadendam mortem. E il Campanella, conservando presso di sè alcune cartoline più importanti, scrisse sulle altre "che havea fatto molto bene, et che frà Domenico petrolo à sua persuasione havea seguitato l'esempio d'esso frà Gio. battista, con l'istesso intento di ritrattarsi, et che quel frate della revelatione ut supra fù Reginaldo si ben si ricordava etc., et li diede esso Campanella molte altre authoritati per tal difesa". Ma passato e ripassato tra loro questo Breviario, ed esaurite le cartoline, cominciarono a scrivere sul Breviario medesimo, ove poteasi vedere di mano del Campanella scritto "bene et fideliter... ut lacrimas emiserim prae laetitia", ed inoltre "Micheas propter timorem mortis prophetavit falsum, et adiuratus se se retractavit, 3.° Reg. 24". E il Campanella si diè anche premura di far sapere queste cose a fra Dionisio che stava in un'altra segreta; ed avendogli mandata scritta "dentro un pasticcio una cartella di simili andamenti, entrati in sospetto li carcerieri, aprirono il pasticcio, et trovata la cartella quella presentarono al Vice Rè, come anco per veder così scritto et scacacciato il Breviario, quello anco presentorono al medesimo Vice Rè, et si disse, che furono da lui rimandate al fiscale". Siffatte cose, verificatesi durante un certo periodo di tempo, furono poi riferite da fra Dionisio; e potrebb' essere che vi sia stata qualche esagerazione da parte del relatore, ma bisogna convenire che nulla vi s'incontra d'inverosimile, salva sempre la quistione della serietà delle cose che si comunicavano i due scrittori nelle cartoline e nel Breviario. Poichè all'uno ed all'altro, sotto tutti gli aspetti, conveniva scrivere in quel senso; ma si può dubitare che esprimesse la verità il Pizzoni, il quale infatti non fece di poi nulla di ciò che scrisse, e si deve dubitare che esprimesse la verità il Campanella, il quale, mentre dicevasi allietato fino alle lagrime, ad ogni buon fine metteva in tasca qualcuna delle cartoline scritte dal Pizzoni, che egli oramai avea potuto ravvisare "bilingue". Vedremo infatti che al momento in cui il Campanella fu spogliato per essere sottoposto alla tortura, gli fu trovata una delle dette cartoline, ed anche un sunto dell'esame del Lauriana certamente scrittogli da costui, il quale soltanto può dirsi avere agito in buona fede, ma sotto l'impero di una stringente necessità; poichè evidentemente, spinto dal Pizzoni, si era posto in un brutto garbuglio, da cui non sapeva in qual modo districarsi, e temeva molto che ritrattandosi sarebbe capitato male. - Dobbiamo aggiungere che pure con Maurizio il Campanella si mantenne in relazione, e, a quanto sembra, dalla finestra, verbalmente, profittando del trovarsi le rispettive carceri l'una sopra l'altra; ma non dovè di certo sollecitarne la ritrattazione, ed invece si dovè forse scusare presso di lui. Come si seppe in sèguito, continuò a dirgli qualche particolare sugli uomini e sulle cose della ribellione disegnata e tanto acerbamente prevenuta: ma una volta Maurizio, abbandonata ogni illusione, gli disse che in que' travagli loro "era tempo di riconoscere Iddio, e che stava scandalizzato di quella parola che havea detto in Stilo, che Giesu christo era un'huomo da bene", immaginandosi esser lui "in opinione che christo non fusse vero figliolo di Dio"; e il Campanella gli rispose che lui, Maurizio, "non intendeva bene li negotii" né si curò di fornirgli spiegazioni.

D'altra parte, dicevamo, il Campanella attese a dare animo agli amici: questo fece componendo Poesie, siccome troviamo ricordato dal Syntagma, dove per altro se ne parla con una completa confusione di tempi. Per fortuna, la raccolta che noi pubblichiamo, essendo stata fatta in un periodo ben determinato e relativamente breve, ci mette in grado di potere fino ad un certo punto assegnare alle diverse poesie la propria data, oltrechè ci fornisce precisamente quelle composte fin da principio e con lo scopo di rinforzare l'animo degli amici, rimaste poi naturalmente inedite perché compromettenti. Ma è facile intendere che pochissime potrebbero riferirsi ad un periodo anteriore al cominciamento de' processi, perocchè a questi si pose mano con sollecitudine, e il maggior numero si collega con le vicende del processo della congiura così de' laici come degli ecclesiastici; laonde, per non scindere di troppo l'esposizione di queste poesie, gioverà dapprima narrare ciò che sappiamo del processo della congiura, e in sèguito ricercare le poesie da doversi dire composte nel periodo in cui il detto processo fu istituito e svolto.

II. Veniamo dunque al processo della congiura pe' laici(31). Dicemmo che la commissione Vicereale fu data il 15 novembre a Marco Antonio d'Aponte e a D. Giovanni Sanchez o Sances, con l'ordine di riconoscere le informazioni e gli atti di Calabria, procedere sommariamente sine strepitu et forma Judicii, e non ritardare la buona e breve amministrazione della giustizia, servendosi di Giuliano Canale per Mastrodatti. Vedemmo pure avere il Vicerè provveduto che lo Xarava aiutasse il Sances, e scritto a Madrid, il 30 novembre, che si andava già procedendo contro i laici, e il 13 dicembre, che si sarebbe cominciato a far giustizia di alcuni. Gli ordini del Vicerè furono eseguiti puntualmente, ed è chiaro che non si perdè tempo; solo dobbiamo notare che a Giuliano Canale venne sostituito Marcello Barrese, il quale servì da Mastrodatti egualmente nella causa della congiura per gli ecclesiastici, e di tale sostituzione ci rimane tuttora ignoto il motivo.

Secondo il costume del tempo, si procedeva separatamente e successivamente per un determinato individuo o per un determinato gruppo d'individui, e si sentenziava a misura che si compivano gli atti ad essi relativi: così vi furono condanne ed esecuzioni in Calabria, e poi in Napoli, ed analogamente vi furono altre condanne od invece assoluzioni di tempo in tempo. Trovandosi due già condannati a morte in Calabria, Maurizio de Rinaldis e Cesare Pisano, sopra di essi appunto cominciò a svolgersi l'opera del tribunale, certamente per averne, se fosse stato possibile, rivelazioni in danno anche degli altri, al quale scopo si era giudicato meglio tenerli ancora in vita; con gli atti relativi a costoro ebbe ad iniziarsi il 3.° volume del processo, al sèguito di quelli compiuti in Calabria. Maurizio non avea confessato nulla malgrado gli orribili tormenti avuti; ricominciarono per lui in Napoli gli esami e ricominciarono i tormenti non meno crudeli. Il Campanella medesimo cantò che Maurizio il primo avea vinto i tormenti antichi e sprezzato i nuovi, che avea sofferto tormenti inusitati per trecento ore(32). È facile qui vedere una esagerazione poetica, ma, come abbiamo già avuta occasione di dire altrove, Mons.r Mandina, il quale fu più tardi Giudice dell'eresia e potè saperlo in modo autentico, affermò che era stato tormentato per settanta ore, alludendo con ogni probabilità a' soli tormenti avuti in Napoli. Per quanto possiamo giudicarne, egli dovè soffrire due volte, a breve intervallo, il tormento della veglia, ne' modi e forme che vedremo con tutti i loro particolari in persona del Campanella, il quale lo soffrì in sèguito, per una volta sola, nella causa dell'eresia. Comunque il tormento della veglia dovesse durare quaranta ore, pe' modi enormemente aspri con cui si amministrava sopratutto in Roma e in Napoli, quasi mai si giungeva a siffatto termine, senza che il paziente cadesse in tale prostrazione da far cessare la prova innanzi tempo, tanto più che il Giudice era tenuto a rispondere della morte di lui se avesse soccombuto nel tormento; e la prostrazione, quando gl'individui erano di buona tempra, ordinariamente si verificava fra le trenta e le trentacinque ore, ed ecco le settanta ore di tormento affermate dal Mandina. né rappresenta una difficoltà il leggersi "tormenti inusitati", poichè appunto tra questi era annoverata la veglia, e vi si ricorreva soltanto per casi straordinarii, mentre poi d'altra parte i Giudici di professione, a differenza de' "Capitani a guerra", doveano pure contenersi in quelle categorie di tormenti, che erano ammesse da' Giuristi e dalle consuetudini di ciascun paese(33). Ad ogni modo le prove furono terribili, eppure vennero nobilmente superate da Maurizio: il fortissimo uomo non fece la menoma rivelazione, soffocando qualunque rancore, mentre già conosceva di essere stato nominato fin troppo nella Dichiarazione del Campanella! Ma durante i tormenti venne senza dubbio fatta la protesta che lo s'interrogava "citra prejudicium probatorum"; e poi, benchè non confesso, era pur sempre convinto, e gli si potè confermare la sentenza di morte, condannandolo ad essere appiccato e squartato certamente con la formola del tempo, "suspendatur in furcis adeo quod anima a corpore segregetur, eiusque cadaver in quatuor frustra dividatur". È superfluo poi dire che la sua casa doveva essere demolita ed aspersa di sale, e i suoi beni dovevano essere confiscati: "domus propria diruatur funditus, et solo aequata, in ea sale asperso, destruatur; singula eius bona publicentur, et fisci commodis applicentur". Vi fu dunque la conferma della sentenza di morte già pubblicata in Calabria, e non poteva essere altrimenti; deve dirsi inoltre che vi fu una mitigazione nella specie del supplizio, in paragone di quello tanto spaventoso sentenziato dallo Spinelli forse a proposta dello Xarava, ed anche da questo lato non poteva essere altrimenti, perocchè il tribunale non era come il precedente "ad modum belli". Dopo ciò è facile giudicare quanto il Campanella scrisse molto più tardi, nella sua Narrazione, circa l'influenza che avrebbe avuta nella condanna di Maurizio l'amicizia e la parentela del Sances col Morano, il quale desiderava la morte di Maurizio per ereditarne un feudo e stringere una nuova parentela col Sances mediante un matrimonio. Con un po' di confusione di tempo e di circostanze, mostrato già in corso e bene avviato il processo degli ecclesiastici che invece non era cominciato ancora, il Campanella scrisse: "Sendo stato fatto fiscale in luoco di Xarava D. Gio. Sances, la cui sorella havea per marito il Baron di Gagliato, fratel di Giovan Geronimo Morano, il cui figlio per dispensa venuta del Papa stava per pigliar la figlia unica del Barone, nepote del Sances, e perché detto Morano havea scorso il regno e preso Mauritio e F. Dionisio carcerati con molto vantaggio e sperava dal Rè un Marchesato, come si vantava publicamente, e di più desiderava la morte di Mauritio, perché morendo senza herede mascolo(34) esso Mauritio, il Morano hereditava di quello un feudo, come poi l'hereditò. Per questo il Sances oltra le sue pretendenze et amicitia delli processanti non cercò s'era vera la ribellione ma si sforzò verificarla, e far morir Mauritio". La parentela del Sances col Morano è fuori contestazione, ma è un fatto che il Sances non poteva non trovar vera la ribellione, e che Maurizio non poteva in alcun modo scansare la morte, come nemmeno la scansò quando più tardi fece sotto il patibolo una spontanea confessione di ogni cosa. E dobbiamo aggiungere che alla mano della figlia unica del Barone di Gagliato, D.a Camilla Morano, a quel tempo di soli dodici anni, aspirava il cugino del Fiscale, un altro D. Giovanni Sances, figlio di D. Giulio, che difatti la sposò più tardi, nel novembre 1605, avendone in dote la terra di Gagliato e il rinomato feudo di Burgorusso in tenimento di Stilo, e fu lui che divenne poi Marchese di Gagliato. Non sarebbe veramente difficile che vi avesse aspirato anche il figlio di Gio. Geronimo Morano, giacchè abbiamo nel Grande Archivio documenti i quali mostrano la gran cura del Governo nel far tenere D.a Camilla in Monastero, secondo i principii dell'ingerenza governativa ne' matrimonii de' nobili a' tempi feudali(35). Ma è evidente che in un simile conflitto di rivali non avrebbe potuto esservi nemmeno amicizia tra il Sances e Gio. Geronimo. Vedremo poi come finirono i beni di Maurizio, il quale forse potè essere semplicemente subfeudatario di una parte di Borgorusso, mentre le ricerche più ostinate su tale punto non ci hanno fatto sinora scovrire alcun feudo speciale di quella regione da lui posseduto. Nella detta ipotesi la morte di Maurizio nemmeno avrebbe profittato a Gio. Geronimo, ma a D.a Camilla; ad ogni modo quanto era già avvenuto, anche prima che la causa si agitasse in Napoli, mostra nel modo più chiaro che il Sances non poteva che dimandare ed ottenere la condanna di morte per Maurizio(36).

Intorno a Cesare Pisano, che il Nunzio aveva nella sua lista qual clerico, e il Governo riteneva doversi continuare a trattare qual laico, non sappiamo come si sia veramente proceduto nel tribunale di Napoli: sappiamo solo ciò che ne disse il Nunzio quando venne a conoscere l'esito del giudizio, scrivendone una lettera di lagnanza al Vicerè, nella quale lo avvertiva aver inteso che contro del Pisano "si procede con tanto rigore per il capo della ribellione, che senza ammettergli ne anche la probanza del Clericato è stato condannato à morte". Forse il tribunale stimò che avesse confessato abbastanza, e che invece di far nascere la quistione giurisdizionale col rumore di nuovi esami e nuovi tormenti, fosse preferibile dare un saggio di vigore confermando la condanna ed eseguendola senza curarsi d'altro. Lo argomentiamo dal conoscere la prolissa maniera di rispondere, che il Pisano era solito di usare ne' suoi interrogatorii, onde non sarebbe mancata poi la citazione di qualche notizia tratta da un nuovo interrogatorio, laddove questo ci fosse stato.

La condanna di Maurizio, e così pure quella analoga del Pisano, doverono pronunziarsi o almeno decidersi nel Consiglio Collaterale il 10 o 12 dicembre, poichè il 13 già si trasmetteva a Madrid la notizia di prossime esecuzioni. Difatti pel giorno 20 si allestiva certamente l'esecuzione di Maurizio, e molto probabilmente anche quella del Pisano, onde il Nunzio nel giorno 19 potè conoscere che costui era stato condannato a morte, e potè scriverne in fretta al Vicerè, facendogli notare, che non solo come clerico il Pisano avrebbe dovuto essere giudicato pure da lui "secondo l'appuntamento fatto con S. S.tà", ma anche come molto informato dell'eresie suscitate dal Campanella, "e forse della medesima setta", dovea essere riserbato; "non per campargli la vita, egli scriveva, se merita perderla per il capo della ribellione, ma per riscontro et castigo di quel che appartenesse al S.to Officio", supplicandolo di "non permettere che la causa della ribellione humana si solleciti tanto che pregiudichi à quella della ribellione divina, perché si sarà in tempo di castigar l'una et l'altra"(37). Il Vicerè sospese allora la faccenda in quanto al Pisano, per farla sopire e darle poi corso più tardi a modo suo, di sorpresa. Rispose al Nunzio in termini generali, che in tutto ciò che si poteva servirlo, stesse certo, che lo si farebbe, e sarebbero liberati coloro che non paressero colpevoli in delitti così gravi, etc.(38); non prese quindi alcuno impegno determinato, ed egualmente fece allorchè più tardi il Nunzio glie ne parlò, dimostrandogli che bisognava sempre mantener vivo il Pisano per riscontro delle cose del S.to Officio, anche quando i suoi Ministri non lo ritenessero clerico, come non lo ritenevano perché non avea nemmeno indossato l'abito clericale "non ostante che mostrasse di haver preso gli anni passati gli ordini minori"(39). Il Vicerè non lasciò intendere la sua opinione, e frattanto, con molta unzione, si diè premura d'intercedere a Roma, perché fosse assoluto il Principe di Scilla, già scomunicato per l'affare di Marco Antonio Capito dal Vescovo di Mileto.

Ma in quanto a Maurizio, il 20 dicembre si andò per l'esecuzione; se non che una circostanza affatto impreveduta la fece poi sospendere per quel giorno. Massime il relativo documento da noi trovato nell'Archivio de' Bianchi di giustizia, ed inoltre una lettera del Residente Veneto, ce ne dànno sufficienti particolari. Giusta la consuetudine, il condannato doveva uscire dalle carceri della Vicaria, ed a spettacolo pubblico traversare una gran parte della città, percorrendo la via oggi detta de' Tribunali, scendendo pel vico Nilo (che perciò dicevasi "degl'Impisi" e fino a' giorni nostri fu detto "Bisi"), per dirigersi di là alla piazza del Mercato, ovvero scendendo per la via di Toledo e girando presso Palazzo (e ben s'intende che qui si parla del Palazzo vecchio), per dirigersi alle adiacenze di Castel nuovo. Maurizio fu egli pure tradotto dapprima alla Vicaria, e poi di là, sopra un carro, certamente perché inabilitato a muoversi dietro le torture sofferte, facendo il lungo giro sopraindicato fu tradotto "a vista del Castel novo"; ma giunto sotto la forca egli dichiarò di voler rivelare ogni cosa, ed allora l'esecuzione fu sospesa. Ecco come il fatto trovasi esposto nel Registro de' Bianchi di giustizia: "et à di XX di xbre se andò in Vicaria con tutta la compagnia, et uscì la giustitia sopra un carro, et essendo già sotto la forca se risolse detto Mauritio confessare et rivelare li complici della ribellione, et così non si eseguì la giustitia et ritornò in Vicaria con essersi trattenuta la compagnia un pezzo dentro la chiesa di Monserrato"(40). Come mai Maurizio fece questa risoluzione? Egli stesso nelle sue ultime rivelazioni a' Delegati del S.to Officio, sul punto di essere definitivamente condotto alla forca, lo spiegò in questi termini: "Io sapendo che frà Thomaso si era esaminato contra di me, havendo io avuto più volte la corda, non hò voluto mai dire cosa alcuna contra di essi frati, è si bene poi hò ditto la verità, è stato perche sono stato consigliato che era obligato a dirlo per scarico dela mia conscientia, si come me hà ditto lo mio confessore dela Compagnia di quelli che confortano quelli che si vanno à giustitiare"(41). Non altrimenti ne scrisse pure a Roma il Nunzio medesimo quando era già cominciata la causa degli ecclesiastici, ed egli, come Giudice di quella causa, poteva e doveva saperlo: "condotto alle forche si risolvette à dire spontaneamente, et per scarico di conscienza, tutto quello che sempre haveva negato nei tormenti"(42). Inoltre, poco dopo l'accaduto, come vedremo più sotto, il Residente Veneto ne fece relazione al suo Governo negli stessi sensi, aggiungendo qualche altra circostanza degna di nota. Ma il Campanella, dapprima nella sua Difesa che noi pubblichiamo, poi nelle Lettere del 1606-07 pubblicate dal Centofanti, da ultimo nella sua Narrazione pubblicate dal Capialbi, riferì le cose assai diversamente, con circostanze che meritano di essere ben chiarite, poichè ognuno comprende l'estrema importanza del fatto, da cui, secondo la diversa interpetrazione(43), riesce suggellata o invece scossa profondamente l'esistenza della congiura o almeno la parte presavi dal Campanella. Dapprima dunque nella Difesa asserì che Maurizio "volle vendicarsi di quanto fra Tommaso scrisse in Castelvetere contro di lui", e che "ebbe speranza di redimersi all'ultimo momento col far dichiarazioni contro fra Tommaso, poichè così lo persuase un certo fiscale in abito di confrate promettendogli la vita sotto parola del Re come poi fra Tommaso udì dalla bocca di lui" (queste ultime proposizioni furono aggiunte per uso de' Giudici propriamente dell'eresia). Nelle Lettere al Papa, al Card.l Farnese, al Card.l S. Giorgio, al Re di Spagna, rinforzò le assertive anteriori scrivendo, che "sotto verbo Regio fecero confessar a Mauritio mille bugie", che Maurizio "per altra causa morendo sulle forche persuaso dal falso fiscale e confessore tornò in prigione e disse mirabilia et non subsistentia", che gli "fu promessa la vita sub verbo regio che dicesse su la forca quel ch'in mille tormenti negato havea", che "fu ingannato sotto parola della vita dopo molti tormenti quando andava a morire e disse mille bugie"(44). Infine nella Narrazione, scritta tanto più tardi, espose i fatti con tanto maggiore disinvoltura in questi termini. "Però vedendo esso Sances, che non si potea verificare la ribellione, perché Mauritio con torture terribilissime in Calabria non havea confessato con tutto che Xarava lo torturò un'altra volta dopo condannato e confessato, dicendoli ch'il confessore era un secolare vestito di monaco per spiarlo: né pur in Napoli poi confessò tormentato di novo: si vestir di confrati bianchi certi Consiglieri, fingendo che volean farlo morire: et esso Sances con un Gesuino confessor del Vicerè, li promisero la vita in verbo regio, se confessava la ribellione sopra la forca, perché havesse color di verità. E Mauritio temendo morir de mandato regio perché havea ucciso un suo cugino et una femina, et andato sopra le galere turche per scampar la vita confessò sopra la forca quando andò fintamente ad appiccarsi". Pur troppo questo garbuglio del Campanella è de' più dolorosi, e si può intendere ma non si può assolvere che egli abbia dovuto infamare Maurizio in tal modo. La condanna di Maurizio alla morte, come convinto di ribellione, era stata pronunziata già una volta in Calabria, e principalmente per colpa del Campanella medesimo; né bisognava affaticarsi perché la ribellione acquistasse "color di verità", quando il Campanella l'aveva così bene affermata nella sua Dichiarazione dando anche la spiegazione precisa dell'andata di Maurizio sulle galere turche, e già ad otto persone era stato inflitto l'estremo supplizio per essa. Il confondere gli omicidii anteriori di Maurizio col suo caso ultimo, il voler far credere che avrebbe potuto scampar la vita confessando quella ribellione per la quale era condotto alla forca, l'asserire che "andò fintamente ad appiccarsi" quasi che non vi fosse stata una precedente condanna in tal senso, tutto ciò è ben poco serio; ed egualmente è ben poco serio, o meglio iniquo, il voler mostrare Maurizio divenuto vigliacco a un tratto, dopo le splendide prove di fermezza da lui date, dopo gli splendidi attestati del Campanella medesimo espressi già nella Dichiarazione e in sèguito nelle Poesie. Può bene ammettersi nel Sances e nel Gesuita confessore del Vicerè (P.e Ferrante de Mendozza) ogni specie di tentativo per indurre Maurizio a confessare la ribellione, ma non in Maurizio tanta dose d'ingenuità da cedere segnatamente a quella specie di promessa che il Campanella si fece a narrare. Quanto poi all'esservi stati Consiglieri vestiti da confrati bianchi, i quali esercitarono la loro influenza su Maurizio per farlo confessare, la cosa potrebbe ritenersi nel senso, che qualche confrate addetto a confortare Maurizio allorchè andava a giustiziarsi, per eccesso di zelo, abbia avuto premura di suscitarne gli scrupoli e mostrargli la necessità di confessare per salvarsi l'anima. Si potrebbe ritenerlo in astratto, poichè, come ricordano i nostri Storici ed attestano varii documenti, non una volta a quella benemerita Compagnia de' Bianchi furono mosse accuse di questo genere ed anche di genere opposto, da' particolari ovvero dal Governo, essendovi stato motivo di ritenere che i confrati avessero spinto qualche condannato alle confessioni ovvero alle discolpe; ma dobbiamo pure soggiungere che nel caso concreto Maurizio medesimo ebbe più tardi a dichiararlo a' Delegati del S.to Officio; se non che sarebbe difficile sostenere essere stato spinto alla confessione dolosamente e dietro manovre del Sances e del Governo. Per disgrazia questa volta non abbiamo nemmeno i nomi de' confrati intervenuti, che i Registri della Compagnia dànno sempre, specificando anche coloro i quali hanno assistito il condannato all'ufficio, per la strada, alla porta, alla scala o al talamo secondo le specie del supplizio: essendo mancata l'esecuzione, non vi fu un annotamento apposito, ma vi fu la seconda volta, quando l'esecuzione si compì, e non sarebbe troppo arrischiato l'ammettere che pure la prima volta fossero intervenuti i confrati medesimi. Laddove questa ipotesi dovesse ammettersi, potremmo dire certamente non essere intervenuti Consiglieri né Fiscali, essere stati i due principali confortatori, che maggiormente avrebbero avuto ad influire, il P.e Palescandolo governatore della Compagnia il quale avrebbe assistito Maurizio lungo la strada, e D. Scipione Stinca egualmente sacerdote oltrechè dottore (ed avremo a vederlo più tardi difensore officioso della maggior parte de' frati nella causa dell'eresia), il quale avrebbe assistito Maurizio alla scala, dove appunto egli dichiarò voler fare le sue rivelazioni: vi fossero poi stati anche Consiglieri e Fiscali, si sa che la Compagnia ne annoverava molti, insieme co' più distinti personaggi del paese(45). Ad ogni modo può dirsi certo che Maurizio non fu indotto a confessare da alcuna ragione vituperosa, bensì da una ragione che può non essere stimata giusta, ma non può non essere rispettata, tanto più che trovasi in tutto conforme a' precedenti di lui. Da niuno fu detto mai, in quel tempo, che avesse confessato per vigliaccheria o per capitolazione, e fortunatamente abbiamo la relazione del Residente Veneto, la quale ci fa conoscere assai bene i desiderii e le condizioni che Maurizio espresse dopo la condanna e al momento dell'esecuzione; è superfluo dire che vi si può credere senza riserve, non trattandosi di fatti avvenuti fuori Napoli ovvero in segreto, pe' quali soltanto riesce difficile aspettarsi l'esattezza dal Residente, come s'incontra in realtà anche questa volta per talune circostanze che leggonsi in fine del suo dispaccio, Ecco(46) questo dispaccio, che porta la data del 28 dicembre, e che, unito alle affermazioni del Nunzio sopra citate, ci pare che venga a togliere ogni dubbio sul fatto in quistione. "Quel Mauritio Rinaldi famoso per essere stato capo della congiura et non meno perché ogniuno sapeva, che dal signor Carlo Spinelli era stato condannato di esser segato vivo tra due tavole, condotto di ordine del Vicerè a' 23 del presente a vista del Castelnovo per dover essere impiccato, et poi squartato, non havendogli giovato di offerire sei mille ducati più di alcuni suoi beni liberi confiscati, per ottenere che per non derogar al suo nascimento di nobiltà gli fosse solamente tagliata la testa, giunto al luogo del supplicio, tutto converso a Dio, disse, che havendo in questa sua prigiona sofferto in tre mesi quaranta hore di corda, et altri tormenti per i quali si trovava tutto attratto et quasi morto senza haver mai confessato alcuna cosa, haveva à bastanza comprobato che egli per viltà non consentiva di mancar di fede a' suoi collegati, ma che allhora, essendo all'ultimo cimento dell'anima, per non seppelirla nell'Inferno voleva scoprir tutte le cose trattate senza niuna conditione di salvarsi la vita. Fu però per ordine di Sua Eccellenza trapposto più tempo alla sua morte, et hà egli manifestate cose maggiori che non si sapevano, et nominato persone di qualità per infette della heresia et della rebellione, onde, non ostante gli ordini di Spagna che furono che si procurasse di poner in silentio quanto prima questa materia, incominciano pur hora i processi et le retentioni"(47).

Ripigliamo il racconto particolareggiato di quanto accadde, dopochè Maurizio manifestò la risoluzione di voler confessare ogni cosa. L'esecuzione fu sospesa ed egli venne ricondotto nelle carceri della Vicaria, come ci fa conoscere il documento esistente nell'Archivio de' Bianchi. né confessò sotto la forca, come risulterebbe dalla dicitura poco precisa della Narrazione del Campanella ed anche di qualcuno de' documenti per gli ecclesiastici conservati in Firenze, ma confessò per lo meno il giorno dopo nel tribunale. Questo si argomenta da una lettera del Vicerè, il quale trasmise subito a Madrid, il giorno 21, la risoluzione presa da Maurizio, ma solamente più tardi potè annunziare che avea confessato "e molto bene", senza per altro dire i particolari della confessione(48). Si argomenta inoltre dall'ampiezza della confessione medesima, la quale, scritta, occupò per lo meno 32 fogli, come si rileva da' numeri notati pei brani di essa inserti ne' suddetti documenti conservati in Firenze. Aggiungiamo che da questi documenti si rileva pure essere stato tale atto tenuto sciolto, ma al sèguito del 3.° volume del processo; la qual cosa si spiega benissimo, considerando che erano stati già compìti tutti gli atti relativi a Maurizio ed anche quelli relativi al Pisano, allorchè si ebbe la lunga confessione del tutto inaspettata.

Ecco ora quanto sappiamo delle cose confessate da Maurizio, poichè ne sappiamo appena quella parte che si trova inserta a brani ne' documenti per gli ecclesiastici sopra citati, e quindi siamo ben lontani dal possedere tutta intera la confessione(49). Maurizio andò una notte al monastero di S.ta Maria di Gesù a Stilo, dove trovò fra Tommaso ed altri; fra Tommaso parlò in lode delle armi e della campagna. E mentre così parlava nella sua camera, fra Pietro di Stilo entrava ed usciva. Di poi, egualmente a Stilo, in casa di D. Gio. Jacovo Sabinis, vennero a trovarlo fra Tommaso, fra Dionisio e Gio. Gregorio Prestinace, ma c'era gente e si parlò d'altro. Nella notte seguente o in quella dell'indomani tornarono (Maurizio non ricordava se ci fosse stato anche il Prestinace), e fra Tommaso cominciò a citare esempî di uomini che dal niente erano diventati grandi, allegando il Macchiavelli ed altri autori; animandolo alle armi disse che vi sarebbero mutazioni, che egli voleva fare repubblica, che bisognava trovare amici a questo effetto, e parlando contro la nuova numerazione disse che le anime di Dio erano contate come animali bruti, che si offendeva Dio, che quando David volle numerare il suo Regno, Dio non gastigò David ma i popoli che si erano lasciati numerare. Maurizio allora si offrì. C'era anche Giulio Contestabile, il quale stava sempre insieme con fra Tommaso e non si scovriva perché inimico a Maurizio: ma durante la carcerazione nel Castello fra Tommaso avea detto a Maurizio che Giulio con tutta la casa sua era consapevole. E una volta, stando del pari in casa Sabinis, essendosi visti certi legni in mare, fra Tommaso e fra Dionisio (Maurizio non ricordava se ci fosse stato anche il Petrolo), dissero di volere scendere per trattare co' turchi di questo negozio, e fra Dionisio si avviò con scusa di voler andare a riscattare un suo fratello. Fra Tommaso intanto gli diceva di stare in ordine e trovar compagni, non dovendosi perder tempo, di avere già molti con lui, averne parlato a persone principali e tra gli altri a D. Lelio Orsini; Maurizio disse non voler cominciare né portar gente, se prima non vedesse cominciata la guerra, e fra Tommaso gli dimandò se quando si cominciasse a ribellare Catanzaro non avrebbe accudito, ed allora egli acconsentì. Inoltre Maurizio gli obiettò che non si potevano mettere ad un'impresa così grande senza danari, e fra Tommaso gli disse che avea persone le quali li avrebbero dati e specialmente sarebbero venuti dal Castello di Arena, di dove Marcantonio Contestabile confidava poterli pigliare, la qual cosa fra Tommaso gli confermò anche dopo la carcerazione. Si concluse di mandare fra Dionisio là presente a Catanzaro, per cercare ed indurre gente a far parte dell'impresa; e fra Dionisio vi andò, e al ritorno disse a Maurizio in Davoli che avea trattato con alcuni gentiluomini, e gli nominò Fabio di Lauro, Gio. Battista Biblia e il Barone di Cropani. Risolverono poi di chiamare Gio. Paolo di Cordova e Gio. Tommaso di Franza che Maurizio preferiva come uomini di valore, e Maurizio, a consiglio di fra Tommaso, scrisse loro sotto colore di trattare della loro natività: questi vennero con Orazio Rania a Davoli, ove Maurizio si trovava in casa di D. Marco Antonio Pittella, e fra Tommaso vi era venuto la notte precedente col Petrolo e Fabrizio Campanella; l'indomani parlarono in S.ta Maria del Trono, nel castagneto, e fra Tommaso discorse delle prossime guerre e dell'utilità del trovarsi pronti in armi, e trattenutisi più di due ore con fra Tommaso, dissero di poi che fra Tommaso era un grande uomo ed avea parlato della loro natività. Ancora fra Tommaso disse a Maurizio che v'intervenivano Claudio Crispo e Gio. Francesco d'Alessandria, fra Gio. Battista Pizzoni, e forse anche Giulio Soldaniero, ma Maurizio non si ricordava bene se glie lo avesse detto prima o dopo la carcerazione; e voleva che Maurizio fosse andato a Pizzoni, ma Maurizio non volle andarvi ed andò invece il Petrolo. Fin da che si trattò del negozio con fra Tommaso, fra Dionisio, Gio. Gregorio Prestinace e Gio. Jacovo Sabinis, si stabilì che quando apparissero galere turche, o fra Tommaso, o fra Dionisio, o il Petrolo, andrebbero a trattare co' turchi perché volessero dare aiuto e favore. E poi vi andò spontaneamente egli stesso, Maurizio, senza alcuna missione del Campanella, e trattò con Morat Rais detta ribellione, e al ritorno mostrò il salvacondotto a Gio. Gregorio Prestinace, fra Tommaso Campanella, D. Marco Antonio Pittella ed altri, a' quali disse ciò che avea trattato e conchiuso con Morat Rais, e ne giubilarono lodandolo e dicendogli che avea fatto assai di quello che desideravano; ben vero il Pittella non mostrò contento come gli altri, poichè non era così addentro al negozio come gli altri. E in somma conclusero tutt'insieme, Maurizio, fra Tommaso e fra Dionisio, che quando costui avesse finito di trattare ed avuto il consenso di quelli di Catanzaro, avviserebbe, e si sarebbe pigliato espediente di effettuare la ribellione ed entrare in Catanzaro, e fra Tommaso diceva doversi gridare libertà, scassinare le carceri e ammazzare gli ufficiali. - Fu questa la confessione di Maurizio, che abbiamo cercato di riordinare diligentemente secondo i numeri de' folii notati per ciascun brano di essa, e l'analogia delle circostanze espresse in ciascun brano. Facciamo subito avvertire, che se la confessione apparisce addirittura acre verso il Campanella, fra Dionisio, il Petrolo ecc., ciò avviene perché i brani di essa a noi pervenuti son quelli soli che il Mastrodatti sceglieva pe' riassunti degl'indizii contro costoro: ma è facile comprendere che tutta intera avrebbe un altro aspetto, senza per altro rimanerne alterati i fatti sopra riferiti, mentre poi anche in questa parte a noi nota si vede che Maurizio non risparmia punto sè stesso. né i fatti vi riescono essenzialmente diversi da quelli esposti dal Campanella nella sua Dichiarazione, essendovi solo la differenza che nella confessione di Maurizio fra Tommaso risulta il motore fondamentale di ogni menomo passo. Ora intorno a ciò basta considerare che non si sarebbe proceduto nell'impresa, senza quelle tali profezie e previsioni di avvenimenti, dapprima più lontani, poi divenuti imminenti, siccome il Campanella li concepiva, e d'altronde si sconoscerebbe del tutto e il carattere, e la posizione, e il credito del Campanella, quando si volesse pensare che egli si fosse lasciato condurre invece di condurre; anche il contegno suo nel carcere ci apparisce né più né meno che quello di un capo, sia quando prosegue a discorrere di queste cose con Maurizio, sia quando lo giudica, lo esalta o lo vitupera, come fa del resto con tutti gli altri. Qualche lieve inesattezza nella successione de' fatti esposti da Maurizio, qualche vacillamento di memoria, si spiega agevolmente con lo stato della sua persona affranta e stritolata dalle torture. Ma non v'è luogo ad ammettere che il Fiscale abbia profittato di una simile condizione per fargli dire ciò che gli premeva che dicesse. Vedremo l'altra confessione di Maurizio innanzi a' Delegati del S.to Officio, fatta oltre un mese più tardi, in un momento supremo e lungi dall'influenza di Giudici d'ogni sorta, nella quale, benchè si espongano cose di altro genere, non si nota la menoma dissonanza ed invece si ha una sufficiente corrispondenza con le cose esposte nella presente confessione; e questo ci pare un argomento fortissimo per ritenerla del tutto vera.

La confessione di Maurizio, perché acquistasse forza contro i complici, come allora si costumava, venne ratificata con una nuova tortura. Questa, secondo i procedimenti in vigore, dovè applicarsi non più tardi del giorno consecutivo, leggendo de verbo ad verbum tutte le cose deposte, e facendo dichiarare al paziente sospeso alla corda che egli le confermava in omnibus et de omnibus. Quindi, come fu poi scritto a Madrid, parve bene al Vicerè, "avendone tenuto consulta col Collaterale, di trattenere l'esecuzione di Maurizio sino a confrontarlo con fra Tommaso Campanella"(50). Credevasi allora che non dovesse tardare di molto l'arrivo del Breve Papale, con cui veniva ad essere costituito il tribunale della congiura per gli ecclesiastici; ma invece esso tardò ancora, e frattanto il tribunale pei laici continuò nel còmpito suo.

Le notizie ulteriori intorno all'opera di questo tribunale pei laici sono tanto deficienti, che in verità non abbiamo troppe cose a dire. Possiamo affermare con sicurezza che furono esaminati tutti gl'inquisiti già carcerati, amministrando o ripetendo torture più o meno crudeli a parecchi fra loro; oltracciò furono presi i provvedimenti più gravi contro i contumaci, e il tribunale restò aperto per varii anni. Il Campanella, mettendo insieme gl'inquisiti ecclesiastici e i laici, nelle sue lettere del 1606-07, una volta scrisse che vi erano stati 80 tormentati ad pompam, un'altra volta scrisse che i tormentati erano stati quasi 100, ed aggiunse che niuno avea confessato(51); nella Narrazione poi ridusse di molto queste cifre, e scrisse che "furo tormentati... da cinquanta e nullo confessò cosa alcuna", nominando de' laici appena un Geronimo Politi procuratore di fra Dionisio (nome nuovo) e taluni fra' rivelanti tardivi di Catanzaro, Gio. Tommaso di Franza, Mario Flaccavento, Tommaso Striveri. Or sapendo che furono tormentati non più di sei o sette ecclesiastici, è facile vedere il numero de' laici tormentati, per quanto le cifre suddette lo consentono; e ben s'intende che nessuno di costoro confessò cosa alcuna relativamente a sè stesso, non già relativamente al Campanella e a fra Dionisio. Massime que' tre di Catanzaro sopranominati non poterono certamente contraddire le prime loro deposizioni; e difatti anche nel processo di eresia ebbe a vedersi più tardi Mario Flaccavento, insieme con Felice Gagliardo e con Camillo Adimari, sollecitare Giuseppe Grillo perché deponesse contro fra Dionisio(52). Il Campanella scrisse pure che lo Xarava diede a due de' sopra nominati le cartelle "di quello haveano a dire": evidentemente le cartelle, se ve ne furono, doverono contenere il ricordo di ciò che essi avevano deposto in Calabria. Da parte nostra possiamo aggiungere soltanto il nome di qualche altro de' laici, che figurò pure nel processo di eresia ed ebbe ivi occasione di far motto del tormento sofferto: tale fu Felice Gagliardo, che disse avere avuto "a morire" nella "seconda corda" che gli diedero in Napoli; ma ciò avveniva abbastanza più tardi, nientemeno che verso il marzo 1602, onde rimane dimostrato che tutto questo lavoro durò molto a lungo.

Circa i contumaci poi, dietro documenti da noi trovati nel Grande Archivio, possiamo dire che non si mancò di venire alla "forgiudica" per parecchi di loro, e non sempre in sèguito di indizii gravissimi. Come abbiamo accennato altrove, con questa parola "forgiudica", parola non giuridica ma di uso comune nel Regno, s'intendeva di costituire gl'inquisiti fuori ogni adito al giudizio, ovvero di giudicarli fuori giudizio, se a questo non si presentassero fra un certo termine; il quale termine le Costituzioni del Regno prescrivevano dover essere un anno, ma la licenza del Principe potea ridurre a pochi giorni e perfino ad ore! Si pubblicavano i bandi per citare gl'inquisiti a comparire personalmente "ad informare ed a' capitoli", e i bandi, intrinsecamente mortali, erano connessi all'annotazione de' beni: fatta poi e letta la sentenza, i rei si avevano per confessi, non potevano appellarsi né supplicare, né erano ascoltati nella causa principale; si ritenevano morti e i loro beni venivano confiscati, ognuno poteva ucciderli impunemente e i loro cadaveri non potevano esser seppelliti(53), potevano bensì, con certe regole, essere rilasciati per l'anatomia. Del resto, tanto prima che dopo la sentenza, si potevano opporre non poche eccezioni e capitoli, sia dagl'inquisiti medesimi, sia da' loro consanguinei. Una prima lettera Vicereale concesse a Marc'Antonio d'Aponte facoltà di dichiarare forgiudicati, con termine abbreviato, parecchi che a relazione di lui e di D. Giovanni Sances erano stati dichiarati contumaci ad informandum et ad capitula nella causa della "sedutione de congiura": la lettera reca la data del 31 dicembre 1599. I contumaci erano: "Alexandro tranfo di tropea, Gio. francesco d'alexandria di Monte lione, Marco ant.° Contestabile di stilo, Matteo famareda di Catanzaro, Geronimo baldaya di Squillace, pietro paulo santa guida, Antonio verlino di S.ta Caterina, francesco antonio de lo Joyo di girifalco et Tolivio de lo doce de satriano": il Vicerè accordava "di possere abreviare il termine dela forgiudicatione alli sopradetti contumaci, prefigendoli termine di giorni venti à comparere... non obstante la constitution del Regno, che vole il circolo dell'anno per possere declarare forgiudicati"(54). Riesce certamente notevole il non vedere compreso in questo elenco l'amico intimo del Campanella e compare di Maurizio, Gio. Gregorio Prestinace: ma venne più tardi anche la volta sua; abbiamo difatti rinvenuta un'altra lettera nel senso medesimo, esclusivamente per lui, ma scritta circa dieci mesi dopo la sopradetta, nell'ottobre 1600, e ciò conferma che pure da questo lato il lavoro fu lungo(55). Con ogni probabilità non mancarono altre deliberazioni contro altri contumaci di Calabria: le evidenti e sconfortanti lacune, che presentano le scritture rimasteci nel Grande Archivio, ci autorizzano a ritenerlo. D'altronde l'elenco soprariferito ci presenta non solo nomi d'individui de' quali abbiamo avuto notizie più o meno ampie dagli Atti processuali che ci sono rimasti, ma anche qualche nome d'individuo che ci riesce del tutto nuovo. Non parliamo di Marcantonio Contestabile e di Gio. Francesco d'Alessandria, citati ampiamente da moltissimi testimoni: ricordiamo soltanto che il Famareda fu citato da Fabio di Lauro come particolare amico ed ospite di Maurizio de Rinaldis, il Baldaia fu perquisito e trovato possessore di una lettera di Maurizio a Gio. Francesco Ferraima e di poi citato dal Vitale qual complice in colloquio con Maurizio e raccoglitore di fuorusciti per conto di lui, il Dell'Joy fu citato dal Biblia e poi dal Mileri come complice in colloquio col Campanella e fra Dionisio, il Dolce fu citato dal Pistacchio come compagno di Maurizio nell'andata a Davoli, il Santaguida fu citato da più testimoni come uno degl'individui di S.ta Caterina i quali salirono sulle galere turche e vi rimasero più di un'ora, ciò che verosimilmente fece del pari il Verlino (leg. Merlino) anch' egli di S.ta Caterina. Ma quell'Alessandro Tranfo non si rinviene citato da alcuno negli Atti processuali in nostro potere finoggi, e ciò mostra che non conosciamo davvero quanto si fece pe' laici, e che ve ne furono altri, forse in numero ragguardevole, tuttora rimasti ignoti. Notiamo qui che documenti da noi trovati ci mostrano questo Alessandro Tranfo, figlio di Jacovo Giovanni Barone di Precacore (o Crepacore) e di S. Agata, qualificato Barone egli medesimo poco dopo il periodo di tempo di cui trattiamo, con ogni probabilità per "refutazione" fattagli dal padre, il quale morì più tardi, nel 1611(56). A tempo della congiura avrebbe avuto appena 19 anni, e dovè essere di quelli ricercati da Maurizio dopo il convegno di Davoli, allorchè Maurizio andò in giro per parlare a Gio. Battista Soldano (egualmente di Tropea) e ad altri. Insieme col Barone di Cropani, egli va compreso nel gruppo dei "Baroni Provinciali", che secondo il Giannone parteciparono alla congiura del Campanella "in numero ben grande", e non furono da lui nominati nella sua Istoria civile per rispetto alle loro famiglie: noi pertanto conosciamo solamente i due anzidetti, e dobbiamo dire che ve ne furono senza dubbio parecchi altri. Dietro laboriose ricerche siamo veramente pervenuti a sapere che varie famiglie dei carcerati di Calabria possedevano feudi rustici, e basterà citare i feudi di Guarna e Palermiti per gli Striveri, Pantano Pratovecchio e Tornafranza pe' Susanna, Caiazza pe' Salerno, Montalto pe' Dolce, S. Andrea con Turchisi e Caria pe' Vella imparentati mercè matrimonio a Gio. Gregorio Prestinace; ma non ci consta che a que' tempi i possessori di feudi rustici si fregiassero del titolo di Baroni, e ci sembra chiaro doversi dire che più individui siano rimasti ignoti, avendo la congiura, o almeno la repressione della congiura, avuto proporzioni assai più larghe di quelle che siamo in grado di ammettere finoggi, come per altro apparisce assai bene dall'estensione del territorio che diede inquisiti. Del resto, se non sappiamo i nomi de' molti Baroni propriamente detti, sappiamo che molti tra' carcerati appartenevano a famiglie nobili riconosciute: basterà fare avvertire che tra' soli carcerati di Catanzaro, oltre quelli sopra nominati, anche il Franza, i due Cordova, il Famareda, il Giovino, appartenevano a "famiglie nobili serrate", come rilevasi dal D'Amato, che ne fa distinta menzione e ne offre i rispettivi stemmi(57). - Notiamo poi che il tribunale di Napoli, coll'anzidetto elenco di forgiudicati, ci si mostra più severo di quello di Calabria: poichè se pel Baldaia, lasciato dapprima in pace, emerse la testimonianza posteriore del Vitale che aggravò gl'indizii contro di lui, pel Merlino e pel Santaguida non s'intende quali nuovi indizii fossero venuti in campo, mentre un altro Santaguida ecclesiastico, come vedremo a suo tempo, fu incolpato dello stesso fatto e subito apparve catturato senza fondamento. Dobbiamo del resto aggiungere, che se fu spiegata tanta severità per alcuni, nessun provvedimento risulta preso per altri non meno gravemente indiziati, come in verità è accaduto sempre in tali faccende sino a' giorni nostri. Ognuno p. es. crederebbe che i fuorusciti nominati dal Campanella nella sua Dichiarazione scritta, i figli di Jacobo Grasso, il figlio di Nino Martino, Carlo Bravo, i Baroni di Reggio, fossero stati immancabilmente perseguitati; lo stesso si crederebbe p. es. per Geronimo Camarda, colto nientemeno che in corrispondenza con Claudio Crispo; invece documenti che abbiamo trovato intorno a tutti costoro mostrano persecuzioni e catture pe' loro delitti comuni, senza che sia mai citato il delitto di ribellione, onde si deve conchiudere che da questo lato siano stati veramente lasciati in pace. Ma di ciò più tardi, quando con la nostra narrazione giungeremo agli anni successivi, ne' quali vedremo da una parte assoluzioni e rilasci, da un'altra parte la cattura e l'invio in Napoli di taluno de' forgiudicati sopradetti e del rispettivo manutengolo.

Sorgeva intanto il nuovo anno 1600, e il Breve Papale, per cominciare a procedere contro gli ecclesiastici, non arrivava ancora. Come dicevamo, durante l'aspettativa, il Vicerè aveva interceduto a Roma per l'assoluzione del Principe di Scilla dalla scomunica che il Vescovo di Mileto gli aveva già da un pezzo inflitta; in pari tempo aveva sempre continuato ad insistere presso il Nunzio per la venuta del Vescovo medesimo in Napoli. Da Roma fu presto data al Nunzio, fin dal 22 dicembre, la facoltà di assolvere il Principe, a patto che fossero state già adempite tutte le necessarie condizioni. E il Principe venne assoluto, e in tale occasione egli medesimo fece istanza che venissero assoluti egualmente il suo Vice-Principe dottor Fabrizio Poerio e D. Luise Xarava, i quali erano stati scomunicati insieme con lui. Questo fu pure più tardi concesso, e con lungo giro eseguito pel Poerio, mercè facoltà trasmessa all'Arcivescovo di Reggio, ma non risulta che sia stato eseguito del pari per lo Xarava, il quale sappiamo che assai più tardi, nel 1605, richiese al Gran Duca di Toscana che gli ottenesse da S. S.ta la dispensa da qualunque irregolarità commessa pel passato(58): così non a torto il Campanella scrisse essere stato lo Xarava perseverante nella scomunica. Arrivava poi nella capitale, la prima settimana del nuovo anno, il Vescovo di Mileto, che aveva impiegato circa un mese per venirsene a tutto suo comodo da Calabria, onde il Vicerè pretendeva doversi ritenerlo contumace. Una lettera del Nunzio, in data 11 gennaio 1600, narra tutti i particolari dell'udienza datagli dal Vicerè, essendovi lui pure intervenuto, e ci fa conoscere gli appunti e le ammonizioni dal lato del Vicerè, e le discolpe e la richiesta di un passaporto dal lato del Vescovo, con la conclusione del rilascio del passaporto senza difficoltà. Uno degli appunti che riesce importante per la nostra narrazione fu questo, che il Vescovo "desse occasione di sospettar di lui, come haveva fatto adesso col difendere qualch'uno di quelli che si pretendevono complici della ribellione seguita in Calabria; come era un Clerico Cesare Pisano, in favore del quale si trovava fatto ex officio un Processo per Giustificatione del suo Clericato per essimerlo dalla Corte Secolare quando si trattava d'un negotio così grave". Il Vescovo disse "che il Processo del Clericato di quel Cesare era stato fatto avanti si sapesse nulla della congiura, ò ribellione, ad altro fine come poteva vedersi"(59). Ma finalmente, nella stessa data 11 gennaio, arrivò pure il Breve Papale, e D. Pietro de Vera lo portò di persona al Nunzio. E già costoro si disponevano a dare cominciamento al processo, quando il Vicerè, avuto il Breve, e trovandosi ancora in Napoli il Vescovo di Mileto, diede improvvisamente ordine che Cesare Pisano fosse giustiziato.

Il Pisano, secondo il solito, fu tradotto alle carceri della Vicaria, e un documento, che abbiamo allegato al processo di eresia, ce lo mostra il sabato 15 gennaio 1600 entro la cappella segreta di quelle carceri, in presenza de' Rev.di Orazio Venezia, Curzio Palumbo e Geronimo Perruccio, ufficiali della Curia Arcivescovile appartenenti alla Congregazione diocesana del S.to Officio, alla quale, mediante i Confrati bianchi, vicino ad essere giustiziato, egli avea fatto istanza di voler confessare per disgravio della sua coscienza. La lunga confessione che egli fece, e che secondo lo stile del S.to Officio è detta denunzia poichè in fondo con essa riusciva a denunziare sè medesimo e gli altri, lo rivela turbato, confuso, in qualche punto speciale contradittorio, ma nel complesso coerente in tutte le cose di eresia che altre volte avea deposte, con qualche rettificazione verso fra Dionisio, con qualche circostanza aggravante verso il Campanella ed anche verso sè medesimo, riconoscendo di aver creduto a quelle opinioni, la qual cosa aveva altra volta negata. I lettori troveranno questa confessione riportata nella sua integrità tra gli altri Documenti, e potranno scorgere le varianti in raffronto delle deposizioni anteriori(60); qui basterà citarne i punti più importanti per la nostra narrazione. Intorno al Campanella, egli rivelò che fra Tommaso, nelle carceri di Squillace, gli avea raccomandato di non voler "ruinare li amici" col suo esame, quando non poteva salvare sè stesso; che inoltre, a tempo della gita da Monasterace a Stilo (cosa da lui precedentemente negata) fra Tommaso gli avea parlato dell'analogia de' nostri corpi con quelli dei cavalli e giumente, e della conversione delle anime nostre "in non essere" non trovandosi inferno, purgatorio e paradiso, ma circa l'esistenza di Dio avea detto dovergli bastare quanto gli aveano comunicato que' frati, essendo cose troppo alte per poterle capire; infine accennò all'essere stato visitato da fra Tommaso nelle carceri di Castelvetere a' primi tempi della sua carcerazione. Intorno a fra Dionisio, revocò di aver saputo da lui le cattive relazioni tra S. Giovanni e Gesù, ma non altro che questo, e intorno a fra Bitonto e fra Jatrinoli non revocò nulla; che anzi ripetè ancora una volta tutti i discorsi di eresie fatti da' frati da lui accompagnati nelle gite a Bagnara e a Messina, e poi a Stignano in casa Grillo etc., come pure i discorsi consimili da lui stesso tenuti nelle carceri di Castelvetere col Gagliardo, che vi partecipava, e col Santacroce, col Marrapodi e coll'Adimari, che egli voleva indurre in quelle opinioni, delle quali infine si pentiva e voleva far penitenza, vedendo "di havere da morire fra breve termino". Tutto ciò dovè sembrare di troppa gravità agli ufficiali della Curia, i quali non presero alcuna risoluzione; sicchè l'indomani, 16 gennaio, intervenne il Vicario Arcivescovile in persona, Ercole Vaccari, che poi troveremo come Giudice nella causa dell'eresia, e costui, fatta qualche altra interrogazione, decretò che per rendere valida la deposizione anche contro i complici "et ad omnem alium bonum finem et effectum" fosse al Pisano amministrata la tortura con la corda per un ottavo di ora. Ed immediatamente la tortura venne amministrata, ed i lettori troveranno fra' Documenti il primo processo verbale di questo genere. Spogliato, legato ed attaccato alla corda, di poi tratto in alto, il Pisano dovè più volte dichiarare che le cose dette erano vere, verissime; e soggiunse "lhò ditto per scaricarmi in tutto è per tutto la conscientia, è per salvarmi l'anima, et se non l'havesse ditto, lo tornaria a dire". Poi soggiunse ancora: "Monsignor mio, misericordia, che hò ditto la verità, et sono quattro giorni che non hò mangiato, è mi trovo debole"; ed allora, con la solita formola, il Vicario ordinò che fosse deposto, che gli fossero accomodate le braccia e venisse rivestito, quindi lo condannò come eretico formale, imponendogli l'abiura ed alcune penitenze "in questo poco spacio di tempo di vita" che gli rimaneva. La sentenza fu subito letta dal Mastrodatti della Curia Gio. Camillo Prezioso, l'abiura fatta e sottoscritta dal Pisano e l'assoluzione data dal Vaccari, nell'Audienza criminale della Vicaria. - Ma in pari tempo anche i Confrati bianchi ricevevano dal Pisano talune "esculpationi" intorno alla congiura, come ci mostra il documento relativo alla sua esecuzione, e queste meritano bene di essere ricordate(61). In fondo il Pisano si ritrattava sul conto di talune persone che avea nominate ne' tormenti sofferti in Squillace, e negli "ultimi tormenti" sofferti in Gerace. In Squillace egli avea dichiarato che il fratello di Orazio Santacroce avrebbe dato aiuto "al trattato della rebellione", ed inoltre che avea parlato pure con Geronimo Conia di detto trattato, e questo non era vero. In Gerace avea dichiarato che i fratelli Moretti consentivano al trattato e che fra Dionisio glie l'avea detto, come pure che Gio. Angelo Marrapodi avea promesso di portar gente in aiuto, e tutto questo nemmeno era vero. - Tali furono gli atti estremi del Pisano, che nel medesimo giorno, malgrado fosse di Domenica, venne condotto al supplizio; ci corre pertanto il debito di giudicarli. A rigore, la confessione delle eresie potrebbe dirsi fatta con la speranza di suscitare direttamente nel S.to Officio la premura di avocare la causa al suo tribunale, e quindi intercedere perché l'esecuzione fosse sospesa; tuttavia il tenore di essa è tale da poterla credere sincera, mostrando un uomo per quanto turbato altrettanto scevro d'illusioni, mentre d'altra parte tutta la vita anteriore di lui ce lo rivela di costumi tristi, ma leggiero più che malizioso. Le discolpe poi intorno alla congiura, le quali attenuano la responsabilità di parecchi ed anche esonerano perfino fra Dionisio circa un punto speciale, non fanno motto né del Gagliardo, né del Bitonto, né del Jatrinoli, e però implicano evidentemente una conferma dell'esistenza del concerto per la ribellione: se non era vero che il tale e il tal altro vi avessero avuta parte o che ve l'avessero avuta nella misura prima deposta, era vero che vi avessero avuta parte in una misura più circoscritta e che ve l'avessero avuta tutti i rimanenti. Di certo non gli era mancata l'opportunità di disdirsi in tutto e per tutto, e gli sarebbe riuscito tanto più facile il farlo in poche parole qualora la coscienza glie l'avesse consentito. Dopo ciò bisogna dire che fu assai male informato il Campanella, quando nella sua Narrazione scrisse che "il Pisano si ritrattò più volte, e poi dicendo che l'heresia lo havea salvato, lo fecero morir di domenica, avanti che si presentasse la bolla del clericato per lunedì, e nella sua morte si scommosse il cielo el mare, e s'annegaro 8 navi e galere in porto di Napoli". Che propriamente nella notte del 16 gennaio, ed anzi sull'alba del 17, vi sia stato un uragano, pel quale perirono in Napoli 7 navi e diverse altre egualmente nelle spiagge vicine, è ricordato da' nostri Storici, e meglio anche dagli Agenti di Toscana e di Venezia ne' loro Carteggi, e su ciò non v'è nulla da dire(62). Che l'esecuzione sia stata fatta di Domenica per ragione non del Vicerè ma del S.to Officio, si rileva da quanto abbiamo narrato con la scorta de' documenti autentici ed anche dal documento de' Bianchi che dice: "a questa giustitia andò la compagnia il sabato prima 15 del mese et aspettò sino a 2 hore di notte, et poi fu licenziata per non possere l'afflitto essere assoluto del s.to officio". Che non la bolla ma l'informazione del clericato abbia dovuto già essere stata esibita al tribunale innanzi questa data, si è visto dall'averne il Vicerè fatto perfino un appunto al Vescovo di Mileto. Che infine il Pisano non siasi ritrattato mai, ed invece con una desolante persistenza abbia ripetuto, più o meno, le cose dell'eresia e della congiura innanzi qualsiasi tribunale, è accertato da tutti gli esami e rivelazioni che di lui possediamo, e precisamente nella persona di lui la raccolta che possediamo è completa.

I particolari del supplizio del Pisano ci vengono forniti dallo stesso documento dell'Archivio de' Bianchi. Col lunghissimo giro altrove accennato, dalla Vicaria "s'andò per palazzo"; e si eseguì la "giustitia per ordine di S. E. ad appiccare et squartare vicino la guardiola del Castello". Anche nelle scritture di S.to Officio relative alle persone di questa causa, troviamo che Felice Gagliardo, menzionando Cesare Pisano, lo disse "giustitiato al largo del Castello"(63). Così quest'infelice giovane, di 26 anni, servì di spettacolo non solo al popolo della fedelissima città, ma anche a' suoi compagni di sventura, che dalle carceri del Castello doveano vederlo. E meritano pure di essere notate ed interpetrate due circostanze che si trovano riferite dal Residente Veneto(64). La prima, che il Vicerè fece affrettare l'esecuzione, poichè il Pisano nelle carceri avea disegnato di avvelenare Maurizio, il quale continuava a svelare il negozio della congiura; e fu questa verosimilmente una voce sparsa dal Governo medesimo, per giustificare un abuso giurisdizionale aggravato anche dal modo tenuto. La seconda, che il Pisano, essendo prete, fu impiccato in abito di prete; e questa circostanza dovè esser vera unicamente nel senso che si fece andare il Pisano al patibolo col ferraiolo nero di clerico; poichè non solo trovasi attestato dalla lettera del Residente il fatto dell'impiccato coll'abito di prete, ma anche trovasi riferito da tutti gli Avvisi del tempo essere stato impiccato un sacerdote, anzi lo stesso Campanella, ciò che significa esservi stata tale credenza, originata verosimilmente dal fatto dell'abito, che va interpetrato come uno sfregio inflitto al potere ecclesiastico. - Per certo il Nunzio ebbe a rimanere duramente deluso nella sua aspettativa intorno al Pisano, e non se ne potè neanche lagnare immediatamente in Corte, essendosene il Vicerè andato fuori Napoli: ne fece bensì risentimento con D. Giovanni Sances, e ne diè conto al Card.l S. Giorgio con la sua lettera del 21 gennaio, senza far motto della circostanza dell'abito di clerico fatto indossare al Pisano. Più tardi potè parlarne al Vicerè, il quale disse che di queste cose se ne rimetteva a' suoi ufficiali e che non avea saputo nulla di tale esecuzione; ed al Nunzio parve che le sue lagnanze avessero lasciato il Vicerè "confuso" e perciò si era espresso in quel modo "punto verisimile"! Per non intralciare la narrazione, aggiungiamo che ancora più tardi ne dovè dar conto egualmente al Card.l di S.ta Severina, il quale glie ne scrisse inculcando di risentirsene; ed egli fece del pari conoscere di averne già parlato al Vicerè, e di essergli stato da lui risposto "che non haveva saputa tal esecutione", come pure di averne parlato a' Ministri e di esserne costoro "rimasti confusi ad ogni modo"(65). In verità bisogna dire che il Nunzio non rifuggiva dai concetti più arrischiati, quando si trattava di scusare la sua non rara indolenza in queste materie così delicate, che egli aveva per lo meno il torto di mettere allo stesso livello de' negozii ordinarii. Due volte la Compagnia de' Bianchi era andata in Vicaria pel Pisano, due volte il S.to Officio si era trattenuto col povero condannato, e il Nunzio non ne avea saputo nulla. Il vero è che egli soleva scansare ad ogni costo le imprese laboriose: così avea fatto pel Caccìa, così fece pel Pisano, così lo vedremo fare anche in qualche altra occasione.



III. Intanto, dietro l'arrivo del Breve Papale, il tribunale della congiura per gli ecclesiastici si costituiva, e sollecitamente cominciava a funzionare. L'11 gennaio il Breve era stato presentato al Nunzio da D. Pietro de Vera e letto da entrambi; il 16 la nomina del medesimo D. Giovanni Sances per fiscale e di Marcello Barrese per Mastrodatti fu trasmessa ufficialmente, da parte del Vicerè, a D. Pietro de Vera con l'incarico di comunicarla al Nunzio; il 18 si tenne la prima seduta. Queste date risultano dagli Atti che si conservano in Firenze, posti al sèguito del Breve, parzialmente anche dal Carteggio del Nunzio, e dal Carteggio del Vicerè, infine da un documento che abbiamo rinvenuto nell'Archivio di Stato(66): ma prima d'inoltrarci nella narrazione di ciò che si fece nel tribunale, non sarà inutile dare un'occhiata al Breve. Esso vedesi diretto al Vescovo di Troia Nunzio Apostolico e a Pietro de Vera Consigliere, e reca la data dell'8 gennaio. Con quella dicitura contorta e stentata di Marcello Vestrio Barbiano Segretario de' Brevi, e con quel piglio altiero ed ingiurioso tanto comune ad incontrarsi ne' documenti della Curia, Clemente VIII comincia dal ricordare la partecipazione avuta "pocofà" dal Vicerè, che taluni frati e clerici "figli dell'iniquità" aveano cospirato nello Stato del carissimo figlio Filippo e trattato di dare la Calabria "nelle mani de' turchi nemici del nome cristiano", e la dimanda dello stesso Vicerè, che si fosse degnato di provvedere con la benignità Apostolica perché i parecchi carcerati avessero il meritato gastigo; ond'egli stimando que' "ribaldi e sediziosi uomini indegni dell'immunità e libertà ecclesiastica", concede alla fraternità del Vescovo, e alla discrezione di Pietro, facoltà di esaminare carcerati e carcerandi, complici, testi etc. Finquì ognuno avrà notato quel "pocofà" da doversi riferire a tre mesi indietro, una definizione della congiura che la Curia sapeva da un pezzo non esser la vera con qualche sospetto che la congiura medesima fosse destituita di fondamento, inoltre una durezza estrema di linguaggio verso individui i quali tuttora non erano che semplici imputati: si faccia un confronto col linguaggio tenuto dal Vicerè nell'istituire il tribunale pe' laici (Doc. 209 p. 109) e si vegga la differenza. Ma cosa voleva dire quell'essere i ribaldi e sediziosi uomini indegni dell'ecclesiastica immunità? Era forse un tribunale laico quello che s'istituiva per essi? Senza dubbio si derogava ai Canoni e alla procedura ordinaria, massime coll'intervento del Fiscale Sances e del Mastrodatti Barrese, individui laici nominati dal Vicerè; ma coloro i quali doveano in ultima analisi giudicare e sentenziare erano sempre il Nunzio, giudice naturale segnatamente de' frati, e il de Vera clerico, proposto dal Vicerè ma nominato giudice dal Papa, e quindi funzionario Papale, precisamente come p. es. erano i Vescovi proposti dal Governo e nominati dal Papa senza potersi dire perciò funzionarii Governativi. Difatti "Commissarii Apostolici, Delegati Apostolici", si dissero poi sempre il Nunzio e il De Vera, e solo per le facoltà avute direttamente dal Papa essi furono in grado di esaminare gl'imputati, prescrivere i tormenti, emettere le sentenze; se il Campanella in sèguito pose sempre innanzi il Sances e le sue crudeltà, è chiaro che lo fece unicamente per mettere nell'ombra le persone e le crudeltà de' Commissarii Apostolici de' quali non gli conveniva sparlare. Si chiami dunque "tribunale misto" il tribunale creato col Breve, ma s'intenda bene la costituzione sua, e non se ne sconosca la natura al punto da attribuire al Governo Vicereale ciò che esso fece: sicuramente esso fu costituito in modo da dover servire in tutto e per tutto il Governo Vicereale, ma rimanendo pur sempre un tribunale i cui Giudici funzionavano in nome del Papa, coll'autorità avuta dal Papa. Non meno importante poi riesce il notare l'estensione de' poteri accordati a questi Giudici verso gli inquisiti: concediamo, diceva il Breve, facoltà "di sottoporli alla tortura ed altri tormenti giusta le disposizioni del dritto.... di procedere fino alla sentenza esclusivamente, e di consegnare e rilasciare alla Curia secolare, senza pericolo di censure... colpiti dalle condegne pene giusta le sanzioni canoniche coloro i quali a voi sia constato essere legittimamente convinti e confessi". Ecco un abbandono insolito di ciò che le Autorità, tanto ecclesiastiche quanto laiche, ordinariamente si riserbavano; ma si noti che i Delegati potevano agire fino alla sentenza di condanna "esclusivamente", sicchè quando una tale sentenza si fosse dovuta emettere, sarebbe occorsa l'approvazione del Papa. Con ciò risulta chiarita anche meglio la natura del tribunale; e s'intende che l'approvazione del Papa non sarebbe mancata, ma s'intende pure che per salvare l'apparenza della superiorità ecclesiastica, il Papa consentiva ad assumere di dritto la responsabilità di ciò che sarebbe avvenuto, mentre abbandonava di fatto gli ecclesiastici inquisiti all'influenza prepotente del Governo Vicereale; non si neghi dunque tale responsabilità, e si riconosca questo abbandono del Campanella e socii fin dal momento della istituzione del tribunale col detto Breve. - Poniamo qui che il Campanella, nella sua Narrazione e poi anche in una delle sue lettere pubblicate dal Baldacchini(67), disse questo Breve "sorrettitio ch'esponea ribellione", ed affermò che "el S. Papa Clemente 8.° donò licenza che si facesse questa causa nelli carceri regi per confrontar li frati con li laici carcerati e mostrar che lui non era consapevole". In verità la concessione del Breve fu indipendente dal fatto della confronta, che venne in campo più tardi; quanto(68) poi all'esporre ribellione, certamente il Breve non poteva esporre altro, e solamente avrebbe potuto esporla in migliori termini; sappiamo poi che già da un pezzo il Governo Vicereale si era mostrato o aveva finto di mostrarsi persuaso che il Papa non fosse consapevole della congiura. Assai meglio di questo avrebbe potuto il Campanella dire intorno al Breve; ma, come sempre, nelle parole di lui bisogna leggere lo sforzo costante di appoggiarsi a qualunque specie di argomento, e al tempo medesimo di non dare motivi di disgusto al Papa, dal quale soltanto potea sperare la sua liberazione.

Dicevamo che il 17 e 18 gennaio si tennero le prime sedute del tribunale. Probabilmente il 17 si tenne seduta preparatoria facendo la rassegna degli Atti raccolti a carico degl'inquisiti, ma il 18 si produsse il rescritto Vicereale che nominava il Sances e il Barrese, e si deliberò di conservarlo ed eseguirlo, quindi si dovè subito metter mano all'interrogatorio del Campanella: così venne iniziato il 4.° ed ultimo volume di tutto il processo, consacrato appunto alla causa della congiura per gli ecclesiastici. La "deposizione" del Campanella è solo menzionata negli Atti esistenti in Firenze, e ciò si spiega con la circostanza che essa risultò negativa: quegli Atti per altro mostrano che si estese dal fol. 3 a 9 del volume e quindi fu molto lunga(69). Una lettera del Nunzio, in data del 21 gennaio, fa conoscere precisamente che il Campanella negava, e che forse l'indomani si sarebbe fatta la confronta: "sono stato, egli dice, già due volte con il Sig.r D. Pietro di Vera in Castello, et essaminato (sic) fra Thomaso Campanella il quale stà sù la negativa, ma hà tanti che gli testificano contro, de' quali forse domani si farà la confrontatione, che credo bisognerà si risolva à dir il fatto come stà circa la congiura, et ribellione". Ma la confronta si fece solamente il giorno 23 gennaio, come risulta da una lettera del medesimo Nunzio scritta l'indomani, e non vi furono altri Atti fra l'esame del Campanella e la confronta, vedendosi questa occupare nel volume il fol. 10 ed 11, come è notato negli Atti sopra menzionati. Si ricominciò coll'esame del Campanella rammentandogli la Dichiarazione da lui scritta, ed egli, secondo il Nunzio, la negò egualmente, ed allora si venne alla confronta; ma forse il Nunzio volle dire che negò la ribellione della quale aveva altra volta scritto, e non deve far meraviglia questa distrazione da parte del Nunzio, che sempre, così nella causa della congiura come in quella dell'eresia, lasciò fare a' suoi colleghi, intervenendo solo in qualche occasione nella quale gli pareva che potesse "far conoscere la superiorità ecclesiastica". Ecco come egli riferì il fatto nella sua lettera del 24 gennaio. ".. Hieri stando pur frà Thomaso Campanella sù la negativa, etiam d'una narratione del fatto scritta di sua mano sin nel principio che fu preso, se gli condusse à petto, et per riscontro cinque, et particolarmente un' Mauritio de Rinaldi che fù quello che condotto alle forche si risolvette à dire spontaneamente, et per scarico di conscienza, tutto quello che sempre havea negato nei tormenti, il quale disse sul viso à detto Campanella il trattato della Ribellione che havevano havuto insieme, e che per questo era stato sù le Galere Turchesche, e tutto quello ch'era seguito; et egli pure stette sù la negativa, onde il fiscale fece instanza che si venisse à tortura"(70). Prima d'inoltrarci nell'incidente della tortura, dobbiamo dire che se nel giorno suddetto vi furono soltanto cinque confronte come il Nunzio asserì, ve ne furono di poi altre due, poichè sette ce ne mostrano fuori ogni dubbio, successivamente avvenute, gli Atti esistenti in Firenze; da' quali apparisce pure che queste confronte non durarono a lungo, occupando appena il fol. 10 ed 11 del volume(71). Difatti, secondo la procedura che costantemente accade d'incontrare in qualunque processo del tempo, s'introduceva il teste, gli si deferiva il giuramento in presenza dell'inquisito, gli si dimandava se conoscesse costui, e verificatosi che lo conosceva, gli si dimandava in termini generali se le cose che avea deposte contro di lui fossero vere; ed allora, riuscendo negativa la confronta, mentre il teste diceva che tutto era vero, verissimo, l'inquisito diceva che non era vero, che tutto era bugia, che il teste ne mentiva per la gola; così la confronta finiva in pochi momenti. I sette confrontati furono, oltre Maurizio, Gio. Tommaso di Franza, Gio. Paolo di Cordova, Tommaso Tirotta, Felice Gagliardo, Geronimo Conia, fra Silvestro di Lauriana. Le parole del Nunzio sopra riportate ci mostrano che Maurizio, alla presenza del Campanella, non dovè limitarsi alla semplice rafferma della sua confessione in termini generali, ma trasportato dal suo zelo per l'anima dovè rammentare qualche cosa del progetto e de' preparativi di ribellione, e segnatamente dell'andata sulle galere turche deliberata d'accordo con lui. Quanto a Gio. Tommaso di Franza, Gio. Paolo di Cordova e Tommaso Tirotta, evidentemente la loro confronta dovè servire a raffermare il fatto del convegno di Davoli e de' discorsi ivi tenuti; quanto a Felice Gagliardo e Geronimo Conia, la loro confronta dovè raffermare segnatamente il fatto della visita del Campanella a Cesare Pisano nelle carceri di Castelvetere e le parole ivi scambiate, giacchè vedremo essere stato questo uno dei principali capi dell'accusa che il fiscale scrisse contro il Campanella. Infine quanto al Lauriana, la sua confronta dovè raffermare il fatto del convegno di Pizzoni e delle parole del Campanella ai congregati, ed è manifesto che al cospetto de' Giudici caddero tutti i proponimenti di ritrattazione che il Lauriana aveva esternati al Campanella. Vedremo altre confronte di altri inquisiti col Campanella nel tratto successivo: intanto già fin dalle prime confronte il fiscale dimandò a' Giudici che si ordinasse di amministrare la tortura, ma il Nunzio volle che prima se ne informasse S. S.tà per ottenerne la licenza.

Ecco in che modo il Nunzio riferì questo incidente. ".. Il fiscale fece instanza che si venisse à tortura, et mettendogli io in consideratione che se il detto Campanella domandava la copia delli inditii non vedevo come se li potessero negare, disse, e mostrò che secondo l'uso della Vicaria e di tutte l'udienze di Regno, ne casi così enormi si veniva à tortura per il processo informativo... et che anche questo si era fatto nell'ultimo caso di ribellione dove intervenne un deputato dalla sedia Apostolica et che me lo mostrerebbe; gli replicai che era più espediente saper sopra questo il comandamento di S. S.tà che ne può dispensare, et però mi son risoluto à scriverne per la staffetta, tanto più quanto intendo che questo medesimo è stato usato dalli Offitiali dell'Arcivescovato in casi d'importanza, et è stato ottenuto licenza di poter venire à tortura nel processo informativo senza farne altra copia, che certo conosco che in questo negotio sarebbe cosa di molta difficoltà, e lunghezza, ma non voglia (sic) consentire à nulla di straordinario secondo l'uso di quà senza particolare ordine il quale desidero quanto prima, acciò il negotio si possa tirar avanti conforme al desiderio del sig.r Vicerè". Abbiamo voluto riportare per intero questo brano di lettera, per potere ben valutare l'incidente. Da esso si dovrebbe inferire che fosse ben poca nel Nunzio la conoscenza del dritto e la pratica del tribunale, mentre pure ne presedeva uno e di non poco rilievo. Poichè se la Curia Arcivescovile ne' casi importanti doveva ottenere licenza da Roma per amministrare la tortura durante il processo informativo, senza dare all'inquisito la copia degl'indizii, ciò accadeva perché ne' casi importanti la Curia Romana voleva essere intesa di tutto, e dirigere essa medesima il processo in ogni sua parte. D'altronde l'amministrare la tortura durante il processo informativo non era un uso particolare di Napoli, bensì un principio riconosciuto da tutti i Giuristi, ogni qual volta si trattasse di casi gravissimi e specialmente di lesa Maestà. Adunque la tortura dimandata dal fiscale, nel caso del Campanella, non usciva da' limiti del dritto e delle facoltà date dal Papa a' Giudici col suo Breve, essendovi tra le altre quella di poter sottoporre gl'inquisiti "alla tortura ed altri tormenti giusta le disposizioni del dritto". Non potendosi ammettere nel Nunzio tanta ignoranza del dritto, bisogna piuttosto conchiudere che egli abbia voluto dar prova di saper sostenere la superiorità ecclesiastica, mostrando che in tutto si doveva dipendere da Roma; e con ciò non giovava alla causa del Campanella e socii, ma la danneggiava senza dubbio, poichè rinfocolava la sorda diffidenza della Corte di Napoli verso quella di Roma nella faccenda de' frati. Bisogna tener presenti queste cose, poichè esse influirono certamente sulla condotta ulteriore del Governo Vicereale. - La richiesta della nuova facoltà per dare la tortura al Campanella fu subito fatta dal Nunzio, mediante una staffetta spedita dal Vicerè, e si ebbe cura di farla in modo da comprendervi anche gli altri, che il Nunzio in una sua lettera di sollecitazione, in data del 4 febbraio, qualificava "inditiati per non dir convinti". Naturalmente la richiesta venne accordata senza la menoma difficoltà, trattandosi di una quistione di forma, non di sostanza; ma la lettera che l'accordava si fece attendere alcuni giorni.

Intanto il tribunale non perdeva tempo. Dopo l'esame e le confronte suddette del Campanella, immediatamente dopo, si venne all'esame di fra Dionisio, come si rileva dal trovare la deposizione di costui, negli Atti conservati in Firenze, notata col fol. 12 del volume(72): anche di essa per altro quegli Atti non dànno che la semplice menzione, e certamente perché risultò del pari negativa. Se non c'è una lacuna, del resto poco notevole, nelle notizie dei folii del volume, dopo fra Dionisio fu esaminato fra Gio. Battista di Pizzoni. Dichiarazioni fatte più tardi nel processo di eresia massime da fra Dionisio(73), quindi ripetute dal Campanella nelle sue Difese(74) e poi ancora nella Narrazione, tenderebbero a far credere che le cose fossero passate nel modo seguente. Il Pizzoni dapprima si ritrattò, onde fu posto in una fossa, dove col carbone scrisse sul muro il suo nome aggiungendovi "positus ut dicat mendacium ad instantiam fiscalium"; ma il Lauriana dalle carceri del civile, dietro il consiglio di un dottore Domenico Monaco, che là si trovava e che aveva consigliato lui stesso a non ritrattarsi perché sarebbe stato punito come falsario, potè con lo stesso argomento indurre il Pizzoni a revocare la ritrattazione; così uno o due giorni dopo costui dimandò di essere udito di nuovo e revocò quanto avea dapprima ritrattato. Di tutto questo non si ha veramente notizia negli Atti sopra citati; solo vi si trova l'esame del Pizzoni qualificato "deposizione ultima di fra Gio. Battista che accetta quella fatta innanzi al Vescovo di Gerace", e da ciò potrebbe desumersi che le suddette dichiarazioni esprimessero il vero. Ma dobbiamo notare che possediamo tale deposizione di fra Gio. Battista integralmente riportata nel processo di eresia, perocchè venne trasmessa in copia dall'uno all'altro tribunale, e non vi scorgiamo alcuno indizio di un esame anteriore che con essa il Pizzoni si facesse a revocare(75). La deposizione porta la data del 29 gennaio. I Giudici dimandano dapprima, "come si ritrova esso deposante carcerato in questo Regio Castello", ed egli dichiara come e quando e da chi venne carcerato in Calabria "acciò deponesse... contra fra Thomase Campanella et fra Dionisio Ponsio de le cose, che esso deposante havea denuntiato tanto al'Avvocato fiscale di Calavria in scritto quanto per lettre al Generale": poi, dietro altre dimande, dice di essere stato già esaminato dal Visitatore ed anche dal Vescovo di Gerace e si rimette a questi esami, spiega come non depose già per timore ed insiste ad atteggiarsi a denunziante, rettifica la parola "complici" che fu scritta nel suo esame a proposito degli altri frati da lui nominati, nega assolutamente di aver mai consentito alla ribellione, dicendo che piuttosto vorrebbe gli "fosse stata tagliata la lingua". Vedremo or ora che ben diversamente fu redatto il processo verbale dell'esame del Petrolo, il quale davvero prima si ritrattò e poi revocò la ritrattazione: ad ogni modo, la deposizione del Pizzoni che rimase e servì nello svolgimento ulteriore del processo fu quella sopradetta. - Non appena raccolta tale deposizione, fu immantinente chiamato il Campanella per fare la confronta, e come sempre era avvenuto, il Pizzoni disse che era vero quanto avea dichiarato nelle sue deposizioni contro di lui, e il Campanella disse che egli mentiva per la gola. Si passò allora alla confronta del Pizzoni con fra Dionisio; quindi si fece la confronta del Lauriana con lo stesso fra Dionisio, e il risultamento fu sempre identico, come si rileva dagli Atti che pubblichiamo tra i Documenti(76).

Nel giorno medesimo 29 gennaio si venne anche all'esame di fra Domenico Petrolo, e costui positivamente si ritrattò, ma poi revocò la ritrattazione aggravando fuor di misura la condizione del Campanella. Possediamo egualmente questi Atti nella loro integrità, giacchè vennero inserti in copia nel processo di eresia(77). I Giudici dimandarono, al solito, come e perché egli si trovasse carcerato, e il Petrolo rispose che credeva essere stato carcerato per deporre contro il Campanella: poi, dietro altre dimande, rispose di aver deposto che il Campanella volea ribellare la provincia di Calabria coll'aiuto de' turchi e de' fuorusciti, di averlo deposto a suggerimento di fra Cornelio, che lo persuase di dirlo per non essere maltrattato in Calabria e venir rimesso a' proprii superiori; quindi espose tutte le circostanze della sua fuga insieme col Campanella temendo che Maurizio volesse ammazzarlo, tutte le circostanze della loro cattura e carcerazione. Ma i Giudici gli obiettarono che avea deposto spontaneamente e poi avea ratificato la deposizione innanzi al Vescovo di Gerace, ed egli rispose che non avea ratificato nulla e che quanto avea deposto non era vero; infine gli dimandarono se era vero che avesse concertato col Campanella di ribellare la Calabria e farla repubblica, ed egli rispose, "non è vero, Giesù"! Si può ritenere per certo che i Giudici fecero allora porre il Petrolo nella fossa, onde egli ben presto si raccomandò al carceriere, dicendo che volea manifestare la verità. - Così nella seduta del 31 gennaio il Petrolo fu sottoposto a un nuovo esame; e nel processo verbale trovasi consacrato che, essendo venuti i Giudici, il carceriere fece loro intendere il desiderio del Petrolo, e che costui tradotto nel luogo dell'Audienza ed interrogato se volesse manifestare la verità come avea dichiarato, disse di avere negato il primo esame per le minacce fattegli dal Campanella a nome suo ed anche a nome di fra Dionisio in più circostanze. E cominciò dal riferire i motti latini scambiati tra il Campanella e lui durante il tragitto da Squillace a Gerace, la cartolina mandatagli dal Campanella appunto in Gerace, l'ambasciata fattagli a Monteleone per mezzo del Pisano, le parole direttegli in Napoli dalla finestra del carcere; inoltre riferì le sollecitazioni avute perché deponesse falsamente contro Mesuraca, il Principe della Roccella e Giulio Contestabile, e concluse che dubitando di poterne aver danno si era ritrattato. Lettogli quindi il primo esame, lo confermò, rettificando ed aggiungendo qualche cosa pur sempre a carico del Campanella ed a scusa propria. Così disse che solo il Campanella gli avea manifestato più liberamente doversi far ribellare Catanzaro, ma "lo dì prima della cattura"; che poi "alla Roccella" gli avea manifestato aver lui, il Campanella, questi pensieri nello stomaco da tredici anni e fin d'allora averli comunicati a fra Dionisio, avere inoltre mandato fra Dionisio alla Piana per mettere in ordine la gente e i fuorusciti, infine venire per lui trenta vascelli turchi dietro le trattative fatte da Maurizio, con altre circostanze relative a' fatti e detti di que' giorni. Interrogato aggiunse pure che il Campanella avea detto bastargli essere amico di Maurizio perché i turchi non lo facessero schiavo; ed aggiunse inoltre spontaneamente, che una volta in Stilo essendosi il Campanella vantato di aver fatto nominare dodici Vescovi, ed avendogli lui detto "piacesse a Dio che tu fossi fatto Cardinale per fare bene a noi altri", il Campanella avea risposto, "io Cardinale? io voglio fare altri Cardinali, et non aspettare che me faccino à me". Fu questa la deposizione ultima del Petrolo, la quale, come ben si vede, riassumeva in brevissimi tratti perfino la storia de' disegni del Campanella, senza tralasciare nemmeno di far capire l'altissimo grado che egli si riserbava nel nuovo Stato da doversi fondare: e comparando i fatti accennati dal Petrolo con quanto sappiamo da tutti gli altri fonti, tenendo presente l'indole stessa del Petrolo, si può conchiudere che egli non abbia mentito, eccettochè nell'asserire di aver ben conosciuti i disegni della congiura solamente negli ultimi giorni e alla Roccella. Pertanto i Giudici fecero subito una confronta del Petrolo col Campanella, come si rileva da' soliti Atti, ne' quali la "deposizione" o "seconda deposizione" del Petrolo trovasi notata co' fol. 18 a 20, e la confronta col fol. 21(78). Si ebbe così la nona ed ultima confronta in persona del Campanella, e non sarà strano l'ammettere che il risultamento di essa sia stato pur sempre identico a quello delle altre.

Molto probabilmente allora appunto, il 31 gennaio, essendosi mostrato negativo con tanta ostinazione, il Campanella venne rinchiuso a sua volta nella fossa, donde non fu tratto che per essere sottoposto alla tortura: e veramente, nella sua Narrazione, il Campanella ne parla come di un fatto avvenuto dopo le confronte di Maurizio non solo con lui ma anche con fra Dionisio, ciò che sappiamo essere avvenuto immediatamente dopo la confronta sua col Petrolo. Ecco in che modo egli racconta il fatto. "Per questo il Sances credendosi haver trionfato di tutta la causa, pose il Campanella dentro la fossa del niglio in Castelnovo, che và quasi sotto mare, oscurissima humidissima dicendoli e facendoli dire che senza altro havea a morire e li davan de mangiar malamente solo una volta il giorno, stava con li ferri alle gambe, dormia in terra; e li vennero flussi di sangue. E così infermo poi lo posero nel tormento". Non stentiamo a credere che la fossa in cui venne posto il Campanella sia stata la più terribile, detta del coccodrillo, ovvero anche del miglio, non niglio come si legge nella Narrazione(79). La menzione di questa fossa risale al tempo degli Aragonesi e vedesi continuata fino a' giorni nostri, senza per altro poter dire dove essa sia veramente stata, giacchè parrebbe essersi successivamente così chiamata ogni fossa molto profonda e quasi del tutto oscura; notiamo solamente esser probabile che il livello sottomarino di detta fossa sia stato asserito dietro la nozione della profondità dell'intero fossato, dove ne' primi tempi, come abbiamo accennato in altro luogo, potevasi immettere l'acqua del mare. Vedremo che il Campanella vi rimase solo per una settimana.

Intanto si fece ancora qualche confronta e segnatamente quella di Maurizio con fra Dionisio: subito dopo si esaminò pure il Bitonto, e non può esser dubbio che risultò parimente negativo; quindi si passò a fra Paolo della Grotteria, intorno al quale sappiamo di certo che negò ogni cosa(80). Non apparisce poi che siano stati esaminati né fra Pietro di Stilo né fra Pietro Ponzio: ne' Riassunti degl'indizii compilati contro di essi, come contro diversi altri, non è ricordata una loro deposizione in qualunque senso, a differenza di quanto si vede per quelli sopra nominati e per qualche altro ancora. Apparisce invece essere stato esaminato fra Scipione Politi, il quale disse che avea conosciuto il Campanella, e che nel gennaio 99 lo andò a visitare per averne una lettera in favore di un suo parente, e poi, essendo l'ora molto tarda, rimase a dormire con lui; che più volte andò a visitarlo di nuovo per parlargli di cose letterarie, ma non gli riuscì possibile per le molte persone che si trattenevano con lui, "et precise quando stava con Gio. Gregorio Prestinaci, et Gio. Jacovo Sabinis, si ponea à ragionare con quelli et lasciava tutti". Aggiunse che dopo la venuta di Carlo Spinelli si era detto "che lo fra Tomase, fra Dionisio, Mauritio et altri forasciti trattavano di dare, primo si disse, in poter del Papa questo Regno, et poi si disse che lo volevano dare in mano deli Turchi, et l'hà inteso generalmente, ma dopò che fu carcerato frà Tomase, l'intese dire questo dal Capitan Francesco Plotino, et si dicea, che Mauritio havea trattato con li Turchi et fra Dionisio ancora, et frà Tomase con altre persune et forasciti seu delinquenti"(81). Così questo fra Scipione, già intimo del Campanella, se la cavò felicemente, e non può dirsi che il tribunale sia stato severo con lui.

Ma dobbiamo tornare a Maurizio, il quale aveva esaurito il còmpito per cui era stato fin allora serbato in vita, onde non si tardò a farne l'esecuzione. La confronta con fra Dionisio fu l'ultimo atto giudiziario certo della sua vita. Il Campanella, nella Narrazione, scrisse pure che "lo portaro... a conurtar F. Pietro di Stilo prelato del Campanella che confessasse per salvarsi come lui havea fatto, e poi fatto questo officio iniquo, mandò il carcerere Alonso de Martinez, et Onofrio a dir al Gesuino, che l'osservasse la parola: el Gesuino rispose, che non si osserva palabra con ladrones, e fu appiccato con perdita del corpo et dell'anima". Lasciamo da parte queste ultime asserzioni, che vedremo bilanciate da altre diametralmente opposte, e che ad ogni modo rappresentano la continuazione del disgustoso atteggiamento preso dal Campanella verso Maurizio. Quanto all'incarico che gli avrebbero dato di esortare fra Pietro di Stilo, il fatto non può recare sorpresa, visto lo zelo religioso eccitato in Maurizio, che era anche parente di fra Pietro; ma è singolare che non se ne trovi qualche traccia nel processo di eresia, dove gl'incidenti della causa sogliono trovarsi menzionati in gran numero. Vedremo per altro che qualche poesia del Campanella si spiegherebbe ottimamente con questo fatto, e del pari con esso può spiegarsi in gran parte il non essere stato poi fra Pietro nemmeno chiamato all'esame: conoscevano che sarebbe risultato ostinatamente negativo, e gli esami negativi non tornavano convenienti, poichè gl'indizii raccolti a carico degl'inquisiti principali ne rimanevano sempre alquanto vulnerati.

Il 3 febbraio era già avvenuto il passaggio di Maurizio dalle carceri del Castello a quelle della Vicaria, e le scritture di S.to Officio ce lo mostrano appunto a quella data, come già il Pisano, innanzi a' Delegati della Curia Arcivescovile, che questa volta furono i Rev.di Orazio Venezia e Curzio Palumbo Consultori e Marco Antonio Genovese Avvocato fiscale, riuniti nell'Audienza criminale della Vicaria. Non bisogna credere che simiglianti ricorsi al S.to Officio, in punto di morte, si fossero verificati soltanto in persona dei condannati per la causa presente: era un uso molto comune a quei tempi, spesso verificatosi senz'altro motivo che quello di ritardare per qualche giorno l'esecuzione. Tra le carte venute nelle nostre mani abbiamo p. es. due lettere del Card.l di S.ta Severina, che trattano delle deposizioni di uno Scipione Prestinace egualmente di Stilo, celebre bandito menzionato in qualche documento del Grande Archivio(82) e decapitato il 17 febbraio 1597, il quale avea dimandato ed ottenuto di confessare al S.to Officio: e vedremo pure Felice Gagliardo, sul punto di essere giustiziato più tardi per delitto comune, fare una lunga deposizione innanzi a quel tribunale. Relativamente a Maurizio non si potrebbe supporre il motivo sopra indicato, giacchè l'esecuzione sua era stata già differita anche troppo; oltracciò non lo troviamo a rivelare in S.to Officio il giorno medesimo dell'esecuzione, come abbiamo visto in persona di Cesare Pisano, ma mentre l'esecuzione era stabilita pel 4 febbraio, egli il giorno precedente trovavasi innanzi agli ufficiali della Curia Arcivescovile da lui richiesti pur sempre con la clausola "a scarico della mia conscientia secondo me hà imposto il mio padre spirituale"(83). Ed ecco in breve quanto, giusta lo stile del S.to Officio, egli "denunziò" contro il Campanella e fra Dionisio: gioverà conoscere il complesso delle sue rivelazioni, anche a costo di annoiarsi trovando una ripetizione di cose già narrate. In primo luogo depose che presso D. Gio. Jacobo Sabinis il Campanella avea detto essere stato Cristo un grande uomo da bene, ed aveva anche detto bene de' turchi (allora era di obbligo dirne male), ond'egli poi in Castello ebbe ad avvertirlo che stava scandalizzato di quelle parole, e fra Tommaso gli rispose che lui non conosceva bene li negozii. Dippiù, che pure nella stessa data, "con occasione della guerra che voleva cominciare, ò fattione che voleva fare contra il Re", fra Tommaso disse che voleva "fare brusciare tutti li libri latini perche era un inbrogliare le gente", senza precisare quali libri e senza scovrirsi molto con lui per cose di religione, giacchè egli era stato sempre saldo nelle cose della fede, "anzi chiarì al detto frà Thomaso che di queste cose di religione non bisognava trattarne, perche non ci haveria mai consentito", e fra Tommaso rispose che egli voleva solamente riformare gli abusi della religione. Inoltre che avea saputo da Gio. Gregorio Prestinace volere il Campanella "fare una republica dove si havesse da vivere in commune", ciò che fra Tommaso medesimo gli confermò, dicendogli "che la generatione humana si dovea fare dagli huomini buoni" cioè gagliardi e valorosi, e che "con la medesima occasione della guerra... voleva aprire li sette sigilli", ricordando che in Calabria dicevasi pubblicamente "che la scientia di detto frà thomaso sia del demonio ò di Iddio, perche ogn'uno che parla con esso lo ritira dove vole esso con la scientia è con la persuasione sua". Aggiunse pure infine, che intese da fra Tommaso "come quando voleva fare le guerre haveria fatto deli miracoli, et mostrato con la scientia è raggione che quello che mostrava esso era ben fatto". Relativamente poi a fra Dionisio, dichiarò che costui aveva una volta raccontato il solito fatto osceno in dispregio dell'ostia consacrata, ed anche l'annegamento di quel sacerdote che a tempo dell'inondazione del Tevere volea salvare il SS. Sacramento; che un'altra volta, stando lui, Maurizio, inginocchiato nella chiesa del convento, fra Dionisio gli disse che così voleva gli uomini, che sapessero fingere; e un'altra volta, stando a desinare, fra Dionisio, ovvero fra Tommaso, avea detto che i Cardinali non digiunavano, e le riforme si facevano per tutti ma non per loro. Aggiunse, dietro domanda di rivelare i complici, che ricordava solo di avere inteso dal Vitale suo cognato, giustiziato in mare, che fra Dionisio, avendo celebrato la messa in Nardò dentro la sua cella, gittò a terra l'ostia, né credeva a Cristo, né alla verginità di Maria. Da ultimo, interrogato se avesse deposto per odio, per inimicizia o per passione, egli appunto allora ricordò che non avea mai rivelato nulla contro quei frati, malgrado ripetute torture, e malgrado sapesse che fra Tommaso si era esaminato contro di lui, né aveva poi detta la verità per altro, se non perché il suo confessore della Compagnia de' Bianchi lo aveva consigliato a farlo per obbligo di coscienza. - Così, in fondo, non si ebbero rivelazioni nuove o numerose di Maurizio, il quale non potea nemmeno ignorare che vi erano state anche troppe rivelazioni di eresia, o per debolezza, o per artificio, allo scopo di passare alla Curia ecclesiastica: né vi fu bisogno per lui di assoluzione e di abiura, poichè egli non era imputabile in siffatta materia. Ma l'importanza delle dette rivelazioni per noi sta in questo, che esse dànno una notevole impronta di autenticità a' tratti principali dei disegni del Campanella e delle riforme politiche e religiose da lui progettate, come anche alla via seguìta da fra Dionisio in questa faccenda; poichè, quasi non occorre dirlo, noi crediamo pienamente sincere quelle rivelazioni, senza alcuna riserva, e però siamo stati anche solleciti di riferirle con le parole testuali. In un momento supremo, quando ogni speranza di salvar la vita, se mai ve n'era stata, avea dovuto rimanere del tutto spenta, vedere Maurizio non già ritrattare le confessioni fatte nel tribunale, ma aggiungere rivelazioni in termini tali da suggellarle, è certamente un fatto di suprema importanza; né cesseremo dal dire egualmente da questo lato, che la condotta di Maurizio si può giudicare inaccettabile ma non mai indegna di rispetto, e chi volesse ad ogni modo biasimarla dovrebbe rivolgere i suoi biasimi piuttosto a coloro i quali abusarono di quell'anima tutta imbevuta della fede in cui era stata educata. Ci rimane intanto una somma di notizie in tal guisa raccolte, che non ammettono dubbio.

Il giorno seguente, 4 febbraio, con lo stesso corteggio della prima volta, Maurizio venne condotto al patibolo, e di rimpetto al torrione del Castel nuovo, dal quale i suoi compagni di sventura poteano vederlo, lasciò miseramente la vita col capestro a soli 28 anni. Il Registro de' Bianchi lo ricorda in questi termini: "A dì 4 di febraro Venerdì 1600, per ordine di S. Ecc.a fù giustitia di Mauritio Rinaldi de Guardavalle appresso Stilo, lascia una figliuola d'anni tre, nomine Costanza in potere de sua matre nomine Giulia Vitale; et una sorella d'anni 30 vidua nomine Costanza. Ve intervennero" etc. Il Campanella, nell'Informazione, scrisse che "li fecero perder l'anima e 'l corpo, e non li donaro tempo di ritrattarsi se non alli confrati": bisogna dire che egli non abbia conosciuto nulla delle rivelazioni fatte in S.to Officio, e poi sappiamo oggi ciò che avvenne presso i confrati; se mai vi fossero state discolpe, nel Registro de' confrati si leggerebbero come si leggono quelle del Pisano. - Dobbiamo aggiungere che il Residente Veneto, l'8 febbraio, riferiva l'avvenimento al suo Governo con qualche altra circostanza degna di nota e ne' termini più lusinghieri per Maurizio; non possiamo dispensarci dall'esporre qui il suo dispaccio e tutto intero, senza rimandare i lettori a' Documenti. "Quel Mauritio Rinaldi doppo haver ratificato alla presentia de i frati autori della ribellione tutte le cose fra loro accordate in Calavria, propose da sè stesso di lasciarle comprobate senza più dilatione con la sua morte perche non habbia loro à restar più speranza di poterle negar nei tormenti; con che finì la vita nel luogo et modo istesso dove anco la prima volta era stato condotto pubblicamente. Le attioni fatte da costui, et vivendo, et morendo sono generalmente stimate di tanto momento che da esse si possa far giudicio qual fossero stati i suoi progressi se fosse riuscito l'effetto della congiura. Et havendo colla volontaria revellatione, per solo zelo dell'anima sua, mosso l'animo del V. Re, non parendo a S. Ecc.za in caso di M.tà lesa di dover permutargli la pena della vita, hà fatto, con atto magnanimo, che la facoltà sua, già per la sententia confiscata, sia hora divisa in tre parti, una delle quali sia data per Dio, et una alla madre, et l'altra ad una figliuola nubile di esso infelice, con la qual gratia gli è parso morendo rinascere al mantenimento di persone a lui tanto congiunte". Una testimonianza del tutto disinteressata, come questa del Residente Veneto, su fatti avvenuti in Napoli, regge assai bene a fronte delle molte, delle troppe affermazioni vituperose del Campanella verso Maurizio. Forse, come tanto spesso, non tutte le circostanze da lui riferite debbono ritenersi esatte. Verosimilmente non sarà esatto che Maurizio abbia proposto di voler comprovare con la sua morte le cose da lui rivelate a carico de' frati, giacchè per lo meno questo non era punto necessario; del pari non sarà forse esatto che egli abbia saputo in precedenza, con sua letizia, la revoca almeno parziale della confisca de' suoi beni, non essendo facilmente ammessibile un così pronto senso di pietà Vicereale verso un ribelle. Possiamo ritenere che la confisca non abbia avuto effetto, e forse per questo motivo son riuscite vane finora tutte le nostre ricerche nell'Archivio di Stato su tale argomento: vi era l'interesse di "Dio", cioè de' monasteri, a' quali con siffatto titolo tanto indegnamente adoperato si prodigava la roba altrui, e vi era anche il gusto Vicereale di mostrarsi in gara di commozione ne' casi di coscienza commossa. Ma ci basta sapere che i contemporanei giudicarono Maurizio ben diversamente da quanto il Campanella ci lasciò scritto, e crediamo che oramai il nome di Maurizio debba registrarsi nel martirologio italiano, dandogli lo splendido posto che gli compete.

Continuava intanto nel tribunale lo svolgimento delle prove a carico di fra Dionisio. Furono esaminati Mario Flaccavento e Gio. Battista Sanseverino, i quali confermarono di essere stati da lui sollecitati a prender parte nella congiura. Anche Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia fecero la confronta con fra Dionisio; e forse si udì pure qualche altro contro di lui, giacchè si nota a questo punto una piccola lacuna nella numerazione de' folii del volume(84). - Ma giunse finalmente da Roma la lettera che dava licenza di amministrare la tortura al Campanella e agli altri indiziati. Il Nunzio si affrettò a comunicarla al Vicerè, e dovè pure esser subito emanato dal tribunale il decreto per l'esecuzione. Questa lettera è menzionata in un'altra posteriore del Nunzio(85), e non si trova nel Carteggio, sicuramente perché venne inserta nel processo, come allora solevasi fare.

Il 7 febbraio 1600 venne amministrata la tortura al povero Campanella, e la specie prescelta fu quella così detta del polledro. Ciò rilevasi da un documento trasmesso dall'uno all'altro tribunale ed inserto nel processo di eresia, il quale comincia così: "à tempo si dede lo polletro à fra thomase campanella ali 7 di febraro" etc.(86). Di questa specie di tortura, tutta napoletana, non ci è costato poco il rinvenire i particolari; e li abbiamo finalmente rinvenuti in un trattato di Medicina legale intitolato Il Medico fiscale di Orazio Greco fisico della Gran Corte della Vicaria, trattato totalmente ignoto agli Storici dell'arte, essendo stato annesso ad un'opera legale(87). Il concetto del polledro apparisce preso da quel chiuso fatto con barre di legno che adoperavasi per fermare i polledri indomiti, attaccandone gli arti alle barre mediante funicelle. Non era un tormento comune: usavasi in casi d'importanza, ed il Greco, che scriveva oltre un secolo dopo il tempo di cui trattiamo, accertò che "sin dalle popolari revolutioni (int. quelle di Masaniello) non si era più pratticato". Il paziente veniva situato come in una cornice di legno a modo di scala piramidale, munita di traverse tagliate ad angolo acuto per cruciare tutta la parte posteriore del corpo, dalla nuca a' talloni: il capo era incassato come in una cuffia di legno nella quale la scala terminava; un foro si trovava nella parte posterior-superiore della cuffia, e fori analoghi si trovavano lungo gli assi della scala, per far passare gli estremi di tante funicelle che doveano stringere il capo e gli arti in più punti. Oltre due funicelle fortemente applicate a' polsi per tenerli uniti insieme, un'altra ne era applicata alla fronte, due alle braccia, otto alle cosce e gambe; in tutto 13 funicelle, i cui estremi passati pe' fori suddetti erano ritorti mediante bastoncelli di legno, così che le carni venivano strette sulle ossa; e perché gli arti inferiori non si allontanassero tra loro, una funicella supplementare era passata intorno agli alluci. Del resto il Greco ebbe cura di darcene un disegno, e noi abbiamo creduto che valesse la pena di riprodurlo, per avere una nozione più chiara di tale tormento, e così intendere ciò che il disgraziato filosofo ne disse nella sua Narrazione(88). Il Campanella dovè essere tratto dalla fossa del miglio per avere questa tortura, e però può contarsi che venne a dimorare nella fossa sette giorni. Un primo fatto da essere notato nella sua tortura fu questo, che mentre veniva spogliato gli cadde una carta contenente la relazione dell'esame del Lauriana, che costui gli avea scritta, e D. Giovanni Sances la lesse, e il Campanella gli disse che quella carta volea presentarla; D. Giovanni affermò che l'avrebbe presentata egli medesimo, ed allora il Campanella gli consegnò pure una o due cartoline scrittegli dal Pizzoni, dicendo che le presentasse egualmente. Queste cose furono poi da fra Dionisio riferite al Vescovo di Termoli, Giudice nel tribunale dell'eresia, il quale volle da lui una relazione su' documenti attestanti la corrispondenza passata tra il Pizzoni e il Campanella; ed il Vescovo, avutane notizia, fece richiesta de' detti documenti al tribunale della congiura, ed in tal guisa se ne trova una copia nel processo di eresia. Ma notiamo che si ebbe la copia di una sola delle cartoline che sarebbero state scritte dal Pizzoni, oltre la carta che sarebbe stata scritta dal Lauriana: e la cartolina reca la semplice assicurazione che egli non avea detto né direbbe mai essere que' tali Signori (certamente i Del Tufo, Orsini, Sangro etc.) fautori del preteso delitto, ma amici della persona e delle opere di lui; la carta poi reca veramente l'esame del Lauriana innanzi al Visitatore e a fra Cornelio, scritto abbastanza fedelmente, e con ogni probabilità secondo la vera maniera d'interrogare tenuta dagl'Inquisitori(89).

Questa prima tortura data al Campanella non durò molto. Egli non resse allo strazio, dichiarò di voler confessare e fece una lunga confessione, tanto lunga da occupare due sedute in due giorni diversi: dovè quindi esser posto due volte nel tormento del polledro con la solita formola "continuando et non iterando" per mantenere gli effetti legali di una confessione "in tormentis"; così possiamo spiegarci il trovarsi in una Lettera del Campanella al Papa il 1607, da noi pubblicata, la menzione di "dui polledri", e in uno de' brani della sua confessione pervenuti fino a noi la circostanza espressa con le parole "come disse l'altro dì"(90). In fondo nella sua confessione il Campanella ammise che aveva avuto il progetto di fare la repubblica e che doveva con altri suoi compagni predicarla, ma solo nel caso in cui fossero accadute le mutazioni da lui previste, al quale proposito espose quanto avea raccolto ne' suoi profetali; inoltre sostenne che avea consigliato di ricorrere alle armi ma per difendersi, e rigettò poi sempre su Maurizio le trattative fatte col Turco. Ma un momento di tanta importanza merita bene di essere esposto con tutta la possibile larghezza. Vediamo dapprima ciò che ne disse egli medesimo nella sua Narrazione, avvertendo che egli pone in molto rilievo l'infermità contratta nella fossa del miglio e qualche altro suo incomodo, certamente perché dovea sentirsi umiliato dal fatto dell'avere lui solo confessato, mentre tutti gli altri ecclesiastici, che vennero dopo di lui egualmente tormentati, non confessarono nulla, o non aggiunsero nulla a quanto aveano già detto. "E così infermo lo posero nel tormento del polledro senza lasciar che andasse prima del corpo... Il Campanella antevidendo, che era forzato morire, tanto più che il Sances disse al boja che lo tormentasse a morte e fù stretto con le funi al polledro con tanta strittura, che si rompevano tutte, e subito le raddoppiava: et il dolor cresceva tanto horrendamente che lo fecero spasmare, et uscir di cervello: per questo, secondo havea previsto, conoscendo che di certo moria se non diceva; però per dar tempo disse, che volea confessare. E perché il Sances e li giudici non sapeano di Theologia et Astrologia li levò dalla legge a queste altre scienze con arte; dicendo ch'era vero, che lui predicò che si dovea mutar il mondo, el regno, et che s'havea a far una repubblica nova universale secondo molte revelationi di Santi e d'Astrologi, e che quando questo fosse succeduto, lui voleva predicarla e farla, e che sendo dimandato da molti disse a quelli, che attendessero all'armi, perché occorrendo mutatione fatale da qualsivoglia banda si difendessero, e facessero la repubblica antevista nell'Apocalissi di S. Giovanni e nominò molti che consentiano a questo parere. Ma però non confessò heresia alcuna né ribellione né voluntà di ribellare. Anzi dice nella sua confessione, ch'interrogato da Mauritio come potea far questo, li rispose, che essi non havean d'assaltar il regno; ma con questa conditionale se venia mutatione, volean far la repubblica nelle montagne difendendosi come li Spagnoli nelle montagne quando entraro li Mori. E parlava in tal modo che li giudici si credeano che confessava, e che solo negava la prattica con Turchi, la quale nega espressamente, e dice haver ripreso Mauritio perche era andato su le galere d'Amurat. E perche essi giudici non sanno quel che dice Arquàto Astrologo, et Scaligero, et Cardàno, e Ticòne e Gemma Frisio et altri Astrologi della mutatione instante al secol nostro: né quel che dicon li Santi Caterina, Brigida, Vincenzo, Dionisio Cartusiano... pensare che queste profezie fossero finte dal Campanella per tirar la gente a ribellare, e ch'erano false; e si contentaro di tal confessione, sperando anche che poi nel tribunal del S. Officio confessasse che quella republica che dicea voler fare havea d'esser heretica: e così saria stato brugiato". In verità i Giudici della tentata ribellione non aveano alcun motivo di preoccuparsi della qualità eretica della repubblica voluta dal Campanella, qualità che si sarebbe dimostrata più tardi in un altro tribunale. Bastava loro che venisse da lui confessato il trattato di far repubblica, per ritenerlo un reo confesso con tutte le terribili conseguenze legali; e non importava neanche troppo se per tale repubblica avessero dovuto aversi o no certe condizioni, se avessero dovuto usarsi le armi in difesa ovvero in offesa, se avessero dovuto esservi gli aiuti de' potentati esterni e segnatamente del Turco, da qualunque de' complici invocato. Le conseguenze legali non variavano punto per tutto ciò, e tale fu infatti l'opinione che ne portarono i Giudici; lo rileviamo benissimo da una lettera del Nunzio, in data 11 febbraio. "Nella causa della ribellione finalmente con poco tormento, per vigor della facoltà venuta et per la sua (int. la lettera del Card.l S. Giorgio) de' 24 del passato, che comunicai subito con S. E., si cavò da quel Campanella tutto il fatto come era passato, se bene non hà mai voluto chiamarlo ribellione ma detto che voleva far Repubblica la provincia di Calabria per mezo delle Armi e delle Prediche, quando però seguissino i garbugli in Italia, che lui si era presupposto, et intanto andava disponendo gli animi et procurando seguito; il trattar col Turco dice che fù concetto di quel Mauritio di Rinaldo, che poi hanno fatto appiccare, non di meno il negotio resta di maniera scoperto che non par che possa haver difesa, alla qual cosa se gli è di già dato il termine, e la commodità, et intanto si seguirà contra complici ch'egli hà nominato, con i quali si terrà il medesimo modo che si è tenuto con seco, poichè è riuscito bene". Vedesi qui manifestamente che neppure il Nunzio diede alcuna importanza a' Profetali esposti dal Campanella in rapporto al disegno della repubblica da lui concepito e promosso, e ritenne puramente e semplicemente essersi avuta la confessione di una congiura o trattato di ribellione, per lo quale il Campanella era andato disponendo gli animi e procurando sèguito, né deve sfuggire che egli mostrò chiaro qual fosse l'animo suo, ed anche l'animo della Curia alla quale scriveva e doveva ingegnarsi di dar buone notizie, dicendo che il modo tenuto era riuscito bene, mentre il povero filosofo si era avviato all'estrema rovina. Da un lato solo l'esposizione de' Profetali dovè colpirlo ed incutergli anche un certo timore, dal lato della profonda erudizione e dottrina che il Campanella palesava; poichè nella stessa data egli si diè subito a chiedere al Card.l S. Giorgio ed anche al Card.l di S.ta Severina, per la prossima causa dell'eresia, l'intervento di "persone pratiche e buoni Theologhi per disputare con quel Campanella, che per haver abiurato altra volta, com'egli stesso dice, vorrà forse in questo dar che fare dinuovo", notando che aveva "umore in difendere le sue opinioni"(91). Da queste parole del Nunzio rimangono appieno giustificate quelle della Narrazione riferibili più direttamente a lui, che cioè "li giudici non sapeano di Theologia et Astrologia": e ci sembra conveniente aggiungere, che da quanto sappiamo dell'andamento della confessione potrebbero risultare giustificate anche certe parole del Giannone intorno alla medesima. Il Campanella ci lasciò scritto, e non stentiamo a crederlo, che gli orrendi spasimi lo fecero "uscir di cervello"; da parte sua, almeno nel 1° giorno, chi sa in qual modo il Mastrodatti potè seguirlo nelle considerazioni apocalittiche dettate con una inevitabile confusione; non può quindi sorprendere l'impressione avuta dal Giannone quando ebbe a leggere nella copia del processo "la sua lunga deposizione fatta nel mese di febbraio... nella quale (egli dice) a guisa di fanatico e di forsennato, sia per malizia, sia per lo terrore, ora affermando, ora negando, tutto s'intriga e s'inviluppa".

C'incombe pertanto l'obbligo di vedere più da vicino ed anche commentare sobriamente la confessione del Campanella, adunando i brani a noi pervenuti con gli Atti esistenti in Firenze, e riportandoli secondo il testo del sunto fattone dal Mastrodatti(92). Non si avrà l'intera confessione e tanto meno la precisa fisonomia di essa, ma se ne avranno i punti di maggior rilievo, pe' quali risulterà sempre più chiara la posizione derivatane a lui medesimo ed a' compagni suoi propriamente ecclesiastici. Notiamo innanzi tutto che ci mancano i brani relativi alle Profezie ed a' pronostici, i quali doveano verosimilmente occupare i fol. 28 e 29 del processo, ed abbiamo solamente alcuni di quelli compresi tra il fol. 30 e 34; essi cominciano dalla esposizione del partito che il Campanella intendeva trarre dagli avvenimenti previsti, e furono riferiti dal suo Avvocato nella Difesa. "Che soccedendono detti romori, et revolutioni, che lui per Profetie et altri segni prevedea, con detta occasione si volea forzare fare detta Provincia di Calabria Republica, che con pigliare li monti si hariano mantenuti, et con questo il Papa et Rè di Spagna li hariano lasciati vivere in Repubblica, Che dicendoli Mauritio che detta Republica non si possea fare senza aiuto di Potentati esterni, Lui rispose che non havevano d'assaltare il Regno, et per questo non haveano bisogno di potenza esterna; mà che con la mutatione del Regno, che havea da soccedere secondo havea trovato per Profetie, loro soli bastavano con l'eloquenza et con gl'amici. Che l'Imperio Torchesco s'havea da dividere in due parti, Et una saria stata da parte de Christiani, Et un'altra dalla parte Maumettana, et che di quella parte di Christiani se n'haveriano visto dove per fato inclinavano. Che havendoli ditto Mauritio, che lui era andato sopra le Galere Torchesche à parlare con Morat Rais, che l'havesse voluto dare aiuto in fare detta Republica, esso fra Thomaso lo riprese di questo, che non havea fatto bene, per che li turchi sempre sogliono essere infedeli et inimici. Che lui dicea che succedendono detti romori, et mutationi nel Regno, si seriano fatti grandi, ò della parte del papa, ò della parte del Rè. Che in detto anno del 600 havea da essere unum ovile et unus Pastor, et che lui con li compagni suoi Monaci con detta occasione haveriano predicato in favore di detta Republica profetizata in benefitio del Papa". Ma dovè nominare quelli co' quali egli avea fatti tali discorsi, in ispecie poi i frati compagni suoi che avrebbero predicato con lui, giacchè il tribunale doveva occuparsi appunto degli ecclesiastici; ed ecco nominati parecchi, e s'intende che a noi sono propriamente pervenuti i nomi degli ecclesiastici già carcerati. Forse si era al secondo giorno, ed egli avea dovuto riflettere a' casi suoi; ad ogni modo troviamo qui pure l'animo suo, come sempre, soggetto all'impeto de' risentimenti, malgrado la confusione suscitata dall'atrocità de' dolori. Scorgesi infatti senza riguardi verso il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo, che si erano da poco tempo confrontati con lui a suo danno, abbastanza riguardoso verso fra Dionisio e naturalmente anche più verso fra Pietro di Stilo, abbastanza riguardoso perfino verso Giulio Contestabile, al quale già prima in Calabria, per lo stesso motivo de' risentimenti, aveva usato tutt'altro che riguardi. "In interrogatione chi sono questi altri religiosi, che volevano agiutare col predicare et eloquentia in detta Republica et Novità? dice che era esso deposante, Fra Gio. Battista de Pizzoni, frà Dominico Petrolo, frà Silvestro de Lauriana, frà Dionisio Pontio, et frà Pietro de Stilo lo seppe all'ultimo quando stavamo per fugire, et non seppe manco tutto lo negotio, et non ci confidiamo comunicarli questo, per che era un pazzo"! Con questo titolo di pazzo, dato al più giudizioso della compagnia, evidentemente egli quasi venne a porre fra Pietro di Stilo fuori causa. Rispetto a fra Dionisio non potea fare altrettanto, e si limitò a dire che "era consapevole di quanto si trattava, et esso fra Dionisio havea trattato, et parlato di questo negotio di fare republica la provintia in genere con fra Gioseppo Yatrinoli et fra Gioseppo Bitonti, et con Cesare Pisano, li quali vennero una sera à Stilo, et la matina per tempo si partero et non li parlò". Rispetto al Pizzoni fu più largo ed anche molto ostile, a differenza di quanto avea fatto nella Dichiarazione scritta in Calabria. "La prima volta che esso frà Thomaso ne parlò con detto frà Gio. Battista fù l'anno passato del mese di Settembre 98 in Stilo, conferendo certe conclusioni che esso frà Gio. Battista havea da tenere nel capitolo". In dette conclusioni "trattò... de statu optimae Reipublicae, et dicendoci Io le legge di quella, Lui disse, volesse Dio, che si trovasse, ma è quella di Platone, che non si trovò mai, et Io le risposi che s'haverà da trovare questa republica innanzi la fine del mondo per compire li desiderij humani del secolo d'oro, et che così era profetato, et non se ne parlò più, et dopò à Giugnetto 99. venne fra Gio. Battista à Stilo, et per strada ragionammo, et li disse io tengo per fermo che l'anno 600 facendosi mutationi, ne haveriamo fatti grandi ò da la parte del Papa, ò da la parte del Rè, et lo frà Gio. Battista cominciò à dire venesse presto questa mutatione, finalmente disse che io volesse andare à Pizzoni à parlare con Claudio Crispo et animarlo con questa novità, che non pigliasse moglie. Et in conformità di questo quando frà Gio. Battista me disse che volea portare Claudio Crispo in Arena li persuadesse che non si maritasse, per che volea che ll'agiutasse à fare le sue vendette, et finalmente dopò d'essere andato à Pizzoni rechiesto da frà Gio. Battista, mi parlò Claudio, et ragionammo un giorno sopra l'astrolabio, acciò che con questa occasione havesse possuto subintrare a trattare con detto Claudio de la mutatione del mondo, et persuaderlo à volersi trovare pronto à la novità predetta, et à fare la Provintia di Calabria Republica, et in quella occasione havendosi aboccato esso deposante con Claudio Crispo presente fra Gio. Battista Pizzoni li dissi, che la fine del mondo era presta, et che innanzi à questo havea da essere una Republica la più mirabile del mondo, et che li monaci di san Domenico l'haveano da preparare secondo l'apocalissi, et che havea da cominciare dall'anno 600, et esso Claudio s'offerse stare in ordine, et se ricorda ancora esso deposante che in Arena li mostrò una lettra, à Claudio Crispo, et à fra Gio. Battista Pizzoni di Giulio Condestabile, dove l'avisava che Mauritio era andato sopra le galere in Costantinopoli (sic). Et dice de più che frà Gio. Battista Pizzoni, et Claudio Crispo mandorno à chiamare Eusebio Soldaniero da Serrata per frà Silvestro Lauriana, et non ci volse venire. A frà Silvestro Lauriana esso deposante non hà parlato di questo negotio, se non genericamente, dicendo, volesse Dio, che fusse tutto quello, che aspettamo, presupponendo, che lo sapesse per quanto frà Gio. Battista m'havea referito". Citò pertanto (e questo forse era un po' troppo) anche il Lauriana tra quelli "che volevano agiutare col predicare et eloquenza... con li quali da Pasqua di resurrettione dell'anno passato 99 in quà havea trattato di fare detta Republica, et mutatione". Rispetto al Petrolo dichiarò avergli "parlato à Stilo dicendoli che nell'anno 1600 havea da cominciare ad essere Unum ovile, et Unus Pastor, et che noi haveriamo predicato in favore di questa republica profetizata in beneficio del Papa, et che il Papa l'haveria esaltati perché loro si voleano pigliare alcuna parte della Provintia, et esso fra Domenico si ne contentava, et di questo ne hà parlato più volte, et esso fra Domenico era tutto cosa di esso deposante, et sempre lo hà sequitato, et cossì se offerse sequitarlo in questo". Onde lo citò egualmente tra' futuri predicatori, ed aggiunse che "con fra Domenico petruolo et fabritio Campanella andammo a Davoli, et trovò Mauritio che stava in casa di donno Marco antonio pittella, et per lettre Mauritio mandò a chiamare da Catanzaro Gio. thomase franza, et Gioan paulo de Cordoa". Infine rispetto a Giulio Contestabile confermò che era intervenuto al trattato, "quale si contentava trovarsici et era uno delli capi", aggiungendo ch'un giorno del mese di Maggio il detto Giulio steva in camera d'esso fra Tomaso, et dicea male del Capitano di Stilo ch'era spagnolo, et in questo il vento fe cascare in terra il ritratto del Rè nostro Sig.re, et detto Clerico Giulio uscendo la porta l'incontrò innanti, et lo calpestrò, dicendo, mira à che stamo soggetti, à uno sbarbato, Re dell'uccelli". Fu dunque il vento che fece cadere il ritratto del Re, e Giulio l'incontrò innanti e così ebbe a calpestarlo, non già che lo prese e se lo pose sotto i piedi, secondochè il Campanella medesimo avea dichiarato in Calabria: non è dubbio qui che il risentimento con Giulio Contestabile si era calmato, e il fatto di lui veniva attenuato; invece col Pizzoni, col Lauriana e col Petrolo, il risentimento era vivissimo, e i fatti occorsi con loro venivano aspramente asserti.

Da' suddetti brani, i soli che ne rimangono e così trivialmente redatti, possiamo rilevare che la confessione orale in tortura non suggellava soltanto la dichiarazione scritta, ma faceva anche emergere manifesto il disegno del Campanella di rendere il paese indipendente da Spagna e costituirlo in repubblica, essendone autore non altri che lui, ed avendolo ad istanza di lui accettato diversi frati che doveano d'accordo predicarlo, come pure diversi laici, specialmente fuorusciti, che doveano con le armi per lo meno sostenerlo. Vero è che tale disegno presentavasi subordinato alla condizione di future rivolte e mutazioni; ma questo importava poco, non potendosi ammettere nemmeno con riserva l'apostolato per una forma di Governo diversa da quella costituita, e tanto meno il preparativo dell'azione rappresentato dalle ricerche e concerti di persone che doveano promuovere quella forma di Governo con la parola e con le armi. D'altronde non appariva decifrabile per opera di chi sarebbero avvenute le rivolte e le mutazioni antivedute con le Profezie e co' segni astronomici, né in qual modo la detta repubblica dovesse riuscire tollerata dal Papa e dal Re, essendo stata profetizzata in beneficio del Papa; egualmente non appariva decifrabile che il Campanella, mentre non voleva l'aiuto de' turchi per la detta repubblica ed avea rimproverato Maurizio che si era spinto a chiederlo, ammettesse doversi una parte de' turchi porre dal lato dei Cristiani, ed avesse continuato a trattare con Maurizio il quale avea concordato l'aiuto de' turchi, e a confabulare con persone disposte o chiamate a fare delle armi un uso più spinto e più pronto. Con ciò manifestamente veniva confermato quanto il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo, oltrechè molti laici, aveano deposto contro di lui, quanto aveano denunziato Biblia e Lauro, potendo solo ammettersi che l'avessero denunziato con la più grande ed iniqua esagerazione. E veniva in pari tempo giustificato quanto il Governo avea detto e fatto sin allora, potendo solo ammettersi che avesse tollerato negli ufficiali suoi lo sfogo della loro ambizione e rapacità sulla povera Calabria, considerandola già ribellata, e però "macchiandola di falsa ribellione", come ebbe a scrivere il Campanella, e come si trova anche scritto, con le medesime parole, dal Residente Veneto, benchè, al pari di altri Agenti accreditati in Napoli, non avesse mai posto in dubbio la congiura o il tentativo di ribellione(93). - Al Campanella potè sembrare, come nella Narrazione ci lasciò scritto, che non avesse confessato "né ribellione né voluntà di ribellare" e che i Giudici "accortisi che la confessione era erronea, perché li altri non pigliassero la medesima fuga, non fecero ch'esso Campanella facesse la confronta a F. Dionisio, et a gli altri, come la facean fare da tutti l'altri che confessavano". Ma naturalmente i Giudici, per quanto videro chiara e limpida, e niente affatto erronea, la confessione di aver voluto ribellare, altrettanto videro oscura e misteriosa, ed al postutto indifferente, la condizione alla quale si diceva subordinata: né ebbero a temere che fra Dionisio e gli altri, con la confronta avrebbero pigliato "la medesima fuga", poichè non accordavano alcun valore a questa fuga, la quale, per essere stata così denominata dal nostro filosofo, dovrebbe tradursi sotterfugio, onde le profezie e le vedute astrologiche risulterebbero, se non finte, certamente evocate "per tirar la gente a ribellare". E conviene aggiungere che fu una buona fortuna pel Campanella il non essere stata ordinata dai Giudici la sua confronta con fra Dionisio e compagni, poichè null'altro poteva seguirne, se non che costoro sarebbero risultati convinti per opera sua; e fra Dionisio principalmente, che dovè senza dubbio irritarsi per la confessione del Campanella e ne vedremo una prova più in là, avrebbe ben a ragione finito con odiarlo a morte dopo una confronta. In conclusione non può recare maraviglia che i Commissarii Apostolici si fossero trovati d'accordo nel giudicare il Campanella "confesso"; in tal guisa egli trovasi qualificato negli Atti due volte, ed è superfluo dirne le conseguenze(94).

Secondo la procedura del tempo, in questi giudizii celeri, non appena esauriti per ciascuno inquisito tutti gli Atti informativi ed offensivi, fatta anche ratificare la confessione nel giorno seguente a quello della tortura allorchè essa era stata amministrata, i Giudici emanavano un decreto che ordinava la consegna di una copia degli Atti all'inquisito con la conclusione del Fiscale, assegnando un termine di pochi giorni per la difesa, ed all'occorrenza deputando anche un Avvocato di ufficio. Il Mastrodatti allora, che avea già preparato ogni cosa, trasmetteva in via legale la copia degli Atti, l'assegnazione del termine etc. all'inquisito, ed anche un Riassunto degl'indizii a' Giudici. L'Avvocato quindi ponevasi in relazione col giudicabile, scriveva l'Atto di difesa, che comunicava al tribunale nel termine stabilito, e poi attendeva la notificazione di un altro decreto ad dicendum per la trattazione della difesa, ciò che del resto importava solo la dimanda se avesse altro da aggiungere alla Difesa scritta. Debbono dunque riferirsi al tempo cui siamo giunti, alla 2a metà del mese di febbraio 1600 il Riassunto degl'indizii, alle prime settimane di marzo la Difesa scritta dall'Avvocato pel Campanella, ed anche la Replica scritta dal Fiscale, i quali Atti, come quelli analoghi successivamente compilati per gli altri incriminati ecclesiastici, rimasero nelle mani del Nunzio, e pervennero quindi con altre carte di lui nell'Archivio di Firenze(95). Riserbandoci di esporre a suo tempo gli Atti sopra menzionati, qui dobbiamo notare che al Campanella fu assegnato per difensore il dott.r Gio. Battista de Leonardis Regio Avvocato de' poveri, e da una poesia di fra Tommaso a lui diretta vedremo che costui ebbe l'incarico di difendere anche gli altri frati inquisiti. Allorchè il Vescovo di Termoli, uno de' Giudici dell'eresia, scrisse a Roma la sua opinione su questa causa della congiura, tra le altre cose fece conoscere che "non si trovò un dottore il quale avesse voluto scrivere in jure a loro favore"(96). Ciò deve intendersi nel senso che si cercò e non si trovò un Avvocato particolare, e con ogni probabilità il Vescovo intese parlare segnatamente di fra Dionisio, poichè il Campanella e gli altri non ne avrebbero avuto i mezzi; ad ogni modo poi l'Avvocato de' poveri non era una persona da nulla. Nato in Cicciano presso Nola, da umili origini, Gio. Battista de Leonardis si era dapprima mostrato uomo di lettere tale da venir chiamato ad insegnarle pubblicamente in Cosenza, dove cominciò anche l'esercizio dell'avvocatura; ridottosi poi in Napoli e studiato accuratamente il diritto, era già un dottore ben conosciuto, quando con Privilegio del 30 settembre 1599, visto e promulgato il 26 gennaio 1600, fu chiamato all'ufficio di Avvocato de' poveri della Vicaria in luogo di Antonio Catalano(97). - Ma nel medesimo tempo avvenne pure un altro fatto, che il Campanella ci fece conoscere nella sua Narrazione e che finora non ci risulta da verun altro fonte; sicchè gioverà tanto più esporlo qui con le parole medesime della Narrazione. "Però dandoli le difese poi al Campanella e l'Avvocato de' poveri...(98) il Sances Fiscale finse che per curiosità desiderava sapere in che profetie fondava questi suoi detti, e li fece scriver dal suo notario dettando il Campanella molti articoli profetali: li quali esso Sances portò a' Gesuini, et ad altri, e molti di quelli dissero, che Campanella havea ragione e che non eran finte per ribellare. Però li mandò molti Gesuini, e Theologi Spagnoli a disputare. Li quali si divisero, altri dicendo che diceva bene, altri che no. El Campanella allegò li predetti Santi, et Astrologi et il Cardinale anche Bellarmino. E poi disse, che quando pur fosser false le profezie sue, questa non era confessione di ribellare, ma di falsificar la Theologia, et appartiene al S. Officio, non a loro". Ci fermiamo a questo punto, non senza raccomandare a' lettori di percorrere tutto il resto che il Campanella narrò a tale proposito. E ripetiamo che non vi sono altre notizie capaci d'illustrare il fatto, ma dobbiamo ad ogni modo avvertire che questi Articoli profetali di cui qui si parla, dettati al notaro della causa della ribellione ad istanza del Sances, non debbono confondersi con quelli che il Campanella scrisse egli medesimo come una delle sue difese: noi li abbiamo trovati nel processo di eresia, presentati in giugno dell'anno seguente, e dovremo parlarne più in là.

Come abbiamo visto dalla lettera del Nunzio sopra riportata, l'11 febbraio già si era dato al Campanella "il termine e la commodità" per la difesa, e si era deciso di seguire con gli altri lo stesso metodo, cioè quello delle torture acri. Infatti può ritenersi con sicurezza che i fol. 35 e 36 del volume siano stati occupati dalla ratificazione della confessione del Campanella e dal decreto per l'assegno del termine e deputazione dell'Avvocato; ed ecco il fol. 37 occupato dall'Atto della tortura data a fra Dionisio(99). Il Riassunto degl'indizii contro costui ci dice che gli fu dato egualmente il polledro e non confessò nulla, e un brano di lettera del Vescovo di Termoli, inserto ne' Sommarii del processo di eresia, ci fa conoscere che "fu tormentato con 'l tormento del polledro, et delle 19 funicelle (sic) con le quali era tormentato 7 se ne ruppero nell'atto della tortura datali per ribellione"(100); vedremo nel medesimo processo che fino a tutto giugno egli non potè firmare gli Atti che lo riguardavano, e dovè segnarli portando la penna stretta tra' denti, giacchè i polsi torturati non si prestavano. Dopo fra Dionisio venne la volta del Pizzoni, il quale ebbe la corda aggravata da' funicelli per quasi due ore, e nemmeno confessò(101): come riferì lo stesso Vescovo di Termoli, "fù ligato con li funicelli e posto alla corda per la causa della ribellione et è restato stroppiato d'un brazzo"; infatti vedremo che una delle sue spalle non guarì mai più, e questa lesione l'avviò alla morte durante il processo di eresia. Nella stessa seduta, o in una seduta successiva, furono interrogati il Clerico Gio. Battista Cortese e il Sacerdote D. Andrea Milano, che si ricorderà essersi trovati nominati in una lettera di Claudio Crispo a Geronimo Camarda, la quale parlava della congiura e futura vittoria nel mese di settembre: non sappiamo ciò che essi risposero, ma possiamo ritenere per certo che non si passò oltre contro di loro. E si ripigliarono subito le torture col Petrolo, che ebbe la corda per due ore ed egualmente non confessò: sappiamo da lui medesimo la specie di tortura avuta, poichè quando l'ebbe di nuovo nel 1603 per l'eresia, rivolto al Nunzio esclamava, "hoggi fanno tre anni, e fù pur Sabbato come hoggi che hebbi un'altra volta la corda". Poi si venne a Giulio Contestabile che non era stato interrogato ancora, onde si raccolse la sua deposizione che riuscì negativa; e si passò al Bitonto e gli si diede la tortura "ad sciendum complices et fautores citra prejudicium probatorum", ed egli come tutti gli altri, ad eccezione del Campanella, non confessò, sicchè il metodo vantato dal Nunzio non riuscì. Possiamo affermare che non vi furono altre torture di frati, e però in conclusione l'ebbero solamente il Campanella e fra Dionisio mercè il polledro, il Pizzoni, il Petrolo e il Bitonto mercè la corda forse in tutti aggravata da' funicelli per due ore: questo risulta dal cenno fattone in coda a' rispettivi Riassunti degl'indizii che si conservano in Firenze; e dietro la scorta del medesimo fonte dobbiamo dire che per fra Paolo della Grotteria si procedè al solo interrogatorio, mentre pel Lauriana, per fra Pietro di Stilo e fra Pietro Ponzio non vi furono nemmeno altri interrogatorii, e si ritennero sufficienti quelli fatti da fra Marco e fra Cornelio e dal Vescovo di Gerace. - Immediatamente dopo il Bitonto ebbe la tortura anche Giulio Contestabile, per quasi due ore cum funiculis come dice il Riassunto degl'indizii compilato contro di lui, ed egli nemmeno confessò: naturalmente così a lui come a tutti gli altri, mano mano che si esaurivano gli Atti offensivi, era decretata la consegna della copia del processo, l'assegno del termine per le difese, la deputazione dell'Avvocato ufficioso qualora non avessero un Avvocato particolare; e vedremo tra poco che il Contestabile si provvide di un Avvocato particolare.

Tutto ciò fu compìto nella 2.a metà di febbraio e 1.a metà di marzo, con molta sollecitudine, poichè intendevasi finir presto ogni cosa, per liberare i parecchi prigioni poco o punto indiziati e quindi passare alla causa dell'eresia, come il Nunzio facea sapere a Roma. Difatti nello stesso periodo or ora indicato furono liberati dapprima otto, poi altri quattro, in tutto dodici incriminati ecclesiastici, come si rileva da due lettere del Nunzio, l'una del 3 e l'altra del 10 marzo, che gioverà riportare testualmente. "La causa della ribellione si tira avanti con ogni diligenza, et di già si è ordinato la liberatione di 8 fra Frati et Clerici che si trovavono presi per diversi sospetti senza fondamento et 4 altri spero ne liberaremo domani, poichè i principali sono tutti essaminati, et di già si vede in che il negotio potrà principalmente parare, et per che la medesima Ecc.za mi hà richiesto che i Calabresi che dovranno come hò detto liberarsi non si lascino così subito ritornare in Calabria, gli hò detto che si farà con un Precetto che non partino di Napoli senza licenza, parendomi cosa che come propone possa esser di qualche consideratione, che tornino là persone avanti che il negotio si finisca che sieno informati come gira, et ne suscitino qualche nuovo bisbiglio; procurerò che si risolva quanto prima per manco incommodo di quei poveri huomini" (3 marzo). "La causa della ribellione si tira avanti con la solita diligenza, et di già se ne sono liberati 12 fra regolari et Clerici, et la prohibitione del partirsi che le scrissi con altra si è ristretta à due frati Domenicani, che non tornino in Calabria senza licenza, et altrove vadino dove vogliono" (10 marzo). Non si potea veramente procedere con maggior sollecitudine: il tribunale teneva sedute quasi ogni giorno, come si rileva da un'altra lettera del Nunzio della stessa data (10 marzo) che dice, "dal Venerdì in poi che l'occupo in dettar lettere, et le feste, gli altri tutti si va in Castello"(102). Trattandosi d'individui non trovati delinquenti, ai termini del Breve i Giudici aveano facoltà di pronunciare senz'altro la sentenza; per essi non c'era la limitazione di procedere usque ad sententiam exclusive, ed è poi facile conoscerne i nomi guardando l'Elenco degl'incriminati ecclesiastici(103). I primi otto furono: D. Gio. Battista Cortese, D. Gio. Andrea Milano, fra Scipione Politi, fra Francesco di Tiriolo, D. Marco Petrolo, fra Pietro Musso, D. Domenico Pulerà, fra Vittorio d'Aquaro; gli altri quattro furono D. Colafrancesco Santaguida, fra Giuseppe Perrone di Polistina, Giovanni Ursetta e Valentino Samà. Di tutti costoro vennero esaminati solamente il Cortese e il Milano; e i due Domenicani, a' quali si vietò di tornare in Calabria, doverono essere il Tiriolo ed il Musso, mentre contro fra Giuseppe di Polistina, come contro qualche altro, non si potè neanche compilare un Riassunto d'indizii, non essendosi trovata in processo cosa alcuna. Rimasero dunque in carcere nove frati Domenicani compreso il Campanella, e dippiù il clerico Giulio Contestabile; vi pervenne poi molto più tardi, come vedremo a suo tempo, il clerico D. Marco Antonio Pittella, il quale era scappato di mano alle guardie in Calabria, ma fu ripigliato nel 1601. E non è dubbio che gli Atti difensivi ebbero immediatamente corso pel Campanella, per fra Dionisio e per gli altri frati; così pure per Giulio Contestabile, e vi è motivo di ritenere che co' suoi mezzi costui abbia potuto far precedere la difesa della sua causa, essendo stato in grado di presentare in suo favore, senza ritardo, documenti, testimoni ed un Avvocato proprio.

La Difesa scritta per Giulio Contestabile ci fa intendere le accuse formolate dal Fiscale contro di lui, e ci dà notizia de' documenti e testimoni da lui presentati(104). Secondo il Fiscale, Giulio Contestabile dovea dirsi uno de' capi della congiura dietro la Dichiarazione del Campanella, la cui amicizia con Giulio era confermata da sei testimoni uditi in Calabria, come pure dietro le deposizioni del Caccìa, del Vitale e dello stesso Maurizio nell'ultima sua confessione; inoltre dovea dirsi reo di fatti e detti in dispregio di S. M.tà dietro le rivelazioni del Campanella e del Petrolo, e indirettamente anche di fra Pietro di Stilo. I documenti prodotti da Giulio furono: un certificato di buona vita e fama, rilasciato dall'Università, clero e particolari di Stilo; l'istrumento pubblico di pace tra' Contestabili e Carnevali, stipulato mercè l'opera del Campanella e non ratificato; le fedi di tre Confessori che aiutarono a ben morire il Caccìa, attestanti la revoca della sua confessione fatta per forza di tormenti. I testimoni furono quattro: essi affermarono principalmente (con poca verità) che Giulio e il Campanella erano nemici prima del maggio 1599, fin dal gennaio di quell'anno, ma dal maggio "né si parlavano, né si cavavano la berretta". E l'Avvocato si appoggiò moltissimo a questa circostanza dell'inimicizia anteriore, e cercò di confermarla anche col fatto, che appena venuto lo Spinelli in Calabria, Giulio avea dato accuse scritte contro il Campanella, e procurata presso D. Carlo Ruffo commissionato dello Spinelli una commissione pel cognato Di Francesco in persecuzione del Campanella e complici, come pure il Campanella avea date egualmente accuse scritte contro Giulio ed avea sedotto il Petrolo a far lo stesso, mentre poi le sue affermazioni non poteano far fede, essendo lui "notato d'infamia per avere abiurato de vehementi"(105). Invalidò inoltre le deposizioni del Caccìa, notando che costui non avea determinato il genere di discorsi passati tra Giulio e il Campanella, che era stato esaminato da un tribunale incompetente, e poi in ultimo avea revocato i suoi esami presso i Confessori. Invalidò la deposizione del Vitale, notando che non era stata fatta la ripetizione di lui innanzi a' Commissarii Apostolici, né egli avea potuto conoscere da Maurizio la partecipazione di Giulio nella congiura, mentre Maurizio medesimo avea rivelato che la cosa gli era stata detta dal Campanella nelle carceri di Napoli, ed allora il Vitale era stato già giustiziato. Invalidò ancora la rivelazione di Maurizio, notando sempre che non era stata fatta la ripetizione di lui innanzi a' Commissarii Apostolici, ed aggiungendo che egli non avea potuto parlare col Campanella trovandosi rinchiusi non solo in carceri separate ma anche in torrioni separati (fatto non vero), né poteva credersi che Giulio fosse entrato in un concerto nel quale erano capi il Campanella e Maurizio, entrambi notorii nemici suoi. Infine, quanto all'avere Giulio oltraggiato il ritratto del Re, gli bastò mettere in rilievo le contraddizioni tra le rivelazioni del Campanella e quelle del Petrolo, e tra le prime ed ultime rivelazioni del Campanella medesimo. - Con siffatti argomenti l'Avvocato potè far ritenere Giulio Contestabile qual semplice sospetto di complicità, e così poi, allorchè molto più tardi si venne alla sentenza, il Contestabile, aiutato forse anche dalle potenti raccomandazioni delle quali vedremo che disponeva, riuscì a cavarsela con la condanna ad una pena relativamente mite.

Poco dopo, o tutt'al più contemporaneamente, venne fuori la Difesa del Campanella scritta dal De Leonardis: e in sèguito di essa una Replica di D. Gio. Sances. Ad entrambi questi Atti possiamo facilmente assegnare la data delle prime settimane di marzo, poichè certamente durante il marzo le difese doverono essere discusse: vedremo infatti esservi state negli ultimi giorni di marzo e primi di aprile le feste di Pasqua, e poco dopo, il 12 aprile, la richiesta del Sances a' Giudici di venire alla spedizione della causa. La Difesa scritta dal De Leonardis mostra che pel Campanella non ci furono né documenti né testimoni a discarico: nulla di simile vi si trova citato, e chiaramente vi si scorge che l'Avvocato sentiva di scrivere per una causa persa, giacchè il Campanella non poteva non dirsi convinto e confesso qual capo della congiura o tentata ribellione(106). Fin dall'esordio della Difesa l'Avvocato non potè fare a meno di riconoscere una criminosa cospirazione contro la Real M.tà; se non che goffamente magnificò la clemenza e la bontà di Filippo III, per avere ordinata questa Difesa, ed affermò che da parte sua avrebbe voluto dilaniare e fare a brani con Neronica voluttà "simili facinorosi delinquenti", e dichiarò che per obbedienza agli ordini del Vicerè presentava al Nunzio e al De Vera "dottissimi e religiosi Giudici Apostolici" le ragioni che gli parevano favorevoli alla causa. Due questioni egli vide nella causa: la 1a, se il Campanella, dato che fosse reo di tale delitto di lesa Maestà, potesse consegnarsi alla Curia secolare, e siffatta questione egli dovè riconoscere già sciolta col Breve Papale, che ne avea dato larga facoltà a' Giudici Apostolici; la 2a, se il Campanella avesse commesso tale delitto di lesa Maestà, che dovesse consegnarsi alla Curia secolare, ciò che equivaleva a condannarlo alla morte, e sopra tale questione egli stimò aversi a considerare le circostanze del fatto e la qualità della persona. Notò quindi che il Campanella non gli pareva "legittimamente convinto" giusta i termini del Breve, poichè tutti i testimoni erano socii del delitto, i quali bastavano a provare la congiura, ma non bastavano a far condannare alla pena di morte, massime in persona di un Clerico in sacris, contro il quale occorreva sempre una forma più privilegiata che nel Laico; oltracciò tutti i testimoni lo aveano detto capo della congiura, e per esservi congiura avrebbe dovuto esservi concerto di molti a fine di sovvertire lo Stato, ma i testimoni medesimi aveano detto che doveano fatalmente avvenire rumori e rivoluzioni nel Regno, ed allora egli avrebbe sottratta la Provincia alla potestà Regia, ma allora si era già verificata la sovversione dello Stato. Non gli pareva poi nemmeno confesso di congiura e per questo legittimamente convinto, mentre dalla sua confessione non risultava "una così grande ed acerba cospirazione quale era stata asserta da' testimoni", perché appunto egli voleva far la repubblica quando fatalmente succedessero rumori e rivoluzioni, e non aveva mai approvato l'aiuto de' turchi. Aggiunse inoltre che la congiura non doveva avere una esecuzione prossima ed immediata, e poteva anche non verificarsi o poteva verificarsi in un senso buono, essendo preferibile nel caso di grossi trambusti, che si costituisse la repubblica dall'inquisito con la volontà del Papa e del Re, rimanendo impedita la conquista a' nemici invasori. In somma trattavasi della preparazione ad un mutamento in caso di un futuro evento dubbio, e l'inquisito non era suddito del Re e non avrebbe quindi dovuto mandarsi a morte come se il delitto fosse stato consumato o vi fosse stato disegno di uccidere il Re; non era poi l'inquisito nemmeno tale da poter sovvertire uno Stato, e quindi la pietà e l'equità de' Giudici Apostolici poteva fargli scansare la morte, "salvo sempre il più sano giudizio e l'autorità della Sede Apostolica", in servizio della quale e del Re Filippo egli, l'Avvocato, avrebbe voluto volentieri morire se fosse stato necessario! - Messe da parte le goffe ampollosità del tempo, rimane che il De Leonardis cercò, per quanto potè, di salvare il Campanella dalla morte: tutti i suoi sforzi furono concentrati su questo punto, riuscendo impossibile negare ciò che fra Tommaso avea confessato, e parecchie osservazioni dell'Avvocato, che i lettori vorranno senza dubbio più minutamente conoscere percorrendo la Difesa da lui scritta, offrono tutti gli elementi di una critica di quel Breve Papale che avea tanto largamente concesso di rilasciare alla Curia secolare gli ecclesiastici legittimamente convinti o confessi "di ribellione o prodizione, o altri delitti di lesa Maestà", senza tener conto di alcuna delle circostanze restrittive ammesse dalla giurisprudenza del tempo. Una sola cosa a noi profani in giurisprudenza apparisce imputabile al De Leonardis, la mancanza dell'argomento che i testimoni nella più gran parte non erano stati esaminati o ripetuti nel foro competente, e però non potevano dirsi capaci di legittimamente convincere: ma bisogna pur riconoscere che si era fatta una inestricabile confusione di fori, mentre da' "Giudici Apostolici", e segnatamente dal Nunzio, si era tollerato che figurassero nel processo, e quindi ne' Riassunti, come elementi del giudizio, perfino le deposizioni raccolte da fra Marco e fra Cornelio, ed anche dal Vescovo di Gerace, nel foro di S.to Officio; così la mancanza del detto argomento non potè davvero influire in nulla. Avremo poi a vedere che il Campanella medesimo, nella Difesa sua propria, venuta in luce più tardi ed inserta nel processo di eresia, non trovò argomenti migliori di quelli del De Leonardis, e distinguendo il crimen volitum e il crimen patratum (distinzione che ne' delitti di lesa Maestà non giovava) concluse doverglisi dare piuttosto la pena del carcere perpetuo e non la pena di morte. Assai più tardi poi, nella sua Narrazione, scrisse che il suo Avvocato "più presto avvocò contra per diventar Consigliero": ma anche questa volta bisogna riconoscere, che le necessità sue l'abbiano spinto a scrivere senza alcun ritegno tutto ciò che potè sembrargli utile a farlo uscire da una tristissima posizione.

Venendo all'Allegazione del Sances in risposta a quella del De Leonardis, abbiamo poco da dire(107). Egli, rivolgendosi allo Ill.mo Presidente e al dottissimo Magistrato, stimò del tutto naturale che il Campanella, "legittimamente convinto e confesso" del delitto di lesa Maestà, dovesse "essere attualmente degradato e consegnato alla Curia secolare, tanto per disposizione del dritto, quanto in forza del rescritto di commissione del SS.mo Padre". E confutando le ragioni dell'Avvocato, fece notare che, circa la qualità della persona, trattavasi di un frate di mancata vita monastica, assiduo co' malfattori, già condannato ad abiurare, cospiratore contro gli Stati del Re Cattolico per menare vita lussuriosa e seminare eresie, autore e capo di tutto, convinto da testimoni come il Franza, il Cordova e due altri già carcerati col Pisano (sicuramente il Gagliardo e il Conia), i quali, sebbene socii nel delitto, in questo di lesa Maestà per una speciale disposizione del dritto provavano; che inoltre era confesso, come essi medesimi i "Padri" lo avevano udito, di avere eccitato a prendere le armi e procurare amici, confesso di formata macchinazione, soggetto ad essere degradato e consegnato alla Curia secolare anche per un rescritto espresso del Papa, il quale volle mostrare quanto difendesse e proteggesse gli Stati di S. M.tà. né egli faceva istanza che fosse condannato perché avea già cacciato il Re e fatta la Repubblica, ma per avere macchinato e sedotto a farla le persone che si erano mostrate pronte, dovendosi nel delitto di lesa Maestà, per dritto, punire con la stessa pena così la volontà come l'effetto; la macchinazione era seguìta, e i Giudici poteano degradare questo clerico ribelle alla Maestà Divina ed umana, causa della perdita della vita, de' beni e dell'onore, per tanti infelici, e de' beni e della patria per molti contumaci, costituiti anche in pericolo di vita, essendo stato lui di ogni cosa duce, autore e capo.

Una Difesa scritta, analoga a quella pel Campanella, parrebbe che avesse dovuto esservi anche per conto di fra Dionisio; giacchè il Sances chiese di poi a' Giudici che spedissero la causa tanto del Campanella quanto di fra Dionisio. Forse, essendo in sèguito costui scappato senza rimedio, il Nunzio credè inutile conservare tale Difesa e così essa non sarebbe a noi pervenuta; ma forse anche, con maggior probabilità, avendo lui dichiarato di volersi servire di un Avvocato proprio, e non essendo poi riuscito a trovarlo, rimase senza Difesa scritta, giacchè, nel decretare il termine per le difese, i Giudici solevano dichiarare che badasse l'inquisito a provvedersi di un Avvocato o a chiedere quello di ufficio, mentre in difetto, scorso il termine, il tribunale avrebbe spedita la causa anche senza l'Avvocato. Ciò per altro non vuol dire che fra Dionisio non si sia difeso da sè, oralmente e presentando documenti; che anzi dobbiamo ritenerlo, trovandosi in coda al Riassunto degl'indizii contro di lui l'annotazione "habuit defensiones quas fecit". Non potremmo dire lo stesso pel Campanella, mentre in coda del relativo Riassunto degl'indizii troviamo scritto solamente "habuit defensiones": la qual cosa riesce difficile a spiegarsi, e bisognerebbe ammettere che veramente non sia stato chiamato a parlare, come di poi si dolse; ma forse egli avea dichiarato che intendeva presentare una propria Difesa scritta ed anche difendersi oralmente, e non giunse in tempo a presentare la Difesa scritta, come vedremo più in là, e i Giudici poco giustamente passarono oltre ritenendo decaduta la sua dichiarazione. Ad ogni modo la sorte del Campanella, e così pure di fra Dionisio, non poteva esser dubbia, e stiamo per vedere che il Nunzio non ne fece un mistero.

Di certo durante il marzo vi fu un poco di rilasciamento nell'attività del tribunale; le feste di Pasqua poi, negli ultimi giorni di marzo e primi di aprile, vennero a sospenderne affatto le sedute. Durante il marzo la causa del Contestabile, con l'esame de' quattro testimoni, non potè occupare molte sedute, tanto meno la Difesa orale di fra Dionisio, ancor meno la Difesa scritta dell'Avvocato del Campanella, e d'altronde conosciamo che i termini per le difese solevano essere brevissimi. Bisogna dunque ammettere qualche ragione estrinseca, e questa potrebbe ravvisarsi nell'assenza del Vicerè da Napoli in tale periodo: poichè egli dovè finalmente adempiere la missione già troppo ritardata, di Ambasciatore straordinario di obbedienza al Papa in nome di Filippo III, e così venne meno la sua inesorabile insistenza(108). Il 9 marzo egli era partito da Napoli, insieme con la Viceregina ed una distinta comitiva di Nobili, che erano felici di potersi mostrare servitori affezionati a S. M.tà e di poter guadagnare anche le indulgenze del Giubileo in Roma, né fu di ritorno prima del 27 aprile. Potremmo narrare una grande quantità di aneddoti intorno a questo viaggio, ma ce ne asteniamo. Diremo solamente, per quanto riflette i casi della nostra narrazione, che tra' nobili i quali ottennero l'onore molto ambìto di accompagnare il Vicerè vi fu il Principe della Roccella, insieme col suo primogenito Girolamo Marchese di Castelvetere, la qual cosa venne ritenuta un favore particolare del Vicerè dietro la brillante condotta del Principe nella cattura del Campanella: oltracciò il Nunzio espose al Card.l S. Giorgio il desiderio che si trattassero in Roma direttamente col Vicerè gli affari più gravi, e tra questi non v'era compreso l'affare del Campanella, ma del resto, malgrado le promesse del Cardinale, non se ne fece nulla. Era rimasto in Napoli Luogotenente del Regno il figliuolo secondogenito del Vicerè, D. Francesco de Castro, giovane di anni e maturo di senno, il quale non fu tiepido nel volere spedita la causa del Campanella, ma non avea la voce autorevole del padre, e il Nunzio poteva tanto più opporgli la sua. Il 12 aprile, forse in previsione del prossimo ritorno del Vicerè, ma piuttosto in sèguito di una novità manifestatasi nel Campanella, come vedremo più oltre, il Sances chiese istantemente a' Giudici che si spedissero le cause del Campanella e di fra Dionisio: il Nunzio si avvide allora, abbastanza tardi, degl'inconvenienti a' quali si andava incontro, e si oppose, e volle che si attendesse per avere nuove istruzioni da Roma. Ecco come egli ne scrisse al Card.l S. Giorgio in una sua lettera del 14 aprile, che importa tener tutta sott'occhio, mentre da essa si rileva qual fosse la posizione giuridica del Campanella e di fra Dionisio, con la corrispondente condanna in vista. "Tornammo due giorni sono à trattar della causa della ribellione, et perché il Fiscale di essa mi fece una gagliarda instanza della speditione quanto alla persona di fra Thomaso Campanella et di fra Dionigi Pontio, non volsi consentire che si trattasse della fine, non si sapendo ancora dove N. S.re voglia si conoschino le materie appartenenti al S.to Offitio, oltre che reputandosi l'uno confesso che è il Campanella, et l'altro convinto che è il Pontio, potrà facilmente essere la fine delle loro cause il degradarli, e darli alla Curia secolare, ma non mi è parso che questo si deva fare in modo alcuno, senza parteciparlo prima con S. S.tà rimanendo sospesa la causa del S.to Offitio. Et se bene di questo se ne potrà fare espressa riserva, ho non dimeno per un certo che di convenienza reputato sia bene che S. B.ne lo sappia, et comandi se in ciò gli occorre altro, questo medesimo risposi hieri al Sig.r D. Francesco de Castro che à suggestione, per quanto credo, del medesimo fiscale me ne parlò tanto efficacemente, non si volendo far capace delle ragioni che mi movevano à voler prima parteciparlo costà, che mi hebbi à risentire, parendomi d'esser troppo stretto, et à dire risolutamente che non ne voleva far nulla et che mi pareva strano che in un negotio che hà durato più di 6 mesi mi si volesse ridurre ad un' giorno, quando per haver una risposta di costà ne bisognavano 10 ò 12 che non erano anche tanti che si convenisse negarmeli, et perciò desidero haver di questo risposta quanto prima".

La posizione del Campanella, e così pure quella di fra Dionisio, erano dunque nettamente definite: il Campanella ritenevasi confesso, fra Dionisio convinto, e secondo la giurisprudenza e i termini chiari ed espliciti del Breve Papale dovevano essere, previa la degradazione, consegnati al braccio secolare, naturalmente con quella rutinaria preghiera altrove menzionata che la pena fosse "senza pericolo di morte" etc., preghiera che la giurisprudenza imponeva, e che era sottinteso non doversi tenere dal braccio secolare in alcun conto(109). Erano dunque accolte le conclusioni del Sances, e senza dubbio, pronunziata la condanna di degradazione e consegna alla Curia secolare, la Curia Pontificia non avrebbe più ricevuto il Campanella nelle sue mani per sottoporlo al processo dell'eresia, segnatamente essendovi l'intenzione, come appunto il Papa l'avea una volta manifestata, che gl'interessati nel negozio dell'Inquisizione si mandassero a Roma. Il Nunzio ebbe a capire quanto male a proposito si era procrastinato il giudizio dell'eresia, e nel tempo stesso si era largheggiato in concessioni pel giudizio della congiura; ed il pericolo di non poter più fare il giudizio dell'eresia, non già la menoma idea di salvare il Campanella, indusse lui ad esigere e Roma ad approvare che si soprassedesse alla spedizione della causa. Intanto siffatta sospensione giunse realmente a salvare dalla morte il Campanella e così pure fra Dionisio; ma il Governo Vicereale dovè ritenerla una manovra dalla parte di Roma in beneficio de' frati ribelli, e dovè legarsela al dito, poichè a' termini del Breve Papale non c'era da rivolgersi ancora a Roma ed "aspettare il comandamento di S. S.tà", ma potevasi concretare la sentenza e poi aspettarlo. Ad ogni modo la sospensiva non fu messa innanzi dal Governo perché non sapeva come condannare que' frati innocenti, secondo che è stato affermato da altri scrittori; e vedremo anzi quanto esso insistè, durante più anni, perché si compisse una volta la spedizione della causa, finchè non sopraggiunsero altri fatti, pe' quali sorse un grave sospetto che Roma volesse addirittura salvare que' frati in dispregio del potere civile.

Da Roma, il 22 aprile, si scrisse al Nunzio che tra poco si manderebbe una risposta risoluta, e intanto si lodava che egli non avesse consentito alla spedizione della causa della ribellione, mentre pendeva la deliberazione da prendersi per quella dell'eresia. Effettivamente venne poi, alcuni giorni dopo, comunicata la deliberazione che vi si procedesse in Napoli, e già durante tutto questo tempo si era continuato lo svolgimento del processo della congiura, trattandosi le difese degli altri frati. Questo si rileva dalle lettere del Nunzio del 24 e del 28 aprile, nella quale ultima si dice "che i prigioni per la ribellione... seguono le loro difese, nelle quali non ci è parso restringerli, se bene i termini concessi à tal effetto erano passati". Quali siano state le difese de' rimanenti frati non conosciamo: alcuna Difesa scritta per loro dal De Leonardis non ci è pervenuta, e questo ci fa pensare che forse essi siano rimasti senza Difesa scritta. Del rimanente ecco quanto troviamo in coda a' rispettivi Riassunti degl'indizii, dove si ebbe cura di registrare ciò che si fece da questo lato. Pel Pizzoni troviamo, "habuit defensiones quas fecit", e da ciò desumiamo che egli siasi difeso da sè. Pel Petrolo, e così pure pel Bitonto, troviamo semplicemente "habuit defensiones", donde desumeremmo che questi due si siano rimessi alla giustizia del tribunale senza difendersi, la qual cosa collimerebbe col loro grado di cultura molto più basso. Per gli altri frati poi, cioè il Lauriana, fra Paolo della Grotteria, fra Pietro di Stilo e fra Pietro Ponzio, non troviamo alcuna annotazione, e dovremmo desumerne che il Sances abbia rinunciato all'azione penale contro di loro. È quasi superfluo aggiungere che pe' frati suddetti, come pel Campanella e fra Dionisio, e parimente pel Contestabile, furono compiute le difese ma restò sospesa la spedizione della causa: essi dovevano, o come principali o come testimoni, sottostare al processo dell'eresia, e la Curia Romana avea deliberato che dovesse prima svolgersi quest'altro processo. Così la sorte di tutti costoro rimase sospesa durante molto altro tempo, e da ciò rimase danneggiato singolarmente fra Pietro Ponzio, il quale non era implicato in nessuno dei due processi e restava intanto nel carcere; ma vedremo tra poco che appunto nel carcere erano già cominciati a sorgere alcuni sospetti contro di lui. - La deliberazione che il processo dell'eresia dovesse trattarsi in Napoli fu annunziata dal Card.l di S.ta Severina, con lettera del 28 aprile che troveremo a capo del relativo processo: questa lettera pervenne al Nunzio verso i primi di maggio, come si rileva dall'altra che egli scrisse al Card.l S. Giorgio in data del 5 maggio. Si fu dunque perfettamente in tempo a cominciare il processo dell'eresia mentre terminava il processo della congiura per gl'inquisiti ecclesiastici fin allora presi; e come la spedizione di quest'ultimo processo rimase sospesa, così dobbiamo anche noi sospendere il racconto dell'esito riserbandolo pel tempo suo.

Ci occorre pertanto narrare un fatto importantissimo, che si era già verificato in persona del Campanella fin dai primi di aprile. Con un accesso subitaneo e violento si era manifestata in lui la pazzia: questo incidente, non senza conseguenze giuridiche per lui, merita tutta la nostra attenzione, e cominceremo dal vedere dapprima quanto egli medesimo ne lasciò scritto. Nelle lettere del 1606-1607, pubblicate dal Centofanti, una volta scrisse, "furono negate le difese, e per questo sopraggiunse la pazzia"; un'altra volta scrisse, "mi fecero pazzo essi con tanti tormenti et con non lasciarmi difensare"(110). Più tardi (il 1614) in una delle note nelle sue Poesie scrisse, "bruciò il letto, e divenne pazzo ò vero ò finto"(111). Più tardi ancora (il 1620), nella sua Narrazione, tornò alla prima versione del fatto e con molta larghezza scrisse, che il Sances "con altri di sua fattura" (e questi non potrebbero essere stati che il Nunzio e il De Vera), udendo le ragioni da lui addotte in sua discolpa, "levaro al Campanella la commodità di scrivere, e d'esaminare, e difensarsi, e li libri e il commertio con avvocati, e lo posero dentro al torrione inferrato dicendoli, che dovea morir per ragion di stato e che s'apparecchiasse i sacramenti, non a difensarsi, e li mandaro Gesuini, e frati a conortarlo a morire, e volendo presentar il Campanella li libri da lui fatti sopra la mutatione del mondo e la monarchia di Christo, d'una greggia sotto un pastore, presto apparitura in tutto il mondo, data da lui al Cardinal Sangiorgi dui anni avanti perché si vedesse che non era invention contra la chiesa, né contra il Re fatta novamente (sic). E di più volea presentar un volume scritto della Monarchia di Spagna molto utile alla corona, e la tragedia della Regina di Scotia fatta da lui per Spagna contro Inghilterra, e li discorsi alli Principi d'Italia, che per ben comune non devono contradir a detta monarchia, e questi libri fece venir dalla padria subito. Ma il Sances non volse che si presentassero, né si sapessero, e però lo ristrinse nel torrione con le fenestre serrate, e mise timore a chiunque parlava d'aiutarlo, e li fè tanti stratii al povero Campanella che lo fè impazzire, brugiò il letto, e lo trovaro la mattina mezzo morto, e pazziò cinquanta dì". - Parecchie riserve debbono farsi intorno alle circostanze qui esposte. Vedremo che la sua pazzia durò anche oltre 14 mesi, e scorso questo tempo fu provata col più atroce de' tormenti; saremmo perfino tentati di credere che vi sia stata in tal punto una lezione sbagliata. Vedremo dippiù che i libri i quali volea presentare non vennero dalla patria subito, e nella Difesa scritta da lui medesimo, compiuta dopo la manifestazione della pazzia e venuta in luce 14 mesi più tardi, egli chiedeva a' Giudici che gli si dessero i libri, menzionando i Discorsi politici inviati all'Imperatore, il Dialogo contro gli eretici esistente presso Mario del Tufo, la Monarchia dei Cristiani data al S. Giorgio, la Tragedia e il libro Del Reggimento della Chiesa che diceva trovarsi in Stilo tra le sue piccole masserizie, ed aggiungendovi di seconda mano la Monarchia di Spagna, che diceva trovarsi pure in Stilo tra le sue piccole masserizie, "in meis sarcinulis". Ognuno poi avrà già notato che i tormenti gli erano stati dati il 7 e 8 febbraio, mentre la pazzia cominciò a' primi di aprile, e circa il non essergli state date le comodità di difendersi, bisogna tener presente che nella prima delle sue Lettere del 1606 a Paolo V egli scrisse esplicitamente, "quando mi citaro mi protestai che voleva io difensarmi di propria bocca almen che (sic) non mi lasciaro articolare, e 'l Nuntio passato non mi fè chiamare, che penso non ci l'han detto né potea" (accennando all'Aldobrandini, che mostrò di scusare poichè scriveva a un Papa): e certamente il Nunzio, che benissimo lo potea, non è scusabile di non averlo fatto chiamare, ma bisogna riconoscere che erano state date le comodità per la difesa, e, come vedremo tra poco, egli non giunse in tempo a presentare la Difesa scritta, e venne poi, il 2 aprile, a manifestarsi pazzo; sicchè riesce del tutto credibile essere sorta la pazzia quando dovè persuadersi che pel momento non dovea più pensare alla difesa, e per giunta mostravasi imminente il processo di eresia tanto più spaventevole per lui. Infine anche la circostanza dell'essere stato trattato con rigore maggiore del solito mentre dovea fare le difese, merita di essere accolta con riserva; poichè, all'opposto, nel detto tempo si soleva trattare gl'inquisiti con larghezza, e vedremo tra poco da una deposizione del carceriere Alonso Martinez confermata la cosa in persona sua. Tutte le altre circostanze poi debbono essere riconosciute esatte, giacchè concordano con quanto emerse in sèguito nel processo dell'eresia, onde siamo in grado di dare la data precisa dell'incidente e tutti i suoi particolari.

Non può dubitarsi che fornirono l'occasione o il pretesto per la pazzia le esorbitanze di confessori, che specialmente a motivo della Pasqua frequentavano allora più del solito il Castello. Vi erano assidui il P.e Pepe gesuita, il P.e Muzio, un P.e Pietro Gonzales Domenicano, e quest'ultimo specialmente confessava i frati carcerati, come trovasi attestato nelle loro deposizioni. Notiamo che fra Pietro di Stilo ebbe a dire del Gonzales: "soleva venire spesse volte quà, è ci faceva delle belle esortationi, et andava anco dal Campanella spesse volte per quanto mi è stato detto, è li faceva delle brutte riprensioni". Più esplicitamente il Vescovo di Termoli scrisse a Roma: "dubito che la pazzia sia nata che andando il Padre Maestro Pietro Gonzales à confessar et communicar alcuni di questi carcerati prima che io venisse à Napoli, andava dal Campanella et l'essortava ad haver cura dell'anima perché il corpo era spedito". Ben si vede che il Gonzales non godeva pienamente le simpatie del Vescovo di Termoli, e possiamo aggiungere che tanto meno godeva quelle del Nunzio, nel cui Carteggio si trovano più lettere contro di esso, dalle quali apparisce molto amico di fra Serafino di Nocera tanto affezionato al Campanella(112): inoltre egli conosceva assai da vicino qualcuno de' frati carcerati, p. es. il Petrolo, che era stato con lui in Milano; e per tutti questi motivi rimane dubbio se egli avesse agito a quel modo per leggerezza ed imprudenza, o invece per malizia, vale a dire d'accordo col Campanella medesimo, a fine di rendere spiegabile l'inatteso manifestarsi della pazzia. Ecco ora in che maniera il Campanella si mostrò pazzo, secondo che depose il carceriere Alonso Martines quando ne fu interrogato. "La matina di pasqua del spirito santo prossime passato havendo io la sera precedente lassato una lucerna accesa dentro la priggione di detto frà Thomaso quale poteva durare circa un'hora, è mezza à far lume acciò egli vedesse à mangiare, la matina secondo il mio solito, visitando tutti li carcerati, ritrovai che frà Thomaso havea brusciato la lettèra, le asse, le tavole, un saccone di paglia, et una coperta, et la priggione era tutta piena di fumo, et frà Thomaso era gettato in terra, et io credevo che fusse morto, mà poi io udj che si lamentava, et io lo levai da terra, et lo messi in un'altro loco, et rivenne quanto alle forze del corpo, et ritornato da esso per condurlo alla messa che alhora havea licenza di condurlo, detto frà Thomaso mi venne à dosso è poco ci mancò che non mi levasse il naso dalla faccia, è, da questa hora in quà hà parlato spropositatamente, et anco con altri"(113). Da diversi fonti all'uopo ricercati abbiamo potuto trarre che la Pasqua nel 1600 si celebrò il 2 aprile: fu questa dunque la data precisa in cui si manifestò la pazzia del Campanella, ed essa spiega pienamente così l'opportunità e convenienza della pazzia dal lato suo, come l'urgenza estrema della spedizione della causa dal lato del Sances. Reca poi senza dubbio una grande meraviglia il fatto, che il Nunzio non abbia partecipata a Roma tale novità; nel suo Carteggio non se ne trova menzione per lungo tempo, e il primo a parteciparla a Roma apparisce nel processo di eresia il Vescovo di Termoli, in data del 25 maggio(114).

Non appena ebbe notizia dell'incidente, il Sances ordinò che si spiassero gli andamenti del Campanella, per conoscere se la pazzia fosse vera o simulata; e fin dal 4 aprile alcuni scrivani andarono nelle ore della notte ad appiattarsi presso il carcere del Campanella per raccogliere ciò che avrebbero udito. Ebbe così due relazioni, che esponevano due colloquii notturni tra il Campanella e fra Pietro Ponzio rinchiusi in due carceri vicine, in data l'una del 10 e l'altra del 14 aprile: queste relazioni furono più tardi trasmesse in copia a' Giudici dell'eresia, i quali le inserirono nel loro processo, e in tal guisa ci è venuto tra mano non solo un documento importantissimo per intendere le cose del Campanella e la condotta del Governo Vicereale verso di lui, ma anche il racconto di uno de' più drammatici episodii del tempo de' processi(115). Una delle relazioni scritta da Marcello de Andreanis, scrivano fiscale ordinario della Banca di Marcello Barrese, dice che essendosi insieme con Francesco Tartaglia, scrivano straordinario della medesima Banca, recato per ordine del Sances nelle carceri del Castello, e propriamente in un corridoio vicino alle carceri del Campanella e di fra Pietro Ponzio, accostatisi pian piano nel detto corridoio, il 10 aprile, a tre ore di notte, udirono il seguente dialogo. Il Campanella dimandava: che n'è di mio fratello e di mio padre? E fra Pietro rispondeva: stanno nelle carceri del civile con Giuseppe Grillo e Francesco Antonio di Oliviero. Ancora il Campanella: e di tuo fratello che n'è? E fra Pietro: Ferrante sta con quella marmaglia delle carceri del civile. Continuava il Campanella: oh che pietà, che ne sa quel poveretto Francesco Antonio di Oliviero! E fra Pietro: tu vedi! Ripigliava fra Pietro in latino: hai scritto abbastanza oggi? E il Campanella: assaissimo, tutto. Ancora fra Pietro: il Martines è rimasto fuori del Castello ed Onofrio (l'altro carceriere) è stato chiamato dal Capitano; noi possiamo parlare? E il Campanella, in latino: tu non conosci la razza degli spagnuoli; e fra Pietro, in latino: conosco la razza e la scelleratezza degli spagnuoli. Continuando quasi sempre in latino, il Campanella diceva: sai se Tommaso d'Assaro è stato liberato? E fra Pietro: no, dimandane a colui che sta nel carcere superiore (intend. superiore a quello di fra Pietro). E il Campanella: non posso; aggiungendo: fa in modo che dimani possa dare una pagina scritta a fra Pietro (certamente fra Pietro di Stilo), perché non posso parlare e sento un odore di uomo! E fra Pietro: scongiurali, e parla in latino, giacchè sono idioti e non conoscono la lingua latina. Rimasti quindi un poco in silenzio, fra Pietro ricominciò: non ci è nessuno, perché il vizio li porta via, tu hai lume? E il Campanella: no, affatto; e soggiunse: andiamo a dormire perché ho visto un lume. E fra Pietro: andiamo a dormire. Fu questo uno de' colloquii. Notiamo che Tommaso d'Assaro trovavasi carcerato e doveva essere vicino ad uscire in libertà, vedendosi il suo nome più tardi nella lista de' testimoni dimoranti in Napoli, dati da fra Dionisio nella causa dell'eresia, per fatti avvenuti nel carcere(116). Ma ciò che riesce notevolissimo è il sapere che il Campanella scriveva, che aveva in quel giorno scritto "assaissimo, tutto", come pure una pagina da doversi passare a fra Pietro di Stilo, e che fra Pietro Ponzio ne pigliava molto interesse. Cosa scriveva il Campanella? Non mancheremo d'indagarlo più in là. - Veniamo all'altro colloquio. Esso è riferito da Francesco Tartaglia sopra nominato, il quale dice di essersi recato per dodici notti successive nel Castello, dietro ordine del Sances, e più volte ha udito il Campanella discorrere con fra Pietro "de bonissimo modo", e segnatamente la notte del 14 aprile, in compagnia anche de' carcerieri Martines ed Onofrio, udì le seguenti parole. Fra Pietro chiamò quattro volte il Campanella dicendo, o fra Tommaso... non senti no o cor mio? E il Campanella: bona sera, bona sera. E fra Pietro: o cor mio, come stai, che fai, sta di buon animo, perché domani verrà il Nunzio e sapremo qualche cosa. Ed il Campanella: o fra Pietro, perché non trovi qualche modo per potere dormire insieme e godere? E fra Pietro: volesse Iddio, anche a dover pagare dieci ducati al carceriere, a te, cor mio, vorrei dare venti baci per ora; ho sparso per tutta Napoli i tuoi Sonetti, li so tutti a memoria e nulla mi dà più gran gusto che il leggere qualche frutto dell'ingegno tuo. E il Campanella: voglio ora comporne uno pel Nunzio. E fra Pietro: sì cor mio, ma ti chiedo in grazia di comporre prima quelli per me o quelli che desidero per mio fratello, e poi comporrai quelli pel Nunzio. E il Campanella: va a riposare, buona sera. Ben si rileva qui la tenera ed irremovibile amicizia di fra Pietro pel Campanella, e il suo ardore per averne le poesie, spinto fino all'indiscrezione di volerne per sè e per suo fratello, mentre il povero filosofo ne meditava qualcuna che riuscisse a rendergli propizii i potenti nella sua terribile condizione; e si rileva al tempo medesimo l'animo depresso del filosofo, e il suo vivo bisogno della compagnia di un amico come fra Pietro. Si vide poi tale affettuoso colloquio dare al Vescovo di Caserta motivo di sospettare nientemeno che dell'onestà delle relazioni tra il Campanella e fra Pietro: evidentemente questi due giudicabili erano assai migliori di alcuni de' loro Giudici! Ma dunque il Campanella componeva Poesie, oltrechè scriveva pagine da doversi trasmettere a fra Pietro di Stilo, e il Sances già ne sapeva qualche cosa: e come mai poteva egli meditare un Sonetto pel Nunzio? Non ne troviamo alcuno con questo indirizzo nella raccolta fattane da fra Pietro, e bisogna dire che o lo scrivano sia caduto in un equivoco, o il Campanella abbia voluto alludere al Sonetto indirizzato al Papa, da doversi per vie trasversali far capitare nelle mani del Nunzio, il quale si sarebbe poi fatto un dovere d'inviarlo al Papa. Si può intanto immaginare quale concetto abbia dovuto formarsi il Sances intorno a questa pazzia, durante la quale il Campanella scriveva Sonetti perfino al Nunzio: evidentemente egli non poteva che chiedere d'urgenza la spedizione della causa.

Ed eccoci condotti a narrare la vita intima del Campanella, considerandola propriamente dal lato delle sue opere d'ingegno, in questo primo periodo della sua prigionia di Napoli, rappresentato dal tempo in cui venne istituito e svolto il processo della congiura così pe' laici come per gli ecclesiastici. Dicemmo già che fin dai primi momenti dell'arrivo egli compose Poesie per dare animo agli amici, che nel Syntagma se ne ha il ricordo ma con una completa confusione di tempi, che la Raccolta fattane da fra Pietro ci mette in grado di potere fino ad un certo punto distinguere ed assegnare alle diverse poesie la propria data. E veramente nel Syntagma si parla delle poesie in questi termini: "Fui condotto a Napoli qual reo di Maestà, ed ivi, mentre si negava l'aiuto de' libri, composi molti versi latini ed italiani, sul primo Senno e prima Possanza, sul primo Amore, sul Bene, sul Bello e simili, che tutti scriveva di nascosto quando ne aveva l'agio. Di essi vennero formati sette libri intitolati La Cantica, de' quali in parte Tobia Adami pubblicò una scelta, fatta secondo il giudizio suo, sotto il nome di Settimontano Squilla, aggiuntavi l'esposizione. Composi parimente Elegie sulle sventure mie e degli amici, inoltre Ritmi profetali ed una quadruplice Salmodia su Dio e su tutte le opere sue, e a questo modo con le poesie diedi anche vigore agli amici acciò non si abbattessero ne' tormenti". Ora tra le poesie raccolte da fra Pietro, alla cui composizione quasi totale possiamo assegnare un tempo certo, compreso tra il 10 novembre 1599 e il 2 agosto 1601, non si trovano le Canzoni, le Elegie, le Salmodie ricordate nel Syntagma e poi pubblicate veramente dall'Adami; né occorre dire che vi si troverebbero, qualora fossero state composte nel tempo anzidetto. Appena vi si trovano i Ritmi profetali, sicchè bisogna rimandare le poesie sopra ricordate ad un periodo posteriore di molto; nel qual caso, gli amici rinvigoriti con esse ne' tormenti dal Campanella sarebbero i soli pochi frati tormentati per l'eresia, ciò che vedremo accaduto nel gennaio 1603; invece la raccolta fatta da fra Pietro ci presenta le poesie del primo periodo, e tra esse quelle che servirono a rinvigorire gli amici tutti ne' tormenti per la congiura. La detta Raccolta non serba un ordine strettamente cronologico, ed abbiamo già rilevato altrove che contiene pure qualche poesia certamente del tempo della prigionia di Roma, conservataci per reminiscenze comunicate dal Campanella al raccoglitore: ma essa nemmeno procede scompigliata del tutto, e in generale vi si possono molto bene riconoscere due gruppi che indichiamo subito, assegnando al primo il periodo del quale ci siamo finora occupati, vale a dire dal novembre 1599 all'aprile 1600. Questo primo gruppo è rappresentato essenzialmente dalle prime 24 poesie, che mostrano un distacco sensibile dalle rimanenti, tra le quali per altro è capitata ancora qualcuna da doversi riferire al primo gruppo, mentre poi nell'uno e nell'altro gruppo son capitate quelle poche di reminiscenza, già composte ne' tempi anteriori(117). Il primo Sonetto col quale si apre la Raccolta di fra Pietro, ben conosciuto perché fu poi pubblicato dall'Adami, è quello "sul presente stato d'Italia" che comincia col verso

"La gran Donna ch'a Cesare comparse":

in verità noi lo crederemmo scritto piuttosto ne' giorni de' preparativi, in Calabria, contemplandosi in esso che per la patria infelice, dominata da stranieri, non c'era più da sperare né nel Principato né nel Sacerdozio, ma bisognava tornare a' puri principii del Cristianesimo e della Sapienza greca; ad ogni modo riesce abbastanza interessante il sapere che un Sonetto simile, decorato del sacro nome d'Italia e tutto sollecitudine per le sciagure di essa, sia di vecchia data ed abbia circolato tra le mani de' congiurati o de' perseguitati per la congiura(118). Più sicuramente appartiene al primissimo tempo della prigionia di Napoli, e forse è stato davvero il primo composto nel Castello nuovo, quello che viene in 2° luogo "sopra l'istesso stato d'Italia" (titolo verosimilmente dato da fra Pietro), avendo tutta l'impronta dell'attualità, esprimendo la preoccupazione che il Conte di Lemos avesse a menar buoni i tristi processi fatti in Calabria, promettendo in tal caso più grave la rovina profetizzata agli oppressori, ed esalando il dolore del filosofo ancora sotto l'impressione della bieca accoglienza popolare sofferta nel viaggio da Gerace a Bivona:

"Il fato dell'Italia hoggi dipende

dall'esser vera ò falsa rebellione

questa, ch'à calavresi Carlo impone

e Sciarava, ch'el Regno el Rè n'offende.

E s'il Conte che regge ancor pretende

che lor finte ragion sian vere e buone

. . . . . . . . . . . . . .

più grave fia l'antevista ruina.

. . . . . . . . . . . .

  Ahi cieca Italia nella tua rapina!

sin quando il senno tuo sopito langue?

s'io ben ti desiai, che t'ho fatt'io?"

Sarebbe poco ragionevole voler qui trovare una Musa felice e splendida, e lo stesso va detto per tante altre poesie di questa raccolta: il filosofo dovea sentirsi disposto a tutt'altro che a poetare; d'altronde poesie simili bastavano per que' rozzi ma generosi patriotti. Il 3° Sonetto, intitolato dall'autore "a sè stesso", può ritenersi bene al suo posto, valendo ad ispirare conforto e fiducia a' compagni suoi in un modo generale, e sempre promettendo la vendetta divina:

"Spesso m'han combattuto, io dico anchora,

fin dalla giovanezza, ahi troppo spesso,

. . . . . . . . . . . . . .

ma la spada del ciel per me lavora".

Non così l'altro intitolato anche "a sè stesso", con la giunta dovuta a fra Pietro, e certamente errata, cioè "subito fu preso": esso venne pubblicato dall'Adami senza questa giunta, che forse potè essere suggerita a fra Pietro dalle parole che si leggono nel 2° verso, "il fiero stuol confondo"; ma tutte le circostanze, che accompagnano queste parole, le mostrano riferibili a' Giudici, Fiscale e contradittori intervenuti nelle confronte, sicchè il Sonetto risulta precisamente del tempo degli esami e confronte del Campanella, che aveano dovuto sembrargli tali da poterne menar vanto. Passiamo quindi sopra di esso, e del pari sopra il seguente, che gli apparisce collegato e che dinota un grave sconforto succeduto ad una viva fiducia; ci troviamo così in presenza del Sonetto "in lode di carcerati e tormentati", che ci conduce al periodo in cui si pose mano alle torture cominciando da Maurizio.

Siamo dunque alle prime settimane del dicembre 1599, al tempo del massimo fervore nel processo della congiura pe' laici. Maurizio avea sostenuto con fermezza terribili e lunghissimi tormenti, e gli altri avrebbero dovuto imitarne l'esempio; il Campanella lo esalta con entusiasmo, e merita di essere notato che attribuisce allo "ardore di libertà e di ragione" il superare que' tormenti, armi del tiranno:

"Veggio spirti rivolti al Creatore

schernir tormenti e morte, del tyranno

armi sovrare, e scherzar con l'affanno

. . . . . . . . . . . . . .

  Di libertà e ragion tanto è l'ardore

che dolcezza il dolor, ricchezza il danno,

seguendo l'orme di color che sanno,

stimano, armati di gloria et honore.

Rinaldi il primo sei notti e sei giorni

vince i tormenti antichi e i nuovi sprezza

. . . . . . . . . . . . . . . .

esempio a gl'altri d'invitta fermezza"(119).

Ma il poeta dovea sentirsi anche personalmente grato a Maurizio, il quale, non avendo confessato, aveva contribuito assaissimo a farne migliorare la causa; ed ecco quel Madrigale:

"Generoso Rinaldi

vera stirpe del syr di Monte Albano" etc.

né deve fare impressione qualche concetto come quello di "aver reso il pegno di fedeltà al Re". Bisogna tener presente che stavano entrambi in carcere e sotto un processo capitale; la poesia avrebbe potuto essere sorpresa da' carcerieri e trasmessa al Sances, onde naturalmente non può darsi molto peso a qualche concetto che esprima innocenza, ed invece deve darsene molto a quelli che esprimono sentimenti di libertà. - Ma giunge il 20 dicembre, e Maurizio sotto le forche si decide a confessare per iscrupolo di coscienza: si rivolta allora l'animo del poeta, e scrive quel "Madrigale di Palinodia", che è triste dover ricordare, e che i lettori troveranno dopo il precedente; un passaggio così brusco dalla lode al vituperio stringe veramente il cuore. Conoscendo poi che egli credè, più o meno, all'influenza del Gesuita confessore del Vicerè, il Padre Mendozza, che avrebbe determinato Maurizio alle rivelazioni, ci parrebbe naturale collegare con tale fatto quel Sonetto che potè anche scrivere più tardi, col titolo "contro i G......" ossia "contro i Gesuiti", pubblicato negli anni successivi dall'Adami col titolo più prudente "contro gl'ipocriti": che esso debba riferirsi a' Gesuiti risulta manifestamente da' primi versi,

"Gli affetti di Pluton portano in core

il nome di Giesù segnano in fronte";

ben doveva il poeta trovarsi in grande eccitamento contro costoro, allorchè accennava alle loro malizie, e non soltanto per aggiustare la rima egli scriveva

"questo veggendo fà ch'io mi dischiome"(120).]

né scorgiamo altre poesie da doversi con qualche probabilità riferire a' fatti concernenti i laici, fra' quali pel solo Maurizio si vede che il Campanella poetò, mentre da una cancellatura fatta da fra Pietro nella sua raccolta rilevasi che perfino il Sonetto "in lode di carcerati e tormentati" aveva dapprima il titolo di Sonetto "in lode di Mauritio Rinaldo".

Ma nelle prime settimane del gennaio 1600 già si conosceva non lontano il cominciamento del processo della congiura per gli ecclesiastici, e le poesie furono più frequenti. Non è arrischiato l'ammettere che siano stati composti in tale data que' due Sonetti profetali, l'uno ancora inedito che comincia col verso

"Toglie i dì sacri il Tebro e calca Roma",

e l'altro già pubblicato dall'Adami che comincia col verso

"Veggio in candida roba il Padre Santo".

Questi Sonetti con qualche altro analogo, che trovasi disperso nel 2° gruppo e che vedremo altrove, sarebbero appunto i Ritmi profetali menzionati nel Syntagma; e non debbono sfuggire que' versi del primo rimasto inedito, forse rimasto inedito per essi,

"La giustizia si compra, el verbo santo

sotto favole e scisme ogn'hor si vende"(121).

Egualmente è verosimile che siano stati composti in tale data quei tre Sonetti concernenti lo Sciarava, i due primi di maledizione, il terzo, diremmo, d'insinuazione(122). Il primo che comincia co' versi

"Campanella d'heretici e rubelli

Capo in Calavria mai non s'è trovato"

offre anche una discolpa, oltre la maledizione nella quale son compresi tutti i persecutori di alto grado

"Ruffi, Garraffi, Morani, e Spinelli".

Il secondo, che ci sembra abbastanza bello, e che comincia co' versi

"Mentre l'albergo mio non vede esangue

e gli spirti poggiar tremanti al cielo",

offre una maledizione ed anche una preghiera, la quale mostra che l'autore riteneva del tutto imminente la chiamata agli esami,

"Deh Sig.r forte, in me volgi tua faccia,

dà authorità più espressa al mio sermone

ond'i ministri di Sathan disfaccia".

Il terzo, che porta veramente il titolo "in lode di spagnuoli", offre una insinuazione contro lo Sciarava e una protesta di devozione a Spagna, la quale certamente nessuno vorrà prendere sul serio: bisognava pure che il poeta si preparasse qualche argomento in suo favore pel caso di una scoperta delle poesie, massime quando avea mostrato tanto poco rispetto verso un funzionario importante del Governo spagnuolo e tuttora deputato ad assistere il Sances durante il processo. Poniamo inoltre qui il "Sonetto di rinfacciamento a Musuraca", senza dubbio mal situato tra le poesie del 2° gruppo, e sempre capace di eccitare gli amici a rimaner tali anche "a tempo d'infelice stato"(123). Con tanto maggior ragione poniamo qui anche il "Sonetto fatto a tutti carcerati", che del rimanente potrebbe esser posto anche tra le poche poesie del tempo del processo de' laici(124): in esso si dice che era negata, oltre la favella e il commercio, benanco la difesa, ciò che si spiega col fatto dell'amministrazione delle torture decretata durante il processo informativo, senza dare anticipatamente la copia degli atti; e tra' varii istrumenti di morte è citata pure la sega, ciò che aggiunge qualche cosa anche alla credibilità dello strano supplizio già destinato a Maurizio in Calabria. Vi brillano poi i concetti elevati e i consigli virili al maggior segno; vi si canta

".... sol la virtù de' vostri petti

l'orgoglio del tyranno affrena e lega";

vi si esalta il glorioso e bel morire per la libertà, e vi si dice

"Qui dolce libertà l'alma gentile

ritrova, e prova il ver, che senza lei

sarebbe anchor il paradiso vile".

Ma oltre gli eccitamenti in generale, diretti a' frati rimastigli fedeli, il Campanella diresse anche qualche eccitamento in particolare, p. es. al Petrolo, che sperava poter ricondurre a fedeltà; così dettò quel Sonetto che fra Pietro intitolò "in lode di fra Domenico Petrolo", e che veramente si deve dire di sollecitazione a ritrattarsi:

"Venuto è 'l tempo homai che si discuopra,

Petrolo mio, l'industriosa fede

che serbasti all'amico, e già si vede

ch'à tutte l'altre questa tua và sopra.

Mortifera, infedel, empia, ingrata opra

far simolasti, ch'a lui vita diede" etc.(125).

Non si sarebbe potuto adoperare modi più insinuanti, facendo ottimo viso a pessimo gioco; s'intende quindi che il Petrolo ne sia rimasto convertito, come mostrò con la sua deposizione del 29 gennaio, ma pur troppo per brevissimo tempo.

Cominciata in sèguito la causa, sostenuto l'esame ed essendo in corso le confronte, precisamente al cadere del gennaio 1600, il Campanella rincorato dovè scrivere quel magnifico Sonetto "a sè stesso", che fu poi pubblicato dall'Adami e che comincia coi noti versi:

"Legato e sciolto, accompagnato e solo

chieto, gridando, il fiero stuol confondo,

folle all'occhio mortal del basso mondo" etc.(126);

le quali ultime parole dinoterebbero il valore dato da' Giudici alle profezie e presagi, che egli dichiarò averlo guidato a ritenere imminenti grandi mutazioni. Di poi sofferta la dimora nella fossa del miglio e quindi la tortura, fatta in questa la sua confessione, non dovè mantenersi in tanta fiducia, e lo mostrerebbe il Sonetto "alla Beata Ursula napolitana a cui si raccomanda", inserto nella raccolta dopo il precedente(127): tutto il Sonetto esala lo sconforto del Campanella, che in quel momento sperava soltanto in una protezione superiore;

"Pregoti per l'honor del sacro manto

di cui spogliato incorsi in gran ruina,

. . . . . . . . . . . . . .

E canterò tornando al mio bel nido

il fin de' miei travagli" etc.

inutili speranze, desolanti ricordi. Ma non dovè tardare a sentire tanto maggiormente il bisogno di ravvivare la fede ed anche l'affetto de' suoi compagni, e crederemmo che dapprima gli abbia data una buona occasione la fermezza di fra Pietro di Stilo nel respingere le esortazioni di Maurizio a seguire l'esempio suo e a confessare: così alla 2a metà di febbraio e 1a di marzo ci parrebbe potersi assegnare i due Sonetti "in lode di fra Pietro di Stilo" seguìti da' tre "in lode del Rev.do P.e fra Dionisio Pontio"(128); l'essere stati posti nella Raccolta in ordine inverso ben può spiegarsi con la classificazione della relativa importanza data da fra Pietro Ponzio a' frati compagni del Campanella. Fra Pietro di Stilo, che aveva tanto poco partecipato alle speranze ed a' maneggi della congiura, soffriva tanti disagi e maltrattamenti per l'affetto al Campanella, su cui vegliava assiduamente e senza ritrarsi per qualsivoglia motivo; così ben si spiega tutto il contesto de' due Sonetti, ne' quali si vede pure il Campanella tuttora sconfortato:

"Sino all'inferno un cavalier seguìo

l'avventurato amico à grande impresa.

. . . . . . . . . . . . . . .

Frati, amici, parenti, chi mi nega,

chi più ingrato mi trade, e mi maligna (int. il Pizzoni)

chi non volendo nel mio mal si piega (int. il Lauriana).

Solo il travaglio e la rabbia maligna

titulo in fronte del tuo honor dispiega

Rè della fede chi mai non traligna.

. . . . . . . . . . . . . .

Fedel combattitor, mai non s'estingue

più il nome tuo, poiche serbasti solo

virtù, religion, patria, et amici".

In tal guisa il Campanella, pieno di gratitudine, onorava fra Pietro Presterà, "Pietro suo", come poi lo disse nell'opera ricomposta Del Senso delle cose: ma per fra Dionisio il caso era abbastanza diverso. "Senza dubbio fra Dionisio avea motivo di dolersi del Campanella, che già prima nella Dichiarazione, ma poi anche peggio nella confessione in tortura, avea rivelato l'esistenza di un concerto per fare la Calabria repubblica compromettendo lui; ed avendo sostenuto il polledro con tanta fermezza, verosimilmente la sua vanità lo conduceva tanto più a sparlare del Campanella, il quale, fin dal 1° Sonetto, "senza voce, afflitto e lento" ne carezza al maggior segno la vanità:

"Cantai l'altrui virtuti, (int. di Maurizio), hor me ne pento

Dionigi mio, non havean senno vero" etc.

Umiliato per non essere riuscito, all'opposto di lui, nella prova del polledro, il Campanella spiega la cosa con una finzione poetica, ma anche più curialesca, e infine si rivela disposto a soggiacere a tutto:

"In me tanto martìre io non soffersi

ch'in te stava il valor, el senno mio,

e solo al viver tuo fur ben conversi.

S'a te par, io men vado, o frate, a Dio

né chieggio marmi, né prose, né versi,

ma tu vivendo sol viverò anch'io".

Il 2° Sonetto, che risente troppo del gusto triviale del tempo, torna sull'argomento e glorifica fra Dionisio perfino con la testimonianza degli spiriti di Averno; ma vi si fanno notare i seguenti versi,

"Sfogaro mille Spagne e mille Rome,

al tuo martir unite, l'odio interno".

Il 3° Sonetto loda fra Dionisio per l'altro atto suo, per le confronte, le quali davvero non si scorge da qual lato potrebbero dirsi gloriose; e l'innesto, che vi si trova, dell'arme de' Ponzii, del giuoco degli scacchi e cose simili, apparisce una concessione al gusto non solo de' tempi ma anche de' Ponzii: né bastarono i tre Sonetti, e più tardi ce ne volle ancora un quarto. Ma bisogna per ora aggiungere che oltre a questi sinora detti vi fu anche il Sonetto "al sig.r Gio. Leonardi Avvocato de' poveri", Sonetto tirato addirittura co' denti, manifestamente obliato tra le poesie del 1° gruppo e posto di ripiego tra quelle del 2°: esso deve riportarsi per lo meno alla fine del febbraio, poichè allude alle difese che il De Leonardis già scriveva, ed agli argomenti che preparava quale Avvocato comune a tutti i frati

"Contra l'ombra di morte accesa lampa"(129).

Sicuramente poi nel marzo e prima metà di aprile la mente del Campanella fu tutta rivolta alla prosa e non alla poesia: basta ricordarsi de' due colloquii notturni passati tra lui e fra Pietro Ponzio, il 10 e il 14 aprile. Ma a quest'ultima data appunto fra Pietro gli annunziava di avere "sparso per tutta Napoli" i Sonetti, il Campanella annunziava di volerne comporre uno pel Nunzio, fra Pietro gli chiedeva in grazia di voler comporre prima quelli per lui e per suo fratello. Attenendoci più che è possibile all'ordine serbato nella raccolta di fra Pietro, dobbiamo dire che il Campanella siasi adattato a compiacere il suo amico, ma componendo un solo Sonetto, in cui abbracciò insieme fra Pietro, il fratello Ferrante, ed anche l'altro fratello fra Dionisio; di poi compose quello pel Nunzio, o meglio, come abbiamo già detto altrove, quello pel Papa da doversi far capitare nelle mani del Nunzio(130). Il Sonetto "in lode de' tre fratelli di Pontio" concede loro per attributi nientemeno che i tre principii metafisici, e li mostra un riflesso della Trinità: Ferrante rappresenterebbe la potenza, fra Dionisio la sapienza, fra Pietro l'amore; e ci basti sapere che fra Pietro abbia rappresentato pel Campanella l'amore o "il buon zelo". Quanto al Sonetto "al Papa", l'ultimo del gruppo che abbiamo fin qui esaminato, esso può considerarsi come l'embrione di quelle "appellationi segrete" che il Campanella intese poi di avere inviate al Papa massimamente con le sue lettere del 1606-1607: egli si raccomanda come meglio può, e riescono notevoli sopratutto i seguenti versi:

"Non vedi congiurati a farli guerra

i nemici alla patria Italia bella,

ch'egli al valor anticho rinovella,

dove il zelante suo parlar s'afferra".

Ignoriamo se il Sonetto sia stato trasmesso al Papa: nel Carteggio del Nunzio non ne troviamo il menomo indizio, e del rimanente, laddove fosse stato trasmesso, niuno potrebbe meravigliarsi che il ricordo della patria Italia bella, e del valore antico da rinnovellarvisi, avesse trovato il cuore SS.mo indifferente o peggio; basta che esso sia giunto a noi, per farci sempre meglio conoscere ed apprezzare gl'intendimenti del Campanella.

Passiamo ora a vedere le prose, delle quali il Campanella si occupò nel tempo suddetto. Ve ne sarebbero a considerare innanzi tutto tre, la 1a Delineatio defensionum, la 2a Delineatio... Articuli prophetales, l'Appendix ad amicum pro Apologia: le due prime, che rappresentano le Difese presso i Giudici, comparvero più tardi, il 3 giugno 1601, durante il processo di eresia per mano di fra Pietro di Stilo(131); l'ultima, che rappresenta una difesa presso un amico, comparve varii anni dopo, con ogni probabilità nel 1607, in coda agli Articoli profetali ricomposti allora in una forma più larga, verosimilmente essa pure ricomposta in una forma più larga di quella della composizione primitiva(132). Si può affermare con certezza, e ne vedremo tra poco le ragioni, che appunto in quest'ordine di successione le dette tre scritture siano state composte, essendone cominciata la composizione un po' prima della 2a metà di febbraio. Si ricordi che agli 11 febbraio era stato già accordato al Campanella "il termine e la commodità" alle difese, e che allora il Sances volle da lui una esposizione delle profezie sulle quali fondava le sue credenze di vicine mutazioni, onde egli dettò al Barrese notaro della causa molti Articoli profetali (ved. pag. 72 e 73). È naturale ammettere che il Campanella abbia posto subito mano a scrivere le sue Difese, stimando indispensabile aggiungervi anche gli Articoli profetali, mentre al Sances era parso conveniente acquistarne una nozione meno vaga mediante uno scritto. Ma tutto questo lavoro non potè esser pronto che pel 10 aprile, e il Campanella, giudicando che la causa sarebbe presto finita male e che bisognava pure aprirsi una via di uscita dall'imminente processo di eresia, avea dovuto manifestarsi pazzo fin dal 2 aprile: così le Difese scritte non poterono venir presentate in tempo, ma il Campanella continuò a lavorarvi di nascosto, senza dubbio nella speranza fallace che qualora non fosse stata giuridicamente convalidata la pazzia, esse avrebbero ancora potuto servire. Che il lavoro sia stato compiuto il 10 aprile, si desume dal colloquio notturno tenuto a quella data con fra Pietro Ponzio, il quale, avendo domandato al Campanella se avesse scritto abbastanza in quel giorno, ne ebbe per risposta "assaissimo, tutto"; l'aver poi il Campanella soggiunto che avea bisogno di dare l'indomani una pagina scritta a fra Pietro di Stilo, farebbe credere che in quel giorno medesimo egli avesse composta pure l'Appendice in forma di lettera, rappresentata da quella pagina scritta; sicchè la data di essa sarebbe il 10 aprile, ma resti ben fermato non potersi sostenere che essa sia stata allora scritta ne' termini precisi ne' quali è pervenuta a noi. Dopo le dette scritture abbiamo fondata ragione di ammettere che il Campanella si sia occupato di ricomporre l'opera già composta in Calabria "Della Monarchia di Spagna", volendosi servire anche di essa per sua difesa, quando si fosse ripigliata la spedizione della causa rimasta sospesa in que' giorni; e nella ricomposizione di detta opera ebbe ad impiegare il tempo immediatamente consecutivo, dal maggio 1600 ad una parte del 1601, mentre era in pieno svolgimento il processo di eresia.

Prima di esporre i particolari della Difesa, vogliamo notare alcune interessanti singolarità, che colpiscono vedendo in qual modo le Difese si trovano scritte: ne risulterà provato l'ordine di successione con cui vennero composte tutte le scritture sopra menzionate, ed anche chiarita la quistione de' libri, che il Campanella in sèguito affermò aver voluto presentare in sua discolpa, e in parte aver fatto subito venire dalla sua patria, ma che il Sances non volle si presentassero né si sapessero (ved. pag. 84). Le Difese con gli Articoli, così come furono trasmesse più tardi a' Giudici dell'eresia, non appariscono scritte di mano del Campanella, bensì trascritte da due copisti, de' quali il primo che trascrisse la "1a Delineatio" è rimasto ignoto, ma vedremo a suo tempo essere stato procurato da un Vincenzo Ubaldini di Stilo, l'altro che trascrisse gli Articoli fu certamente fra Pietro Ponzio, come apparisce dal carattere e come fu chiarito anche presso il tribunale per l'eresia: costoro ebbero a porre in ordine il contenuto di tante carte e cartoline staccate avute dal Campanella, il quale poi lo rivide, lo corresse, vi appose qualche postilla e qualche aggiunta di mano sua, ciò che merita la nostra attenzione(133). Fin dalla prima pagina colpisce il vedere enumerati quali libri suoi, atti a mostrare la sua affezione al Re e alla Spagna, i Discorsi a' Principi d'Italia che avea mandati all'Imperatore, il Dialogo contro i Luterani mandato a Massimiliano ed esistente anche presso Mario del Tufo, la Tragedia della Regina di Scozia conosciuta in Stilo e dal Principe della Roccella, e poi anche la Monarchia di Spagna, ma questa con un'aggiunta posteriore autografa, e con le circostanze dell'essere stata scritta "ad instantiam praetoris" e del trovarsi "in suis sarcinulis", naturalmente in Stilo; la cosa medesima si veda nell'ultima pagina degli Articoli profetali, dove sono enumerati i libri suoi atti a chiarire le cose enunciate negli Articoli, cioè la(134) Monarchia de' Cristiani esistente presso il Card.l S. Giorgio, e il libro Del Regime della Chiesa esistente in Stilo "in suis sarcinulis" e poi anche, e sempre con un'aggiunta autografa, la Monarchia di Spagna, con la circostanza del trovarsi parimente in Stilo. Adunque il libro della Monarchia di Spagna dovè essere scritto dopo le Difese, probabilmente in rifazione di un esemplare perduto in Stilo durante le sue peripezie, ma non potè essere presentato perché il Campanella mantenevasi tuttora pazzo, onde v'è ragione di credere che invece di farlo venire subito da Stilo, lo abbia mandato a Stilo per farlo trovare in quel posto e giustificare in tutto e per tutto la sua asserzione; questo per un altro verso si dovrebbe dire egualmente del libro del Regime della Chiesa, perché sappiamo che era stato scritto fin dal tempo della dimora in Padova ed era stato mandato a Mario del Tufo, e con ogni probabilità, mentre premeva che fosse venuto nelle mani de' Giudici, non si volle compromettere ulteriormente l'amico e protettore che ne possedeva un esemplare; deve d'altronde ritenersi molto naturale che in Calabria la prima composizione della Monarchia di Spagna si fosse perduta durante le peripezie del Campanella, mentre sappiamo con certezza che pure l'originale del Regime della Chiesa fu ivi "rubato da infedeli amici" come si legge nel Syntagma. Un'altra importante aggiunta autografa nella "1a Delineatio" si legge poco dopo quella finora esposta e commentata: avendo affermato che dalle profezie si rileverebbe non aver finto "ad malum tegendum", di seconda mano aggiunse che ciò si rileverebbe "et ex articulis prophetalibus ab eo additis" etc.; deve dunque dirsi che gli Articoli siano stati veramente scritti dopo la "1a Delineatio", che ad essi quindi si riferiva la dimanda fatta nel colloquio notturno da fra Pietro Ponzio il quale era impegnato a ricopiarli, e la data del 10 aprile sarebbe senz'altro la data in cui il Campanella dovè finirne la composizione. Mettiamo poi in un fascio tutte le altre aggiunte sparse nella "1a Delineatio", le quali recano essere stati i testimoni uniformi nelle profezie e varii nel rimanente, essere stato Maurizio persuaso a rivelare da un Fiscale in abito di confrate, essersi ritrattati il Caccìa e il Vitale, essersi una volta ritrattato anche il Pizzoni; tutto ciò mostrerebbe che la composizione della "1a Delineatio" dovè cominciare anche prima che fosse stata consegnata la copia degli Atti processuali, rappresentando le dette aggiunte, quasi tutte, notizie raccolte dagli Atti; né osta che in una si legga "detur copia processus et demonstrabitur", poichè ve ne sono altre che dicono "ut patet ex processu" e il Campanella avrebbe voluto non solo gli Atti concernenti la persona sua ma anche quelli concernenti i suoi compagni, che del resto dovè avere almeno in frammenti di soppiatto. Può dunque dirsi che egli abbia cominciato a scrivere questa "1a Delineatio" non appena sofferto il polledro e fatta la confessione, quando n'ebbe immediatamente "la comodità", ma deve anche dirsi che l'abbia compiuta dopo di avere avuto conoscenza della Difesa scritta dal De Leonardis e della replica del Sances, poichè vedremo or ora, nell'ultima parte di essa, non solo discusse con calore le identiche quistioni di dritto, ma anche respinte le cose che il Sances avea notate su' costumi, sulle passate imputazioni di eresia, sull'aver dato motivo di far morire molte persone: e gli Articoli profetali, da non doversi confondere con gli Articoli analoghi dettati al Barrese dietro richiesta del Sances, e rimasti senza dubbio nelle mani del Sances, naturalmente doverono essere scritti, nella loro ultima parte, tra le angustie della dimostrazione di pazzia e tra' pericoli della rigorosa sorveglianza.

Veniamo a' particolari delle Difese, che ci sembra conveniente esporre con larghezza e poi commentare un poco, sebbene venute tanto più tardi in luce, non presentate al tribunale competente e rimaste affatto perdute pel Campanella. Teniamo per fermo che i lettori vorranno conoscerle nella loro integrità testuale, ma ciò non ci dispensa dall'obbligo di farne una minuta esposizione: deve anzi dirsi una fortuna poter udire subito dopo lo svolgimento del processo la voce dell'imputato, e poterne trarre una conclusione meno fallace intorno alla sua colpabilità ottenebrata da tanti interessi diversi.

Nella "1a Delineatio", appellandosi a' Libri sacri come fonte di ogni legge, il Campanella comincia dal notare che in essi son detti colpevoli di lesa Maestà solamente quelli che prendono le armi contro il Re giusto o per malevolenza o per ambizione, non quelli che perfino consumarono la ribellione guidati dalla profezia e comunque fossero cattivi soggetti, adducendo gli esempi di Siba e di Chore da una parte, e di Jeroboam, di Jehu e di Joiada dall'altra. E soggiunge: "ma fra Tommaso Campanella, insieme con quelli i quali aderirono a lui con retta intenzione, non fu mosso a cospirare né dall'ambizione né dalla malevolenza, se pure cospirò, bensì guidato dalla profezia umana e divina; né la sua fu una cospirazione contro il Re, ma una certa cautela contro le incursioni de' barbari e un'ammonizione a' conterranei perché si mantenessero incolumi ne' monti, se per fatalità avvenisse quanto si prediceva, laonde egli non è ribelle né degno di morte". Passa quindi a dimostrare che non lo fece per ambizione di Regno, perché era impossibile a lui poveretto distrarre il Regno o la provincia dal dominio di un Re tanto forte, e bisognava esser matto per ingannarsi fino a questo punto; e dice che per natura e per fortuna egli era impotente a tali desiderii, e rassegna i suoi precedenti, e nota le sue carcerazioni e malattie anteriori, il ritorno in patria per salute a consiglio de' medici Tancredi, Politi e Carnevale, i suoi studii alieni dalle armi, le sue predicazioni per indurre il popolo a fabbricare una Chiesa di cui il convento difettava ed egli scavò i fondamenti; e nota il libro Sulla predestinazione che scriveva contro Molina per S. Tommaso, e la Tragedia della Regina di Scozia contro gli Anglicani in favore del Re, la sua vita di studioso e religioso, la sua opera di pacificatore, e perfino la sua timidità provata nel tormento, citando come testimoni fra Pietro di Stilo, il Petrolo, tutti i suoi compagni di dimora, e conchiudendo che "dissero cosa mostruosa coloro i quali gli attribuirono la cupidigia di Monarchia". Dimostra poi che non cospirò per malevolenza verso il Re e il suo dominio, perché aveva sempre ottenuto favore dagli spagnuoli ed austriaci, come dal Reggente Marthos (Reggente di Cancelleria in Napoli) e dall'Ambasciatore di Roma (il Duca di Sessa), e parimente dall'Arciduca Massimiliano e dall'Imperatore, i quali scrissero a Roma in favore di lui e di Gio. Battista Clario carcerati; onde per gratitudine egli compose il Trattato in cui sosteneva che l'Italia per suo bene dovea desiderare il dominio del Re di Spagna, Trattato che mandò all'Imperatore mediante Gio. Battista Clario, ed egualmente il Dialogo contro gli Stati del settentrione calvinisti e luterani, che mandò a Massimiliano e che trovavasi in copia presso D. Mario del Tufo, come pure l'anzidetta Tragedia, nota a Stilo ed al Principe della Roccella, ed il libro della Monarchia di Spagna, scritto ad istanza del pretore (Governatore de Roxas?) e colmo di lodi per gli spagnuoli, che trovavasi nelle sue poche masserizie. Nota infine la sua amicizia col pretore spagnuolo e co' Presidi della Provincia (gli Auditori?), l'essere stato sempre invitato dal governatore a predicare, e l'aver detto nelle sue prediche tante cose in favore del Re: che Dio avea dato la Monarchia agli spagnuoli perché aveano combattuto 700 anni contro i mori nemici della fede, mentre gli altri Principi cristiani si combattevano tra loro; che il Re avrebbe distrutto i turchi quando costoro si sarebbero divisi giusta la predizione di Arquato astrologo; che se nel Regno esisteva qualche durezza, essa dovevasi ai difetti del popolo e de' ministri, non già del Re; che nella prossima mutazione del mondo il Re Filippo avrebbe rappresentata la parte di Ciro, secondo i detti di Esdra e di Isaia, poichè dovea liberare la Chiesa dalla Babilonia de' turchi e degli eretici, edificare Gerusalemme, cioè Roma, e stabilire il vero sacrificio dovunque nel mondo, girando il suo imperio col sole, ogni ora facendo giorno in qualche parte del Regno suo e celebrandosi continuamente la Messa in siffatto giro, la quale sentenza era invalsa tanto, che Fulvio Vua sindaco di Stilo l'avea riprodotta nel recitare il prologo di una rappresentazione della Passione di Cristo, citando il Campanella fra' battimani generali. Così egli era stato sempre pel Re ed avea procurato che gli altri lo fossero, ne conservava l'immagine ed amava coloro che le facevano onore, come erano in grado di attestare fra Pietro di Stilo, il Petrolo, fra Scipione Politi, tutti gli Stilesi; né poteva dirsi che egli si fosse infinto, mentre avrebbe agito contro sè medesimo, perocchè se voleva tra due mesi distruggere il dominio del Re, come mai così accanitamente l'edificava? e come mai il Popolo poteva credergli in tanta contraddizione? conchiudendo: "l'edificazione è attestata da molti e probi uomini, la distruzione segreta da pochi e scellerati, a chi crederete voi o giusti giudici?". Escluso quindi il movente dell'ambizione e della malevolenza contro la Maestà, rimaneva il movente della profezia, e non già contro ma a tutela della Maestà. E qui egli si fa a citare tutte le previsioni, tutt'i prodigi, tutte le profezie ad una ad una (sono state già accennate troppe volte e possiamo dispensarcene), aggiungendo di avere interpretate le imminenti mutazioni a favore del Re e della Chiesa, col servirsi delle affermazioni de' Profeti e de' Santi, col sostenere che prima della fine del mondo doveva esservi "un solo ovile ed un solo pastore in una sola Repubblica cristiana, a capo della quale il Pontefice Romano", che "il Re avrebbe adunato i Regni e il Papa li avrebbe accolti nel suo ovile con maggior potestà". E dice che i frati di S. Domenico doveano preparare tale repubblica, e con autorità sacre e profane dimostra la futura repubblica, preludio della celeste, desiderio degli uomini pii e de' Profeti, de' Poeti e de' Filosofi, da verificarsi con la fusione di tutti i principati in un Regno Sacerdotale ammesso anche da Platone; e nota che riusciva esaltato il Re Filippo, posto da Dio per soggiogare tutte le genti e i Regni, onde il senso della repubblica predetta "era utile al Re prima che al Papa". Aggiunge non poter essere condannato nemmeno quando le mutazioni predette non si avverassero, poichè egli seguiva i Padri e i Santi, che pure errarono; egli non era Profeta ma seguiva i Profeti, e d'altronde nota che chi scorge i segni è tenuto a mostrarli, citando in ciò l'esempio di Geremia e il precetto di S. Pietro. Prevede intanto un argomento del Fisco, l'avere cioè lui detto che bisognava "fare la repubblica con l'eloquenza e con le armi ne' monti": e risponde che spettava a' Domenicani il prepararla, e lo dimostra con molte autorità, aggiungendo che pure a' filosofi spetta trattare della repubblica, ed egli, filosofo cristiano, come S. Tommaso, Egidio ed altri, ne trattò scrivendo il libro della Monarchia universale dei Cristiani che trovavasi presso il Card.l S. Giorgio, ed in Stilo scriveva un libro sulla maniera di formare quella Monarchia secondochè avea promesso nel libro anteriore; donde bellamente provavasi "che egli non avea voluto preparare la repubblica per sè stesso, ma preparare pel Papa e pel Re un seminario di uomini grandi nelle lettere e nelle armi, acciò potessero essere inviati dal Re e dal Papa pe' negozii di pace e di guerra, e mostrare il preludio della repubblica grande universale" etc. Prevede ancora un'obiezione(135), cioè, chi gli avea data una missione simile? E risponde che avea "avuto nell'animo un istinto divino appoggiato da segni e da profezie", che Dio gli avea dato de' segni, ed egli avea considerato a proposito servirsi del cattivo evento in bene, e così "ciò che disse non fu un tentativo di ribellione ma una cautela contro il male imminente, perocchè non avrebbe fatta la republica se non si fosse avverata la mutazione; secondochè provasi dalla confessione sua"; e come i Veneti non furono ribelli, quando per mettersi al sicuro da' barbari occuparono gli scogli e il mare Adriatico e fecero la repubblica, così essi pure non lo sarebbero stati nell'occupare i monti se la mutazione si fosse avverata.

Continuando, passa a ribattere le testimonianze raccolte contro di lui. I testimoni aveano deposto "che egli voleva ribellarsi appoggiato agli aiuti de' turchi, de' banditi e de' predicatori": ma non lo convincevano intorno a ciò, sia perché egli non poteva ambire l'impossibile ed era amico degli spagnuoli, come avea già provato, sia perché que' testimoni o parlavano per detto altrui, o erano complici ed uomini scelleratissimi, ed anche aveano fatte confessioni estorte per forza e per inimicizie. Tutti aveano detto che egli metteva innanzi le mutazioni, laonde non vi era intenzione di ribellarsi ma di difendersi da' nemici del Re e del Papa; quanto essi aveano aggiunto proveniva o da cattiva intelligenza, o da inimicizia, o da malvagità, e nelle cose aggiunte a lui sfavorevoli erano "varii", e nella cosa principale a lui favorevole, cioè la profezia, erano uniformi, onde risultavano a discarico più che a carico. D'altronde la profezia di una mutazione è sempre apparsa così vicina alla ribellione medesima, che tutti i Profeti, come Michea, Geremia, Amos e del pari gli Apostoli e Cristo Signor nostro, furono incolpati di tale delitto; qual meraviglia che lo sia stato lui poveretto? Ma egli non si appoggiò mai all'aiuto de' turchi; nessuno lo disse se non per detto altrui, e lo stesso Maurizio che parlò co' turchi non disse che vi era stato mandato da fra Tommaso, ma che vi era andato spontaneamente; e ciò quantunque gli fosse nemico. Gli era nemico, perché dubitò che esso fra Tommaso, il quale lo rimproverò pel salvacondotto stabilito co' turchi, lo rivelasse; inoltre perché esso fra Tommaso, mediante una domestica, avvertì Giulio Contestabile che Maurizio si era nascosto nella piazza di Stilo per ucciderlo, e questo non succedendogli, nello stesso giorno Maurizio si portò a S. Maria di Titi per uccidere fra Tommaso e lo perseguitò per 7 miglia. E però Maurizio risultava degno di fede quando negava di essere stato mandato presso i turchi da lui, non già quando deponeva contro di lui per inimicizia; poichè era testimone unico, nemico, e facinoroso, che aveva ucciso più persone e volle vendicarsi di ciò che esso fra Tommaso avea deposto in iscritto contro di lui in Castelvetere, come rilevavasi dal processo. Allorchè esso fra Tommaso lasciò Davoli e Maurizio, trovandosi insieme con fra Domenico, veduti in mare i turchi li sfuggì, malgrado avesse visto il salvacondotto dato da essi a Maurizio; e però non avea confidenza ne' turchi, sebbene avesse detto doversi essi dividere sotto due Re secondo la profezia di Arquato astrologo, ed uno di costoro dover venire alla fede ed alla repubblica; ma Maurizio faceva queste cose perché fosse temuto ed avesse danaro dagli amici, servendosi male de' detti di esso fra Tommaso, al pari degli scellerati ed eretici i quali abusano anche dei detti degli Apostoli. E poi Maurizio ridotto agli estremi ebbe speranza di salvarsi, deponendogli contro; giacchè glie lo persuase un certo fiscale in abito di confratello, promettendogli la vita sotto la parola Regia, come in sèguito udì dalla bocca di lui esso fra Tommaso, e vi erano per testimoni sacerdoti e persone dabbene che l'affermavano. "né esso fra Tommaso volle servirsi de' banditi come nemici del Re, ma come uomini armati, volgendoli al bene: perocchè propose di servirsi anche di uomini probi non banditi, come rilevasi dal processo. A' Principi amici poi egli dichiara non aver rivelato nulla, non perché fosse cosa cattiva, ma perché agli uomini felici ogni presagio di mutazione rincresce". Quanto a Claudio Crispo, costui rivelò per orribili tormenti non scritti in processo; ed era bandito, omicida e nemico di esso fra Tommaso, il quale non avea voluto trattarne il matrimonio ed avea detto al Pizzoni che avvertisse il Signore del luogo che Claudio voleva ammazzarlo, onde si rifiutò di recarsi a Davoli quando egli ve lo chiamò per mezzo del Petrolo; adunque non meritava fede. Quanto al Caccìa, al pari del Pisano, era stato esaminato in foro non ecclesiastico, ed era bandito ed omicida, nemico egualmente di esso fra Tommaso, il quale ricettò nella sua cella Marcantonio Contestabile quando egli voleva ucciderlo per averne avuto un colpo di archibugio; ed avea detto di aver parlato con fra Tommaso nel giugno, mentre aveagli parlato nella settimana santa, e poi sul punto di morte si era ritrattato. Quanto al Pisano e a Gio. Battista Vitale, oltrechè erano scelleratissimi, non aveano mai parlato con fra Tommaso; e nel carcere di Castelvetere non si parlò di quello che disse il Pisano, come lo provavano la sconvenienza della cosa e le testimonianze del Bitonto e di fra Dionisio; il Vitale poi sul punto di morte si era ritrattato. Quanto al Pizzoni, esso era scandaloso, scellerato ed infame (e qui nota ad una ad una tutte le colpe di lui minutissimamente ed anche ingenerosamente, con un odio manifesto); avea promesso di ritrattarsi nelle cartoline scritte entro il Breviario, e si era una volta ritrattato, e poi era tornato alle prime dichiarazioni, onde dovea dirsi bilingue, detestato da Dio nell'ecclesiastico, e qual fede potea fare? Il Lauriana era falsario, come lo provavano le sue lettere mandate a fra Dionisio ed a' fratelli Ponzii, e varie altre circostanze rilevate nel processo; era infame, come lo provava la sua vita anteriore; ed esso fra Tommaso nella sua confessione non lo nominò, poichè essendo infame non aveagli mai parlato, ed anzi si rifiutò di farlo accogliere nel convento di Stilo, onde gli divenne nemico. Fra Domenico Petrolo poi nemmeno meritava fede, perché si lasciò persuadere dal Lauriana mentre era nella medesima fossa, nella quale scrisse esservi stato posto perché dicesse il falso; inoltre in Lombardia aveva avuto penitenze come manesco.

Dopo di aver combattuto i testimoni, il Campanella combatte i primi giudici, accenna all'imputazione di eresia, discute le quistioni di dritto, e formola la sua conclusione. Fra Marco di Marcianise era vecchio nemico di fra Dionisio per le controversie de' frati Riformati. Fra Cornelio lombardo era egualmente nemico di fra Dionisio per molte cause fratesche, e poi avea preso danaro; 100 ducati da Mesuraca per fare un processo capitale, 50 ducati da' parenti di Cesare Pisano per favorirlo, 100 ducati da fra Vincenzo Rodino e fra Alessandro di S. Giorgio per liberarli dalla carcere. Lo Sciarava, giudice nell'altro foro, era stato giudice e parte, avea magnificata la causa della ribellione per magnificare sè medesimo presso il Re, trovavasi da due anni scomunicato dal Vescovo di Mileto patrono di esso fra Tommaso; avea preteso la ribellione essere fomentata da Prelati e da Principi, ed aveva amministrati tali e tanti tormenti da far dire ad ognuno più di quanto sapesse, mentre anche i calabresi, per natura loro, credono di esonerarsi col dire più di quanto sanno non solo contro i nemici ma anche contro gli amici. E poi soggiunge: "Non deve pregiudicare ciò che falsi testimoni affermano, l'aver lui voluto fondare eresia, poichè questo deve discutersi non già ritenersi in anticipazione, né egli ne fu mai confesso o convinto, benchè ne sia stato veementemente sospetto; e la sospizione si è verificata anche in persona di Profeti e di Santi, che trovansi condannati come eretici e seduttori. né in Calabria è possibile fondare eresia senza le forze de' Principi, siccome egli disputò nel libro della Monarchia, e se avesse avuta questa intenzione sarebbe andato in Germania o a Costantinopoli. Così mostransi riprensibili le parole sue mal comprese, non già la sua vita e i suoi costumi, circa i quali egli chiede di essere inquisito benchè si trovi diffamato. E i suoi travagli passati non lo rendono cattivo, ma forse piuttosto timido, giacchè la cattiva azione fa l'uomo cattivo.... Oramai si è fatto palese che i pensieri di fra Tommaso erano rivolti all'unione de' Cristiani". Soggiunge ancora: le pruove testimoniali dicono tutto al più aver lui voluto ribellare solamente di seconda intenzione, cioè nel caso in cui fossero avvenute mutazioni. Ma bisogna distinguere il reato commesso e il reato semplicemente voluto, e quello contro la persona del Re e quello contro il Regno. Chi l'abbia commesso merita la morte e non può darglisi di più; chi l'abbia solamente voluto merita qualche cosa di meno; chi l'abbia voluto di seconda intenzione merita anche meno di chi l'abbia voluto di prima intenzione; e chi non è suddito merita meno del suddito, e il frate meno del clerico secolare, poichè la Religione Domenicana dipende immediatamente dal Papa; chi poi dice bene del Re merita anche meno. Inoltre non ci fu mai un concerto, ma ci furono colloquii accidentali. Così nella casa di Gio. Jacopo Sabinis esso fra Tommaso andò a far la pace tra' Contestabili e Carnevali; erano presenti Maurizio e Gio. Gregorio Prestinace suo compare venuti per la pacificazione, e cadde il discorso sulle mutazioni, ma nessuno intervenne per la ribellione, che nessuno di loro avea mai ideata. A Pizzoni esso fra Tommaso andò sollecitato tre volte da fra Gio. Battista, e comunque vi fossero altre persone, il colloquio si tenne solamente tra lui, fra Gio. Battista e Claudio Crispo: non erano presenti fra Dionisio e gli altri, e però non ci fu concerto; esso fra Tommaso parlò al Crispo dietro istanza di fra Gio. Battista per trattenerlo nella difesa di lui, non già per la ribellione, e andò pure a vedere una fabbrica di carta, ed aveva compagni perché la strada non era sicura. A Davoli neanche vi fu concerto, poichè il Rania e Maurizio non furono presenti al colloquio che esso fra Tommaso ebbe con Gio. Paolo di Cordova e Gio. Tommaso di Franza, "onde riesce chiaro non esservi stato da parte di fra Tommaso fermo consiglio, se fatalmente le mutazioni non avessero fornita l'occasione". Egli non merita pena, avendo solo razionalmente dubitato pe' segni o per le profezie; né è responsabile dell'essere molti morti per questa causa, poichè tutti erano omicidi, e Dio permise che morissero per avere abusato de' detti di fra Tommaso e per gli altri loro peccati. Anche le predicazioni degli Apostoli e de' Profeti eccitarono molti rumori, ma la predicazione di fra Tommaso fu a vantaggio della repubblica sì del Re che del Papa. I socii di Catilina convinti e confessi di congiura per mettere a fuoco la patria e distruggere il Senato, avendo giurato col bere sangue misto con vino, perché non giunsero a consumare la loro scelleraggine, trovarono una parte di Senatori che con Cesare disse non doversi dare loro la morte: e non troverà misericordia presso cristiani fra Tommaso, che non commise scelleraggine, non si ricinse di armi, non mosse a sedizione.... né è suddito, né Principe o potente da cui possa temersi qualche cosa? I Dottori dicono, che è in facoltà del giudice consegnare o no un clerico alla Curia secolare, vista la condizione della persona: la condizione deve intendersi relativamente all'atto in quistione non già relativamente ad ogni altra cosa, e qui c'è difetto di condizione spettante alla sostanza dell'atto, poichè essendo fra Tommaso inabile a ribellare e per natura, e per fortuna, e per professione, non deve credersi che abbia cercato di ribellare, anche quando fosse un cattivo soggetto. Oltracciò il Papa nel suo Breve dice che si consegnino alla Curia secolare coloro i quali sono legittimamente convinti, e fra Tommaso non è convinto, sia perché manca il corpo del delitto, sia perché i testimoni sono complici, nemici e scellerati, ed anche varii intorno alla cosa, al modo, al luogo e al tempo. E la convinzione deve intendersi nel senso del reato commesso, non già soltanto voluto, e se la convinzione manca, la condanna deve pronunziarsi secondo il dritto canonico, non secondo il dritto civile: né la ragione politica lo consiglia, poichè è odioso lo spargere il sangue di un sacerdote, massime pel motivo di profezia; e il popolo lo loderebbe quando avvenisse qualche sciagura. Tutti i testimoni ne' tormenti negano di essersi accordati con fra Tommaso intorno alla repubblica; adunque fra Tommaso fu solo a volerla, ciò che è impossibile, e così essi lo assolvono, e "mostrano fra Tommaso aver detto questo nella sua confessione pel minor male, sotto l'impressione del tormento, macerato dal carcere, dalla fossa e dall'inedia".

Ed ecco la conclusione: "Meglio è che sia messo in custodia fino al tempo della predizione sua, sì che il popolo ne vegga la falsità, ovvero si penta acciò non accadano i mali quando siano veri; come avvisava Geremia... Che se avvenga danno al Regno, egli si offre di risarcirlo al doppio; poichè della morte sua il Regno non rimane edificato ma scandalizzato, laddove si verifichi qualche sciagura, come apparisce dalla perdita delle navi sofferta(136). "La morte è una cautela di mali futuri, non già de' passati: a ciò meglio provvede il carcere in materia di predizioni e novità". E ripigliando le sue considerazioni sul processo aggiunge di non dover morire, perché non è ribelle né di 1a né di 2a intenzione, perché non è convinto, perché seguendo il fato predisse e desiderò preparare un bene da un male; e le inimicizie, tra tutti quelli che volevano ciò, mostrano non esservi stato tra loro alcun proposito di ribellare, poichè la cospirazione esige l'unione degli animi e molta confidenza, e tra loro non ve ne fu; vi fu abuso delle predizioni da parte di taluno. La ribellione non venne dimostrata con qualche atto, ma solo concepita nell'intenzione; null'altro il fisco può provare dal processo, ma non si può provarlo nemmeno dalle parole di fra Tommaso agli altri, poichè egli poteva altro dire ed altro intendere; ma dalle parole sue nel tormento non si prova l'intenzione di ribellare, bensì il contrario, e però contro di lui non c'è nulla. Finisce chiedendo i suoi libri e la facoltà di essere esaminato, e dimostrando che non si deve seguire il Palermitano, il quale dice che nel caso di delitto di ribellione il clerico ha da essere consegnato alla Curia secolare, poichè le teoriche di costui non sono soltanto erronee ma perfino eretiche(137).

La "2a Delineatio" è rappresentata dagli Articoli profetali. Sono 15 articoli ne' quali il Campanella mostra la necessità di occuparsi de' segni e delle profezie, espone e giustifica quanto avea raccolto in tale materia, ed infine ricorda anche i segni speciali visti in Calabria, onde era stato condotto a determinare l'inizio delle imminenti mutazioni nel 1600 e nel primo settenario del nuovo secolo. Andremmo troppo in lungo nel volerne dar conto; e trattandosi di cose le quali riescono a chiarire il punto di partenza della sua azione, ma non propriamente la sua azione ne' fatti della congiura, crediamo bene potercene dispensare. Egli li scrisse in aggiunta alla sua 1a Difesa, per dimostrare "che non si era infinto allo scopo di covrire un male", come appunto ivi dichiarò; non rappresentavano quindi propriamente una difesa, ma un allegato della difesa, e questo si rileva anche dalla loro intestazione. Il Campanella si proponeva di svolgerli innanzi a' Giudici coll'aiuto del libro sulla Monarchia de' Cristiani e del libro sul Regime della Chiesa, l'uno in potere del Card.l S. Giorgio, l'altro lasciato in Stilo; e chiedeva questi libri, e si protestava della nullità degli atti se i libri non fossero dati, come si legge appunto nella fine degli articoli.

Dobbiamo ora fare qualche commento su queste Difese, e segnatamente sulla 1a di esse. Lasciando da parte la forma, notiamo che varii tentennamenti appariscono ne' concetti medesimi esposti dal Campanella, ed in ultima analisi non è assolutamente negato il fatto di un disegno partecipato con sollecitazioni a diversi aderenti, banditi e non banditi, di un concerto per far la repubblica nei monti, avvalendosi di mutazioni in vista ed aiutandosi con le armi e le prediche; ma questo fatto è semplicemente attenuato e fornito di spiegazioni, il cui valore doveva senza dubbio riuscire quistionabile assai nella mente de' Giudici. D'altronde non si vede efficacemente combattuto il cumulo di testimonianze raccolte contro di lui, ma anch'esso appena attenuato e fornito di spiegazioni non sempre felici; sicchè non è pienamente negata la reità, ma solo rimpiccolita al punto da respingere per essa la pena di morte ed ammettere la pena del carcere indefinito. Mentre si propone di sostenere che non abbia cospirato, comincia col dimostrare che "non fu mosso a cospirare né dall'ambizione né dalla malevolenza, ma guidato dalla profezia"; intende di provare non esservi stato concerto, e frattanto parla di "coloro i quali aderirono a lui con retta intenzione", e spiega che "volle servirsi de' banditi non come nemici del Re, ma come uomini armati convertendoli al bene, e propose di servirsi anche di uomini probi non banditi"; ed è superfluo insistere sul buio fitto della natura delle mutazioni, della condizione della repubblica da fondarsi, del Regno sacerdotale unico "utile al Re prima che al Papa", dell'essersi mosso a preparare la repubblica "per istinto divino e perché spettava a' Domenicani il prepararla", e parimente degli scopi singolari affibbiati a tale repubblica. Non riesce poi certamente a combattere i testimoni dicendoli "complici e scelleratissimi", giacchè l'esistenza del reato veniva con ciò tristamente ribadita, e per la giurisprudenza del tempo nel reato di Maestà anche i complici valevano a convincere; né riesce esatto dicendo che "tutti ne' tormenti aveano negato di essersi accordati con fra Tommaso intorno alla repubblica" e però fra Tommaso sarebbe stato il solo a volerla, mentre invece taluni erano risultati confessi di avervi direttamente o indirettamente aderito. E guardando alle obiezioni avverso ciascun testimone, debolissime riescono p. es. quelle fatte al Petrolo, e quanto al Pizzoni, niente di serio prova l'enumerazione delle sue scelleraggini ed infamie passate, le quali non aveano mai impedito che fosse corsa tra lui e il Campanella una grande intimità; né prova molto la ritrattazione da lui fatta ma non mantenuta, e l'essere stato bilingue prova tutt'al più che gli avea mancato di fede, denunziandolo in un reato nel quale erano complici, ma non che il reato era stato da lui inventato. Quanto al Caccìa ed al Crispo, non riescono facilmente ammissibili le spiegazioni date per mostrare la loro inimicizia verso di lui, mentre egli si era mantenuto in istretta relazione con loro, e massime con l'ultimo avea tenuto una corrispondenza scritta, assai compromettente e caduta nelle mani del fisco; quanto al Pisano ed al Vitale, è vero che costoro non aveano mai parlato con lui, ma aveano pur troppo parlato co' due suoi più attivi compagni, fra Dionisio e Maurizio, l'uno lasciato dal Campanella assolutamente nell'ombra, l'altro posto sotto una luce orribile; d'altronde, circa le ritrattazioni avvenute per taluni di costoro in punto di morte, esse a quel tempo nemmeno godevano molto credito, sapendosi che erano troppo spesso dovute alle istanze de' superstiti, e alla credenza che fosse opera cristiana e meritoria l'aiutarli. Quanto a Maurizio, l'inimicizia di costui non riesce concepibile, mentre in tanti tormenti sofferti non aveva mai nominato il Campanella, e le storie postume di tale inimicizia, come il movente delle ultime rivelazioni da lui fatte, appariscono asserzioni inventate pe' bisogni della causa: sul fatto medesimo dell'avere Maurizio deposto che il Campanella non avea voluto il soccorso de' turchi, fatto ripetuto costantemente dal Campanella, c'era un po' di equivoco, giacchè Maurizio avea con lealtà deposto di essere spontaneamente andato presso i turchi, non già che il Campanella fosse propriamente contrario alla dimanda di questo soccorso, mentre invece egli appunto ne avea fatto sorgere il pensiero. Ma del resto lasciando anche da parte tutte le testimonianze di questi "complici e scelleratissimi", c'era la testimonianza dello stesso Campanella, la Dichiarazione scritta in Castelvetere, suggellata dalla confessione orale in tortura; e il Campanella nella sua Difesa accenna appena a questa confessione, la quale era sempre della più alta importanza, giacchè, pur quando avesse potuto dimostrare di non essere stato convinto, gli rimaneva ancora a dimostrare di non essere stato confesso; egli si limita a dire, col solito tentennamento, una volta che "dalla sua confessione si provava solo che non avrebbe fatta la repubblica se non quando fosse avvenuta mutazione", ed un'altra volta che "dalle sue parole nel tormento non si provava l'intenzione di ribellare, bensì il contrario", laonde questo lato importantissimo della difesa apparisce deficiente. Infine torna anche inutile per lui ricordare che i primi Giudici erano nemici e venali, quando le imputazioni risultavano confermate innanzi a' successivi; inutile far notare che lo Sciarava si era servito di tormenti gravissimi, quando la giurisprudenza concedeva di potersene servire nel caso di lesa Maestà; inutile distinguere il reato commesso e il reato semplicemente voluto quando la giurisprudenza nel caso di lesa Maestà assegnava la pena medesima all'uno ed all'altro; inutile discutere le condizioni in cui si poteva consegnare il Clerico alla Curia secolare, quando il Breve Papale aveva conceduto che le si consegnassero quelli "legittimamente convinti o confessi". In conclusione le Difese del Campanella non avrebbero potuto distruggere l'imputazione fattagli, perché la sua causa disgraziatamente era insostenibile con efficacia. Gli Articoli profetali da lui scritti, senza contare quello serbato in petto concernente la Monarchia a lui profetizzata dall'astrologo, valevano bene a dimostrare che egli penetrato di certi principii superiori aveva agito in conseguenza di essi: ma non era stata per anco fatta a que' tempi la grandiosa scoperta della forza irresistibile, e l'opera sua, comunque ricinta di certe condizioni, non era e non poteva essere che una congiura, un disegno di ribellione, e i Giudici non avrebbero potuto profferire altra sentenza che quella di consegna alla Curia secolare. Egli medesimo si contentava allora di ciò che lo rese scontento in sèguito, quando il caso glie lo fece ottenere, di esser messo in custodia fino all'avveramento della predizione sua; e si sa che il tempo ne era definito sino ad un certo punto, lasciando un margine più che largo, come rilevasi chiaramente dalla stessa edizione posteriore de' suoi Articoli profetali. Dopo tutto ciò può ognuno formarsi un criterio intorno alla colpabilità del Campanella nel delitto appostogli; a noi essa apparisce manifesta.

Ci rimane a parlare dell'Appendice o Lettera "ad amicum pro Apologia", scritta, come abbiamo veduto, subito dopo le Difese. Quale oggi la possediamo, essa trovasi in coda a ciascuna delle tre copie ms. degli Articuli prophetales, ultima ricomposizione, che si conservano in Roma nella Casanatense, in Napoli ed anche in Madrid nelle rispettive biblioteche nazionali. Il Berti fu il primo a scovrirla nella Casanatense, e nel 1878 ne diè un sunto molto preciso, giudicandola documento valevolissimo a smentire l'esistenza della congiura. Noi la diamo per esteso, nella lezione della Casanatense e in quella di Napoli, giacchè ognuna di esse è molto scorretta e può l'una correggersi con l'altra, raccomandando a' lettori di percorrerla nella sua integrità: essi la giudicheranno probabilmente, come noi la giudichiamo, un documento apologetico, al pari delle lettere del 1606-1607 e della Narrazione che il Campanella scrisse tanto più tardi, per giustificarsi alla meglio e in tutti i modi, i quali d'altronde non escono dall'ordine de' modi da lui adottati e ripetuti sempre; né sfuggirà certamente la concordanza de' concetti in essa svolti con quelli svolti nella Difesa. Diciamo d'un tratto che la Lettera apparisce scritta ad un compagno di carcere similmente frate, con ogni probabilità a fra Dionisio, durante la causa della congiura, dietro il risentimento di costui perché le mutazioni previste non erano succedute o erano succedute a rovescio, ed anche perché avea confessato di voler predicare la repubblica. Ma eccone una rassegna particolareggiata. Il Campanella vi ricorda aver detto che dall'anno 1600 in poi sarebbero succedute grandi novità, ed afferma che sul negozio di Calabria l'amico dovea sdegnarsi non già contro di lui ma contro sè stesso, che avea parlato di ciò che meno comprendeva. Che egli vide una cometa marziale la quale correva dall'oriente all'occidente, ed argomentò che sarebbe venuta gente estranea contro i Reggitori della Provincia, ma non potè vedere che razza di gente si fosse, e vennero i Capitani Regii e desolarono il paese (infatti venne Carlo Spinelli avverso a De Roxas Preside della Provincia, ma di questo pronostico sbagliato da cima a fondo avrebbero potuto forse rimanere capacitati i Giudici, non mai l'amico suo). Ed estendendosi ne' prodigi apparsi "che poteano muovere ogni savio a parlare", dice che nelle sue predizioni non tocca questo Regno più che lo stesso mondo, di cui preconizza la fine (veramente nella Dichiarazione avea ammesso di aver predetto le mutazioni pel Regno di Napoli), ed annunzia la fine del mondo e la Santa repubblica aspettata da' profeti, da' filosofi e dalle genti; e dice che l'amico non può far difese se egli non parli ai Giudici, la qual cosa non si permette (ma pure fino ad un certo punto ne aveva parlato a' Giudici ed anche dettato uno scritto per uso del Sances). Predice all'amico che la congiunzione magna gli sarà fatale e non potrà sfuggire agli spagnuoli, che gli sovrasta la morte ne' 38 anni di età, come a sè stesso sovrasta ne' 43, e quindi gli raccomanda di trovar mezzi perché la causa sia finita prima di tre anni (donde si dovrebbe inferire che la lettera fosse stata scritta dopo la sospensiva prodottasi nella spedizione della causa, vale a dire dopo il 12 aprile, ma bisogna sempre tener presente che si ha sott'occhio un esemplare della lettera rifatta). Passa a giustificarsi dell'aver confessato di voler predicare la desiderata repubblica, se fatalmente fosse avvenuta la rovina del Regno e della Provincia, raccogliendone i residui su' monti: io, egli dice, non ho confessato eresia né ribellione, ma di aver voluto profittare di un male volgendolo in bene; così non furono i Veneti ribelli all'Impero, quando percossa Aquileia da Attila ripararono nelle lagune e costituirono una nuova repubblica libera dall'Impero. E poi dice che spettava a' Domenicani predicare tale repubblica, e lo dimostra co' testi ecclesiastici, con S. Vincenzo Ferrer, S.ta Caterina, l'Apocalisse, e cita fra Rusticano, Savonarola, M.° Catarino, il B.to Raimondo etc., e nota che quelli i quali tengono la fede per ragion di Stato giudicano che essi pure abbiano parlato per acquistare uno Stato, ma chi crede per ragione Divina li difende con Davide e S. Paolo. Aggiunge che egli è umiliato troppo, che tutti sono umiliati e flagellati troppo, che egli meritava un premio, che quelli che non credono nelle sue predizioni se ne avvedranno, e qui cita S. Pietro, Isaia etc. concludendo che le profezie si adempiranno, e raccomandando a tutti di agire virilmente e sollevare il loro cuore. - Che questa lettera si debba ritenere diretta a fra Dionisio, come il Berti ottimamente afferma sebbene non ne dica le ragioni, apparisce dal vederla scritta ad uno che si era sdegnato coll'autore, che avea già prima parlato a sproposito, che era in pericolo di non potere sfuggire agli spagnuoli, circostanze tutte riferibili appunto a fra Dionisio. Vi sarebbe solo da obiettare che avendogli il Campanella predetta la morte a 38 anni, nel tempo della congiunzione magna, vale a dire nel 24 10bre 1603 come ci lasciò scritto anche nelle Poesie, fra Dionisio avrebbe dovuto nel 1600 avere 35 anni di età; e sebbene ci facciano difetto le notizie intorno a ciò, mancandone sempre tutti i costituti suoi, l'età di 35 anni nel 1600 non può dirsi probabile per lui, tanto più che conosciamo avere allora il germano fra Pietro l'età di 31 anno, e l'altro germano Ferrante 29(138); tuttavia fra le moltissime scorrezioni di entrambi i manoscritti questa potrebbe esser una, e invece di 38 dovrebbe forse leggersi 35. Ma ciò che non persuade si è, che in una lettera confidenziale occorresse esporre tutte quelle giustificazioni estranee a' rimproveri che erano stati mossi, e ripetere tutte quelle profezie e citazioni che fra Dionisio e gli altri compagni aveano dovuto udire già troppe volte, come lo mostrano le deposizioni fatte da alcuni di loro in Calabria. Bisogna quindi dire che in ultima analisi, come gli Articoli profetali delle biblioteche sono certamente un'edizione posteriore rifatta ed ampliata degli Articoli scritti al tempo de' processi, così la lettera che sta in appendice a quelli Articoli dev'essere un'edizione rifatta ed ampliata della lettera scritta dapprima, e quindi un'edizione adattata alle circostanze dell'autore a' tempi ne' quali essa venne rifatta. Vedremo che gli Articoli profetali vennero rifatti nel 1607, con la speranza che sarebbero stati presentati ad alti personaggi, de' quali il Campanella sollecitava l'aiuto; e così l'Appendice avrebbe servito presso costoro, ripetendo gli argomenti che si trovano addotti nella "1a Delineatio defensionum" e poi nelle lettere del 1606-1607, svolti di nuovo in sèguito nella Narrazione; laonde bene a ragione dicevamo trattarsi di un documento apologetico non dissimile da tutti gli altri che si conoscono, e da doversi apprezzare co' criterii medesimi co' quali i detti documenti vanno apprezzati.

Nulla abbiamo poi a dire circa la ricomposizione del libro della Monarchia di Spagna; ci basterà solo far avvertire che essa venne eseguita realmente nel corso del processo dell'eresia, essendo rimasta sospesa la spedizione della causa della congiura, e continuando il Campanella a dimostrarsi pazzo.

Ma non c'ingolferemo nel racconto del lungo processo dell'eresia, senza parlare de' premii che da un pezzo i denunzianti e i persecutori della congiura dimandavano, il Vicerè sollecitava, e il Governo di Madrid venne accordando mano mano e senza alcuna fretta. "Non era negotio questo da passar irremunerato; furono riconosciuti non solo dal Conte, ma anche da S. M.tà in molte maniere": così scrisse il Capaccio vissuto a que' tempi, discorrendo di Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia(139). Disgraziatamente i Registri Mercedum rimastici nell'Archivio di Stato, ne' quali insieme con le ricompense si sogliono trovare specificati i servigi, cominciano solo dall'anno 1606; ma altre categorie di scritture forniscono anche notizie di concessioni fatte a questi due sciagurati, ricordando il loro servigio speciale della scoperta della congiura. Per Fabio di Lauro, ne' Registri Sigillorum in data di aprile 1600, troviamo una grazia fatta a sei individui che avevano assassinato fra Maurizio Barracco, altra nostra conoscenza, sicuramente dietro la sua intercessione o "nominatione" come allora si diceva, "stante lo servitio fatto in scoprire la congiura tentata in Calabria, in deservitio de Dio et de sua M.tà" etc.(140): ma troviamo pure in data del 3 gennaio 1602 e 3 aprile 1604 una licenza d'arme per lui con altri tre compagni, la qual cosa potrebbe indicare che era obbligato a guardarsi da qualche vendetta(141). Per Gio. Battista Biblia poi, abbiamo veduto essergli stato ucciso il fratello Marco Antonio fin dal novembre o dicembre 1599: questo Marco Antonio, dapprima sostituto credenziere, era stato in sèguito nominato percettore della gabella della seta di Catanzaro, con privilegi notati per le esecutorie fin dall'ultimo di febbraio e 12 maggio 1595; ed ecco Gio. Battista Biblia succedergli in questo ufficio con privilegio notato per l'esecutoria il 16 dicembre 1600, ma naturalmente concesso alcuni mesi prima(142). Oltracciò i Registri Privilegiorum ce lo mostrano con la data del 12 giugno 1602 insignito del titolo e grado di nobiltà, trasmissibili a' suoi discendenti: e in siffatta occasione troviamo menzionato "il singolare servizio" di avere partecipato al Sovrano "la congiura e perfidia di taluni della stessa città di Catanzaro"(143). È del tutto verosimile che la medesima onorificenza, con qualche altra lauta carica, abbia avuta egualmente Fabio di Lauro, e lo confermerebbe il fatto, che alcuni anni dopo il Campanella, nelle sue lettere del 1606, parlò de' "revelanti falsi fatti cavalieri"; ma non ci è riuscito trovarne i documenti. Lo stesso ci è avvenuto per Gio. Geronimo Morano, pel quale le ricompense doverono essere certamente più laute: possiamo soltanto dire che egli non si mosse da Catanzaro e continuò a spadroneggiarvi, ma vi fu gravemente avversato dagli Spina. È certo poi che da Madrid, allorchè si trattava di pure lettere di complimenti, queste non si facevano troppo attendere, ma allorchè si trattava di ricompense sode, queste venivano con comodo e dopo maturi consigli. E p. es. il Principe della Roccella non tardò ad avere, in data de' 27 aprile 1600, una lettera del Re, pubblicata dall'Adimari nella Storia della famiglia Carafa e ripubblicata dal Baldacchini, con la quale Filippo III diceva che avrebbe nelle occasioni tenuto presente l'avviso avuto dal Vicerè "de la promptitud con que acudistes à la defensa de las cosas de Calabria, en la ocasion dela venida dela Armada Turquesca el año passado, y el cuydado con que os empleastes en atajar la coniuracion que algunos tratavan en aquella Provincia". Ma, utilitario qual era, il Principe si fece anche cedere dal Conte di Condeianni D. Gio. Battista Marullo le difese di Bianco e Condeianni involte in una grossa vertenza col Fisco, e iniziò una favorevole transazione su questo capo, inoltre chiese un comando di gente d'arme (titolo di alto onore, con buon soldo, senza obbligo di servizio); scorse allora molto tempo, ma infine ottenne, oltre la transazione desiderata, un posto di Consigliere del Collaterale, con la promessa che dandosi l'occasione sarebbe stato tenuto presente pel posto di Capitano di gente d'arme(144). Quanto a Carlo Spinelli, fatta una dimanda formale, con l'esposizione di tutti i suoi meriti, e tra gli altri quello della diligenza e premura usata "en acquietar y guardar la provincia de Calabria dela armada del Turco y alboroto que alli occurrio el año passado", onde sollecitava o la proprietà del comando della cavalleria che teneva interinalmente, o l'aumento della pensione di. D.ti 400 che godeva, sempre con la facoltà della trasmissione a vita a un suo nipote, dovè attendere che il Vicerè e il Consiglio Collaterale dessero il loro parere sulla dimanda. I lettori troveranno ne' Documenti da noi raccolti la lettera Regia con la quale veniva ordinato l'invio di tale parere(145); ed aggiungiamo che non prima del 4 settembre 1601 fu accordato allo Spinelli il posto di Capitano della cavalleria pesante, "avendo per aggiunto con futura successione D. Scipione Sanseverino Marchese di S. Donato suo pronipote da sorella" che egli nominò(146); così questo giovane cavaliere, Marchese dal 1598 e subito promosso Duca il 20 settembre 1602, favorito dallo zio Spinelli e dal padrigno Reggente Costanzo, divenne sempreppiù scapestrato e prepotente, né a caso parliamo di lui, dovendo incontrare anche la sua sorella nel corso di questa narrazione. Maggior tempo ancora dovè attendere D. Carlo Ruffo, per vedere accolte le dimande fatte: abbiamo intorno a lui solamente il Privilegio col quale gli si concede la dignità e il grado di Duca di Bagnara, con la circostanza dell'averlo dimandato; esso è in data del 19 gennaio 1603(147). Come si vede, D. Carlo saltò da Barone a Duca, pe' meriti suoi, di tutta la sua famiglia e de' maggiori, secondo l'espressione del Privilegio; e il Campanella fu pur troppo la causa principale di tante grandezze.

Naturalmente non venne dimenticato lo Xarava e neanche fra Cornelio. Documenti rinvenuti nell'Archivio di Napoli ci mostrano che il Conte di Lemos propose immediatamente lo Xarava al posto di Consigliere del Sacro Regio Consiglio di Capuana, non appena vi fu una vacanza per la morte di D. Alonso Ximenes; ma in Madrid si affacciarono dubbî sulla sua capacità, integrità e prudenza, il Re volle esserne bene informato, e per quella volta fu nominato Consigliere il Ruiz de Baldevieto, del quale accadrà pure di dover parlare in sèguito(148). Nel frattempo vacò un altro posto di Consigliere per la morte di D. Francisco Bermudez de Castro, e l'ebbe l'Avvocato De Leonardis, stato già promosso a Fiscale della Vicaria; ne vacò poi un terzo pel passaggio di D. Pietro De Vera a Presidente, ed allora lo Xarava, recatosi personalmente a Madrid, potè essere nominato Consigliere, ma ciò avvenne non prima del 14 aprile 1603(149). Vedremo che al nuovo ufficio agevolò ancora la via un altro avvenimento, che eccitò sempre più a' rigori verso i frati incriminati, a' quali rigori lo Xarava si offrì in un modo perfino strano: per ora aggiungiamo che tanto più tardi, nel 1615, ottenne ancora una pensione annua di D.i 300, e sempre venendo annoverati tra' meriti i servigi resi in Calabria da Avvocato fiscale(150). Quanto a fra Cornelio, anch'egli dovè aspettare, ma impaziente qual era, d'accordo col Vicerè e con le commendatizie di Carlo Spinelli, nel marzo 1601 si recò a Madrid, e vedremo che subito fra Dionisio lo fece conoscere a Roma, essendosi ritenuto che avesse intrapreso tale viaggio per dar notizia al Governo dell'andamento del processo dell'eresia già in corso, nel quale si trovava a ridire sul conto suo, e sul conto di fra Marco da Marcianise come di tutti coloro i quali aveano tenuto mano o a perseguitare o a giudicare i frati; se non che, oltre questo scopo, dovè esservi anche l'altro di sollecitare almeno una pensione, ed è certo che finì per ottenerla. Lo abbiamo desunto da due documenti raccolti tra diversi altri nell'Archivio di Torino, essendo stato fra Cornelio il protagonista di un incidente che avvenne parecchi anni dopo e che accenneremo in breve. Trovavasi Vicerè di Napoli il 2° Conte di Lemos, e fra Cornelio era ben veduto da lui: con lettere commendatizie del Card.l Aldobrandini, e con un atteggiamento di suddito fedele a casa Savoia, progettò un matrimonio tra il Re di Spagna e Maria di Savoia terzogenita del Duca Carlo Emmanuele; in giugno 1613 impegnò nella faccenda l'Agente del Duca in Napoli Melchiorre Reviglione, e ne fece fare la proposta al Conte di Lemos, offrendosi di andar lui in Spagna, giacchè essendo "pensionato del Re" nessuno avrebbe mai potuto intendere lo scopo del viaggio, che sarebbe stato attribuito ai suoi particolari interessi. La guerra pel Monferrato assopì la faccenda, ma nel novembre 1616 fra Cornelio se ne andò a Roma per parlarne al Ministro di Savoia, l'Abate Scaglia Conte della Verrua, al quale già si era offerto prima quale agente di fiducia mandandogli una cifra e qualche lettera di poca importanza: l'Abate non lo ritenne altrimenti che un furbo, desideroso di assicurarsi in Madrid la pensione, posta in pericolo dall'essere succeduto il Duca di Ossuna al Conte di Lemos, mentre egli trovavasi "da tanto tempo pensionato dal Re"; infine poi fra Cornelio, divenuto già gottoso, non volle contentarsi di 300 ducati d'oro fattigli offrire dal Duca pel viaggio, ma a noi basta che sia accertato il fatto della pensione già ottenuta da antica data(151). Così non a torto poi il Campanella ebbe a mettere innanzi i tanti premii che il Re avea dati; e s'intende che per un servigio di quel genere i premii erano un fatto naturalissimo, ma veder premiato e notoriamente premiato anche fra Cornelio giudice di S.to Officio, senza che il Nunzio Aldobrandini se ne fosse mai curato in alcun modo, non può non dirsi un fatto veramente scandaloso.

Dobbiamo aggiungere ancora qualche parola sulla promozione avuta egualmente dall'Avvocato De Leonardis, di cui il Campanella poi nella Narrazione disse che avea "più presto avvocato contra per diventar Consigliero". Non pare che l'appunto possa qui dirsi fondato. Oltrechè abbiamo testualmente la Difesa scritta dal De Leonardis, ed ognuno è in grado di valutarla, sappiamo che egli non diventò Consigliere a un tratto, ma prima passò all'ufficio di Fiscale della Vicaria, e più tardi all'ufficio di Consigliere; percorse quindi la carriera giudiziaria comune, nella quale non poteva incontrare obiezioni, giacchè era universalmente riconosciuta la sua cultura e la sua buona morale, come l'attestano varie scritture del tempo. Non siamo riusciti a trovare nell'Archivio di Stato il Privilegio della sua nomina ad Avvocato Fiscale, dove avrebbe veramente potuto esservi qualche parola di ricordo de' suoi meriti speciali anche per la causa degl'incriminati della congiura, giacchè il Governo spagnuolo non si sarebbe fatto scrupolo di parlarne; abbiamo soltanto trovato l'esecutoria di tale Privilegio in data del 2 novembre 1601. Ed abbiamo poi trovato anche il Privilegio della nomina a Consigliere in data di Valladolid 3 aprile 1602, la comunicazione fattane al Consiglio in data del 1° maggio, e l'annotamento dell'esecutoria in data dell'11 ottobre detto anno; né il Privilegio reca alcuna menzione del servizio prestato nella causa della congiura, come s'incontra p. es. in persona dello Xarava(152). Dopo ciò possiamo venire all'esposizione del processo dell'eresia.


CAP. V.

SÈGUITO DE' PROCESSI DI NAPOLI E DELLA PAZZIA DEL CAMPANELLA.

B. - Processo dell'eresia (maggio 1600 a settembre 1602).

I. Rammentiamo innanzi tutto, circa l'eresia, che dapprima il Papa avea manifestato di volere a Roma gl'incriminati o sospetti in tale materia finita la causa della congiura (4 10bre 1599); ma in sèguito, vista senza dubbio l'impossibilità della cosa, giacchè il Governo Vicereale non si sarebbe lasciato trarre di mano i frati che il processo della congiura mostrava colpevoli, avea spedito ordine mediante il Card.l di S.ta Severina che se ne occupasse il Nunzio, con ogni probabilità perché il Vescovo di Caserta Ministro della S.ta Inquisizione Romana nel Regno trovavasi assente, in compagnia del Vicario Arcivescovile della Curia napoletana, il quale presedeva il tribunale diocesano di S.to Officio (4 febbraio 1600)(153); il Nunzio poi, che molto volentieri ne avrebbe fatto di meno, vista la profonda dottrina del Campanella, il quale sviluppava tante profezie e produceva tante citazioni in suo favore, scrisse subito al Card.l S. Giorgio, ed anche al Card.l di S.ta Severina, che "se pur tal negotio dovea spedirsi qua" in Napoli, reputava necessario l'intervento di qualche persona pratica e buon Teologo (11 febbraio). Così scorse ancora un certo tempo, sino a che non fu disponibile l'uomo capace di stare a fronte del Campanella secondo le preoccupazioni del Nunzio, e solo verso la fine di aprile si potè costituire il tribunale per l'eresia, associando a' due Giudici prima designati il Vescovo di Termoli. Era costui quel fra Alberto Tragagliolo da Firenzuola Domenicano, che abbiamo già visto Commissario generale del S.to Officio sin dall'ottobre 1592 e durante i processi avuti in Roma dal Campanella nel 1594-1595, divenuto molto benevolo verso il filosofo in tale occasione e senza dubbio assai competente ed opportuno nel caso attuale. Malamente designato dal Fontana col nome di "frater Albertus Tragnolus" e poi anche con quello di fra Alberto Drago(154), così ritenuto dall'Ughelli e dopo di lui anche da Quétif ed Echard(155), malamente creduto Firenzuola e non Tragagliolo dal Capialbi(156), egli cognominavasi Tragagliolo ed era nativo di Firenzuola nel Piacentino: avea già funzionato da Commissario del S.to Officio in Faenza, in Genova, in Milano, quando venne chiamato Commissario generale in Roma da Clemente VIII; poi dietro la morte di Mons.r Francesco Scoto fu promosso al Vescovato di Termoli, secondo il Fontana e l'Ughelli il 29 novembre 1599, ma certamente provvisto di exequatur soltanto all'ultimo di febbraio 1600, con esecutoria in data degli 8 marzo, come risulta dalle scritture esistenti nell'Archivio di Napoli(157). Può dirsi con sicurezza che si pensò a lui per la causa del Campanella più che all'ultima ora, essendogli stata mandata a Napoli la nomina di Commissario della causa dopo la sua partenza da Roma; ond'egli assai probabilmente non giunse nemmeno a vedere la sua Chiesa, obbligato ad un lavoro assiduo pel processo di cui andiamo ad occuparci, fino al tempo della sua morte, che avvenne disgraziatamente otto mesi dopo, succedendogli nel carico di giudice D. Benedetto Mandina Vescovo di Caserta. Quanto al Vicario Arcivescovile, abbiamo già avuta occasione di rilevare che teneva detto officio il Rev.do Ercole Vaccari (ved. pag. 44): qui dobbiamo aggiungere che per le molteplici e gravi faccende della Curia Arcivescovile erano allora i carichi distribuiti a più persone in qualità di Vicarii, e nelle scritture del tempo, oltre il Vaccari, designato "Vicarius generalis capitularis et locumtenens in spiritualibus", troviamo il Rev.do Curzio Palumbo, designato "Vicarius generalis Monialium et locumtenens in civilibus"; e vedremo nel processo figurare da giudice o "congiudice" prima il Vaccari con la qualità di Delegato, poi il Palumbo con la qualità di subdelegato, poi ancora il Rev.do Alessandro Graziano successo al Vaccari dopo la morte dell'Arcivescovo Card.l Gesualdo.

Il 18 aprile 1600, alle istanze del Nunzio, il quale in data del 14 aveva ancora mostrato di non sapere dove S. S.tà volea che si trattassero le materie appartenenti al S.to Officio, il Card.l di S.ta Severina rispondeva, avere S. S.tà "per satisfare a cotesti Signori et Ministri Regii" risoluto che la causa spettante al S.to Officio si trattasse in Napoli dal Nunzio, dal Vicario Arcivescovile e dal Vescovo di Termoli, il quale da tre giorni era partito per Napoli, onde egli dirigeva al Nunzio medesimo la lettera scritta per lui; e soggiungeva essere intenzione di S. S.tà, che procurassero di terminar presto la causa, ma ne inviassero a Roma un breve Sommario, coll'avviso su' meriti del processo, e col parer loro intorno alla spedizione, prima di dare la sentenza. Analogamente egli scriveva pure al Vescovo di Termoli ed al Vicario Arcivescovile, aggiungendo al Vescovo, che per essere persona "molto ben pratica, et anco informata delle altre cause conosciute in questa santa Inquisitione contra il Campanella, ove abiurò come sospetto vehementemente di heresia l'anno 1591", non gli diceva altro, bensì offriva di mandargliene le scritture se lo reputasse necessario: dalle quali parole risultano chiariti assai bene gli antecedenti così del Vescovo di Termoli come del Campanella, e chiarita la posizione giuridica in cui il Campanella veniva a trovarsi, cioè la posizione di relapso, qualora le nuove accuse di eresia fossero state provate. Siffatte lettere leggonsi nel processo di Napoli, 2° volume dell'intero processo, costituendone i primi atti(158). Sappiamo poi dal Carteggio del Nunzio che egli vide il Vescovo di Termoli il 5 maggio, e in tale data gli consegnò ad un tempo la lettera del Card.l di S.ta Severina e il processo di Calabria portato da fra Cornelio fin dal novembre e giacente presso di lui. Così al Vescovo di Termoli veniva in realtà "deferita ogni cosa", come il Nunzio ebbe a dire più tardi, ed egli, presa stanza nel convento di S. Luigi dell'ordine de' Minimi di S. Francesco di Paola, posto presso Palazzo Reale, si diede con molta alacrità a compiere il suo mandato. Gli altri colleghi si occuparono della causa piuttosto con la semplice loro presenza, ed il Nunzio, benchè figurasse come il principale tra' Giudici, nemmeno della presenza sua onorò largamente il tribunale; egli aveva pur allora ottenuto dal Papa di passare la Pasqua rosata nella sua Chiesa di Troia, ove non apparisce che si fosse mai recato fino a quel momento, e nel dichiararsi pronto a trattare la causa, riservavasi di voler andare a Troia per la Pasqua, la quale si celebrava il 22 del mese, come ci mostrano diverse scritture del 1600.

Il 10 maggio, in una camera del Castel nuovo, si diè principio agli esami, continuandoli poscia il 15, il 17, il 19, il 26, il 28; ma fin dalla 3a seduta, in sostituzione del Nunzio assente intervenne l'Auditore di lui, il Rev.do Antonio Peri fiorentino: come Notaro e Mastrodatti, servì sempre, dal principio alla fine della causa, Gio. Camillo Prezioso, uno de' vecchi Notari della Curia Arcivescovile, che figura nella più gran parte de' processi del tribunale diocesano della fine del 1599 e principio del 1600(159). Fu esaminato dapprima il Pizzoni. Confermando in termini generali quanto avea deposto innanzi al Visitatore in Calabria, egli aggiunse che era stato più volte da parte del Campanella minacciato di farlo trovare in maggiore intrigo se non si ritrattasse specialmente sulle materie di S.to Officio, una 1a volta in Gerace mediante fra Pietro Ponzio che avea ricevuta per questo una cartolina da fra Tommaso, una 2a volta alla presenza di fra Paolo della Grotteria in Bivona, quando erano per imbarcarsi, mediante un soldato del capitano Figueroa, una 3a volta in Napoli mediante lo stesso fra Pietro Ponzio, che avea ricevuto per questo nuove lettere da fra Tommaso. Aggiunse pure che nell'udire la lettura del suo esame in Napoli (certamente a proposito della congiura), si era avveduto trovarvisi detti complici quelli che egli aveva indicati come familiari del Campanella, verosimilmente consapevoli delle opinioni eretiche di lui, e ripetè che costoro erano fra Pietro di Stilo, il Petrolo, fra Paolo della Grotteria, il Bitonto, il Jatrinoli. Ripetè l'occasione con la quale nel luglio scorso il Campanella aveagli parlato delle sue eresie, e come fra Dionisio, due giorni prima, gli aveva esternato le medesime eresie dicendogli di tenerle per vere. Aggiunse infine, che aveva rimproverato e cacciato il Campanella da Pizzoni, aveva informato di ogni cosa per lettera del 1° agosto il Generale in Roma, ne aveva anche informato di persona il Visitatore in Soriano il 28 agosto. Tale fu la deposizione del Pizzoni, che egli non potè sottoscrivere e dovè soltanto crocesegnare, trovandosi col braccio offeso dalla tortura avuta nell'altro tribunale(160). Persistente nelle accuse contro il Campanella, aggravandone la responsabilità col fatto delle minacce, egli cercò di scusare sè medesimo con la cacciata del Campanella da Pizzoni e con gli avvisi datine a' superiori. - Vollero allora i Giudici udire su tale asserzione il Visitatore ed anche fra Cornelio, il quale era già tornato da Roma a Napoli in quel tempo (circostanza probabilmente ignorata dal Pizzoni). Entrambi, l'un dopo l'altro, nella 2a seduta del tribunale, il 15 maggio, ricordando qualche faccenda trattata col Pizzoni in Soriano, negarono di aver avuta quivi da lui alcuna notizia delle cose del Campanella(161). Aggiungiamo che poco dopo il Vescovo di Termoli dovè pure interrogare per lettera il P.e Generale Beccaria, poichè se ne trova nel processo la risposta in data del 12 giugno dal convento di S. Tommaso, vale a dire da Napoli, dove a que' giorni era venuto pel Capitolo generale che vi si tenne, e dove qualche mese dopo, il 3 agosto, morì col compianto de' cittadini e in voce di santità e di miracoli. Non contento delle reminiscenze proprie, il P.e Generale volle consultare anche quelle del suo P.e compagno, e venne a dichiarare che non si era mai avuta dal Pizzoni lettera alcuna contenente l'avviso asserto(162). E per verità così il Visitatore come il Generale, al menomo avviso, non avrebbero potuto mancare di provvedere immediatamente contro il Campanella e fra Dionisio; e già riesce manifesta la pessima via in cui il Pizzoni si era posto e si manteneva. - Frattanto, nella stessa seduta, fu esaminato pure il Petrolo. Costui volle che gli si rileggesse la deposizione fatta in Calabria, e trovò solamente a ridire che non avea deposto con quelle precise parole che erano state scritte. Ripetè ad una ad una le eresie udite dal Campanella, quasi tutte quelle deposte in Calabria, dicendo di averle udite nel passeggiare con lui a' Lanzari presso Stilo, nel mese di maggio, e ripetendo i nomi de' frati e secolari co' quali il Campanella dava segni d'indevozione e parlava delle sue opinioni, ma non tanto apertamente, sicchè a lui non constava che fossero veramente complici; ripeteva pertanto di aver saputo da fra Pietro di Stilo che il Lauriana gli aveva dette certe parole pronunziate da fra Dionisio in dispregio dell'eucaristia. Inoltre si dichiarò egualmente minacciato dal Campanella perché si ritrattasse, una 1a volta per via dal Campanella in persona che gli disse "per Deum oportet te retractare alioquin agam ut mecum moriaris", una 2a volta in Monteleone per mezzo di Cesare Pisano, una 3a volta in Napoli parimente dal Campanella in persona dalla finestra della carcere(163). Come ben si vede, anche costui non faceva che aggravare la posizione del Campanella cercando di salvare la propria, e quanto alle minacce avute, noi ci siamo già manifestati nel senso che poterono esservi, dovendo il Campanella sentirsi esasperato contro questi suoi scempiati compagni, i quali avevano dapprima udito benevolmente le sue opinioni, si erano anche impegnati a propagarle, e poi le avevano manifestate a' Giudici rigettandone sopra di lui tutta la responsabilità.

Il 17 maggio, 3a seduta del tribunale, in cui cominciò ad intervenire l'Auditore Antonio Peri invece del Nunzio, si procedè all'esame del Campanella; ma egli, già mostratosi pazzo innanzi che si desse principio alla causa, continuò a mostrarsi tale. Gli si deferì il solito giuramento, ed egli non diè segno di capire; gli si disse di lasciare le finzioni, poichè altrimenti, per avere la risposta precisa, si sarebbe ricorso a' rimedi opportuni, vale a dire alla tortura, e gli si offerse il Diurno, sul quale avrebbe dovuto giurare toccandolo, ma egli rispose "voletemelo legere" continuando a mostrare di non capire; allora fu rimandato alla sua carcere(164). E si passò a fra Pietro di Stilo, il quale, con fina ironia, disse che non avrebbe voluto mancare di dire la verità per uomini quali il Campanella e fra Dionisio, mentre dal volgo erano allora chiamati inimici di Dio e del Re; negò di aver mai parlato con alcuno delle opinioni del Campanella, e solo ammise di averlo lodato come sapiente quale era stimato da tutti, affermando che un gran numero di persone di ogni ceto accorreva a vederlo, e ripetendo i nomi de' più particolari amici di lui, il Vua, Marcantonio Contestabile e il Prestinace (tutti già posti in salvo), il Caccìa "quale fu squartato dalle galere, et Giulio Contestabile quale veneva più presto per il fratello che per il Campanella" (non più dichiarato intimo amico costui, ora che si trovava in pericolo ed erano già sbolliti i primi rancori). E noverò tra loro anche il Soldaniero, cui egli avea portata una lettera del Campanella, continuando a negare di aver mai saputo ciò che quella lettera contenesse, negando anche di aver saputo mai che fra Dionisio fosse stato in relazione col Soldaniero. Egualmente negò di aver mai persuaso o tentato di persuadere alcuno (cioè il Soldaniero) che non rivelasse le opinioni eretiche di fra Dionisio, che volesse credere alle opinioni di costui, e che andasse dal Campanella. Quanto poi alle opinioni eretiche del Campanella, disse di aver solamente saputo da alcuni birri i quali accompagnavano i prigioni, che il Campanella diceva di esser profeta e negava l'inferno e il paradiso, ma direttamente egli avea da lui udito soltanto che vi era poca differenza tra' peccati di lussuria ritenuti assai diversamente gravi (attenuazione notevole). Sempre dietro dimande, ripetè che il Campanella gli avea due volte detto di dover essere monarca, come gli era stato vaticinato pure da un astrologo; e in quanto a sè, ripetè di aver detto per burla voler prendere moglie, e di non aver mai sognato che avesse a predicare contro la fede(165). Così, evidentemente, fra Pietro continuava a non negare ciò che riusciva impossibile negare, e difendendo sè stesso si sforzava di difendere in pari tempo il Campanella, attenuando perfino le cose altre volte da lui medesimo deposte. - Si venne allora all'esame anche di fra Silvestro di Lauriana, di fra Paolo della Grotteria, di fra Giuseppe Bitonto. Il Lauriana disse non aver altro a dire se non che pativa continue minacce da parte del Campanella ed egualmente di fra Dionisio perché si ritrattasse, rivelando che costoro continuamente si scrivevano cartoline, e che qualora si facesse ricerca sulle persone di fra Pietro e di Ferrante Ponzio, forse si troverebbe qualche cosa; onde i Giudici fecero fare immediatamente questa ricerca sulla persona di fra Pietro che era in Castel nuovo, mentre Ferrante era in Castello dell'uovo, ma non si trovò nulla. Inoltre, dietro interrogazioni, il Lauriana affermò di essere andato col Pizzoni presso il Visitatore, per denunciare i fatti del Campanella, dopochè il Campanella era stato nel loro convento; e disse di non sapere propriamente che persona fosse il Pizzoni, non avendolo avuto in pratica, ed attenuò di molto ciò che altra volta avea dichiarato a carico di lui, dicendo che mentre leggevano insieme un libro del Campanella, il Pizzoni, da lui interrogato, avea risposto che alcune cose del Campanella gli piacevano ed altre no (scuse sicuramente concertate tra loro). Fra Paolo poi disse non occorrergli dire altro, e negò di aver mai saputo tentativi di qualche carcerato verso altri carcerati perché revocassero le deposizioni fatte; negò di aver mai trattato cosa alcuna col Campanella; affermò che quel libretto di cose superstiziose, trovato sulla sua persona, era stato in suo potere due giorni soli, e spiegò che avea avuta la condanna alla galera per aver minacciato il P.e Provinciale Pietro Ponzio, il quale fu poi ucciso mentre egli già trovavasi alla catena. Finalmente il Bitonto disse che avea bensì visitato due volte il Campanella, di cui era familiare, ma senza avere avuto nemmeno agio di trattenersi con lui; nominò quelli che aveano in sua compagnia visitato il Campanella, e li dichiarò tutti uomini dabbene, all'infuori del Pisano, che era tristo e volle accompagnarlo senza potersene liberare, ed abitò con lui otto giorni (contraddicendo con ciò la sua prima deposizione); disse pure non aver mai udito eresie da alcuno, ma solo nelle carceri avere udito dal Pizzoni e dal Lauriana che il Campanella e fra Dionisio aveano sparse eresie, e fattagli l'osservazione che sapevasi nel tribunale aver lui applaudito a certi discorsi eretici e segnatamente alla proposizione che la Messa si celebrava per bere ancora una volta, egli rispose di non saperne nulla(166).

Dobbiamo qui aggiungere che nella stessa data del 17 maggio venne presentata al Vescovo di Termoli una denunzia contro il Campanella da parte di fra Agostino Cavallo di Cosenza. Sappiamo che costui era Provinciale di Calabria in quell'anno(167), ed avea dovuto venire in qualità di definitore del Capitolo generale che allora celebravasi in Napoli, al pari di fra Giuseppe Dattilo egualmente di Cosenza, stato già Provinciale due altre volte ed appartenente alla fazione del Polistina. Fra Agostino consegnò al Vescovo di Termoli una scritta in cui esponeva che, avendo udito essere stata a lui affidata la causa del Campanella, per disgravio della sua coscienza gli faceva conoscere che il Campanella già da dieci anni in circa, stando in Cosenza, avea stretta amicizia con un ebreo chiamato Abramo, sospetto negromante e possessore di spiriti familiari, amico stretto anche di fra Dionisio; che col detto ebreo erasi il Campanella partito da Calabria, e di tutto ciò poteva aversi notizia anche da fra Giuseppe Dattilo. - L'indomani, d'ordine del Vescovo di Termoli, il Prezioso andò a raccogliere la deposizione di fra Agostino, ed alcuni giorni più tardi raccolse pure quella di fra Giuseppe Dattilo. Fra Agostino confermò la pratica dell'ebreo col Campanella in Cosenza, in Montalto, in Altomonte (sic), di dove poi essi se ne andarono insieme a Napoli, con tutte quelle particolarità da noi già esposte a tempo debito in questa narrazione: confermò pure la pratica dell'ebreo con fra Dionisio in Catanzaro, notando che era corsa voce essere stato poi quell'ebreo giustiziato in Napoli come spia del turco, ed aggiungendo che allora dicevasi aver lui vaticinato al Campanella la Monarchia del mondo e che era stato lui, l'ebreo, la rovina del Campanella. Fra Giuseppe Dattilo fu meno esplicito: attribuì la scoverta di ogni cosa a fra Domenico di Polistina, e disse che a relazione di costui rimproverò in quel tempo il Campanella, perché volea svestirsi dell'abito religioso, ciò che poi non fece, ma solamente se ne andò con l'ebreo a Napoli; disse che non si ricordava bene se fosse partito con sua licenza o no, e che in Calabria era corsa voce essere stato l'ebreo "brugiato in Roma per ordine del Santo officio". Quanto alla pratica dell'ebreo con fra Dionisio, non ne fece parola (e veramente il fatto era più che dubbio). I lettori troveranno ne' Documenti la denuncia e le deposizioni dei due frati(168), e leggendole sentiranno forse, come noi lo sentiamo, il sospetto che a quelle rivelazioni tardive potè dare la spinta fra Domenico di Polistina più volte in esso citato, tanto più che dalle parole e da' concetti di que' frati, comunque pezzi grossi dell'ordine, si rileva manifesta la loro melensaggine, della quale i nemici del Campanella, e ancor più di fra Dionisio, aveano tutto l'interesse di profittare. È difficile intendere che fra Agostino, così tenero della sua coscienza, avesse aspettato dieci anni a sgravarsela, e che fra Giuseppe Dattilo, così smemorato, avesse potuto ricordare la voce corsa che l'ebreo era stato bruciato dal S.to Officio, senza che qualcuno si fosse data la premura di eccitarne gli scrupoli e ravvivarne la memoria: del resto c'è anche da sospettare che costoro si mostrassero melensi per progetto, trovandosi ascritti alla fazione del Polistina, e volendo farsi credere ingenui.

Dobbiamo d'altra parte aggiungere che il Vescovo di Termoli si era presto messo in corrispondenza con Roma, dando ragguaglio al Card.l di S.ta Severina di ciò che veniva rilevando negli esami de' frati, e di ciò che gli riusciva sapere anche per vie estragiudiziarie; poichè con una premura lodevolissima, oppostamente all'incuria sempre addimostrata dal Nunzio, cercava la luce dovunque, non solo dagl'inquisiti, ma anche da fra Cornelio, dallo Sciarava, perfino da Fabio di Lauro, oltrechè da D. Pietro de Vera, parlando loro privatamente. Abituato a quelle ricerche diligentissime che si adoperavano nel giudicare le materie di S.to Officio, colpito dalla feroce prepotenza de' Giudici Regii e dalla condotta per lo meno deplorabile de' Giudici ecclesiastici nella Calabria, consapevole degli odii feroci e criminosi che campeggiavano segnatamente nell'ordine Domenicano al quale egli stesso apparteneva, forse anche trasportato dall'ammirazione e dalla benevolenza che da un pezzo nutriva pel povero fra Tommaso, non credè mai di aver fatto abbastanza per iscoprire la verità, e vedremo che, fino alla sua morte, egli, tanto pratico nelle cose giudiziarie, rimase perplesso e dubbioso su tutto. Delle sue lettere non conosciamo che i punti più notevoli, i quali vennero inserti negli ultimi Sommarii de' processi, e senza le date che pure favorirebbero tanto più la buona nozione dell'argomento; laonde non possiamo riportarli, come vorremmo, a proprio tempo e luogo, ma ci vediamo obbligati a riunirli tutti in un fascio al sèguito degli atti compiuti da quel Vescovo. Conosciamo per altro le date delle prime lettere, che furono il 12 e il 19 maggio(169). Il 12 maggio il Card.l di S.ta Severina gli mandava il Sommario del processo, o meglio de' processi ecclesiastici di Calabria (di Monteleone, di Gerace ed anche di Squillace), Sommario compilato nel S.to Officio di Roma dal Rev.do Procuratore fiscale, che era quello stesso Giulio Monterenzio, il cui nome figura anche ne' documenti del processo di Giordano Bruno: infatti oltre la lettera di S.ta Severina ne abbiamo un'altra posteriore di questo Monterenzio, che spiega un dubbio sorto sopra un punto del suo Sommario, ciò che dimostra pure la diligenza grandissima con la quale il Vescovo di Termoli attendeva alla causa(170). Nella stessa data, due giorni dopo la prima seduta del tribunale, il Vescovo scriveva al Card.l di S.ta Severina partecipandogli senza dubbio che la trattazione della causa era già cominciata: il 19 maggio poi, due giorni dopo che il Campanella chiamato all'esame erasi mostrato pazzo, egli scriveva la sua 2a lettera, con la quale manifestava di credere che la pazzia del Campanella fosse simulata, che il Nunzio da molti giorni l'avea fatto sorvegliare ed avea saputo che parlava assennatamente, che stimava doversi venire alla tortura "pro praecisa responsione" (secondo la giurisprudenza del tempo); ed aggiungeva essere a sua notizia che il Campanella non temeva la tortura, e che la pazzia era nata da che il P.e Gonzales, confessore di alcuni tra' carcerati, prima della sua venuta a Napoli, aveva esortato il Campanella ad aver cura dell'anima perché il corpo era spedito(171). Come mai questi ultimi fatti, di ordine assolutamente riposto, erano venuti a notizia del Vescovo di Termoli? Vedremo fra Pietro di Stilo, assai più tardi, esporre ai Giudici la circostanza delle esortazioni e riprensioni del P.e Gonzales; è chiaro quindi che il Vescovo non rifuggiva dall'informarsi dell'andamento delle cose da' frati medesimi, mostrandosi con loro Giudice severo ma tutt'altro che inumano.

Si ripigliavano intanto più e più volte gli esami de' frati, e poi si passava a quello de' testimoni. Nel medesimo giorno, 19 maggio, si esaminavano ancora fra Paolo, il Bitonto, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Lauriana(172). Fra Paolo fu interrogato di nuovo circa quel libretto di cose superstiziose, e richiesto del motivo pel quale vi si leggeva un segreto per non confessare alla corda, onde si poteva dedurre che egli temesse di averla a soffrire; fu interrogato ancora su' detti e fatti del Campanella, su' frati i quali si erano congregati in Pizzoni, sull'impegno preso di dover predicare contro la fede al tempo della ribellione. Ed egli in fondo negò ogni cosa, nominò i congregati in Pizzoni, e all'ultima dimanda rispose "son frate semplice et non intendo Latino, come volea predicare"? - Il Bitonto fu interrogato circa la sua conoscenza con Felice Gagliardo e con Cesare Pisano, l'andata in Messina con Cesare, i discorsi fatti in tale occasione, la consacrazione di diverse ostie e lo scellerato abuso fattone, come pure circa il motivo pel quale avea lasciato l'abito e tolta la corona al tempo della sua cattura. Ed egli, qualificando il Gagliardo, come il Pisano, tristissimo uomo, ricordando le circostanze per le quali avea dovuto trovarsi con loro, negò energicamente tutti i fatti criminosi che se gl'imputavano; e addusse una sua malattia e il trovarsi in una vigna, per ispiegare il fatto dell'abito e della corona, conchiudendo sul fatto dell'ostia consacrata, "mi potete fare mettere nel foco e farmi ingiottire così come datum, et abiron, se mai hò ditto, ne fatto tal cosa". - Il Petrolo fu esortato a dire la verità, se gli fossero piaciute le opinioni del Campanella, mentre l'aveva tanto spesso udito parlare di eresie ed aveva continuato sempre a trattarlo, fino ad associarglisi nella fuga travestito quando era ricercato dal S.to Officio, e poi trovavansi nel processo tante cose contro di lui da doversi ritenere convinto. Ed egli si scusò sopra ciascuno addebito, persistendo pur sempre nel sistema di denunziare senza parsimonia i detti e fatti del Campanella, onde ripetè che fra Tommaso presso la Roccella gli avea detto essere stato da lui mandato Maurizio presso i turchi, come pure esser baie le credenze sul fico mangiato da Adamo, e in Squillace avea detto a un capo di squadra non trovarsi morte ma mutazione di essere, conchiudendo, "in altro son grandissimo peccatore, ma contra la fede non hò peccato". - Fra Pietro di Stilo fu esortato egualmente a dire la verità, se fosse stato consapevole de' fatti e detti del Campanella contro la fede ed impegnato a predicare in questo senso a tempo della ribellione, ciò che rendevasi credibile, essendo lui intimo del Campanella e di fra Dionisio, ed avendo anche esortato qualcuno (intendasi il Soldaniero) a non rivelare ed anzi a credere quelle eresie, come constava nel processo. Ed egli negò di aver mai saputo cosa alcuna del Campanella contro la fede, negò di essere amico di fra Dionisio, mentre era invece amico del Polistina, confermando che fra Dionisio era scelleratamente abituato a parlare senza ritegno della più turpe lussuria, ed egli avea rimproverato il Campanella perché conversava con lui; inoltre negò di aver mai parlato con alcuno in lode del Campanella se non per cose di filosofia. - Da ultimo il Lauriana fu interrogato sul motivo pel quale avea suonate le campane all'armi quando i ministri del S.to Officio erano venuti a catturare certi imputati, e fu eccitato a dire la verità, mentre era tanto amico del Campanella e di fra Dionisio da doversi ritenere non pure consapevole ma complice delle loro eresie ed impegnato a predicarle, come era noto per deposizioni. Ed egli si scusò, dicendosi suddito del Pizzoni ed obbligato ad eseguirne gli ordini ricevuti dietro erronei apprezzamenti; fece avvertire che non era letterato e quindi non era capace di predicare, ed aggiunse che avea comunicato al Pizzoni quanto gli era accaduto di sapere, che aveva pure scritta una lettera dettata dal Pizzoni per dar notizia al P.e Generale della ribellione e di alcune cose di S.to Officio, che aveva egli medesimo portata questa lettera alla posta di Monteleone. In tal guisa procedevano gli esami, condotti con molta perizia e conoscenza della causa, come risulta da' documenti; questi mostrano inoltre lo studio che il Vescovo di Termoli vi faceva, notando al margine di essi non solo i punti più importanti, ma anche i raffronti con gli esami anteriori, le menome varianti e le cose che gli sembravano inverosimili.

Si produsse allora un primo incidente tra' parecchi che in questa causa si verificarono. Fra Pietro Ponzio, sulla cui persona era stata fatta una ricerca di corrispondenze provocata dal Lauriana, si pose con tanto maggiore accanimento, egli e fra Dionisio, a sorvegliare il Lauriana e il Pizzoni, che tenevano corrispondenza tra loro. Il Lauriana trovavasi nella carcere da basso con più di venti individui, ed il Pizzoni stava in una delle carceri superiori con Gio. Angelo Marrapodi, Geronimo Conia e Marcantonio Stanganella: Aquilio Marrapodi, giovanetto quattordicenne, figlio di Gio. Angelo, serviva questi ultimi ed anche il Lauriana, fra Pietro e fra Dionisio, ed eludendo la vigilanza de' carcerieri portava le corrispondenze; un giorno fra Dionisio lo sorprese, gli tolse una lettera che teneva nascosta in petto, lettera senza firma e senza indirizzo, ma scritta certamente dal Lauriana al Pizzoni. Con essa il Lauriana diceva di avere inviate prima altre lettere, raccomandando di lacerarle, e di aver fatto capitare a fra Francesco da Tiriolo (che ricordiamo aver visto carcerato per la causa della congiura e già liberato) alcuni memoriali da doversi presentare; infine raccontava minutamente l'ultimo esame cui era stato sottoposto. La lettera fu mandata da fra Dionisio, mediante lo stesso Aquilio, a fra Pietro Ponzio, e da costui fu presentata al Vescovo di Termoli, qualificandola "un concetto importante pel progresso della presente causa"; immediatamente, il 26 maggio, il tribunale venne ad occuparsene(173). Fu interrogato fra Pietro, che disse avere avuta la lettera da quel servitorello, e crederla scritta dal Lauriana al Pizzoni. Fu interrogato in genere il Lauriana, che negò ogni cosa. Fu interrogato Aquilio, che affermò di servire suo padre ed anche que' monaci pei quali comprava cose da mangiare; affermò di aver portato lettere di secolari alla posta ma non di monaci, aggiungendo con grande disinvoltura, "se si trova che habbia portato pur un viglietto di questi monaci, voglio che mi sia tagliata la testa". Gli fu presentata allora la lettera, dimandandogli se sapeva leggere e scrivere; ed egli disse di saper "legere quando la lettera è bona et un poco scrivere", ma affermò di non conoscere quella scrittura. I Giudici, per convincerlo, fecero subito venire fra Pietro, il quale gli ricordò che avea portato biglietti e lettere del Lauriana e del Pizzoni, e n'era stato rimproverato da lui ed anche da un altro carcerato, Cesare Bianco; ed Aquilio dovè confessare ogni cosa, e licenziato fra Pietro, richiesto perché non avesse detto prima la verità, con non minore disinvoltura rispose che non se n'era ricordato, aggiungendo di aver portato un'altra volta al Pizzoni un biglietto che il Lauriana gli avea detto essere memoriale, che non credeva di essere stato veduto ma che Cesare Bianco l'avea realmente rimproverato; e dietro altre dimande rispose che il Pizzoni non potea scrivere (aveva la spalla offesa), ma che con lui stavano suo padre e il Conia e lo Stanganella, i quali sapevano scrivere. I Giudici vollero ancora interrogare Cesare Bianco, che era di Nicastro e trovavasi carcerato per la congiura, e costui confermò di aver visto il Lauriana dare il biglietto pel Pizzoni e di averne mosso rimprovero ad Aquilio: e fatto venire il Lauriana lo confrontarono con costui, ed egli giunse a dire, "Dio mi mandi alle pene dell'inferno se mai hò fatto tal cosa", e licenziato il Bianco e richiamato Aquilio, confrontarono il Lauriana anche con lui, e il Lauriana continuò sempre a negare, e rimasto solo e presentatagli la lettera, disse che non avea fatta tale scrittura, che essa non era di mano sua ed egli non avea comunicato il suo esame ad alcuno. Ma le notizie dell'esame erano precise, e potevano essere state date solo o dai componenti il tribunale, o da lui, che aveva in tal guisa tradito pure il segreto solito ad imporsi dal tribunale ad ognuno che si esaminava: rimase quindi ben provato che il Pizzoni e il Lauriana si concertavano tra loro, per esimersi dalla responsabilità che più o meno aveano comune con gli altri frati da loro accusati; erano perciò sospetti, ed anzi falsi, se non in quanto agli altri, certamente in quanto alle persone proprie.

Nella stessa seduta fu esaminato di nuovo il Pizzoni(174); e prima di tutto gli si dimandò se avesse mai ricevuto lettere e memoriali dal Lauriana, ed egli rispose negativamente. Si volle allora che ripetesse le circostanze in cui il Campanella gli avea parlato delle profezie e delle rivoluzioni che dovevano accadere, e dicesse come e perché fra Dionisio gli avea già parlato prima dell'eresie medesime ripetutegli in seguito dal Campanella, opponendo essere inverosimile che, mentre il Campanella indignato di non poter avere da lui fuorusciti a sua divozione aveva esclamato "ben mi fu detto da M.° Gio. Battista (Polistina) che tu sei un traditore", si era tuttavia lasciato andare a rivelargli tante eresie e tante empietà; inoltre gli si dimandò se conoscesse complici degli errori del Campanella e di fra Dionisio. Evidentemente si voleva cogliere il Pizzoni in qualche contraddizione, ma egli imperturbato ripetè le circostanze di que' discorsi, e l'occasione avutane dall'essere stati ricordati i travagli patiti in Roma dal Campanella, e le opere composte da lui; disse che la qualificazione di traditore, secondo l'avviso di M.° Gio. Battista di Polistina, gli fu data dal Campanella dopo i discorsi della ribellione e dell'eresia e non già prima; infine dichiarò di non conoscere complici.

Il 29 maggio si ritornò ad esaminare il Lauriana ed il Petrolo(175). Al Lauriana si dimandò dapprima se si fosse risoluto a dire la verità sulla faccenda della lettera mandata al Pizzoni, ed egli rispose di averla detta la verità. Poi gli si dimandò una quantità di circostanze in cui avea dovuto udire le eresie del Campanella e di fra Dionisio, e se le avesse udite anche da altri, e come si fosse accorto che il Pizzoni vi partecipava, e se veramente fosse stato dal Pizzoni esortato a credere le eresie del Campanella, secondochè avea dichiarato nel primo esame sostenuto in Monteleone e ratificato in Gerace. Ed egli ripetè soltanto la scusa già data altra volta su quest'ultimo fatto, ma per tutto il resto disse sempre di non potersene rammentare, e si riportò costantemente al suo primo esame; "vedete llà ala mia esamina che llà lo trovareti". - Quanto al Petrolo, gli si dimandarono diversi chiarimenti sulle cose dette negli esami sostenuti in Calabria, e massime come e dove il Campanella dicesse le sue eresie a frati e secolari, come fosse egli venuto a conoscere la cifra che il Campanella e il Pizzoni adoperavano tra loro, come e dove ed a chi il Campanella esponesse le rivoluzioni che doveano accadere e le profezie che vi si riferivano, e quando ed a chi dicesse di voler predicare la libertà. E il Petrolo ripeteva le cose già deposte, conformando sempre che il Campanella non parlava di eresie agli altri così liberamente come faceva con lui, ma per motti e in diversi luoghi; che alla Roccella avea vista la cifra in una scrittura, la quale il Campanella gli disse essere una lettera del Pizzoni; che le profezie e le rivoluzioni erano state esposte dal Campanella dapprima nella Chiesa di Stilo, predicando all'altare sopra una sedia, ed a lui solamente il Campanella avea detto, "par che queste profezie parlino di me"; infine che non ricordava dove, e quando, e con chi il Campanella avesse detto voler predicare la libertà.

Continuarono gli esami nel giugno seguente, e in essi potè intervenire il Nunzio, essendo tornato in Napoli dalla sua Chiesa di Troia; ma dopo quattro sole sedute egli mandò di nuovo in sua vece l'Auditore Antonio Peri, che lo sostituì per tutto il rimanente dell'anno, sicchè nella più gran parte del processo offensivo, in tutto il ripetitivo, ed anche in quasi tutto il difensivo, il Nunzio non assistè menomamente. Dal suo Carteggio rilevasi che in questo ritorno da Troia egli potè vedere quale fosse la sicurezza delle strade, ed essere informato sopra i luoghi intorno alle criminose relazioni tra banditi ed ecclesiastici: non sarà inutile riportare qui un brano di lettera da lui scritta al Card.l S. Giorgio su tale argomento, poichè interessa conoscere pienamente i tempi e farsi un concetto giusto di quella abominevole miscela di frati, clerici e banditi, la quale non era propria della Calabria a' tempi del Campanella, ma comune a tutto il Regno anzi a tutto il mondo che diceasi civile, venendo dalle autorità ecclesiastiche riguardata in un modo per lo meno singolare(176). "Le replicarò che quanto alla ricettatione de' banditi et al commercio che tengono con loro molti Clerici, et tutti i religiosi che stanno in certi Conventi, dove per il poco numero non si osserva regola alcuna, è necessario provedervi in qualche modo acciò non segua così spesso che le Chiese et i Conventi sieno violate da questi Ministri Regii (ecco il vero e proprio inconveniente agli occhi del Nunzio), che gridono alle stelle che dette Chiese et Conventi sieno ricetto di tristi et d'assassini come riscontro pur troppo vero, et al ritorno di Troia è bisognato che mi proveda di chi mi assicuri la strada, poichè la sera che arrivai ad Ariano intesi che poco avanti erano stati rubati due mercanti Raugei et menati via da una truppa di Banditi per farne ricatti, onde scrissi al Vicerè della Provincia che è il Conte del Sacco, il quale non solo mi mandò 20 Archibusieri ma venne ancora lui su la strada per aboccarsi con me, et mi fece gran querela di quanto hò detto, con soggiugnere che fra gli altri certi Monaci di M.te Vergine che stanno à S. Guglielmo, luogo in quelle campagne(177), non solo raccettano, ma partecipano i loro furti, portano ambasciate fra di loro, et sono mezi alli ricatti" etc. etc. - Continuarono dunque gli esami coll'intervento del Nunzio, e il 7 giugno si udì per la 3a volta il Pizzoni, rimanendo dal suo esame occupata l'intera seduta(178). Diremo in breve che, sempre dietro dimande, egli dichiarò di avere udito una volta sola parlare di eresie e di ribellione tanto il Campanella quanto fra Dionisio; e redarguito, perché nel primo esame avea detto di avere udito eresie dal Campanella in Stilo ed in Pizzoni, dichiarò che in Gerace non gli era stato letto il primo esame, e che il processo del Visitatore conteneva falsità. Addusse un altro motivo della sua andata a Stilo, un pagamento che dovea fare ad un frate, e ne fu redarguito da' Giudici. Narrò la sua andata a Stilo, seguita dall'altra ad Arena, insieme col Campanella accompagnato da' parenti armati. Disse di aver conosciuto già prima il Soldaniero, capo di banditi, che gli avea mandato una lettera minatoria, e di averlo poi visto passeggiare col Visitatore e fra Cornelio nel convento di Soriano il 28 agosto, ma di non sapere se egli fosse informato delle eresie del Campanella, sapere bensi che avea parlato con fra Dionisio; e redarguito, perché nel primo esame avea detto che il Soldaniero era informato di tutto, dichiarò che fra Cornelio lo scrisse di sua volontà e poi non glie lo lesse. Negò di avere usato mai cifre col Campanella; confermò di avere scritto al P.e Generale e di aver dettata la lettera al Lauriana; stretto dalle dimande dovè negare che il Campanella e fra Dionisio gli avessero in Pizzoni parlato di eresie alla presenza d'altri, e dichiarare che fra Dionisio non si trovò mai in Pizzoni in compagnia del Campanella (dovè quindi dare una grave smentita al Lauriana). Accettò di avere ordinato al Lauriana che suonasse le campane all'armi nel tempo della loro cattura, ma aggiunse di averglielo subito vietato quando seppe che trattavasi della venuta de' soldati del Battaglione. Confermò di aver prima parlato al Visitatore delle eresie udite, notando che vi era andato egli solo: ma i Giudici gli obiettarono che se avesse davvero parlato prima al Visitatore di quelle eresie estragiudizialmente, non gli sarebbe stato possibile il volerle poi occultare, quando fu tratto in giudizio innanzi al medesimo Visitatore; ed egli si scusò adducendo il terrore avuto perché ognuno gli annunciava la morte, l'essergli stato quindi necessario che il Visitatore e fra Cornelio gli ricordassero ogni cosa con una nota scritta che tenevano nelle mani, aggiungendo pure che aveva fin d'allora avuto minacce dal Campanella per mezzo di Gio. Tommaso Caccìa. né dopo tutto questo i Giudici ritennero esaurito l'esame del Pizzoni.

Il 17 giugno furono esaminati nuovamente il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di Stilo; il 20 giugno fu esaminato per la 4a volta il Pizzoni. Stretto dalle dimande, il Lauriana confermò che quando il Campanella si fece a parlare di eresie c'era anche fra Dionisio oltre il Pizzoni (ed in ciò per lo meno la memoria non l'assisteva bene). Citò due occasioni per le quali il Campanella avea manifestato eresie: l'una, l'essere stata condotta dal Casale di Vazzano a Pizzoni una donna spiritata, e il Campanella la giudicò pazza, e nel dopo pranzo disse, "mi portano innanzi queste donne spiritate e matte, et io non tengo che ci siano ne spiriti, ne diaboli, "ne inferno, e ne paradiso"; l'altra, l'avere il Campanella letto un capitolo di Plinio in cui parlavasi della natura, onde disse che Dio era la natura con tutte le altre proposizioni altra volta deposte (singolare raffronto con ciò che avea pure già dichiarato il Caccìa, ma attribuendolo al Pizzoni). Disse che fra Dionisio gli avea solamente parlato contro l'eucaristia, ma presente il Campanella e il Pizzoni; e che il Pizzoni non avea mostrato di credere all'eresie, ma di approvare alcune opinioni scritte dal Campanella in un suo libro, aggiungendo che in quel libro trattavasi di opinioni contro S. Tommaso. - Il Petrolo poi dovè rispondere ancora una volta intorno a' complici del Campanella; e continuò a dire che non ne conosceva, e che il Campanella non avea manifestato mai eresie formali in presenza di altri, sibbene si esprimeva per motti, de' quali fornì qualche esempio. - Infine fra Pietro di Stilo dovè dare chiarimenti intorno a ciò che il Campanella avea detto della elezione del Papa e de' miracoli; e fattosi leggere il primo esame cercò di attenuarne la misura, dolendosi anche di fra Cornelio che scriveva troppo diffusamente, ma conchiuse che confermava quanto nell'esame trovavasi scritto. - Ben più lungo fu l'esame del Pizzoni, che di nuovo occupò l'intera seduta. Sempre dietro dimande, dovè dichiarare in qual luogo fosse stato ammalato negli ultimi tre anni, e se in Stilo (che egli aveva taciuto nella sua rassegna) avesse avuto stanza anche il Campanella al tempo della sua malattia. Dovè dichiarare di nuovo se in Pizzoni, quando il Campanella parlò di eresie, fosse stato presente fra Dionisio; e dettogli che un testimone suo amico affermava che fra Dionisio c'era, fu costretto a smentirlo definitivamente, dicendo che quel testimone (il Lauriana) sapeva di tali cose quanto il muro della stanza, che quel testimone, alla presenza di quasi tutti i frati ed altri secolari, aveva in Monteleone confessato che non sapeva addirittura nulla né di ribellione né di cose di eresia, e che avea parlato per paura e per subornazione del Visitatore, di fra Cornelio ed anche di D. Carlo Ruffo, con la speranza di essere subito liberato anzi premiato, e la paura era stata tale che avrebbe deposto perfino contro suo padre; che quanto avea deposto eragli noto solamente per la lettera al P.e Generale scritta di sua mano sotto la dettatura di esso Pizzoni. Intorno a tutte le altre citazioni di deposizioni testimoniali contrarie (riferibili segnatamente al Caccìa, senza che il nome di lui fosse pronunziato), egli dichiarò che doveano provenire da persone infami e bugiarde, o inimiche, o sedotte, ovvero anche da falsità di scrittura, dando per sospetto il Visitatore e fra Cornelio, ed affermando che in Monteleone il Pisano e il Caccìa se n'erano lamentati con gli altri prigioni, perché gli aveano carpiti 100 scudi per uno ed altri donativi, con la promessa di sottrarli alla Corte secolare, e così gli aveano fatto dire quello che aveano voluto; inoltre il Caccìa avea dimandato perdono ad esso Pizzoni, per aver deposto dietro insinuazione di que' due frati, che gli dicevano essersi avute deposizioni del Pizzoni contro di lui, e poi anche dietro gli atroci tormenti sofferti mentre era travagliato dalla febbre. Negò di nuovo la cifra; confermò che il Lauriana gli avea detto essere rimasto scandalizzato, perché il Campanella in una predica in Stilo aveva esclamato, "oh si mi fusse lecito estendermi in questa materia", parlando del governo de' Principi e Prelati, non già di eresia; infine ripudiò ad una ad una tutte le eresie che gli erano state addebitate.

L'indomani, 21 giugno, fu esaminato di nuovo il Bitonto, e poi, per la prima volta, fra Dionisio(179). Il Bitonto dovè dar conto di ciascuno di que' molti fatti che avea deposti il Pisano, e che direttamente o indirettamente lo riguardavano (senza che il nome del Pisano fosse mai pronunziato): ed egli rispose costantemente "non ho mai inteso tal cosa", qualche volta anche "l'ho inteso da che son qua carcerato", ovvero "l'ho inteso quando so stato esaminato dalli giudici et in particolare in hierace", aggiungendo che quivi fu esaminato dal Vescovo e dal Visitatore, essendo presente anche Carlo Spinelli; e conchiuse che tutte quelle cose avevano dovuto esser deposte da qualche infame o nemico suo. - Si passò quindi a fra Dionisio. Costui, sempre dietro dimande, disse di aver saputo dal Sances e dal carceriere che era stato imputato in cose di S.to Officio insieme col Campanella, e negò con la più grande energia di aver peccato nella fede. Diè una lunga lista de' suoi nemici, a cominciare da' Polistina e dagl'inquisiti per la morte dello zio M.° Pietro, e venendo sino a fra Pietro di Stilo che disse creatura del Polistina, al Pizzoni finto amico nelle sue liti col Polistina e ladro di molti suoi scritti predicabili onde dovè infamarlo, al Lauriana partecipe del furto degli scritti ed incaricato della vendita di essi, oltrechè legato in nefande relazioni col nipote del Pizzoni, fra Fabio, e col Pizzoni medesimo, onde dovè scacciarlo dal convento di Nicastro dove esso fra Dionisio trovavasi Priore. Negò di aver mai trattato con qualche ebreo in Cosenza, dichiarando spontaneamente che a tempo di quell'ebreo, allorchè venne eletto il P.e Generale Beccaria (cioè nel 1588), egli trovavasi in Napoli, nel convento di S.ta Caterina a formello, e che seppe in Napoli da una lettera di suo zio M.° Pietro avere il Campanella avuto conversazione con quell'ebreo di cattiva fama in Cosenza, essere fuggito in compagnia di lui da Calabria ed avere arrecato questa fuga grande scandalo, onde gl'ingiungeva di non avere più relazione col Campanella; dichiarò anche, dietro dimande, di non avere mai più avuta notizia di quell'ebreo, né occasione di parlare col Campanella, che non vide più per 7 od 8 anni dopo quel tempo. Negò assolutamente di avere mai avuto scandalo dal Campanella per cose di fede, mentre pure avea cercato di chiarirsene, poichè dicevasi che avea diavoli, comandava diavoli e credeva poco: aggiunse di aver saputo da lui che era stato inquisito nel S.to Officio per un Sonetto bruttissimo contro la fede e contro Cristo, quale Sonetto gli recitò, che l'accusatore era stato condannato in galera ed esso Campanella liberato senza abiura, non avendo mai voluto accettare di avere abiurato, mentre di poi in Napoli ebbe a sapere che l'abiura c'era stata (onde dovrebbe dirsi che pure tra loro amici intimi si manteneva l'equivoco, confondendo l'esito di processi diversi). Tale fu la prima deposizione di fra Dionisio, che egli non potè sottoscrivere per la tortura avuta nel tribunale della congiura, e che crocesegnò tenendo la penna stretta tra' denti.

Fu poi fra Dionisio esaminato di nuovo tre altre volte successivamente, il 20 e 28 giugno, ed il 13 luglio, continuando sempre ad intervenire agli esami non il Nunzio, ma l'Auditore di lui Antonio Peri. Il 26 giugno fra Dionisio cominciò dal dire spontaneamente che avea ricevute dal Lauriana due lettere, con le quali gli narrava l'esame sostenuto in Calabria e gli chiedeva perdono, avendolo a torto accusato di proposizioni eretiche contro l'eucaristia, a suggestione del Pizzoni e per uscire dalle mani de' secolari; che queste lettere gli erano state tolte da' carcerieri, ed egli riteneva dovessero trovarsi nell'altro processo; che da esse rilevavasi essere stato deposto dal Lauriana di avere udite le eresie in un discorso tenuto dal Campanella in Pizzoni con lui, fra Dionisio, e con fra Gio. Battista di Pizzoni, e tale fatto era la più grande menzogna, non essendosi lui fra Dionisio mai trovato in Pizzoni contemporaneamente al Campanella (il fatto era fondamentale, e il vederlo a notizia di fra Dionisio mostrava che le lettere c'erano state, salva la quistione di sapere se in esse si parlava realmente di accuse ingiuste e di domanda di perdono). Narrò poi, interrogato, le circostanze della sua cattura e di quanto gli era avvenuto ne' giorni consecutivi (ciò che fu da noi esposto a suo tempo). Fornì spiegazioni sulla sua lettera trovata presso fra Vincenzo Rodino, sulla sua conoscenza col Pisano, sull'andata con costui a Messina e sull'andata successiva col Campanella e col Bitonto a Castelvetere, dove il Pisano trovavasi carcerato pel furto di una giumenta del Principe, riconoscendo di aver voluto aiutarne la liberazione, ma semplicemente per l'onore della famiglia di esso. Fornì spiegazioni sul fatto dell'inglese che in Roma avea dato un pugno all'ostia consacrata, dicendo di averlo veramente narrato perfino dal pulpito "etiam cum lachrimis", per dimostrare la gran bontà e tolleranza di Dio: dichiarò di non aver mai conosciuto l'avvenimento del prete annegatosi con l'ostia, e ripudiò assolutamente il fatto osceno commesso con l'ostia, facendone rilevare l'inverosimiglianza. Infine negò di aver mai parlato in dispregio dell'eucaristia, e disse che le precise parole, con le quali gli si faceva tale dimanda, si trovavano nelle lettere del Lauriana (altra prova che tali lettere c'erano state); notando che in Pizzoni egli non potea dire tali cose, poichè c'erano soltanto suoi nemici e un vigliacco fuoruscito (certamente il Caccìa), il quale poi si disdisse nell'atto di essere giustiziato. - Il 28 giugno, esaminato per la 3a volta, fra Dionisio negò ad una ad una tutte le eresie e tutte le accuse che gli erano state apposte (dal Soldaniero, dal Lauriana, dal Pisano etc.) e che i Giudici gli vennero successivamente formolando, non senza dare qualche spiegazione in sua difesa. Così, a proposito del pugno da lui dato a un'immagine del crocifisso in Soriano, dichiarò che il Priore e Lettore di quel convento erano suoi nemici, che vi si trovava anche un gran fuoruscito a nome Giulio Soldaniero stato per tutta la quaresima in relazione con fra Gio. Battista di Polistina, ed egli avea temuto di essere ucciso o almeno bastonato da lui, e gli avea parlato sempre in pubblico. A proposito di altre eresie che si era deposto aver lui udite dal Campanella e lodate ed insinuate ad altri, dichiarò che il Petrolo, già da circa un mese, passando innanzi alla sua prigione si era avvicinato alla finestrina di essa e gli avea dimandato perdono, facendogli sapere che avea deposto essere stato detto dal Campanella, in presenza di lui fra Dionisio, che non c'era purgatorio né inferno; onde temeva che questo potesse nuocergli, sebbene avesse pure aggiunto alla deposizione che il Campanella prima diceva le eresie a lui e poi le diceva anche agli altri, ma in modo che esso Petrolo non sapeva se gli altri le intendessero (e questo mostrava che veramente il Petrolo avea dovuto parlargliene). Infine negò di aver mai saputo che il Campanella si fosse proposto di predicare, e che egli medesimo dovesse predicare contro la Chiesa. - Il 13 luglio, esaminato per la 4a volta, dovè dar conto di altre eresie ed accuse, sulle quali non era stato ancora interrogato (quelle deposte da Maurizio per propria scienza o per detto del Vitale, come pure quelle raccolte nel processo di Squillace). Ed egli negò egualmente ogni cosa; ed a proposito del fatto dell'ostia che pretendevasi avere una volta consacrata e poi gettata a terra, disse di aver saputo da Maurizio, nel venire a Napoli, che tale fatto era stato deposto da Gio. Battista Vitale "credendosi schifare la morte almeno per alcuno giorno", e fece rilevare che il Vitale prima di essere squartato avea revocata quella deposizione (c'era quindi stato ad ogni modo un colloquio con Maurizio su tale fatto, salva rimanendo la quistione di sapere se Maurizio avesse realmente attribuito il motivo suddetto alla deposizione, ed anzi se vi fosse stata realmente una deposizione del fatto innanzi a' Giudici da parte del Vitale). Potè poi questa volta dopo cinque mesi, stando meglio co' suoi polsi, sottoscrivere(180) il processo verbale dell'esame sostenuto.

Dobbiamo aggiungere che nella seduta medesima fu esaminato ancora Giulio Contestabile, qualificato non solo teste, ma anche principale, senza dubbio per avere troppo conversato col Campanella(181). Egli disse di conoscere il Campanella e fra Dionisio, e di stimarli uomini tristi mentre erano inquisiti di cose triste; disse di sapere che il Campanella ora stato già prima processato per eresia, ma non sapere altro, e di avere due volte sole parlato col Campanella in Stilo, in casa sua, per la conchiusione della pace tra la famiglia sua e quella de' Carnevali; ma Geronimo suo fratello scrisse da Napoli che non volea si trattasse con persona già processata per eresia, ed avendo lui divulgata la lettera, il Campanella gli divenne nemico. Dichiarò di non aver mai udito il Campanella parlare di Cristo né di Mosè, e fece rilevare che in Stilo c'era un altro Giulio Contestabile figlio di Lucio, Maestro della confraternita del Rosario e perciò molto assiduo nel convento dei Domenicani (il fatto era vero(182), ma rappresentava una scusa grossolana).

Il 1° luglio fu interrogato Giulio Soldaniero, testimone importante, che si dovè far venire dalla Provincia. Il Carteggio del Nunzio ci mostra che egli non trovavasi più in Calabria, ma in terra d'Otranto, e che lo si fece venire per mezzo del Vescovo di Nardò; parrebbe pure dall'esame suo che fosse stato tenuto in prigione fin dal marzo, sicuramente ad istanza del S.to Officio. Lo stesso Carteggio ci mostra che appunto per lui la trattazione della causa soffrì un ritardo nelle prime settimane di luglio; poichè alla sua venuta era stato rinchiuso in Castel dell'ovo, e quando si volle esaminarlo, si trovò il solito intoppo del non esserci ordine alcuno del Vicerè, onde il Nunzio ebbe a fare istanza che o si desse quest'ordine o si conducesse il prigione in Castel nuovo(183). Vedremo in sèguito che si fece venire anche il suo fido Valerio Bruno, ed entrambi furono rinchiusi in Castel nuovo insieme co' frati inquisiti. Il Soldaniero, dietro dimande, disse che era stato esaminato da fra Cornelio, e successivamente dal Vescovo di Gerace, dopo di aver mandato il Priore di Soriano al Visitatore per rivelare le cose dettegli da fra Dionisio; e ripetè talune di queste cose, affermando che quando vennero dette o fatte, era presente e consenziente il Pizzoni, e tutto proveniva dal Campanella. Invitato ad esporre ciò che fra Dionisio gli avea detto di provenienza del Campanella, non seppe dire più nulla e si richiamò all'esame precedente, poichè non se ne poteva ricordare. Aggiunse di aver visto in sèguito fra Pietro di Stilo, che gli raccomandò di non dir nulla di quanto gli avea detto fra Dionisio, ma egli già avea raccontato tutto al Priore e Lettore di Soriano: non potè ricordarsi se fra Pietro gli avesse parlato di eresie, ma negò di aver ricevuto lettere del Campanella. Disse che avea raccontato pure ogni cosa a fra Domenico e fra Gio. Battista di Polistina e costoro se ne maravigliarono, che vide fra Dionisio una sola volta (prima avea detto due volte), e parlò al Priore ed al Lettore perché lo cacciassero dal convento(184).

Ma il fatto più importante della seduta del 18 luglio fu il tormento della corda dato al Campanella per un'ora, fatto ricordato poi da lui medesimo nella sua Narrazione, là dove dice: "el Campanella sendo impazzito hebbe un'hora di corda, e restò per pazzo quando era il Tragagliola". Già fin dal 12 maggio, dietro la richiesta del vescovo di Termoli, il Card.l di S.ta Severina avea scritto: "quanto al particolare che ella avvisa, che fra Tomaso Campanella si finge pazzo, et non vuol giurare ne rispondere à quello, che se gli domanda, le dico che S. S.tà rimette all'arbitrio di Monsignor Nuntio e di V. S., e del Generale Vicario Archiepiscopale di dargli la corda per havere da lui la precisa risposta, con avvertire di non interrogarlo de' capi del negotio principale per non debilitare le ragioni del Fisco". Adunque, dopo il Soldaniero, venne introdotto il Campanella(185), e questa volta egli toccò il libro su cui fu invitato a giurare, ma fin dalla prima dimanda che gli venne diretta rispose in modo strano ed incoerente. "Volsero pigliare fratimo, et poi si concitorno tutti contra di me, et mi hanno spogliato, et mi ritrovo in questo modo, et hò fatto tanti libri, et poi me li hanno cambiati" etc. Era sempre vestito da secolare, col suo cappello nero tra mano, e diceva: "questo cappello è tutto stracciato, et tutte queste veste che hò sopra sono stracciate"; e volle coprirsi il capo ma l'aguzzino glie lo scoprì, onde egli si rizzò contro l'aguzzino dicendo, "guarda costui che mi vuol levare il cappello", e soggiunse "bisogna che venghi il Papa et sbroglia queste cose" etc. Fu quindi fatto condurre alla stanza del tormento e là venne spogliato e ligato alla corda, con le proteste che il S.ta Severina avea raccomandate: ed elevato in alto cominciò a dire "hoimè che moro, ah traditori, figlioli di cornuti, bagascie, mi hanno ammazzato, madonna santissima aiutami". Rinunziamo a continuare questa atroce rassegna di dolori, che d'altronde i lettori troveranno nel relativo Documento: solo diremo che il povero Campanella, talvolta furioso, talvolta abbattuto, ingiuriava o invece blandiva chiedendo pietà, e spesso invocava il Papa o a lui si appellava, nota dominante per tutto il tempo della sua pazzia; allorchè si rivolse a qualcuno de' Giudici in particolare, per muoverlo a misericordia, si rivolse sempre al "frate", cioè al Vescovo di Termoli. Tra le svariate dimande fattegli vanno notate le seguenti: quanto tempo fu carcerato in Roma, se era stato visitato da qualche medico nelle carceri, come si chiamava il Commissario del S.to Officio in Roma al tempo in cui fu carcerato, ed anche, con ludibrio indegno, cosa avrebbe avuto di buono a pranzo, e dopo di avergli due volte minacciato il polledro, che dimandasse qualche grazia. E il Campanella, obbligato allora appunto a soddisfare a' suoi bisogni naturali stando sospeso alla corda, replicò all'ultima domanda che lo lasciassero... fare; né rispose mai a proposito, e tra' diversi suoi detti incoerenti nominò il Marchese d'Arena, dicendo che "se havesse fatto (sic), non pateria questo", nominò Paolo Campanella, che avea disegnato una figura di S. Rocco, nominò Cicco Vono, qualificandolo suo nemico. Infine, scorsa un'ora, venne definitivamente deposto e sciolto, e secondo l'uso gli aguzzini gli ricomposero le braccia, quindi lo rivestirono e lo ricondussero nella sua carcere.

Subito dopo furono esaminati Geronimo padre e Gio. Pietro fratello del Campanella(186). Geronimo si dichiarò di Stignano, dell'età di circa 65 anni, e dovè rispondere intorno alla causa della carcerazione di suo figlio, intorno a un libro che costui avea scritto ed egli avea lodato come superiore anche a quello degli Apostoli, intorno alle divinazioni fattegli sull'avvenire degli altri figli, intorno al rifiuto di predicare espressogli da fra Tommaso e motivato col non voler fare l'ufficio di saltimbanco, intorno al pranzo di Stignano in casa Grillo, dove egli avea fornite vivande ed avea dovuto udire eresie da fra Dionisio. Il povero vecchio disse di sapere solamente che suo figlio era stato carcerato da Carlo Spinelli, o per detto d'altri che avea scritto un libro in Napoli, mentre quanto a sè egli non sapea leggere né scrivere, soggiungendo, "alhora tutti mi dicevano beato et hora tutti mi dicono sfortunato". Quanto alle divinazioni, disse che suo figlio era stato quattordici anni fuori di Calabria, ed al ritorno appena lo riconosceva per padre, trattando solo con Principi e Signori, come il Principe della Roccella e il Marchese di Arena; quanto poi al rifiuto della predicazione, disse che veramente avea pregato fra Tommaso di accettare l'offerta fattane da que' di Stilo col compenso di 200 ducati, "per aiutare alcune figlie femine che hò è sono pezzenti", ma fra Tommaso non volle, dicendogli che sapeva quel che si faceva. Accettò di aver visitato fra Dionisio in casa Grillo, ma negò di aver fornite vivande, aggiungendo, "non hò per me, et hò nove tra figlie et nipote femine"; negò pure energicamente di avere udito discorsi eretici, ed aggiunse, "si fra Dominico (Petrolo) lo dice, fatime mettere un chiappo al collo et impendere". Da ultimo s'inginocchiò innanzi a' Giudici e disse, "Signori, siamo tutti spersi per povero regno, et si questi monaci hanno fatto male, vi prego, castigateli per amore di Dio": con ciò, s'intende, egli volea dire che facessero presto, perché così sarebbe presto tornato a casa sua ove l'attendeva una frotta di giovani donne rimaste nell'abbandono e nella miseria; e il suo desiderio era naturalissimo, ma faceva dimenticargli che tra' monaci i quali avrebbero dovuto essere gastigati, e non lievemente, c'era anche il migliore de' suoi figliuoli. - Molto più breve fu l'esame di Gio. Pietro Campanella, che si dichiarò di 28 anni in circa e di mestiere calzolaio. Gli chiesero se avesse mai udito suo fratello fra Tommaso parlare di rivoluzioni da dover accadere nel 1600; ed egli rispose che poche volte gli avea parlato e non mai di tali cose. Al pari di suo padre, non sapendo scrivere, segnò con una croce il processo verbale dell'esame.

Il 20 luglio venne il Campanella ricondotto innanzi a' Giudici, e continuò a mostrarsi pazzo(187). Non voleva rimanere nella sala di udienza, si tirava indietro, e poi cominciò a baciare certe figure disegnate nel foglio del Calendario. Gli si fecero dimande strane; quante sorelle aveva, dove trovavasi il suo padre carnale e da quanto tempo non l'aveva veduto, se possedeva il breviario etc. poi lo si avvertì di cessare dal fingersi pazzo. Ed egli nominò più sorelle, Costanza che era Badessa, Emilia maritata, Giulia da doversi maritare con Michele Castellano; parlò del padre in modo incoerente, ricordò che gli aveano presi tutti i suoi libri, accennò ad una "Signora grande", a soldati che l'aveano perseguitato, ad una sua fuga di 20 miglia. Lamentavasi per avere le braccia addolorate in sèguito della tortura, e da ultimo disse, "dammi da bere frate, quattro confortini (confortatori) negri negri vengono ogni sera et mi ammazzano...". Dal processo verbale si rileva che avrebbe sottoscritto l'esame, se non avesse avuto le braccia debilitate.

Fu di poi, nella stessa seduta, interrogato nuovamente il Soldaniero, quindi Giuseppe Grillo; inoltre furono richiamati fra Dionisio ed il Pizzoni, per dare qualche chiarimento(188). Al Soldaniero si fecero molte dimande; come mai fra Dionisio avesse cominciato a parlare con lui contro la fede mentre non c'era mai stata familiarità tra loro, se fra Dionisio fosse venuto a Soriano egli solo o in compagnia di qualcuno, come si fosse comportato il Pizzoni in quella circostanza, in quale giorno si fosse mangiato carne, a quale scopo que' frati gli avessero dette tante eresie. E il Soldaniero narrò di nuovo i particolari della venuta di fra Dionisio a Soriano, ed affermò che questa accadde di martedì, nel quale giorno, avendo precedentemente riportata una ferita di archibugio, egli non mangiava carne per divozione alla Madonna dell'Idria (cioè di Costantinopoli), ma fra Dionisio mangiò carne ed eccitò lui a mangiarne; non potè poi ricordarsi se il Pizzoni fosse presente, ma dichiarò che gli pareva di sì, e che costui confermava le opinioni di fra Dionisio, dicendo che erano opinioni del Campanella. I Giudici gli fecero notare che nella prima deposizione avea detto non essere stato presente il Pizzoni, essere avvenuto il fatto in giorno di venerdì, non avere fra Dionisio mangiato carne (l'aveva solamente desiderata per mangiarla), e che badasse quindi a non dire menzogne: egli rispose più volte che non se ne poteva ricordare e si rimetteva al suo primo esame, conchiudendo che le eresie gli erano state raccontate perché le credesse. - Giuseppe Grillo, fatto venire dal Castello dell'ovo in cui era rinchiuso, dietro dimande, dichiarò di aver conosciuto anteriormente fra Dionisio e gli altri frati che poi vennero a pranzo in casa sua in Stignano, e di averne buonissima opinione, ma non così Cesare Pisano che vide allora per la prima volta; dichiarò che durante il pranzo fra Dionisio avea detto doversi "rengratiar Dio di tante gracie che ci fà e cose simile", ma non avea detto nulla contro la fede, perché egli "saria ricorso da superiori", ed anzi lo stesso fra Dionisio fece poi un sermone in Chiesa, in Stignano, presenti tre dottori e moltitudine di popolo, e fu lodato assai. Avvertito di non dir bugie, il Grillo soggiunse che avea detto la verità; che dal Petrolo, per mezzo del figlio di Desiderio Lucane, gli era stato raccomandato di volersi esaminare in favor suo; che da Mario Flaccavento come pure da Felice Gagliardo e Camillo Ademari, prima di venire dal Castello dell'ovo, gli era stato raccomandato di voler dire che in Stignano si era mangiato carne in giorno di venerdì o sabato, e che egli stesso l'avea mangiata inavvertentemente, poichè così trovavasi affermato in processo, e non dicendo così anche lui, avrebbe avuto la corda, ma egli avea risposto di non voler dire la bugia (tanti erano impegnati a non far alleviare la posizione degl'inquisiti, o invece tanto era furbo questo giovanotto che inventava sollecitazioni per procurarsi credito). - Si fece poi venire fra Dionisio, per sapere in che giorno fosse stato in Soriano, e se il Pizzoni vi fosse stato con lui. Dietro varii tentennamenti di reminiscenze, egli conchiuse che vi fu col Pizzoni il mercoledì, e il Pizzoni si partì subito pel suo conventino poco distante da Soriano, che in quella sera si mangiò co' frati, e l'indomani, giovedì, si mangiò nel dormitorio col Priore, col Lettore, con alcuni spagnuoli, ed anche con Giulio Soldaniero. - Da ultimo si fece venire il Pizzoni per udirlo sullo stesso fatto, ed egli lo negò assolutamente (senza dubbio a torto); e dietro dimande disse che non era mai stato a Soriano con fra Dionisio, che non aveva mai confermato eresie né biasimata l'astinenza dal mangiar carne per divozione, e che questa era un'infamia in suo danno da parte di fra Dionisio e del Campanella conformemente alle loro minacce!

A questo punto si erano già raccolti esami sufficienti per poter passare dal processo informativo, che dicevasi pure offensivo, al processo ripetitivo: difatti il 31 luglio, sull'istanza del Procuratore fiscale, la Corte emanò i suoi Decreti in questo senso, ed abbiamo ragione di credere che non poco v'influì Mons.r Nunzio, il quale era spesso sollecitato dal Vicerè a terminare la causa dell'eresia, acciò si potesse procedere alla spedizione di quella della congiura. Ma il Vescovo di Termoli, che avea realmente studiata la causa ed era abituato alla ricerca della verità senza transazioni, scorgendo un cumulo di circostanze poco atte a rassicurare la sua coscienza, volle che fossero interrogati dal tribunale il Priore e il Lettore di Soriano, fra Domenico da Polistina e così pure Valerio Bruno, inoltre fra Gio. Battista di Placanica e fra Francesco Merlino già interrogati dal Vescovo di Squillace in Calabria: e però fin dal 18 luglio avea con una sua lettera commesso a quel Vescovo di mandare tutti que' frati in Napoli, e di chiarire con nuovi esami alcuni punti del processo già da lui fatto nell'anno precedente; ed il Vescovo eseguì la commissione con ogni sollecitudine, procurando la comparsa de' frati al tribunale di Napoli ed inviando poi anche l'Informazione supplementare da lui presa, che per tal modo trovasi inserta nel processo di Napoli. Come si rileva dai documenti che fanno parte di questa Informazione, il Priore di Soriano era già venuto in Napoli chiamatovi dal P.e Generale, e fra Domenico da Polistina, funzionante da compagno del Provinciale di Calabria, fu da costui immediatamente inviato; a fra Gio. Battista da Placanica e a fra Francesco Merlino fu fatto dal Vescovo di Squillace, con la comminatoria di molte e gravi pene, precetto di presentarsi al tribunale in Napoli, l'uno nel termine di 20, l'altro nel termine di 25 giorni; al Lettore di Soriano fu fatto un uguale precetto, col termine di 30 giorni. - Si ebbe quindi una serie di altri esami, alcuni de' quali si compirono mentre già il processo ripetitivo faceva il suo corso: noi li poniamo tutti qui in continuazione degli esami precedenti, senza attenerci con rigore assoluto alla cronologia de' diversi atti processuali, per non intralciare di troppo il corso della nostra narrazione.

Ed in prima l'8 e l'11 agosto, nel convento di S. Luigi ove risedeva il Vescovo di Termoli, furono esaminati e riesaminati fra Giuseppe d'Amico Priore di Soriano e fra Domenico di Polistina(189). L'esame del giorno 8 fu fatto innanzi all'intero tribunale. Fra Giuseppe d'Amico, dietro dimande, disse che fra Dionisio e il Pizzoni vennero insieme a Soriano, un giorno di giovedì al tardi, ed allora nel convento trovavasi pure il Soldaniero, uomo di mala vita, che Mons.r di Mileto non voleva fosse cacciato, come anche Valerio Bruno, servitore del Soldaniero ed egualmente fuoruscito; che il Pizzoni l'indomani se n'andò al suo convento di Pizzoni, d'onde tornò il sabato con Claudio Crispo e si diresse tosto ad Arena ove trovavasi il Campanella; che fra Dionisio, rimasto il venerdì a Soriano, partì egli pure il sabato per Arena, poco dopo ch'era partito il Pizzoni, dicendo di temere che costui conducesse il Campanella a Pizzoni mentre egli volea condurlo a Soriano, e poi l'istesso giorno tornò a Soriano e vi rimase la domenica per farvi una predica, dopo la quale definitivamente se ne partì. Disse che, appena giunto, fra Dionisio dimandò del Soldaniero, e si recò in camera di lui e vi si trattenne un pezzo in colloquio, e ciò accadde nel giugno o luglio 99; che da otto a quindici giorni dopo, il Soldaniero parlò ad esso fra Giuseppe della ribellione, ma solo nel mese di agosto gli raccontò diverse eresie dette da fra Dionisio; che poi, trovandosi esso fra Giuseppe presso il Visitatore in Monteleone, quando già la congiura era scoverta e fra Dionisio era fuggito con una cavalla presa nel convento, riferì ogni cosa al Visitatore ed al Provinciale, ed avvertì al suo ritorno il Soldaniero di quanto avea fatto; che il Soldaniero allora gli rispose di dover essere esaminato, perché avrebbe deposto anche di più, ma non aveva mai pregato lui che cacciasse fra Dionisio dal convento. Aggiunse che il Soldaniero non gli aveva mai discorso del Pizzoni come fautore di eresie, bensì come sollecitatore perché "si havesse voluto trovare con l'intentione loro", e solo di fra Dionisio gli raccontò le diverse eresie, che egli si fece a ripetere; (così era certo l'armeggio per la ribellione da parte di tutti costoro insieme col Campanella, ma la faccenda dell'eresia era imputabile solo a fra Dionisio, che veramente ne faceva professione almeno come di un'arma di guerra). - Quanto a fra Domenico di Polistina, costui confermò che agli 8 o 9 di agosto dell'anno precedente, dopo l'incontro avuto col Campanella in Davoli, la sua fuga da quel posto per minacce di banditi e il suo arrivo in Soriano, seppe dal Soldaniero che fra Dionisio gli aveva esposto un gran numero di eresie, il fatto osceno contro l'ostia etc., eresie che fra Dionisio e il Campanella doveano predicare al tempo della ribellione, ed egli poi ne parlò a fra Cornelio del Monte; che del Campanella non seppe al di là delle cose dette, e con fra Cornelio non parlò del Campanella per conto dell'ostia consacrata (così fra Cornelio risultava falso, ma rimaneva pure a vedere se non era falso in ciò fra Domenico, e fino a qual punto costui fosse stato informato dal Soldaniero o viceversa). Aggiunse poi, spontaneamente, che il Campanella molti anni prima avea voluto uscire dalla Religione, e si era detto pubblicamente che avea lasciato la Calabria in compagnia di un certo Abramo ebreo o caldeo; (era sempre lui fra Domenico che evocava tale fatto, e questa volta per detto altrui, non per propria scienza). - Il nuovo esame di costoro, l'11 agosto, fu fatto innanzi al solo Vescovo di Termoli. Fra Domenico da Polistina narrò qualche circostanza di poco valore relativamente al suo incontro col Soldaniero. Fra Giuseppe d'Amico aggiunse che, parlando della ribellione col Soldaniero nell'agosto, ebbe a vedere nelle mani di lui una lettera del Campanella scritta di suo pugno, giacchè ne conosceva il carattere, la quale finiva col dire al Soldaniero che su quanto gli avea discorso fra Dionisio, se ne rimetteva al suo luogotenente fra Gio. Battista di Pizzoni; (così fra Giuseppe parlava sempre de' soli fatti della ribellione, ma è pur vero che non avrebbe potuto parlare de' fatti di eresia laddove fossero stati a sua notizia fin da principio, mentre non si era curato di denunziarli per tanto tempo). Infine, dietro dimanda, depose che il Campanella, quando si partì dalla Calabria, diceva di partirsene per la persecuzione che soffriva dal Provinciale di quel tempo P.e Pietro Ponzio, e si disse che era partito con un Abramo, ebreo molto scienziato ma che esso fra Giuseppe non avea veduto; (nessuno dunque avea veduto questo ebreo, ma è pur vero che a nessuno conveniva ammettere di averlo veduto).

Di poi, il 21 agosto, fu interrogato in Castel nuovo Valerio Bruno(190). Costui disse che era stato per circa un anno col Soldaniero nel convento di Soriano, che avea là veduto fra Dionisio rimastovi due giorni, durante i quali venne pure il Pizzoni, e che li avea veduti cacciare entrambi dal Priore a richiesta del Soldaniero, scandalizzato perché gli avevano palesate molte eresie, le quali egli si fece a ripetere. Disse che fra Dionisio e il Soldaniero aveano mangiato insieme un giorno di martedì o venerdì; giorno in cui il Soldaniero si asteneva dalla carne per voto fatto in sèguito di un colpo di archibugio ricevuto, ed egli avea udito fra Dionisio maravigliarsene; che non seppe altro di ciò, ma poi l'indomani, essendo venuto il Pizzoni ed avendo confermato le eresie dette da fra Dionisio, ad un'ora o due in circa di giorno udì il Soldaniero che "comminciò a gridare che cose son queste che mi dite, à par mio dite queste cose, è comminciò à chiamare il Priore, Padre Priore venite, cacciati questi"; che il Priore il quale nella sera precedente avea cercato di scusare fra Dionisio dicendo che era briaco, ed avea raccomandato al Soldaniero, per amore di Dio, l'onore della Religione, finì per accorrere insieme col Lettore ed altri e così cacciarono que' due frati. Insomma, accumulando circostanze in modo abbastanza comico, questo furfante procurò di rendere sempre più credibile il suo racconto, ma avvertito da' Giudici che era caduto in qualche contradizione e che badasse di non dire bugie, cominciò lui a turbarsi veramente e ad esclamare "misericordia Signore, per l'amor di Dio, che questa cosa hà un anno che è passata che non mene ricordo;... io non son dottore, facilmente si può pigliare et errare una parola, habbiatimi compassione Signore". Infine dichiarò di non avere udito egli stesso, né da altri all'infuori del Soldaniero, cose contrarie alla fede provenienti da fra Dionisio e dal Pizzoni; (evidentemente Valerio Bruno si era messo anche questa volta d'accordo col Soldaniero, per appoggiarne le deposizioni).

Vennero in sèguito da Calabria fra Gio. Battista da Placanica e fra Francesco Merlino, e il 30 agosto e il 2 7bre, quando già il processo ripetitivo faceva il suo corso, e furono sottoposti al primo esame e all'esame ripetitivo nel solito convento di S. Luigi presso Palazzo: venne egualmente fra Vincenzo di Lungro Lettore di Soriano, e poco dopo, il 7 7bre, fu egli pure esaminato nel medesimo convento innanzi all'intero tribunale(191). I due primi riuscirono di speciale interesse circa la persona del Campanella, l'altro circa la persona di fra Dionisio e i fatti di costui in Soriano. Fra Gio. Battista di Placanica disse di stare "di mal cervello, ciò e, di mal memoria", e si riferì costantemente all'esame già fatto dieci mesi innanzi in Squillace; fu interrogato su' concetti che il Campanella aveva espressi intorno all'immortalità dell'anima, alla fornicazione, alla scomunica, alle cerimonie de' turchi, alle religioni claustrali, e in genere non se ne seppe più di quanto se n'era saputo prima; può dirsi che fu esplicito solamente nell'attestare che il Campanella parlava della fornicazione in modo da sembrare che quasi dicesse non esser peccato, ed oltracciò nell'attestare che non potè avere né dal Vescovo di Squillace né dal P.e Provinciale la licenza di confessare e predicare in Monasterace. Nell'esame ripetitivo in sostanza disse di aver conosciuto il Campanella quando esso era novizio in Placanica, non aver mai udito direttamente da lui cose di eresie, aver solamente udito da lui dire "che inferno, che inferno" nel parlare a' suoi discepoli e segnatamente a Fulvio Vua e Giulio Contestabile, come pure che gli atti carnali non erano peccati tanto grandi quanto si ritenevano, poichè "Dio havea fatto il membro genitale..." per usarne. - Fra Francesco Merlino, nel primo esame, riferendosi lui pure all'esame sostenuto in Calabria, disse di avere solamente udito dire che il Campanella negava i miracoli fatti da Mosè, che avea mangiato più volte carne in giorni proibiti e segnatamente una porchetta insieme co' banditi in Pizzoni, che teneva con sè il demonio, e per arte diabolica conosceva tutto quello che sapeva; disse pure, a proposito del disprezzo della scomunica, che egli si trovava studente in S. Domenico di Napoli, quando il Campanella dimorava pure in questa città presso Mario del Tufo, e che venuto un giorno in S. Domenico il Campanella fu preso e tradotto nelle carceri del Nunzio, essendosi allora dato per motivo della carcerazione che aveva spiriti, ma essendosi poi saputo che ci erano altri motivi, e in ispecie che parlando della scomunica per coloro i quali estraevano libri dalla libreria avea detto, "come è questa scomunica, che, si mangia"? Nell'esame ripetitivo poi dichiarò, che avea cominciato a conoscere di vista il Campanella nel convento di Placanica, di cui esso Campanella era figlio, che in sèguito l'avea conosciuto in Napoli, quindi di nuovo l'avea visto in Calabria, essendosi più volte visitati, che non sapeva che avesse detto eresie, che altri aveano palesate più cose contro la fede da lui dette o fatte, le quali egli si diè a ripetere; che in Stilo passava per uomo onesto, che si era detto essere partito dalla Calabria coll'ebreo Abramo, ed avere la sua scienza per arte diabolica, ma egli non credeva questo, avendo conosciuto "che hà bello ingegno et hà studiato assai". Inoltre che si era detto "che esso si voleva fare nominare il Messia della verità", ma di questa, come di altre cose, si parlò dopo la carcerazione, e più di una volta fece notare tale circostanza, dicendo, "molte cose sono state dette subito che questi fratri furono presi, et non so come uscessero", (ben si vede che in fondo il Campanella non riusciva aggravato di troppo da tali deposizioni). - Quanto a fra Vincenzo, Lettore di Soriano, egli narrò la venuta di fra Dionisio e del Pizzoni in Soriano con lievissime differenze dal modo in cui l'avea narrata il Priore fra Giuseppe: soltanto aggiunse di più, che quando fra Dionisio andò momentaneamente ad Arena per condurre il Campanella a Soriano, il Campanella non volle venirvi; inoltre che veramente, 4 o 5 giorni dopo la dipartita di fra Dionisio, il Soldaniero gli disse che fra Dionisio era venuto a trattare della ribellione contro il Re, avendo molti Signori per lui, e gli disse pure che fra Dionisio non credeva a nulla, comunicandogli il fatto del pugno dato al crocifisso e il fatto osceno contro l'ostia perpetrato da fra Dionisio medesimo, cose "approbate da fra Dionisio come cose del Campanella". Negò assolutamente che il Soldaniero avesse comunicato al Priore i detti e fatti contro la fede, se non dopo un mese o dieci giorni in circa; e per quanto i Giudici avessero insistito con le loro dimande, negò che il Soldaniero avesse mai parlato di tali cose mentre fra Dionisio era in Soriano per farlo cacciare dal convento, come pure che avesse attribuite le eresie anche al Pizzoni, dichiarando che il Soldaniero "ben diceva, che frà Thomaso Campanella, frà Dionisio Pontio, frà Gio. Battista di Pizzoni, frà Silvestro di Lauriana, frà Pietro de Stilo, et frà Dominico di Stignano erano tutto una cosa insiemi, mà non mi parlò di heresie contra frà Gio. Battista predetto". (Si sarebbe tentati di credere che il Pizzoni, per essersi stretto a fra Dionisio e al Campanella, dovea dapprima venire spietatamente involto nel medesimo destino loro, ma avendo poi fatto il suo orribile voltafaccia, questi frati di Soriano, appartenenti alla fazione del Polistina, doveano oramai proteggerlo: intanto per fra Vincenzo il Campanella riusciva egli pure imputabile delle peggiori cose contro la fede, e il Soldaniero rimaneva per entrambi que' frati scoperto).

Mentre in Napoli si facevano questi esami, in Squillace nello stesso tempo, dall'8 agosto all'8 7bre, il Vescovo esauriva la sua Informazione supplementare, la quale riguardava interamente la persona del Campanella. Mediante i diaconi selvaggi della sua Corte citò ciascun teste a comparire personalmente innanzi a lui, sotto le solite gravi pene ecclesiastiche, in brevissimi termini: ed egli medesimo nel suo Palazzo, col suo Vicario Sir Agazio Colobraro e coll'Auditore Andrea Mantegna, procedè a quasi tutti gli esami(192). - Eccone un sunto. Vespasiano Vosco dottore di Girifalco dichiarò, che dopo la carcerazione del Campanella udì nella piazza di Squillace dire pubblicamente che costui riteneva Cristo essere un semplice eremita e Maria Maddalena sua concubina. - Gio. Battista Rinaldis dottore di Guardavalle dichiarò di aver saputo dalla sua suocera Dianora Santaguida, vedova di Ottavio Carnevale, che fra Scipione Politi le aveva detto che il Campanella "per stratiare et burlare li patri cappoccini, mentre andavano in Chiesa, li dicia dove andati, ad adorare un appiccato". - Marcello Fonte di Stignano confermò di aver saputo da Geronimo padre del Campanella, che costui non volle predicare in Stilo dicendo di non voler fare l'officio di Cantimbanco. - Il Rev. Scipione Ciordo di Camini confermò di avere udito da alcune persone del suo paese che il Campanella diceva "che la buggera (la fornicazione) non era peccato". - Fabio Contestabile di Stilo confermò che gli era stato detto dal Campanella di pigliarsi spassi e piaceri quanto più poteva "che del resto è pensiero di chi è". - La Sig.ra Dianora Santaguida di S.ta Caterina (questa sola innanzi all'Auditore Mantegna espressamente inviato) dichiarò che da Luzio Paparo suo parente avea saputo di aver lui udito dire che il Campanella diceva, "non vi ca (int. non vedi che) adorano uno impiso"; dichiarò che non avea saputo questo fatto da fra Scipione Politi, poichè costui non era venuto in casa sua, ma nello studio di suo figlio, separato dalla casa sua; aggiunse che l'aveva poi comunicato a Marcello Contestabile suo nipote. - Marcello Contestabile di Guardavalle raccontò ne' seguenti termini un discorso avuto con sua zia la Sig.ra Santaguida, a tempo della persecuzione fatta da Carlo Spinelli e dall'Avvocato fiscale; essa disse, "o Marcello figlio mio, secondo si intende questo fra Thomaso che vene a S.to Nicola alli monaci è peccato non me e abrusciato, et io le disse S.ra zia che cosa passa, et la detta mi rispose dicendomi figlio mio io tremo de dirti questi paroli, et raggionandomi disse credi Marcello che uno homo da bene che sta sotto parte illoco, nominando il nome ma non mi si ricorda come lo nominò ma per quanto mi ricordo mi pare che lo chiamò mastro Jacopo, et disse che quello l'havea detto che lo detto fra thomaso solia venire in S.to Nicola monesterio de dominichini di detta terra, et illà con li monaci facia banchetti et dopo si faciano portare uno leuto et sonavano et detti monaci et altri seculari ballavano et che... (un luridume da non riportarsi)... et detta donna me lo dicia con gran modestia sugiungendo che lo detto pure li disse che lo detto fra Thomaso raggionando di Jesu Christo disse, dati credito ad uno che morio impiso, et di questa parola spaventati io et la detta mia zia dicendone Jesu Jesu Vergine maria mi levai" etc. - Jacopo Squillacioti di S.ta Caterina (il mastro Jacopo della Santaguida) negò assolutamente di aver mai saputo e detto alla Sig.ra il lurido fatto che la modesta e pia donna riferiva, e cosi pure qualche concetto eretico che il Campanella e suoi compagni avessero in qualunque modo espresso: unicamente attestò avere udito dire "che era venuto a S.to Nicola delli dominichini uno fra Thomaso, et diciano li genti di S.ta Catherina che non guardava hom' in faccia ma sempre si guardava la ungnia". - Fu questa l'Informazione supplementare di Squillace, dalla quale sicuramente non emerse nulla di nuovo, e se qualche aneddoto venne in luce, esso fu smentito sul nascere; può dirsi di più che rimase quasi sempre infruttuosa la ricerca della provenienza de' fatti in quistione, e sopratutto la ricerca delle persone presenti allorchè essi erano stati enunciati, oggetto principale dell'Informazione, per quanto dalle interrogazioni ivi registrate è lecito argomentare.



II. Possiamo ora occuparci del processo ripetitivo, per lo quale, come abbiamo fatto avvertire più sopra, la Corte fin dal 31 luglio 1600 aveva già emanati i suoi decreti. E gioverà innanzi tutto dire in che consistevano le ripetizioni, e in qual modo vi si procedeva secondo la giurisprudenza del tempo. Le ripetizioni concernevano essenzialmente i testimoni del fisco. Il Procuratore fiscale, che compariva in dati momenti senza assistere alle sedute della Corte, facendo lo spoglio degli esami raccolti compilava tanti Articoli, capi, o posizioni, esprimenti tanti fatti o detti incriminabili da' quali emergeva il delitto onde si intitolava la causa. Questi articoli egli redigeva ed esibiva per far constare chiaramente il delitto, e in ciascuno di essi poneva, offriva, e voleva e intendeva provare ciascun fatto o detto, ciò che per altro era stato ed era vero, pubblico, notorio, pubblica voce e fama, e però egli, il fiscale, protestava di non ritenersi costretto ad una prova superflua! Presentando gli articoli conditi di un simile noioso formulario, faceva istanza e chiedeva che si venisse alla ripetizione; e la Corte, veduti gli atti e l'istanza del fiscale, emanava un Decreto, col quale ordinava la consegna di una copia degli articoli all'imputato, e stabiliva un termine entro il quale l'imputato dovea formare e produrre gl'Interrogatorii da farsi a' testimoni del fisco sopra quegli articoli, ed anche dimandare un Avvocato e procuratore, dichiarando che in contrario si sarebbe proceduto alla ripetizione de' testimoni senza interrogatorii; per solito la Corte deputava pure fin d'allora, ex nunc prout ex tunc, un Avvocato e difensore di ufficio quando prevedeva che l'imputato non l'avrebbe chiesto da sè, ed infine ordinava di notificare ogni cosa all'imputato. Nello stesso giorno il Mastrodatti faceva la consegna degli articoli e la notificazione del termine con la deputazione dell'Avvocato, e ne redigeva un atto in presenza di quattro testimoni, ordinariamente carcerati e carcerieri. Quindi l'Avvocato presentava a nome dell'imputato gl'interrogatorii da rivolgersi a' testimoni contro gli articoli, e faceva istanza ed umilmente chiedeva che i testimoni prima di esaminarsi su ciascuno articolo rispondessero a quegl'interrogatorii, in contrario con riverenza protestava. Quest'interrogatorii erano preceduti rutinariamente da alcune ammonizioni che si doveano fare a ciascun testimonio, cioè, di essere obbligato a dire la pura e semplice verità, sotto pena di scomunica ed altre molte e gravi pene, di tener presente che si commetteva falsità non solo col proferire il falso ma anche col tacere il vero, e che commettendo, Dio non voglia, la falsità, era sempre tenuto a restituire la fama. E non meno rutinariamente esigevano che ciascun testimone dicesse il suo nome, cognome, padre, madre, patria, esercizio, a spese di chi vivesse, quanto possedesse, se fosse solito confessarsi e comunicarsi, e presso quale confessore e in quale chiesa e da quanto tempo l'avesse fatto, se fosse stato mai scomunicato, e da quanto tempo e per quale causa: e poi, se conoscesse l'imputato, da quanto tempo e per quale causa, se gli fosse amico o nemico e perché, se ci avesse mai conversato intrinsecamente e quale opinione ne avesse circa le cose della fede; e poi, venendo a ciascuna imputazione, se avesse udito qualche volta parlare l'imputato del tale argomento e in che senso, e con quali parole, e in qual luogo, e in qual parte di quel luogo, e con quale occasione, e in presenza di chi, e quante volte, e in quale ora, giorno, mese ed anno, e se determinatamente o d'improvviso, e se con assenso o con dissenso del testimone, e in caso di dissenso, con quali parole questo fu espresso e quali risposte ebbe etc. etc. etc. Ci rimangono saggi d'interrogatorii che costituiscono veri monumenti di fecondità in sottigliezze, e sempre allo scopo di far trovare qualche  contradizione ne' testimoni, o di stancare interroganti ed interrogati e prender tempo. Era poi anche in facoltà dell'Avvocato di aggiungere qualche speciale interrogatorio, oltre quelli calcati sugli articoli, e perfino d'indicare qualche persona speciale cui quell'interrogatorio aggiunto dovea rivolgersi: d'altra parte, è quasi superfluo il dirlo, i Giudici non mancavano quasi mai di rivolgere di tempo in tempo a ciascun testimone, oltre la detta doppia serie di dimande, qualche loro particolare dimanda d'ufficio.

In tal modo fu iniziato e condotto anche il processo ripetitivo nella causa del Campanella e socii. Procuratore fiscale fu il Reverendo Andrea Sebastiano, fiscale della Curia Arcivescovile, che trovasi nella massima parte delle scritture processuali di quel tempo, avendo poi avuto a successore nel 1603 il Rev.do Silvestro Santorello: egli diede gli articoli soltanto contro ciascuno de' tre imputati principali, il Campanella, il Pizzoni e fra Dionisio, incolpandoli tutti egualmente "de haeretica pravitate et atheismo"; ma vedremo che durante la causa svanì l'ateismo e rimase unicamente l'eretica pravità. Il tribunale emanò tre Decreti, uno per ciascuno de' tre imputati, assegnando il termine di soli 4 giorni perché si producessero gl'interrogatorii, ma veramente tollerò che questi fossero prodotti fin 16 giorni dopo, come si vede accaduto appunto pel Campanella, essendo stati gl'interrogatorii in nome suo presentati il 16 agosto. Nel Decreto relativo al Campanella si disse: "atteso che fra Tommaso Campanella simula o sembra simulare la pazzia, i Signori giudici, senza deliberar nulla sopra di ciò, perché la giustizia non patisca danno in qualche parte e per abbondanza di cautela, decretarono che ad esso fra Tommaso Campanella venga assegnato d'ufficio come si assegna per curatore ed avvocato il Rev.do Attilio Cracco"(193). Questo medesimo Cracco fu assegnato per Avvocato e difensore al Pizzoni e a fra Dionisio, nel caso in cui costoro non avessero da loro medesimi chiesto un Avvocato e procuratore. Per quanto ci consta da diverse scritture di quel tempo, il Rev.do Attilio Cracco era l'avvocato officioso quotidiano nelle cause del S.to Officio in Napoli, salvo l'assistervi o no con la debita diligenza; così nel corso di questo medesimo processo troviamo una supplica di fra Dionisio a' Giudici perché provvedessero a far andare presso di lui il Cracco che non ci andava. Da una nota confidenziale, scritta da costui a piè di un atto del processo, rilevasi che egli era compare del Mastrodatti Prezioso e certamente coll'avvocatura di officio faceva la sua carriera nella Curia: difatti in una scrittura del 23 luglio 1615, durante l'Arcivescovato del Card.l Carafa, essendo Curzio Palumbo Vicario delle Monache e Commissario delle cause di S.to Officio, troviamo il Rev.do Attilio Cracco Canonico ed Avvocato fiscale.

Ecco ora con la maggior brevità possibile i particolari degli articoli e degl'interrogatorii dati per ciascuno de' tre inquisiti, contro i quali si fece il processo ripetitivo. - Contro il Campanella furono dati dal fiscale non meno di 20 articoli, riproducendo anche tutte le scritture, atti e processi formati contro di lui(194). Co' 20 articoli, corredati delle formole sopra esposte, il Fiscale volle provare avere il Campanella detto apertamente e pubblicamente: che non c'era Dio, che la Trinità era una chimera, che Cristo non era Dio ma un pezzente, che l'ecclissi del sole a tempo della passione di Cristo non fu miracolosa né universale, che la risurrezione di Cristo non fu vera e il corpo di lui, al pari di quelli di certi legislatori, fu rubato, che Maria non rimase vergine, che nell'Eucaristia non c'era il corpo di Cristo ed essa fu istituita per semplice commemorazione, che i Sacramenti erano invenzioni di uomini ed istituiti per ragione di Stato, che i miracoli di Cristo non erano veri ed ognuno potea farne, e Mosè passò il mare profittando del flusso e riflusso e Lazzaro risuscitò per finzione, che era una stoltezza adorare il crocifisso, che non c'era purgatorio né paradiso né inferno e le anime tornavano nel nulla, che l'anima era mortale, che non c'erano i diavoli, che egli volea predicare una nuova legge migliore di quella de' Cristiani, che il peccato era tale in quanto così credevasi dagli uomini e non era peccato quello che commettevasi di nascosto, che gli atti venerei non erano peccati e la Chiesa avea fatto male a proibirli, che le Sacre Scritture erano invenzioni degli Apostoli ad oggetto d'introdurre la fede di Cristo, che era lecito cibarsi di carne in ogni tempo, che egli sapeva fare miracoli o poteva farli, che la legge de' turchi era migliore di quella de' Cristiani. Come si vede, egli presentò i fatti emersi dai varii processi, accogliendoli con tutta la larghezza possibile e così come erano stati deposti. Naturalmente anche l'Avvocato riprodusse le cose medesime per conto suo negl'interrogatorii con tutto il formulario d'uso; né aggiunse alcuna cosa di proprio per combattere le accuse, ma invocò la dottrina, bontà e religione de' Signori della Corte, notando che in simili casi conveniva che essi fossero non solo giudici ma anche patroni per indagare la verità(195).

Quanto al Pizzoni, gli articoli del fiscale contro di lui furono solamente 4, volendo provare aver lui detto, creduto ed anche tentato d'insegnare, che non c'era Dio, che non c'era Trinità, che era vano astenersi dal mangiar carne, ed in complesso tutte le eresie che si pretendevano dette dal Campanella, per lo che aveva con costui una cifra secondo la quale si scrivevano scambievolmente. E l'Avvocato si attenne alle stesse cose negl'interrogatorii, e per l'articolo in cui si affermava avere il Pizzoni professate tutte le eresie del Campanella volle che ogni testimone dicesse: se conosceva che il Pizzoni e il Campanella fossero familiari tra loro e da quali segni l'avea rilevato, se aveva mai udito costoro parlare di cose contro la fede e di quali cose, dove, e quando, e alla presenza di chi, e in modo aperto e chiaro o piuttosto oscuro, se aveva poi riferito ad altri queste cose, e a chi, e dove, e quando, e con quale occasione e a quale scopo, se infine conosceva quali fossero le opinioni del Campanella e che le esponesse etc. etc. Diede dippiù altri interrogatorii aggiunti, volendo che ogni testimone dicesse se era stato persuaso da qualche giudice a deporre contro il Pizzoni, segnatamente perché il Pizzoni avea deposto contro di lui, se sapeva che fossero state scambiate lettere tra il Pizzoni e il Campanella, e cosa esse contenessero e in quale carattere fossero scritte, se sapeva che il Campanella e fra Dionisio avessero minacciato il Pizzoni e procurate fedi testimoniali false, se sapeva che il Pizzoni fosse stato lettore e predicatore di buone dottrine cattoliche o si fosse mai detto il contrario, se infine esso testimone era stato mai inquisito, processato e condannato, e da chi, e dove e per quale causa.

Da ultimo, quanto a fra Dionisio, vi furono per parte del fiscale 17 articoli, volendo provare aver lui detto, creduto ed insegnato o tentato d'insegnare: che non c'era Dio, che la Trinità era una chimera... insomma quasi tutte le cose affermate contro il Campanella, aggiuntovi il fatto osceno in dispregio dell'ostia che sarebbe stato da esso fra Dionisio perpetrato, e con la conchiusione dopo tanto lusso di articoli, che aveva tenuto, creduto, insegnato o tentato d'insegnare tutte e ciascuna delle opinioni eretiche le quali si pretendeva aver tenute, credute e insegnate il Campanella. È superfluo dire che l'Avvocato seguì puntualmente il fiscale negl'interrogatorii; ma bisogna notare che aggiunse un'altra quantità d'interrogatorii divisa in tre gruppi, l'uno circa la persona del Pizzoni, l'altro circa la persona del Lauriana, il terzo circa la persona del Soldaniero. E col 1° volle che fosse il Pizzoni interrogato sopra più fatti: se esso Pizzoni fosse stato amico o nemico di fra Dionisio ed essendogli nemico come mai avesse fra Dionisio potuto comunicargli tanto gravi eresie, se fosse vero l'aver rubato molti scritti e prediche di fra Dionisio e l'essersene costui lagnato co' superiori, se avesse fatto fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio cercava di farlo carcerare per l'omicidio del P.e Ponzio, se fosse stato mai cacciato da qualche convento in cui fra Dionisio era Priore, se nel luglio 99 incontratosi con fra Dionisio in Stilo avesse cercato di parlargli e fra Dionisio vi si fosse rifiutato, se avesse dimorato più a lungo col Campanella ed avutane maggior conoscenza in paragone di fra Dionisio. Col 2° gruppo d'interrogatorii volle che il Lauriana dicesse: se esso Lauriana avesse cercato di vendere a fra Vincenzo Perugino certi scritti, che fra Vincenzo non volle comprare avendo conosciuto che apparteneano a fra Dionisio, se fosse stato mai suddito di fra Dionisio e da costui pubblicamente gastigato ed espulso dal convento per mala vita, se nel convento di Pizzoni ci fosse un passaggio per la cella del Vicario volendo andare alla cucina, se in Pizzoni fra Dionisio fosse stato prima o contemporaneamente al Campanella. Infine col 3° gruppo d'interrogatorii volle che il Soldaniero dicesse: se esso Soldaniero fosse andato nella camera in cui trovavasi carcerato fra Dionisio per parlargli, avendogli pure fatto visite, assistenza, spese, e prestato danaro quando fra Dionisio era infermo, allo scopo di conciliarsi con lui; inoltre se nelle carceri gli avesse rivelate le deposizioni fatte contro di lui, e divulgate alcune circostanze deposte nel suo esame.

Evidentemente gl'interrogatorii aggiunti, pel Pizzoni e per fra Dionisio, venivano da costoro medesimi suggeriti all'Avvocato con lo scopo di prepararsi il terreno alle difese. E così pel povero Campanella, che continuava a mostrarsi pazzo, non vi furono interrogatorii aggiunti, ed invece di essi vi furono le semplici raccomandazioni a' Signori Giudici.

Il 21 agosto 1600, nella seduta medesima in cui si faceva l'esame informativo di Valerio Bruno, procedevasi alle ripetizioni, cominciando da quelle contro il Campanella, che furono in breve esaurite nelle sedute successive del 22 e 23, aggiungendovisi una ripetizione supplementare il 29 agosto. Furono ripetuti il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di Stilo; la ripetizione del Petrolo ebbe bisogno di un supplimento, per chiarire alcuni punti su' quali non parve di avere avute risposte da poter contentare(196). Ad ognuno di costoro si lesse dapprima, con le debite ammonizioni, ogni singolo interrogatorio, di poi ogni singolo articolo "della parte avversa", a meno che la persona del testimone non vi fosse del tutto estranea, aggiuntavi pure qua e là qualche dimanda ex officio; e però nel processo si trovano inserti prima gl'interrogatorii con le ammonizioni e poi gli articoli, secondo l'ordine col quale doveano rivolgersi al testimone per averne le risposte. I lettori intenderanno che noi non potremmo in alcun modo riferire tutta la serie di queste risposte, le quali veramente dànno una quantità notevole di notizie, onde simili atti processuali riescono sempre di una grande importanza: moltissime notizie, da essi rilevate, hanno servito di base alla nostra narrazione degli antecedenti del Campanella, della congiura ed anche de' primi atti del processo; qui terremo conto essenzialmente delle cose che riflettono i punti più cospicui della causa.

Il Soldaniero (21 agosto) dovè dichiarare che era stato una volta scomunicato "per havere preso alcuni ribelli in chiesa" senza dire se fosse stato assoluto; e vedremo che pure di questo fatto si servì poi fra Dionisio per infermare la validità della sua testimonianza. Del rimanente continuò a dire che non aveva mai conosciuto il Campanella, non aveva mai ricevuta da lui alcuna lettera, e ne aveva avuta relazione solo da fra Dionisio, dal Pizzoni e da fra Pietro di Stilo, il quale ultimo non gli disse nulla del Campanella contro la fede, mentre i due primi gli dissero che il Campanella era uomo d'importanza, poteva fare miracoli, poteva risuscitar morti (null'altro che questo). Continuò a dire che mandò il Priore di Soriano a rivelare ogni cosa al Visitatore, e dichiarò di non avere avuta niuna promessa per deporre nel modo in cui depose. Naturalmente, non avendo mai conosciuto il Campanella, non potè attestare niuna delle cose affermate ne' 20 articoli del fiscale. - Il Pizzoni (22 agosto) ripetè le solite cose. Aveva conosciuto il Campanella da lungo tempo, ma solo quella volta che lo vide in luglio, lo udì parlare di eresie. Accennò (abbastanza goffamente) alle argomentazioni con le quali si era sforzato di ribattere le eresie che il Campanella aveva proferite, ed alla lettera che scrisse al P.e Generale, con l'opera del Lauriana, per informarlo di tutto; aggiunse che non potè fare altra dimostrazione contro di lui, perché egli era accompagnato da tre o quattro banditi, come il Caccìa e Marcantonio Contestabile; (sempre senza riguardo alcuno verso il Campanella e solo intento a salvare sè medesimo con la menzogna). Confermò che al suo esame innanzi a fra Cornelio era presente D. Carlo Ruffo, che quell'esame conteneva molti errori e non gli era stato letto come era stato scritto. Sopra ciascuna eresia, che avrebbe udita dal Campanella, molto spesso si riportò agli esami fatti, non ricordandosi bene (circostanza da notarsi), ed infine aggiunse che quando parlava degli esami fatti, intendeva parlare di quelli fatti in Napoli, perché in quelli fatti in Calabria ci erano "mille errori del scrittore". - Il Lauriana (nella seduta medesima) disse che conosceva il Campanella da due anni, e pel rimanente non fece che risponder sempre, "vedete al mio esamine che sarà llà... non mi posso ricordare... vedete llà all'esamine". Aggiunse infine, "queste cose le mantenerò in faccia à fra Dionisio et à fra Thomaso"; ed allora i Giudici gli fecero l'obiezione naturalissima, "come potrà sostenere quelle cose che dice di non sapere e non ricordare"; ed egli, "io lo sostenerò perché essi l'hanno detto"; e i Giudici, "quali sono queste cose che i predetti dissero"; ed egli, "stanno scritte all'esamine, vedetelo llà"; e i Giudici, "dica le cose che si contengono in detto esame"; ed egli, "io non me ne ricordo"! Confermò del pari che a Monteleone D. Carlo Ruffo fu presente all'esame; e poi, venendo agli articoli, sul primo, cioè che il Campanella aveva detto non esservi Dio, rispose, "vedete l'esamine che mi pare che lo dica, et esso havea un libro in mano, che trattava de Deo, et si chiama Plinio"; su tutti gli altri rispose che non se ne ricordava, appellandosi continuamente al suo esame. - Il Petrolo (23 agosto) disse di avere conosciuto il Campanella prima che fosse frate, "che esso era prevetello", e poi negli ultimi due anni. Quindi, molto diffusamente, citando una quantità di circostanze, confermò ciascuna delle cose che avea deposte contro di lui. Narrò le pressioni sofferte la prima volta da parte di fra Cornelio per farlo deporre, la lettura fattagli privatamente dell'esame del Pizzoni per avere da lui le deposizioni medesime; e poi la presenza di D. Carlo Ruffo, del Capitano di campagna e di molti birri, nell'esame di Gerace, le pressioni ivi sofferte da parte di fra Cornelio per fargli sottoscrivere un esame che conteneva più di quello che aveva detto, l'andata alla stanza della tortura con lo Sciarava, le violenze di costui che prendendolo pel petto l'obbligò a sottoscrivere; onde si rimise all'esame fatto in Napoli "perché quello di Calabria non fu scritto come egli diceva". Intanto venne ripetendo le eresie che il Campanella gli aveva espresse in discorsi confidenziali, negando quelle non deposte da lui e taluna malamente scritta in Calabria, come pure le diverse esagerazioni accumulate su quelle da lui deposte (che il fiscale aveva tratte dalle deposizioni del Caccìa, del Pisano etc.). - Fra Pietro di Stilo (nella seduta medesima) dicendo che si era confessato al P.e Gonzales, aggiunse che costui faceva a tutti belle esortazioni, ed andava spesse volte dal Campanella e gli faceva "brutte riprensioni". Narrò la sua conoscenza col Campanella "da che era figliolo", accennando anche ad un progetto di matrimonio tra un fratello suo ed una sorella del Campanella, che poi non si concluse "per questi romori". Confermò di non aver mai udito il Campanella parlare contro la fede, e di averlo solamente dovuto rimproverare come superiore del convento, ammonendolo che non praticasse tanto con secolari. Espose assai minutamente le circostanze verificatesi nel suo primo esame in Squillace, ricordando le dimande fattegli e le risposte date, e il non essersi voluto scrivere il processo verbale, e l'essere stato minacciato di consegna alla Corte Regia da parte del Visitatore e più ancora di fra Cornelio, presenti i birri della Corte; poi le cose medesime verificatesi in Gerace, presenti il Capitano di campagna e i suoi soldati, e l'avergli fra Cornelio mostrati certi ferri co' quali voleva fargli stringere il petto, e d'altra banda l'avergli promesso libertà se dicesse di avere udito eresie dal Campanella, aggiungendo che fra Cornelio aveva preso molti danari da' conventi ed altre robe da' particolari per fornirne gl'inquisiti, e intanto nessuno avea ricevuto nulla. Intorno alla Trinità, a' Sacramenti ed in ispecie all'Eucaristia, e così pure intorno alle Sacre Scritture, non solo negò che il Campanella ne avesse parlato male, ma attestò che alle volte disputando con dottori e con Cappuccini, alle volte predicando in Chiesa, ne aveva parlato sempre bene; del resto egli disse, "io non mi intendo di queste cose perché son ignorante". Intorno all'ecclissi avvenuta a tempo della morte di Cristo rispose, "sò che il Campanella parlava di stelle, de lune, di clisse, è di terremoti et di tutte le scientie del mondo, è mi parevano cose curiose, è buone, mà dela oscuratione fatta à tempo dela morte di christo non ne sò niente": intorno a' miracoli poi, pur negando che il Campanella avesse parlato de' miracoli di Cristo come era stato malamente scritto in Gerace, ammise che una volta, mentre il Campanella diceva che le opere sue si potevano comprovare con miracoli, avendo taluno, che forse era il Prestinace, argomentato in materia di miracoli, il Campanella mostrò di sprezzare quegli argomenti ed accennò ad una certa "elevatione di mente". Passando agli articoli, fin dal 1° disse, "poi che il fiscale dice questo, et è comprobato dalla Santa Chiesa che il Campanella è tenuto per uno heretico, vi dico che per l'avenire lo voglio tenere anchora io per heretico, ma però di queste cose contenute in questo articolo non ne sò niente"; ed egualmente per tutti gli altri articoli disse non saperne niente. - Infine il Petrolo (29 agosto) fu esaminato di nuovo, per dare chiarimenti intorno ad alcune cose che aveva ammesso per dette dal Campanella ovvero enunciate in modo confuso, e segnatamente intorno alle superstizioni che c'erano nell'Eucaristia, intorno all'ecclissi a tempo della morte di Cristo, intorno all'essere stato il sacramento dell'Eucaristia istituito per ragione di Stato. Ed egli, negando quest'ultima proposizione, che disse di non intendere ed attribuì totalmente a fra Cornelio, negando che il Campanella avesse mai parlato di quella tale ecclissi ed ammettendo invece che avea detto essere il sole calato alcune miglia, dichiarò di non ricordarsi delle superstizioni che c'erano nell'Eucaristia. Ed aggiunse: "per l'amore di Dio, le Signorie Vostre non habbiano tanto riguardo alle cose fatte in Calabria, perché le cose furono fatte tanto imbrogliate, è sotto sopra che non si potria dire"; e ricordò avere un prete di Gerace detto che loro frati si cavavano gli occhi l'un l'altro, ed essere stati dal Mesuraca dati 100 scudi a fra Cornelio perché processasse mortalmente il Campanella ed egli potesse così guadagnarsi il taglione dalla Corte Regia, narrando di nuovo tutte le circostanze della fuga e cattura sua insieme col Campanella per opera del Mesuraca.

Se ci facciamo a valutare i risultamenti delle ripetizioni contro il Campanella, troviamo le seguenti cose. Riuscirono: assai meno gravi e quasi insignificanti le testimonianze del Soldaniero, già prima poggiate essenzialmente sopra vaghi detti e congetture; abbastanza chiaramente false le deposizioni del Lauriana, già dettate da suggestioni ed ingrossate per bestiale scempiaggine; pur sempre molto gravi e compromettenti le testimonianze del Pizzoni, già date senza dubbio per doppiezza e speranza d'impunità; non meno gravi, comunque attenuate di molto, le testimonianze del Petrolo, già rese per eccessiva timidezza piuttosto che per malvagità; sempre più favorevoli e giustificative da ogni lato le testimonianze di fra Pietro di Stilo, già prima niente affatto lievi per avveduto apprezzamento de' tempi, de' luoghi e delle circostanze. Riuscirono poi unanimi le dichiarazioni di mala condotta de' primi processanti da parte dei frati d'ogni colore, ma se esse giungevano ad infondere gravi dubbî sulla legittimità del processo fondamentale di Calabria, non potevano giungere a scuotere la convinzione che molte eresie aveano dovuto essere manifestate dal Campanella almeno ne' discorsi confidenziali, poichè, mentre p. es. il Pizzoni diceva che "mille errori del scrittore" erano corsi nel suo esame, e il Petrolo diceva che "le cose furono fatte sotto sopra", in fondo entrambi confermavano in tutto o in gran parte le loro testimonianze precedenti.

Ecco ora i particolari degli esami ripetitivi contro il Pizzoni. Essi si fecero immediatamente dopo quelli del Campanella ed occuparono due sedute, il 23 e 24 agosto: furono ripetuti, il Soldaniero (in due volte), il Lauriana, Valerio Bruno e il Petrolo. - Il Soldaniero disse di avere già conosciuto il Pizzoni qualche tempo prima che confermasse le eresie di fra Dionisio, perché veniva spesso in Soriano; che quando vi venne con fra Dionisio, in due giorni successivi confermò le eresie che costui diceva, cioè che il Sacramento dell'altare non era vero, che egli se n'era servito per un uso osceno, e che i sette peccati (sic) erano stati fatti per ragion di Stato, rimettendosi in tutto il resto all'esame primitivo giacchè non se ne ricordava. Persistè nell'asserire che ne avvertì il Priore ed il Lettore fin dal 1° giorno, e poi, nel 2° giorno, procurò che que' frati fossero cacciati dal convento, affermando che il Pizzoni avea detto potersi sempre mangiar carne, ed avea lodato il Campanella e le sue opinioni eretiche, ond'egli congetturò che tutti e tre que' frati si avessero comunicate le eresie tra loro. Inoltre confermò di aver narrato il fatto a fra Domenico e poi a fra Gio. Battista di Polistina, e dietro dimanda d'ufficio, attestò che credeva costoro uomini da bene; disse di non conoscere lettere scambiate tra il Pizzoni e il Campanella, e infine dovè dichiarare di essere stato processato, secondo lui falsamente, per l'omicidio di due fratelli Soldaniero parenti suoi. Quanto alle cose contenute negli articoli del fiscale, disse che non si ricordava se il Pizzoni avesse o no parlato dell'esistenza di Dio e della Trinità, che avea parlato del potersi mangiar carne ogni giorno, e che egli riteneva avergli discorso di eresie in que' due giorni per insegnargliele! - Il Lauriana disse di aver conosciuto il Pizzoni da oltre sei anni, non averlo mai visto fare o dire qualche cosa contro la fede, e solo averlo udito dire, a proposito di un libro del Campanella, che alcune delle cose scritte in quel libro gli parevano buone ed altre no, mentre esso Lauriana non le riteneva buone, perché erano contro S. Tommaso, non già contro la fede. Confermò che in Pizzoni il Campanella e il Pizzoni stettero insieme sette giorni, e che quando il Campanella parlò di eresie era presente anche fra Dionisio. Disse di non sapere che il Pizzoni avesse professate le eresie del Campanella, di sapere che costoro si scrivevano ma di non averne mai visto i caratteri, infine di non essere a sua notizia che alcuno avesse minacciato il Pizzoni e procurato fedi false contro di lui. Quanto alla materia degli articoli del fiscale, sopra ognuno di questi rispose o di non averne udito nulla o di non ricordarne nulla. - Valerio Bruno disse di aver conosciuto il Pizzoni in Soriano, ma non avergli mai parlato; di aver udito dal Soldaniero, quando lo fece cacciare dal convento insieme con fra Dionisio, che avea detto mille cose contro la fede, ma non avere saputo nulla di particolare. Non avea saputo nemmeno che avesse detto potersi mangiar carne ogni giorno. Così non potè dare alcuna notizia precisa, e su ciascuno articolo rispose non saperne nulla. - Finalmente il Petrolo disse di aver conosciuto il Pizzoni da due anni, ma non aver mai trattato con lui, di sapere che il Campanella era stato in Pizzoni e che gli era amico, onde si visitavano l'un l'altro; di non potere dir nulla delle opinioni di lui non avendolo trattato. Confermò che alla Roccella, un giorno o due prima della cattura, avea visto lettere venute al Campanella e scritte in cifra, che il Campanella gli disse provenienti dal Pizzoni e da non potersi intendere che tra loro due; dietro dimande d'ufficio, disse dapprima che la lettera in cifra non avea sottoscrizione, di poi che non sapeva se avesse sottoscrizione e che egli non la lesse né poteva leggerla; (si ricordi che di questa cifra esisteva in processo la sola sottoscrizione del Pizzoni e del Campanella, vergate di mano di fra Cornelio). E in somma non potè dare la benchè menoma notizia delle cose che s'imputavano al Pizzoni, e fu negativo in tutto, dicendo che avea solo congetturato che il Pizzoni e il Campanella fossero amici intrinseci, perché si scrivevano in cifra tra di loro.

Come si vede, le prove testimoniali contro il Pizzoni si andavano attenuando in un modo sensibile. Il Petrolo e Valerio Bruno non attestavano quasi nulla, mentre il fatto della cifra, deposto e conformato dal Petrolo, poteva riguardare la congiura, non l'eresia, e quel tanto che in genere deponeva Valerio Bruno si fondeva nella deposizione del Soldaniero. Il Lauriana disimpegnavasi straordinariamente bene, con ogni probabilità guidato dallo stesso Pizzoni attenuando le cose già deposte. Il Soldaniero medesimo attestava meno del solito, e d'altronde, continuando a sostenere che il Pizzoni era stato presente in due giorni a' colloquii di fra Dionisio con lui e che egli era ricorso al Priore e al Lettore contro quei frati, cose, specialmente in riguardo al Pizzoni, già ben provate false, non poteva punto conciliarsi la fede de' Giudici. E si può dire che il peggior testimone rimasto a carico del Pizzoni era il Pizzoni medesimo, che con le sue tante rivelazioni contro il Campanella, e col fatto, già ben provato falso, dell'essere ricorso contro costui al P.e Generale e al P.e Visitatore, infondeva grave sospetto che veramente avesse trattato di eresie col Campanella, egli che n'era stato uno degli amici più intimi ed operosi; di tal che la furberia e doppiezza che gli erano naturali, eccitate dalle pressioni inique di fra Cornelio, mentre tanto nocquero al Campanella, nocquero non meno a lui medesimo.

Ci rimane a dire degli esami ripetitivi contro fra Dionisio. Essi si fecero il 26, 28 e 29 agosto, aggiungendovisi anche una ripetizione supplementare nell'ultima seduta. Furono esaminati il Bruno, il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo. - Valerio Bruno (26 agosto) disse di conoscere fra Dionisio da un anno, di non avere mai parlato con lui, e di crederlo un uomo dabbene e buon cristiano (singolare credenza mentre andava di nuovo a farlo dichiarare eretico). Attestò di avere solamente udito dal Soldaniero che avea detto "alcune cose contra Dio.... non so che per raggione di Stato, e contra li sette peccati mortali"; inoltre, nel corso degl'interrogatorii, disse di avere anche udito dal medesimo Soldaniero, quando due volte ricorse al Priore e al Lettore contro di lui e del Pizzoni, che avea parlato della Trinità, dell'abuso osceno dell'ostia, del disegno di predicare una nuova legge; per altro dichiarò pure che in que' giorni avea predicato in Soriano, "et li gentilhomini dicevano che predicava buono, mà io non sò quel che si dicesse, mà mi pareva che parlasse de le cose di missere Domine dio, è che parlasse bene". Aggiunse di aver veduto discorrere tra loro alla tavola fra Dionisio e il Soldaniero, ma discorrevano piano, e non sapeva quel che dicessero, né sapeva "che tra di loro venessero a parole"; di poi dichiarò che fra Dionisio non avea mangiato carne, e avea detto al Soldaniero "Signore, cammarati, perché non è peccato mangiare caso, ova, e latticini, e niente più occorse" (chiare contradizioni con le deposizioni precedenti). Dimandato d'ufficio se avesse veduto in Napoli il Soldaniero da che trovavasi in carcere, rispose di averlo veduto due volte e di averne solamente avuto conforto, con dire che stesse allegramente, e di averlo poi veduto anche dopo di essere stato esaminato ma senza parlargli. Infine, venendo agli articoli del fiscale, riaffermò le cose dette negl'interrogatorii, e di nuovo attestò di non sapere che fra Dionisio avesse detto esser lecito il mangiare carne ogni giorno indifferentemente. - Il Soldaniero (nella stessa seduta) confermò di aver veduto a Soriano per la prima volta in giugnetto, cioè in luglio, fra Dionisio che gli "fece de basciamano" e rimase a Soriano due giorni, aggiungendo di non averlo mai più veduto in sèguito se non carcerato, a Gerace, a Monteleone, sulle galere, e poi in Napoli, dove trovandosi lui ammalato a letto, esso Soldaniero lo avea guardato dalla porta, senza entrare nella camera. E ripetè ciascuno de' detti e fatti di fra Dionisio contro la fede, presente ed accettante il Pizzoni (poichè ciascuno interrogatorio gli dava modo di ricordarsene), e disse che que' frati aveano definito "impressioni di testa" i voti e le divozioni, come pure i miracoli, che aveano detto essere stati istituiti i Sacramenti dalla Chiesa "ad trahendum ad se"; del resto, nel ripetere ciascuno de' capi da lui deposti, per maggior cautela si riferì sempre al primo esame, dicendo anche una volta, "non esca da queste carceri se quanto ho detto nel mio esamine non è vero". E confermò di averne avvertito il Priore ed il Lettore, ma dovè non di meno attestare che fra Dionisio, ad istanza di un Rutilio di Pucci, predicò, e a lui parve che predicasse dottrine cattoliche (non era stato dunque cacciato a sua istanza dal convento). Non mancarono poi i Giudici di rivolgergli gl'interrogatorii dati espressamente per lui, se cioè avesse visitato, assistito, cibato con le mani sue e fornito di danaro a prestito fra Dionisio, mentre costui trovavasi infermo, per riconciliarsi con lui: il Soldaniero rispose negativamente su tutto. Infine, su ciascuno articolo, non occorre dire che ripetè quanto negl'interrogatorii avea dichiarato. - Il Pizzoni (28 agosto) disse di aver conosciuto fra Dionisio fin da che era studente del Fiorentino, e di essere poi stato suddito di lui nel convento di Nicastro: aggiunse che gli era divenuto nemico da che esso Pizzoni ne avea riconosciute le eresie, onde ne avea avute mille minacce. Confermò quindi avergli fra Dionisio in Pizzoni manifestate quelle medesime eresie, che tre o quattro giorni dopo anche il Campanella gli manifestò, e che esso Pizzoni poi espose al Visitatore e scrisse al Generale, servendosi del Lauriana, il quale così venne egli pure ad averne notizia. Addusse taluni degli argomenti co' quali combattè fra Dionisio, affermando che per quelle così dette verità, mentre erano eresie, non si poteva dir savio il Campanella, dal quale fra Dionisio le faceva derivare; narrò come costui finì per dargli dell'asino, ed egli lo scacciò dal convento, ricordando una quantità di circostanze, di tempo, di luogo, d'occasione (che poteva bene citare a modo suo poichè non c'era stato presente alcun altro). Venne così confermando ciascun capo di accusa a misura che gl'interrogatorii li riducevano alla sua memoria; e sugl'interrogatorii dati espressamente per lui rispose, che veramente fra Dionisio aveva persi alcuni scritti sull'Apocalisse e gliene aveva chiesto conto, mentre egli non ne sapeva niente, che non aveva fatto fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio cercava di farlo carcerare, che costui mentiva quando diceva essere lui stato espulso da un convento per delitti e furti, che nel luglio 99 erano andati insieme ad Arena e quindi avevano di necessità dovuto conversare tra loro, che in Stilo fra Dionisio e il Campanella aveano perfino dormito insieme e quindi erano intrinseci amici. Sugli articoli del fiscale si riferì a quanto avea detto sugl'interrogatorii, talvolta anche a quanto avea detto negli esami precedenti, ripudiando ciò che non aveva udito o visto (come p. es. il fatto del pugno dato al crocifisso(197), del quale veramente avea parlato il Soldaniero) e tornando a ripetere che l'esame di Calabria era stato falsificato dal Visitatore e da fra Cornelio, i quali aveano preso anche danari dal Pisano e dal Caccìa e gli aveano fatti rimanere ingannati, come costoro dicevano in Monteleone alla presenza di molti frati e secolari mentre stavano tutti in una carcere. Conchiuse col dire che egli aveva inteso di sgravare la sua coscienza, e non di gravare quella degli altri indebitamente. - Il Lauriana (nella seduta medesima) disse di aver conosciuto fra Dionisio da quattro anni, perché era stato suddito di lui in Nicastro, e di esserne rimasto in Pizzoni scandalizzato per una proposizione da lui detta contro l'Eucaristia; ma ostinatamente disse di non ricordarsi di tale proposizione, e se ne riferì al primo esame, come fece anche per tutta la serie degl'interrogatorii senza che i Giudici avessero mai potuto cavarne alcuna spiegazione. Dietro dimanda d'ufficio, disse che il Pizzoni gli aveva fatto scrivere al P.e Generale una lettera in cui gli pareva "più presto de sì che altramente" che si fosse fatta menzione di fra Dionisio, parlandosi di ribellione e di cose di S.to Officio. Sugl'interrogatorii speciali per lui, disse che il Pizzoni lo aveva una volta mandato a vendere per sei ducati un libro di prediche a fra Vincenzo Perugino, il quale non lo volle, ed egli non ricordava che fra Vincenzo avesse detto che erano prediche di fra Dionisio; che egli aveva una volta avuto penitenze da fra Dionisio; che nel convento di Pizzoni, per salire alla cucina, si doveva passare per la cella del Vicario; sul resto si riferì al primo esame. Finalmente sugli articoli del fiscale si riferì del pari al primo esame, poichè non ricordava alcuna cosa.

Continuarono il 29 agosto gli esami ripetitivi contro fra Dionisio. - E dapprima il Petrolo disse di avere, fin da quando era novizio, conosciuto fra Dionisio, ed averlo poi veduto due volte in Stilo di passaggio, oltrechè in Stignano, l'ottava del Corpo di Cristo, quando fece una predica sul SS.mo Sacramento che non si poteva sentire più bella "et tutti la laudorno" (la predica egli menzionava, il pranzo in casa Grillo no). Disse di non aver mai udito eresie dalla bocca di lui, ma solamente udito da fra Pietro di Stilo che egli, fra Dionisio, aveva dette al Lauriana alcune parole contro il SS.mo Sacramento, oltrechè aveva commesso qualche peccato di carne della peggiore specie. Rispose quindi su tutti gli interrogatorii negativamente: e dietro dimande d'ufficio disse che fra Dionisio era veramente amico del Campanella, ma egli non sapeva che il Campanella gli avesse comunicato eresie, né aveva mai detto che il Campanella discorresse di eresie alla scoperta, mentre invece ne discorreva in modo che solamente qualcuno poteva intenderle. Sugli articoli del fiscale rispose del pari negativamente. - Fra Pietro di Stilo disse di aver conosciuto fra Dionisio ed averlo veduto tre volte in Calabria, due volte in Stilo ed una volta in Briatico quando andava contro fra Gio. Battista di Polistina; e dichiarò di averlo ritenuto sempre un ciarliero e vendicativo, ma non cattivo nelle cose di fede. Dimandato di ufficio se avesse almeno udito dire qualche cosa contro di lui in materia di fede, rispose che una volta il Lauriana gli cominciò a dire qualche cosa contro di lui, "ma non finì"; ed avvertito di non dir bugie, rispose che non aveva potuto comprenderlo (oramai fra Pietro era in vena di difender tutti, anche tirandola un po' troppo). Insomma non ebbe nulla a dire contro fra Dionisio, eccetto che era "scaccione, ciò e chiacchiarone", e riuscì negativo su tutti gl'interrogatorii e così pure sugli articoli: segnatamente sull'ultimo articolo, che diceva avere fra Dionisio creduto, insegnato o cercato d'insegnare tutte le opinioni eretiche del Campanella, egli rispose di non aver mai udito dire tali cose contro la fede da niuno di loro. Ed aggiunse, spontaneamente, che stando in Pizzoni ed avendo udito frati e secolari sparlare di fra Dionisio pe' suoi discorsi di cose lascive, avendogli anzi Claudio Crispo detto che pure nel discorrere la prima volta col Soldaniero si era comportato egualmente e costui n'era rimasto scandalizzato, egli nel passare per Soriano andando ad Arena, poichè il Soldaniero l'interrogò circa il Campanella e gli disse che fra Dionisio era un cervellino, lo pregò di tacere quanto fra Dionisio gli aveva detto, essendo nella natura di lui il ciarlare con tutti, ed intese di alludere a' discorsi di cose lascive; (così volle sopprimere la circostanza dell'aver lui portato una lettera del Campanella al Soldaniero, e veramente la tirò un po' troppo). - Da ultimo il Soldaniero, e successivamente Valerio Bruno, vennero entrambi interrogati in via supplementare sul fatto dell'espulsione di fra Dionisio e del Pizzoni dal convento di Soriano per parte del Priore e del Lettore. Il Soldaniero confermò che nel secondo giorno in cui que' frati gli aveano parlato di eresie, il Priore, dietro il suo reclamo, li cacciò entrambi, e poi gli disse, "che ti pare, non te l'ho fatti sfrattare?" ed egli rispose, "havete fatto bene". Valerio Bruno confermò egli pure che que' frati furono cacciati nel secondo giorno in cui il Soldaniero avea parlato al Priore ed al Lettore, ed aggiunse che gli aveva veduti partire; (ma oltrechè il Priore e il Lettore lo negavano, era stato pure da entrambi questi testimoni affermato che fra Dionisio aveva fatta una predica in Soriano, e ciò non si accordava coll'espulsione).

Evidentemente anche per fra Dionisio le prove testimoniali riuscivano sempre meno gravi in questi esami ripetitivi. Fra Pietro di Stilo deponeva a favore di lui, e il Petrolo non l'accusava menomamente. L'accusava bensì il Lauriana, ma costui, che non sapeva più dar conto di nulla, era stato già dichiarato testimone falso dal Pizzoni medesimo che ne aveva diretto i passi. Non rimanevano dunque contro fra Dionisio che il Pizzoni e Giulio Soldaniero con Valerio Bruno: tuttavia il Pizzoni si andava scovrendo di una morale assai disputabile, ed intento solo ad accusare gli altri per iscusare sè medesimo; il Soldaniero poi non poteva riuscire ad accreditarsi, mentre sosteneva essergli state fatte tante confidenze in materia di eresie durante una prima visita di fra Dionisio (bisognava conoscere a fondo il modo di agire di costui per ammetterlo), ed oltracciò confessava di aver prima confabulato co' Polistina nemici capitali di fra Dionisio, continuava a deporre fatti indubitatamente falsi come l'espulsione di fra Dionisio e del Pizzoni dal convento, e mostrava abbastanza chiaramente di avere indettato il suo fido Valerio Bruno (come il Pizzoni avea fatto col Lauriana) e spintolo a deporre ciò che ad esso Valerio non constava, per far risultare più credibili le proprie deposizioni. né occorre dire che la condotta iniqua de' primi processanti, entrambi devoti alla fazione de' Polistina, accertata anche dal Pizzoni testimone del maggior peso contro fra Dionisio, faceva apparire per lo meno esagerata la colpabilità di costui e di tutti gli altri inquisiti.

Siffatti apprezzamenti, che sorgono spontanei nell'animo di chiunque sia fornito di una dose anche discreta di equanimità, non potevano non sorgere nell'animo del Vescovo di Termoli, che al rigore di un vecchio Commissario del S.to Officio sapeva accoppiare un senso squisitissimo di giustizia. E ci è rimasto di lui un documento che lo dimostra abbastanza bene, rivelandoci ciò che l'agitava a questo periodo della causa: poichè precisamente alla fine del volume che comprende il processo offensivo e ripetitivo, in uno de' folii esuberanti rimasti in bianco, troviamo un quadro di note ed appunti che egli redigeva intorno alla colpabilità di ciascuno inquisito, note ed appunti incompleti e in qualche tratto vergati con parole tanto abbreviate da rendersi poco intelligibili, ma in somma esprimenti le diverse contradizioni, inverosimiglianze, falsità, ed accuse rimaste infondate, che emergevano dalle deposizioni raccolte. I lettori troveranno questo quadro tra' Documenti(198): d'altronde vedremo in sèguito, dopo il processo difensivo, ciò che il Vescovo scriveva a Roma intorno alla causa, e il concetto che in ultima analisi se n'era formato.

Non appena esaurite le ripetizioni, nello stesso giorno 29 agosto 1600 i Giudici deliberarono di devenire alla spedizione della causa e al processo difensivo: pertanto disposero che fosse subito inviato al S.to Officio di Roma una copia del processo tanto informativo che ripetitivo; e sappiamo che l'8 settembre questa copia fu mandata al Nunzio dal Vescovo di Termoli insieme con una sua lettera, e che nella stessa data il Nunzio la trasmise al Card.l di S.ta Severina, accompagnandola con un'altra lettera sua, in cui partecipava le sollecitazioni che spesso riceveva da' ministri Regii desiderosi di potere spedire la causa della ribellione(199). Diremo ora anche qui, innanzi tutto, in che modo si procedeva nelle difese. Un decreto fermava che ciascuno inquisito avesse una copia del processo (copia repertorum), ma senza nome e cognome di coloro i quali aveano deposto, "secondo lo stile del S.to Officio"; che inoltre fosse avvertito aver facoltà di scegliersi un Avvocato e procuratore a suo piacere, bensì persona cognita ed approvata dalla Curia, fornita de' requisiti necessarii, e con ciò un termine di tanti giorni per fare ogni e qualunque difesa, se intendesse e volesse farne: questo decreto era da' Giudici medesimi partecipato di persona a ciascuno inquisito, che facevano tradurre al loro cospetto separatamente. Scelto l'Avvocato, o dall'inquisito, o in mancanza dai Giudici, d'ufficio, costui recavasi nella casa di qualcuno de' Giudici a prestare il giuramento nelle mani di lui, inginocchiato, toccando i Santi Evangeli e promettendo di fare "le giuste difese" del tal di tale secondo lo stile del S.to Officio. Il Notaro e Mastrodatti consegnava allora al più presto le copie de' reperti a ciascuno inquisito, e redigeva sempre un atto di questa consegna e del seguìto ricevimento in presenza di quattro testimoni (i soliti carcerieri e carcerati) decorrendo dalla data di quest'atto il termine per le difese: talvolta pure, sia d'ordine de' Giudici, sia dietro spontanea deliberazione dell'inquisito, redigeva o autenticava una dichiarazione, in cui l'inquisito manifestava di volersi difendere, ovvero di non volersi difendere riposando nella giustizia e pietà dei Giudici, ed avendo per rato, fermo e valido quanto essi ordinerebbero, ciò che poteva farsi anche durante lo svolgimento delle difese. Mettendosi d'accordo coll'Avvocato, allorchè voleva difendersi, l'inquisito redigeva e presentava una serie di così dette eccezioni ossia articoli, in ciascuno de' quali eccepiva, poneva e voleva provare un dato fatto in sua discolpa, affermando per solito ogni volta che esso era vero, verissimo, come constava a coloro che lo sapevano o l'avevano udito: e quasi sempre cominciando dai fatti della sua buona vita fin dalla tenera età, passava, mano mano, a' fatti delle inimicizie che aveva incontrate, alla mala condotta e speciale odiosità de' testimoni che intendeva o supponeva aver deposto a suo carico(200), alla falsità ed erroneità delle imputazioni fattegli, a tutti gl'incidenti che spesso si verificavano durante i processi. Oltracciò dava una lista di testimoni a difesa, indicandone anche la residenza, i quali dovevano essere esaminati sopra tutti o sopra alcuni determinati articoli. Dal canto suo il fiscale, sugli articoli presentati, faceva ed esibiva i suoi interrogatorii, ed istantemente chiedeva che i testimoni fossero esaminati prima sopra di essi e poi sugli articoli: gl'interrogatorii erano preceduti dalle solite ammonizioni, ed esigevano le solite informazioni sulla persona del testimone, e poi le informazioni su' fatti posti negli articoli con tutte le relative circostanze, terminando con un appello alla diligenza de' Signori Giudici. In somma si teneva la via medesima del processo ripetitivo ma all'inversa: gli articoli erano presentati dall'inquisito assistito dal suo Avvocato, e gl'interrogatorii erano presentati dal fiscale; e però questi ultimi erano sempre redatti senza tante sottigliezze e con molto maggiore concisione. Dobbiamo anche dire che i Giudici talvolta cassavano qualche articolo contenente fatti già enunciati in altri articoli, e il processo presente ce n'offre un esempio; inoltre non accoglievano mai tutti i testimoni dati se erano assai numerosi, come sovente accadeva, ma ne sceglievano un certo numero a loro piacere. S'intende poi che l'Avvocato non assisteva alle sedute del tribunale, ma poteva all'occorrenza fare una comparsa e più tardi presentare una vera e propria Difesa scritta, come ne conosciamo in gran numero pervenute sino a noi(201). Figurava poi sempre quando esauriti gli esami testimoniali e consegnatane una copia all'inquisito, costui era citato "ad dicendum", e neanche nel tribunale ma nella casa di abitazione di uno de' Giudici. Quest'ultima circostanza mostra sempre più chiaramente che non l'inquisito ma il suo Avvocato presentavasi allora in nome di lui, era interrogato se dovesse dire altro e potea forse presentare anche una Replica scritta; ma non apparisce che fossero ammesse le arringhe.

Come dicevamo, il 29 agosto i Giudici deliberarono che si procedesse alle difese; nello stesso giorno fecero tradurre alla loro presenza, l'uno dopo l'altro, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Pizzoni, il Lauriana, il Bitonto, fra Paolo della Grotteria, e a ciascuno di essi separatamente parteciparono la loro deliberazione, assegnando per le difese il termine di otto giorni; poi si recarono alla carcere di fra Dionisio, che trovavasi ammalato a quel tempo, e parteciparono anche a lui la loro deliberazione e il termine stabilito di otto giorni. Sappiamo infatti che fra Dionisio fu ammalato una prima volta nell'agosto del 1600: ce lo mostra un conto di spese che vedremo più tardi fatte pe' frati inquisiti, e che contiene la nota delle medicine fornite a fra Dionisio dallo Speziale del Castello Ottavio Cesarano, con l'indicazione de' giorni in cui esse vennero fornite; e fu in questo frattempo che il Soldaniero vide fra Dionisio, gli prestò qualche assistenza e forse anche gli chiese perdono pe' travagli procuratigli coll'opera sua, come fra Dionisio asserì e il Soldaniero negò negli esami ripetitivi. Dobbiamo intanto notare che pel Campanella non fu tenuto lo stesso procedimento, senza dubbio a motivo della sua pazzia, ma ebbe in sèguito un Avvocato: per fra Pietro Ponzio poi non vi fu provvedimento alcuno, giacchè davvero in questa causa, come in quella della congiura, nulla gli si potè addebitare, all'infuori dell'intima amicizia col Campanella, provata specialmente con la scoperta delle conversazioni notturne tenute tra loro.

Il 5 settembre nel convento di S. Luigi il Vescovo di Termoli, presente anche l'Auditore del Nunzio Antonio Peri, ricevè il giuramento del dot.r Carlo Grimaldi Avvocato del Pizzoni; il 15 settembre ricevè ancora, egli solo, quello di Gio. Filippo Montella Avvocato del Petrolo, di fra Pietro di Stilo, del Lauriana, di fra Paolo e del Bitonto; il Montella nello stesso giorno prestò giuramento anche nelle mani del Vicario Arcivescovile, ma, non si saprebbe dire perché, venne più tardi sostituito dal Rev.do dot.r Scipione Stinca, il quale prestò giuramento il 13 ottobre, e trovasi qualificato "avvocato deputato" per la difesa de' frati suddetti. Alla mancanza del Montella, seguita dalla deputazione dello Stinca, si deve forse riferire un memoriale de' frati al Vescovo di Termoli per dimandare un Avvocato, memoriale senza data, ed inserto nel processo un po' a caso, dopo le difese di fra Dionisio(202). Nessuno Avvocato si trova nominato per fra Dionisio, comunque in una lettera, da lui scritta nell'inviare taluni articoli a' Giudici, si legga che non avea "potuto accapar dal suo Avocato la compilatione di tutti gli articoli... per la lunghezza del processo et occupationi d'infiniti altri negotii di detto suo Avocato". Il 17 settembre fu consegnata a fra Dionisio la copia de' reperti della sua causa secondo lo stile del S.to Officio, e il giorno seguente una copia analoga fu consegnata al Pizzoni; di poi (15 e 18 ottobre) fu consegnata allo Stinca la copia de' reperti della causa de' diversi frati che egli doveva difendere. Aggiungiamo che ancora più tardi (31 ottobre) fu prestato il giuramento dal dottore di leggi Gio. Battista dello Grugno in qualità di Avvocato difensore del Campanella, certamente "Avvocato deputato" anche lui, comunque di una simile qualificazione non si trovi alcun ricordo(203). Dobbiamo dire che l'opera di questi Avvocati nel presente processo apparisce anche meno del solito. Vedremo mancanti del nome dell'Avvocato non solo gli articoli di fra Dionisio, che forse li compilò da sè, ma anche quelli del Pizzoni, ne' quali per altro la mano dell'Avvocato si rivela da qualche errore materiale circa le persone, errore che l'inquisito non avrebbe certamente commesso; pel Campanella poi vedremo una comparsa del procuratore rimasto anonimo, ma vedremo anche qualche altro atto in cui il nome dell'Avvocato non manca; infine per gli altri frati vedremo che non ci fu occasione di comparsa dell'Avvocato, perché non si fece nulla. - Ci crediamo pertanto nel dovere di dare qualche notizia intorno a' suddetti Avvocati. Carlo Grimaldi era un dottore non ispregevole; pervenne all'ufficio di Giudice della Gran Corte della Vicaria nel 1622-23, come è attestato anche dal Toppi(204). Il dot.r Scipione Stinca è stato da noi già incontrato una volta nel corso di questa narrazione, sotto le forche preparate pel povero Maurizio, che egli ebbe ad assistere nell'estremo momento. Apparteneva ad una famiglia illustre per magistrati, nella quale figurava tuttora il dot.r Ottavio Stinca, che abbiamo pure avuta occasione di nominare qual difensore del Duca di Vietri, ed avremo occasione di nominare ulteriormente a proposito di qualche altra singolare persona la quale verrà in iscena più tardi. Era Avvocato e sacerdote, come tanto spesso accadeva a quei tempi: nel processo è detto "Presbyter Neapolitanus" e possiamo aggiungere che era ascritto all'ordine de' Cappellani Regii, poichè abbiamo trovato il suo nome nell'elenco di que' Cappellani, ripetuto dal 1595 al 1603, nelle scritture della Cappellania maggiore esistenti nel Grande Archivio(205). Quanto al dot.r Gio. Battista dello Grugno Avvocato del Campanella, egli era un uomo ancor più distinto. Nominato lettore delle Instituta e glose nel pubblico studio di Napoli, in sèguito dell'ingresso di Giulio Berlingieri nella Congregazione de' Gerolamini (31 8bre 1598), fu poi promosso alla lettura De Actionibus, vacata per morte di Gio. Maria Cossa, con provvisione raddoppiata in omaggio alla sua persona (ult.° di febbr. 1601); ed in tale qualità morì verso la fine del 1604, avendo a successore Ottavio Limatola, come ci risulta da' documenti sparsi nelle medesime Scritture della Cappellania maggiore(206). Bisogna dunque riconoscere che le difese de' frati, e massime del Campanella, non si trovavano affidate a dottori di poco conto; solo si può dire che la ricerca di essi fu laboriosa, poichè durò circa due mesi, e forse, oltre il Montella, parecchi altri rifiutarono il carico di queste difese; d'altronde occorre anche vedere se vi attesero con diligenza, e su questo punto li giudicheremo all'opera.

Il 30 settembre si diè principio agli esami difensivi per fra Dionisio, co' quali si aprì il 3° volume del processo dell'eresia. Egli aveva scritto a' Giudici di non aver potuto ancora ottenere dall'Avvocato la compilazione di tutti gli articoli a sua difesa, e di averne intanto formato da sè un certo numero, pregando che sopra di questi venissero esaminati "alcuni carcerati, quali per essere stati "habilitati facilmente partiranno per la Calabria"; ed è superfluo dire quanto sia per noi degna di nota siffatta circostanza, poichè ci rivela lo stato del processo della congiura pe' laici a quel tempo, e il destino di taluni tra loro, i cui nomi si leggono nella lista de' testimoni dati da fra Dionisio contemporaneamente a' suoi articoli. Appena sette furono gli articoli allora presentati da fra Dionisio, e con essi poneva e voleva provare la falsità delle deposizioni del Lauriana, e così pure del Soldaniero e di Valerio Bruno. Intorno al Lauriana, egli affermava, che costui avea già detto nelle carceri di Squillace e poi in quelle di Gerace, presenti molti, di essersi esaminato contro fra Dionisio ed altri, deponendo falsamente in materia di eresia e di ribellione persuaso dal Pizzoni, e di volersi ritrattare per scrupolo di coscienza; che poi nelle carceri di Napoli si era consigliato circa tale ritrattazione con un dot.r Domenico Monaco egualmente carcerato, il quale gli avea detto che ritrattandosi avrebbe avuta la corda e sarebbe stato mandato in galera; che quando in Napoli ratificò il primo esame, rimproverato da molti a' quali avea detto di essersi esaminato falsamente, avea risposto, "che sempre c'era tempo per accomodar la conscientia, ma non sempre c'era tempo d'evitar la corda, et la Galera, et che più facilmente si potea accomodar con Dio, che con gl'huomini, et officiali"; che dopo ciò, quando nelle litanie si giungeva al verso a falsis testibus libera nos Domine, tutti guardavano in faccia al Lauriana e ridevano, ed egli arrossiva, e quando toccava a lui dir le litanie, ometteva quel verso con grandissimo riso di tutti; che infine avea negli ultimi giorni cercato perdono ad esso fra Dionisio, facendosi più volte chiudere per questo nella stessa carcere con lui dal carceriere. Intorno al Soldaniero e Valerio Bruno affermava, che il Soldaniero, egualmente per ottenere il perdono delle falsità deposte contro di lui, gli avea fatto visite, servigi, regali e prestito di danaro; che inoltre teneva continuamente presso di sè Valerio Bruno suo servitore, e poteva presumersi avergli fatto deporre il falso, essendosi da entrambi dichiarato ne' rispettivi costituti che non aveano mai parlato tra loro, mentre a tutti era noto il contrario. Sopra siffatti articoli dava per testimoni, variamente sopra ciascuno di essi, oltre fra Pietro di Stilo e fra Paolo, Geronimo Marra, Francesco Salerno, Nardo Rampano, Cesare Bianco e tutti gli altri carcerati di Catanzaro, Giuseppe Grillo di Oppido, Domenico Monaco il dottore, Aquilio Marrapodi suo servitore e il carceriere. D'altra parte il fiscale (sempre D. Andrea Sebastiano) presentava i suoi interrogatorii al n.° di 18, preceduti dalle solite ammonizioni, e contenenti le informazioni di rutina e le informazioni su' fatti asserti negli articoli(207). - I Giudici si limitarono ad esaminare Geronimo Marra, Francesco Paterno (o forse Salerno) e un Minico Mandarino, tutti giovani sarti di Catanzaro carcerati per la congiura; e li udirono su tutti gl'interrogatorii e tutti gli articoli indifferentemente, impiegandovi la sola seduta del 30 settembre. Le deposizioni di costoro non diedero alcun risultamento serio. Nessuno sapeva nulla; nessuno avea veduto nulla. Il solo Geronimo Marra dichiarò di avere udito in Napoli il Lauriana, dopo di essere stato esaminato, dire ad alcuni carcerati, "quando uscirò, Dio provederà all'anima", ma senza aver capito a quale scopo avesse dette tali parole(208). Perfino intorno a Valerio Bruno rimase assodato che stava in una camera diversa da quella del Soldaniero, ma non si giunse a sapere nemmeno se facesse l'ufficio di servitore presso di lui (i guai sofferti aveano resi quei testimoni più che riservati).

Una lunga interruzione si verificò dopo questa seduta, la qual cosa reca un po' di meraviglia, mentre non si può negare che fino allora si era proceduto con la più grande celerità, e se molto tempo si era impiegato nello svolgimento del processo, ciò era accaduto unicamente per l'intrinseca qualità della procedura, che nelle cause di S.to Officio era sempre scrupolosamente osservata. Bisogna dire che i Giudici ebbero a persuadersi non poter convenire questi esami sopra articoli in numero ridotto, dopo i quali si era costretti a fare nuovi esami sopra articoli in numero completo. E in tal guisa riesce di spiegarsi che il Notaro e Mastrodatti Prezioso, d'ordine del Vescovo di Termoli, il 6 ottobre si recò presso fra Dionisio, gli chiese formalmente se volesse o no difendersi, ed innanzi a testimoni rogò un atto in cui fra Dionisio dichiarò che voleva ed effettivamente intendeva fare le sue difese, e si sottoscrisse confermando tale sua volontà(209). Ma senza dubbio non potè presentare le sue eccezioni od articoli se non a' primi del mese consecutivo, poichè si venne agli esami sopra di essi soltanto il 6 novembre. Verosimilmente fu sollecitato anche il Pizzoni a voler presentare i suoi articoli, essendo scorso da un pezzo il termine assegnato di otto giorni, ciò che era sempre tollerato dal S.to Officio, ma non poteva poi durare indefinitamente; così, mentre si menavano innanzi gli esami difensivi per fra Dionisio, si fecero ancora quelli pel Pizzoni. E certamente l'Avvocato del Campanella, non appena prestato il suo giuramento il 31 ottobre, dovè essere sollecitato del pari; giacchè poco dopo fu presentata al tribunale una comparsa, con la quale si diceva essere il Campanella pazzo, non potersene fare le difese, chiedersi un termine per provare la pazzia; e nello stesso giorno 6 novembre, quando cominciarono gli esami difensivi per fra Dionisio, cominciarono pure gli esami informativi sulla pazzia del Campanella. Sicchè dal 6 al 16 del mese venne simultaneamente esaurito tutto ciò che rifletteva la difesa degl'inquisiti principali: ma per procedere ordinatamente, sarà bene narrare prima gli esami difensivi per fra Dionisio, che erano stati già in parte iniziati, poi gli esami difensivi pel Pizzoni, che rappresentano il contrapposto degli anzidetti, infine gli esami informativi sulla pazzia del Campanella.

Le eccezioni od articoli, che fra Dionisio definitivamente presentò in sua difesa, ascesero nientemeno al numero di 58; e noi pur troppo non possiamo dispensarci dal darne conto, tanto più che in sostanza vi si comprendono le difese di tutti gli altri frati all'infuori del Pizzoni e del Lauriana, non escluso il Campanella che per la pazzia rimaneva ecclissato(210). Con le sue eccezioni fra Dionisio affermò i suoi titoli di onore, cominciando dalla tenera età e passando a' tempi della vita monastica, ricordando pure l'andata presso Clemente VIII come procuratore della città di Nicastro per la faccenda dell'interdetto, e la premura spiegata per "manifestar l'innocenza del sangue del P.e M.° Pietro Pontio suo zio ucciso proditoriamente da alcuni monaci", come potea rilevarsi dagli Atti esistenti nella Corte del Nunzio, onde si acquistò le inimicizie di tutti gl'inquisiti e loro parenti, e massime de' due Polistina. Affermò che costoro, d'accordo col Priore di Soriano eccitarono il Soldaniero contro di lui, e fecero circondare di birri il convento per costringere il Soldaniero ad accettare l'indulto offertogli da fra Cornelio altro suo nemico, e così poteva intendersi l'inverosimiglianza dell'avere esso fra Dionisio confidate a un tratto tante gravissime cose al Soldaniero. Che costui era di pessima vita e cattivo cristiano al punto di persistere tuttora nella scomunica inflittagli in Calabria, teneva per servitore Valerio Bruno nelle carceri di Napoli e dichiarava di non aver mai parlato, ed avea più volte cercato perdono ad esso fra Dionisio narrandogli i particolari del fatto di Soriano; che mentre era impossibile accordare la cacciata di esso fra Dionisio da Soriano e la predica contemporaneamente permessagli dal Priore, dovea notarsi aver lui deposto dopo il Pizzoni, quando da fra Cornelio gli fu detto che il Pizzoni l'aveva nominato come uno de' capi della congiura. Che esso fra Dionisio avea nella predica di Soriano, a santo e pio fine, parlato di qualche fatto esecrabile commesso contro il SS.mo Sacramento, per mostrare l'infinita pazienza di Dio; che lo stesso Valerio Bruno avea con più persone lodata la predica di lui in Soriano, dicendo che era riuscita a farlo piangere, la qual cosa non gli era mai accaduta; che se il Priore e il Lettore di Soriano avessero deposto di aver cacciato esso fra Dionisio dal convento, risulterebbero mendaci, poichè gli aveano permesso di predicare e non aveano partecipato nulla a' superiori. Che il Pizzoni gli era nemico, atteso il furto degli scritti per lo quale esso fra Dionisio l'aveva svergognato; che era sempre stato amico de' nemici di lui, ed avea fatto fuggire il Polistina, procurando che fra Pietro di Stilo l'avvertisse, quando esso fra Dionisio cercava di farlo carcerare; che era sempre stato di pessima vita, soggetto a penitenze per molti furti (citato uno per uno), affetto da mal francese etc., scappato in pianelle, senza cappello e senza cappa dal Capitolo di Catanzaro per fuggire la prigionia, obbligato a circondarsi di fuorusciti per salvarsi dalle vendette di coloro che aveva offeso con le sue disonestà. Che nella causa della congiura, negando dapprima l'esame di Calabria, il Pizzoni aveva espressamente affermato di aver detto anche in materia di eresia molti mendacii, amplificati ed accresciuti da fra Cornelio e dal Visitatore, e nella fossa in cui fu posto avea pure scritto sul muro di esservi stato posto perché si volea che dicesse bugie, come tuttora potea vedersi, ma poi persuaso dal Lauriana confermò di nuovo il primo esame. Che aveva scritto al Campanella, entro il suo breviario, essere state da lui deposte le eresie per eccitare gelosie di giurisdizione tra il Papa e il Re, ma essere risoluto di ritrattarle, e due cartoline di questo genere furono prese dal Sances sul Campanella, quando costui fu tormentato. Che veramente il Pizzoni avea praticato col Campanella più lungamente di esso fra Dionisio, ed avrebbe potuto piuttosto il Pizzoni dire a lui, che lui al Pizzoni, le cose del Campanella; e poi a molti avea dichiarato essergli state da fra Dionisio dette le eresie non assertive ma recitative tantum; e poi nel vespro di quel giorno di luglio in cui parlarono tra loro in Pizzoni, esso fra Dionisio fu visto parlargli sdegnato e bravarlo, poichè gli dimandava conto del furto degli scritti (lato questo il più debole della difesa per essere stato troppo spinto). Che il Lauriana gli era nemico perché creatura del Pizzoni, perseguitato fin dal P.e Pietro Ponzio pe' suoi vizii e disonestà, complice del furto degli scritti che cercò di vendere al P.e Perugino, scacciato da esso fra Dionisio dal convento di Nicastro per le turpi relazioni con fra Fabio nipote del Pizzoni; che avea scritto due lettere ad esso fra Dionisio chiedendogli perdono, come l'avea pure chiesto a voce a traverso un foro esistente tra le carceri rispettive, ed inoltre l'avea chiesto anche a Ferrante Ponzio per lettere delle quali esibiva una in data 10 ottobre 99. Che nelle carceri aveva tenuta corrispondenza col Pizzoni ed animatolo a star saldo sulle cose deposte, perché si trovassero uniformi nelle falsità, come fu provato durante il processo, rimanendo anche convinto di averlo falsamente negato; che avea fatto sapere a molti essere stato costretto a deporre il falso da fra Cornelio e dal Visitatore; che sopratutto avea falsamente deposto essersi trovati in Pizzoni al tempo medesimo esso fra Dionisio e il Campanella, mentre esso fra Dionisio vi era stato molti giorni prima; che avea detto a molti volersi ritrattare, cercando anche perdono a fra Pietro Ponzio, e poi consigliato da un Domenico Monaco non l'avea fatto ed aveva indotto il Pizzoni a non farlo; che n'era stato rimproverato da molti, ed era ritenuto falso testimone e deriso nel dir le litanie; che avea chiesto anche negli ultimi giorni perdono ad esso fra Dionisio infermo (come negli altri articoli già dati precedentemente). Che il Visitatore gli era stato sempre nemico, perché esso fra Dionisio avea dovuto presentare al Papa memoriali contro di lui nelle quistioni de' Riformati e poi nel tempo de' torbidi di S. Domenico di Napoli; che aveva in Calabria forzato i testimoni a deporre contro esso fra Dionisio, e l'aveva condannato a gravi penitenze negandosi sempre a perdonarlo. Che fra Cornelio gli era nemico per fatti personali occorsi tra loro (già narrati altrove); che si era perciò unito a' Polistina, insieme co' quali avea sedotto e forzato il Soldaniero a deporre come avea deposto, procurandogli l'indulto. Che il Petrolo gli era nemico, perché riteneva derivati da esso fra Dionisio tutti i suoi travagli, e perciò, come si era espresso con molti, l'aveva conciato a dovere ne' suoi costituti(211); oltracciò nell'altro tribunale si era dapprima disdetto, dichiarando che il Campanella l'aveva indotto ad imitare il Pizzoni nell'esporre eresie per sottrarsi alla furia secolare; che poi, al pari del Pizzoni, non era rimasto saldo in tali assertive, ed entrambi rimproverati per questo da molti carcerati aveano detto esservisi determinati pe' maltrattamenti del fisco e le visibili propensioni de' Giudici. Che fra Pietro di Stilo gli era egualmente nemico, perché creatura del Polistina, che si diè premura di far fuggire quando esso fra Dionisio cercava di farlo carcerare; né avea voluto andare al convento di Nicastro dove era stato assegnato quando esso fra Dionisio vi si trovava Priore. Che infine per tutto il tempo, in cui esso fra Dionisio era stato carcerato, ognuno avea dovuto persuadersi esser lui vittima di falsità fatte deporre dal Visitatore, da fra Cornelio e dallo Sciarava, ed essere cosa impossibile in lui la colpa specialmente di eresia.

In prova di così numerose affermazioni, fra Dionisio diè testimoni non meno numerosi, oltre 60 individui, secolari ed ecclesiastici(212). Alcuni tra loro erano individui liberi dimoranti in Napoli, ed altri già carcerati e rimasti in Napoli, come p. es. Tommaso d'Assaro, Pietrantonio Tirotta, Cesare Forte(213); altri già carcerati e tornati in Calabria, come D. Marco Petrolo, D. Minico Pulerà, Gio. Francesco Paterno e Geronimo Marra, su' quali ultimi abbiamo così la data precisa della liberazione; altri tuttora carcerati, sia per le cause presenti, sia per cause diverse come vedremo più sotto. Vi erano poi egualmente tra' testimoni frati disseminati in tutti i conventi di Napoli, come pure dimoranti in Calabria e in altre provincie, perfino in Siena e in Venezia. Ognuno de' testimoni era indicato per la prova di determinati articoli; ed oltracciò erano prodotti diversi documenti, e date le indicazioni per averne altri de' quali gli articoli facevano menzione. Così troviamo inserte nel processo, al sèguito delle difese di fra Dionisio: la procura originale in pergamena fattagli dalla città di Nicastro per trattare anche presso il Papa la faccenda dell'interdetto; la lettera del 10 ottobre 99 scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio, per iscusarsi delle falsità deposte insieme col Pizzoni contro fra Dionisio, e pregarlo che trovasse modo di farlo venire a nuovo esame per ritrattarsi; e poi una fede dell'Università di Fiumefreddo sulle eccellenti predicazioni ed opere di carità fatte da fra Dionisio in quella terra; inoltre le fedi di Gio. Luca de Crescenzio de' P.i Ministri degl'infermi e di D. Eligio Marti Cappellano della galera S.ta Maria, già confortatori di Gio. Battista Vitale e Gio. Tommaso Caccìa sul punto di essere giustiziati, attestanti che da costoro si era dichiarato aver deposto il falso per forza de' tormenti dati dallo Sciarava(214). A questi documenti si aggiunsero poi quelli che il Vescovo di Termoli, sulle indicazioni date da fra Dionisio, venne procurando sopratutto dall'altro tribunale; ma allora si era già agli esami difensivi, e di essi conviene oramai occuparci.

Naturalmente non tutti i testimoni dati da fra Dionisio furono chiamati all'esame, ma soltanto i frati inquisiti (all'infuori del Pizzoni e del Lauriana), parecchi carcerati per la causa della ribellione, tra' quali il Contestabile, il Di Francesco, Geronimo padre del Campanella e il Barone di Cropani, dippiù quattro carcerati per altre cause, e con tutti costoro il carceriere. Su' quattro carcerati per altre cause ci crediamo in dovere di dare qualche notizia speciale; troveremo due di loro celebrati dal Campanella nelle sue poesie, da doversi considerare come suoi amici ed anche benefattori, e per parte nostra non avverrà mai che un amico e benefattore del povero filosofo rimanga in alcun modo trascurato; d'altronde importa pure conoscere un po' addentro le qualità de' testimoni, per essere in grado di valutare la fede che le loro testimonianze possono meritare. Essi furono: Cesare Spinola, D. Francesco Castiglia, fra Antonio Capece cav. Gerosolimitano, Domenico Giustiniano marinaro. Cesare Spinola nel suo esame si dichiarò genovese, dell'età di 30 anni in circa, celibe, benestante tale da potere spendere 100 scudi al mese: senza dubbio egli era uno di que' numerosi Spinola, che al pari di moltissimi altri Liguri ammassavano ricchezze con le loro speculazioni e facevano continui acquisti di rendite in Napoli. Di altrettali Spinola l'Archivio di Stato fornisce una serie infinita al cadere del secolo 16.°, anche con frequenti omonimi; ma per fortuna col nome di Cesare se ne trova solamente uno detto "q.m Stephani q.m Bartholomaei", e varii documenti lo mostrano abitante dapprima in Genova, dove stava anche una sua sorella a nome Antonia, monaca in S. Silvestro de Pisis, possidente del pari di varie rendite acquistate dal padre, massime sulla gabella della seta ma anche sopra altri cespiti. Da uno de' documenti raccolti Cesare apparisce inoltre parente, forse cugino, del Marchese Ambrogio Spinola, essendo insieme col Marchese erede di una parte delle facoltà di Lorenzo Spinola; da altri documenti apparisce sotto la tutela di alcuni suoi parenti nel 1588, ed abitante già in Napoli nel 1602, circostanze tutte che rispondono a quelle notate nel processo(215). Ci rimane tuttora ignoto il motivo della sua prigionia: ma sappiamo che nel 1599 un Cesare Spinola trovavasi affittatore del feudo di S. Nicola, e con ogni probabilità era appunto il Cesare del quale si è discorso, avendo sempre avuto i genovesi di ogni ceto il lodevole costume di lanciarsi nelle speculazioni(216); né è difficile intendere che per quistioni insorte, col metodo spiccio di quel tempo, egli fosse stato imprigionato. Vedremo che di poi il Campanella in un suo Sonetto, fra mille lodi, lo ringraziò anche della difesa che di lui avea fatta. Quanto a D. Francesco di Castiglia, era costui uno de' tanti spagnuoli che facevano la loro carriera nelle provincie napolitane, ma era nato a Verona, ed avea già i suoi 40 anni: ne' Registri Officiorum Viceregum lo troviamo nominato Capitano di Rossano pel 1594, poi Capitano di Ostuni pel 1598(217); e mentre era al governo di Ostuni fu carcerato in Lecce e tradotto nel Castel nuovo di Napoli; il Campanella lo lodò non solo come un alto personaggio, ciò che era quasi di obbligo con uno spagnuolo, ma perfino come poeta, cantore delle Donne sante e de' suoi cocenti amori, della vinta Antiochia e dell'abominio che si meritavano le Corti false e bugiarde (dopo di averne persa la protezione). Quanto a fra Antonio Capece, la sua storia è molto brutta: il suo esame ne dice poco o nulla, ma ce l'insegnano ampiamente moltissime Lettere esistenti nel Carteggio del Nunzio, ed anche qualche documento de' Registri Curiae dell'Archivio napoletano. Era uno de' tanti Cavalieri di Malta, che profittando delle guarentigie giurisdizionali cominciavano per fare i prepotenti, e poi ben presto finivano per fare gli assassini di strada insieme co' compagni a' quali erano costretti ad appoggiarsi. Di nobile famiglia napoletana, dimorante nel vicino paesello di Melito, aveva appena 26 anni e già fin dal 9 marzo 1595 trovavasi carcerato in Castel nuovo perché le carceri del Nunzio erano malsicure per lui, essendosi distinto per molti e gravi delitti, omicidii, scarcerazione violenta di detenuti, svaligiamento del procaccio di Puglia, ricatti, furti ed assassinii al passo tra Melito ed Aversa, furto e ricatto di notte nella stessa città di Napoli in casa di Ascanio Palmieri fuori la porta del pertuso (quella che fu poi detta porta Medina e non ha guari è stata diroccata): fuggito una volta dalle galere mentre lo traducevano a Malta per esservi giudicato, nel 1598 era riuscito a fuggire anche dal Castel nuovo con un altro carcerato del Nunzio, Cesare d'Assero clerico, ma semplicemente "perché il carceriere havea lassata la porta aperta et egli voleva buttarsi alli piedi di S. S.tà", siccome scrisse a Roma quando fu ripreso in Gaeta e ricondotto in Castel nuovo; e poichè tutti i suoi compagni nelle scelleraggini, i quali aveano testificato contro di lui, erano stati prontamente appiccati dalla Corte Regia e non potevano più farsi gli esami ripetitivi per convincerlo, il Nunzio lo teneva così in carcere senza sapere cosa dovesse farne(218). Ci affrettiamo a dire che la Musa del Campanella non si mosse per lui. Finalmente quanto a Domenico Giustiniano, sappiamo dal processo che era un povero marinaro di Scio, preso da' turchi all'età di 7 od 8 anni e divenuto così maomettano, poi tornato in grembo alla madre Chiesa, ed in espiazione della colpa di rinnegato già da 10 anni in carcere, con otto grani al giorno pel vitto: il suo contegno ce lo mostra un uomo semplice ed ingenuo, senza ombra di fiele, e sì che egli poteva ben raccontare quanto fosse dura la via del paradiso; dimenticato nel carcere, quivi morì il 28 marzo 1607, come si legge ne' libri parrocchiali del Castello.

Il 6 novembre si tenne la prima seduta, ed ecco le deposizioni che si raccolsero(219). D. Francesco di Castiglia disse correr voce tra i carcerati in generale che i frati si accusavano l'un l'altro; avere udito che Valerio Bruno teneva pratica col Soldaniero ma non averlo visto; aver saputo direttamente dal Soldaniero che era stato assediato nel convento di Soriano e forzato a dire ciò che gli era stato domandato. - Di poi fu interrogato Giulio Contestabile, che riuscì un testimone di grande importanza. Egli disse avere udito da molti, e li nominò, che il Lauriana avea lasciato intendere di essersi esaminato contro il Campanella e fra Dionisio per istigazione del Pizzoni e per timore di D. Carlo Ruffo, Carlo Spinelli, Sciarava, fra Cornelio; aver lui medesimo veduto in Calabria, mentre fra Cornelio esaminava, que' secolari assistere con molta distinzione alle sedute e interrogare; avere più tardi saputo che il Lauriana volea ritrattarsi in Napoli, e non l'avea fatto per consiglio di un dottore; esser vero che tutti lo ritenevano testimonio falso e che arrossiva quando nelle litanie si diceva a falsis testibus; aver veduto lui stesso il Lauriana entrare nella camera di fra Dionisio, e così pure il Soldaniero più volte, avendogli costui inviato anche regali e fatto fare il pranzo da Valerio Bruno che lo serviva sempre, come ben sapeva perché era compagno di stanza del Soldaniero. Aggiunse essere stato presente, quando Cesare Spinola disse al Soldaniero non dover procurare tanta rovina a que' frati, e il Soldaniero si scusò raccontando come era stato costretto di deporre contro fra Dionisio dopochè fu circondato il convento in cui stava per opera de' Polistina e del Priore; avere lui stesso udito il Soldaniero lamentarsi, perché i frati l'aveano ridotto nelle mani del diavolo e non poteva ritrattarsi senza essere appiccato; aver veduto l'indulto concesso al Soldaniero da Carlo Spinelli coll'intercessione di fra Cornelio, e sapere che trovavasi depositato alla banca di Barrese. Aggiunse aver saputo in Napoli direttamente tanto dal Pizzoni quanto dal Petrolo, che in Calabria fra Cornelio diceva loro doversi dare soddisfazione a' Giudici laici, che essi aveano dovuto deporre eresie per isfuggire da' secolari e tentare di esser chiamati a Roma, e che "per verità tutto era stato inventione"; aver saputo anche dal Di Francesco suo cognato, carcerato insieme col Pizzoni in Gerace, che fra Cornelio "con bravate, e con bone parole lo suggerì ad esaminarsi contra non so chi frati". Conchiuse aver dovuto giudicare, dietro le cose sapute dal Soldaniero, dal Pizzoni e dal Petrolo, che erano state dette molte falsità (e vede ognuno di qual peso riusciva una simile testimonianza da parte del Contestabile, convertito oramai in deciso difensore de' frati).

Il 7 novembre s'iniziò la seconda seduta col cavaliere fra Antonio Capece(220), il quale disse aver veduto una volta un frate rossetto, compagno del Visitatore di Calabria, venire a visitare il Lauriana nel carcere, e costui ricordargli che avea deposto quanto egli avea voluto, e dimandargli qualche somma de' danari che erano stati contribuiti da' conventi di Calabria, ricevendone buone parole e nove carlini; aver poi saputo dallo stesso Lauriana che era sicuro di aver la corda, ma non se ne curava per amore del Pizzoni suo maestro, che lui veramente non conosceva nulla di quanto avea deposto, ma l'avea deposto per liberarsi dalla Corte temporale e non essere "inforcato et fatto in pezzi", e si voleva veramente ritrattare; essersi ritenuto pubblicamente che si sarebbe ritrattato, ma non lo avea fatto dietro consiglio dato dal dot.r Monaco, presente Domenico Giustiniano; essere state una sera omesse da lui nella litania le parole a falsis testibus, ed avergli fra Pietro di Stilo detto "che non si vergognasse ma che le dicesse" (vigile ed accorto sempre quel fra Pietro); essere corsa pubblicamente la voce che avea chiesto perdono a fra Dionisio per le deposizioni fatte contro di lui. Aggiunse aver veduto il Soldaniero visitare e servire fra Dionisio ammalato, presenti anche il Contestabile, fra Pietro Ponzio e il carceriere. Inoltre aver veduto una lettera che fra Pietro Ponzio diceva scritta al Pizzoni dal Lauriana; avere udito lui stesso il Pizzoni da una fossa parlare al Lauriana in latino e perciò non averlo capito; aver saputo dal Pizzoni medesimo, che andava in quella fossa per non aver voluto confermare l'esame di Calabria fatto per uscire dalle mani de' laici e tutto falso; aver saputo dal Pizzoni e dal Lauriana che il Visitatore e fra Cornelio li avevano esortati a confessare per dar soddisfazione a' Giudici secolari, "che poi passata quella furia sarebbero andati in Roma per il S.to officio è llà si saria accomodato ogni cosa" (testimonianze per certo troppo esplicite, e troppe volte poggiate su notizie raccolte direttamente). - Di poi Cesare Forte di Nicastro, conciatore di pelli, carcerato per la congiura(221), confermò avere udito tra i carcerati che il Lauriana si voleva ritrattare ma un Domenico Monaco lo sconsigliò; essere ritenuto testimonio falso, rifiutandosi a dire le parole a falsis testibus, onde i carcerati ne mormoravano; su tutto il resto disse non saper nulla. - In sèguito Cesare Spinola(222) attestò aver veduto un giorno fra Dionisio e il Lauriana in alterco, aver domandato allora al Lauriana come mai nel Castello "non c'era cane né gatto che lo potesse vedere, et alhora fra Silvestro rispose Dio perdoni à chi n'è causa", e dietro le sue insistenze gli palesò esserne stato causa il Pizzoni che gli avea fatto deporre quanto avea deposto. Aggiunse di sapere che il Soldaniero aveva parlato a fra Dionisio quando costui era ammalato, e che aveva a' suoi servigi Valerio Bruno; di avere una volta veduto il Soldaniero tornare dall'esame col viso infuocato, ed avergli detto "non più contra questi poveri frati, che tante cose? et esso rispose, che voi che io faccia? per Dio che non posso far di manco per trovarmi haver detto contra di essi monaci", e raccontò il fatto dell'essere stato circondato in un convento ed obbligato da un monaco a deporre contro fra Dionisio per non essere consegnato alla Corte; ond'egli, lo Spinola, volgendosi al Contestabile che era presente, ebbe a dirgli in disparte "mira che anima negra". Aggiunse di conoscere che il Soldaniero aveva avuto l'indulto da Carlo Spinelli, ma non conoscere ad istanza di chi (testimonianze tutte gravi anche per la loro provenienza da un uomo non volgare). - Venne quindi la volta di Domenico Giustiniano, il quale dichiarò avergli un giorno il Lauriana dimandato consiglio, dicendo "che non havea faccia di comparere avanti di fra Thomaso Campanella perche si havea esaminato falsamente contra di lui, e detto milli falsità"; avergli lui risposto essere in obbligo di dire la verità, ma temendo il Lauriana che avrebbe la corda, essersi deciso consultare qualche letterato; "e così chiamassemo un giovane nominato Gio. Vincenzo mezzo monaco il quale non si volse impacciare, chiamassemo poi Domenico Monaco Dottore, et fra Silvestro li proposse il caso, et il dottore li disse, Io te hò ditto più volte che tu debbi star saldo alla prima esamina che altramente sarrebbe andato in una galera". Confermò avergli il Lauriana detto che i suoi superiori l'aveano forzato a deporre in quel modo, essere da tutti ritenuto falso testimone, avere una volta nelle litanie omesse le parole a falsis testibus, onde fra Pietro di Stilo lo rimproverò e tutti ne risero. Aggiunse di sapere che il Pizzoni e il Lauriana erano stati più mesi insieme nella carcere civile, ma non sapere che si fossero concertati o no fra loro (testimonianze rese ancora più gravi dall'ingenuità della persona). - Infine Giuseppe Grillo, che già conosciamo, dichiarò essere stato presente allorchè nelle carceri di Gerace il Lauriana si scusò con fra Pietro Ponzio perché non si era ritrattato, dicendo che "esso era andato con animo di disdirsi pensando di trovare solo la Corte spirituale, mà che ci era anco presente Carlo Spinello et l'Avvocato fiscale Regio, è che lo spaventavano solamente à guardarlo". Confermò tutto il resto intorno allo stesso Lauriana, ma solamente per detto di altri. Confermò che il Lauriana e così pure il Soldaniero e Valerio Bruno aveano parlato con fra Dionisio, ciò che avea visto egli medesimo.

L'8 novembre fu dapprima interrogato, senza il formulario solito, il carceriere Alonso Martines di Medina del Seco(223), il quale disse: "frà Dionisio Pontio stette male à morte, et il sig.r Don Giovanni Sanges mi ordinò che io li dovesse dare un compagno, et che dovesse lassar aperta la porta della(224) priggione nella quale era il detto frà Dionisio": e quindi vi entrò più volte il Soldaniero, che con le proprie mani imboccava fra Dionisio quando mangiava, e diceva di farlo per carità; vi entrò pure Valerio Bruno, che portò a fra Dionisio da parte del Soldaniero "qualche regalillo di frutta", ed anche il Lauriana, che una volta rimase a parlare con fra Dionisio per un'ora. Egli vide tutto ciò, e quando erano partiti il Soldaniero e il Lauriana, fra Dionisio gli disse, "guarda costoro, si sono esaminati contra di me, et adesso mi vengono à dire che non si erano essaminati contro... niente" (non disse dunque che gli avessero dimandato perdono, ma d'altro canto perché il Soldaniero specialmente negava con tanta ostinazione la visita fatta?). - Nardo Rampano di Catanzaro, sarto, carcerato per la congiura, disse essere stato sempre compagno del Lauriana nelle carceri di Squillace e poi anche in quelle di Napoli, avere udito più volte fra Pietro di Stilo in Squillace dare del falsario al Lauriana, che "piangeva e diceva che lo lassasse stare con li guai suoi"; aver veduto ancora in Napoli venire alle mani il Lauriana ed il Petrolo, il quale anche dava del falsario al Lauriana. Confermò tutto il resto circa il Lauriana, ed aggiunse inoltre di avere lui stesso udito il Pizzoni parlare dalla fossa col Lauriana "per un pertuso che risponde fuori, et parlavano latinamente" e dopo tre giorni il Pizzoni fu tolto dalla fossa e rimase da basso per più di due mesi in compagnia del Lauriana che lo governava; (senza mettere in dubbio l'orribile condotta del Lauriana, bisogna pur dire che tutti i frati d'ogni colore, eccetto il Pizzoni, seppero organizzare una vera crociata contro di lui). - Di poi Marcello Salerno di Guardavalle, sarto, carcerato egualmente per la congiura, confermò di avere udito tutte le voci che correvano su' fatti del Lauriana, tra le altre "che un certo dottore chiamato Dominico era stato la salute di frà Silvestro et la ruina dela causa". Aggiunse di aver udito prima fra Dionisio e il Lauriana quistionare e gridare tra loro e poi quietamente parlare insieme; aver veduto anche il Soldaniero visitare fra Dionisio. Non potè pertanto attestare di aver veduto in Squillace il Lauriana dimandare perdono a fra Pietro Ponzio per le falsità dette contro fra Dionisio, perché allora esso Marcello aveva avuta la corda e stava male; attestò solamente di averlo udito dire da altri carcerati, come pure di aver udito che il Lauriana era stato sedotto a deporre in quel modo da un frate chiamato fra Cornelio. Aggiunse che veramente il Lauriana e il Pizzoni erano stati in un medesimo carcere più mesi; (nulla di nuovo, ma una concordanza notevole). - Quindi Cesare Bianco di Nicastro, domestico, carcerato come sopra, confermò le voci che correvano intorno al Lauriana, che tutti lo dicevano falsario, aggiungendo prudentemente, "quanto à me lo tengo per religioso da messa di S. Domenico". Attestò di aver veduto lui medesimo il Soldaniero ed anche Valerio Bruno parlare con fra Dionisio; ricordò di avere già deposto circa la lettera che il Lauriana avea mandata al Pizzoni; negò di avere udito il Lauriana dire che ci era tempo ad accomodare la coscienza, avendolo invece saputo per detto di altri carcerati; conchiuse dicendo, "fra Dionisio publicamente si tiene per homo da bene come lo tengo io, è per buon religioso, è predicatore, et publicamente si è ditto, è si dice particolarmente tra li carcerati che le cose che li sono state apposte sono state falsità"; (una testimonianza simile da un uomo piuttosto prudente merita di essere considerata). - Venne poi esaminato Geronimo padre del Campanella(225), che questa volta si disse di Stilo, calzolaio, costretto a vivere col carlino al giorno che a lui dava la Corte (come agli altri compagni poveri), e dichiarò di non saper nulla su quasi tutte le dimande che gli furono fatte. Attestò che dicevasi il Lauriana essere falsario, aggiungendo "et esso se lo sape". Attestò che avea veduto il Lauriana visitare fra Dionisio e parlargli, come pure il Soldaniero, non così Valerio Bruno, il quale serviva di cucina il Soldaniero; (il povero vecchio era sempre di molto cattivo umore). - Successivamente venne esaminato Gio. Battista Ricciuto di Monteleone, orefice, che dichiarò del pari non saper nulla su quasi tutti i punti e volle barcamenarsi. Disse il Lauriana ritenuto "appresso di alcuni per buono et appresso di alcuni altri non"; aver recitato la litania "giusta", ma lui, Gio. Battista, non saper "lettera"; non sapere se il Lauriana avesse visitato o no fra Dionisio, ma la camera di costui essere rimasta aperta a tutti. Quanto al Soldaniero fu più esplicito; l'avea veduto in camera di fra Dionisio, avea veduto Valerio Bruno servirlo, avea saputo da costui l'indulto accordatogli. - Finalmente Tommaso Tirotta, già servitore del povero Maurizio e carcerato e tormentato per questo, dovè rispondere solo intorno al Soldaniero e a Valerio Bruno: e disse aver conosciuto l'uno e l'altro fin da quando stavano ritirati nel convento di Soriano, sapere che il Bruno serviva il Soldaniero anche nel Castello, sapere che il Soldaniero avea visitato fra Dionisio, non sapere che il Bruno l'avesse egualmente visitato ed anche servito, poter attestare aver lui medesimo, Tirotta, cucinato due polli per fra Dionisio nel focolare del Soldaniero col consenso di costui (testimonianza insignificante per questa causa).

Il giorno seguente, 9 novembre, si cominciò ad interrogare i frati(226). E dapprima fra Paolo confermò che il Lauriana da tutti era stimato falsario, ricordando specialmente che così l'avea chiamato pure il Petrolo nel venire alle mani tra loro. Disse aver udito in Gerace perfino da' birri, ma non dal Lauriana, che costui avea detto volersi ritrattare e poi non l'avea fatto per timore, aggiungendo, a dimanda d'ufficio, che lo Spinelli e lo Sciarava erano presenti agli esami e minacciavano, ed il Capitano di campagna era anche presente e insolentiva, come avea provato egli stesso e parimente il Petrolo. Confermò aver udito in Gerace e in Monteleone che il Lauriana non conosceva nulla di quanto avea deposto, ma l'avea deposto per timore di fra Marco e del suo compagno, i quali dicevano volerlo consegnare alla Corte secolare se non confessava. Dichiarò aver veduto nella carcere di fra Dionisio, in colloquio con costui, il Lauriana, e così pure altra volta il Soldaniero; d'avervi veduto egualmente Valerio Bruno, che era servitore del Soldaniero, tanto che pur in que' giorni, essendo il Soldaniero passato al Castello dell'ovo, gli preparava il pranzo e glie lo mandava aggiungendo che da Valerio era stato detto di aver udito quanto avea deposto non da fra Dionisio ma dal Soldaniero. Attestò che trovandosi in Pizzoni, vide fra Dionisio venuto per ricuperare certi scritti dal Pizzoni e sdegnato verso costui uscire dalla Chiesa dove gli avea parlato (testimonianza troppo tardiva e quindi sospetta). Attestò le cattive qualità del Pizzoni, i furti, il mal francese, le disonestà che gli erano addebitate. Disse di sapere che in Pizzoni, quando vi fu fra Dionisio, non c'era il Campanella; confermò che fra Pietro di Stilo non era amico di fra Dionisio, ed invece lo era del Polistina; (così fra Paolo si mostrava ben diverso da quello di prima, ma perciò appunto non poteva conciliarsi molta fede). - Successivamente fu interrogato fra Pietro di Stilo, che abbondò moltissimo ne' particolari, profittando della circostanza per far entrare nelle difese in un modo anche più largo la persona del Campanella, sicchè la sua deposizione riesce di una importanza straordinaria. Dichiarò aver saputo direttamente dal Lauriana, in Squillace e in Monteleone, che avea deposto "tutto buggie ad instantia di frà Cornelio, è di frà Gio. Battista de Pizzoni", ed espose l'occasione a questo modo: "io dissi à fra Silvestro, come è possibile che tu che sei inimico di frà Dionisio perche ti persequitò per conto di frà fabio in Nicastro.... et tù sempre sei stato lontano da frà Thomaso, che essi ti habbiano communicato queste cose à te, et à me che ero amico di fra Thomaso, e paesano, non habbia ditto niente, Et fra Silvestro alhora mi disse, non per Dio, io mai seppi queste cose, mà me l'ha fatto dire il maledetto frà Gio. Battista da Pizzoni, in servitio del quale hò posto l'onore, è molte volte in pericolo la vita, Et io dissi come è possibile che si hai deposto contra frà Dionisio, et il Campanella ad instantia di frà Gio. Battista, che tu poi habbi accusato fra Gio. Battista, esso mi rispose che quelli doi ciò è il Campanella, è frà Dionisio li dovesse nominare come in effetto li nominai, et io da me aggionsi fra Gio. Battista per terzo, massime che frà Gio. Battista mi havea ditto di haver udito heresie dal Campanella, è da frà Dionisio" (rivelazioni molto sottili). Attestò che pure alla presenza di molti di Catanzaro il Lauriana disse di aver deposte falsità, ed esso fra Pietro glie ne fece rimprovero. Attestò di aver saputo dal Dottore Monaco il consiglio dimandatogli dal Lauriana; disse che uguale consiglio fu dimandato al Giustiniano e poi ad esso fra Pietro medesimo, onde ebbe a rispondere, "che si havea detto la verità stasse saldo, et moressero li tristi, è si havea detto la falsità mirasse a sè, è che li testimonii falsi condennorno il figliolo di Dio alla morte". Confermò che il Lauriana era falsario, anche perché avea deposto di avere udito eresie da fra Dionisio, dal Campanella e dal Pizzoni, "e non dimeno, egli disse, frà Dionisio non è stato mai in Pizzoni con frà Thomaso Campanella, perche io era in Pizzoni in questo tempo, et l'haveria saputo si ci fusse stato", indicando testimoni, per sapere la verità, fra Paolo e il Pizzoni medesimo. Confermò aver fatto un appunto al Lauriana durante le litanie, quando si giunse alle parole a falsis testibus, poichè "parve che à fra Silvestro s'ingroppasse, è non potesse dire". Attestò che un giorno fra Dionisio e il Lauriana vennero a briga tra loro per le falsità, e poi la sera li vide discorrere insieme, come il Lauriana medesimo gli disse l'indomani. Attestò aver veduto più volte il Soldaniero parlare con fra Dionisio; quanto a Valerio Bruno, aver saputo lo stesso da carcerati. Dichiarò aver saputo da Giulio Contestabile che il Soldaniero gli avea detto essere stato da fra Cornelio forzato a deporre, ma attestò averlo poi saputo anche direttamente ed ecco in quale occasione: "al Soldaniero dissi che frà Gio. Battista di Pizzone se li raccomandava per amore di Dio, et Giulio rispose che non li volea perdonare, mà roinarlo, perche esso fù il primo che accusò il Soldaniero che con trenta persone voleva uscire in campagna per la ribellione, et che li rencresceva bene di haver detto contra frà Dionisio, perche la sospittione che havea contra frà Dionisio che se la tenesse con Eusepio suo inimico non era stata vera, è disse di haver fatto il debito suo verso frà Dionisio in camera di frà Dionisio, ma che al Pizzone lo voleva convincere col detto di valerio bruno suo servitore de loco, et tempore, perche da quello servitore faceva dire quel che lui voleva, è questo sarà il servitio che voglio fare à fra Gio. Battista, Et dopò questo biastemò San Gio. Battista, S. Giovanni evangelista, è Santo Cornelio, Et soggionse se venessero persone che havessero questi nomi io non li crederia mai, ne tan poco voglio credere à questi Santi per tali nomi, perche questi, ciò è frà Cornelio del Monte, e Maestro Gio. Battista Polistina, sono stati causa, che hò perso l'anima, la robba, e dubbito che perderò la vita, Et poi cacciò una carta reale, è disse questa mi costa un'anima, è tre mila docati, et confortandolo io che saria remesso, mi rispose questo è l'indulto, et maledicì quando mai fu indultato, et che era meglio per esso che fosse stato alli passi" (rivelazioni sempre più sottili ed anche abbastanza teatrali, un pochino inverosimili trattandosi non di un uomo semplice ma di un capo di fuorusciti qual era il Soldaniero). Dichiarò inoltre avergli lo stesso Soldaniero affermato, che i fatti esecrabili commessi contro l'ostia consacrata erano stati narrati da fra Dionisio nella predica di Soriano a pio fine (unico testimone fra Pietro su questo articolo tanto scabroso); avergli dippiù Valerio Bruno lodato grandemente quella predica. Accettò di aver fatto molto opportunamente fuggire il Polistina quando era perseguitato da fra Dionisio (con che si accreditava come testimone a favore di costui), e confermò ad una ad una le accuse di furto, malattie e "cose di donne" addebitate al Pizzoni, mostrandosi personalmente informato di tutto. Riconobbe che il Campanella avea trattato molto col Pizzoni, ma disse di non poter entrare a giudicare se dovesse ritenersi più probabile che il Pizzoni avesse manifestate a fra Dionisio opinioni del Campanella, o invece il contrario. Affermò di avere tanto lui quanto il Petrolo saputo dal Pizzoni che fra Dionisio avea parlato di eresie disputativamente, e soggiunse essergli stato detto dal Pizzoni, nelle carceri di Monteleone, che volea ritrattarsi di quanto avea deposto contro fra Dionisio e il Campanella, allegando "molte raggioni per le quali esso havea confessato la prima volta, è fra l'altre... il timore della morte, e la speranza di libertà, l'odio che havea con frà Dionisio, et l'occasione dela soversione delle cose, che alhora pareva che il mondo tutto andasse sotto sopra" (non si poteva dir meglio); al quale proposito ritornò sulle minacce fatte da D. Carlo Ruffo, da fra Cornelio, dal Visitatore, da Ottavio Gagliardo, e ricordò quello che costoro aveano fatto contro lui medesimo. Ma la lunghezza di questo esame obbligò i Giudici a rimandarne il sèguito ad altra seduta.

L'indomani 10 novembre fu ripigliato l'esame di fra Pietro di Stilo. Ed egli continuò sull'articolo delle minacce fatte in Calabria a ciascuno de' frati inquisiti, esponendo anche a lungo gli eccitamenti avuti da fra Gio. Battista di Polistina unito con fra Cornelio, poco prima di montare sulle galere in partenza per Napoli, perché deponesse contro fra Dionisio, onde giudicò che in questa faccenda si trattasse di una vendetta particolare del Polistina. Confermò l'inimicizia del Lauriana con fra Dionisio, avendolo costui perseguitato per le pessime relazioni tra lui e fra Fabio Pizzoni: attestò di aver veduto la lettera scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio, di avere udito più di quaranta volte dal Lauriana che era stato sedotto dal Pizzoni e da fra Cornelio, esponendo tutti i particolari del modo di procedere tenuto per gli esami in Calabria, la lettura dell'esame del Pizzoni agli altri che dovevano esaminarsi, la presenza de' laici che interrogavano anche in materia di eresia perfino in Gerace, facendosi gli esami innanzi al Vescovo. Così mano mano confermò ciascuno articolo su cui venne interrogato, sempre di scienza propria: e nel parlare del mulo rubato dal Pizzoni ad un uomo di Stilo, dichiarò che egli, insieme col Campanella e col Sig.r Francesco Petrillo, s'interpose per accomodare la faccenda; nel parlare degli eccitamenti del Visitatore perché si deponesse contro fra Dionisio, aggiunse di essere stato eccitato a deporre anche contro il Campanella. Così pure, nel parlare della conferma dell'esame di Calabria fatta in Napoli dal Pizzoni a consiglio del Lauriana, aggiunse che egualmente il Petrolo (accusatore del Campanella) confermò l'esame a consiglio del Lauriana datogli allo stesso modo; nel parlare poi dell'inimicizia tra Dionisio e il Petrolo, dichiarò che non ne sapeva nulla, ma che sapeva bene esservi inimicizia tra il Petrolo e il Campanella, "perche si disse che una sorella di frà Dominico era innamorata di frà Thomaso, et che havevano peccato insiemi, et per questo si disse che frà Dominico cercò di fare ammazzare il Campanella dal Mauritio, mà Mauritio non lo volse fare; quando poi si suscitorno questi rumori di ribellione il Mauritio cercò di ammazzare il Campanella, è fra Dominico, mà non potè si ben li sequitò per alcune miglia"! Finalmente, nel parlare del motivo per cui il Pizzoni e il Petrolo dicevano aver dovuto confermare i rispettivi esami, cioè l'insistenza minacciosa del fisco, non solo dichiarò averlo udito da que' frati mentre discorrevano tra loro di notte, ma soggiunse averlo udito particolarmente dal Petrolo mentre lo diceva al Campanella per iscusarsi (e ben si vede che il povero fra Pietro si spingeva quanto più poteva, certamente un po' troppo, per giovare al suo disgraziato amico). - Dopo di lui fu esaminato il Petrolo, ma sopra un numero di articoli assai limitato. Egli attestò aver saputo direttamente dal Lauriana che avea deposto contro il Campanella, fra Dionisio e il Pizzoni, che vi era stato colto da fra Cornelio e dal Visitatore mentre non sapeva nulla di quanto depose, che voleva ritrattarsi almeno relativamente al Pizzoni suo maestro, ma non già che avesse deposto il falso ad istigazione del Pizzoni; e spiegò le confidenze fattegli, dicendo essere stato assistito dal Lauriana dopochè ebbe due ore di corda (naturalmente per la congiura). Attestò essere il Lauriana ritenuto pubblicamente falsario, persistente nel falso a consiglio di un dottore "furbo e mariolo", riluttante a dire le parole a falsis testibus nelle litanie per quanto avea saputo da fra Pietro di Stilo. Attestò aver veduto il Lauriana e fra Dionisio parlare insieme, sibbene fuori la carcere; aver udito il Soldaniero bestemmiare santo diavolo(227) e borbottare minacce contro i Polistina, ciò che il Bitonto gli spiegò col dire che i Polistina lo avevano costretto a deporre ciò che depose; inoltre aver veduto il Soldaniero visitare fra Dionisio dentro la carcere e prestargli danaro, come pure aver veduto nella carcere di fra Dionisio Valerio Bruno servitore del Soldaniero. Dichiarò di avere non solo udito il Soldaniero lamentarsi dei Polistina, ma ricevute lui stesso in Bivona raccomandazioni dirette da fra Gio. Battista di Polistina perché non risparmiasse fra Dionisio, e nella medesima occasione veduto anche il Polistina riscaldarsi con fra Pietro di Stilo. Dichiarò di aver udito il Soldaniero dire che in Calabria avea dovuto fare il birro per salvarsi la vita; di sapere che il Pizzoni era stato in relazioni molto strette col Campanella; di avere udito dal Pizzoni che le cose dettegli da fra Dionisio erano state dette recitative e poi egli l'aveva accomodate nella sua deposizione a modo di disputa; di avere avuto preghiera dal Pizzoni, perché raccomandasse al Lauriana di persistere nella discolpa conoscendo che l'aveva discolpato; di sapere che il Campanella non era stato a Pizzoni quando vi fu fra Dionisio, perché il Pizzoni e il Lauriana glie l'aveano detto, ed anzi il Lauriana, preoccupato di aver detto il contrario, lo pregò di raccomandare a fra Paolo che non lo scovrisse su questo punto. Infine dichiarò di sapere che il Pizzoni e il Lauriana erano stati più mesi insieme nelle carceri civili, e di credere che si fossero là messi d'accordo a voce dopochè aveano cercato di farlo in iscritto; (così oramai il Petrolo, col contatto de' frati, si era modificato di molto, ed avea capito che la causa di ognuno rifletteva quella di tutti; ma si era troppo spinto innanzi per tornare francamente indietro). - Fu interrogato da ultimo il Bitonto, e costui dichiarò di aver saputo dal Lauriana in Gerace, che si era esaminato contro fra Dionisio e il Campanella a persuasione del Pizzoni, che non si era ritrattato per timore di Carlo Spinelli, ma che si sarebbe ritrattato in Napoli, dimandando ad esso Bitonto se si dovesse o no ritrattare. Attestò di aver veduto un giorno fra Dionisio e il Lauriana quistionare insieme ed aver poi saputo dallo stesso Lauriana che la sera era andato a cercare perdono a fra Dionisio per le falsità deposte contro di lui; aver veduto il Soldaniero visitare fra Dionisio nella carcere e portargli cose da mangiare, ed aver veduto egualmente presso fra Dionisio Valerio Bruno servitore del Soldaniero. Attestò aver udito dal Soldaniero che non gli si teneva conto del guidatico, e che i Polistina e fra Cornelio lo avevano consigliato e costretto a deporre le cose di eresie. Attestò che il Pizzoni avea fatto fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio cercava farlo carcerare, che in Calabria era reputato un cattivo soggetto, avea rubati scritti a fra Dionisio e commessi altri furti, aveva avuto il mal francese e fatto udire molte cose in materia di donne. Attestò egualmente di propria scienza la pessima condotta del Lauriana in materia di costumi, e per detto altrui le lettere che avea scritte a Ferrante Ponzio revocando le cose affermate contro fra Dionisio e il Campanella. Infine attestò l'amicizia di fra Pietro di Stilo per fra Gio. Battista di Polistina nemico di fra Dionisio (come si vede, nulla di nuovo, e d'altronde il testimone era troppo ligato a fra Dionisio per potergli accordare molta fede).

Il 16 novembre si tenne l'ultima seduta, e furono interrogati il Barone di Cropani e Geronimo di Francesco, fatti venire dal Castello dell'ovo. Il Barone di Cropani, Antonino Sersale(228), narrò come egli si fosse adoperato per far perdonare dal Provinciale fra Dionisio quando costui ebbe grave punizione per aver bastonato un frate, come inutilmente avesse in tale circostanza procurato i buoni ufficii del Vescovo di Catanzaro e dell'Auditore De Lega presso il Visitatore, con la conseguenza rincrescevole per lui di essere ritenuto a motivo di queste trattative con fra Dionisio, "sospetto come li altri calabresi carcerati". Attestò per scienza propria le ottime qualità di fra Dionisio, e per detto altrui l'ostilità del Visitatore verso questo frate dietro antichi dissensi circa le controversie de' frati Riformati, come pure l'amicizia del Visitatore per fra Gio. Battista di Polistina nemicissimo di fra Dionisio. Attestò aver saputo da due Padri Gesuiti, mentre si trovava nelle carceri di Monteleone, che il Mileri e il Crispo, quando vennero giustiziati, dicevano con alte grida aver tutto deposto in materia di ribellione per forza di tormenti avuti dallo Sciarava; e la cosa medesima essersi detta di altri tre che vennero giustiziati sulla galera in cui egli si trovava, sebbene non l'avesse udito di persona poichè soffriva il mal di mare, specialmente di Gio. Battista di Nicastro (il Bonazza), che per questo motivo non voleva nemmeno riconciliarsi con Dio ma poi si piegò. Aggiunse essere anche in materia di fede fra Dionisio "da tutti tenuto per bonissimo Catholico". - Geronimo di Francesco disse di avere appena conosciuto fra Dionisio, e di poter attestare che tutte le accuse fatte a questi frati erano falsità, come aveva in parte udito e in parte saputo dal Pizzoni, aggiungendo che i due giustiziati in Catanzaro (Mileri e Crispo) avevano confessato di aver tutto deposto per forza di tormenti e persuasione dello Sciarava; (e così entrambi i testimoni confondevano troppo la materia della ribellione e quella dell'eresia).

Abbiamo già avuta occasione di dire che in questo stesso periodo di tempo, oltre gli esami difensivi per fra Dionisio, si fecero anche quelli pel Pizzoni. Costui presentò in sua difesa 34 articoli, e poi ne diede in supplemento pure qualche altro nell'ultima ora scrivendolo di suo pugno (sicchè a quel tempo dovè la lesione della spalla dargli un po' di tregua), ma i Giudici non vi badarono nemmeno(229). Secondo il solito volle provare che fin dal suo ingresso nella vita monastica avea vissuto religiosamente, e poi predicato ed insegnato ne' conventi principali, aggiungendo di avere strettamente digiunato ogni sabato e di non essere stato mai inquisito né processato. Che il processo fatto da fra Marco e fra Cornelio era falso, avendo ricevuto danari e donativi da diverse persone per fare un processo tale da guadagnarsi un premio. Che que' frati eccitavano gl'inquisiti l'uno contro l'altro dicendo che l'uno avea deposto contro l'altro, leggevano in precedenza all'uno l'esame raccolto dall'altro, facevano co' tormenti dire quanto loro piaceva. Che senza precedente denunzia, inquisizione o querela, aveano fatto carcerare esso Pizzoni, dicendolo pubblicamente nemico di Cristo e del Re. Che il fisco e gli ufficiali Regii promettevano premii e diedero indulti per far deporre contro la propria coscienza. Che un testimone del fisco, il Caccìa, aveva in punto di morte dichiarato di aver deposto il falso e se n'era fatta fede che esso Pizzoni riproduceva; inoltre questo Caccìa era stato sottoposto alla tortura mentre aveva la febbre e in tale condizione era stato sedotto da que' frati a nominare esso Pizzoni! Che i due Polistina erano suoi nemici, essendo lui stato a Roma contro di loro quando concorrevano al Provincialato. Che Giulio Soldaniero gli era nemico capitale e l'avea più volte minacciato, pretendendo che avesse nascosto Eusebio Soldaniero; e poi era stato eccitato da' Polistina a deporre contro di lui. Che Valerio Bruno era compagno di delitti e servo stipendiato del Soldaniero, e quindi non meritava fede; e poi egli medesimo confuso per le sue falsità avea detto a' Giudici, "misericordia signore, che sono ignorante". Che esso Pizzoni non era stato mai cacciato dal convento di Soriano, ma sempre accoltovi con affetto, e vi avea pure cantata la messa in presenza del Visitatore nel giorno di S.to Agostino (vale a dire il 28 agosto). Che il Campanella e fra Dionisio non aveano mai parlato di quelle cose che esso Pizzoni avea deposte, se non separatamente e fuori la presenza di alcuno; e il libro del Campanella stampato in Napoli non era scritto contro S. Tommaso ma contro Antonio Marta napoletano, e S. Tommaso vi si trovava nominato sempre colla massima riverenza (in questo contradiceva al Lauriana, col quale oramai il disaccordo era completo). Che avea sempre letto e predicato dottrine approvate dalla Chiesa. Che fra Dionisio gli era divenuto nemico mortalissimo da che esso Pizzoni avea deposto contro di lui molte cose intorno alla congiura e alla fede; fra Domenico Petrolo era stato eccitato a deporre contro esso Pizzoni da fra Cornelio, il quale glie ne lesse pure l'esame, oltrechè non avea potuto vederlo ammalato in Pizzoni due anni prima, perché allora esso Pizzoni si trovava in altri posti. Che mai vi era stata tra lui e il Campanella corrispondenza in cifra, che non era mai il Campanella venuto altre volte a Pizzoni, che quando ci venne fu perché volea vedere i Vescovi di Mileto e di Nicotera i quali dovevano là venire, che dopo di averlo esso Pizzoni cacciato dal convento, non gli scrisse mai più. Che se esso Pizzoni lo vide in Stilo, ciò fu per certo danaro che dovea restituire a un fra Marcello Basile, e per certo altro danaro che doveva esigere andò a vederlo presso il Marchese di Arena. Che avvertì il P.e Generale facendo scrivere la lettera al Lauriana e mandandola egualmente per costui alla posta di Monteleone, non appena seppe le cose delittuose del Campanella e di fra Dionisio. Che tutte le deposizioni de' frati furono fatte innanzi ad ufficiali Regii, ed anche innanzi a D. Carlo Ruffo, il quale era speciale nemico di esso Pizzoni per controversie passate tra loro. Che nel convento di Pizzoni egli non era stato se non durante tre mesi prima della sua carcerazione, mandatovi a forza da' Superiori suoi nemici, ed avea supplicato inutilmente di poter lasciare quel posto, solito ad essere frequentato da fuorusciti protetti dal Vescovo di Mileto, onde due Vicarii suoi predecessori aveano dovuto scapparne di soppiatto.

A questi articoli, redatti con un po' di disordine e con diversi errori di nomi, attestanti la poca cura dell'Avvocato e l'affievolimento del Pizzoni pur sempre infermo, venne aggiunto un elenco di testimoni rappresentati da tutti i frati inquisiti all'infuori di fra Dionisio  (oltrechè del Campanella come ben s'intende), da molti frati de' conventi di Calabria, e da taluni de' conventi di Napoli, dal Contestabile e dal di Francesco carcerati per la ribellione, dallo Spinola e dal Castiglia ed anche da un D. Francesco di Genova carcerati per altre cause, da Fabio Pisano disgraziato padre di Cesare dimorante in Calabria. E con una fiacchezza di accorgimento sempre più notevole, vennero tutti i frati inquisiti indicati come testimoni su tutti gli articoli indifferentemente, sicchè p. es. il Petrolo ed il Lauriana doveano provare anche le affermazioni contenute negli articoli addotti contro di loro; e può dirsi senza esitazione, che la difesa del Pizzoni, già essenzialmente scabrosa, fu mal condotta davvero. - Il fiscale Sebastiano diede dal canto suo appena 6 interrogatorii, contenenti le solite ammonizioni e generalità rutinarie, senza brigarsi menomamente de' fatti affermati negli articoli, tanto dovea sentirsi sicuro che non ve n'era bisogno. I Giudici poi chiamarono all'esame soltanto i frati inquisiti, lo Spinola e il Castiglia, il Contestabile e il Di Francesco, e in due sedute successive, il 14 e 15 novembre, esaurirono le difese del Pizzoni(230).

Il 14 novembre fu interrogato dapprima fra Paolo della Grotteria, il quale disse di conoscere da poco tempo il Pizzoni e non poter dare testimonianze sulla vita di lui; avere udito con molti altri carcerati in Monteleone Cesare Pisano affermare, che da suo padre era stato dato danaro ed altro al Visitatore e compagno, per passarlo dalla Corte temporale all'ecclesiastica; esser vero che il Visitatore e compagno, presenti Spinelli, Sciarava e il Vescovo di Gerace, minacciarono esso testimone se non avesse deposto contro il Pizzoni intorno al mangiar carne in tempo proibito; che D. Carlo Ruffo con suoi famigli era venuto nelle carceri a sedurlo e così pure fra Cornelio; che avea veduto minacce di pugni e di consegna alla Curia secolare, la quale procedeva a modo di campagna, fatte al Petrolo e a fra Pietro di Stilo. Avere udito parlare della fede fatta dal Caccìa a tempo della sua morte, ma non averla veduta; poter attestare che il Caccìa fu tormentato mentre avea la febbre, ma non sapere se il Visitatore e compagno fossero stati presenti. Avere udito da un birro che i due Polistina coll'intervento di un secolare, il quale doveva essere Giulio Soldaniero, avevano fatta una lista di accuse, non sapere se il Campanella e fra Dionisio avessero parlato o no di eresia, ma poter attestare che il Pizzoni si era con lui lamentato del Visitatore e compagno, perché con buone parole e promesse di liberazione, al pari di D. Carlo Ruffo, l'aveano indotto a deporre contro que' due frati, ed egli l'avea fatto tanto più perché pensava di non avere a nuocere a fra Dionisio che era fuggito; potere inoltre attestare che nella Chiesa di Pizzoni fra Dionisio avea parlato al Pizzoni con sdegno. Su tutto il resto disse non saper nulla (la difesa del Pizzoni già cominciava a risultare ben altro che difesa, e se venivano a galla tutte le infamie del Visitatore e di fra Cornelio, non per questo il Pizzoni se ne giovava). - In sèguito il Petrolo disse del pari aver conosciuto poco il Pizzoni, avendolo veduto appena una volta in Stilo e poi nel carcere; sapere che era buon predicatore e letterato ma assai maledico, e che avea cominciato a digiunare il sabato da sole tre o quattro settimane! Aver udito in Gerace che il Mesuraca avea dato 100 scudi a fra Cornelio per far processare mortalmente i frati inquisiti, a fine di guadagnarsi il taglione sopra il Campanella ed esso Petrolo; aver udito in Monteleone da Cesare Pisano ed anche dal padre di costui, presenti altri frati, che erano stati dati 100 scudi e robe di tela a fra Cornelio, convenendo di far dire cose di eresie per passare al foro ecclesiastico. Essergli stato da fra Cornelio letto in gran parte l'esame del Pizzoni, ma non detto che dovesse deporre contro il Pizzoni. Essergli stato detto dal Pizzoni che fra Cornelio, presente Geronimo di Francesco, l'istruiva nella carcere su quanto avrebbe dovuto deporre; poter assicurare che esso testimone medesimo era stato visitato nella carcere da fra Cornelio, il quale voleva fargli sottoscrivere un verbale che egli non voleva sottoscrivere, "e disse con giuramento, dicendo per queste mani, monstrando le mani sue, che tu non hai da uscire da questo Castello se non in pezzi, et io mi humiliai, et esso col visitatore mi sputavano in faccia con dire non basta questo, ma volevano che io dicesse delle cose che non sapeva... et il Sciarava mi pigliò una volta per il petto, è mi condusse alla banca sotto la corda, et voleva che confirmasse lo mio esamine quale io non voleva confirmare per le falsità che contineva". Dichiarò inoltre che tutti i frati di S. Domenico erano chiamati ribelli, che ognuno de' persecutori si aspettava un premio, e di fra Cornelio si diceva che sarebbe stato fatto Arcivescovo di Toledo! Avere udito che il Caccìa avea fatto fare una fede per ismentire le falsità deposte, e che era stato tormentato mentre avea la febbre; aver saputo da lui medesimo, in Squillace e poi in Monteleone, che era stato esaminato contro il Pizzoni e avea deposto il falso; ma i Giudici gli fecero osservare d'officio che dal processo si rilevava essersi le deposizioni del Caccìa avute senza tormento, e il Petrolo ripetè che in Gerace aveva avuta la corda (erano state confuse negli articoli le deposizioni sulla congiura e quelle sull'eresia, e i testimoni continuavano in tale confusione). Avere udito che il Pizzoni non era nemico ma amico del Polistina (confusione di due periodi diversi); aver saputo dal Pizzoni medesimo che fra Dionisio non gli avea dette tante eresie; e che glie le avea dette recitativamente; nulla poi aver saputo intorno al Campanella. Poter assicurare che il Pizzoni era stato esaminato innanzi al Visitatore e compagno, allo Spinelli e allo Sciarava, come esso medesimo era stato esaminato; che anzi lo Spinelli e lo Sciarava volevano esaminarlo soli ed egli si rifiutò di rispondere dicendo che era ecclesiastico, ma Sciarava gli disse che non lo era più, perché aveva allora lasciato l'abito, e finirono per interrogarlo (ma questo era accaduto in Gerace, e il Pizzoni avea già deposte tante cose propriamente in Monteleone, fuori la presenza dello Spinelli e dello Sciarava). Sugli articoli che concernevano direttamente la persona sua, confermò essergli stato da fra Cornelio letto in gran parte l'esame del Pizzoni ma non fatto eccitamento a deporre contro il Pizzoni; confermò inoltre aver veduta una lettera in cifra che il Campanella gli disse essere stata scritta dal Pizzoni. Su tutto il resto dichiarò non saper nulla. - Venne poi la volta del Lauriana, il quale disse aver conosciuto il Pizzoni da molto tempo, non essergli amico né nemico, sapere che era buon predicatore ma non che digiunasse o no. Aver udito dal Pisano e dal padre di costui il pagamento e regalo fatto a fra Cornelio; aver saputo dal Caccìa essere stato spinto a deporre contro il Pizzoni dietro assicurazione che il Pizzoni avea deposto contro di lui. Avere lui medesimo avuta dal Visitatore e compagno la minaccia di essere consegnato allo Sciarava, il quale diceva volergli dare la corda. Avere udito dal Caccìa che molte cose erano state da lui deposte contro il Pizzoni e che venendo in Napoli si sarebbe ritrattato; sapere che il Caccìa era stato sottoposto alla corda mentre aveva la febbre, ma non sapere se il Visitatore e compagno vi fossero intervenuti. Avere il Soldaniero scritto a Claudio Crispo lamentandosi che in Pizzoni si desse ricetto ad Eusebio suo nemico, la qual cosa non era vera. Riferirsi al suo esame circa la presenza contemporanea del Campanella e fra Dionisio in Pizzoni quando si parlò di eresia, e così pure circa la lettura del libro stampato dal Campanella. Esser vero che il Pizzoni leggeva la dottrina di S. Tommaso, che era stato Teologo del Vescovo di Nicotera, che era andato presso il Campanella per le ragioni da lui addotte. Avere scritto realmente la lettera al Generale, con cui il Pizzoni rivelava le cose del Campanella e di fra Dionisio, ed averla lui medesimo portata alla posta. Nel suo primo esame non esservi stati altri esaminatori che il Visitatore e fra Cornelio, senza intervento di persone laiche. Esser vero che il Pizzoni si lamentava sempre del Provinciale e del Polistina i quali l'avevano mandato nel convento di Pizzoni, e che in questo convento erano stati sempre ricoverati banditi, da' quali una volta il Vicario predecessore del Pizzoni aveva avuto minaccia di essere buttato dalla finestra.

Il 15 novembre si venne agli esami di tutti gli altri testimoni. E dapprima fu esaminato fra Pietro di Stilo, il quale, come sempre, ebbe di mira principalmente la difesa del Campanella, sicchè il Pizzoni non potè punto giovarsene. Egli disse aver conosciuto il Pizzoni da otto anni, averlo avuto a lettore in Briatico, essergli amico, essere rimasto con lui una volta che gli altri scolari gli si ribellarono; sapere che era buon lettore e buon predicatore, ma di vita scandalosa. Confermò di avere udito da alcuni preti in Gerace che a fra Cornelio erano stati dati danari da Misuraca, perché aggravasse la condizione de' frati e così egli guadagnasse la taglia; si diffuse sull'argomento de' premii e quindi della falsità del processo, dicendo, "chi pretendeva per questa causa di voler essere vescovo, chi cardinale, chi conte, chi una cosa, et chi un'altra, et comunemente fra Cornelio et il visitatore si tenevano vescovi, et quelli preti dissero con pietà, la causa di questi monaci non può andare bene perché li istessi monaci li cacciano, et altro non mi racordo per ora, Et poi si il processo sia falso, dico che frà Gio. Battista da Pizzone et frà Silvestro de Lauriana separatamente l'uno dall'altro mi hanno detto che hanno detto la falsità, et per questo bisogna che il processo sia falso, quanto poi alli Giudici ciò e, Visitatore, et compagno, facevano, è dicevano tante cose, come saria pigliavano me, è mi conducevano avanti li giudici secolari, et dicevano, ve lo consegno per tre hore, facciati quel che vi piace, è se partivano..., di più dicevano si tu confessi non morirai, è sarai libero, et haverai premio, et altre parole simili, et l'istesso anco mi è stato fatto da don Carlo Ruffo è da quello di casa guagliardo (intend. Ottavio Gagliardo) à Monteleone...; fra Cornelio si monstrava non amico, mà servitore deli giudici secolari, et l'istesso visitatore pareva che dependesse da frà Cornelio, et per tutte queste cose, et altre, hò anco sospetto che per mali modi tenuti dal visitatore, è compagno che il processo sia falso". Disse poi non sapere che si leggessero prima a' testimoni gli esami raccolti contro di loro, ma saper bene che i giudici "fingevano et dicevano parecchie cose contra il Campanella, frà Dionisio, et il Mauritio, che erano tristi, et scelerati, et heretici, è che fra thomaso Campanella havea predicato publicamente le heresie, Et io facendo instantia di vedere le cose che mi dicevano non me le volevano monstrare, è poi mi dicevano hor su tu vuoi morire...". Ed inoltre: "fra Cornelio con belle parole, è lusinghe mi voleva persuadere à dire quel che lui voleva, ciò e, che io accettasse l'esamina deli altri, dicendomi tu solo non puoi portare il carro et si tu solo sarai pertinace, tu solo morirai, monstrando certe pietà, è forfanterie con me, et ultimamente sempre mi lassava con bravarie... Facevano gran cose per fare confessare, e massime frà Cornelio, il quale mi minacciava la morte, et io risposi pacientia, più presto la morte che offendere Dio". Dichiarò non conoscere che il Caccìa avesse fatta una carta di ritrattazione, ma conoscere che fu tormentato mentre avea la febbre senza essere informato se v'intervenisse o no il Visitatore ovvero fra Cornelio; poter poi attestare, avendolo udito dal Caccìa medesimo, che si lamentava di fra Cornelio perché l'avea sedotto a dire la falsità con l'assicurazione che avrebbe così evitata la corda, onde diceva aver deposto la falsità per la corda (evidente ripiego per profittare in qualche modo di un articolo scioccamente redatto). Disse di sapere che il Soldaniero si era lamentato di fra Dionisio (anche di fra Dionisio), del Pizzoni e del Lauriana, perché ospitavano Eusebio fuoruscito suo nemico; sapere per detto di fra Paolo che il Soldaniero si era concertato col Polistina in questa faccenda, e che a lui parea vero, mentre il Polistina avea tentato di sedurre lui medesimo perché deponesse contro fra Dionisio (ma non si pronunziò sulla inimicizia sorta tra il Pizzoni e i Polistina). Dichiarò non potere esser vero che fra Dionisio avesse dette eresie al Pizzoni, mentre nel principio di luglio, essendo in Stilo e sapendo che vi era venuto il Pizzoni, corse a prendere un candeliere dall'altar maggiore per ucciderlo, a motivo di certi scritti rubatigli da lui; ed esso testimone col Campanella doverono quietarli, promettendo il Pizzoni che avrebbe restituiti gli scritti e mandatili ad Arena (mezzo di difesa venuto in campo negli ultimi tempi). Dichiarò non sapere che il Pizzoni avesse accusato fra Dionisio a' superiori; potere invece attestare, che il Pizzoni voleva persuadere esso testimone a dire che avea veduta una lettera da lui scritta allo Sciarava e che costui glie l'avea mostrata, la qual cosa era "bugia tremendissima"; potere attestare ancora che il Lauriana avea detto ad esso testimone non esser vero che avesse portato alla posta una lettera del Pizzoni al P.e Generale (troppe confidenze ricevute). Quanto a fra Domenico Petrolo, dichiarò non sapere che costui avesse avuto terrori da fra Cornelio perché deponesse contro il Pizzoni, ma avere udito dal Petrolo medesimo che aveva avuto terrori per deporre contro il Campanella e fra Dionisio (sempre confidenze da tutti costoro, che pure lo conoscevano amico intimo del Campanella). Quanto al non avere più il Pizzoni trattato col Campanella dopo di averlo cacciato dal suo convento, dichiarò constargli il contrario, mentre essendo il Campanella in Pizzoni verso la fine di luglio, fu pregato di volervi rimanere ulteriormente, e vi rimase tre giorni più di quanto si era proposto; aver sempre il Pizzoni pregato il Campanella che si recasse al convento di Pizzoni, averlo anche in Arena pregato in tal senso, sicchè per queste falsità non avrebbe dovuto farlo esaminare come testimone! Esser vero che quando il Pizzoni venne a Stilo portò certi danari a M.° Marcello Basile, come "ne portò anche al speciale che li curò il mal francese"! Sapere che fra Gio. Battista di Polistina l'avea processato per i suoi delitti; sapere che in Pizzoni vi erano banditi, ma non sapere che vi fossero prima che ci andasse per Vicario il Pizzoni (altro che difesa; il Pizzoni amico infedele, doveva essere trattato come un deciso nemico, oltrechè dimostrato testimonio falso per le seduzioni e il terrore incussogli da fra Cornelio). - Venne di poi il Bitonto, il quale disse aver conosciuto il Pizzoni da dodici anni, averlo saputo di mala vita, essere stato tenuto per scandaloso e maligno. Avere udito da Fabio Pisano la faccenda de' danari e regali dati a fra Cornelio per far liberare il figlio dalla morte, e da' carcerati la faccenda de' danari pagati allo stesso fra Cornelio dal Mesuraca, per far processare mortalmente il Petrolo e il Campanella. Avere fra Cornelio detto a lui medesimo che il Pizzoni gli si era esaminato contro, eccitandolo così a deporre contro il Pizzoni; e dicendo lui che non sapeva nulla, avere avuto da fra Cornelio minaccia di consegna a' Giudici secolari. Sui cattivi modi di esame, e sulle speranze de' premii da parte de' Giudici e persecutori, disse: "usorno milli stracie verso di noi il fra Cornelio, et l'Avocato fiscale, et Carlo Spinello, acciò per le stracie dicessimo quello che volevano loro..., quello che pigliò à me pretendeva di acquistare una baronia, è don Carlo Ruffo, pretendeva essere Prencipe de Stilo, è frà Cornelio per quanto disse l'Avocato fiscale se li saria procurato un vescovato, et io udì quando che il fiscale disse questo in risposta che diceva non haveria mancato di fare tutto quello che havesse possuto in servitio del Re Catholico al quale era devoto". Intorno al Caccìa disse sapere che gli fu data la corda mentre aveva la febbre e che in particolare gli fu dimandato del Pizzoni, ma non sapere chi ci fosse presente e se vi fosse intervenuto il Commissario e compagno. Intorno alle relazioni tra il Pizzoni e il Polistina, disse sapere che il Pizzoni era andato a Roma per mostrare che l'elezione del Polistina al Provincialato non era valida. Confermò che il libro del Campanella era scritto contro un certo Marta napoletano (egli solo tra' testi si trovò in possesso di tale notizia). Confermò che il Petrolo era stato eccitato da fra Cornelio a deporre il falso contro il Pizzoni, dicendo averlo saputo dallo stesso Petrolo ed aggiungendo essere stato lui medesimo presente alle bravate di fra Cornelio verso il Petrolo. Su molti altri articoli, sulla condotta del Soldaniero messosi di accordo co' Polistina, su' fatti del convento di Soriano, sulle relazioni del Pizzoni con fra Dionisio e il Campanella disse non saper nulla; sulla presenza di banditi nel convento di Pizzoni disse aver saputo dal Lauriana che c'erano già prima che il Pizzoni ci andasse per Vicario (e ben si vede che le testimonianze del Bitonto furono pel Pizzoni assai migliori di quanto si poteva attendere).

Nella stessa seduta furono esaminati i rimanenti testimoni, chiamati a deporre sopra determinati articoli. - Cesare Spinola disse di conoscere un frate chiamato fra Gio. Battista di Pizzoni ma non avergli mai parlato; non sapere che il Soldaniero si fosse messo d'accordo co' Polistina contro il Pizzoni; sapere bensì che Valerio Bruno passava per servitore del Soldaniero. - Giulio Contestabile disse aver conosciuto il Pizzoni nelle carceri; poter attestare che il Caccìa avea deposto contro esso testimone e al momento dell'estremo supplizio si era ritrattato, onde egli se ne avea procurata dai confortatori una fede che aveva presentata in giudizio a sua difesa; non conoscere i Polistina e non sapere che si fossero concertati col Soldaniero a danno del Pizzoni, sapere che Valerio Bruno era da tutti tenuto per servitore del Soldaniero. - D. Francesco di Castiglia disse non conoscere il Pizzoni personalmente, non saper nulla del concerto del Soldaniero co' Polistina, sapere che Valerio Bruno era servitore del Soldaniero. - Infine Geronimo di Francesco disse aver conosciuto il Pizzoni solamente nelle carceri di Gerace, dove stava con lui in una medesima camera, ed aggiunse: "essendo priggione con frà Gio. Battista di Pizzoni, venne un frate rossetto, di bassa statura, e giovane quale lo chiamavano il compagno del visitatore, e per nome intendo si chiama frà Cornelio, et parlando con fra Gio. Battista udii che disse: Padre frà Gio. Battista mio bisogna per sutterfuger lo giudicio temporale che deponestivo in materia dal Santo Officio, et confermassi l'esamina fatta, et à questo modo si daria satisfatione à questi Signori, ciò e, al Advocato fiscale di Calabria, et saressi forzato di andare in Roma per ordine del Santo officio, Et questo detto si appartorno un poco da me che io non potesse udire et raggionorno quasi mezza hora secretamente che non udii, mà dopò frà Gio. Battista mi disse che il Compagno non havea parlato solamente come da se, mà mandato dal Padre visitatore à posta per persuaderlo à quanto hò ditto di sopra". Ed interrogato d'ufficio dichiarò ancora: "frà Gio. Battista disse così confusamente per che io non volsi sapere quel che havea deposto, che esso si era esaminato avanti don Carlo Ruffo, et che era molto attimorato, è mi giurò sopra li ordini che lui tiene, che delle cose che lui havea deposto, non ne sapeva niente, et che si Dio li faceva gratia di venire in buona sanità, che alhora havea certi discensi molto fastidiosi nelle braccia, voleva morire in una corda per mantenere la verità, essendo che quello che haveva detto non era la verità, et à questo niuno altro fù presente perche noi doi soli eravamo in quello carcere" (troppe confidenze). Intorno alle sevizie da parte del Visitatore e compagno dichiarò, che al Petrolo esaminato da fra Cornelio, "perche non disse come voleva esso, li levò il ferrarolo, et il cappello essendo alhora in habito secolare nel quale era stato preso, et lo fece tornare alla carcere che pareva un pescatore, et io lo viddi senza cappello, e senza ferrarolo, per il che mi mossi à dimandarli perche non havea il cappello, et il ferrarolo, et esso mi racontò quanto hò ditto". Intorno al Caccìa, disse che "fu tormentato à tempo che havea la febre, et l'Avocato fiscale fece venire un medico, il quale dubitando di non essere carcerato, disse per quanto si è inteso che si li poteva dare la corda". Dichiarò per altro non sapere che il Visitatore e compagno vi fossero intervenuti, ed aggiunse: "quando questo Gio. Thomaso Caccìa et Gio. Battista Vitale furono giustitiati io mi trovai presente su le galere, et questi doi publicamente dissero, havendo anco chiamato prima l'Avocato fiscale, è li padri dela Crocella, et Maestro Cesare Pergola franciscano che era passiggiero, che quanto havevano detto contra di loro nelli tormenti, poiche non voleva credere detto fiscale che fusse mentita, è falsità, e perciò si contentavano di morire; mà in quello che toccava li altri dichiaravano che quanto havevano detto tanto in materia di ribellione come del Santo officio tutto era falsità, è fecero instantia che ne facesse fare atto publico, mà esso non volse" (dichiarazioni evidentemente troppo larghe, estese anche alla congiura, della quale lo stesso Di Francesco era stato almeno persecutore; in quanto al Pizzoni poi testimonianze di accusa, non di difesa). E così ebbero termine gli esami difensivi pel Pizzoni.

Ecco ora gli esami informativi sulla pazzia del Campanella, che si fecero contemporaneamente agli anzidetti, in due sedute, il 6 e il 15 novembre, ad istanza del suo procuratore. Senza dubbio vi erano state da parte de' Giudici sollecitazioni per procedere alle difese del Campanella, poichè il Dello Grugno era entrato in funzione non prima del 31 ottobre, e ben presto fu presentata una comparsa scritta chiedendo un'informazione sulla pazzia; onde con appena sei giorni d'intervallo le si diè principio(231). La comparsa, che trovasi inserta nel processo, non reca il nome di chi la scrisse, ed è redatta in latino ne' seguenti termini che diamo tradotti: "Innanzi agl'Ill.mi e Rev.mi Signori giudici delegati dal Santiss.mo S.r N.° nella causa di fra Tommaso Campanella dell'ordine dei predicatori carcerato nelle carceri del Castel nuovo, comparisce il procuratore dello stesso e dice, che il detto frate, da alcuni mesi in quà, è stato ed è in manifesta demenza, è stato ed è privo totalmente d'intelletto, siccome è apparso ed evidentemente apparisce dalle sue parole e da' suoi gesti, poichè a modo dei matti sempre ha detto e continuamente dice parole risibili, non a proposito, stravaganti; e però che non si possono fare per lui difese intorno alle cose delle quali trovasi inquisito, mentre a volerle fare bisognerebbe cavarle dalla bocca sua. Laonde chiede gli si conceda un termine conveniente per provare la predetta demenza, e frattanto si sospenda ogni cosa, premessa la protesta di non decorrenza del termine concesso per le difese..." etc. I Giudici diedero immediatamente corso alla dimanda, e cominciando dal carceriere esaminarono dieci testimoni, de' quali poterono aver notizia da' primi esaminati. Dobbiamo anche dire che nella prima seduta intervennero il Vescovo di Termoli, il Vicario Arcivescovile di Napoli e l'Auditore Antonio Peri (il Nunzio era pur sempre occupato in altre faccende), e nella seconda seduta raccolse gli esami il solo Notaro e Mastrodatti Prezioso per mandato dei Giudici. Daremo con tutta la larghezza possibile le cose raccolte, poichè esse non solo addimostrano la vita, almeno la vita apparente, del povero filosofo, ma anche rivelano le sue vedute e le sue tendenze in questo periodo molto importante della sua prigionia.

Il 6 novembre Alonso Martinez, carceriere, esaminato disse avere più volte parlato al Campanella, che gli avea risposto sempre "spropositatamente", e narrò come l'avea trovato la prima volta pazzo nel giorno di Pasqua, col letto bruciato e la prigione piena di fumo, giacente a terra e poco dopo furioso al punto da esserglisi avventato contro per morderlo; tutte le circostanze già da noi dette altrove (ved. pag. 86). Interrogato se credesse che simulava la pazzia per isfuggire le pene forse dovutegli, rispose, "à giudicio mio il Campanella è pazzo". Indicò lo Spinola, il Castiglia, il Contestabile, il Grillo, tra coloro che potevano essere esaminati sull'incidente. - Giuseppe Grillo disse non avere parlato al Campanella, ma averlo visto quando il carceriere andava a dargli da mangiare; narrò che "diceva parole spropositate, è che voleva fare la bibbia, è la Cruciata, et pigliava le scarpe, è quando altra cosa, et faceva cose da pazzo". Indicò come contesti il Salerno, il Ricciuto, il Marrapodi, lo Stanganella, il Tirotta: interrogato se credesse che era finto pazzo, rispose crederlo "pazzo vero, perche la fintione in tanto tempo saria scoperta". - Cesare Spinola disse: "io hò visto et parlato col Campanella molte volte, secondo l'occasioni, et sempre hà parlato spropositatissimamente, et io alle volte ci hò posto pensiero particolare per vedere si era cosa finta ò reale questa sua pazzia, et in somma à mio giudicio è pazzo per le cose che l'hò sentito à dire, è dice che aspetta il Papa, et l'indulgentia per la cruciata, che bisogna che il Papa sia Monarcha, et à me diceva che mi voleva fare Confaloniero della Cruciata, mà con patto che io dovesse digiunare quaranta giorni, et quaranta notti"! (non poteva riuscire più esplicito). - Giulio Contestabile disse: "dicono che frà Thomaso Campanella sia pazzo, è così quando il carceriero li porta da mangiare sono andato à vederlo et sentire li spropositi che lui diceva, non che io l'habbia parlato in secreto ne di cose particolari"; inoltre, "dalle cose che lui ha ditto è fatto io lo giudico per pazzo, e potrebbe essere che lui simulasse, mà però dagli effetti lo giudico pazzo" (sempre riservato e cinto di cautele; era compatriotta del Campanella e clerico). - Marcello Salerno disse: "sempre dice parole al sproposito, et hier sera cercando del pane da noi altri carcerati, et non havendo, esso Campanella disse, questi diavoli di soldati che hò mandato alla Cruciata tutto se lo mangiano..; subito cominciato una cosa passa in un'altra...; io per quello che hò visto lo giudico pazzo". - D. Francesco di Castiglia disse: "io hò udito frà Thomaso Campanella parlare dalla porta della priggione, quando si li dava da mangiare, et anco dala finestra, è li raggionamenti suoi sono stati sempre mai spropositati, et io hò posto particolar cura per farlo parlare alcuna cosa à proposito in materia di filosofia, ò in altra cosa curiosa, et esso sempre risponde, di fare la Cruciata, et che spetta (intend. aspetta) sua Santità, è dalla fenestra cominciò à dimandare il populo che andava à vedere ad impiccar uno, è diceva che li voleva dare il confalone dela cruciata che faceva, è milli altri spropositi..; l'animo suo non lo posso giudicare, ma dico bene che le parole sue, et atti sono da pazzo, ne mai l'hò potuto cavare da bocca cosa al proposito, et quando ultimamente li fù data la corda si lamentava che li forausciti l'havevano robbato trenta carlini, et l'havevano battuto assai in milli modi, senza dir parola che li fosse stata data la corda per ordine delle Signorie Vostre".

Il 15 novembre furono dal Prezioso esaminati i rimanenti testimoni. Gio. Angelo Marrapodi disse: "molte volte io hò udito à parlare fra thomase Campanella dentro le carceri dove stà, et il parlare suo è al sproposito dicendo delle parole spropositate, et parla pazzescamente, perche comincia a dire una cosa, et lassa quel parlare, et entra in altre parole..; lo tengo per pazzo come è tenuto dali altri..." - Gio. Battista Ricciuto disse: "da che si è ditto che frà thomaso Campanella sia pazzo, io con curiosità più volte lhò parlato, et anco inteso quando altri li hanno parlato, à tempo che il carceriero hà aperto la porta dela carcere dove stà per darli da mangiare, et ogni volta che hà parlato con altri hà parlato molto spropositatamente come soleno parlare li pazzi, et quando io, ò altri lhavemo dimandato qualche cosa non ha risposto à proposito, uscendo à diversi raggionamenti, che non ci era proposito, et hò visto che quando parla fà atti di pazzo, non stà fermo in un loco dela carcere, mà passeggia, è si hà soluto affacciare alla fenestra dela sua carcere, è chiamare dicendo ò Jaconi del convento, che si fà, venete quà che ci mancano cavalli, è dice che vole fare lo confaloniero, et che vole fare la cruciata, et chi vole fare capitano, è chi alfieri, è sargente maggiore, et che il Papa lhave scritto che metta in ordine li cavalli, e li soldati, tal che sempre lhò inteso parlare al sproposito, e fuori di raggione come soleno parlare li pazzi, et dicontinuo dice di simili cose, et quando parla fa molti segni con la bocca, è con li occhi, et con le mani, et alle volte piglia lo terreno dall'astraco dela carcere, è la butta in faccia di quelli che li parlano, et quando piglia li suoi scarponi che porta in piedi, è con quelli dà, et sequita quelli che sono ne la sua carcere...; da tutti quà in castello è tenuto per pazzo... et à giudicio mio dico che è pazzo, che si non fusse tale qualche volta parlaria al proposito". - Marco Antonio Stanganella, oltre le solite cose, disse: "alle volte salta, alle volte gioca di mano ad alcuno, e con li suoi scarpuni dà à quelli che li parlano, e li tira mò ad uno, et mò ad un altro, et alle volte hà detto che aspetta il Papa, e che voleva far confaloniero il Sig.r Cesare, et alle volte si accosta ala fenestra dela sua carcere, è gridando, dice ò Jaconi Jaconi del convento mettetivi in ordine che viene il Papa, e così sempre io lhò visto fare atti al sproposito, è parlare al sproposito...; è tenuto da tutti li carcerati per pazzo, ed anco da altri che vengono in castello che lo sentono parlare, et io lo tengo per pazzo". - Da ultimo Tommaso Tirotta disse: "sempre vole parlar esso, et hà udito che ha detto parole al sproposito, et dice che vole fare la Cruciata, et che aspetta il Papa, et diceva ò là scopati bene, acconciati le stantie per il Papa, et che have tanta migliara di cavalli, et vole fare soldati, et che vole fare confaloniero il Sig.r Cesare Spinola che stà quà carcerato, et à me disse una volta che mi voleva fare artiglieri, che havesse cura dell'artegliarie, et chiama li Jaconi del convento, et per nome sole chiamare frà Giovannello, e fra luca, e fra nicodemo, e sole chiamare Scannaribecco(232), e così di continuo hà parlato, e sole menare à quelli che li parlano terreno in faccia, li scarpuni che porta in piedi, et và saltando per le carceri, e fà altri atti al sproposito, et parla spropositatamente, giusto come li pazzi, et quando ebbe la corda quà ultimamente, non si lamentava dela corda, ma diceva solo che li forasciti lhavevano tirato delle archabusciate, e dato delle bastonate, e che ne voleva scrivere al Papa, et mai hà parlato ne risposto à proposito, et hieri per ultimo lo viddi e fece il medesimo...; a giudicio mio lo tengo per pazzo, et così è tenuto dalli altri, et in quanto à me non lo posso passare per sapio, mentre parla al sproposito e risponde al sproposito, e fatti atti (sic) spropositatamente, come ho ditto". - Adunque tutti e dieci i testimoni affermarono che il Campanella era realmente pazzo; quasi tutti poi affermarono la sua mira verso il Papa, che doveva essere Monarca secondo la testimonianza dello Spinola, che doveva fare la Crociata secondo la testimonianza della massima parte; e si conosce che questo disegno della Crociata era una delle idee fisse di Clemente VIII, e si comprende che essa conveniva molto al Campanella accusato di connivenza col Turco. I carcerati accorrevano presso di lui quando il carceriere ne apriva la prigione, e così pure coloro i quali solevano venire a visitare i carcerati, per la curiosità di vedere il pazzo.

Esauriti gli Atti pe' tre inquisiti principali, si sarebbe dovuto passare a quelli per gli altri frati; ma per essi non si fece nulla. Probabilmente i Giudici ritennero che le difese di costoro si trovavano incluse in quelle de' principali; tuttavia non ne abbiamo veramente alcuno indizio. Abbiamo soltanto una comparsa di fra Pietro di Stilo, il quale, col suo squisito buon senso, esponeva "che li giorni passati essendoli stati à bocca dichiarati dal Sig.r Avvocato Scipione Stinca alcuni capi sopra li quali li fu da quello, come anco dalle SS.rie V.re detto che si volesse difendere.... hà risoluto, conoscendo penitus la sua innocentia sensa niuna culpa, renuntiar dette sue defese... havendo per rato, fermo, et valido quanto faranno le ss.rie loro". Ciò in data 17 novembre, vale a dire immediatamente dopo terminati gli Atti pe' principali.

Nello stesso giorno 17 novembre una copia degli Atti, formata a misura che essi si compivano, fu inviata con una lettera del Vescovo di Termoli al S.to Officio di Roma, secondochè rilevasi da un'annotazione inserta nel processo originale ed anche da una lettera del Nunzio al S.ta Severina in pari data(233). Certamente insieme con la copia degli Atti dovè essere inviata anche una copia de' documenti che fra Dionisio avea presentati, e così pure de' documenti che aveva indicati e che il Vescovo di Termoli si era dato a raccogliere con la più viva premura. Il Vescovo avea raccolto dall'altro tribunale la copia dell'indulto concesso al Soldaniero e a Valerio Bruno da Carlo Spinelli per opera di fra Cornelio, le copie dell'esame del Pizzoni, delle confronte del medesimo Pizzoni col Campanella e con fra Dionisio, del primo e secondo esame del Petrolo, delle cartoline trovate sulla persona del Campanella quando ebbe il tormento del polledro; e così ci sono pervenuti questi preziosi documenti inserti nel processo dell'eresia(234). Egli aveva chiesto pure una copia delle lettere inviate dal Lauriana a fra Dionisio, che avrebbero dovuto trovarsi egualmente nel processo fatto dall'altro tribunale; ma, come si rileva da quanto ne scrisse a Roma e fu rammentato ne' Sommarii de' processi, le lettere non vi si trovavano ed erano state forse perdute. Aveva inoltre chiesto il Breviario del Pizzoni, che recava la corrispondenza scritta tra esso Pizzoni e il Campanella, ed ebbe a sapere che questo Breviario nemmeno si trovava ed era stato sicuramente perduto. Non potendo rassegnarsi a questa perdita, il buon Vescovo pensò allora di rivolgersi a fra Dionisio medesimo, dimandandogli a nome del tribunale una relazione particolareggiata sulla faccenda del Breviario; e la relazione, trascritta da fra Pietro Ponzio, venne anch'essa inserta nel processo tra' documenti a difesa di fra Dionisio(235). Diciamo qui di passaggio che molto più tardi a questa massa di documenti fu aggiunta anche una fede di alcuni frati carcerati, compreso il Lauriana, e di alcuni laici, attestanti che il Pizzoni più volte, e segnatamente tre giorni prima della sua morte, avea dichiarato di essere debitore di fra Dionisio degli scritti dell'Apocalisse da lui presi (confessione del furto fatto) del valore di D.i 10, come pure di D.i 4 avuti in prestito, commettendo al Lauriana di notificare a fra Dionisio dove si trovavano le sue robe in Calabria acciò sopra quelle fosse soddisfatto; inoltre, sempre più tardi, una fede del clero di Fiumefreddo, attestante le ottime qualità di fra Dionisio dimostrate due volte in quel paese con la predicazione cattolica, la bontà della vita e il fervore di carità, e questa fede potè essere inserta solamente nel 4° volume del processo. Aggiungiamo pure che il Vescovo di Termoli provvide che fosse interrogato di ufficio fra Pietro Ponzio sulla asserta domanda di perdono fattagli dal Lauriana in Gerace, ed egualmente che fosse istituita una perizia calligrafica sulla lettera che era stata presentata come scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio; e furono questi gli ultimi Atti processuali complementari, che si fecero durante la commissione tenuta da quel rispettabile Prelato.

Il 21 novembre, d'ordine de' Signori Giudici, il Prezioso riceveva in Castel nuovo la deposizione di fra Pietro Ponzio(236), il quale, con molte particolarità e citando i testimoni, espose la comunicazione fattagli dal Lauriana in Gerace nella carcere detta la Marchisa; l'inquietudine da lui mostrata perché si trovava "in mano del diavolo" avendo deposto molte falsità in materia di S.to Officio contro fra Dionisio e il Campanella, ad istanza del Pizzoni e parimente del Visitatore e compagno dietro minacce e promesse; la determinazione del Lauriana di volersi ritrattare con la dimanda del come dovesse procedere, e il rifiuto fattogli da esso fra Pietro di volersene occupare, per non trovarsi intrigato in queste faccende dubitando di commettere errore; la consegna di una lettera scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio per dimandare a costui il consiglio rifiutatogli da esso fra Pietro, e l'invio di detta lettera al suo destino; la non avvenuta ritrattazione del Lauriana in Gerace per paura dello Spinelli e dello Sciarava, e la dimanda di perdono avuta da lui in tale occasione; la nuova comunicazione fattagli in Napoli di volersi ritrattare, con l'invio di un'altra lettera a Ferrante Ponzio, la quale ultima lettera era stata presentata nella causa della congiura, mentre la prima, passata nelle mani di fra Dionisio, era stata presentata nella causa dell'eresia.

Il 3 e 4 dicembre furono raccolte le deposizioni di due periti calligrafi su questa lettera dal Vicario napoletano Ercole Vaccari "congiudice" nella Curia Arcivescovile. Gio. Antonio Trentacapilli "scrittore" disse che "essendo prattico, et versato nel scrivere diverse sorte di lettere cossi cancellaresche, come tonde, et corsive, potria conoscere per qualche similitudine di tratti, e di sillabe et di ligature di sillabe, et conietturare si fussero scritte da una mano istessa"; e mostratagli la lettera del Lauriana in data di Gerace 10 ottobre 1599 ed alcune sottoscrizioni del Lauriana medesimo agli Atti processuali, disse: "fatta la comparatione da lettera à lettera, da sillaba à sillaba, da tratto à tratto, e da carattere à carattere della lettera, et sottoscrittioni di fra Silvestro da Lauriana, dico che la sudetta lettera è stata scritta con inchiostro bianco, et con penna accomodata sottile, et le sottoscrittioni... sono state scritte con inchiostro più negro, et con penna accomodata più grossa, et per tale differentia non si può conoscere chiaramente che siano scritte di una istessa mano, però come esperto et al mio giudicio giudico et dico che alcune lettere delle sottoscrittioni... hanno similitudine in parte colle lettere della sottoscrittione della lettera sudetta". - Di poi Alfonso Peres esercitato in tenere la scola di scrivere et di abbaco", interrogato, egualmente, col formulario medesimo conchiuse: "dico et confermo come esperto et prattico di diverse sorte di lettere scritte à mano, che tanto la sottoscrittione che stà in piedi di dette lettere... come anco le sottoscrittioni che dicono lo frà Silvestro de lauriana hò deposto ut supra sono state et sono scritte da una stessa mano". Così mentre uno de' periti rimaneva in dubbio, l'altro affermava che la lettera in quistione era veramente del Lauriana.

Dopo tutto ciò non sapremmo dire quale fosse stata, intorno a' meriti della causa, l'opinione formatasi dal Vicario Arcivescovile e dall'Auditore del Nunzio, mentre della persona stessa del Nunzio, tenutasi così a lungo lontana, non accade dover parlare per ora; ma in quanto al Vescovo di Termoli sappiamo benissimo che rimase sempre più perplesso e dubbioso, né soltanto sull'eresia, ma di rimbalzo anche, e maggiormente, sulla congiura; lo sappiamo da' cenni della sua corrispondenza con Roma, inserti negli ultimi Sommarii del processo compilati in Napoli, e parimente da un brano di lettera del Nunzio scritta più tardi. Il Nunzio, in una circostanza in cui ebbe a parlare di fra Marco Visitatore, disse di sapere che costui "era mal sodisfatto del Vescovo di Termoli... per l'opinione che teneva, et se ne lasciava intendere, che l'essamine fatte da lui et da fra Cornelio in Calabria fussero state fatte più per sodisfattione de Ministri Regii che per la verità"(237); e realmente anche più di questo troviamo ne' cenni delle lettere scritte dal Vescovo a Roma, de' quali è tempo oramai di tener parola. Abbiamo già avuta altrove (vedi pag. 126) occasione di dire che il Vescovo diede continuamente ragguagli al Card.l di S.ta Severina di ciò che veniva rilevando negli esami de' frati, e di ciò che gli riusciva di sapere anche per vie estragiudiziarie: così il 19 maggio, due giorni dopo che il Campanella erasi nell'esame mostrato pazzo, diè ragguagli su questa pazzia, sulle ragioni che l'aveano fatta nascere, su' motivi che c'erano per crederla simulata, sulla necessità di adoperare la tortura. Egualmente intorno al Pizzoni, mostratosi con la spalla lesa, fece conoscere che era rimasto storpio per la tortura avuta nell'altro tribunale; intorno a fra Dionisio, mostratosi anche impossibilitato a sottoscrivere i processi verbali, fece sapere in qual modo atroce fosse stato tormentato. né mancò poi di scrivere, "non sembra verosimile che fra Dionisio, senza grande familiarità col Soldaniero giovane a 22 anni, avesse voluto comunicargli tante eresie"; e d'altra parte, Aloisi spagnolo già Fiscale in Calabria (lo Sciarava) mi hà detto, che fra Gio. Battista da Pizzone non voleva confessare contro il Campanella avanti il visitatore, ma che esso li disse non hai tu detto la tale, è tale cosa d'heresia? et che all'hora testificò". Ancora non mancò di far sapere che "quando Cesare Pisano fu esaminato, il 19 ottobre 1599, già il Campanella era carcerato". E circa il processo di Calabria scrisse senza esitazione: "questo mi pare malissimamente fondato, et primo per quel che spetta à tutto il processo non si vede fondamento alcuno, et quella scrittura, che è stata posta inanzi al processo (l'elenco delle 36 proposizioni ereticali), è un compendio fatto di tutto il processo dopo che è stato finito, come mi hà detto à bocca frà Cornelio e dalla scrittura istessa appare". Circa poi la congiura fece sapere avergli fra Cornelio detto "che Fabio di Lauro di anni 20 fu il primo che gli rivelò il capitolo della ribellione, il quale Fabio riferì ad esso Vescovo medesimo avergli fra Dionisio manifestato che il Papa voleva il Regno di Napoli e molte altre cose inverosimili, dalle quali si desume essere il primo fondamento di tale Ribellione molto tenue anzi falso". Non mancò nemmeno di far rilevare la nessuna delicatezza de' primi Giudici scrivendo: "si fecero dar molti denari per provedere à questi carcerati et non gli è stato provisto, mà frà Cornelio li ha spesi in venir à Roma, et si come intendo ne diede conto alli superiori in Calabria"(238). Passando al processo di Napoli e toccando i fatti accaduti prima del suo arrivo, fece conoscere che le due lettere scritte dal Lauriana a fra Dionisio circa l'esame fatto in Calabria, e sorprese da' carcerieri, non si trovavano nel processo della congiura, e che D. Pietro De Vera gli riferì che erano state forse perdute giacchè erano state portate al Vicerè"; e così pure che il Breviario in cui si conteneva la corrispondenza del Pizzoni col Campanella nemmeno si trovava, come "gli riferì il notaro della causa", aggiungendo che del pari "D. Pietro De Vera gli disse che il detto Breviario era stato perduto, giacchè dato al Vicerè ed all'Arcivescovo di Taranto" (fratello confidente del Vicerè); le quali ultime notizie su' danari di Calabria, sulle lettere e sul Breviario, in fondo venivano a mostrare tutta l'incuria del Nunzio, al quale, e come Nunzio e come Giudice della causa della congiura, incombeva l'obbligo di guardare alle cose de' frati con ogni diligenza. La conclusione del Vescovo presso il Card.l di S.ta Severina fu questa: "i frati carcerati debbono essere tradotti alle carceri del S. Officio in Roma per cavarne la verità"; e su tale conclusione insistè anche con altre lettere, scrivendo: "questi rei non furono ben difesi, perché furono perdute due lettere e il Breviario di cui diè notizia fra Dionisio Ponzio, e perché non fu trovato un Dottore che avesse voluto scrivere in dritto a favor loro, e credo che in questa causa i testimoni habbiano deposto per isfuggire il foro secolare, per li essempi quotidiani che havevano avanti all'occhi, il qual timore si vede che persevera in essi mentre sono nelle forze de i ministri Regii, ma tengo per cosa certa che se fussero fatti venire à Roma si scopriria la pura verità dei negocii passati, et parmi apunto che questo negocio sia simile a quello di bitonto"(239). Aggiungiamo che il Vescovo trasmise pure a Roma un memoriale di fra Dionisio intorno alla causa della congiura, concepito negli stessi sensi. Il memoriale, di cui ci dànno notizia egualmente i Sommarii de' processi, era diretto a S. S.tà, e fra Dionisio vi diceva essere innocentissimo tanto per l'eresia quanto per la ribellione, credere di averlo abbastanza provato per l'eresia, ma dubitare di poterlo pienamente provare per la ribellione allegando le molte ingiustizie patite da parte de' Ministri Regii, a' quali importava grandemente che non si scovrisse la sua innocenza, e il non aver potuto trovare un procuratore che non gli fosse sospetto. Faceva conoscere che molti condannati all'ultimo supplizio aveano disdette le cose deposte contro gli altri tanto in materia di ribellione che di fede, ma i Ministri Regii aveano proibito che si mettesse in iscritto qualche cosa intorno a ciò; esponeva la crudelissima tortura avuta e le inumanità sofferte in sèguito; conchiudeva supplicando il SS.mo si degnasse comandare che gli fosse data opportuna facoltà di potersi legittimamente difendere, che fosse rimosso dalle carceri secolari e tradotto nelle ecclesiastiche poichè in tal modo avrebbe potuto difendersi, che la causa della ribellione non fosse spedita sul processo sin'allora fatto come nullo ed invalido, appellandosi al SS.mo e protestando della nullità di tutta la causa e di qualsivoglia Atto di essa.

Senza alcun dubbio i frati non avrebbero potuto avere un Giudice più del Vescovo di Termoli benigno verso di loro, pur essendo ad un tempo severo applicatore della giurisprudenza inquisitoriale. La sua benignità emerge da tutti gli esami fatti e rifatti con tanta diligenza, e massime dalle diverse sue dimande d'ufficio rivolte agl'inquisiti; ma rifulge straordinariamente nel giudizio che si permise di enunciare intorno alla congiura, e nella conclusione alla quale si dichiarò pervenuto intorno a tutta la causa. Egli giudicò il primo fondamento, su cui era stata poggiata la faccenda della congiura, "molto tenue, anzi falso", ciò che per altro disse unicamente a riguardo delle ciarle che Fabio di Lauro riferiva essergli state manifestate da fra Dionisio, e ci preme assai che non rimangano equivoci su tale punto; ma il vedere quel fatto messo in rilievo da lui, che non aveva l'obbligo di occuparsene, mostra bene qual fosse l'animo suo verso gl'inquisiti. E sempre meglio ancora lo mostra la conclusione da lui palesata, che cioè i rei dovessero essere tradotti nelle carceri di Roma, sottratti al terrore delle forze de' Ministri Regii, "che se fossero fatti venire a Roma si scopriria la pura verità de i negocii passati"; con la quale conclusione egli non disse già que' frati innocenti, degni di essere liberati, ed anche qui ci preme che non rimangano equivoci, ma accolse appieno i desiderii loro, i desiderii adombrati da fra Dionisio nel suo memoriale e abbastanza apertamente espressi anche dal Campanella, che nella sua pazzia e durante la tortura gridava "al Papa al Papa, quà bisogna che venga il Papa". Senza dubbio il Vescovo di Termoli, ignaro de' riguardi e delle transazioni abituali tra le due Corti, onde talora giungevasi fino a conculcare la giustizia e a sacrificare gl'innocenti, non teneva conto delle difficoltà che si opponevano all'adempimento della sua conclusione; dovea quindi di necessità trovarsi in un ordine d'idee ben diverso da quello del Nunzio, che già abbiamo visto esclusivamente tenero della buona amicizia tra il Papa e il Vicerè, condiscendente alle richieste Vicereali purchè si salvasse l'apparenza, incurante non solo degl'interessi degl'imputati ma perfino del buono andamento della giustizia verso di loro, e, come vedremo in sèguito, censore singolarissimo dell'opera del suo collega, ciò che per certo rappresenta il migliore elogio di costui. Animato dal puro e semplice amore per la verità, il Vescovo di Termoli dovea sentirsi imbarazzato vedendo quante circostanze aveano concorso ad ottenebrarla, la prepotenza ed immanità de' Giudici Regii, la nequizia de' primi Giudici ecclesiastici, la ferocia degli odii frateschi, lo spirito di profitto da una parte, la sete di vendetta dall'altra, il terrore incusso agl'inquisiti da tutti i lati; e dovea soffrirne pure non poco, amiamo crederlo, per quel sentimento di affetto che il Campanella avea saputo da lungo tempo ispirargli, e che se non giunse mai a farlo deviare un solo momento da' suoi doveri d'Inquisitore, lo rese certamente sempre più caldo nella ricerca della verità. Ma la morte venne a toglierlo da tanta inquietudine, e venne anche a togliere a' frati inquisiti l'unico sostegno, su cui potevano contare nella loro infelice condizione.

 III. L'anno 1601 s'iniziava con tristi auspicii pe' poveri frati. Il 1° gennaio il Vescovo di Termoli moriva nel convento di S.ta Caterina a Formello, presso la porta Capuana, convento del suo ordine, in cui si era negli ultimi mesi recato, abbandonando quello di S. Luigi, e il 2 gennaio era sepolto nell'attigua Chiesa di S.ta Caterina. Nessuna memoria speciale ricorda il buon Prelato, ma in una lapide posta non lungi dalla sacristia, rilevata dall'Engenio(240) e poi, a quanto pare, dispersa, si leggevano i "Nomi e Cognomi dell'Illmi Cardinali, e Rev.mi Arcivescovi et Vescovi che sono sepolti in questa venerabil Chiesa, come quivi di sotto sono scritti, e la maggior parte sono sepolti con li Padri sacerdoti", e l'ultimo dell'elenco, l'11°, era "il Rev.mo Maestro Alberto di Firenzuola del medem' ordine Vescovo di Termoli, morì à 3 di Gennaio 1601" (sic). Le circostanze della sua morte ci sono interamente ignote finora. Nel Carteggio del Nunzio una lettera del 3 gennaio, dopo notizie di tutt'altro genere, reca anche questa: "hieri si diede sepoltura al Vescovo di Termoli in S.ta Caterina à Formello, dove si era ritirato come frate di quella Religione di S. Domenico"(241); né si trova una parola sola di chiarimento e anche meno di compianto per la perdita del collega Giudice in una causa di tanto rilievo! La Narrazione del Campanella poi, a proposito di questa morte, reca qualche parola che ha tutto l'aspetto di una insinuazione, oltre le solite affermazioni spinte che il Campanella sapeva ben trovare a sua difesa: "Sendo per la causa del S. Officio venuto dal Papa per Commissario il Vescovo di Termoli M. Alberto Tragagliola, e si scoperse la falsità del processo di ribellione per le molte ritrattation che fur fatte dalli testimoni vivi e morendo; e per le contradittioni, e sconvenienze, e manifeste scolpationi dell'heresie trovate per schifar la pena della finta ribellione, el detto Vescovo si fè intendere, che volea liberar tutti, anche che il Vicerè e Fiscali con promesse e minacce lo voleano levar di questo proposito, e venne a morte, Dio sà perché, e disse morendo "mi dispiace ch'io moro, e non ho liberato questi frati" e lo scrisse al Papa". Adunque la morte del Vescovo sarebbe stata forse procurata nientemeno che dal Vicerè e da' fiscali: ma nulla veramente autorizza ad accogliere un sospetto sì grave, né quel Vescovo avea propriamente scoperta la falsità del processo della congiura, il quale trovavasi fuori la sua ingerenza, né volea propriamente liberare tutti i frati; e se avesse scritto al Papa in questo senso, i Sommarii de' processi ecclesiastici non avrebbero mancato di riferirlo. Ben potè rincrescergli che morendo rimanevano i frati senza alcuno appoggio; e dal complesso delle affermazioni del Campanella deve anche conchiudersi che il Vescovo effettivamente non faceva un mistero assoluto delle opinioni che su que' negozii si avea formate, e "se ne lasciava intendere", come il Nunzio scrisse più tardi a Roma.

Naturalmente un'interruzione si verificò nel corso del processo, non solo perché dovè sostituirsi un nuovo Giudice al Vescovo di Termoli, ma anche perché doverono in Roma studiarsi gli Atti processuali fin allora compiuti per mandare a Napoli istruzioni su quanto rimanesse a farsi ulteriormente. E frattanto il Governo Vicereale raddoppiò le sue insistenze, perché si terminasse una volta la causa dell'eresia, e si potesse così spedire quella della congiura. Già abbiamo visto che fin dall'8 settembre, nel mandare a Roma la copia del processo offensivo e ripetitivo, il Nunzio avea partecipato le premure fattegli dal Vicerè e da' suoi Ministri; ma dopo di aver mandata la copia anche del processo difensivo, non cessò mai di sollecitare una risoluzione, e di far conoscere le vive istanze dei Ministri Regii e de' "Deputati insieme seco nella causa della ribellione", vale a dire anche di D. Pietro de Vera certamente dietro doglianze del Vicerè. Così nella lettera stessa di annunzio della morte del Vescovo di Termoli, e in molte altre successive, del 19 e 26 gennaio, del 2, 16 e 23 febbraio e del 15 marzo, non si trova altro che una serie di comunicazioni nello stesso senso, leggendosi: sono stato sollecitato "né solo hora ma infinite altre volte per il passato, si che hò havuto et hò che disputare"...; "vengo di nuovo sollecitato molto per la speditione della causa de' frati"...; "son di continuo molestato da questi Ministri Regii per la speditione della causa della ribellione" etc.(242). Queste lettere, non pubblicate dal Palermo, son rimaste ignorate; ma vede ognuno quanta importanza esse abbiano per raddrizzare certi giudizii molto inesatti, che sono stati proferiti sulla condotta del Governo spagnuolo nella faccenda del Campanella.

Il 24 marzo (non maggio come fu letto dal Palermo) il Card.l di S.ta Severina partecipava finalmente al Nunzio la risoluzione di S. S.tà, che Mons.r Vescovo di Caserta intervenisse nella causa del Campanella e complici "nell'istesso modo che faceva Mons.r Vescovo di Termoli"; oltracciò l'ordine dato, dopo aver visti i processi, di far nuove diligenze col ripetere alcuni testimoni ed esaminarne altri, come pure di far "diligenze sopra la simulatione della pazzia di esso Campanella" secondo che scriveva a lungo a Mons.r di Caserta, il quale glie l'avrebbe comunicato(243). E nel processo dell'eresia abbiamo appunto la lettera del Card.l di S.ta Severina al Vescovo di Caserta; ma crediamo bene dar prima qualche notizia sulla persona del Giudice, cui doveva oramai deferirsi ogni cosa, come già al suo predecessore. - Vescovo di Caserta era D. Benedetto Mandina, nato in Melfi di nobile famiglia. Aveva già prima esercitato in Napoli l'avvocatura con un certo credito, e poi, illuminato da un grave calcio di cavallo ricevuto ad una gamba mentre cavalcava con gran sèguito di suoi clienti, era entrato nella Congregazione de' Chierici regolari al convento di S. Paolo nel 1583. Successivamente trasferitosi a Roma, perché pure in S. Paolo era sempre consultato per faccende legali, gli accadde la cosa medesima da parte delle diverse Congregazioni, onde venne in credito tanto maggiore, e da Clemente VIII fu creato Vescovo di Caserta nell'ultimo di gennaio 1594(244); poco dopo, nel 1595, fu inviato come Nunzio in Germania, in Boemia, in Polonia, presso Massimiliano, Rodolfo, Sigismondo ed altri Principi, a' quali fece un'orazione nel convegno di Varsavia, determinandoli alla lega contro i turchi e a quella guerra in cui si ebbe la famosa rotta di Agria che abbiamo già avuta occasione di ricordare a proposito del Bassà Cicala. Al suo ritorno, dopo la morte di Mons.r Carlo Baldino Arcivescovo di Sorrento avvenuta nel 1598, gli fu affidata anche la carica di Ministro della S.ta et Universale Inquisizione Romana nel Regno, e però, naturalmente, avrebbe dovuto a lui esser commessa la causa del Campanella se fin da principio si fosse trovato presente in Napoli. Tutti questi elevati ufficii da lui tenuti, a' quali venne poi ad aggiungersi anche la sopraintendenza della Chiesa Arcivescovile di Napoli dopo la morte del Card.l Gesualdo, fanno intendere l'opportunità della sua vocazione a Chierico Regolare, e fanno anche intendere la profusione di lodi cantategli da' suoi biografi(245). Era caritatevolissimo, generosissimo, giustissimo; lo si disse perfino morto in concetto di santità come il P.e Beccaria (solo pel Vescovo di Termoli non ci fu alcuno che sentisse il menomo odore di santità). Erasi fin dal tempo del suo laicato "esercitato in tutte le opere di carità nel sodalizio della SS.ma Trinità de' Pellegrini al quale avea dato il suo nome"; la generosità ed umiltà sua l'aveano ridotto al punto che si rappezzava le vesti da sè medesimo etc. etc. Inoltre "nell'amministrar la giustizia era innocentissimo", ma severo co' delinquenti, ed una volta, in Caserta, gli fu dato il veleno nel vino con cui celebrava la Messa, ed egli se ne avvide, e perdonando chiunque glie l'avesse dato, se ne venne immediatamente a Napoli per curarsi. Da parte nostra non ci saremmo permesso il menomo dubbio su così splendide virtù, se non avessimo trovato fatti assolutamente opposti nella trattazione della causa del Campanella e socii.

Ecco ora in breve quanto il Card.l di S.ta Severina scriveva al Vescovo di Caserta nella stessa data 24 marzo; la lettera fu inserta nel processo, iniziando con essa la serie degli atti compresi nel 4° volume(246). Per ordine di S. S.tà egli doveva intervenire nella causa del Campanella "con l'istesso modo, et autorità che faceva il Vescovo di Termole", e però gli si mandava una copia del Sommario del processo. Dovevano farsi alcune nuove diligenze "co' testimonii tra' quali può essere contestura, à fine di convincere il detto Campanella, poichè degl'inditii ve ne sono assai", ma ciò nella diocesi di Squillace, dal Vescovo di quella diocesi che allora trovavasi in Roma e presto se ne sarebbe tornato; si erano quindi redatti in Roma alcuni articoli addizionali per la ripetizione de' testimoni, e se ne mandava la copia a Napoli per farli presentare in processo e darne comunicazione legale al procuratore del Campanella, il quale avrebbe redatti gl'interrogatorii da doversi fare sopra i detti articoli e da doversi mandare a Squillace. Trovandosi carcerati in Napoli due di que' testimoni, cioè Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco (e ben si vede che il S.ta Severina non conosceva la condanna all'esilio già in corso pel Contestabile), dovevano essere egualmente esaminati, ed anche ripetuti su' medesimi interrogatorii ed articoli laddove avessero deposto cose rilevanti. Infine dovevano pure per ordine di S. S.tà farsi le diligenze necessarie per scoprire la simulazione della pazzia del Campanella a questo modo: "che si faccia visitare da Medici più volte, et poi si habbia il loro parere in scritti, et anco se gli dia il tormento della veglia con quella circonspettione che parerà conveniente per scoprire, et ritrovare questa simulatione di pazzia". Tutte queste cose egli dovea comunicare a' suoi colleghi, al Nunzio ed al Vicario Arcivescovile.

Mandava perciò il Card.l di S.ta Severina l'elenco delle diligenze da doversi fare in Squillace e parzialmente in Napoli, coll'indicazione de' testimoni da doversi esaminare e ripetere su ciascuno de' fatti che si volevano provare; inoltre gli articoli, ne' quali si trovavano espressi i più cospicui tra codesti fatti(247). I testimoni erano parecchi. E dapprima fra Simone e fra Dionisio di Placanica, e fra Domenico di Riace; questi erano stati nominati da fra Gio. Battista di Placanica, siccome presenti alle due affermazioni del Campanella, la fornicazione non essere peccato, e la legge dei turchi essere migliore di quella de' cristiani. Dippiù Tiberio e Scipione Marullo, Fulvio Vua, Gio. Gregorio Prestinace, Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, Giulio Presterà, Francesco Bono, Fabrizio e Paolo Campanella, fra Scipione Politi, tutti nominati dal Petrolo come coloro a' quali il Campanella avea comunicate diverse eresie delle quali si dava un ricordo. Dippiù altri ed altri ancora, nominati nel primo processo del Vescovo di Squillace, siccome presenti alle affermazioni del Campanella, del potersi salvare anche senza il battesimo, del non esser valida la Messa celebrata da chi si trovasse in peccato mortale. Infine anche D. Marco Petrolo, nominato da Cesare Pisano come presente al sermone di fra Dionisio nella casa di Gio. Alfonso Grillo; nella quale occasione poteva esaminarsi anche Tiberio Lamberto che avea detto volere il Campanella predicare una nuova legge. - Gli articoli, compilati dal solito Procuratore fiscale Rev.do Giulio Monterenzio bolognese, furono solamente quattro, attestanti avere il Campanella osato affermare "etiam cum pertinacia", che non valeva, e dava solo qualche vantaggio temporale, la Messa celebrata essendo il sacerdote o l'instante in peccato mortale, che poteva esservi salvazione senza battesimo, che non occorrevano tante religioni di frati, le quali cose erano notorie nella diocesi di Squillace e qua e là nella Calabria anche prima della carcerazione del Campanella. Il fatto di maggiore importanza in questi articoli fu la qualificazione della causa del Campanella, che venne detta "di eresia e di relapso"; per la prima volta non si parlò più di ateismo e si cominciò invece a parlare giudizialmente di relapso, ciò che era ben più grave nelle sue conseguenze, come abbiamo già avuta occasione di mostrare altrove(248).

Avuta la lettera e gli atti or ora indicati, il Vescovo di Caserta recatosi dal Nunzio, secondochè ci fa sapere una lettera di costui del 30 marzo(249), disse che per allora gli occorreva andare alla sua Chiesa, ma sarebbe presto tornato per condurre a termine la causa. Ed intanto si provvide che fin dallo stesso giorno 30 marzo fosse data all'Avvocato assegnato al Campanella la copia degli articoli addizionali, col termine di due soli giorni per produrre gl'interrogatorii; e il 2 aprile, il magnifico Gio. Battista dello Grugno, che questa volta si nominò, produsse 11 interrogatorii, scritti nelle solite maniere, ma meno banali, più conducenti allo scopo, e in diversi punti non senza un certo acume. P. es. a proposito del non essere necessarie tante religioni, egli volle che i testimoni dicessero se ciò era stato affermato nel senso che non fossero necessarie nelle città, ovvero nel senso che non fossero buoni mezzi di salute; a proposito del potersi salvare senza battesimo, egli volle che i testimoni dicessero se ciò era stato affermato parlando del battesimo in re, ovvero del battesimo in voto. Del resto, come Atti riguardanti la persona del Campanella, noi ci siamo creduti in debito di riportarli tra' documenti, e i lettori potranno giudicarli(250). - Mettiamo qui, per non intralciare la narrazione, che gli articoli del fisco vennero subito mandati a Squillace, ma in ultima analisi non si potè quivi conchiuder nulla, come ci mostrano due lettere del Card.l di S.ta Severina, l'una al Nunzio scritta il 30 marzo, l'altra al Vescovo di Caserta scritta parecchi mesi dopo(251). I testimoni in generale probabilmente aveano fin perduta la memoria di quelle proposizioni; parecchi tra loro e i più importanti, come il Vua e il Prestinace, erano irreperibili, poichè si tenevano nascosti per isfuggire i rigori del Governo; ed oltre a tutto ciò fra non molto tempo, nel giugno di quell'anno, il Vescovo di Squillace se ne morì, onde la Sacra Congregazione di Roma dovè persuadersi che non c'era più nulla a sperare da quella via. Dalla via di Napoli poi nemmeno si potè raccapezzare qualche cosa, e il risultamento più certo dovè esser questo, che il Governo Vicereale rimase tanto più sospettoso ed irritato per quelle lungaggini, le quali doveano parergli tergiversazioni.

Il 7 aprile fu esaminato Geronimo di Francesco, uno de' due testimoni da doversi interrogare in Napoli secondo le ultime prescrizioni di Roma. Il Vescovo di Caserta si era già istallato in Napoli, ciò che mostra in lui molta alacrità nel compiere l'ufficio suo, e conosciamo che prese stanza nelle case di S. Andrea delle monache, propriamente nel palazzo posto all'angolo tra la via di Costantinopoli e quella della Sapienza. Aggiungiamo che il Nunzio medesimo, al contrario di quanto avea fatto durante la vita del Vescovo di Termoli, non mancò mai più alle sedute, o almeno alle sedute riguardanti la trattazione dell'argomento principale. Il di Francesco, interrogato, disse di conoscere molto bene il Petrolo e il Campanella patriotti suoi, di aver trattato poco col Petrolo, ma aver desiderato di far amicizia col Campanella "per la nominata che sentiva di esso, di essere litterato, et nominata di esser dotto": ma soggiunse che fu colto da una infermità che lo tenne a letto cinque mesi, onde non potè trattare con lui, e poi per un cattivo ufficio fattogli da esso Campanella presso certi suoi parenti, al punto da metterlo in questione con loro, gli divenne nemico. Dietro altre interrogazioni, disse di non aver mai trattato da solo a solo col Campanella, di avergli parlato una volta di cose comuni insieme con fra Pietro di Stilo, di averlo un'altra volta visto "in sua cella dove legeva di filosofia" essendosi lui fermato alla porta senza parlargli, e di avergli forse qualche altra volta parlato in piazza, senza ricordarsi di che, presenti Marcello Dolce, morto, e Gio. Francesco d'Alessandria (che sappiamo nascosto e forgiudicato; sempre testimoni irreperibili). Soggiunse di non ricordarsi che in presenza sua il Campanella avesse mai parlato di cose di fede. Con ciò manifestamente non v'era alcun luogo a ripetizione, e gl'interrogatorii e gli articoli doveano mettersi da banda. - Ci sarebbe stato da esaminare anche Giulio Contestabile; ma non si sapeva nemmeno dove si trovasse, ed è certo che, oltre un mese dopo questo al quale siamo pervenuti, il Nunzio non era riuscito ad averne notizia, come rilevasi da una sua lettera al Vescovo di Squillace(252).

Fu quindi sospesa la trattazione della causa, probabilmente con la speranza di trovare la persona del Contestabile, ed anche con la speranza di avere qualche risultamento dalle informazioni commesse a Squillace. Scorsero così presso a poco due mesi senza far nulla, e può intendersi con quanta mala soddisfazione del Governo Vicereale: ma si verificarono in questo periodo di tempo diversi avvenimenti, de' quali andiamo a dar conto. E dapprima furono ripigliate le sedute dell'altro tribunale per trattare la causa del clerico Marcantonio Pittella, che le forze Regie aveano catturato nuovamente dopo la sua fuga: ma di questo, che non entra nell'argomento attuale della nostra narrazione, discorreremo altrove. Un avvenimento, da doversi qui ricordare, fu l'invio di un memoriale di fra Pietro Ponzio a S. S.tà, per reclamare un provvedimento intorno alla sua singolare posizione. Non ci è venuto sott'occhio il testo del memoriale, ma ne abbiamo trovato qualche altro consimile inviato più tardi dallo stesso fra Pietro, che non cessò mai dall'inviarne; e in sostanza egli, non vedendosi incriminato in nulla, chiedeva di essere giudicato, e non trattenuto in carcere solamente perché germano di fra Dionisio. Il Nunzio, cui fu trasmesso il memoriale dal Card.l S. Giorgio, con sua lettera del 6 aprile rispose, esser vero che fra Pietro "fu preso come fratello di fra Dionigi Pontio capo insieme con il Campanella della pretensa ribellione, pretendendolo informato di essa, et non havendo trovato contra di lui cosa di fondamento, si sarebbe liberato con molti altri che si liberarono, se egli stesso con i ragionamenti fatti di notte con il Campanella da certe finestre non si fosse reso sospetto d'esser informato del tutto; et perché questa causa della ribellione resta sospesa da quella della Inquisitione, per questo non si è passato più avanti contro di lui; quando si tratti di nuovo di questo negotio, che potrà esser presto, per la speditione che si deve dare ad un Clerico (int. il Pittella), che dopo d'essere stato un pezzo latitante è venuto finalmente in mano della Corte, et la sua causa è in speditione, procurerò si tratti anche di spedir quella di questo fra Pietro, che per quanto vado considerando deve essere anche lui di mala razza"(253). Vegga ognuno se possa dirsi questo il linguaggio di un Giudice serio e giusto: d'altronde egli non fece nulla di quanto promise; scorso poco più di un mese il Pittella era già fuori carcere come si rileva dalla sua lettera al Vescovo di Squillace, e fra Pietro rimaneva a languire nel Castel nuovo(254).

Un altro avvenimento d'importanza anche maggiore fu l'invio di un memoriale di fra Dionisio a S. S.tà, per far conoscere che fra Marco di Marcianise avea mandato fra Cornelio in Ispagna, la quale circostanza poteva ben connettersi con le loro gesta in Calabria contro i poveri frati(255). S. S.tà, per mezzo del Card.l di S.ta Severina, ingiunse al Nunzio che s'informasse di tale partenza di fra Cornelio per la Spagna, "da chi vi sia mandato, et à che effetto"; ed il Nunzio, con sue lettere del 6 e del 20 aprile, rispondeva in certi termini che meritano di essere testualmente riferiti e ben considerati. "Quanto al particolare che mi domanda di quel fra Cornelio, posso dirle che hò parlato à chi l'hà visto in Genova per la volta di Spagna, et hò ritratto che è andato con partecipatione del Sig.r Vicerè, né son lontano à credere che sia stato di consiglio et d'ordine di quel fra Marco da Marcianise, il quale sò che era mal sodisfatto del Vescovo di Termoli, che Dio habbia in gloria, per l'opinione che teneva, et se ne lasciava intendere, che le essamine fatte da lui et da fra Cornelio in Calabria fussero state fatte più per sodisfattione de Ministri Regii che per la verità, et Dio voglia che l'opinione in ciò di detto Vescovo non l'habbia fatto più largo di quel che conveniva in dar adito à quei frati di ritrattare le loro confessioni, come mi lasciai un tratto intendere che mi pareva, et ne avvertii, se bene lasciavo guidare à lui il negotio, come pratico et essercitato lungo tempo in cotesto S.to officio dal quale era stato deputato, ma per le molte occupationi non potei sempre trovarmi à quelle lunghe repetitioni et difese che potettero fare, vi mandai bene il mio Auditore quelle volte che non potei esser io. Se sarà vero, come temo, che detto fra Cornelio sia andato alla Corte per scusare tal fatto, ò per far altro officio concernente questo interesse, lo reputerò molto errore et del Marcianese et di lui, perché se erano mal sodisfatti dovevano pigliare altra strada". Ed in sèguito: "Hò havuto occasione di parlare con il Padre Fra Marco da Marcianise, il quale mi hà detto che egli (fra Cornelio) è andato in Spagna principalmente per un negotio del Sig.r Carlo Spinello, et che sapeva che haveva parlato al Sig.r Vicerè avanti partisse, et che poteva esser che trattasse là del negotio della ribellione et dell'Inquisitone, poi che si era trovato in Calabria à quei Processi, ma che sopra di ciò non gli haveva ordinato cosa alcuna. Come si sia, non voglio dubitar punto che ne parlerà, et questo non sò se potrà piacere; saprà V. S. Ill.ma quello che dovrà farsi"(256). Con ogni probabilità il Card.l di S.ta Severina non fece nulla contro que' frati: ma ciò che riesce ancor più interessante per noi è il vedere il Nunzio riscaldarsi tanto, sol perché poteva essere alla Corte di Spagna riferita sotto mala luce l'opera de' Giudici ecclesiastici di Napoli, e con questa preoccupazione, intento solo a salvare sè medesimo, spingersi fino a censurare l'opera del defunto Vescovo di Termoli. Egli che non aveva forse nemmeno letto il processo di Calabria, egli che certamente non aveva avuto cura de' più sacri dritti degl'inquisiti nel tribunale della congiura e d'altra parte aveva assistito ben poco alle sedute del tribunale dell'eresia, egli osava mettere innanzi i suoi scrupoli, perché il Vescovo di Termoli era stato largo nel dare agl'inquisiti agio di ritrattarsi, ed aveva professata l'opinione che i processi di Calabria fossero stati fatti piuttosto per dar soddisfazione a' Ministri Regii. Ed era proprio bene scelto il momento per fare queste osservazioni, mentre que' due ribaldi davano la miglior dimostrazione che il Vescovo di Termoli era nel vero, e facevano manifesta la loro scelleraggine, ricorrendo a Spagna d'accordo col Vicerè e con Carlo Spinelli. Ma bisognava dunque schiacciarli ciecamente quegl'inquisiti per non turbare le buone relazioni con la Corte di Spagna, bisognava sacrificarli alla "ragione di Stato", della quale ben si vede che non a torto si dolse continuamente in versi ed in prosa il Campanella. Per verità il Campanella e socii potevano essere molto colpevoli, ed anzi per noi giuridicamente lo erano, ma meritavano senza dubbio Giudici assai migliori di quelli che ebbero.

L'ultimo avvenimento, che si verificò nel periodo di tempo al quale siamo pervenuti, fu la morte dello sciagurato fra Gio. Battista di Pizzoni. Il 14 maggio, dopo tante sofferenze per la spalla slogata e suppurata, dopo un'apoplessia che gli tolse la parola per quattro giorni (circostanza da notarsi), egli spirò nelle carceri del Castello: lo mostra un'informazione, che d'ordine de' Giudici fu presa da Gio. Camillo Prezioso, e sulla data della morte concorda anche la notizia che ne abbiamo trovata ne' libri Parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo. Difatti in un elenco di morti posto al sèguito del libro III, col titolo "Memoria de quilli che morino in questo Castello novo dal di 23 de giugno fatta 1597" si legge: "A di 14 de maggio 1601 morse fra gio. batt.a calabrese". Con questa vaga indicazione, impossibile a decifrarsi senza l'aiuto di altri documenti, trovasi registrato l'amico intimo divenuto poi accusatore del Campanella, colui che fornì la base principale a quei processi, onde il povero filosofo ebbe a patire tante miserie, ed egli medesimo fu tratto ad una precoce fine odiato e malmenato da tutti. - L'informazione su questa morte fu presa il 1° giugno, e fu inserta nel 3° volume del processo, al sèguito delle difese che il Pizzoni avea fatte. Vennero esaminati Alonso Martines carceriere, Antonio de Torres carceriere anche lui e socio del Martines, inoltre Marcello Salerno carcerato per la ribellione, che già abbiamo conosciuto in altri Atti precedenti. Il Martines espose la malattia e la morte del Pizzoni a questo modo: "l'infermità sua fù che havea un braccio guasto per la tortura che hebbe quà in questo Castello per ordine delli Officiali Regii per la causa della ribellione (si vede bene che il Nunzio, la tonsura di D. Pietro De Vera, il Breve e Clemente VIII, non bastarono per far credere nemmeno al Prezioso, che raccolse la deposizione, essere sul serio quel tribunale per la ribellione un tribunale ecclesiastico); et per tal causa a lo braccio se li fece una postema, et dalla postema poi... se li fece una piaga, et li sopravenne un discenso grande che li levò la parola, et sequitandoli quella infirmità trà quattro giorni se morì, et morse la notte de li quattordici di detto mese di maggio, alle cinque hore, et io lo viddi morto ad una camera dove stava, e morse in questo regio Castello novo, et non solo lo viddi morto ma anco lo viddi sepellire alla sepoltura dove si soleno sepellire li preti, et di detta morte di frà Gio. Battista de pizzone ne è stata et è publica voce et fama in questo Castello novo trà quelli che lo conoscevano, è così è la verità". Le cose medesime esposero in sostanza anche gli altri, con un identico formulario; potrebbe appena rilevarsi che aggiunsero essere stato il Pizzoni leso nel braccio destro, avere usato molti rimedii inutilmente, avere avuta la visita di due medici etc. In conchiusione la morte di lui risultò con siffatte testimonianze legalmente accertata.

Intanto fin dagli ultimi giorni di maggio erano in corso i preparativi per ripigliare il processo, in adempimento delle diligenze ordinate da Roma a fine di scovrire la pazzia simulata del Campanella. Si era provveduto che due medici visitassero più volte il Campanella, come risulta da una delle fedi che costoro scrissero e come d'altronde era stato da Roma ordinato; ma senza attendere tali fedi, si era provveduto anche quanto occorreva pel tormento della veglia; per questo dovè farsi venire ogni cosa dalle carceri della Vicaria, poichè sappiamo di certo essere stato della Vicaria uno degli aguzzini che a suo tempo vedremo entrare in iscena. Siffatti preparativi, che non potevano tenersi nascosti, posero in agitazione vivissima i poveri inquisiti: apparve a tutti che specialmente o fra Dionisio o il Campanella fossero sul punto di avere un tormento de' più gravi, e che di poi sarebbe venuta la volta degli altri; si pensò quindi di fare qualche tentativo capace almeno di trattenere un poco l'amministrazione del tormento.

Il 3 giugno fra Pietro di Stilo trasmise con una sua lettera al Vescovo di Caserta alcune carte del Campanella, sulla provenienza delle quali, dovendo nascondere il vero, fece una narrazione abbastanza inverosimile(257). Erano le proprie Difese con gli Articoli Profetali, che il Campanella aveva scritte durante il processo della congiura, e che non aveano potuto essere presentate a tempo debito. Fra Pietro, che fin dall'inizio di questi processi avea prescelto di far la parte dell'ignorante, mostrando di non conoscere che cosa quelle carte rappresentassero, scriveva al Vescovo di aver ricevuto dal Campanella già da un anno, poco dopo il suo primo tormento (il tormento del polledro), alcune carte scritte di sua mano, con preghiera che le facesse copiare e le conservasse, perché erano cose di molta importanza; ed egli le avea prese, e perché non le intendeva, le avea fatte leggere all'olim fra Gio. Battista di Pizzoni (sempre citato il morto o l'assente) acciò vedesse se ci fossero cose di S.to Officio da poterlo compromettere, né avea mai più potuto riaverle, dicendogli il Pizzoni che le avea perdute e che erano cose sospette; ma appunto nella sera precedente le avea riconosciute tra altre carte lasciate dal Pizzoni, e per suo discarico le consegnava a S. S.a Ill.ma, perché vedesse se c'erano cose di eresia come il Pizzoni avea detto, e provvedesse secondo giustizia, assicurando che quelle carte erano "il vero trasunto di quelli scritti del detto frà Thomaso Campanella". - Da parte sua fra Dionisio, il 4 giugno, trasmise con una sua lettera a' Giudici, perché provvedessero come meglio fosse loro parso di giustizia, una lettera a lui diretta dal Petrolo fin dal 28 maggio, nella quale costui, dicendosi infermo ed abbandonato, scriveva: "intendo che si fanno molti preparamenti di tormenti, e dubito che non siano per V.a Reverenza, o per il Padre Campanella, io, come hò possuto vedere nella copia del processo suo, non m'hò esaminato contra V.a paternità in niente, perche non ci era occasione, si bene mi hò esaminato contra di frà Thomaso ad un certo fine, ch'io esposi in un memoriale all'Ill.mo Sig.r vescovo di Termoli olim commissario di questa causa (pia menzogna, sempre citando il morto), per il quale memoriale credeva io che fossemo tutti rimessi alli nostri superiori, ma vedo che non ha fatto effetto mentre cquà si tormenta, dunque vostra paternità mi favorisca di avvisare li signori superiori e protestarsi che facciano la causa nelle carceri delli nostri superiori (ciò era stato già eseguito appunto da fra Dionisio), ò vero che prima che procedano a cosa alcuna mi reesaminino" etc.(258). Evidentemente questa lettera, fatta scrivere dal Petrolo infermo, era un pretesto per pigliar tempo e scansare il tormento almeno per qualche giorno; la lettera medesima di fra Pietro di Stilo, senza dubbio poggiata su qualche cosa assai più concludente, non aveva uno scopo diverso; ma i Giudici cominciarono per fare amministrare il tormento, e di poi, anzi durante il tormento, si occuparono di tali lettere ad essi inviate.

Il 4 giugno dunque il povero Campanella ebbe quell'atroce tormento detto la veglia, prolungato senza misericordia fino alla metà del giorno successivo. E prima di tutto dobbiamo spiegare in che consisteva la veglia, ed inoltre rammentare in che modo lo stesso Campanella ne parlò specialmente nella sua Narrazione. Anche qui le più esatte notizie ci sono fornite da un medico, e questa volta de' più celebri, da Paolo Zacchia. Si conosce che la veglia fu inventata nella 1a metà del 1500 da Ippolito de Marsiliis, famoso criminalista bolognese e Giudice nella Valle Lugana, "avverso gli ostinati e coloro i quali non temevano i tormenti". Egli si serviva soltanto di uno scanno di legno su cui faceva sedere l'inquisito per 40 ore, con due uomini a lato, i quali, ogni qual volta l'inquisito accennava a dormire, gli davano con la mano sul capo e glie lo sollevavano per tenerlo desto, venendo di tempo in tempo surrogati da altri, mentre i primi andavano a riposare; e il De Marsiliis si applaudiva molto di questo suo trovato, il quale, come egli scrisse, eragli parso piuttosto una cosa da ridere che un tormento, prima che ne avesse fatta l'esperienza, mentre invece ebbe a vedere "non trovarsi alcuno tanto feroce da potervi resistere" (era feroce l'inquisito, non il Giudice); al più tardi in due notti ed un giorno, con la promessa del riposo, l'inquisito confessava tutto, e però bisognava rammentarsi di questo genere di tormento che era della massima potenza e non affliggeva il corpo, "sicchè per esso il Giudice non incorreva mai in sindacato". Immediatamente i suoi contemporanei e successori se ne giovarono, accertandone tutti i vantaggi, come li accertò p. es. Paolo Grillando nel suo trattato. Ma il progresso si fece sentire anche in questo tormento, e si cominciò coll'aggiungervi copioso cibo e vino in precedenza, acciò il sonno divenisse tanto più grave, e si finì col modificare lo scanno ed associarvi altre specie di tormenti per accrescerne l'efficacia. Così diedesi allo scanno una maggiore altezza affinchè i piedi dell'inquisito non poggiassero a terra, ed anche una superficie non piana ma ad angolo, denominando perciò lo scanno capra, cavallo o cavalletto, affinchè le parti deretane dell'inquisito ne venissero travagliate. E vi si associò pure la sospensione dell'inquisito alla corda con le braccia torte in dietro, nei soliti modi, ed anche con gli omeri fermati mediante funicelli alle mura laterali della stanza, talora perfino col petto fermato mediante una fascia al muro corrispondente al dorso, senza dubbio per impedire che l'inquisito col dondolarsi potesse sfuggire l'azione dello scanno. Infine vi si aggiunse lo scostamento, e l'elevazione forzata degli arti inferiori, mediante un lungo bastone posto per traverso, sulle cui estremità venivano ligati i piedi con altri funicelli, mentre un terzo funicello attaccato alla parte media del bastone lo attirava verso il muro di fronte, senza dubbio per impedire del pari che il tormentato, con lo stringere le cosce sullo scanno, potesse di tempo in tempo sottrarre le sue parti deretane all'azione di esso. Prospero Farinaceo, criminalista appunto del tempo del quale trattiamo, volle mostrarsi umanitario rifiutandosi di descrivere il tormento della veglia, perché, egli disse, non era "né aguzzino né birro"; ma l'Ambrosino accennò alle condizioni dello scanno, alto 7 o 8 palmi, fornito di tre piedi e a superficie angolare ottusa, su cui doveva poggiare l'inquisito con le parti deretane nude, aggiungendo di aver visto talvolta lo scanno ad angolo acuto, che poteva uccidere il torturato venendogli rotte e perforate quelle parti. Paolo Zacchia, di poco posteriore per tempo, ci diede la descrizione completa del tormento quale allora si usava, e non è dubbio averlo dovuto il Campanella sostenere presso a poco in quella maniera perfezionata, che lo Zacchia descrisse e che noi abbiamo stimato necessario riferire(259). Che al Campanella sia stata amministrata la veglia secondo gli ultimi perfezionamenti risulta dall'Atto del suo tormento, in cui oltre lo scanno di legno detto il cavallo, la sospensione alla corda con le mani ligate dietro la schiena, l'aguzzino sedutogli accanto che lo toccava ed avvertiva di non dormire, è citato anche il funicello applicato a' piedi, che il povero tormentato chiedeva si portasse più in alto perché i piedi gli bruciavano; e risulta egualmente da quanto ne lasciò scritto in ispecie nelle Quaestionum moralium, non che dalle parole stesse della sua Narrazione, in cui i funicelli sono ricordati in primo luogo, e sono ricordati anche i guasti verificatisi nelle sue parti inferiori. "Al tempo del Manini (int. Mandina) fu ad istanza del Sances Fiscale, ch'andò fin a Roma personaliter per tal licenza, tormentato 40 hore di funicelli usque ad ossa, legato nella corda a braccia torte, pendendo sopra un legno tagliente et acuto, che si dice la Viglia: che li tagliò di sotto una libra di carne, e molta poi n'uscìo pesta et infracidata, e fu curato per sei mesi con tagliarli tanta carne, e n'uscir più di 15 libre di sangue delle vene et arterie rotte, et sanò delle mani, e parti inferiori contra la speranza di medici quasi per miracolo, né confessò heresia né ribellione, è restò per pazzo non finto come diceano". E qui non possiamo dispensarci dal far avvertire che questa menzione del Sances, fatta già anche nella lettera a Paolo V, ci apparisce uno de' più spinti ripieghi del Campanella per mettere nella penombra l'opera dei Giudici ecclesiastici e far risaltare la ferocia degli ufficiali Regii; il ripiego gli riuscì bene, se non presso Roma, presso il resto del mondo, poichè fino a' giorni nostri è stata sempre attribuita agli ufficiali Regii l'amministrazione della veglia, rimanendo pure dimenticato il canone allora vigente, "clericus regulariter torqueri non potest per laycum". Non intendiamo mettere in dubbio che il Governo Vicereale, e per commissione di esso il Sances, abbia potuto insistere presso la Curia, perché si badasse bene a provare energicamente la pazzia la quale si avea ragione di credere simulata; ma crediamo assai difficile poter ammettere che da tali insistenze fosse nata l'idea di amministrare il tormento della veglia. Da un lato non si comprende in che modo il Sances avrebbe potuto sapere, o mostrar di sapere, lo stato della causa di S.to Officio e prendervi un'ingerenza diretta; d'altro lato in Roma non aveano bisogno di eccitamenti per ordinare l'amministrazione della veglia, non solo perché era massima di giurisprudenza che agl'inquisiti finti pazzi si potevano e dovevano amministrare i tormenti gagliardi, tanto più che ritenevasi esservi con loro minor pericolo di morte(260), ma ancora perché, ogni qual volta a Roma appariva necessario un tormento gagliardo, solevasi in quel tempo ordinare l'amministrazione della veglia. Difatti dal Carteggio del Nunzio si rileva che, meno di un anno dopo di aver data la veglia al Campanella, ad un altro frate Domenicano, fra Raimo dell'Olevano, essendo stata inutilmente adoperata la corda nel tribunale della Nunziatura, dietro licenza di Roma fu data pure la veglia e del pari senza cavarne nulla, sì che fu poi mandato alle galere: vero è che questo frate trovasi qualificato "Theologo et Predicatore se bene un gran tristo", già evaso dalle carceri del Nunzio fin dal 1593, ripigliato dalla Corte nel 1601 in abito di assassino con 7 palle in tasca, stato in campagna ed imputato di 6 delitti capitali ed un ricatto; ma l'imputazione del Campanella non era niente meno grave per la Curia Romana(261).

Ecco ora il doloroso racconto di quanto accadde durante la veglia data al Campanella, come risulta dall'Atto che ne fu disteso e che pubblichiamo tra' Documenti(262). Tutti i Giudici erano al loro posto: il Campanella introdotto dal carceriere Martines e richiesto del giuramento disse, Juravit Dominus, Deus in adiutorium..; ammonito su' guai a' quali andava incontro rispose, dieci cavalli bianchi; toccato dal cursore della Curia Arcivescovile gli disse, non mi toccare che sei scomunicato per la bolla in coena Domini. Alle ore 7 del mattino (ora 11a) fu ligato alla corda e sospeso sul cavalletto: nell'essere ligato diceva, ligatemi bene, badate che mi storpiate; poi con alte grida cominciò a dolersi, massime per la forte strettura de' polsi, dicendo son morto, non feci niente, e tante altre cose fuor di proposito, che era un santo, che era un Patriarca, che aspettava il Breve della Crociata etc. chiamando uno de' Giudici Monsignore, e il Vicario Arcivescovile "zio Arciprete". Chiese che gli si pulisse il naso, e si dolse di nuovo fortemente quando gli furono ligati i piedi; toccato dall'aguzzino gli disse, non mi toccare, che sii squartato. Udì suonare le trombe sulle galere ormeggiate al molo presso il Castel nuovo, e disse, suonate, suonate, sono ammazzato frate; guardò la porta della camera che stava aperta e disse all'aguzzino, aprimi, oh frate, oh frate. Poi abbassò il capo e tacque per un pezzo, e toccato dall'aguzzino disse, oh frate, e continuò a stare per un'ora col capo e col petto abbassati. Richiesto se volesse discendere, giurare e rispondere, accennò di sì, ma non volle proferire parola: lo fecero poi discendere perché soddisfacesse a' bisogni naturali. Quindi fu posto di nuovo al tormento (2a volta) e disse, ora mi ammazzate ohimè, e tacque: l'aguzzino gli ricordava di non dormire, ed egli diceva, siedi, siedi alla sedia, taci, taci, né rispose mai alle continue ammonizioni di mettere da parte la pazzia, ed alle diverse interrogazioni sulla sua patria, sulla sua età etc.; si lagnava di tempo in tempo, ma alle interrogazioni non rispondeva. Si giunse così alle 8 della sera (ora 24a) essendo questa volta rimasto sempre nel tormento senza interruzione, né altro si udì da lui che, ohimè, ohimè; e battute le 9 (1a ora di notte) chiese da bere e l'ebbe, né mai rispose alle interrogazioni, ma si notò che mostrava di udire con cura e di percepire le parole e le ammonizioni a lui dirette, e guardava anche i circostanti. Di poi disse, Cicco Vono l'ammazzò; e dichiarò che era di Stilo, Domenicano da Messa, che aveva impiantato il monastero di S. Stefano, che aveva preso l'abito alla Motta Gioiosa, e nominò Lucrezia sua sorella e Giulio suo fratello ivi dimoranti, nominò anche Emilia figlia di suo zio che egli aveva maritata. Più tardi chiese da bere vino e l'ebbe, e ricominciò a lagnarsi, a dire che chiamassero suo padre, quindi si ripose a tacere, e gli dicevano, "Tommaso Campanella che dici? non parli?", ed egli non rispondeva, e solo volgevasi di qua e di là guardando i vicini. Sorse così il giorno e furono aperte le finestre e spenti i lumi, ed egli, sempre taciturno, appena diceva qualche volta, moro, moro, non posso più, non posso più, per Dio. Ma poco dopo parve che svenisse, onde i Giudici ordinarono di toglierlo dal tormento e porlo a sedere; quindi gli concessero di soddisfare a certa sua necessità, e poco dopo batterono le 7 (erano già 24 ore di tormento). L'infelice chiese allora qualche uovo da bere, e glie ne furono date tre, aggiuntovi del vino; disse che sentivasi morire, e chiestogli se volesse confessare i suoi peccati, rispose di sì e che gli chiamassero un confessore. Ma non se ne fece nulla essendosi ristabilito, e venne ordinato che fosse riposto nel tormento, ed egli incominciò a dire, lasciatemi stare, aspettate frate mio; gli fu detto allora perché mai avesse tanta cura del corpo e non dell'anima, ed egli, "l'anima è immortale". Fu dunque riposto nel tormento (3a volta), e rimase taciturno, ma poi chiese all'aguzzino che portasse più in alto il funicello con cui erano ligati i piedi, perché questi gli bruciavano; e i Giudici lo concessero. Continuò a star quieto, gli si dimandò se volesse dormire e disse di sì, gli si promise che avrebbe avuta comodità di dormire dopo di aver risposto alle interrogazioni, ed egli non parlò più, e talora si lamentò dicendo, oh mamma mia. Erano le 11 del mattino (ora 15a); i Giudici aveano profittato di quella seduta per esaminare fra Dionisio sulle lettere che avea presentate; gli ordinarono quindi di parlare al Campanella che stava nel tormento, e di persuaderlo a rispondere formalmente, ad evitare i tormenti che per lui erano affatto inutili, avvertendolo che il S.to Officio avrebbe procurato di ottenere da lui le risposte in tutti i modi! Fra Dionisio, come si notò nell'Atto, "adempì l'incarico con bastante diligenza e carità", discusse, disputò, e il Campanella gli disse che voleva rispondere alle interrogazioni. I Giudici allora concessero che fosse deposto dal tormento, oltrechè venisse ristorato con cibo e bevanda; intanto gli accordarono che andasse a soddisfare certe sue necessità, lasciandolo accompagnare da fra Dionisio, e in ciò scorse più di un'ora di tempo (così fra Dionisio ebbe tutto l'agio di consigliarlo, ma si può supporre in qual senso). Fecero di poi sedere il Campanella presso il loro tavolo, l'eccitarono a rispondere e gli dimandarono perché si trovasse carcerato nel Castello; il Campanella rispose, che volete da me? Avendone solo parole, lo fecero riporre nel tormento (4a volta), e il Campanella vi rimase taciturno, insensibile, appena dicendo di tempo in tempo, moro, moro. E quando videro che vi stava senza dire la menoma parola, senza muoversi, senza dar segno di dolore, finirono per ordinare che lo deponessero, gli accomodassero le braccia, lo vestissero e riportassero alla sua carcere, dopo di essere stato nel tormento per circa 36 ore.

La prova data dal Campanella fu certamente grande, tanto più grande perché nel tormento del polledro non gli era riuscito di mostrarsi forte. Quattro volte successive, con brevi intervalli, era stato posto allo strazio e vi avea resistito un giorno e mezzo: i suoi amici ne rimasero ammirati, e vedremo segnatamente fra Pietro di Stilo farne gli elogi più entusiastici. Cosa ne avessero concluso i Giudici, si può rilevarlo dal Carteggio dell'Agente di Toscana. Era morto allora il Battaglino fin dalla notte di Natale dell'anno precedente, ed eragli successo Alessandro Turaminis senese, venuto nel 1592 ad insegnare con forte stipendio il "Jus civile della sera" nello studio pubblico di Napoli, rimanendo anche avvocato di S. Altezza il Gran Duca per gli affari di Capestrano e in buone relazioni col Nunzio: il Turaminis fin dal 2° giorno del tormento, essendone l'esito tuttora ignoto, avea scritto a Firenze che il Campanella veniva provato "nella sveglia ad istanza del S.to Officio" sul fatto della pazzia; e il 12 giugno scrisse, che avea lasciato "dopo hore 37 di risveglia confuso ognuno, et in dubio più che mai se fosse savio o matto"(263). Rimase dunque scossa l'opinione che la pazzia fosse simulata, se dobbiamo credere al Turaminis, che potè veramente saperlo dal Nunzio; ma vedremo tra poco che ad ogni modo si ebbe presto motivo di non recedere da quella opinione, ed intanto conviene fermarci un poco sulle lesioni riportate dall'infelice filosofo in questo che fu l'ultimo de' suoi tormenti. Ciò che abbiamo visto da lui scritto su tale proposito nella sua Narrazione trovasi già riferito anche in più Lettere ed in qualcuna delle sue opere, col ricordo che era stato "sette volte tormentato"; e per l'ultimo tormento trovasi detto, più o meno, che avea perduta "una libbra di carne nelle parti deretane e diece libbre di sangue", che "era uscito sano dalla fossa (int. dalla sua tristissima condizione) dopo sei mesi", che avea "riacquistata la sanità per la diligenza dell'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli"(264). Senza dubbio in tutto ciò deve riconoscersi qualche esagerazione ed anche una inesattezza tipografica. Per intendere che il Campanella sia stato sette volte tormentato, bisogna computare ciascuna delle quattro riposizioni nel tormento verificatesi durante la veglia, e perciò noi abbiamo procurato di notarle: il conto torna solo col sommare le quattro riposizioni nella veglia, la corda semplice avuta a tempo del Vescovo di Termoli, e le due riposizioni nel polledro avuto per la congiura; né sarà inutile ripetere ancora una volta che tutti questi tormenti furono dati sempre da Giudici deputati dal Papa, dietro ordine o consenso espresso del Papa, sicchè non riesce giusto attribuirli agl'inumani spagnuoli, pur riconoscendo che questi avrebbero fatto molto peggio se avessero potuto. Non è dubbio poi che la veglia abbia prodotto una ferita lacero-contusa con mortificazione ed emorragie consecutive, sebbene le valutazioni della carne e del sangue perduto appariscano fatte con molta larghezza: di certo vedremo risultare dal processo, che due mesi e mezzo dopo il tormento il Campanella trovavasi pur sempre a letto, assistito da suo padre e suo fratello ancora prigioni. Chi era intanto l'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli che gli prestò le sue cure? Ognuno comprenderà facilmente quale interesse egli ci abbia destato, ma nessuno potrà mai immaginare quanti sforzi ci abbia costato il conoscerlo, sino a che non ci venne l'idea di consultare i libri parrocchiali della Chiesa del Castello nuovo. Sapevamo che in ogni Castello si tenevano a que' tempi, con misero stipendio, un medico ed un chirurgo, e pel Castello di S. Elmo ci era riuscito di trovare che funzionava allora da medico-chirurgo un Bonifazio del Castillo con cui senza dubbio il Campanella dovè aver che fare quando più tardi fu trasportato a S. Elmo, ma pel Castello nuovo le scritture di più Archivii non ci aveano rivelato che il medico Gio. Geronimo Orabona fino all'anno 1591(265): d'altronde nel processo attuale trovavamo, per altre cure delle quali si parlerà in sèguito, nominato il chirurgo Scipione, e da un pezzo ci eravamo accorti che in tutte le opere del Campanella, non impresse sotto gli occhi suoi, le storpiature di nomi sono abbastanza frequenti. I libri parrocchiali del Castello nuovo ci hanno appunto mostrato che il chirurgo era Scipione Camardella (o Cammardella), appartenente ad una famiglia da molti anni dimorante in quella fortezza e stretta in parentela con molte persone ivi impiegate: onore a lui, che seppe ricondurre a sanità il povero filosofo, e meritarne la stima e la riconoscenza(266).

Come abbiamo accennato, il 5 giugno, 2° giorno del tormento del Campanella, i Giudici vollero profittare del trovarsi riuniti, per esaminare fra Dionisio intorno alle lettere che avea presentate. Trattavasi di sapere se appartenesse veramente a lui la lettera o memoriale diretto a' Giudici, se appartenesse al Petrolo la lettera inviata con quel memoriale ed in che modo esso fra Dionisio l'avesse ricevuta. Fra Dionisio accertò quanto si volea sapere, dicendo di aver ricevuta la lettera del Petrolo già da otto o nove giorni per mezzo di Felice Gagliardo carcerato per la congiura, il quale glie l'avea data passandola per la fessura superiore della porta del carcere, in cui si trovava egli solo e sempre chiuso. E i Giudici non se ne brigarono ulteriormente, né chiamarono a nuovo esame il Petrolo come costui dimandava. - Si fecero invece, nella stessa seduta, ad esaminare fra Pietro di Stilo intorno alla sua lettera ed alle scritture, del Campanella con essa inviate, cioè le Difese con gli Articoli profetali(267). Fra Pietro, sempre dietro dimande, disse che fin dall'anno scorso, nel principio di quaresima, il Campanella gli avea mandate certe carte scritte per mezzo di un figliuolo che serviva nelle carceri ed egli non sapeva dire chi fosse; costui glie le passò per la fessura inferiore della porta a nome del Campanella, dicendogli per ambasciata che le facesse copiare e le tenesse a sua richiesta, perché erano carte che gl'importavano. Ed egli, nella settimana santa, fece copiare il 1° fascicolo da fra Pietro Ponzio venuto allora a stare nel suo carcere, e diede l'altro ad un compatriotta, Vincenzo Ubaldini di Stilo, il quale dimorava in Napoli con un suo fratello, presso un Signore che non sapea dire chi fosse e che avea udito essere andato alla guerra, e il detto Ubaldini l'avea fatto copiare da un copista(268). Aggiunse che gli originali non c'erano più, perché il copista non volle restituire quello a lui consegnato, dicendo che era cosa curiosa, e l'altro, consegnato a fra Pietro Ponzio perché lo copiasse, fu dato al Pizzoni insieme con la copia, e costui non volle restituir nulla dicendo che erano cose sospette; quando poi trovò quelle scritture, nel cercare un foglio di carta sotto il materasso del letto in cui era morto il Pizzoni, trovò pure l'originale predetto, ma fatto a pezzi e ridotto in altro uso, e c'erano stati presenti il Bitonto, fra Paolo ed anche il Petrolo ammalato. Aggiunse che aveva bensì lette quelle scritture, ma senza capir nulla dei profetali, e facendosi spiegare da fra Pietro Ponzio qualche cosa del fascicolo che egli copiava: inoltre che il martedì o un altro giorno della settimana santa, il Campanella "che non si era ancora publicato pazzo" mandò a chiedergli le copie fatte e se le tenne dalla mattina alla sera e poi glie le rimandò; ed allora vi appose certe note, che riconobbe essere di mano del Campanella ma scritte con carattere più piccolo del solito. Aggiunse infine che non avea mostrato ad alcun altro quelle scritture, né sapeva che alcun altro le avesse viste all'infuori de' già nominati, e che non le avea presentate prima perché non le avea potuto aver prima. - È superfluo dire che molte circostanze di tale racconto erano mentite: lasciamo da parte il non conoscere il figliuolo che a nome del Campanella avea portato gli originali delle scritture (forse Aquilio Marrapodi) e il copista laico che avea trascritto una di esse; lasciamo da parte che quelle scritture erano state sempre nelle mani del Pizzoni, e poi ancora rimaste ignorate sotto il materasso fino a circa tre mesi dopo la morte di lui; ci limitiamo a dire esserci noto con bastante certezza, che il Campanella attendeva a comporre quelle scritture anche quando si era già mostrato pazzo, che di tempo in tempo mandava qualche pagina scritta a fra Pietro di Stilo, e che i frati vi annettevano anch'essi molta importanza, sperandone forse un grande effetto pel buon esito de' loro processi. Abbiamo a tempo opportuno esposto con larghezza la materia di tali scritture, che rappresentavano le Difese del Campanella nella causa della congiura: potrebbe sembrare che il Nunzio, uno de' Giudici in detta causa, avesse dovuto sentir l'obbligo di trasmetterle al tribunale proprio; ma per Verità quella causa era finita pel Campanella, e non rimaneva a' Giudici che mettersi d'accordo sulla sentenza da doversi pronunziare. Un Giudice coscienzioso non avrebbe certamente mancato di occuparsene ad ogni modo, ma tale non era il Nunzio, su cui, ben più che sul Sances, il Campanella avrebbe fatto senza dubbio cadere i suoi risentimenti, se non si fosse trovato nella necessità di parlarne il meno possibile; non farà quindi meraviglia che quelle Difese fossero rimaste inserte nel processo dell'eresia, utili solamente a noi, che abbiamo così potuto avere la comodità di esaminarle. Ma perché furono esse presentate al tribunale dell'eresia? Evidentemente, nel presentarle, fra Pietro di Stilo non potè aver altro scopo, che quello di fare un tentativo disperato per allontanare almeno temporaneamente l'amministrazione della veglia, senza punto sospettare ch'esse avrebbero potuto andare perdute. E il tentativo non riuscì, ed anche la perdita non influì in alcun modo sull'esito della causa della congiura.

Dopo il tormento della veglia si ebbero le relazioni de' medici periti; il 7 giugno fu scritta quella del magnifico Pietro Vecchione, il 15 quella del magnifico Giulio Jasolino. Costoro appartenevano alla più elevata categoria de' medici allora in voga, e non sarà inutile darne qualche notizia, onde riuscirà manifesto che le ricerche sulla pazzia del Campanella, se vennero condotte con precipitazione, almeno in quanto alle persone de' periti vennero prese certamente sul serio. Pietro Vecchione da Nola, col suo esercizio d'insegnante privato, secondo il costume napoletano, aveasi acquistato tanta riputazione, che giovane ancora, di circa 33 anni, sulla proposta del Cappellano maggiore era stato dal Conte di Lemos il 15 ottobre 1599 nominato lettore della "theorica della medicina ordinaria", cattedra fra le più stimate, alla quale sovente si chiamavano anche i non napoletani, e già occupata da Filippo Ingrassia  (insieme con la pratica) dal 1547 al 1553, da Giovanni Argenterio nel 1556, dal Covillas nel 1560, da Gio. Geronimo di Cotrone da Nola (o viceversa) nel 1565, da Salvio Sclano nel 1570, da Innocenzio Canti nel 1577, da Quinzio Buongiovanni nel 1579, da Latino Tancredi in qualità di straordinario nel 1589, tutta una serie di uomini stimati altamente. Esercitava poi la pratica con immenso successo, ma del resto era uno de' molti, anzi troppi, che non avevano scritto mai nulla, facendo parte di quella beata falange degli uomini illustri inediti, specialità non napoletana soltanto ma italiana, ancor oggi niente affatto estinta, e prova sciagurata che la sua è la via meno disputabile per ottenere la pubblica stima, le alte cariche, i primi onori: il Vecchione infatti ebbe frequentemente accresciuto il suo stipendio, nel 7 giugno 1612 passò alla lettura di pratica, succedendo al Buongiovanni, morì Protomedico nell'aprile 1619. Quanto a Giulio Jasolino, Jazzolino o Azzolino, calabrese(269), già distinto allievo dell'Ingrassia, era un vecchio cultore di anatomia e chirurgia assai accreditato, e basta dire che fu maestro di Marco Aurelio Severino: non ebbe lettura pubblica essendo allora la cattedra di chirurgia ed anatomia occupata da Giuseppe Perrotta di Fratta, che fu il primo a riunire insieme nel pubblico studio in un modo definitivo queste due branche d'insegnamento; ma scrisse alcuni opuscoli, tuttora pregiati da que' pochissimi che si occupano di cose patrie, ed anche illustrò le acque termominerali d'Ischia. Avea già circa 60 anni al tempo di cui trattiamo, e stando in Ischia dettò la sua relazione sul Campanella; morì vecchissimo nel 1633, e fu sepolto nella Chiesa di S.ta Chiara. - Ecco ora ciò che essi riferivano intorno al Campanella(270). Pietro Vecchione scrisse, che invitato a visitare più volte fra Tommaso per riconoscere se fosse davvero desipiente e melanconico o simulasse tale malattia, per quanto avea potuto esplorare con la mente, con la conversazione e coll'opera, avea ben rilevato che egli aberrava nell'immaginativa, nel discorso e nella memoria; ma poichè non avea visto alcuno de' sintomi che sogliono trovarsi negl'infermi di tale malattia e v'erano grandi cause per simulare, era venuto nel dubbio che quella pazzia fosse simulata. Aggiunse che ad esplorarla con maggiore certezza occorreva lungo tempo e gran diligenza degli astanti, ciò che non si era potuto eseguire nelle carceri in cui esso Campanella si trovava, ond'egli non poteva affermare nulla di certo; ma conchiuse, "per quanto mi è dato scorgere congetturalmente, giudico che colui simuli la malattia". D'altra parte Giulio Jasolino, con un lungo scritto, venne nella medesima conclusione, ricingendosi di alquanto maggiori riserve, ed appoggiandosi ad un nugolo di citazioni d'Ippocrate e di Galeno. Ciò che fa riuscire notevole per noi questa sua relazione si è qualche notizia che vi si rileva intorno al modo tenuto nell'osservare il povero Campanella, e qualche motivo di congettura che vi si adduce intorno alla persona del filosofo. Il Jasolino osservò fra Tommaso e gli parlò, a quanto pare, una sola volta, ma certamente in presenza del Nunzio, del Vescovo di Caserta e del Vicario napoletano: ne ebbe risposte non a proposito, e lo vide "melancolico" nell'abito del corpo e nel colore; ma dichiarò non potersi giovare di quest'ultimo fatto, non avendo prima conosciuto il Campanella e non sapendo se tale temperamento fosse il suo naturale ovvero "acquistato per il lungo patimento delle carcere et per il gran timore et mestitia" (non si parla di altre specie di sofferenze, e questo mostra che la visita precedè la veglia). Invece notò che "essendo costui persona malitiosa, come si dice, vafer, callidus, et astutus, se hà da dubitare che la sua pazzia sia simulata": ma aggiunse che intorno a ciò non intendeva affermare nulla di certo, e dichiarò che una lunga osservazione poteva farsi da' custodi, e questa avrebbe voluto, conchiudendo "che cossi si potrà chiarire della verità della fitta, che io stimo ò pure vera pazzia". Adunque, tra il sì e il no, il Jasolino stava egli pure per la pazzia simulata, e il giudizio de' periti in questo senso riusciva uniforme.

Più tardi, il 20 luglio, un'altra circostanza venne a provare a' Giudici che la pazzia doveva essere simulata(271). L'aguzzino che aveva dato il tormento della veglia al Campanella e l'aveva anche riportato nelle carceri, un Jacovo Ferraro di Trani, fu esaminato dal Vescovo di Caserta ed interrogato sopra le "parole che si lasciò dire fra Thomaso Campanella dopò che fu sceso dal tormento". Ed egli rispose: "essendo io intervenuto come ministro dela gran Corte dela Vicaria à dare lo tormento dela veglia à frà thomaso Campanella predetto, dove io intervenni continuamente, havendomelo posto in collo per consegnarlo allo carceriero delle carceri di detto Castello novo, et cacciatolo cossì in collo dala camera dove hebbe lo tormento fino alla Sala reale, detto fra thomaso Campanella mi disse da sè le formate ò simili parole, che si pensavano che io era co...... (int. sciocco) che voleva parlare? et à queste parole non ci fu nessuna persona presente". A voler giudicare la cosa secondo quel che sappiamo della natura del Campanella, bisognerebbe senz'altro ritenerlo del tutto vera; ma l'essersi verificata dopo un tormento di 36 ore, in quello stato descrittoci dall'Atto che ne fu raccolto, riesce sorprendente in modo, da potersi perfino accogliere l'opinione di chi dicesse procurata dal Sances l'assertiva dell'aguzzino; intanto, deposta sotto giuramento da una persona disinteressata, essa aveva ad ogni modo un valore incontrastabile.

Ma non ostante siffatte prove ed indizii, la giurisprudenza del tempo accordava al tormento una forza tale, da annullare tutte le altre prove e "purgare gl'indizii"; e giacchè il tormento era stato gagliardo e non ordinario, tanto più l'inquisito veniva a giovarsi dell'esito avuto, secondo le dottrine de' criminalisti più in voga. Così il Campanella dovea giuridicamente ritenersi pazzo, quantunque tutti fossero persuasi che egli simulasse la pazzia. E la conseguenza nel tribunale di S.to Officio non era indifferente: come "relapso" egli anche pentito avrebbe dovuto essere degradato e consegnato alla Curia secolare, che l'avrebbe fatto morire; essendo pazzo, non poteva più patire condanna, e laddove fosse stato già condannato dovevagli essere risparmiata la pena di morte, sul riflesso che avrebbe potuto un giorno rinsavire e pentirsi(272). Non occorre dire quanto siffatto principio sia degno di nota, per valutare giustamente la risoluzione che da Roma venne presa più tardi intorno al Campanella.

Le copie di tutti questi Atti processuali erano inviate mano mano a Roma, secondochè mostrano le note di tempo in tempo inserte nel processo dal Notaro Prezioso: ma dopo tanto movimento si ebbe una lunga fermata, sicuramente perché i forti calori della stagione estiva solevano tenere lontano da Napoli il Vescovo di Caserta, e poi più tardi perché la malattia la quale afflisse il Vicerè, e finì per trarlo alla tomba, fece mancare un assiduo ed istancabile sollecitatore della causa. Appena un solo altro Atto fu compiuto nel resto dell'anno, e con molta fiacchezza, per un novello incidente sorto in questo tempo.

Il 2 agosto avveniva tra frati e laici carcerati una rissa, della quale non si potrebbero in modo assoluto affermare le particolarità precise, poichè fu seguita da fatti ne' quali dovè intervenire il tribunale, e naturalmente ogni inquisito si fece a narrare le cose a modo suo: ne diremo quanto si potè raccogliere intorno ad essa dalle migliori testimonianze non soltanto degl'inquisiti ma anche degli ufficiali del Castello. Quello spirito irrequieto di Felice Gagliardo era stato dapprima in compagnia di Orazio S.ta Croce nel Castello dell'ovo per 17 mesi, ed ivi, oltre al mantenere corrispondenza co' banditi delle vicinanze di Reggio, che stavano in relazioni col padrigno suo Pietro Veronese, oltre al comporre prose e versi, un po' per bizzarria un po' per bisogno si diede a coltivare la negromanzia: il Castellano D. Melchiorre Mexia de Figueroa, che già l'avea fatto rinchiudere in un criminale, avvertito da' carcerati, e tra questi anche da Jacobo Moretto, che presso di lui si trovavano molte carte di negromanzia e già molte altre dello stesso genere ne avea lacerate, fece egli medesimo una ricerca e prese tutte le carte che trovò, delle quali alcune trasmise a D. Giovanni Sances, altre tenne presso di sè, altre lasciò prendere da Scipione Moccia Auditore del Castello. Tradotto poi nel Castel nuovo, il Gagliardo venne posto in una medesima camera con Orazio S.ta Croce, con fra Paolo della Grotteria, fra Giuseppe Bitonto e Giuseppe Grillo, di poi insieme col S.ta Croce passò a stare col Soldaniero, più tardi fu di nuovo allogato nella camera in cui si trovavano fra Paolo e il Bitonto, e con essi il Petrolo e fra Pietro Ponzio: naturalmente egli si strinse subito in amicizia con fra Paolo, che sappiamo amatore di segreti e sortilegi, e col Bitonto, che già conosceva e che si mostrò egualmente proclive a questo genere di cose; un altro carcerato Cesare d'Azzia napoletano, li aiutò grandemente ne' loro studî, prestando una copia manoscritta della così detta Clavicola di Salomone, ancor oggi tenuta in onore dagl'imbecilli che si occupano di divinazioni segnatamente pel giuoco del lotto, inoltre un libro manoscritto di segreti, ricette, scongiuri ed artifizii magici(273). Il Gagliardo e il Bitonto si diedero subito a trarre una copia di tali scritture, e s'intesero tra loro al punto, che o per amicizia o piuttosto dietro qualche piccolo compenso, facile ad assumere ogni maniera di responsabilità quasi bravando i rigori del tribunale, il Gagliardo rilasciò al Bitonto una dichiarazione scritta in presenza del Curato del Castello ed altri testimoni; con questa affermava non esser vero quanto in processo leggevasi deposto da lui contro il Bitonto, cioè che costui gli avea detto di stare in ordine perché presto vedrebbe succeder guerre, ma esservi stato falsamente inserto da quelli che formarono il processo. Tali scritture, con altre ancora, si conservavano in una cassa appartenente al Bitonto, e questa cassa, non molto tempo prima dell'avvenimento che dobbiamo narrare, fu portata dal Bitonto nella camera di fra Dionisio, ritenutane la chiave in poter suo, pel motivo o pel pretesto che nella camera in cui stava erasi verificato qualche furto. Ora appunto il 2 agosto fra Pietro Ponzio disse al carceriere che facesse uscire il Gagliardo dalla camera dove trovavasi in compagnia di loro frati, e gli suggerì di allogarlo in un'altra camera in cui si trovava Camillo Adimari col Marrapodi, Conia, Soldaniero e S.ta Croce. L'Adimari uscito fuori sulla loggetta del corridoio, se ne risentì, perché già stavano troppi letti in quella camera, e venne alle mani con fra Pietro il quale gli diede uno schiaffo. Accorsero allora i laici da una parte e i frati dall'altra, gli uni in difesa dell'Adimari e gli altri in difesa di fra Pietro: segnatamente il Soldaniero, il S.ta Croce e il Gagliardo, si azzuffarono col Petrolo, col Bitonto ed inoltre con fra Dionisio uscito dalla sua camera per quel rumore, avendo i frati "sarcene alle mani e seggiolelle di paglia" (fascetti di legna da ardere e sedie comuni), e servendosi i laici de' loro cinturoni di cuoio come allora si usavano. I soldati del Castello e il carceriere intervennero e separarono i contendenti, cacciandoli nelle rispettive camere; ma fra Dionisio fu trovato ferito alla fronte, e dapprima disse che l'aveano ferito il S.ta Croce e il Gagliardo, poi, venuto nel Castello l'inframmettente Padre Mendozza, disse a costui che l'avea ferito il Soldaniero.

Nella sera dello stesso giorno, da un lato il Soldaniero si presentò al luogotenente del Castello D. Cristofaro de Moya, d'altro lato il S.ta Croce e nientemeno anche il Gagliardo si presentarono al sergente Francesco Alarcon, dicendo che per servizio di Dio e di S. M.tà facessero fare una ricerca nella camera di fra Dionisio, rovistando tutta la camera ed una cassa che là si trovava, perché sarebbero venute fuori "scritture e carte triste e prohibite"; e quegli ufficiali, insieme con due soldati e col carceriere Martines, si portarono a fare la ricerca non solo nella camera di fra Dionisio, facendolo stare presente, ma anche nella camera degli altri frati e in quella del Campanella. Presso fra Dionisio fu trovata qualche lettera e segnatamente una lettera di un Sertorio del Buono da Fiumefreddo a lui diretta; fu trovata inoltre la cassa di pioppo bianco ma senza la chiave, e fattala trasportare alla camera del Castellano ed avuta la chiave dal Bitonto, ne furono estratte le "carte di fattocchiarie", la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo in favore del Bitonto ed anche le scritture concernenti la persona di fra Dionisio nella causa di eresia, vale a dire gli articoli del fiscale contro di lui, gli articoli suoi in sua difesa, e dippiù una "Consideratione dell'essamina et lettura del processo de pretensa rebellione". Presso fra Pietro Ponzio fu trovato "dentro uno marzapane grande tondo" (canestro tondo di vimini fornito di coverchio) un libretto di Poesie rivestito di pergamena, "con zagarelle di seta pavonazze e rangiate" per fermagli; erano le poesie del Campanella che fra Pietro si occupava di raccogliere e divulgare. Presso gli altri frati la ricerca riuscì infruttuosa, ed unicamente sotto il capezzale del letto del Gagliardo, che stava con loro, furono trovate scritture di magia con circoli e segni; ma più si sarebbe trovato se la ricerca fosse stata condotta con maggior diligenza, e difatti più tardi ne vennero fuora altre carte di sortilegi. Infine presso il Campanella fu trovata qualche altra cosa, e ne lasciamo il racconto al sergente Alarcon che così si espresse quando fu poi esaminato più tardi su tale incidente: "Andassemo ancora à cercare la camera di frà Thomaso Campanella, et non vi trovai altro eccetto che una lettera serrata, non mi ricordo à chi era diretta, et perche lui stava malato in letto, ce stava un suo fratello dentro la camera, non mi ricordo il nome, et il patre stava fuori la camera, et mentre si faceva la cerca, se accorse lo tenente che il fratello di Campanella era stato alla cancella, et entrò suspetto che non havesse buttato alcuna cosa dala fenestra, et quando fummo à basso al reveglino trà le due porte del Castello, trovassemo una scrittura di diece ò dodici fogli in circa scritti, quali anco io pigliai è portai al Sig.r Castellano"(274). Vedremo più tardi cosa fosse questo scritto del Campanella: diremo intanto che il Castellano D. Alonso de Mendozza, viste le carte, il giorno dopo ordinò che fossero rinchiusi nel torrione del Castello, in due criminali separati, fra Pietro Ponzio primo motore della rissa e fra Dionisio ritenuto autore delle carte proibite; ordinò inoltre che tutte le carte trovate nella ricerca fatta fossero portate al Vicerè dallo stesso luogotenente De Moya. Con ogni probabilità allora appunto, nell'essere fra Dionisio preso e tradotto al torrione, vennero trovate ancora nella camera di costui quattro lettere di fra Pietro di Stilo, in data del 3 agosto, scritte pochi momenti prima da fra Pietro a persone amiche e parenti di Gio. Gregorio Prestinace. Ecco ora quanto accadde delle carte portate al Vicerè, secondochè narrò il De Moya quando fu poi chiamato a deporre: "Le fici portare... à sua Eccellenza del vicerè di questo Regno, che stava alhora à chiaya alle case è giardino di Don Pietro di toledo, et io proprio in nome di detto Sig.r Alonso castellano le consegnai al vicerè alla presentia di Don Pietro Castelletta Regente di Cancellaria, è di Don Giovanni sanges de luna, dandoli conto come si erano trovate è dove, et in particolare dissi che alcune di quelle scritture erano state trovate dentro di una cassetta di detto fra Dionisio pontio, et detto Don Pietro et Don Giovanni le veddero è lessero, et alhora medemo il vicerè ordinò fussero date sicome foro date al detto Sig.r don Giovanni sanges de luna, il quale se le pigliò in suo potere, e ben vero che tre à quattro di quelle carte restorno in potere del vicerè, il quale ordinò che se notassero che scritture fussero, et credo che don Giovanni le notasse, et quali foro quelle che si pigliò il vicerè io non le so, è mi ricordo che io ci viddi una carta nella quale era una mano pinta, ò fatta con la penna et inchiostro, altro in particolare non mi ricordo, è poi io mi licentiai dal vicerè et me n'andai"(275). Probabilmente le scritture che il Vicerè tenne presso di sè furono quelle di segreti, ricette e sortilegi, le quali destavano curiosità: ad ogni modo doverono certamente destare curiosità sopra tutte le altre quelle della difesa di fra Dionisio nella causa di eresia, per le quali si potè avere una notizia abbastanza precisa di detta causa. Riesce poi notevole che il Vicerè non abbia fatto trasmettere al S.to Officio le carte che cadevano sotto il dominio di quel tribunale: è impossibile ammettere che egli non vi avesse dato importanza, ma si può meglio ritenere che egli non le abbia trasmesse per evitare un motivo di ulteriori lungaggini. Invece se ne diè moltissima cura fra Dionisio, che non quietò, finchè non venne ordinato di pigliare informazione su questa faccenda delle scritture.

Non appena potè, fra Dionisio mandò al Vescovo di Caserta un memoriale, supplicandolo di venire in Castello "per cose importantissime di S.to Officio"; e il 26 agosto, innanzi al Vicario Arcivescovile e al Rev.do Antonio Peri, trovandosi impedito il Nunzio ed assente il Vescovo di Caserta, fu interrogato circa il memoriale mandato(276). Egli disse che coloro i quali gli si erano esaminati contro, in materia di eresia e di ribellione, avevano assaltato lui ed il germano fra Pietro, l'avevano ferito alla fronte con effusione di sangue, e poco dopo, fatta una ricerca nella sua camera, erano state trovate scritture proibite in una cassa, la quale apparteneva al Bitonto, che l'avea portata presso di lui perché la conservasse; e ne' giorni seguenti aveva visto quelle scritture in mano del Barrese, venuto in Castello per dimandargli se fossero sue, e credeva che il Bitonto gli avesse "fatto il tradimento" d'accordo col S.ta Croce, Soldaniero e Gagliardo, tanto più che fra Pietro, il quale si trovava, come egli stesso, in un criminale, avea minacciato costoro di volerli denunziare al S.to Officio per cose gravissime. Chiese quindi che si pigliasse informazione intorno a quelle scritture, che ne fossero gastigati gli autori o possessori, che si desse a fra Pietro suo germano il modo di poter presentare i capi di accusa contro que' suoi nemici, che fossero costoro "separati e posti in clausura", tanto perché potesse scovrirsi la loro perversità, quanto perché erano incorsi nella scomunica. Dietro dimande, disse che avea conosciuto essere quelle scritture di carattere del Gagliardo, aggiungendo che insieme con esse avea veduto in mano al Barrese anche le sue scritture di difesa e i capi del fisco in materia di S.to Officio (così profittava dell'occasione, se pure non l'aveva egli stesso provocata, per giustificare i suoi ritardi e prender tempo ulteriormente): disse ancora che tutti e tre que' ribaldi l'aveano percosso, ma il S.ta Croce l'avea ferito, mostrando la ferita, medicatagli "dal chirurgo del Castello nomine Scipione" di cui non sapeva il cognome (Scipione Camardella). Diede l'elenco de' testimoni, e dichiarò causa della rissa l'aver voluto fra Pietro Ponzio discacciare dalla camera sua il Gagliardo "per alcuni furti et perche haveva inteso che andava vendendo magarie"; aggiunse che la cassa del Bitonto era stata solamente circa otto giorni in camera sua. - Verso lo stesso tempo, Camillo Adimari sporse querela al Vicario Arcivescovile contro fra Pietro Ponzio, perché aveva insultato esso querelante pacifico e quieto, e gli avea dato uno schiaffo in presenza della maggior parte de' carcerati, onde chiedeva una diligente informazione su questa insolenza e un provvedimento di giustizia. Naturalmente fra Pietro non poteva starsene tranquillo, dovea rispondere alla provocazione e già avea mostrato, per mezzo di fra Dionisio, che non gli mancava la materia per la risposta. D'altra parte ancora, non si saprebbe dire perché, il Lauriana mandò al Rev.mo Vicario un memoriale, supplicando di essere riesaminato. Ma il tribunale non si riscaldò menomamente, non diè segno di vita per tutto il resto dell'anno, né ripigliò poi le sedute senza una sollecitazione del Card.l di S.ta Severina. Evidentemente le sollecitazioni efficaci dalla parte del Governo di Napoli erano venute meno.

Come abbiamo avuta occasione di accennare, il Vicerè fu in questo tempo afflitto da una malattia che lo condusse alla tomba. Fin dal giugno erasi recato a Pozzuoli, con la speranza di guarire da certi edemi che gli erano comparsi e che si dicevano "pienezza di carne"; quindi era tornato a Napoli prendendo stanza a Chiaia. Ma a' primi di settembre già susurravasi essere la malattia dell'intestino retto e dover finire con una "fistola penetrante"; se ne indicava anche la cagione, attribuendola alla intemperanza dell'infermo, per la proclività ad accettare i banchetti offertigli continuamente da' Nobili e forse graditi alla sua Signora più che a lui. I medici erano in moto, e come faceva sapere il Residente Veneto al suo Governo, il 18 7bre ritenevasi ottenuto un miglioramento, per una medicina che "una parte de' medici si era arrischiata a dargli dopo molti dispareri". Una insignificante relazione sullo stato dell'infermo, con richiesta di consiglio e rimedio, fu inviata dalla casa del Vicerè al dottor Diaz a Pisa, e leggesi in quel grande emporio di notizie che è l'Archivio di Firenze(277): ma un medico di provincia, che abbiamo già avuta occasione di nominare, Giacomo Bonaventura, predisse francamente male, e questo esatto pronostico gli valse l'onore di esser chiamato al servizio di Clemente VIII, avendo Gio. Geronimo Provenzale dovuto recarsi all'Arcivescovado di Sorrento, che gli era stato concesso nel 1598 e che si godè fino al 1612(278). Dopo di aver molto penato, "con febbre, flusso, siero e fistola penetrante", il 19 ottobre il Vicerè venne a morte; a 57 anni di età, dopo 57 giorni di malattia, come notarono gli studiosi de' numeri di quel tempo, calcolando il principio della malattia dal giorno in cui pel suo aggravamento si divulgò; essi notarono ancora che a breve intervallo venne a morte anche il fratello suo da lui tanto stimato, l'Arcivescovo di Taranto. Il Parrino ci ha tramandato le notizie delle pompe funebri, con l'elenco de' distinti personaggi che portarono sulle loro spalle la salma del Vicerè, tra i(279) quali Carlo Spinelli; così pure le lodi dell'estinto, il compianto dei cittadini etc. etc. e questa volta bisogna dire che abbia ragione, poichè dopo la condotta per lo meno scempiata del Conte Olivares suo predecessore, la condotta del Conte di Lemos apparve tanto più degna di encomio. Non mancarono a' canti delle vie, come già in certi altri momenti del suo governo, le così dette pasquinate e i cartelli infamatorii, sfogo abbastanza frequente e per lo più espresso in modi goffi, ma che pure gioverebbe e non sarebbe sempre difficile conoscere rovistando le antiche scritture: bisogna pertanto notare che p. es. il Residente Veneto biasimò sempre tali manifestazioni contro il Lemos, e talora con parole estremamente acerbe(280).-Successe come Luogotenente generale D. Francesco de Castro secondogenito del Lemos, il quale pure altra volta, in assenza del padre andato a Roma, avea governato il Regno con lo stesso titolo. Già sappiamo che allora non mancò d'insistere perché il negozio de' frati avesse un termine, ma non apparisce che avesse fatto sollecitazioni in questo periodo del suo governo, avendo invece cominciato a farle molto più tardi.

Intanto i frati languivano già da un pezzo e continuarono a languire nella più squallida miseria, circostanza da notarsi per comprendere alcune delle poesie del Campanella, che a suo tempo dovremo passare a rassegna. Una lettera del Nunzio, scritta fin dal 7 7bre al Provinciale de' Domenicani di Calabria(281), ci fa sapere che da' conventi di quella Provincia erano stati una volta mandati danari perché fossero distribuiti a' carcerati, ma che appunto il Campanella, il quale ne avea "bisogno più che gli altri come malato, non hebbe nulla"; e però il Nunzio aveva ordinato che fosse risarcito con la somma che allora si diceva pronta per lo stesso oggetto, e che tutti i danari rimanessero in mano di un corrispondente del Campanella in Napoli, il quale l'avrebbe provveduto di quel che gli fosse occorso, ed avrebbe badato, "sendo mentecatto", che non gli fossero rubati; aggiungeva poi il Nunzio che di tempo in tempo avrebbero dovuto mandarsi altre somme. Ma non apparisce che i danari, i quali si dicevano allora pronti, fossero stati così presto disponibili; essi doveano passare per varie mani e poteano per lo meno incagliare per via. Difatti vedremo più in là che una somma di D.ti 200 inviati da Calabria, con ogni probabilità quella medesima per la quale avea scritto il Nunzio, ebbe a patire la detta traversìa ed anche qualche cosa di peggio. né ci mancano documenti da' quali si desume che i poveri carcerati, nel tempo cui siamo pervenuti, doverono reclamare più volte a Roma e poi anche a Napoli, perché si provvedesse alle cose necessarie pel loro vitto.



IV. L'anno 1602 cominciò con una sollecitazione del Card.l di S.ta Severina al Vescovo di Caserta, per la quale si vide presto cessata la sospensione della causa(282). Il 4 gennaio, a nome della Congregazione de' Cardinali colleghi il S.ta Severina scriveva che non si era saputo più nulla intorno alla causa, che oramai per la morte del Vescovo di Squillace, pel lungo tempo trascorso etc. non c'era nulla da attendersi sulle informazioni commesse in quella diocesi, che infine si voleva conoscere se fosse stato provvisto al vitto de' carcerati, come più volte erasi da Roma ordinato a' loro superiori. - E gli 11 gennaio i carcerati dirigevano anch'essi un memoriale al Vescovo(283) facendogli sapere che in quel giorno si era recato presso di loro lo scrivano dell'Inquisizione (forse il Prezioso) per intendere i loro bisogni, ma avea "dimostrato non troppa intentione di charità", e quindi supplicavano che si provvedesse. Tutti i frati apposero la loro firma a quel memoriale, ma pel Campanella l'appose il carceriere Alonso Martines, e da ciò ben si rileva che egli continuava sempre a mostrarsi pazzo.

Il 13 gennaio, innanzi al Vescovo di Caserta e al pro-Vicario generale Curzio Palumbo, che a questo periodo del processo sostituì definitivamente il Vaccari nell'assistenza alle sedute, fu esaminato di nuovo fra Dionisio e gli fu dimandato se volesse dire altro, poichè le risse e le inimicizie da lui deposte non erano materia di S.to Officio. Fra Dionisio rispose che aveva inteso deporre sulle scritture trovate in camera sua e mostrategli dal Barrese, per le quali voleva essere punito se mai fosse risultato colpevole. Aggiunse poi che il Soldaniero, comunque scomunicato per averlo percosso, e già prima scomunicato anche dal Vescovo di Tropea per violata immunità ecclesiastica, non se n'era mai curato né se ne curava, continuando ad ascoltare la Messa nella Chiesa del Castello. - Certamente il tribunale dovè allora rivolgersi a S. Eccellenza per avere le scritture in quistione, giacchè poco oltre un mese dopo, per ordine di S. Eccellenza, le scritture gli furono inviate: ma non credè di dover ritardare per questo la spedizione della causa principale, non si curò dell'avere fra Dionisio esposto che gli erano state tolte anche le scritture di difesa e i capi del fisco, procedè agli atti ulteriori e poco dopo abilitò, come allora si diceva, il Soldaniero ad uscire dal carcere. Fra Dionisio ebbe a sentirsene gravemente offeso, e pensò allora di rivolgersi al S.to Officio di Roma, dal quale vedremo in sèguito ordinato di procedere alla debita informazione sulla faccenda delle scritture. Non meno ebbe a sentirsene offeso fra Pietro Ponzio, il quale poco tempo prima avea potuto finalmente presentare i suoi capi di accusa, una denunzia formale in materia di S.to Officio contro i laici intervenuti nella rissa e qualche loro aderente, tra gli altri contro il Soldaniero. Entrambi i Ponzii erano stati tenuti quattro mesi ne' criminali del torrione, e può intendersi facilmente come fossero anche per questo divenuti furiosi.

Dobbiamo qui dire che nella stessa data, 13 gennaio 1602, fu iniziato un processo secondario contro Orazio S.ta Croce continuato poi contro Felice Gagliardo, sulla base appunto della denunzia presentata da fra Pietro Ponzio, la quale veramente, oltre il S.ta Croce e il Gagliardo comprendeva anche Giulio Soldaniero e un Ferrante Calderon dottore spagnuolo del pari carcerato(284). I lettori intenderanno che riuscirebbe impossibile seguire tutti i particolari di questo processo, condotto a sbalzi per due anni interi, senza intralciare orribilmente la narrazione del processo principale ed anche correre il rischio di non finirla più; ma non possiamo dispensarci dal darne alcuni cenni, i quali veramente sono necessarii a chiarire certi fatti del processo principale, senza contare che ci fanno apprendere come si passava la vita nel Castel nuovo quando c'era il Campanella. La denunzia di fra Pietro mandata al Card.le Arcivescovo di Napoli, recava le seguenti cose, illustrate ed ampliate poi nel corso del processo a questo modo: 1° Contro il S.ta Croce; che era un pubblico bestemmiatore e diceva anche continuamente "santo diavolo" (esclamazione calabrese ancor oggi comunissima); che giocando a dadi col carceriere avea detto "Dio, non ti credo, se la prima volta ch'io giocarò con Martines non mi farai uscire da questo Castello con un Crocifisso alle mani et un chiappo in canna" (un laccio al collo per essere appiccato), e poi avea seguitato a giocare col Martines; che avea detto essere "il diavolo assai più potente di Dio, perché Dio non aiuta gl'innocenti e il diavolo aiuta li suoi vassalli li tristi"; che non dava alcun segno di devozione, non andava a Messa né recitava officio né rosario, e ne' giorni solenni era visitato da una certa Delia sua antica concubina, con la quale stava di giorno e di notte, mangiava e giaceva in presenza anche de' frati, ed essendogli stato ciò proibito avea proferita una laidissima proposizione (la quale perciò sarà meglio non ripetere); che avea ferito fra Dionisio nella rissa, e trovandosi scomunicato non se n'era dato mai pensiero, anzi alle osservazioni fattegli avea risposto con un proverbio calabrese, "meglio essere scomunicato che comunicato all'imprescia" (comunicato in fretta). 2° Contro il Gagliardo; che era un pubblico mago e disegnava circoli con nomi di demonii, ed un libro con circoli disegnati trovavasi nelle mani degli ufficiali del Castello, anzi una volta un soldato con una gamba di legno, che stava al Castello dell'ovo, venuto ad esigere danari da lui avea detto che in quel Castello gli erano state trovate carte contro Dio; inoltre che nel Castel nuovo un certo Marcantonio Buono calabrese veniva a visitarlo per cose magiche, ed un giorno rimasti soli fecero insieme suffumigi con zolfo "e una pignatella piena di mill'imbroglie", e Geronimo Campanella entrando nella camera se n'uscì subito spaventato e cacciato dal puzzo gridando che là "ci erano cento mila diavoli", che in presenza de' carcerati si era vantato di rapporti carnali avuti con la suocera e la sorella della suocera, dicendo che era più dolce avere di tali rapporti con le parenti, e bene avea fatto Mosè a prescriverli; che pubblicamente ritenevasi aver lui scritto col proprio sangue una carta al diavolo donandogli anima e corpo; che era ladro, e in tutte le sue azioni avea sempre mostrato poco timore di Dio. 3° Contro il Soldaniero; che da due anni scomunicato per Cedoloni affissi alla Cattedrale di Tropea, e poi incorso nuovamente nella scomunica per aver percosso sacerdoti suadente diabolo non si era curato dell'assoluzione, continuando a udir la Messa e conversare con tutti absque resipiscentia. 4° Contro il Calderon; che avendo chiesto a fra Pietro su che si fondava il Campanella per sostenere prossimo il dì(285) del giudizio, ed avendo udite citazioni della scrittura e de' Padri, e tra esse qualcuna di Esdra, si era lasciato dire essere Esdra semplice storico e non profeta; che avendo udita la citazione di S. Vincenzo Ferreri, cui Cristo aveva ordinato di predicare nell'occidente la prossima ora del giudizio, come leggevasi nel Breviario, si era lasciato dire queste essere ciarle fratesche per accrescere onore alla religione; che discorrendo della fede ne' beati ed in noi viatori, si era lasciato dire altro essere ciò che noi crediamo ed altro ciò che quelli vedono, ed esservi differenza non solo nel principio e nel mezzo, ma anche nelle conclusioni della fede; che infine si era lasciato dire la fede vera procedere dall'esperienza e non dall'udito, né voler credere se non ciò che vedeva.

Co' criterii odierni non si potrebbe comprendere come mai fosse stato tratto in iscena questo povero dottore; ma bisogna sapere che nelle cose di S.to Officio non si transigeva facilmente in quel tempo, ed al contrario di quanto generalmente si ritiene, lungi dall'essere il tribunale della fede mal tollerato, vi si accorreva molto volentieri, come lo dimostrano le "spontanee comparse" contro la propria persona, numerose al punto da far rimanere stupiti allorchè si esamina una collezione di scritture di questo genere. Ad ogni modo sulla denunzia suddetta di fra Pietro Ponzio, cui si aggiunse la querela di Camillo Adimari contro fra Pietro per lo schiaffo che costui gli avea dato, querela del resto malamente diretta al tribunale della fede e però inutile, si diè principio al processo in quistione. Funzionarono quali Giudici il Vescovo di Caserta, Curzio Palumbo ed Antonio Peri, nella sola prima seduta; poi Curzio Palumbo e D. Manno Brundusio Fundano, clerico, Segretario del Vescovo di Caserta, nella 2a seduta e in qualche altra(286); più tardi funzionò il solo Curzio Palumbo qual deputato speciale, e talvolta senza questo titolo, che anzi in qualche decretazione figurò il Cardinale Arcivescovo Gesualdo, e il nuovo Vicario generale Alessandro Graziano. Un notevole elenco di testimoni fu dato da fra Pietro ed anche dall'Adimari, e questo riesce di molta importanza per noi. Oltre i frati, D. Francesco Castiglia, il carceriere Martines e il sottocarceriere Antonio Ettorres (sic), vi figuravano pure Francesco Gentile, Geronimo e Gio. Pietro Campanella, il Marrapodi, il Conia, l'Adimari medesimo (dato da fra Pietro); Geronimo Baldaia, Marcello Salerno: il Notaro Prezioso, che dovea farne la ricerca, scrisse i nomi di questi ultimi, eccetto quello di Gio. Pietro Campanella forse per dimenticanza, e vi segnò a lato il rispettivo domicilio, onde si legge, "Geronimo Campanella è in Stignano, Geronimo Conia à Castellovetere, Camillo Adimari è d'altomonte non si sà dove sia" etc; quanto a Francesco Gentile si legge, "è stato carcerato e liberato, non se sape dove habita", e poi, "à mezzo cannone alla banda de la fontana, sagliendo ad alto passata la fontana" (una via di Napoli molto conosciuta). Raccomandando all'attenzione de' lettori questa notizia sul Gentile di cui avremo ad occuparci più in là, osserviamo per tutti i calabresi suddetti che erano già liberi nel tempo in cui fu scritta dal Prezioso quella lista, ed anche l'Adimari era libero, onde aggiungevasi quest'altro motivo perché la sua querela rimanesse abbandonata: il processo della congiura era dunque finito per essi prosperamente, né il S.to Officio avea posta l'empara per quelli che aveva esaminati in materia di fede, vale a dire Marrapodi, Conia, Adimari e d'altra parte Geronimo Campanella, sicchè avea lasciato cadere le imputazioni dapprima accolte contro di loro. Ma la data in cui fu scritta la lista del Prezioso non è determinata; si può solamente dire che dovè essere scritta tra il febbraio e l'aprile 1602, e però tale sarebbe la data approssimativa del rilascio della maggior parte di que' carcerati, mentre sappiamo che taluni di loro, come il Baldaia ed anche il Salerno, erano liberi da un pezzo; difatti dobbiamo ritenere essere stata scritta la lista quando trovavasi ancora in ufficio il Martines, che dal processo sappiamo aver patita l'esonerazione in maggio, mentre poi il processo fu avviato realmente nel mese di marzo, e continuato a riprese in luglio, agosto, settembre e novembre. Dapprima, il 13 e 19 gennaio, fu esaminato fra Pietro Ponzio per lo svolgimento della denunzia presentata; di poi si attese fino al 6 marzo per esaminare il Soldaniero, il quale già trovavasi fuori carcere e ad ogni modo pervenne a giustificarsi, affermando che nella rissa si era limitato a dividere i contendenti, e che in Tropea non era stato scomunicato lui ma un Camillo di Fiore al quale egli era subordinato; inoltre il 7 e 19 marzo furono esaminati quali testimoni fra Pietro di Stilo e il Petrolo, che confermarono i fatti asserti nella denunzia, e gl'illustrarono fornendo tutti i particolari sopra esposti. Si effettuò poco dopo la pace tra i Ponzii e il S.ta Croce, e costui, assolto dalle censure, venne quindi esaminato intorno alla rissa (28 marzo), nella quale affermò aver presa parte solo per dividere i contendenti, ed essere la ferita di fra Dionisio imputabile non a lui ma al Soldaniero. Dopo questo esame il processo rimase lungamente interrotto, né venne ripigliato che scorsi quattro altri mesi, nel luglio; dobbiamo dunque anche noi interromperne l'esposizione.

Dicevamo che il tribunale non credè di dover ritardare la spedizione della causa principale per qualsiasi motivo, e difatti il 19 gennaio 1602 ordinò che fosse condotto alla sua presenza fra Dionisio, e gli assegnò un termine preciso e perentorio di altri 15 giorni per fare qualunque difesa se volesse farne; e fra Dionisio espose che non aveva Avvocato, e che gli occorreva la copia delle difese sin allora fatte. Nel giorno medesimo tenne lo stesso procedimento col Petrolo, col Lauriana, con fra Pietro di Stilo, con fra Paolo, col Bitonto, chiamandoli in massa alla sua presenza, e non ricordando che fra Pietro di Stilo aveva già da un pezzo rinunziato alle difese. - Ma il 26 gennaio fra Paolo e il Bitonto presentarono egualmente la loro rinunzia e dimandarono di essere spediti secondo gli Atti del processo che ritenevano legittimamente compilato, dicendosi poverissimi ed innocentissimi, cruciati da lungo carcere "per la tentata ribellione pretesa e figurata in aria, con riverenza, e per l'eresia": lo stesso poi fecero, il 29 gennaio, il Lauriana e il Petrolo, dicendosi del pari innocenti, innocentissimi, cruciati da lungo carcere e l'ultimo di loro anche da un lungo tormento. Il tribunale allora, il 31 gennaio, citò questi frati compreso fra Pietro di Stilo, ed il loro Avvocato Stinca e Procuratore Montella, perché dopo di essere stata intimata tale citazione venissero sulle 19 ore (verso mezzogiorno) alle case de' Giudici, per dire ed allegare su' capi spettanti al S.to Officio ciò che volessero, tanto a voce che in iscritto, nel diritto e nel fatto; e l'intimazione fu eseguita il 2 febbraio. Certamente non si potè fare lo stesso con fra Dionisio, poichè bisognava prima fornirlo de' documenti che gli mancavano e che egli aveva indicati al tribunale per poter fare le sue difese; e così forse accadde di dover procurare dall'altro tribunale la copia dell'esame di Cesare Pisano innanzi allo Sciarava, copia che trovasi inserta nel processo tra gli Atti del tempo al quale siamo giunti, senza saperne il motivo(287).

Deliberavasi intanto l'"abilitazione" del Soldaniero, e il 12 febbraio, fattolo venire alla presenza de' Giudici nel palazzo del Nunzio, lo si avvertì che dovea tenere per carcere la città di Napoli, in guisa da non poterne partire senza licenza ottenuta da' Giudici in iscritto, sotto pena di D.i mille in beneficio del fisco apostolico; e il Soldaniero si obbligò alla detta pena dando in garanzia tutti i suoi beni, ed indicò qual suo domicilio l'alloggio di Lucrezia la bottegaia alla Carità. - Ma i frati già avevano concertato di far cadere interamente sopra di lui la responsabilità delle scritture di sortilegio, e senza alcun dubbio si diedero premura di far accedere anche Felice Gagliardo al loro disegno. Così, fin dal 2 febbraio, fra Dionisio potè presentare al tribunale una Dichiarazione in questo senso, scritta da Felice Gagliardo e da fra Giuseppe Bitonto, a' quali si aggiunse inoltre fra Pietro di Stilo e fino ad un certo punto anche il S.ta Croce: costoro, più o meno, dichiaravano che alla loro presenza, mentre stavano sulla loggetta del Castello e il Bitonto portava la sua cassa nella camera di fra Dionisio, Giulio Soldaniero lo avea pregato di conservargli certe sue scritture d'importanza, le quali erano chiuse e suggellate, e il Bitonto per fargli servigio aveva aperta la cassa e rinchiuse in essa quelle scritture(288). Il Gagliardo, che n'era stato per lo meno il copista insieme col Bitonto, con la solita disinvoltura aggiunse nella dichiarazione sua che quando il Soldaniero, dopo la rissa, fece istanza al luogotenente e sergente del Castello perché procedessero ad una ricerca di carte presso fra Dionisio, disse a lui Gagliardo, "non dubitare, ch'io cilo carricata (int. ce l'ho caricata) a fra Dionisio, et adesso sì che lo farò bruggiare, perche quelli scritture che me vedesti porre in quella cassa sono pieni di negromantie et d'invocatione di diavoli, et sarà il complimento della sua rovina, et poco li gioveranno le defensione sue ch'ha fatte". Quanto al Bitonto, si capisce che cadendo su lui la responsabilità principale in questa faccenda, avea tutto l'interesse di fare e di procurare che altri facessero simili dichiarazioni: fra Pietro di Stilo poi vi si prestava gentilmente nell'interesse di tutti i frati, e si vede bene che i comuni pericoli aveano in lui cancellata ogni traccia della ripugnanza che avea sempre sentita per la persona di fra Dionisio. A questi tre venne ad aggiungersi ancora Orazio S.ta Croce, il quale per altro attestò solamente di aver veduto il Bitonto portare la sua cassa in camera di fra Dionisio e là deporla: con ogni probabilità egli dovè rilasciare questa dichiarazione, del resto veridica, a fine di cattivarsi i Ponzii co' quali gli premeva di far la pace, che difatti fu segnata tra loro nel seguente mese e gli procurò l'assoluzione dalla scomunica in cui era incorso. Fecero da testimoni nell'anzidetta dichiarazione il Curato e il Sagrestano del Castello, D. Gaspare d'Accetto e D. Francesco della Porta, inoltre il sergente Alarcon e due altri: essi certificarono le firme de' dichiaranti, ma solo quelle de' primi tre, la qual cosa dà motivo di ritenere che il S.ta Croce dovè intervenire più tardi.

E si ebbero finalmente le scritture che si aspettavano, verso il 20 febbraio. A questa data, secondochè si legge nella prima carta del volume in cui quasi tutte furono riunite come allegati, D. Juan Lezcano, segretario di S. Eccellenza, partecipò al Vescovo di Caserta che S. E. aveva ordinato a D. Giovanni Sances di consegnare a S. S.ia R.ma le scritture trovate nella cassa di fra Dionisio Ponzio, ed insieme con esse una relazione di Marcello Barrese sul come erano state trovate. Questa relazione o non fu fatta, o non rimase nel processo, ciò che riesce più probabile; ma le scritture furono consegnate tutte, per quanto è lecito giudicare dagli Atti processuali che ne trattarono, comprese quelle trovate fuori la cassa, ed esclusa soltanto la lettera trovata chiusa presso il Campanella, della quale non si fece mai più parola. Alcune vennero senz'altro inserte tra gli Atti, e queste furono: la lettera di Sertorio del Buono a fra Dionisio, le quattro lettere di fra Pietro di Stilo a diversi, e la dichiarazione di Felice Gagliardo a favore del Bitonto circa le cose che avea deposte in materia di ribellione (ved. pag. 231); quest'ultima scrittura, se i Giudici, e segnatamente il Nunzio, fossero stati più teneri del loro dovere, avrebbe dovuto essere trasmessa al tribunale della congiura, ma invece rimase nel processo dell'eresia. Tutte le altre scritture, divise in due gruppi, vennero sottoposte al giudizio del P.e Cherubino Veronese Agostiniano, Teologo qualificatore della Curia Arcivescovile; nel 1° gruppo si contenevano quelle che sappiamo essere state trovate nella camera di fra Dionisio e presso gli altri frati, e però imputabili più o meno a' frati; nel 2° gruppo si contenevano quelle trovate presso il Gagliardo, secondochè rilevasi dal processo, e tale distinzione, fatta sin da principio, mostrerebbe che ci dovè essere la relazione del Barrese, quando le scritture furono consegnate. Vedremo che al 2° gruppo si aggiunse ancora un'altra scrittura, composta dal medesimo Gagliardo nientemeno mentre il tribunale procedeva agli esami su tale argomento; e poi si formò inoltre un 3° gruppo con le scritture appartenenti del pari al Gagliardo, trovate quando egli era rinchiuso in Castello dell'ovo e consegnate più tardi dal Castellano D. Melchiorre Mexia de Figueroa. Così il Padre Cherubino ebbe a fare tre relazioni successive, le prime in data del 15 e del 17 marzo, e questa con una aggiunta, la terza in data del 24 aprile; le scritture furono messe insieme in un volume col titolo "Scritture o Segreti manoscritti proibiti trovati nella cassa di fra Dionisio Ponzio in Castel nuovo con le relazioni del Rev.do Teologo sulle loro qualità", mentre non tutte erano state trovate in Castel nuovo e nella cassa di fra Dionisio, e già sapevasi che la cassa non apparteneva a fra Dionisio ma al Bitonto.

Innanzi di procedere oltre, importa dar conto di tali scritture ed anche della qualificazione espressa dal P.e Cherubino su quelle che egli ebbe ad esaminare. Cominciamo dalle scritture inserte immediatamente tra gli atti del 4° volume del processo, e dapprima dalla lettera di Sertorio del Buono di Fiumefreddo in data del 9 luglio 1601(289). Costui rilevasi un amico affettuosissimo di fra Dionisio e del fratello Ferrante, dal quale avea pur allora ricevuto canzonette spagnuole (anche Ferrante era virtuoso in poesia), e promette una fede del Clero di Fiumefreddo in favore di fra Dionisio, la quale difatti giunse e trovasi in questo volume del processo che non brilla per l'ordine dato a' documenti in esso contenuti: spera poi ardentemente la liberazione di tutti, manda un abbraccio al P.e fra Pietro "et all'amico", ricorda "la natività" e promette "alcuna cosella"; sulla soprascritta si dice quella lettera "data in potere della S.ra Donna Ippolita cavaniglia al castel nuovo". Vedremo che fu poi dichiarato essere appunto il Campanella l'amico, dal quale il Del Buono si aspettava che consultasse l'oroscopo e desse la natività di un suo figliuolo; e vuol essere intanto notato il nome di colei alla quale era raccomandata la lettera, D. Ippolita Cavaniglia, pietosa Signora che troveremo esaltata nelle poesie del Campanella come sua grande benefattrice, onde avremo ad occuparci di lei debitamente. - Passiamo alle quattro lettere di fra Pietro di Stilo(290). Esse risultano scritte con la data del 3 agosto e dirette tutte a Stilo, alla Sig.ra Giulia Prestinace sorella di Gio. Gregorio(291), alla Sig.ra Porzia Vella suocera dello stesso, a Suora Francesca Prestinace monaca di S.ta Chiara altra sorella, ed al P.e Domenico Caristo vecchio frate ed amico comune. In sostanza, più o meno, con parole coperte e sentenze curiose vi si ammonisce che l'amico (Gio. Gregorio Prestinace) non si fidi nelle assicurazioni del fratello, partito da Napoli credendo "di haver effettuato ogni cosa à loro sodisfattione"; aspetti che la forgiudica sia tolta, la qual cosa solamente il giudice Marc'Antonio di Ponte può sapere quando accadrà, e non si piglino "viziche per lanterne" ma si ascoltino "li consigli delli mal patiti"; e badi l'amico "che con vane speranze se ne ritorni alla patria" e pensi che vi sono nemici "et massime nci è illoco Giuda Scarioto" (forse Giulio Contestabile), e che nel Castello "ci sono emoli... quali non cessano dalla loro anticha perfidia" (certamente Geronimo di Francesco come fu poi dichiarato), e finita ogni cosa ne darà avviso "et allora l'amico potrà far la sua risolutione di appresentarsi". Contemporaneamente vi si dà speranza di prossima fine della causa con buon esito, perché il Campanella ha vittoriosamente superato un grosso tormento e deve averne un altro, e fra Dionisio pure dovrà averne un altro per le scritture di segreti che si scoversero, ma un altro ne avrà anche il Petrolo, e su costui non si può contare come su' due primi, e però bisogna stare a vedere: questi concetti che esprimono i giudizii, le speranze e i timori, senza dubbio divisi dallo stesso Campanella, meritano di essere testualmente conosciuti. Fiero del suo fra Tommaso per l'ottima prova da lui data, alla Sig.ra Giulia fra Pietro dice: "Campanella hebbe quaranta hore di tormento chiamato viglia, che fè stupir il mondo, et basta la fè più di un lione scatinato, et speramo haver purgato le cose della inquisitione; adesso aspetta un altro tormento di polledro chiamato, pessimo tormento, quale sostenuto Campanella serà assoluto da ogni cosa, per tanto vidiamo (int. aspettiamo a vedere) questo fine, de più si hà di tormentare frà Dionisio per li secreti adesso si sebbero (int. le scritture di secreti che adesso si seppero) et si scoversero per vere, et si à questi dui non temeti come huomeni di honore, che diremo di fra Domenico di Stignano, quale rovinò tutta questa causa, quale harà di avere uno grave tormento?" E alla Sig.ra Porzia: "Campanella dopò lo tormento di quaranta ore, sostenuto valorosamente come leone, si dice per verissimo che in materia di ribellione lui et frà Dionisio haranno à esser tormentati un'altra volta et assoluti da ogni male, al che non dovemo certo dubbitare, lo dubbio è che ha di esser tormentato frà Domenico petrolo, rovina della causa si bene si hà ritrattato, et per questo hà di esser tormentato, et per l'esperienza fatta non li dovemo haver credito". E a suora Francesca: "Campanella... queste settimane passate sostentò uno horribile tormento di quaranta ore non senza grande honor suo et bene quanto alla inquisitione; ben presto per materia di ribellione harà un altro pochetto di tormento insieme con frà Dionisio, quali dopò questo tormento saranno liberi et assoluti omnino da tutte le cose pretenze, et di questo non teneti dubbio; lo dubbio è che hà di esser tormentato frà Domenico petrolo di stignano, del quale la persona può dubitare et deve assai per la sua mala riuscita et pazzia, ma più tosto viltà che iniquità". E si adopera sempre a confortare ognuno, ed appunto a suora Francesca, dopo di avere con delicata attenuazione parlato del "pochetto di tormento" da doversi sostenere da' due principali inquisiti, scherzosamente dice che al suo ritorno le darà gran penitenza, perché non ha pregato Dio per lui: confortatore egli che avrebbe pure avuto bisogno di conforto, quantunque ignaro che un tormento era riserbato del pari alla persona sua, questo frate dabbene non può non destare la più viva simpatia. Pertanto interessa notare que' suoi giudizii sul Petrolo, giudizii assolutamente confidenziali e quindi schietti: il Petrolo è dichiarato da lui non già inventore delle cose di ribellione, ma uomo di mala riuscita e di niuno accorgimento, vigliacco piuttosto che iniquo. - Circa la dichiarazione rilasciata da Felice Gagliardo in favore del Bitonto abbiamo poco da dire: essa risulta scritta in data del 5 giugno 1601, ed oltre la firma del dichiarante reca quella, scioccamente vergata, del Curato del Castello, ed anche quelle de' due clerici assistenti la Chiesa. Come abbiamo già esposto altrove, il Gagliardo con essa negava di aver detto ciò che trovavasi da lui deposto contro il Bitonto in materia di ribellione: ed afferma che è falsità "falsamente posta, con reverenza, da quelli che faceano il processo"!

Veniamo alle scritture costituenti il volume di allegati e qualificate dal P.e Cherubino. Cominciando da quelle del 1° gruppo appartenenti a' frati o attribuite a' frati, si ha in primo luogo la così detta Clavicola di Salomone in molti fogli e con la seguente nota: "fatta experientia per il Re di franza, per il Gran Duca di fiorenza et altri Signori, et hoggi in questo Regno un solo la tiene et il Prencipe di Conca sta dando opera di far tal arte"(292). Il carattere di tale scrittura non è da per tutto uniforme, sia per essere stata copiata in più volte, sia per essere stata copiata da diversi individui: vedremo che il S.ta Croce, molto competente, la disse di mano del Gagliardo, ma costui la disse in parte di mano sua e in parte di mano del Bitonto, avendo entrambi alternatamente lavorato per quella copia, e così confermò pure in punto di morte, aggiungendo che ne aveano avuto l'originale da Cesare d'Azzia egualmente carcerato, ed aveano data quella copia a fra Dionisio perché la conservasse nella camera sua, dove poi fu trovata. Il P.e Cherubino, nel qualificarla, riconosce che è una copia, e rammenta che nell'Indice Romano allora stampato essa è notata nella prima classe delle opere proibite di autori incerti, risultando dichiarati veementemente sospetti di eresia coloro che la leggono, la posseggono e si servono delle cose in essa contenute, e formalmente eretici coloro che credono vere le cose in essa insegnate. Si hanno poi diverse scritture di minor mole che recano quasi sempre scongiuri, per trovare un tesoro, per rintracciare un furto, per avere uno spirito in forma di cavallo, per rendersi invisibile etc. etc. sovente tratti dalla Clavicola di Salomone; per taluna di esse potrebbe dirsi che sia stata copiata dal Bitonto, ma generalmente il carattere è quello del Gagliardo, e il P.e Cherubino appone ad ognuna il "sapit haeresim manifeste". Inoltre si ha un opuscoletto sulla musica evidentemente di mano del Pizzoni, rimasto in potere di qualcuno de' frati(293). Ancora un grosso fascicolo con moltissime ricette e "percantazioni" curiose; per non far dormire alcuni, per non esser preso, per far divenire zoppo un cavallo, per indurre discordia, per sciogliere un ligato o per chi non potesse stare con la moglie etc., tutto di mano del Gagliardo e qualificato dal P.e Cherubino nel solito modo; alla fine poi di questo fascicolo si trova una poesia in dialetto calabrese distinta in due parti col titolo di "Amorosa" e "Partenza", di mano del Gagliardo e con ogni probabilità di sua composizione, non vista o non curata dal Notaro e dal P.e Cherubino. Sono 24 stanze, alcune sufficientemente belle, e gioverà riportarne un saggio per conoscere le qualità dell'autore. Dell'"Amorosa" scegliamo le seguenti:

"Quandu ti viju a sa fenestra stari

mi pari in celu un Angela vidiri

e poi mu ti viju amacciari(294)

mi piglu pena affannu e dispiaciri

ca chi raggiuni non mi voi parlari

chi ti haiju fattu lu vorria sapiri

poi ca lu mancu non mi voi guardari

fingi chi non mi vidi e non fuijri(295).

Volsi provari lu luntanu stari

forsi di menti mi potevi usciri

l'amuri a autra banda volsi dari

e ijri arrassu per non ti vidiri

st'afflittu cori dissi nun lu fari

non ti scordari di lu ben serviri

mill'anni mi paria lu riturnari

cara patruna mia per ti vidiri.

Si vidi un'ursa in silva tetra et scura

aspra silvaggia, mansueta fari

si vidi un scogliu et una petra dura

spissu cadendu l'acqua arrimollari

e vui chi siti humana creatura

non vi potiti cu piantu placari

eccu chi siti ingrata di natura

essendo amata non voliti amari".


E queste altre della "Partenza":


"Cori mi partu e mi ndi vogliu ijri

restati in guardia dilu miu sustegnu

e di lu pettu so mai ti partiri

ch'in cambiu la sua imagini mi tegnu

avisami per via dili suspiri

si illa ti tratta cu amuri o cu sdegnu

e si canusci chi mi ha da tradiri

ijetta un suspiru chi subbito vegnu.

Gula d'argentu cinta di ligustri

pettu chi si la bianca nivi equali

bucca suavi chi parlando mustri

vivi rubini e perni orientali

occhi sireni più di un suli lustri

. . . . . . . . . . . . . ."

Ma ciò basta per mostrarci l'ingegno e la fantasia del Gagliardo. Finalmente tra le scritture di questo gruppo si ha un libretto coperto di pergamena, contenente le poesie raccolte da fra Pietro Ponzio, composte dal Campanella: esse si veggono, con un principio di dedica, indirizzate da fra Pietro al Sig.r Francesco Gentile patrizio genovese, e ci dànno un quadro de' pensieri, delle azioni, della vita intima del Campanella nel carcere fino al 2 agosto 1601, vale a dire fino a 2 mesi dopo la veglia, laonde meritano di essere diligentemente considerate ed illustrate; noi l'abbiamo già fatto in parte e seguiteremo a farlo più in là, limitandoci per ora a notare che il P.e Cherubino le qualificò in latino ed italiano "Carmina in laudem et improperium multorum, ad amorem alliciendum; in quibus sunt multa quae videntur sapere idolatriam. Scrive a la donna da lui amata chiamandola Sommo bene. Dicteria multa, quae videntur sapere libellum infamatorium". Decisamente il P.e Cherubino era disposto a trovarvi il peggio possibile. Dobbiamo poi aggiungere che in questo gruppo di scritture si sarebbe dovuto avere anche quella trovata nel reveglino del Castello, sotto la finestra del carcere del filosofo, gettatavi dal fratello Gio. Pietro al momento in cui venivano gli ufficiali in cerca di scritture; ma essa non vi si trova, non essendo stata aggiunta alle altre inviate al P.e Cherubino e nemmeno inserta puramente e semplicemente nel processo, mentre senza dubbio fu dal Sances trasmessa a' Giudici del tribunale di eresia, nelle cui mani si trovava il 6 marzo 1602, quando fu esaminato il sergente Alarcon! La scomparsa di questa scrittura merita di esser notata, ma non si può interpretarla(296) in modo plausibile, se non ammettendo in qualcuno de' Giudici, o de' loro auditori e segretarii, il gusto di possedere un'opera filosofica del Campanella, giacchè con la scorta dell'unico cenno datone nell'esaminare l'Alarcon si rileva che tale era detta scrittura. Vedremo infatti tra poco registrato in questo esame che essa, composta di 32 fogli, in carattere minuto e senza coperta, cominciava con le parole "Per che teco menare la vita non posso", e finiva con le altre, "ma che ne fece poi voi lo sapete"; donde si rileva che trattavasi delle due prime parti dell'Epilogo di filosofia, edito poi in latino dall'Adami nel 1623 col titolo di Philosophia realis epilogistica; e ci rimangono tuttora due copie manoscritte, nelle quali si leggono appunto le dette parole, ma di ciò parleremo più opportunamente in altro luogo di questa narrazione. Qui vogliamo soltanto notare che se i Giudici avessero avuto un vivo sentimento del proprio dovere, senza dubbio si sarebbero guardati dal lasciar perdere una scrittura, nella quale fin da' primi versi e da' primi capitoli si trattava di Dio, di Dio creatore e della Provvidenza Divina, mentre il Campanella era stato incolpato di ateismo oltrechè di eresia: d'altra parte dobbiamo notare che il Sances e il Governo Vicereale, nelle cui mani venne dapprima la detta scrittura, ebbero sicuramente ad avvertire che il Campanella era tutt'altro che pazzo, mentre si trovava occupato in un'opera simile.

Ben poco ci tratterranno le scritture del 2° gruppo, appartenenti esclusivamente al Gagliardo presso cui furono rinvenute. Una sola, in lingua latina, rappresenta una breve consultazione o meglio istruzione di un dottore intorno al valore giuridico della tortura, che è dichiarato potentissimo con l'autorità di Alberico e di Farinacio e con l'appoggio di qualche caso pratico atto a far vedere che la tortura immoderata, riuscendo negativa, giova sempre anche al delitto principale malgrado la protesta del citra prejudicium probatorum, poichè il Giudice rimane obbligato a punirlo con pene miti: vedremo poi come il Gagliardo profittò moltissimo di tale istruzione. Le rimanenti scritture, quasi sempre di una sola carta ognuna ed anche costituite da piccole cartoline, mostrano talora semplici ricette e disegni astrologici, talora segreti e sortilegi. Vi sono ricette per fare lo stagno, la tintura d'oro, un'acqua mirabile per la vista; vi sono figure di circoli e pianeti, e il P.e Cherubino per queste come per la scrittura precedente dichiara "nihil contrà fidem". Vi sono d'altra parte segreti molto spesso ad amorem, con oscenità da non potersi ripetere, scongiuri, evocazioni, divinazioni; una scrittura tra le altre reca il disegno di una mano a grandezza naturale, in più punti della quale son segnate certe parole, e qua e là, invocazioni di demonii, abuso di nomi sacri etc.; per tutte queste scritture il P.e Cherubino dice "sapiunt haeresim manifeste". Tali furono le scritture dapprima raccolte, alle quali altre se ne aggiunsero ma un po' più tardi.

Ripigliamo ora la narrazione dello svolgimento ulteriore del processo. Il 1° marzo 1602 il Card.l di S.ta Severina scriveva al Vescovo di Caserta(297), che avendo fra Dionisio presentato memoriale, con cui esponeva essergli state tolte dagli ufficiali Regii le scritture della sua causa, ed essere state trovate in camera sua scritture cattive appartenenti al Bitonto, delle quali doveva rispondere il Bitonto e non esso fra Dionisio, S. S.tà avea ordinato che si procurasse di ricuperare le scritture delle cause di S.to Officio, e che si pigliasse la debita informazione contro il Bitonto od altri colpevoli per quelle scritture che risultassero cattive. In verità, come abbiam visto, il tribunale avea già procurato di ricuperare quelle scritture, ed anzi le avea ricuperate fin dal 20 febbraio: solo non si era dato pensiero di restituire a fra Dionisio le scritture della causa, né glie le restituì fino a quando non ebbe ad esaminarlo sull'incidente. Ma dietro l'ordine venuto da Roma, procedè subito all'informazione prescritta, e dal 6 marzo al 1° maggio esaurì(298) gli esami sulle scritture già raccolte e su qualche altra ancora presentata durante l'informazione; al tempo medesimo non lasciò di provvedere intorno alle ultime difese che avea da fare fra Dionisio nella causa principale, tollerando che il termine accordatogli fosse già scaduto. Diremo dapprima dell'informazione presa sopra le scritture.

Il 6 e 7 marzo, e poi il 19 il 21 e 22 dello stesso mese, quasi sempre innanzi al Vescovo di Caserta, al Vicario Curzio Palumbo e all'Auditore Peri, si venne agli esami de' testimoni e degl'interessati. Nella prima seduta del 6 marzo, si cominciò dall'interrogare il sergente Francisco Alarcon(299), il quale narrò minutamente la causa ed i particolari della ricerca fatta dal tenente del Castello e da lui nelle camere di fra Dionisio, di fra Pietro Ponzio e del Campanella; parlò in generale di scritture trovate all'aperto, presso fra Dionisio e presso fra Pietro, e della cassa di pioppo che ne conteneva altre, le quali poterono prendersi dal Castellano dopo di avere avuta la chiave da un altro frate, a cui, secondo fra Dionisio, quella cassa apparteneva. Disse che tutte le scritture furono portate al Castellano e da costui trasmesse al Vicerè Conte de Lemos bona memoria, che egli non aveva nemmeno viste le scritture trovate dentro la cassa, ed aggiunse, "se io vedesse quella scrittura ritrovata al reveglino trà le due porte, menata, per quanto si potte sospettare da me et dal tenente, dal fratello di frà thomaso, la riconosceria, l'altre non mi confideria di conoscerle"; aggiunse ancora che, dopo la pacificazione di fra Dionisio col S.ta Croce e col Gagliardo dentro la Chiesa del Castello innanzi al P.e Cura chiamato D. Gaspare d'Accetto, egli come testimone avea sottoscritta una carta nella quale si dichiarava che fra Dionisio non avea colpa in quella faccenda delle scritture. E mostratagli la scrittura di 32 fogli che cominciava con le parole "Per che teco menare la vita non posso", e finiva con le altre "ma che ne fece poi voi lo sapete", disse, "questa mi pare la scrittura che fù trovata al reveglino trà le due porte, che risponde ala fenestra dela carcere del Campanella, che si sospettò che fusse stata buttata dal fratello del Campanella, et mi pare alla lettera minuta, è che non ci era coperta, però quello che si contenga in detta scrittura non lo sò perche non lhò letta". - Si passò quindi all'esame di fra Pietro di Stilo(300) e mostrategli le 4 lettere che gli appartenevano, disse che erano state scritte di sua mano nella camera di fra Dionisio ma non ancora mandate, e riteneva essere state prese con le altre scritture. Dietro dimande spiegò che l'amico del quale si parlava in quelle lettere, raccomandando che si guardasse dall'essere pigliato, era Gio. Gregorio Prestinace, fratello di Suor Francesca e della Sig.ra Giulia, e genero della Sig.ra Porzia Vella; che non sapeva "la causa di che era inquisito e lo vero negocio", ma da carcerati suoi compatriotti aveva udito "che lo detto Gio. Gregorio si era appartato per la causa dela ribellione" (sempre nell'atteggiamento d'ignorante e d'ingenuo); che costui gli era amico ed anche parente, ed avea scritto con tanto calore avendo udito che Geronimo Francesco, pur suo parente e parente di Gio. Gregorio, "procurava farlo pigliare ò vivo ò morto, perche li era inimico, et di ciò ne havea dato memoriale al vicere del Regno, et lhavea trattato lo fratello di Giulio contestabile, li quali tutti erano inimici del detto" (studiata confusione di due periodi diversi, e diffidenza non cessata mai; nominato il fratello di Giulio, invece di Giulio Contestabile, per riguardi facili ad intendersi). Dimandato se il Prestinace praticava col Campanella nel convento di Stilo e se mai il Campanella avesse parlato di cose appartenenti alla fede in presenza di esso deponente, rispose che Gio. Gregorio vi praticava e conversava come gli altri, e pel resto si rimise a quanto ne avea detto negli esami anteriori. Dimandato inoltre su' segreti de' quali avea parlato nella lettera alla Sig.ra Giulia Prestinace rispose, "sono secreti di taverna, che ogni uno che viene porta novelle di quello che sente, è le dicono quà in castello, et non so veri, et di questi secreti io scriveva" (accorta confusione di cose per non dare spiegazioni compromettenti). - Venne poi la volta di fra Dionisio(301). Egli disse che teneva le scritture, le quali gli furono trovate, in parte nelle sue tasche, in parte sotto la materassa, ma le scritture della causa erano state a sua dimanda poste nella cassa allorchè il Bitonto glie la portò in camera; e soggiunse essersi oramai scoverto che il Soldaniero, suo nemicissimo, avea date le scritture proibite al Bitonto per farle trovare nella camera sua, e presentò le dichiarazioni rilasciatene dal Gagliardo, dal Bitonto, da fra Pietro di Stilo e dal S.ta Croce. Disse non aver viste le scritture proibite se non in mano del Barrese, poichè la cassa in cui si trovavano fu portata chiusa al Castellano, e le scritture tolte da essa furono poi date a D. Gio. Sances e quindi portate in Castello dal Barrese, il quale glie le mostrò e voleva esaminarlo sopra di esse. Presentategli alcune scritture (quelle del 1° gruppo, escluse le poesie trovate a fra Pietro Ponzio), le riconobbe di mano del Gagliardo, ed una sola di esse, quella sulla musica, di mano del Pizzoni; riconobbe anche le scritture della sua causa, ed invitato poi a dare spiegazioni sulla lettera di Sertorio del Buono e massime sulla "natività" che costui gli chiedeva, rispose: "mi scriveva che io mi ricordasse dela natività di un suo figliolo, la quale mi cercò che lhavesse fatta fare da frà Thomaso Campanella che havea inteso che si delettava di queste cose, et me la cercò quando fù in napoli l'anno santo del 1600 dopò pasqua che tornò da Roma, et io per darli parole le dissi che fra thomaso non stava in cervello, et che si mai stesse in cervello ce lhaveria fatta fare, si ben io non so che frà thomaso ne sappia fare, è sò certo che non ne sape fare, si ben lui diceva de sì, et cosi passa lo fatto di questa natività, perche io non so fare tal cosa". Nel rimandarlo, i Giudici ordinarono che gli fossero restituite le scritture della causa. - Il giorno seguente (7 marzo) fu esaminato fra Giuseppe Bitonto. Egli disse che non aveva mai posseduto scritture ma solo qualche lettera, e con un poco di biancheria la teneva in una cassa, la quale portò presso fra Dionisio, perché nella camera di costui, che stava solo, poteva essere meglio custodita; che mentre portava detta cassa, Giulio Soldaniero lo pregò di conservargli in essa un pacco di carte legato e suggellato con pasta od ostia, dicendo essere un suo processo che gl'importava più di 1000 o 1500 ducati, presenti fra Pietro di Stilo, il Gagliardo ed altri; che fra Dionisio volle pure conservare in detta cassa certi scritti concernenti la sua difesa. Dietro dimande poi narrò come la cassa fu presa dagli ufficiali del Castello, esponendo la rissa nella quale il Soldaniero, il Gagliardo e il S.ta Croce vennero contro di loro frati "et li maltrattorno assai, con pugni, et con lo stregneturo (stringitoio, cinturone) et roppero la testa à frà Dionisio", la ricerca di scritture proibite fatta ad istanza de' tre sopramenzionati, come gli fu riferito da molti "et in particolare da Scipione medico di questo Castello" (già nominato anche da fra Dionisio altra volta), e quindi la presa della cassa che gli fu più tardi restituita. Aggiunse di aver poi saputo che in detta cassa erano state trovate "la Clavicola di Salomone et altre cose di magarie", le quali il Gagliardo gli avea confessato esser sue, ed averlo saputo dal Marrapodi e dal Conia, i quali gli dissero che avendo fatta quistione tra loro il Soldaniero e il Gagliardo, costui gli rinfacciava di aver dovuto fare questo tradimento a' frati per servir lui, oltrechè il Gagliardo medesimo avea loro detto che era stato fatto concerto di porre le dette scritture sotto il capezzale del letto di fra Dionisio, ma poi aveano potuto riporle nella cassa (un mucchio di menzogne e una doppiezza veramente fratesca). Infine citò anche la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo su tale proposito (ma nella dichiarazione il Gagliardo non diceva che quelle scritture fossero sue proprie). I Giudici vollero allora che riconoscesse dette scritture, e mostratagli la copia della Clavicola di Salomone, disse che "alli sigilli di pasta" che recava quella scrittura gli pareva essere l'involto datogli dal Soldaniero; e richiesto delle qualità del Gagliardo e della causa per cui si trovava in carcere, disse che era di mala coscienza, ladro, bestemmiatore, odiato da' suoi parenti medesimi, i quali l'aveano fatto carcerare ed aveano detto ad esso deponente che si era dato al demonio mercè una carta scritta col proprio sangue, e si trovava poi carcerato in Napoli per conto della ribellione; aggiunse che essendo stato durante un anno in Castello dell'ovo, il Castellano di quel tempo, a nome Figueroa, avea pure trovato presso di lui scritture sortileghe, come si era saputo da un soldato di detto Castello con la gamba di legno a nome Navarro, che era venuto a riscuotere da lui certo danaro per un letto datogli in fitto, ed avea detto di volerlo accusare per quelle scritture. Dopo ciò riconobbe che la Clavicola di Salomone era di mano del Gagliardo, e così pure tutte le altre scritture sortileghe a misura che gli furono mostrate (quelle del 1° gruppo) insieme con la poesia "materno idiomate in octava rima"; riconobbe che il trattatello di musica era di mano del quondam Pizzoni "quale si delettava di musica et ne sapeva molto"; e richiesto se nella camera sua fossero state trovate scritture, disse che alcune furono trovate sotto il capezzale del letto del Gagliardo, altre in un canestro tondo appartenente a fra Pietro Ponzio, ma più tardi, nell'accomodare il letto comune ad esso deponente e a fra Paolo, trovarono entrambi "un libro stampato grande, in quarto foglio, di astrologia, con molti caratteri, et un pezzo di carta dentro, nel quale erano scritti secreti contra la corda con nomi di demonii, et ci era il nome di felice gagliardo, et questo libro e foglio, overo pezzo di carta, restorno in potere di fra Pietro Pontio". Infine gli fu mostrato anche il libretto di poesie "lingua paterna" (le poesie del Campanella), e riconobbe che era di mano del suddetto fra Pietro.

Il 19 marzo, con un ritardo verosimilmente prodotto dalla necessità di trovare il Figueroa e il Navarro, vennero esaminati Felice Gagliardo e fra Pietro Ponzio. Il Gagliardo disse essere stato carcerato in Castelvetere per un colpo di fucile tirato in rissa ad un suo cognato, e poi essere stato tradotto in Napoli per la causa della ribellione, dopochè Cesare Pisano, venuto nelle stesse carceri di Castelvetere e quivi visitato da fra Dionisio e dal Campanella, lo avea nominato in tortura qual complice nella detta ribellione. Chiesero allora i Giudici di che aveano parlato al Pisano il Campanella e fra Dionisio; ed egli rispose che aveano parlato segretamente, e non ne sapeva nulla, ma che fra Dionisio gli aveva poi detto che avesse dato credito a quanto gli diceva Cesare Pisano, e soggiunse, "io credo che mi volesse significare che havesse credito à quello mi diceva detto Cesare à prestarli dinari, di che ne hò fatto fede à detto frà Dionisio" (ben si vede che rilasciava fedi senza difficoltà, e senza nemmeno curarsi delle contradizioni in materie tanto gravi). Dietro altre dimande disse che de' frati avea conosciuto solo il Bitonto venuto a predicare in Condeianni; e fattagli l'obiezione, come mai, non avendo prima conosciuto né visto fra Dionisio, costui avesse potuto dirgli che prestasse danaro a Cesare Pisano, rispose, "lo detto Cesare havea detto che io era felice gagliardo gentilhomo di hierace, et cossì detto fra Dionisio me disse quelle parole"! Ma infine si venne alla faccenda delle scritture, e dietro varie dimande rispose, che ciascuno de' frati carcerati, co' quali si trovava di camera, aveva una cassa, ma egli non aveva né cassa, né scritture, né libri, e solamente qualche lettera; che in luglio "perché in detta camera ci entrava ogn'uno et non so che si perdío.... frà Paolo portò la sua cassa alla camera di Geronimo Campanella patre di frà thomaso Campanella, e frà Gioseppe (Bitonto) portò la sua cassa in camera di fra Dionisio pontio"; che il Soldaniero diede allora al Bitonto un involto di scritture sigillate perché glie lo conservasse, ed egli non sapeva che scritture fossero, ma poi il Soldaniero gli avea detto che erano scritture proibite, senza manifestargli altri particolari sopra di esse, e che le avea fatte trovare in camera di fra Dionisio per rovinarlo, ond'egli ne avea rilasciata una fede, alla quale si rimetteva. Mostratagli questa fede, la ratificò, negando di sapere che specie di scritture fossero state trovate nella cassa. Chiesero allora i Giudici se il Pisano avesse parlato con lui di cose ereticali e se egli ne avesse fatta denunzia a' superiori come era obbligato; ed egli rispose che il Pisano ne avea parlato anche in presenza dell'Adimari, del Conia e del Marrapodi, e consigliatosi col suo confessore D. Pietro Manno, dietro ordine di costui egli scrisse e mandò per D. Pietro medesimo un memoriale al Principe della Roccella, il quale lo partecipò al Vescovo di Gerace, e il Vescovo quando poi vennero "li rumori universali di Calabria" mandò un Commissario che l'esaminò. Così finì la sua deposizione, con un nuovo garbuglio, per lo quale venne poi commesso dalla Sacra Congregazione di Roma e sollecitato dal Vescovo di Caserta l'esame di D. Pietro Manno in Gerace. - Fu quindi esaminato fra Pietro Ponzio(302), ed egli narrò il trasporto della cassa del Bitonto presso fra Dionisio, per furti verificatisi nella camera in cui si trovavano e dovuti al Gagliardo, la sua istanza al carceriere che ponesse costui in altra camera e la rissa avvenuta per questo, la voce corsa che il Soldaniero e il S.ta Croce si erano concertati di far trovare le scritture proibite presso fra Dionisio, la ricerca fatta anche in camera sua con la scoverta di un libretto di poesie che egli teneva sul letto, e di altre scritture che stavano sotto la materassa del Gagliardo. Riconobbe il libretto di poesie e disse, "è scritto di mano mia et è intitolato (int. dedicato a) francesco gentile, e son sonetti del Campanella e di diversi altri autori, che sono andato radunando, et vanno per tutta questa città di napoli". Fece avvertire che il Gagliardo soleva scrivere con caratteri di diverse maniere, ed aggiunse che avea visto presso il Bitonto una carta con un circolo e un segreto "per havere una donna", che il Gagliardo avea rilasciato ad un paggio carcerato in Castello a nome Nicolò, ottenendone per compenso un vestito di velluto. Confermò inoltre che, dopo la ricerca delle scritture, fra Paolo avea trovato un libro stampato di astrologia con un circolo e un segreto contro la tortura di mano del Gagliardo, e disse averlo letto insieme con gli altri frati e poi consegnato al luogotenente del Castello. Scovrivasi per tal modo un nuovo fatto e sempre a danno del Gagliardo, contro il quale non agiva soltanto fra Pietro per iscagionare suo fratello, ma si erano rizelati senza ritegno principalmente i già suoi complici in materie sortileghe per iscagionare le persone proprie, e la quistione delle scritture proibite veniva ad allargarsi sempre più.

Il 21 marzo fu di nuovo esaminato il Bitonto per quest'altra scrittura del Gagliardo da lui scoverta, e disse che ne' giorni scorsi avea veduto il Gagliardo scrivere una carta e poi darla segretamente a un paggio di D. Andrea de Mendozza figlio della Marchesa della Valle, carcerato per ordine della Marchesa e chiamato Nicolò, il quale avuta la carta venne a farla leggere ad esso Bitonto per sapere se poteva starci bene in coscienza, e udito che la carta recava la scomunica a chi la teneva, glie la lasciò. Ed esibì la strana scrittura a' Giudici, i quali la fecero unire con le altre scritture proibite. Dietro altra domanda poi disse, che pure un Marc'Antonio Bruno di Condeianni, dimorante in Napoli alla piazza dell'olmo, era venuto più volte nel carcere, ed avea avuto segreti dal Gagliardo, e si era lamentato che gli avea fatto spendere 10 ducati senza alcun profitto, aggiungendo che spesso si chiudevano in camera e scrivevano, ed una volta "haveano fatto non sò che pignatello al foco, pieno di capelli et ossa, cera et altre forfantarie che il fuoco ce havea immorbati tutti, et questo lo vedde ancora fra Paolo della grottaria e fra Domenico di stignano" (ma c'è ragione di credere che costoro, e massime il Bitonto, fossero consenzienti a queste prove di suffumigi). Aggiungiamo che la novella scrittura fu subito mandata al P.e Cherubino, che la qualificò col "sapit haeresim manifeste", e fu unita con le altre costituenti il 2° gruppo o gruppo delle scritture appartenenti al Gagliardo(303). - Frattanto venne subito chiamato Nicolò Napolella, giovane a venti anni, nativo di Napoli e paggio come sopra si è detto, il quale credè opportuno mettersi in assoluta negativa, onde il suo interrogatorio ci risulta un modello di pervicacia nell'inquisito e di pazienza ne' Giudici. Sempre dietro dimande disse aver conosciuto il Gagliardo nel Castello, ma non aver mai trattato di segreti con lui; averlo visto sei o sette giorni prima, ed avergli parlato in frotta con molti, "e si raggionò come stai, come la passi, e vi bascio la mano"! Disse aver conosciuto anche il Bitonto, ma non avergli mai parlato di scritture né chiesto consigli, aggiungendo, "faccionosi li fatti loro, è mi lascino stare, è non mi vadano inbrogliando à queste cose". E i Giudici, "che dica chi sono quelli che lo voleno inbrogliare, et in che"; ed egli si fece allora a narrare che la sera precedente fra Pietro l'avea chiamato in disparte, dicendogli di avere informato il tribunale del segreto per amore dato al Gagliardo e raccomandandogli di deporre che era vero, ed egli avea risposto "buono" (int. "bene", espresso alla spagnuola); poi l'avea condotto presso il Bitonto che gli disse e gli raccomandò la cosa medesima, ed egli avea promesso, ma nella notte ci avea pensato meglio e si era deciso a non farne nulla, dicendo, "mi sono risoluto di non dannare l'anima mia". E i Giudici, "in che cosa si pensava di dannare l'anima sua": ed egli, "in dire una falsità; avanti voglio che si perda tutta la Calabria che dire una falsità"! E i Giudici dimandarono chi fosse stato presente alla chiamata di fra Pietro, e l'ammonirono di nuovo di dire la verità sul fatto del segreto; ed egli nominò Ferrante Caldarone e Simone Garzia spagnuoli, ed anche fra Paolo; ma sul fatto del segreto disse, "non è vero niente". - Immediatamente vennero esaminati i tre testimoni indicati dal Napolella. Simone Garzia disse che in quel momento medesimo il Napolella gli avea parlato della chiamata avuta da fra Pietro nella sera precedente, ed egli avea risposto che non sapeva tal cosa. Il dottore Calderon della città di Pax, di anni trenta, disse che nel passeggiare sulla loggetta col Garzia e col Napolella avea veduto fra Pietro accompagnato da un altro frate, chiamare il Napolella in disparte, parlargli segretamente e poi condurlo alla camera in cui stavano il Petrolo e il Bitonto. Infine fra Paolo accertò egli pure la stessa cosa. - Fu allora interrogato fra Pietro, e costui disse che veramente avea chiamato il Napolella in presenza di fra Pietro di Stilo, e l'aveva avvertito che dietro la sua deposizione intorno al segreto sarebbe stato certamente esaminato, e però attendesse a dire la verità; che il Napolella si era mostrato dolente del Bitonto, perché avea divulgato il fatto del segreto, che egli non volea si sapesse da alcuno e specialmente dalla Marchesa della Valle; che allora lo condusse dentro la camera in cui stava il Bitonto, il quale gli fece intendere che trattandosi di cosa di S.to Officio era stato obbligato di agire come aveva agito. - Ed ecco in iscena fra Pietro di Stilo, il quale confermò ogni cosa, spiegando essere il Napolella dolentissimo che il Bitonto avesse pubblicata la faccenda del segreto, perché "stando lui male con la Sig.ra Marchesa dela valle che havesse fatto casare lo figlio per via di magarie, si saria confermata in questa opinione et non l'haveria mai fatto escarcerare de Castello"(304). Aggiunse aver visto la carta del segreto in mano al Bitonto, ed aver avuto preghiere da fra Paolo e dal dottore Calderon perché facesse buono ufficio verso il Napolella acciò non fosse rovinato presso la Marchesa; aver avuto inoltre preghiera dal medesimo fra Paolo, perché non facesse cattivo ufficio verso il Gagliardo e il S.ta Croce, considerando che erano calabresi (tutto ciò dava forza grandissima al fatto in quistione, rimasto vacillante per l'assoluta negativa del Napolella). - Infine fu esaminato anche il Bitonto, il quale confermò che il Napolella era venuto con fra Pietro presso di lui, ed avea detto che quando fosse stato interrogato sul fatto del segreto, avrebbe manifestato la verità.

Ma non erano ancora scorse 24 ore, e il Napolella, riflettendo meglio sul caso suo, mediante il carceriere Martines mandò al Vescovo di Caserta un memoriale, con cui esponeva che per essere stato esaminato all'improvviso aveva avuta tanta paura da non aver saputo cosa si dicesse (eppure avea mostrato di saperlo molto bene); laonde supplicava Monsignore, che si degnasse "di restar servita di novo venirlo a saminarlo, che dirra la ystessa e pura verità come passa chi li ha dato detti scritti".

Così il giorno seguente, 22 marzo, innanzi al Vescovo di Caserta assistito dal suo segretario D. Manno Brundusio, fu esaminato dapprima il Napolella, che riconobbe il memoriale mandato e confessò di aver narrato al Gagliardo che "amava una donna ma non sapeva se si era dismenticata" di lui, onde il Gagliardo gli volle dare quel rimedio perché la donna non se ne scordasse; e riconobbe lo scritto avuto e attestò di averlo mostrato al Bitonto e di averlo poi lasciato nelle mani di lui quando udì che recava la scomunica. Dietro dimande, disse che non in questa circostanza, ma fin da tre mesi scorsi, il Gagliardo gli avea chiesto "un paro di calzoni usati per amor de Iddio" ed esso glie l'avea donati; che dopo il suo esame avea udito tenere il Gagliardo "mala fama di queste poltronerie". Infine scusò il non aver detto prima la verità, allegando l'essere "giovanetto di poca età... è travagliato di carcere longo tempo", e l'aver dubitato che accettando quel fatto ne sarebbe venuta la rovina sua. - Si passò allora all'esame di Orazio S.ta Croce, il quale, sempre dietro dimande, disse che era stato già carcerato in Siderno e a Castelvetere il 22 luglio 1599, per aver bastonato un tale che gli aveva uccisa una giumenta, e poi era stato incolpato della ribellione e tradotto in Napoli; che nelle carceri di Castelvetere udì esservi già venuti il 2 luglio il Campanella e fra Dionisio per far liberare Cesare Pisano; che costui parlava di cose contro la fede e tutti i carcerati ne presentarono memoriale al Principe della Roccella per mezzo di Mario Scadova carceriere. Inoltre che conosceva Felice Gagliardo, gentiluomo di Gerace, che non aveva mai udito dir male di lui, e solo da pochi giorni aveva udito che veniva processato "per fatochiaro". Ed avendo detto che era in grado di conoscerne il carattere, gli furono mostrate le solite scritture (tanto del 1° che del 2° gruppo), e le riconobbe tutte di mano del Gagliardo, eccettuandone quella sulla musica che gli veniva mostrata insieme con le altre, ed includendovi quella contenente la poesia in dialetto calabrese, a proposito della quale disse crederla di mano del Gagliardo "tanto più che lui fà professione di fare versi è sonetti volgari" (non gli fu mostrata la scrittura contenente il segreto dato al Napolella, forse perché era stata trasmessa al P.e Cherubino, ma intanto per tutte le altre potea dirsi decisivo il giudizio del S.ta Croce, uomo competentissimo e non sospetto). - Si continuò ancora l'informazione esaminando fra Pietro Ponzio(305). Si volle sapere da lui se conosceva il carattere del Gagliardo e se era a sua notizia che si dilettasse di far versi; ed egli rispose che lo conosceva, e che veramente il Gagliardo si piccava di far versi e sonetti, tanto che nei giorni scorsi avea fatto versi a fra Dionisio, cercando di pacificarsi con lui e chiedendogli perdono. Gli furono quindi mostrate tutte le scritture che si reputavano di mano del Gagliardo (come si era fatto pel S.ta Croce), ed egli confermò che veramente lo erano, escludendone solo quella sulla musica che disse di mano del Pizzoni: poi gli si chiese conto delle poesie trovate a lui, quelle del Campanella, ed in ciò importa conoscere la dimanda e la risposta testualmente. "Et dimandato alcuni sonetti che stanno scritti al libro n.° septimo, che sono maledicenti, altri che trattano di cose oscene (sic), et ci sono alcune cose scritte à donne amate che sapiunt idolatriam, da chi sono stati composti detti sonetti. Resp.t io un altra volta me ricordo di havere deposto che ad instantia di francesco Gentile haveva io radunato questi sonetti insiemi, deli quali parte mene havea dato esso gentile di mano sua, li quali non so l'authore, et alcuni altri me li hà dato il Sig. Cesare Spinola, et particolarmente li sonetti che sono dedicati alla Sig.ra Maria et alla Sig.ra donna Anna et uno à se stesso, et io ne hò avuto la maggior parte che sono più di venticinque lhò avuti da altri carcerati, li quali dicevano che erano stati composti da frà thomaso Campanella, et che il Campanella lhavesse dati à Mauritio de rinaldo calandoli con uno filacciolo dala fenestra del torrione, et che depoi la morte di Mauritio lhavea dati alli altri carcerati uno Cesare forse che havea servito detto Mauritio, et altri ne hò havuto da fra Giovan Battista de pizzone" (il Vescovo di Caserta ne dava il giudizio del Qualificatore peggiorato, e fra Pietro si schermiva almeno per quelli più scabrosi, massime perché composti nel tempo della pazzia, mettendo perfino in dubbio l'autore ed al solito traendo in iscena gli assenti e i morti). Infine gli si chiese pure conto del come avesse parlato al Napolella delle cose che avea deposte, mentre gli era ingiunto l'obbligo del silenzio: e fra Pietro si scusò, allegando il suo zelo di carità, e il desiderio di accertarsi che il Bitonto gli avesse detto il vero intorno alla scrittura data dal Gagliardo al Napolella. - Da ultimo fu esaminato anche fra Paolo della Grotteria il quale disse di non conoscere il carattere del Gagliardo, non avendo avuto mai amicizia con lui, comunque egli dimorasse in una medesima stanza e scrivesse tutta la notte (negativa tirata un po' troppo). Dietro dimande, attestò che il Gagliardo avea pessima fama, dicendo, "et ognuno se ne lamenta e ne dice male, et mò inganna uno et mò un altro, et dà ad intendere molte cose de fattochiarie"; attestò ancora che la cassa trovata nella camera di fra Dionisio vi era stata portata dal Bitonto, "che nella ricerca fatta dagli ufficiali in camera sua molte scritture furono trovate sotto il capezzale del Gagliardo, e andati via gli Ufficiali il Bitonto trovò a terra un libro e disse dover essere quello il libro che il Gagliardo dolevasi di avere perduto. Così mentre il Bitonto deponeva che il libro era stato trovato da fra Paolo, costui deponeva essere stato trovato dal Bitonto, e tutto induce a far ritenere che il libro stava nelle mani di entrambi, come pure che il Gagliardo avea bensì copiate di sua mano le più notevoli tra quelle scritture, ma in servigio specialmente del Bitonto, il quale vi annetteva molto interesse e le teneva suggellate e chiuse nella sua cassa. Pertanto si riuscì a far cadere ogni cosa sulle spalle del Gagliardo, ed anche, fino ad un certo punto, se ne trasse profitto per la difesa della causa principale, mostrando nel Soldaniero un fatto di animosità ed inimicizia, che costui non avea nemmeno sognato.

Rimanevano tuttavia ad esaminarsi il Moya già luogotenente del Castello a tempo della ricerca delle scritture, oltrechè il Figueroa già Castellano del Castel dell'uovo, e il Navarro soldato del medesimo Castello, per le altre scritture ivi trovate al Gagliardo anteriormente. Il Moya, divenuto capitano e non più dimorante nel Castel nuovo, fu citato più volte a voce ma non si curò di comparire; laonde il 28 marzo fu ordinato dal Vescovo di Caserta ed intimata dal cursore una nuova citazione in iscritto esistente in processo, con monitorio di dover comparire l'indomani personalmente sotto pena di scomunica ipso facto incurrenda, e malgrado ciò anche questa volta egli non comparve. Ma comparve il Navarro e poi il Figueroa (20 e 22 aprile). Francesco Navarro, di Montbeltran nella nuova Castiglia, disse aver conosciuto il Gagliardo fin dall'anno precedente carcerato nel Castello dell'uovo, essergli state trovate dal Castellano di quel tempo certe scritture che furono date a Scipione Moccia Auditore e potersene avere più distinta notizia dal detto Castellano Figueroa. - D. Melchiorre Mexia de Figueroa, di Messico nella Nuova Spagna(306), disse di aver tenuto carcerato nel Castello dell'uovo il Gagliardo, e perché era molto inquieto, avere ordinato che fosse chiuso in un criminale lui ed anche Orazio S.ta Croce; narrò la ricerca di scritture fattagli dietro avviso di altri carcerati, e la scoverta di molte carte di negromanzia, per le quali fece relazione a D. Gio. Sances, non nascondendo che alcune di quelle scritture furono prese dall'Auditor Moccia, ed altre rimasero presso di lui, le quali offrì di esibire al tribunale dopo di averne fatto parola al Sances. Dietro altra dimanda disse che il Gagliardo avea "molta mala fama e di huomo pessimo, et in particolare di essere necromante et fattochiaro, e di essersi dato al demonio in anima et in corpo, et che ne li havea fatta una scritta col suo sangue". - Venne poi finalmente ridotto anche il Moya a comparire. Il 26 aprile il Vescovo di Caserta ordinò contro di lui una nuova citazione per sentirsi dichiarare scomunicato coll'affissione de' cedoloni, e non avendo il Moya neanche questa volta obbedito, il 29 aprile lo dichiarò scomunicato, ordinando che fosse come tale pubblicato mediante i cedoloni affissi ne' luoghi pubblici della città, dandone all'uopo la relativa bozza(307). Ed ecco, affissi i cedoloni, immediatamente il Moya innanzi al Vescovo di Caserta, il 1° maggio, a scusarsi, dichiararsi pronto a deporre, dimandare l'assoluzione; e nella stessa data, raccolto l'esame ed emanato il decreto di assoluzione, venendo questa commessa al Curato di S. Anna di Palazzo, che senza perdita di tempo assolvè il Moya ed anche i domestici di lui, accorsi a chiedere egualmente l'assoluzione per avere parlato con lui ne' due giorni ne' quali egli trovavasi scomunicato. Ben poco intanto ci tratterrà il suo esame che fu raccolto dal solo Notaro Prezioso(308). D. Cristofaro de Moya, della città di Mensiner nella nuova Castiglia, narrò l'istanza fattagli da un carcerato calabrese, di cui non si rammentava il nome, perché avesse proceduto ad una ricerca di scritture proibite nella camera e cassa di fra Dionisio; la ricerca eseguita alla sua presenza dal sergente Alarcon, dal carceriere Martines ed altri; la scoperta di scritture in quella camera ed anche in altre camere di frati delle quali non si rammentava in particolare; la presa della cassa che fu portata al Castellano; e la scoperta di altre scritture in essa contenute; infine la sua andata al Vicerè con le scritture raccolte, per ordine del Castellano, e tutti i particolari che su questo proposito abbiamo a suo tempo esposti. Dietro dimande, disse di non aver lette quelle scritture, e solo ricordarsi di avervi visto disegnata una mano, come pure certe ruote o circoli, e di avere udito nel Castello, e forse anche dal Vicerè, "che erano cose di fattochiarie"; ricordarsi inoltre che la ricerca di quelle scritture venne fatta dietro una rissa tra carcerati nella quale fra Dionisio fu ferito nel capo. Mostrategli le scritture, riconobbe i circoli e la mano disegnata che altra volta avea visto, e cadendogli sott'occhio il libretto di poesie (le poesie del Campanella) disse, "et questo libro ancora riconosco che portai al vicere con l'altre scritture, et lo riconosco alla coperta, et alle zagarelle, benissimo". Notiamo che nulla egli accennò intorno alla scrittura trovata sotto la finestra della camera del Campanella, non essendone stato nemmeno interrogato, e però deve ritenersi che a questa data essa era già scomparsa.

Intanto il Figueroa, ottenuto certamente l'assenso del Sances, avea subito consegnate al tribunale le carte trovate al Gagliardo nel Castello dell'ovo e rimaste presso di lui; il P.e Cherubino le aveva immediatamente qualificate con una sua relazione in data del 24 aprile, e il tribunale, costituendone un 3° gruppo, le avea fatte riunire alle altre. Esse vennero in tal guisa ad aumentare indebitamente il volume delle così dette scritture proibite trovate nella cassa di fra Dionisio Ponzio, tanto più indebitamente perché non erano punto proibite, riguardando tutt'altro che negromanzia. Forse il Figueroa si studiò di non consegnare quelle che potevano farlo trovare alle prese coll'autorità ecclesiastica come sciente e non rivelante od anche come semplice detentore di carte proibite, avendo già altra volta, e precisamente nell'anno al quale si riferiva la sua deposizione, sperimentato i rigori dell'autorità ecclesiastica(309).

Gioverà non di meno occuparci di queste carte, perocchè quantunque riguardino materie comuni, servono bene a mostrare in tutta la sua luce il Gagliardo, e di costui c'interessa molto acquistare una piena conoscenza, a motivo di certe altre rivelazioni da lui avute in sèguito. Per ordine di data precede una lettera di Pietro Veronese padrigno del Gagliardo scritta da Gerace il 3 gennaio 1600; con essa il Veronese gli dà notizia della salute della moglie, sorelle e madre, lo eccita "a far cose honorate", e riverisce il Signor Orazio (S.ta Croce) dal quale ha avuta una lettera, come pure i due fratelli Moretti. Segue una lettera di Marcello Gagliardo, scritta da Gerace il 12 9bre 1600 forse ad Orazio S.ta Croce (manca la carta della soprascritta); e in essa si parla pure di Felice Gagliardo, si tratta di un invio di danaro, si fa sperare la dimanda di remissione da parte del Principe (il Principe della Roccella che era Signore di Condeianni) etc. Segue un'altra lettera di Pietro Veronese scritta da Gerace il 14 10bre 1600, quando egli tornava in patria dopo di aver visitato il figliastro in Napoli: con essa il Veronese gli dà notizia della salute de' parenti, ossequia i due Moretti, il Sig. Orazio (S.ta Croce) "et tutti quelli Signori", e gli partecipa che a Gerace "fu amaczato gelonardo regitano come vile". Questo disgraziato verosimilmente apparteneva alla famiglia del cognato di Felice Gagliardo a nome Francesco Regitano, che il Gagliardo avea ferito con un colpo di fucile, causa della sua carcerazione; l'essere stato ammazzato come vile, nel gergo de' facinorosi ancor oggi in uso, vuol dire che era stato ammazzato per non aver saputo tacere sulle mosse loro. Pertanto a siffatto annunzio esulta il Gagliardo e scrive una poesia in dialetto calabrese, intitolata "Capitolo delo scaduto", che rappresenta un'altra delle scritture raccolte. Son 25 strofe, e ne riportiamo le prime per saggio:

"Piangia Geraci, hor ridarà eterno,

per ch'e guarito delo antiquo mali,

hora che Gio. lonardo iju a lo inferno.

Ridi Siderno, che Matteo Spetiali

dessi li cunti à lo amaro scaduto

ridimu tutti, riditi ho (sic) Casali.

Non darà parapezzi(310) lu tributu,

no sarà chiu Brombaci assassinatu

hora che fu amazatu stu fallutu.

Tu Condianni statti arritiratu

e fa allegriza d'ogni cantu e locu

chi li frutti anderanno à bon mercatu.

E' vui massari fati festa e giocu

cu li sacculli vostri sempri chini (int. pieni),

hora che Riggitan' e intra lu focu" etc.

E continua così fino all'ultima strofa, con vituperii ed insolenze contro il povero morto, terminando coll'accertare che lo scaduto è andato all'inferno e che sarà da tutti ringraziato colui che l'ha ucciso; e il P.e Cherubino, che in tutte le scritture del presente gruppo non trova "nihil contra fidem vel bonos mores" definisce la detta poesia "una facetia ridiculosa", mostrando bene che pure i Teologi qualificatori sottostavano all'influenza de' gusti del tempo. Seguono due lettere di un Don Gioseppe di Capoa al Gagliardo, l'una scritta "dala per me oscura selva li 22 di xbre 1600", l'altra da Reggio, convento di S. Francesco, gli 11 gennaio 1601: sono due lettere brigantesche, atte a chiarire molto bene i procedimenti de' fuorusciti di que' tempi, e massime a tal fine ci è parso bene riportarle tra' documenti(311). D. Giuseppe di Capoa, come si rileva dalle lettere, era un capo di fuorusciti con 43 compagni, tra' quali Luzio fratello del Gagliardo ed altri "amici sui et del Sig.r Veronese che li comanda", tutti del resto in relazioni strette col Veronese, alla cui chiamata, dopo il 12 10bre, partivano sotto il comando di D. Giuseppe per Gerace senza saperne la causa; e D. Giuseppe, che avea pure nella banda un suo parente Andrea, unitosi con lui per avere ucciso Carlo Barone e figlio, teneva molto a non diventare un ladrone di strada, onde scriveva al Gagliardo, "ho dato licenza a Caporale Giulio et compagni per haver fatto un atto brutto, che si unirno con minichello et lutio il vostro, et hanno boscato molti migliara di scuti et volevano dar parte a me, ma per nessuno modo la volse, che tant'anni sono in campagna ho vissuto con le mie intrate, ne habbia dio ordinato tal furfanteria". Poi agli 11 gennaio, dietro la persecuzione da parte di un Auditore che faceva ogni sforzo per prendere que' fuorusciti, D. Giuseppe con tutti i 48 compagni erasi rifugiato nel convento di S. Francesco in Reggio, di dove scriveva la sua seconda lettera; ed avea già raccomandato al Gagliardo di scrivergli dirigendosi al cognato, ed allora raccomandava la lettera propria ad un tale, che non è nominato, con queste parole caratteristiche, "la gentileza d' V. S. et la protetione che come Cavaliere Cristiano tine (sic) de miseri gentilhuomeni travagliati attortamente dalla fortuna et dalla giustitia ne danno animo". Il Gagliardo avea scritto a D. Giuseppe che presto sarebbe uscito dal carcere, che un Cavaliere suo amico, in procinto di ottenere la commissione di capitano, aveva offerta a lui l'insegna (il posto di alfiere) per arrolar gente, che tutta la banda avrebbe potuto andarsene con lui alla guerra; e D. Giuseppe si dichiarava in ordine con tutti i suoi compagni, aspettandosi di essere guidato per questo, come allora si usava, e faceva esibizioni al Gagliardo, e si disponeva a mandargli sei canne di tabbì per un vestito da dovergli servire all'uscita dal carcere, ma anche con la franchezza del bandito gli diceva, "tutto quello che V. S. ha patuto lo meritava, per haver corso con il cervello suo balzano et non con consiglio di amici"; poi, all'ultima data, s'impazientiva e dichiarava di ritirare la sua parola se fra un mese il Gagliardo non avesse l'insegna, sottoscrivendo la lettera insieme con altri compagni, "Lutio Gagleardo suo fratello, Caporal Antonio Bregandi alias il Siciliano, Gio. bennardo Sdragona et Minichello Mullura"(312). Non sapremmo dire se la proposta di andare alla guerra, fatta dal Gagliardo a D. Giuseppe fosse stata un'invenzione del cervello suo balzano, ovvero un disegno fondato sopra un fatto positivo; ma dobbiamo attestare esserci noto da altri fonti che a quel tempo si trovava pure carcerato nel Castello dell'ovo Alessandro Piccolomini, 5° Duca di Amalfi, il quale dopo avere avuto già 12 anni di carcere per parte del Governo Vicereale ed una condanna a 10 altri anni da doversi espiare nel Castello di Aquila, dopo di avere avuto anche un processo di S.to Officio, per bestemmie ereticali e ricerche di segreti e sortilegi, finito con la condanna all'abiura e ad un anno di carcere, chiedeva allora appunto la grazia di uscire dal carcere coll'obbligo di andare a servire nelle guerre di Fiandra; ed ebbe questa grazia dal Conte di Lemos e gli fu commutata la pena da Clemente VIII con rescritto del 6 gennaio 1600, sicchè riesce probabile aver lui appunto offerto il posto d'alfiere al Gagliardo(313). Ad ogni modo riesce maravigliosa la fiducia del Gagliardo nella sua prossima liberazione, mentre nulla veramente poteva fargliela supporre. In ciò bisogna vedere un effetto della sua fantasia, della quale sono egualmente un parto le sue poche altre scritture di questo gruppo che dobbiamo ancora menzionare. E dapprima vi sono due prologhi di commedie (oltre una storia di S. Agata e S.ta Dorotea e un principio di racconto mitologico), che si mostrano infiorati di concetti non ispregevoli, certamente raccolti da trattati di siffatta materia, e che potrebbero pure rappresentare semplici ricordi di prologhi composti da altri e da lui recitati, ma sempre scritti col colore locale e con que' suoi curiosi modi calabresi(314). Vi è poi una Lettera in versi italiani, in cui finge una Lucrezia o Cieca, (forse volea dire Ciecia da doversi intendere Zeza, vezzeggiativo di Lucrezia) innamorata di lui per averla udita recitare in una commedia, adoperatasi a trarlo in libertà, e finalmente rimastane ingannata, perché egli con la scusa di andare a visitare le antichità di Pozzuoli se n'è partito per la Calabria; una specie di Didone abbandonata, invano confortata dalla sua nutrice Tolla (a que' tempi vezzeggiativo di Vittoria), che sfoga il suo affanno, e narra e rampogna e prega il seduttore che ritorni, stemperandosi in oltre 300 endecasillabi, qualche volta zoppi, non di rado privi di senso ovvero sconnessi, ma quasi sempre più o meno sonori, e diretti "Al S. F. G. dela C. di G." (evidentemente Al Sig.r Felice Gagliardo dela Città di Gerace).

"Questi mesti sospiri è questi versi

da le mie proprie man vergt' e scritte (sic)

coss' cantando, e sospirando muore

del bel Meandro in su l'herbose rive

il bianco Cigno à la sua morte appresso

se cancellanti (sic) e malamente intesi

seranno i tristi miei dolenti versi

fia solo (oime) perche sarà la carta

dal proprio sangue mio machiata e lorda

allor dovean l'invidiose parche

che dispensan l' vite de i mortali

haver finito d'avoltare il fuso

lo stame di mia vita all'hor potei (sic)

chiudere in bella et honorata sera

i miei sì belli et honorati giorni

quando te vidi in quella Real Sala

rapresentare in detti versi belli

il pastor Ergasto".......

E così via via, prendendo raramente fiato e non giungendo neanche a dire l'ultima parola con tanto diluvio di versi. Il P.e Cherubino dichiarò questa scrittura "litera amorosa... simpliciter enarratur amor unius ad alterum, neque miscentur aliqua, quae aliquo modo sapiant haeresim". Ci resta infine a menzionare ancora un'altra lettera che dovè essere stata scritta al Gagliardo, in caratteri molto grossi segnati con la matita o forse col carbone, da uno che stava nella segreta, in questi termini: "Patron mio V. S. me mandi per il Carceriero il suo pastor fido et la fida ninfa che non so quello mi fare il giorno, mandatime si avete alcuno altro spassatempo, il grinto voli ch'io amo scosse che vostra Matri ami o la cara del Carpio et il carniero del barone (gergo di convenzione tra carcerati), avisatime alcuna cosa et dite al Sig. Scipione (Scipione Moccia Auditore del Castello), e al sig. Gio. Paulo (ignoto) che si adattano al favorirme con il Sig. Castellano farne uscire de qua o farme unire con mio Compare" (notiamo che Orazio S.ta Croce dicevasi compare del Gagliardo e trovavasi allora egli pure in segreta). - Così uno de' "passatempi" del Gagliardo era la poesia, un altro la negromanzia, e tutto ciò che di lui abbiamo potuto conoscere ci mostra che questo giovane a 22 anni, audace, pieno d'ingegno e di fantasia, potè poi realmente, nel trovarsi a contatto col Campanella in Castel nuovo, di venirgli accetto, guadagnarne la confidenza, averne comunicazione di cose le più intime che posteriormente si fece a rivelare in punto di morte; ma pur troppo senza ombra di coscienza, capace di tutte le improntitudini, egli può ispirarci fede limitatamente, e le sue assertive dovranno sempre essere vagliate con la più grande circospezione.

Non essendo le ultime scritture suddette del dominio del S.to Officio, con le deposizioni del Figueroa e del Moya chiudevasi la lunga e noiosa informazione sulle scritture proibite. Noi abbiamo voluto esporla in tutti i suoi particolari, non solo per dar notizia di tutti gl'incidenti verificatisi durante il processo, singolarmente poi di questo che ci fece avere le Poesie del Campanella, ma anche per mettere in luce tutti gli elementi capaci di farci intendere le qualità del Gagliardo. Aggiungiamo che i colpevoli delle scritture proibite pervennero con le loro deposizioni a far cadere ogni cosa sulle spalle precisamente del Gagliardo, sicchè costui ebbe a darne conto egli solo: fu dunque stralciato questo carico dal processo principale e riunito agli altri della ferita inflitta in rissa a fra Dionisio e delle proposizioni eretiche, onde abbiamo veduto istituito quel processo secondario contro il S.ta Croce e lo stesso Gagliardo, che avrebbe dovuto comprendere anche il Soldaniero e Ferrante Calderon (cfr. pag. 239-240). E per finirla intorno a questo processo, notiamo qui, che contro il Calderon dovè aprirsi un processo speciale, poichè non lo troviamo esaminato ulteriormente; contro il Soldaniero, non avendo lui osservato l'obbligo di rimanere in Napoli ed essendosene partito per la Calabria, si prescrisse una apposita informazione, si confiscò la cauzione data, si ordinò a' Cursori quarumvis Curiarum di citarlo a comparire fra tre giorni, sotto pena di essere dichiarato scomunicato oltrechè confesso e convinto del delitto appostogli, e fu carcerato di nuovo in Calabria ma dopo qualche tempo, sicchè avremo agio di parlarne con comodo; relativamente poi al Napolella, essendo stato perdonato dalla Marchesa della Valle, supplicò il Vescovo di Caserta per la sua liberazione, impedita dall'empara interposta dal S.to Officio, e l'ottenne (9 luglio 1602) con la fideiussione di 25 once d'oro prestata da un Michele Cervellone palermitano(315). In tal guisa rimasero sotto il processo già istituito i soli S.ta Croce e Gagliardo. Si ripigliarono dunque gli esami, il 12 luglio, cominciando dal S.ta Croce, il quale si ricorderà che fin dal marzo era stato già esaminato intorno alla rissa e alla ferita inflitta a fra Dionisio (ved. pag. 241-42). Egli fu questa volta esaminato intorno alle cose della fede, e disse che si trovava "lo più maravegliato huomo del mondo" per tale imputazione, negando ad uno ad uno tutti i capi di accusa e qualificandoli invenzioni de' suoi nemici, vale a dire de' frati ed anche del Martines, al quale egli avea "fatto perdere le chiavi" perché convivea pubblicamente con la cognata nel Castello ed angariava i carcerati con le estorsioni; d'altra parte fece intendere che sebbene in Calabria "li villani e rustici sogliono dire questa parola Santo diavolo, tutta volta li gentil homini e persone civile non lo dicono", ed espose i buoni principii che professava e le divozioni che faceva, ed affermò che prima della rissa pagava cinque grana alla guardia, come le pagavano anche gli altri carcerati, per essere condotto alla Messa. Ma nel giorno medesimo fu esaminato qual testimone il Bitonto, che ribadì la maggior parte delle accuse e diè pure cattive informazioni sul Gagliardo. Con tutto ciò il S.ta Croce fu, come allora dicevasi, "abilitato" ad uscire dal carcere, coll'obbligo di tenere per carcere il domicilio che avrebbe indicato in Napoli e di dare per questo una cauzione di 25 once d'oro, che fornì un Rev.do D. Marcello Palermo (18 e 23 luglio): in sèguito trovò più comoda per lui una casa "nel fondico d'Eliseo alla carità dove si dice la pigna secca", e si rinnovò l'obbligo impostogli e la fideiussione del Palermo; deve dunque dirsi che per lui era finito egualmente con un'assolutoria il processo della congiura. Gli fu poi dato per Avvocato, a sua richiesta, il solito D. Attilio Cracco, e gli furono dati i capitoli del fisco col termine di due giorni per formare gl'interrogatorii (29 agosto): ma egli espose che tutto procedeva dalle inimicizie capitali contratte, con Alonso Martines per avergli fatto perdere l'ufficio, co' frati in generale a motivo della rissa, col Bitonto in particolare "perché mandato da fra Dionisio alla casa di esso comparente fu, insieme coll'altro, autore di farlo trovare inquisito di ribellione"; e però dava la ripulsa a tutti i testimoni e chiedeva essere spedito secondo gli Atti medesimi (12 settembre). Ad istanza del fisco fu esaminato ancora il Martines già carceriere, il quale confermò le accuse principali, senza punto mostrarsi nemico del S.ta Croce. Ma costui, prima che la causa fosse spedita, pensò bene di partirsene per la Calabria, come spessissimo facevano gli "abilitati", lasciando i fideiussori alle prese col fisco, e dando a questo, per siffatta via, un cespite ragguardevole di entrata. Furono allora esaminate dal Prezioso, per commissione del Vicario, Lucrezia Papa l'albergatrice con altre due donne (17 novembre), ed accertata la fuga del S.ta Croce venne "incusata" la cauzione e carcerato D. Marcello Palermo, il quale, per la fideiussione prestata e per qualche altro conto che dovea saldare, riuscì appena a liberarsi nel principio dell'anno successivo, sborsando D.ti 30, avuti, come egli disse, "per carità d'alcuno timoroso d'Iddio". - Quanto al Gagliardo, le cose andarono molto più in lungo, poichè si era commesso al Vescovo di Gerace l'esame di quel D. Pietro Manno, che egli avea nominato qual suo confessore pel tempo in cui trovavasi nel carcere di Castelvetere, (ved. pag. 255) e gli Atti relativi a tale commissione, benchè compiuti con la maggior sollecitudine, giunsero nelle mani del Vescovo di Caserta non prima del 1603, ed il processo potè proseguirsi e terminarsi stentatamente dal maggio 1603 al marzo 1604. Per tutto questo tempo non breve, il Gagliardo continuò a rimanere in mezzo a' frati; intanto la commissione data a Gerace risultò negativa, ed egli, esaminato dal Vicario Curzio Palumbo per delegazione dei Commissarii della causa principale, non mancò di profittare del trovarsi già fuori carcere, a quel tempo, fra Dionisio e il Bitonto, e scovrendo specialmente quest'ultimo cercò di scusarsi mercè una serie di garbugli sostenuti con una improntitudine singolare(316). Narrò che al tempo del suo primo esame que' due frati gli consigliarono di negare ogni cosa, perché altrimenti sarebbe stato bruciato dal S.to Officio, ma volendo ora manifestare la verità, riconosceva che quelle scritture erano di mano sua nella più gran parte, avendole copiate per conto del Bitonto ed anche del Pizzoni (il morto), i quali gli davano in compenso un carlino al giorno e gli dicevano che erano cose di filosofia; e mostrategli le scritture, indicò specificatamente quali di esse, ed anche quali parti di esse, erano state copiate da lui e quali dal Bitonto, affermando di non sapere da chi fosse venuto ed a chi fosse stato poi restituito l'originale; ammise che la carta data al Napolella era stata scritta da lui, ma sotto la dettatura del Bitonto, il quale diceva essere un segreto contro la corda che volea mandare ad un suo amico, e poi gli "fece il tradimento" col sedurre il Napolella e suggerire a costui un secondo esame in contradizione del primo, acciò apparisse che era un segreto di tutt'altro genere avuto da esso Gagliardo, aggiunse che il Bitonto gli era divenuto nemico, perché amoreggiava con una donna la quale stava sotto la loro carcere e corrispondeva con loro per un buco fatto al pavimento, ed egli aveva anche lui le sue pretensioni verso quella donna, e infine tutto era stato inventato da' frati, perché egli si era esaminato contro fra Dionisio, il Campanella e il Bitonto, nella causa della ribellione. Negò poi di essersi vantato di aver segreti per corrompere le donne, di aver conosciuto carnalmente la suocera e la sorella della suocera trovando più dolce il concubito con le persone parenti, di aver lodato per questo la legge di Mosè (giusta le accuse originate dalla denunzia di fra Pietro Ponzio); negò inoltre di aver mai aderito alle eresie che da Cesare Pisano erano state annunziate nelle carceri di Castelvetere. Ed ebbe i capitoli del fisco, e gli fu assegnato il solito Avvocato Cracco; ma rinunziò alle difese, ed innanzi al Nunzio ed a' due Vicarii, Graziano e Palumbo, sostenne un'ora di corda senza rivelar nulla, onde fattane relazione a Roma, coll'assenso della Sacra Congregazione fu decretata per lui l'abiura de levi, l'imposizione di alcune penitenze salutari, e il rilascio in libertà dietro fideiussione, obbligandosi di non partire dalla città di Napoli. Tutto ciò fu eseguito; diedero per lui cauzione di 50 once d'oro Sigismondo Campo di Oppido e Tarquinio Granata di Tortorella, e così il 2 marzo 1604 potè uscire dal Castello nuovo, dovendosi dire già assoluto circa la congiura nel principio del 1602, dietro la grave tortura sofferta con esito egualmente favorevole. È quasi superfluo dire che senza licenza se ne partì per la Calabria. Ma avendo poi là commesso un omicidio, fu ricondotto in Napoli e quivi giustiziato due anni dopo, e in tale occasione venne a trovarsi di nuovo alla presenza del S.to Officio, avendo voluto fare una deposizione in disgravio della sua coscienza; questa deposizione, molto importante per noi, ci darà ancora motivo di parlare di lui.

Possiamo oramai tornare a' frati, e innanzi tutto ci conviene dire, che durante l'informazione sulle scritture proibite giunse per loro la sovvenzione prescritta da Roma a' conventi di Calabria, ed attesa fin dal settembre dell'anno precedente; ma non ci volle poco per ricuperarla, e ne fu pure distratta una parte. Si era in marzo 1602; sapevasi che 200 Ducati erano giunti a Napoli con lettera di cambio nelle mani di un frate del convento di S. Domenico, e questo frate non compariva: il Vescovo di Caserta, in data 23 marzo, mandò un precetto al P.e Arcangelo da Napoli priore di S. Domenico, perché sotto pena di privazione del suo ufficio nel presente, e d'inabilità a qualunque altra dignità e prerogativa nell'avvenire, carcerasse in quel medesimo giorno il frate che avea ricevuto il danaro, e mandasse una fede dell'eseguita carcerazione da doversi trasmettere a S. S.tà in Roma. Con tutto ciò non risulta che il danaro fosse stato immediatamente ricuperato, giacchè, malgrado l'urgentissimo bisogno che se ne sentiva, si cominciò a disporne solamente il 23 maggio. A questa data il Vescovo di Caserta emise i primi ordini di pagamento, ed il Notaro Prezioso li eseguì, essendo stata a lui girata tutta la somma, posta in deposito nel Banco del Sacro Monte della Pietà; nella stessa guisa continuò a farsi di tempo in tempo fino al 9 giugno 1604, giorno in cui stava ancora in cassa un piccolo residuo della somma, e i frati reclamavano, il Vescovo ordinava, Prezioso nicchiava, e vi fu bisogno di un ordine al Prezioso sotto pena di scomunica ipso jure incurrenda! Tutti gli ordini di pagamento, le copie delle polizze di Banco, i ricevi di ciascuno de' frati co' nomi de' testimoni presenti, ed anche i memoriali de' frati medesimi ogni qual volta reclamavano la sovvenzione, furono riuniti in un fascicolo allegato al processo, che rappresenta il conto reso dal Prezioso ed è per noi di un'importanza grandissima: poichè esso non ci mostra solamente come e quando il danaro sia stato distribuito, ma anche ci fa conoscere le miserevoli condizioni de' frati e la condizione speciale del Campanella, il quale fu sempre riguardato qual pazzo, sicchè dapprima fra Pietro Ponzio e poi fra Pietro di Stilo riceverono per lui la rata che gli spettava; inoltre ci fa conoscere la data delle vicende successive de' frati rimasti in Castel nuovo, e così rilevare quando fra Dionisio e il Bitonto riuscirono a mettersi in salvo, quando fra Pietro Ponzio fu rilasciato, quando il Campanella fu segregato e posto in carcere duro. Circa la distribuzione del danaro, dobbiamo dire che esso non fu veramente impiegato tutto nei bisogni de' frati: per la massima parte fu loro distribuito, dando a ciascuno dapprima 8 ducati, poi 2, 3, 1 ducato etc., e nella distribuzione di 1 ducato fra Pietro Ponzio non volle ricevere tale miseria dicendo di non averne bisogno; fu anche pagata in due rate una somma per medicinali forniti a fra Dionisio infermo dallo speziale del Castello Ottavio Cesarano, ma una somma di D.ti 14 e tarì 2 fu data al Prezioso per la copia degli Atti offensivi e difensivi mandati a Roma, ed anzi il primo ordine di pagamento fu per questa somma. Un ordine simile da parte del Vescovo di Caserta risulta indubitatamente biasimevole sotto tutti gli aspetti: egli non prese in benefizio suo, come avea già fatto altra volta fra Cornelio del Monte, ma destinò in benefizio altrui una somma che doveva esser sacra e non mai distratta dallo scopo pel quale era stata raccolta; d'altronde trasgredì le prescrizioni categoriche di un decreto Papale, che era stato emesso appena nell'anno antecedente. Le prescrizioni erano: che per le cause del S.to Officio non si esigesse nulla da nessuno, e che si mandassero anche gratis a Roma gli Atti de' Segretarii, Cancellieri etc.; il Vescovo di Caserta non poteva ignorarlo(317).

Ma veniamo al processo, al cui compimento occorreva solo esaurire le ultime difese di fra Dionisio. Abbiamo già detto che il tribunale non lasciò di provvedere intorno a queste difese durante l'informazione sulle scritture proibite: esso fin dal 19 gennaio 1602 aveva assegnato a fra Dionisio un nuovo termine perentorio di 15 giorni; ma fra Dionisio chiese che gli fossero prima date le copie degli esami de' testimoni, come pure che gli fosse assegnato un Avvocato e procuratore, che fosse esaminato di nuovo il Petrolo, che fosse presa informazione sulla ritrattazione fatta dal Pizzoni in punto di morte. Il 6 marzo, quando fu chiamato all'esame sulle scritture proibite, egli rinnovò tali dimande con una comparsa e protesta scritta esistente in processo, dimandando di più che prima si vedesse nel tribunale "caritativo e santo dell'inquisitione" la falsità de' testimoni a suo carico, avendo questi medesimi deposto falsamente nella causa della ribellione, ciò che egli non avea potuto dimostrare in quella causa per la potenza del fisco. Così dicendo egli alludeva anche al Soldaniero, contro cui nella stessa seduta presentava le dichiarazioni scritte del Gagliardo, del Bitonto, di fra Pietro di Stilo e del S.ta Croce, attestanti quasi tutte, che le scritture proibite erano state fatte trovare nella camera di fra Dionisio per astuzia del Soldaniero. Il 27 marzo, il tribunale assegnò per Avvocato il Rev.do Attilio Cracco, ordinò la consegna della copia degli esami testimoniali fatti in difesa di fra Dionisio e prescrisse al Cracco un termine di 10 giorni per venire innanzi a' Giudici, nel palazzo del Nunzio, ad dicendum. Il 30 marzo, non appena intimato questo decreto a fra Dionisio, costui mandò un memoriale a' Giudici, supplicando che facessero andare il Cracco presso di lui, poichè altrimenti il termine passerebbe invano, trovandosi infermo e povero, e non essendosi ancora vista la sovvenzione ordinata ai conventi di Calabria. Ma senza dubbio l'informazione sulle scritture proibite, riuscita più lunga di quanto potevasi credere, impedì a' Giudici di andare innanzi speditamente; d'altra parte fra Dionisio, il 15 aprile, presentò una nuova comparsa, per chiedere copia di altri esami che non trovava fra quelli consegnatigli (l'esame del Soldaniero in Gerace, e quelli del Priore e del Lettore di Soriano), come pure "lettere e monitorii contro coloro che tenevano o in qualsivoglia modo conoscevano la ritrattatione fatta dal Pizzoni"; né prima del 19 aprile furono da lui presentati gli ultimi articoli di difesa scritti di sua mano, ma senza l'elenco de' testimoni da doversi esaminare sopra questi articoli(318). L'indomani, 20 aprile, i Giudici ordinarono che fra Dionisio, o il suo Avvocato, tra due giorni presentasse la copia degli esami consegnatigli, perché verificata la mancanza di quelli nuovamente richiesti ne fosse provveduto; inoltre che del pari fra due giorni presentasse l'elenco de' testimoni, pe' quali avea dimandate le lettere e i monitorii. Questo elenco fu presentato il 24 aprile, e con esso dovè presentarsi ancora la copia degli esami già consegnati e trovarsi vera la mancanza di quelli indicati: infatti si vede nel processo registrata la consegna de' documenti mancanti, tra' quali pure la confessione ultima di Cesare Pisano in punto di morte, che fra Dionisio richiese posteriormente, ed inoltre si vede registrata una seconda consegna finale di tutti gli esami raccolti a tempo del Vescovo di Termoli; la prima consegna reca la data del 31 aprile, la seconda quella del 18 maggio, sicchè solamente a tale data si potè davvero esser pronti, e il 21 maggio si potè passare agli esami testimoniali.

Gli ultimi articoli presentati da fra Dionisio non furono più di tre(319). Col 1.° egli affermava che il Pizzoni venendo a morte, per disgravio di sua coscienza, avea detto in presenza di più e diverse persone aver deposto il falso contro fra Dionisio ed altri in materia di S.to Officio e di ribellione, ed avere solamente aspettato, per ritrattarsi, che fosse posto in carceri ecclesiastiche. Col 2.° affermava che il Petrolo avea dichiarato ad infinite persone volersi ritrattare su quanto avea deposto contro fra Dionisio ed altri in materia di S.to Officio, voler mostrare tutta la radice della falsità del processo, ed avere perciò fatto due volte istanza a' Sig.ri ufficiali di essere riesaminato. Col 3.° affermava che Giulio Soldaniero "per dar credenza alle falsità da lui deposte contro esso fra Dionisio" avea fatto mettere scritture proibite in una cassetta dentro la sua camera e poi fatta fare la ricerca dagli ufficiali, onde egli era stato chiuso in un torrione per sei mesi e il Soldaniero l'avea diffamato dovunque. Con questi tre articoli semplicissimi evidentemente fra Dionisio giocava una grossa partita; ed ecco i testimoni che egli dava per comprovarli. Sul 1.°, Alonso Martines olim carceriere (era stato licenziato, come si è detto altrove, appunto nel maggio), il dot.r Michele Caracciolo, D. Francesco di Castiglia, il clerico Masillo Blanco (Gio. Tommaso Blanch), il clerico Cesare d'Azzia, Gio. Francesco d'Apuzzo: ma il D'Azzia era stato già liberato dal carcere, e con diversi altri fu scartato dal Vescovo di Caserta, rimanendo solo il Castiglia, il Blanch, il D'Apuzzo, ai quali vennero poi aggiunti d'ufficio il Curato del Castello D. Gaspare d'Accetto e il Sagrestano D. Francesco della Porta, che aveano dovuto vedere il Pizzoni vicino a morire. Sul 2.° articolo, oltre i suddetti, erano dati fra Antonio Capece (il cav.re gerosolimitano), il Bitonto, fra Pietro di Stilo e il Petrolo; ma tra questi ultimi il Vescovo di Caserta accolse solamente il Petrolo e il Capece. Sul 3.° articolo era riprodotta la dichiarazione scritta di Felice Gagliardo ed altri, coll'istanza che fossero esaminati i dichiaranti nel caso in cui non lo fossero stati ancora; ma il Vescovo di Caserta li ritenne già esaminati (la qual cosa era vera per alcuni e non per tutti) sicchè di tale articolo non si parlò più. - Vogliamo intanto, giusta il nostro costume, dar qualche notizia delle persone de' testimoni accettati, ciò che riesce indispensabile in questo momento di tanta importanza: trasanderemo quelli altra volta conosciuti, e diremo qualche cosa del Blanch e del D'Apuzzo, come pure del D'Accetto e del Della Porta che abbiamo bensì conosciuti ma un po' troppo alla sfuggita. Cominciando da D. Gaspare d'Accetto, le scritture della Cappellania maggiore che si conservano nel Grande Archivio, ed egualmente i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo, ci fanno conoscere i punti più notevoli della sua vita. Era di Massa Lubrense nel Sorrentino, ed a 50 anni, nel 1591, ebbe l'ufficio di Sagrestano della Chiesa del Castello, ufficio perduto da un D. Cesare Boffa, dietro un processo fattogli nel tribunale della Cappellania maggiore col titolo De raptu et fuga uxoris Francisci Alugia militis: pertanto nell'anno medesimo D. Gaspare fu sottoposto anch'egli a processo, per l'omicidio in persona di un D. Gio. Carlo Coppola, che dovea sposare una nipote di D. Gaspare, non avea voluto più sposarla e fu trovato ucciso; ma ne riuscì assoluto, e nel 1592 trovasi già in funzione di P.e Cura ne' libri parrocchiali. D'intelletto molto limitato, come lo mostrano gli Atti del processo del Campanella ne' quali prese parte, non apparisce punto inframmettente, e nel tempo di cui trattiamo tirava innanzi con una licenza annuale di poter confessare e amministrare gli altri sacramenti nel Castel nuovo, al pari di tutti gli altri ecclesiastici dello stesso ordine, mentre anche il Cappellano maggiore, D. Gabriele Sances fratello di D. Giovanni, sottostava a riconoscimenti temporanei da parte di Roma, in seguito di una fiera lotta giurisdizionale allora sorta. D. Gaspare tenne l'ufficio fino all'anno seguente, anno in cui morì. Quanto a D. Francesco della Porta, costui era della Diocesi di Oria, più svelto di D. Gaspare, e forse per questa ragione meno gradito: infatti non divenne P.e Cura che verso il 1609, mentre alla morte di D. Gaspare, per decreto del Cappellano maggiore in data del 3 agosto, lo divenne D. Alessio de Magistro napoletano, "precedente  (dice il decreto) la nomina nobis fatta da Maria de Mendozza moglie e procuratrice di D. Alonso de Mendozza Castellano del d.° Castello"; fino a tale punto si estendevano le ingerenze delle mogli de' Castellani(320). Veniamo a Masillo Blanco ossia Gio. Tommaso Blanch, come leggesi sotto la sua deposizione. In questa egli si disse figlio del Barone di Olivito (int. Oliveto) dell'età di 19 anni, carcerato da oltre 13 mesi per un "preteso insulto" in persona di Ottavio Stinca (l'insigne avvocato che abbiamo avuto occasione di menzionare in questa narrazione); gli scrittori di cose nobiliari e sopratutto il Carteggio del Nunzio, ci dicono il resto(321). Era uno de' più giovani figli di Francesco Blanch, 2° Barone di Oliveto, e di Lucrezia Capecelatro, la cui discendenza brillò moltissimo nella carriera militare: il terzogenito di costoro, Alfonso Blanch, si distinse più di tutti nelle guerre del Piemonte e morì in Fiandra, nell'assalto di Capelle, avendo sotto i suoi ordini il fratello Mario cavaliere gerosolimitano, che fu poi ucciso da' vassalli in Oliveto; il De Lellis non parla di questa brutta fine di Mario, ma ne parla il Nunzio nel suo Carteggio, perocchè il principale tra gli uccisori fu un clerico, ed opponendo le solite difficoltà delle prerogative ecclesiastiche il Vicario della diocesi non volle consegnarlo per più anni, finchè il Governo, stanco delle tergiversazioni, lo fece prendere e sommariamente impiccare. Forse nella difesa di questo clerico ebbe parte lo Stinca, onde i due fratelli Vincenzo e Gio. Tommaso Blanch, entrambi clerici per poter godere delle prerogative ecclesiastiche, gli fecero "un brutto assassinamento con ferite et in casa propria" secondochè scrisse il Nunzio a Roma; e il disgraziato dottore, un po' troppo tardi, si munì di licenza d'arme "con 4 suoi creati" come si legge ne' Registri Sigillorum(322). Vincenzo Blanch riuscì a mettersi in salvo, ma Gio. Tommaso fu preso, e penò molto ad ottenere la remissione al foro ecclesiastico. Aggiungiamo che tanto Vincenzo, quanto Gio. Tommaso medesimo ed anche l'altro fratello Michele, finirono con abbracciare la carriera militare e vi si distinsero tutti. Vincenzo morì in Fiandra alla presa di Ostenda, Gio. Tommaso, divenuto Capitano d'infanteria, si segnalò nell'assedio di Vercelli, fu promosso Sergente maggiore nel Barese e sposò D. Anna Gattola: ma al tempo del quale trattiamo, essendo giovanissimo e spensierato, non farebbe meraviglia se si fosse accordato co' frati per assumere la parte che rappresentò nell'informazione della quale andiamo ad occuparci. Rimane a parlare di Gio. Francesco d'Apuzzo. Egli era di Acerra, avea 23 anni, trovavasi imputato nientemeno che di parricidio, ed avea già due volte avuta la tortura: nel Grande Archivio non manca intorno a lui un documento che conferma la specie dell'imputazione fattagli, la quale imputazione senza dubbio non lo raccomandava presso i Giudici menomamente(323).

Il 21 maggio, dal Vescovo di Caserta e dal Peri vennero esaminati tutti i testimoni(324). D. Francesco di Castiglia depose aver veduto il Pizzoni poco prima che morisse, chiamato dal carceriere Martines insieme col Blanch e con un altro (il d'Apuzzo), ed avere udito dal Pizzoni che volea sgravare la sua coscienza, essendosi esaminato contro fra Dionisio e il Campanella perché così gl'impose un monaco di cui esso deponente non ricordava il nome (fra Cornelio), a fine di declinare la giurisdizione laica e liberarsi; che perciò ne avessero fatta testimonianza scritta, avendone lui già discorso col Curato e con altre persone, ma esso deponente non volle intrigarsi in questa faccenda, tanto più che il Pizzoni diceva esservi altre persone che lo sapevano. Dietro dimande aggiunse che non era stato ricercato da fra Dionisio né da alcuno de' fratelli Ponzii per tale testimonianza, e non ignorava quanto importasse far testimonianza falsa specialmente in materia di S.to Officio. Nulla gli fu dimandato intorno alle dichiarazioni di volersi ritrattare fatte dal Petrolo. - Si passò al Blanch, il quale depose esser andato presso il Pizzoni infermo, richiesto dal Martines insieme con Gio. Francesco dell'Acerra, perché il Pizzoni volea dichiarare di aver deposto il falso in Calabria e in Napoli contro fra Dionisio e il Campanella per sottrarsi al foro temporale; aver trovato nella camera del Pizzoni il Castiglia, ed aver udito dal Pizzoni che erano attesi perché volea si facesse detta scrittura, la quale fu distesa da Gio. Francesco (d'Apuzzo) e sottoscritta da lui, dal Martines e dallo stesso Pizzoni ma con la mano sinistra, essendo storpiato a destra. Dietro dimanda aggiunse aver conosciuto il Petrolo, che più volte gli avea dichiarato voler ritrattare le sue deposizioni contro il Campanella e fra Dionisio, le quali erano false, ed aver presentato per questo un memoriale al Nunzio ed un altro al Papa; aggiunse pure esser morto il Pizzoni pochi giorni dopo fatta quella scrittura, la quale rimase in potere dello stesso Pizzoni, che volea darla al suo confessore perché fosse presentata. È da notarsi che i Giudici non lo interrogarono sul contegno del Castiglia in quella circostanza. - D. Gaspare d'Accetto depose non aver mai trattato nulla col Pizzoni né prima né dopo l'infermità da cui fu colto; essere stato a Massa (suo paese nativo) ed al ritorno aver trovato il Pizzoni senza la favella; esser possibile che Don Francesco della Porta, il quale lo sostituì nell'ufficio di Curato, sapesse qualche notizia della dichiarazione per cui veniva interrogato. - Gio. Francesco d'Apuzzo disse essere stato condotto dal Martines presso il Pizzoni insieme col Blanch, e non ricordarsi bene se il Castiglia fosse venuto con loro o si fosse trovato già nella camera del Pizzoni; avergli il Martines detto che il Pizzoni si volea ritrattare per disgravio di coscienza e che ne facesse scrittura, ond'egli si pose a scrivere quanto il Pizzoni diceva, ed infatti diceva di ritrattare ciò che avea detto contro il Campanella e fra Dionisio, così in materia di eresia come di ribellione, avendolo detto per isfuggire il foro temporale; essere stata quella carta sottoscritta da lui, dal Blanch e dal Pizzoni (non più anche dal carceriere), "atteso francesco de Castiglia non ci si volse intromettere", ed essere rimasta quella carta in potere del Pizzoni, che diceva volerla dare al suo confessore. Dietro dimande aggiunse essersi lui offerto di fare questa deposizione, ed esserne stato quindi ricercato da fra Dionisio; aggiunse inoltre avere più volte udito dire dal Petrolo che si volea ritrattare di quanto avea deposto, e che avea dato più volte memoriali a questo fine. - D. Francesco della Porta disse aver confessato il Pizzoni solamente pochi giorni prima che morisse, avergli anche amministrata l'estrema unzione, ma non essersi mai parlato di ritrattazione tra loro, essersi invece parlato pel Castello di una scritta fatta dal Pizzoni vicino a morire; aggiunse aver udito che il confessore di questi frati Domenicani era un Domenicano vecchio. - Fu poi esaminato il Petrolo circa la sua pretesa volontà di ritrattarsi, espressa e comunicata a più persone, ed ecco l'importantissima deposizione che egli fece: "Signori, la verità è che io non posso vivere in queste carceri alle persecutioni che mi fanno li frati, non solo li carcerati, et altri dela religione, mà hanno sollevato tutta la Calabria contra di me, con dire che io habbia infamata la provintia è la religione con quello che hò deposto, et che per ciò io per defendermi et mantenermi, vado dicendo con li carcerati è con altri per posser vivere con poco di quiete, et per non essere offeso, che mi voglio retrattare sempre che haverò commodità, per mantenerli così in speranza perche non mi offendano, mentre stò quà, et anco che non facciano offendere li miei in Calabria, mà la verità è che non lhò ditto mai con animo di volerlo mettere ad effetto, perche quanto hò deposto avanti di Monsignor Vescovo di termole bona memoria è stata la pura è semplice verità. Et per questo non hò di che retrattarmi, et per amore di Iddio vi prego che questo negotio stia secreto, perche altrimente pericolaria dela vita et dell'anima". E i Giudici ordinarono che di questa deposizione non si rilasciasse copia(325). - Infine fu esaminato il Capece sul 2° articolo, sul quale era stato dato per testimone, vale a dire sulla volontà di ritrattarsi espressa dal Petrolo a più persone; e il Capece depose non saperne nulla.

Così quest'ultima difesa di fra Dionisio, che sarebbe stata utilissima egualmente al Campanella, non riusciva punto bene. Il 3.° articolo non era neanche messo in discussione; il 2.° articolo provocava la deposizione del Petrolo tanto brutalmente esplicita; il 1.° articolo veniva infermato notabilmente dalle deposizioni del Curato e del Sagrestano male a proposito citati dal Castiglia. Da questo lato dobbiamo rilevare che il Castiglia, il quale veramente avrebbe potuto fare impressione su' Giudici, si mostrò abbastanza impacciato nella sua deposizione; ma ad ogni modo attestò il fatto essenziale, e non si comprende come i Giudici non si fossero creduti in obbligo di udire su quel fatto il Martines ed anche il Domenicano confessore del Pizzoni, che avrebbero potuto recarvi luce grandissima. Tuttavia bisogna ricordare che si era avuta una dichiarazione scritta per conto del Pizzoni vicino a morire, avendo lui voluta sgravare la sua coscienza per quegli scritti di fra Dionisio che si aveva appropriati (ved. pag. 200); e non avrebbe dovuto allora sgravare la sua coscienza, se veramente questa gli rimordeva, sul fatto tanto incomparabilmente più grave che era la sua falsa deposizione? E non avrebbe dovuto fra Dionisio dare per testimone quel Domenicano confessore del Pizzoni, che dicevasi avere avuta la dichiarazione scritta intorno a quel fatto? Relativamente al Petrolo, ben si apponeva fra Pietro di Stilo, che ne dubitava in modo assoluto nello scrivere alle persone di casa Prestinace; il Petrolo non ebbe neanche bisogno del tormento per confermare quanto avea deposto. Temè d'incorrere nell'accusa di falsa testimonianza col disdirsi, o veramente la sua coscienza non gli permise di disdirsi? Tutto sommato, riesce difficile non abbracciare questa seconda opinione; ad ogni modo egli non si disdisse né sulla ribellione né sull'eresia come si era sperato. Quando le copie degli esami raccolti furono date a fra Dionisio, costui, non trovando quella dell'esame del Petrolo, potè capire come la cosa fosse andata: non di meno il Campanella, dapprima nelle sue Lettere tanto spesso citate, più tardi nella Narrazione ed anche nell'Informazione, scrisse che "fatto poi processo nel S. Officio... tutti li testimoni si ritrattaro in utraque causa", come pure che "li monaci fur in S. Officio ritrattati o convinti di falsità". Per lo meno il Campanella non fu bene informato: solamente il Lauriana fu sufficientemente provato falso testimone, ma il Pizzoni e il Petrolo, i due testimoni davvero gravi per lui, non si poterono dimostrare ritrattati niente affatto, ed è superfluo notare quanto la cosa debba dirsi importante.

Il 24 maggio, il Vescovo di Caserta decretò che fossero consegnate a fra Dionisio le copie degli ultimi esami, ma tale consegna non fu eseguita prima del 18 giugno(326). Per l'abitudine poi di quel Vescovo di trattenersi fuori Napoli durante i forti calori estivi, la causa de' frati non progredì nel luglio e nell'agosto. Soltanto si procedè a qualche Atto per Valerio Bruno, il quale con un primo memoriale al Vicario Palumbo, e poi con un secondo al Vescovo di Caserta (20 e 28 agosto) reclamò contro l'empara interposta dal S.to Officio alla sua liberazione mentre era stato "liberato dalle altre cause", e supplicò di essere spedito e abilitato. Il Vicario emise l'opinione che fosse di nuovo interrogato e poi spedito, e il Vescovo emanò da Caserta un decreto per l'abilitazione, la quale fu accolta anche dal Nunzio e dal Vicario generale Graziano e subito eseguita, con la fideiussione prestata dal padre del Bruno, e con l'obbligo di non partire da Napoli sotto pena di D.i mille e della galera ad arbitrio de' Giudici: nella quale fideiussione una circostanza degna di nota si è, che dal Bruno venne indicata per domicilio legale la casa di Carlo Spinelli a S.ta Lucia a mare, donde si scorge che lo Spinelli non abbandonava coloro i quali gli aveano reso servigi. E stando pur sempre in Caserta, il 30 agosto, il Vescovo spedì un ordine in nome suo e dei suoi colleghi, perché fosse citato fra Dionisio ad dicendum nel palazzo del Nunzio, dove coll'Avvocato di lui sarebbe stata spedita la causa nella sua prossima venuta a Napoli(327). Quest'ordine singolare, con l'assegno di un giorno non determinato, era un modo di mostrarsi obbediente alle ingiunzioni che venivano da Roma dietro le sollecitazioni che il Nunzio riceveva in Napoli dal Vicerè. Abbiamo infatti dal Carteggio del Nunzio che il Governo Vicereale non cessava di tener d'occhio l'andamento del tribunale di S.to Officio, ed ogni qual volta ne vedeva sospese le sedute, ricominciava le sue lagnanze. Così il 2 agosto il Nunzio scriveva al Card.l Borghese (successo nelle cose dell'Inquisizione al Card.l di S.ta Severina morto il 1.° giugno 1602), che più volte il Vicerè gli avea ricordata la spedizione de' frati inquisiti di eresia "per che poi si potesse spedir anche il negotio della Ribellione trattato son già circa due anni", e il giorno precedente gli avea pure fatto scrivere dal suo Segretario Lezcano un biglietto in tale proposito; laonde pregava che si desse ordine a Mons.r di Caserta di mandare a Roma le scritture e quanto si era fatto per la spedizione della causa. Il 9 agosto ripeteva le istanze, dietro sollecitazioni avute da D. Gio. Sances "Fiscale di permissione di N. S.re nella causa della rebellione di Calabria"; e nella stessa data il Card.l Borghese gli facea sapere, che scriveva contemporaneamente al Vescovo di Caserta di mandare "il resto delle scritture co' voti de' signori Congiudici", sicchè verso la metà di agosto pervenivano finalmente gli ordini di concludere, e il Vescovo di Caserta era obbligato ad occuparsene senza ritardo.

Dobbiamo aggiungere che in questo tempo fra Pietro Ponzio supplicò di nuovo S. S.tà perché la sua causa fosse spedita, non essendosi in lui trovata alcuna colpa(328). Il 17 agosto il Card.l S. Giorgio lo partecipava al Nunzio, richiedendolo a nome di S. S.tà che desse informazione sul caso di fra Pietro, e mandandogli perciò una copia del memoriale. In esso fra Pietro dolevasi di aver sofferto innocentemente tre anni di carcere, di essere più volte ricorso al Vicerè, al Nunzio, a D. Pietro de Vera senza aver mai ottenuto nulla, di trovarsi in carcere solamente perché fratello di fra Dionisio, concludendo col supplicare S. S.tà che si degnasse "ordinare à Mons.r Nuntio, et altri Giudici, che debbano con effetto provederlo di giustitia, giudicandolo secondo la sua propria colpa ò innocenza, et non secondo la ragion di Stato di Ministri temporali, la quale dopo tanto tempo dovria cessare". E il Nunzio, il 23 agosto, rispondeva come già altra volta (ved. pag. 212), che veramente fra Pietro era stato carcerato "più per essere fratello di fra Dionisio... che per delitto che si pretendesse contra di lui", ma "pe' suoi ragionamenti molto domestici" avuti di notte col Campanella, era stato ritenuto conscio del fatto e quindi da dover rimanere in carcere fino a che la causa fosse spedita: "intanto (egli aggiungeva) il Campanella si scoperse matto, et si fermò il negotio ne termini che si trovava, che veramente è alla fine, et si potrebbe ogni volta spedire, ma si è soprasseduto per la causa dell'Inquisitione"; questa si era protratta tanto che i Ministri Regii ne aveano molte volte fatto rumore, ma già al Vescovo di Caserta era stato ingiunto di procurarne la fine, e alla venuta di lui in Napoli dovea ripigliarsi, ed allora egli avrebbe procurata la spedizione di fra Pietro(329).

In fondo pel povero fra Pietro non c'erano che buone parole. Come già una prima volta nell'anno precedente, così anche questa volta il Nunzio promise e non attenne: benchè riconosciuto innocente, fra Pietro aspettò invano un provvedimento speciale per lui, e dovè rassegnarsi a vedere prima terminata la causa di eresia per tutti gl'inquisiti, tra' quali apparve egli pure compreso, mentre neanche il Nunzio nella sua lettera a Roma avea mostrato di essersene mai avveduto! Fortunatamente si era già ordinato di venire alla conclusione intorno all'eresia, per poi passare alla conclusione intorno alla congiura, ciò che ci resta appunto a narrare esponendo gli esiti de' processi.

V. Sarà bene pertanto occuparci delle opere scritte dal Campanella in questo lungo periodo di tempo, che comprende oltre due anni, dal maggio 1600 al settembre 1602: potremo così dare anche un qualche sollievo all'infinita noia inflitta a' lettori coll'esposizione del processo di eresia, inflitta veramente non per colpa nostra, ma per colpa de' Giudici. Come avea cominciato fin da' primi momenti dell'arrivo nelle carceri di Napoli, egli continuò a comporre poesie e prose, e per determinare nel miglior modo la data rispettiva, sarà bene dividere in due il periodo anzidetto. Nel 1°, che va dal maggio 1600 al 2 agosto 1601, data della ricerca di scritture fatta dagli ufficiali del Castello, egli senza dubbio compose tutte le Poesie che furono trovate presso fra Pietro Ponzio, all'infuori di quelle che abbiamo veduto costituire un primo gruppo riferibile al periodo antecedente; inoltre compose o meglio ricompose il libro della Monarchia di Spagna. Nel 2°, che va dal 2 agosto 1601 in poi, egli pose mano alle opere filosofiche, cominciando dal portare a compimento l'Epilogo di Filosofia, o la Filosofia epilogistica, che si ricorderà essere stata trovata sotto la finestra del suo carcere, buttata giù al momento in cui vi entravano gli ufficiali del Castello.

Al libro della Monarchia di Spagna egli attese certamente con la maggiore assiduità, avendolo ritenuto molto giovevole per la difesa della causa della congiura: dopo gli Articoli profetali, probabilmente dalla 2a metà del maggio 1600, dovè esser questa la sua unica occupazione seria, onde potè poi aggiungere di seconda mano il ricordo del libro nelle Difese già ricopiate. Noi ci siamo spiegati a lungo altrove intorno alla data della composizione della Monarchia (ved. vol. 1°, pag. 146-47) e ne abbiamo anche detto qualche altra cosa parlando delle Difese (ved. qui pag. 99 e 113); non sentiamo quindi la necessità di discorrerne ulteriormente. Solo diremo, che prima del giugno 1601, data in cui fra Pietro di Stilo presentò le Difese al tribunale, il libro dovè essere stato già scritto e mandato a Stilo, per farlo trovare in quel posto e farne menzione appunto nelle Difese. né ci dissimuliamo che siffatto termine di un anno, impiegato nella ricomposizione di un libro da parte di un uomo come il Campanella, sapendosi non averne allora scritto alcun altro, riesce estremamente lungo, sicchè tanto più si avrebbe motivo di pensare che il libro sia stato davvero composto, non già ricomposto nel carcere; ma ricordiamo pure che per tutto l'anno il Campanella fu guardato di molto a causa della sua pazzia, finchè poi non ebbe a provarla col tormento della veglia. Del resto, come abbiamo già fatto notare altrove, importa poco che il libro sia stato composto nella fine del 1598 o nel 2° semestre del 1600, non essendovi gran differenza tra l'essere stato scritto quando si meditava una congiura o quando si voleva dimostrare che non c'era stata congiura; importa solo sapere che non fu composto dopo dieci anni di prigionia, e che fu ad ogni modo un libro di occasione, destinato ad addormentare od a placare la Spagna, onde non gli si può dare la significazione che gli è stata data, e bisogna trattenersi dal vedervi il saggio di una delle grandi aspirazioni del Campanella.

L'autore poi dovè certamente rivedere in sèguito questo libro, e per lo meno ritoccarne il proemio e la conchiusione, là dove, negli esemplari manoscritti che tuttavia se ne hanno in gran copia, esso reca l'indirizzo ora semplicemente a un D. Alonso, ora al Reggente Marthos Gorostiola, ed ora è sfornito di provenienza e di data, ora reca la provenienza dal conventino di Stilo e la data del dicembre 1598, aggiuntavi talvolta anche l'età dell'autore. Nel Syntagma de libris propriis troviamo registrato che egli compose la Monarchia dapprima in italiano, e poi essa "giunse nelle mani di tutti, nella lingua italiana e nella latina, dalle collezioni di Gaspare Scioppio e di Cristoforo Flugio". Vedremo più in là che il Flugio fu presso di lui nel 1603 e ne ebbe certamente la Filosofia che il Campanella finì di scrivere dopo la Monarchia; non ci sembra quindi arrischiato l'ammettere che abbia avuta anche la Monarchia in siffatta occasione; lo Scioppio poi ebbe egli pure la Monarchia con diverse altre opere verso la metà del 1607. Volendo prestar fede al Syntagma, bisognerebbe dire che il Campanella abbia voltata in latino la Monarchia innanzi il 1607: ad ogni modo ci pare che le due date diverse della consegna di questo libro, il 1603 e il 1607, dieno la ragione del trovarlo indirizzato una volta semplicemente a D. Alonso, e un'altra volta al Reggente Marthos con tutte quelle altre sfolgoranti circostanze della provenienza e della data. Giacchè appunto nel frattempo, alla fine del gennaio 1604, come si rileva anche dal Carteggio del Residente Veneto, era trapassato il Marthos; avea quindi potuto il nome di lui esser posto in luogo di quello di D. Alonso, rimanendo così eliminata ogni reminiscenza del De Roxas, e fornita una prova più limpida dell'affezione dell'autore agli spagnuoli, se non presso il Governo Vicereale che lo conosceva bene, presso la Curia Romana, l'Imperatore, gli Arciduchi di Austria e il medesimo Re di Spagna, presso tutti i potenti Principi a' quali il povero filosofo ebbe a rivolgersi. Ma non vennero fatte nel libro altre innovazioni, e si può dire che le piccole varianti introdottevi sieno piuttosto dovute a' cattivi amanuensi, giacchè per lungo tempo l'opera, assai ricercata, corse solamente manoscritta tra gli eruditi; del resto un confronto qualunque de' diversi esemplari non è stato mai fatto, e varrebbe la pena di farlo così per questa come per ogni altra opera del Campanella rimasta lungamente manoscritta, poichè nelle varianti potrebbe rilevarsi meglio la mano dell'autore e scoprirsene anche l'animo o piuttosto i bisogni ne' diversi tempi successivi. Si conosce che la Monarchia fu pubblicata per le stampe dapprima in tedesco, senza indicazione di luogo, nel 1623, a cura di Cristoforo Besoldo, il quale l'ebbe certamente dal suo amico Tobia Adami cui fu consegnata dal Campanella con le altre opere sue nel 1613; molto più tardi fu pubblicata in latino, scorso un anno dalla morte dell'autore, in due luoghi e con più edizioni a breve intervallo (Hardevici 1640, Amsteleodami 1640 e poi ancora 1641 e 1643); quindi fu tradotta anche in inglese da Ed. Chilmead con pref. di Wil. Prinae in Londra 1649, ma nell'originale italiano fu pubblicata solamente a' giorni nostri a cura del D'Ancona in Torino 1854(330). Una lettera inedita del Campanella, che noi pubblichiamo, ci mostra che l'autore fino agli ultimi anni della sua prigionia desiderò vivamente che l'opera, insieme con un'altra analoga, fosse data alle stampe, e ne fece dimanda al Vicerè(331); ma sicuramente, allorchè fu libero, non dovè più gradirne la pubblicazione. Pertanto in Italia, durante la vita dell'autore ed anche dopo, se ne fecero molte copie manoscritte, ed ancora ne rimangono parecchie in varie Biblioteche, non meno di quattro in Napoli (tre nella Bibl. naz. ed una nella Bibl. de' PP. Gerolamini), una in Firenze, una in Lucca; e non meno di tre ne passarono a Parigi (Bibl. Naz. Ital. num. nuov. 875, 984 e 985) e una ne giunse pure a Londra (Mus. Brit. Egerton-collection n° 10,689) che reca essere stata eseguita "anno 1634 a quinto di Septembre". Non paia eccessiva tutta questa discussione, trattandosi della Monarchia di Spagna, che per lo meno riguarda troppo da vicino l'argomento nostro.

Aggiungiamo che si potrebbe credere essersi il Campanella in questo periodo occupato pure della revisione de' "Discorsi a' Principi d'Italia" etc. che tanta attinenza aveano col libro della Monarchia di Spagna e che furono menzionati egualmente nella sua Difesa. Ma ricordiamo che egli ne fece menzione dicendoli inviati a Massimiliano, e d'altronde, così come li possediamo, offrono la citazione di qualche opera scritta ancora più tardi; bisogna quindi rimandarne l'avvenimento della revisione a una data posteriore.

Venendo alle Poesie, innanzi tutto dobbiamo dire che non può non recar maraviglia la loro quantità con indirizzi anche a persone diverse, taluna delle quali persona veramente ufficiale, come p. es. la Sig.ra D.a Anna che vedremo dover essere stata una parente di D. Alonso il Castellano, in un tempo in cui il Campanella mostravasi pazzo! Possiamo in verità rimandare le poche poesie con siffatto indirizzo al tempo posteriore all'amministrazione della veglia; ma neanche possiamo rimandarle tutte come vedremo, e dobbiamo ricordare che quel tempo non raggiunse due mesi, essendo circoscritto dal 4 giugno al 2 agosto, e la Musa doveva mostrarsi allora ben riluttante, sicchè un numero molto tenue è lecito assegnarne al detto bimestre; d'altronde sono anche troppe le poesie indirizzate a persone, specialmente del bel sesso, in rapporti più o meno diretti con la famiglia del Castellano, né poi il Campanella dopo la veglia avea peranco cessato di mostrarsi pazzo. Bisogna dunque conchiudere che nel Castello, perfino presso il ceto autorevole, non mancarono persone pietose e ben disposte verso il prigioniero; né egli mancò di procurarsene la benevolenza e mostrarsene grato, esaltandone le virtù, carezzandone anche la vanità, abbandonandosi perfino al genere erotico e lascivo, sempre col gusto de' tempi, non senza comporre versi egualmente per conto di altri, spesso per procurarsene qualche favore e sovvenzione nella squallida miseria in cui si trovava. Non farà quindi maraviglia se queste poesie riescano quasi tutte scadenti, di niun valore letterario, ma in compenso di molto valore storico; né farà maraviglia se in quelle poche, le quali trattano soggetti più elevati, si notino principii politici e religiosi comuni, mentre l'autore avea bisogno di giustificarsi, e le sue poesie doveano circolare tra persone sovente attaccate al Governo, più sovente attaccate alla religione nel senso volgare. Si comprende agevolmente, che non potremmo fare una rassegna minuta di tutte queste poesie senza allungar troppo la nostra narrazione, ma si comprende pure che non possiamo passarcela di volo, dovendo rilevarne specialmente ciò che può chiarire la vita intima del Campanella, ed anche la vita riposta per quanto è possibile, in questo notevole periodo della sua prigionia.

Poniamo in primo luogo alcuni Sonetti profetali, che si trovano disseminati nel presente gruppo di poesie, come ne abbiamo visto disseminati anche nel gruppo appartenente al periodo anteriore, e menzionati nel Syntagma quali Ritmi consolatorii, diretti a dar vigore agli amici. Uno di essi comincia col verso

"La scola inimicissima del vero"

e l'altro col verso

"Mentre l'aquila invola e l'orso freme"(332).

Entrambi ebbero l'onore della stampa per cura dell'Adami, ma non senza mende, come del pari l'ebbe un terzo, che mostra quanto il Campanella tornasse volentieri su questo tema, per ricordare "il fine instante delle cose umane": esso fu dettato ad occasione di una richiesta avuta di scrivere qualche Commedia, e comincia col noto verso

"Non piaccia a Dio che di comedie vane" etc.(333).

Chi mai potè fare tale richiesta al Campanella? Oseremmo dire Felice Gagliardo, che si è visto avere scritti più Prologhi di Commedie. Un altro Sonetto consolatorio di genere diverso è quello poco convenientemente intitolato "Al Principe di Bisignano", che è veramente un ricordo dell'essere stato il Principe rinchiuso nella medesima prigione, e dell'esserne poi finalmente uscito, onde il poeta ha motivo di dire

"Gran forza e speme tanto essempio adduce"(334):

vi si possono fare varie osservazioni circa il numero di anni passati dal Principe in prigione, circa i motivi della prigionia, ed anche circa i motivi del ritorno in libertà, ma a' poveri calabresi la sola "cessata ragione di Stato" dovea sembrare un motivo soddisfacente.

Passando alle Poesie politiche, ne troviamo solamente cinque, intitolate all'Italia, a Genova, a Venezia, a Roma, e "Roma a Germania"(335). Le tre prime furono poi pubblicate, le altre due furono scartate; ma quella all'Italia fu pubblicata sotto la forma di Canzone, mentre originariamente era stata composta in forma di Sonetto con appendici, e fu anche intitolata "Agl'italiani che attendono a poetare con le favole greche", mentre originariamente non aveva titolo determinato; né sarà superfluo far avvertire, che le prime notizie delle proprie Poesie date dal Campanella nella lettera al Card.l Farnese del 1606, seguita dalle altre al Card.l S. Giorgio e al Re di Spagna, poi anche nel Memoriale al Papa del 1611, fanno distinta e principale menzione di tali poesie politiche(336).

Quella all'Italia può dirsi un vero Inno al primato italiano, nel quale son pure notevoli diversi concetti generali e particolari: l'essere cioè "sepoltura de' lumi suoi, d'esterni candeliere", il ferir sempre di nuovi affanni "lo stilense" il quale "quella patria honora che poi lui dishonora", il non cessar mai "di servir chi la paga d'ignoranza, discordia e servitute" alludendo certamente a Spagna ed a' Principotti italiani. Non parliamo poi del Sonetto a Genova né di quello a Venezia, permettendoci solamente di ricordare ancora una volta, che da quest'ultimo, e non da ciò che dovè scrivere in certi momenti tristissimi, conviene desumere i convincimenti del Campanella intorno a quella mirabile repubblica, fondata sul sapere e sul potere, condotta senza fiacchezze sentimentali, e perciò durata tanti anni. Circa il Sonetto a Roma, conviene notarvi quel concetto osservabile

"Deh non pianger l'Imperio, Italia mia,

ch'hoggi l'hai vie più certo e venerando",

mentre nel primissimo Sonetto all'Italia, composto in altre circostanze, il poeta si era doluto che non si vedeva già più "vergognarsi per l'onor di Dina" né Simeone né Levi. Ecco dunque uno spiccato ritorno indietro, e non di poco momento: ma non deve sfuggire che il Sonetto fu scartato quando si venne alla pubblicazione delle poesie, e si può anche osservare, che mentre ne' versi originarii della poesia menzionata più sopra e diretta "Agl'italiani" etc. si leggeva

"...... la gran Roma

dove anche ha Dio suo tribunal costrutto",

ne' versi rifatti posteriormente e così dati alle stampe si lesse

"E del cielo alle chiavi alfin pervenne";

cioè a dire, fu sostituito un encomio di abilità politica ad un riconoscimento di dono soprannaturale. Circa il Sonetto "Roma a Germania", esso segna il passaggio alle poesie religiose, rappresentando una tirata contro la riforma, e questo veramente non è affatto nuovo nell'ordine delle idee del Campanella, cui la dissociazione nella fede cristiana riuscì sempre assai molesta: ma è nuovo quel tuono da pergamo accompagnato da vaticinii d'immancabile rovina, e bisogna tener presente che questo Sonetto fu pure scartato, e manifestamente uno studio dello scarto fatto riescirebbe davvero istruttivo. - Citiamo qui, al sèguito degli anzidetti, il Sonetto "Sovra il monte di Stilo"(337), poesia di niun valore, ma espressione di un caro ricordo del povero prigioniero, e passiamo subito a' Sonetti religiosi. Essi sono al numero di sei, de' quali furono poi pubblicati quattro, e riflettono la morte di Cristo, il sepolcro di Cristo, la Croce, l'Ostia consacrata(338). In tutti brilla la professione di cristianesimo senza riserve, il concetto di Cristo vero figliuolo di Dio, ciò che il processo mostrava essere stato da lui negato; intorno alla Croce, egli spiega la sua poca simpatia verso la tendenza a mettere in mostra Cristo crocifisso invece di Cristo trionfante, ed anche in ciò si trova una giustificazione riferibile alle cose emerse dal processo. De' due, che non furono poi pubblicati, l'uno tratta ancora del sepolcro di Cristo ma in tuono assolutamente predicatorio, l'altro rappresenta un fervorino sull'Ostia consacrata, e risulta esso pure una giustificazione. Si direbbero tutti questi Sonetti composti nella Pasqua del 1601.

Giungiamo alle poesie con indirizzo o menzione di persone diverse, talora non determinate, talora più o meno determinate, delle quali, potendo, c'ingegneremo sempre di dare qualche notizia, massime allorchè si tratti di persone benefattrici del povero prigioniero. Ci liberiamo dapprima di due Sonetti, l'uno per l'entrata di un alunno incognito nell'ordine monastico de' Somaschi, l'altro per l'entrata di un'Artemisia del pari incognita in un convento(339). Citiamo poi due Sonetti indirizzati a due persone delle quali già abbiamo fatto conoscenza(340): l'uno al Sig.r Cesare Spinola "splendor d'Italia, difensor di virtù", che l'autore encomia e ringrazia

"Del Campanella per la defensione

contro lo stuol traditoresco e rio",

e manifestamente esso deve dirsi scritto poco dopo il 15 novembre 1600, giacchè a questa data lo Spinola lo difese mentre era chiamato qual testimone dal Pizzoni; l'altro, senza dubbio di pari data e per la stessa circostanza, indirizzato a D. Francesco di Castiglia, che l'autore loda molto anche come poeta, cantore di donne sante, di cocenti amori, e perfino di Antiochia vinta. E forse egualmente al Castiglia, seguace del Tasso, deve dirsi indirizzato il Sonetto che nella Raccolta vien subito dopo(341): esso rappresenta una gentile ammonizione al seguace del Tasso, cui addita una meta più alta e abbastanza notevole per l'argomento della nostra narrazione, quella meta per la quale, il poeta dice, gioverebbe avere a guida Dante e Petrarca, scaldarsi al "fuoco de' lor petti", sentirsi il cuore punto "da giuste ire", elevarsi ed elevare

"Al degno oggetto dell'umana mente".

Ricordiamo inoltre qui il Sonetto indirizzato a un Sig.r Aurelio(342), un "canoro Cigno" tra' molti che si riunivano nelle Accademie napoletane, tanto più pullulanti quanto più avversate da Spagna. Non sapremmo, tra' mille Accademici di quel tempo, chi abbia potuto essere questo Sig.r Aurelio: ad ogni modo egli dovè vedere il Campanella ed eccitarlo a cantare di Cesare, e il Campanella se ne scusò adducendo le sue tristi condizioni,

"Che in atra tomba piango i miei dolori

sol pianto rimbombando il ferro e il sasso".

Ecco ora un Sonetto al Sig.r Troiano Magnati(343), un cavaliere del quale possiamo dare qualche notizia sicura. Primogenito di D.a Ippolita Cavaniglia, che vedremo tra poco celebrata egualmente, egli faceva parte della Compagnia de' così detti Continui, una specie di Guardia del corpo del Re, e per esso del Vicerè, composta per metà di spagnuoli e per metà di napoletani, scelti sempre tra le persone nobili, e ne' primordii dell'istituzione tra le persone nobili di prim'ordine: una cedola di pagamento del soldo per l'anno 1596, ed una dimanda di licenza al Vicerè per l'anno 1610, che si leggono nelle scritture dell'Archivio di Stato, ci hanno fatto conoscere questa sua condizione di Continuo(344). Il Campanella, dopo lodi enfatiche e seicentesche, gli chiede umilmente protezione per sè e pei suoi compagni:

". . . . . . vendichi l'onte

fatte a tanti virtuosi e a me meschino".

Veniamo a D.a Ippolita Cavaniglia, la più alta benefattrice del Campanella e de' frati; a lei sono indirizzate non meno di tre poesie(345). Un documento, da noi rinvenuto nell'Archivio di Stato, ci mostra questa Signora esser figliuola di D. Garzia Cavaniglia Conte di Montella, ma forse figliuola naturale, già vedova fin dal 1593 di Fabio Magnati, e madre di Troiano, Flaminio, Gio. Battista e Geronimo(346). Si sa che i Cavaniglia, gente valorosa e fida e di sangue regio, vantavano l'essersi stabiliti nel Regno col 1.° D. Garzia, venuto da Valenza in Napoli con Alfonso d'Aragona, fatto Conte di Troia nel 1445 e celebrato dal Sannazzaro (la Contea di Montella sopraggiunse più tardi, nel 1477, con D. Diego, l'amante della sorella di Ferdinando Aragonese): ne abbiamo un trattato scritto dal Sarrubbo, oltre le notizie registrate dal De Lellis nei suoi ms. che si conservano nella Bibl. nazionale di Napoli; ma le donne non figurano mai nel Sarrubbo, e il De Lellis ricorda solamente, quali figlie del 2.° D. Garzia, Cornelia e Fulvia monache; e tuttavia il documento suddetto non lascia dubbio sulla origine di D.a Ippolita, mentre d'altra parte i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo fanno spesso menzione di lei e de' suoi(347). Quanto a Fabio Magnati, il Capaccio mostra la famiglia de' Magnati proveniente da Bologna, dove essa era una delle 40, venuta in Napoli con Carlo 1.°, e dichiara Fabio "dottore di leggi, gentil'huomo virtuosissimo"(348): non è improbabile che egli fosse Auditore del Castel nuovo, ma ad ogni modo là abitava con la sua famiglia. Nel corso di questa narrazione abbiamo visto raccomandata a D.a Ippolita la lettera inviata da Sertorio del Buono a fra Dionisio, che fu poi trovata il 2 agosto 1601 dagli ufficiali del Castello. Nelle poesie, oltre la sua nobiltà affermata con le nozioni storiche suddette, oltre la maestosa bellezza e tanti altri pregi, vediamo esaltata la sua

"Generosa pietà, man liberale"

e sempre col maggior rispetto, e con una impronta di serietà sovente lasciata da parte nelle altre poesie dirette al bel sesso; onde si vede che effettivamente il Campanella sentiva per lei quanto le esprimeva nel verso

"L'altre femine son, tu donna sei".

Ma nella terza delle poesie, che è un Madrigale, il Campanella rivela tutta l'intensità della sua gratitudine:

"...mille grazie e benefizii farmi

volesti ancor; felici ferri e sassi,

che stringete i miei passi,

ringraziar non poss'io

né gioir del sol mio,

ringrazio voi e di voi più non mi doglio" etc.

Abbastanza analoga a codeste poesie, comunque meno fervorosa, è l'altra seguente, indirizzata a una Sig.ra Olimpia(349): non ci è riuscito interpretare(350) chi abbia potuto esser questa Signora e parrebbe che non abitasse nel Castello, poichè i libri parrocchiali non fanno alcuna menzione di un nome simile; il Campanella ne loda essenzialmente "l'umanità". Lo stesso dobbiamo dire della Sig.ra Maria, della quale il Campanella esalta la grande bellezza ed invoca la cortesia e la pietà, mostrando pure che glie ne avesse dato prova una volta e poi si fosse posta in contegno(351): tali circostanze ci hanno fatto per un momento pensare che potesse trattarsi della Castellana medesima, cugina e moglie di D. Alonso, che varii documenti e perfino il Carteggio dell'Agente Toscano attestano sovranamente bella, e che per la sua posizione sarebbe stata veramente in grado di giovare il Campanella con la pietà; ma non può ritenersi punto consentaneo all'indole de' tempi veder chiamata la Castellana di casa Mendozza col nome di "Sig.ra Maria", e difatti "D.a Maria" o semplicemente "Maria" si trova sempre chiamata ne' libri parrocchiali del Castello. Potrebbe essere stata una Maria Gentile o una Maria Spinola, e piuttosto quest'ultima, poichè le si vede anche indirizzato ad istanza del Sig.r Francesco Gentile un Madrigale tutto smancerie e peggio secondo il gusto de' tempi; e vi sarebbe una Maria Spinola Centurione da potersi supporre quella di cui qui si tratta, ma non vale la pena di sciupare il tempo in supposizioni troppo vaghe. Giungiamo alla Sig.ra "D.a Anna". Qui il titolo è tale da dover fare ammettere senz'altro una Signora di casa Mendozza, ma, secondochè insegnano i libri di materie nobiliari e i libri parrocchiali del Castello, vi furono non meno di tre Signore di questo nome; 1.° D.a Anna di Toledo figlia di D. Pietro il Vicerè, maritata a D. Alvaro di Mendozza già Castellano e madre di D.a Maria la Castellana moglie di D. Alonso, rimaritata a D. Lope di Moscoso Osorio 4.° Conte di Altamura, onde ne' libri parrocchiali trovasi anche detta "Anna Moscosa"; 2.° D.a Anna sorella del predetto D. Alvaro, quindi zia di D.a Maria ed anche dello sposo di lei D. Alonso il Castellano che le era cugino, maritata a Lelio Carafa e rimaritata al Conte di S. Angelo, lungamente vedova e fondatrice della Chiesa di Pizzofalcone, spesso detta ne' libri parrocchiali Contessa di S. Angelo; 3.° D.a Anna ultima sorella di D. Alonso il Castellano, malamente detta Claudia dal De Lellis, maritata nel 1594 a D. Ferrante de Bernaudo e dimorante senza dubbio nel Castello, detta sempre "D.a Anna" ne' libri parrocchiali(352). Forse a quest'ultima, forse anche meglio alla prima D.a Anna, la quale era tuttavia una delle belle, fu indirizzato il Sonetto dal filosofo; ma a qualunque delle dette Signore sia stato esso indirizzato, si tratterebbe sempre di persone in parentela stretta col Castellano, ed in ciò precisamente risiede la singolarità del fatto, mentre il filosofo mostravasi a quel tempo nel colmo della sua pazzia. Quanto ai concetti espressi nel Sonetto, vi si trova lodata la bellezza e nobiltà di D.a Anna, se ne vede invocato l'amore, con quegli spasimi a freddo che è maraviglioso come abbiano potuto regnare in poesia tanti e tanti anni senza nauseare(353): lo stesso si trova egualmente in più composizioni del Campanella, delle quali dobbiamo ancora discorrere, onde si rileva che pure da questo lato egli abbia sacrificato al gusto e alla necessità de' tempi senza esitazione.

Ed eccoci all'ultimo gruppetto di poesie, nelle quali generalmente il pessimo gusto signoreggia sovrano. Le facciamo cominciare dal Sonetto che fra Pietro Ponzio trascrisse senza titolo, ma che mostrasi indirizzato ad un Gentile(354). Non è dubbio che si tratti qui del Sig.r Francesco Gentile, per conto del quale fra Pietro raccoglieva le poesie del Campanella nel libretto che gli fu poi trovato dagli ufficiali; e possiamo affermare di non aver risparmiato assolutamente nulla per sapere chi fosse questo Sig.r Francesco Gentile, ma pur troppo senza esservi riusciti. Dalle poesie egli apparisce parente di una Sig.ra Giulia Gentile, alla quale il Campanella non manca di scrivere un Sonetto e un Madrigale, innamorato di una Flerida, alla quale il Campanella scrive poesie per conto di lui e poi anche per conto proprio, e spesso e vivacemente: ad istanza di lui ancora il Campanella scrive il Madrigale alla Sig.ra Maria già ricordato qui sopra, e crediamo che per conto egualmente di lui sieno state composte molte poesie di amore anche lascivo, mentre alcune altre dello stesso genere appariscono pure indubitatamente scritte dall'autore per conto proprio. Avevamo dapprima pensato che potesse essere Francesco Gentile da Barletta, nipote della Sig.ra Giulia Gentile, presso la quale stava ritirata D.a Ilaria Sifola sposata a D. Andrea de Mendozza figlio di D.a Isabella Marchesa della Valle con grandissimo sdegno di costei (confr. pag. 258): questo D. Francesco, nobile di prim'ordine ed amico delle buone lettere come lo provano due Commedie che di lui ci rimangono(355), avea potuto venire con la sua zia in Napoli, per placare la Marchesa e cercare un accomodamento nella lite di nullità intentata da lei a proposito del matrimonio di suo figlio. Ma al tempo del quale trattiamo egli doveva essere molto giovane, e la Marchesa trovavasi nel maggior colmo de' suoi furori: abbiamo infatti visto che il povero Nicolò Napolella ne soffrì le conseguenze fino ad una parte del 1602, e i libri parrocchiali del Castel nuovo ci mostrano D.a Ilaria riunita a D. Andrea non prima del 1618. D'altronde fra Pietro Ponzio nel principio di dedica della Raccolta delle poesie lo dice Patrizio Genovese, e il processo dell'eresia ci mostra nel 14 novembre 1600 dato per testimone dal Pizzoni nelle sue difese un D. Francesco di Genova che verosimilmente è il Gentile, inoltre ci mostra dopo il 2 agosto 1601 dato per testimone da fra Pietro nella denunzia contro gli offensori de' frati il Sig.r Francesco Gentile, di cui il Mastrodatti dice, "è stato carcerato e liberato..." etc. (ved. pag. 241). Dovè dunque essere compagno di carcere de' frati, forse uno della famiglia de' Gentili che tenevano Banco in Napoli, del quale Banco esistono tuttora nel Grande Archivio tre libri che vanno dal 1592 al 1599; e ne' libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo egli figura qual padrino in un Battesimo del 18 aprile 1601. Ad ogni modo egli non era persona volgare, e nel Sonetto già citato, dicendosi pazzo, il Campanella gli chiede aiuto per sè e pe' suoi in nome dell'amore che egli porta a Flerida,

"Ond'io m'inchino a lei e per lei ti priego

ch'a lei, et a te, et a noi Gentil ti mostri

il fatal pazzo Campanella aitando".

Ma alla Sig.ra Giulia il poeta chiede né più né meno che amore e in un Sonetto la dice

"Gioia, idea, vita, luce, idolo, amore",

e in un Madrigale ne loda la bellezza al punto, che dichiarandola superiore a Lia e Rachele egli si compiacerebbe di essere schiavo per sette e sette anni(356). Intanto ad istanza del Sig.r Francesco Gentile scrive un Madrigale per Flerida, forse anche il Sonetto che segue, più probabilmente ancora un altro Sonetto posto nella Raccolta dopo quello indirizzato a lui(357); e scrive inoltre il Madrigale alla Sig.ra Maria, dal quale si vede che il Gentile si compiaceva di fare il cascante a dritta ed a manca(358). Vogliamo credere che egualmente per lui egli indirizzi a Flerida un Madrigale, da cui si rileverebbe essere stati ammalati entrambi ed essere ciò accaduto alla fine dell'anno, naturalmente alla fine del 1600(359); dippiù il Sonetto col quale ne loda i néi sul labbro e sul ginocchio, da' quali il poeta si lascia trasportare perfino

". . . . . sul consecrato fonte

dell'immortalitate all'appetito"(360),

onde poi riesce di comprendere quel Madrigale, in cui si accenna a un certo fiasco fatto e spiegato non senza sufficiente industria(361); finalmente anche il Sonetto in cui ringrazia Amore, l'altro sull'inestricabile laberinto d'Amore, e poi le Ottave e il Sonetto di sdegno, che dinotano una rottura completa e perfino villana(362).  Ma non siamo sicuri che tutte le poesie amorose dirette a Flerida siano state scritte per conto del Gentile, e una parte di esse ha potuto essere stata scritta per conto dell'autore, massime dopo la rottura anzidetta: è certo d'altro lato che l'autore credè egli pure dilettevoli o piuttosto comodi simiglianti passatempi, onde abbiamo almeno sei Sonetti di relazioni amorose indubbiamente sue, non mancando nemmeno nel titolo di alcuni fra essi indicato specificatamente "l'Autore". Forse presso Flerida ed anche qualche altra fanciulla egli trovò distrazioni, come di sicuro ne trovò presso una Dianora, al cui indirizzo la Raccolta ci offre un Sonetto; vedremo poi, nel sèguito della nostra narrazione, attestato da lui medesimo in una sua lettera il ricordo di scherzi a' quali certe donzelle lo invitavano dalle finestre, ed attestato dal Gagliardo in alcune sue deposizioni il ricordo di una certa Oriana, o secondo l'uso del paese D. Oriana, nome ingarbugliato che risponde bene a quello di Dianora, la quale abitava sotto la prigione e gli conservava libri e scritti, fornendoli ad ogni sua richiesta mediante una cordicina. La Dianora parrebbe una suora francescana, a giudicarne da' versi co' quali comincia il Sonetto

"Donna che in terra fai vita celeste

sotto la guida di colui che in Cristo

amando trasformossi":

a lei il Campanella fa ringraziamenti, ma si dichiara nel tempo stesso devoto abbastanza intimo co' versi

"Stella DIAN, ORA al mio fragil legno

che solca un mar d'affanni, onde non parte

l'occhio del mio desire e della mente";

né ci manca ne' Reg.i Partium la notizia di una "Sore Elionora Barisana", e, ciò che vale dippiù, ne' libri parrocchiali del Castel nuovo la notizia di una "Sore Dianora Barisciana di Barletta"(363). Per questa donna, che potrebbe supporsi appartenente alla famiglia del "torriero" come allora si diceva il guardiano della torre, o per Flerida e altre fanciulle che potrebbero supporsi appartenenti alla bassa famiglia de' Mendozza, egli dovè scrivere i rimanenti cinque Sonetti ne' quali canta il suo intrigo amoroso, un laccio di capelli da lui dimandato ed avuto, un presente di pere inviatogli, un bagno fornitogli in sollievo de' suoi dolori, ed anche una scena erotica abbastanza vivace accaduta a traverso il muro della prigione(364). Mettendo da parte siffatta scena che i lettori potranno rilevare col loro comodo, notiamo quella singolare dichiarazione che il Campanella fa nel Sonetto sul presente di pere

"Che solo Amor può darci il sommo bene

lo qual filosofando io non trovai"(365);

notiamo poi con tanto maggiore interesse la circostanza, che l'avvenimento del bagno fornitogli dalla sua donna si deve riferire al tempo che scorse dopo il tormento della veglia, onde il povero filosofo si sentì ristorato ed anzi poeticamente risanato,

"Tolsi l'acqua, applicaila al corpo mio

già fracassato dopo lunga guerra

per gran tormento ch'ogni forte atterra,

del medesmo liquor bivendo anch'io"(366).

Abbiamo dunque un Sonetto composto certamente dopo la veglia, a tempo de' bagni, vale a dire in luglio secondo il costume del paese: ma esso non fu il solo, e possiamo con ogni probabilità aggiungervi anche con precedenza due altri Sonetti indirizzati a un "Sig.r Petrillo"; né ci trattiene il rinvenirli a capo di tutto il gruppo delle poesie appartenenti al periodo di cui discorriamo, giacchè questo potrebbe significare solamente una speciale distinzione(367). Dal primo de' due Sonetti questo Sig.r Petrillo apparisce un fanciullo, o più verosimilmente un giovanetto, leggiadro e riservato, che consola il povero filosofo con la sua presenza, e l'eccita a scrivere nuovamente qualche poesia,

"Il vecchio canto a ripigliar m'invita";

e il filosofo dicendosi pazzo ed incapace di poetare con gusto, apparisce addolorato e affranto addirittura,

"Carme ti rendo d'ogni gusto parco,

ch'esce da bocca di dolcezza lungi,

ch'agli ultimi sospiri è fatta varco";

ci parrebbe impossibile riferire simiglianti espressioni, e tutto il resto, ad un tempo diverso da quello che seguì immediatamente la veglia. Con l'altro Sonetto il filosofo loda la bellezza del fanciullo e gli comunica eccellenti riflessioni morali, ma continua sempre ad apparire profondamente mesto, ed anche oppresso dal pensiero dei tradimenti che nella vita si patiscono; e chi era dunque questo Sig.r Petrillo? I libri parrocchiali del Castel nuovo ci dànno un po' di luce anche in questa come ce l'hanno data in altre circostanze: vi era un "Petrillo" figlio dello speziale del Castello Ottavio Cesarano e di Polissena Cammardella; nato nel 1583, egli morì nel 1603, ed avea quindi poco più di 17 anni allorchè comparve al filosofo, e doveva essere leggiadro come uno di que' fiorellini i quali, al vederli, fanno temere che ben presto piegheranno il capo(368). Grande meraviglia ci avea recato il non trovare qualche poesia diretta dal filosofo al suo migliore aiuto, al chirurgo Scipione Cammardella; ma ecco che lo vediamo onorato in persona del nipote, il quale verosimilmente l'accompagnò in taluna delle prime visite e poi più tardi, quando il filosofo era sempre assai sofferente, e in principio tuttora non fiducioso al punto da fargli comprendere la simulazione della pazzia, in sèguito divenuto fiducioso in modo da mostrarglisi un vero e buono sapiente.

Furono queste le poesie che il Campanella compose dal maggio 1600 al 2 agosto 1601, e tutt'al più una sola di esse potrebbe dirsi apocrifa nella Raccolta fattane da fra Pietro, quella intitolata "Sonetto di Horatio di G." etc.(369). Sicuramente dopo il detto periodo egli non cessò dal poetare, ed anzi allora appunto compose le maggiori sue poesie, che si leggono nella Scelta pubblicatane più tardi dall'Adami: cercheremo a tempo e luogo di determinare, se sarà possibile, la data almeno di taluna di esse.

Veniamo alle opere alle quali il Campanella attese consecutivamente, e per ora a quelle composte dall'agosto 1601 fin verso la fine del 1602, cioè fino a che si compì il processo dell'eresia. Gioverà qui avvertire una volta per sempre che i fonti migliori, per determinare in un modo meno fallace le date di quanto egli compose negli anni più difficili della prigionia, saranno sempre le sue Lettere del 1606-1607 a' Card.li Farnese e S. Giorgio e al Re di Spagna, alle quali egli annesse l'elenco delle opere fin allora composte; meglio ancora la lettera allo Scioppio, egualmente del 1607, posta come proemio all'"Ateismo" e pubblicata dallo Struvio, nella quale citò ad una ad una con un certo ordine, ma nemmeno con un ordine cronologico esatto, le opere che realmente teneva a sua disposizione e che infatti gli mandò, avendole rivedute, ritoccate, ovvero composte di pianta, e facendo menzione anche di taluna che avea composta e perduta o stava componendo e non potea mandare ancora; inoltre il Memoriale del 1611 al Papa pubblicato dal Baldacchini, al quale fu pure annesso un elenco delle opere, e in generale tutte le lettere del Campanella scritte durante la prigionia. Ma ad un grado limitatissimo potrà servire il Syntagma de libris propriis, pubblicato tanti anni dopo su note confusamente raccolte dal Naudeo, e manifestamente disordinato intorno alle opere scritte nel carcere, come si può rilevare dalle notizie che fornisce il processo dell'eresia, da quelle che forniscono i documenti anzidetti, non che dalla lettura medesima del libro(370). Pel momento il processo dell'eresia è ancora il fonte certo, su cui si può contare senza riserva, e da esso sappiamo che il 2 agosto 1601 il Campanella già metteva mano a compiere l'Epilogo di Filosofia, o la Filosofia epilogistica.

Rammentino i lettori il manoscritto buttato giù dalla finestra del carcere del Campanella il 2 agosto, mentre venivano a visitarlo gli ufficiali del Castello. Oggi ancora vi sono in Italia due Manoscritti col titolo di "Epilogo..." o "Epilogo magno di quello che della natura delle cose ha filosofato e disputato fra Thomaso Campanella servo di Dio": analogamente al manoscritto buttato giù dalla finestra del carcere, l'uno, della Magliabechiana, comincia con le parole, "perché teco menar la vita non posso Signore, come il desiderio suo grande della virtù vorrebbe", l'altro, della Casanatense comincia con le parole, "perché menar teco la vita non posso Signore" etc.; entrambi finiscono con le parole, "quel che ne fece poi voi lo sapete", alle quali parole nell'esemplare della Magliabechiana succede un epigramma latino in lode del Campanella, e nell'esemplare della Casanatense succede un piccolo numero di brevissime note e postille. L'opera poi in latino, stampata a cura dell'Adami nel 1623 col titolo di "Philosophiae realis epilogisticae partes quatuor", comincia con le parole, "Quoniam tecum vitam ducere, charissime, non datur, ut avidissime cupis" etc., e nella sua 2a parte, che rappresenta l'Etica, finisce con le parole tradotte alquanto liberamente, "quid autem subinde fecerit, historia docet". Come si vede, trattasi qui dell'opera che sappiamo cominciata in Roma verso la fine del 1594 col titolo di "Compendio di Fisiologia", quando il Campanella non potea "menar la vita" con Mario del Tufo cui la mandò, continuata poi in Napoli nel 1598 con l'aggiunta anche dell'Etica. Dopo due mesi dal tormento della veglia, stando sempre a letto, il Campanella già attendeva a rivedere quest'opera e ne meditava il compimento: perduta la copia che ne aveva avuta senza dubbio da Mario del Tufo, è naturale ammettere che se n'abbia procurata un'altra, ma intanto, senza sospendere il suo lavoro, compose gli Aforismi politici e l'Economica, poi ritoccò l'Etica e compose ancora la Città del Sole menando così a termine tutta l'opera. Questi particolari del modo in cui il lavoro fu condotto si rilevano dal Syntagma, e fino ad un certo punto riescono confermati da ciò che mostrano intorno all'opera gli elenchi annessi alle lettere del 1606-1607 ed anche del 1611, come ancora da ciò che mostra il confronto dei Manoscritti in italiano con la parte corrispondente dell'opera stampata in latino. Gli elenchi del 1606-1607 mostrano l'opera col titolo di "Epilogo magno di ciò che ha filosofato" etc., e quello del 1611 la mostra col titolo di "Epilogismo delle scienze naturali e morali e politiche" etc., citando poi separatamente i libri degli Aforismi e della Città del Sole o "De propria Republica"; il confronto degli esemplari manoscritti in italiano coll'opera stampata in latino mostra nell'Etica molte varianti, sebbene vi si serbino interi lunghi tratti della composizione originaria non che la chiusura; e potremmo dare molti altri ragguagli, ma per lo scopo nostro ci pare che queste poche cose bastino. Così l'"Epilogo" o "Epilogo magno", come sono intitolati i Manoscritti della Magliabechiana e della Casanatense, sebbene con titolo rinnovato, rappresentano sempre l'opera quale fu continuata il 1598 in Napoli, e ci manca un manoscritto in italiano con l'Etica nel modo in cui fu ritoccata verso la fine del 1601 nel carcere; abbiamo bensì(371) gli Aforismi e la Città del Sole in italiano separatamente, quali furono composti nel detto tempo ma con precedenza, mancandovi ancora l'Economica. Tutte queste circostanze mostrano in pari tempo che veramente al Syntagma si può aggiustar fede in quanto a' particolari della composizione, se non in quanto alle date, mentre vi si legge: "Scrissi inoltre gli Aforismi politici, che poi distinsi in capitoli, e così composi la scienza politica; e vi aggiunsi l'Economica, utilissima; ed instaurai nuovamente l'Etica secondo la dottrina delle Primalità, e vi posi in ultimo un'idea di Repubblica che chiamo Città del Sole, molto più eccellente della Platonica e di qualunque altra" etc.

Adunque gli Aforismi politici, al numero di 150, furono composti con molta probabilità nel medesimo mese di agosto, sicuramente non più tardi del mese di settembre o ottobre 1601, mentre il povero filosofo stava ancora a letto col corpo lacerato dal tormento della veglia! Di poi fu scritta l'Economica, ed avuta forse un'altra copia dell'"Epilogo" fu rimaneggiata l'Etica. Degli Aforismi intanto molte copie si diffusero, prima che venissero ricomposti in capitoli e tradotti in latino. Se ne hanno tuttora in Napoli, nella Biblioteca nazionale, due copie, una delle quali è la copia già inviata allo Scioppio che ha note e postille autografe del Campanella, con citazioni di altre opere sue posteriori, come la Monarchia del Messia e i libri Astronomici; ce n'è una in Lucca nella Bibl. pubblica (cod. 2618), una in Firenze già nella Magliabechiana ed ora nell'Archivio di Stato tra le scritture Medicee miscellanee(372), una in Torino nella Bibl. dell'Università; ed anche a Parigi ne pervenne una copia nella Bibl. dell'Arsenale. Le due copie napoletane, al pari della fiorentina, hanno qua e là piccole aggiunte e specchietti in latino per taluni aforismi; ed offrono poi un piccolo garbuglio di distribuzione della materia, onde apparisce un numero di Aforismi un po' minore de' 150, mentre la materia c'è tutta. Si conosce che siamo debitori al D'Ancona della stampa degli Aforismi in italiano, così come furono composti originariamente dal Campanella: egli si potè servire solamente di una copia tratta da due Manoscritti parigini entrambi scorrettissimi, e dovè lavorare di molto a ridurla; le copie napoletane potrebbero ottimamente servire per qualche altra edizione.

Relativamente alla Città del Sole, la più importante per noi, di certo essa non fu composta dal suo autore "avanti che entrasse nel carcere" come è sembrato al Berti(373): era bensì nella mente e nel cuore di lui in quel tempo, ed anche sulle sue labbra a sprazzi, ma fu posta in iscritto solamente nel carcere, durante il 1602. Con ogni probabilità fu cominciata a' principii del 1602, scorsi i 6 mesi di cura che sappiamo essergli stati necessarii dopo la veglia, quando il suo corpo era tornato florido e il suo spirito trovavasi grandemente confortato; giacchè sostenuta bene la veglia, provata giuridicamente la sua pazzia, egli poteva reputarsi salvo, in forza di quel principio che registrò di poi in una delle note annesse alle sue poesie, cioè che "de jure gentium i pazzi son salvi"(374); ed oltracciò, vedendo condotto così in lungo il processo dell'eresia, donde un ritardo sempre maggiore nella conchiusione del processo della congiura, dovea trarne la conseguenza che la ragion di Stato, della quale egli ritenevasi vittima, si sarebbe trovata verso di lui già calmata. E per verità, senza ammettere queste rosee speranze, non si potrebbe comprendere il suo ritorno a' cari sogni di un tempo, nel quale doveva allora sentirsi rivivere; non si potrebbe spiegare la sua audacia nel dar fuori, anche nascostamente e in mano di fidi amici, l'idea "della propria Repubblica" come egli l'intitolò di poi nelle sue Lettere a' Cardinali e al Re ed egualmente nel suo Memoriale al Papa; imperocchè grande davvero fu l'audacia sua nello scrivere un libro simile, mentre era in carcere e la sua sorte pendeva tuttora indecisa. Anche i biografi Campanelliani restii ad ammettere che il Campanella si fosse mai spinto a cospirare, segnatamente il Berti, hanno riconosciuto che nella Città del Sole sia stata da lui adombrata la Repubblica che si sarebbe fatta in Calabria, "nella quale esso si riprometteva non poca autorità"(375); il Nunzio, che tenea sott'occhio al tempo medesimo i processi puramente ecclesiastici come p. es. quello di Squillace, ove erano registrate tante particolarità ammesse poi nella Città del Sole, potea formarsi un criterio gravissimo della colpabilità del Campanella intorno alla congiura e intorno all'eresia, né occorre dire come dovesse ad ogni modo formarselo il Governo Vicereale, nel caso in cui gli fosse rimasto qualche dubbio intorno alla congiura. Ma l'indole del Campanella era appunto tale, da offrire una pieghevolezza eccessiva ed una temerità a tutta prova. - Il libro, come tutti gli altri finquì detti che vennero a costituire la "Filosofia epilogistica", fu scritto in italiano secondo il costume adottato dal Campanella già da qualche tempo, e fu da lui tradotto in latino più tardi, verso il 1613, quale si vede nella pubblicazione fattane dall'Adami il 1623; più tardi ancora fu ripubblicato egualmente in latino a cura dell'autore ormai libero in Parigi il 1636. Ma si comprende che esso dovè eccitare la curiosità al più alto grado, onde ne furono sin da principio fatte molte copie, delle quali ne rimangono tuttora alcune, sovente annesse agli Aforismi. In Napoli ve ne sono due, una delle quali è la stessa già data allo Scioppio, non corretta dall'autore ma abbastanza buona, e l'altra è d'altra mano e molto buona; una copia ve n'è pure in Roma nella Casanatense, un'altra in Firenze, parte di un codice Riccardiano, un'altra in Lucca parte del codice sud.to della Bibl. pubblica; ed anche in Madrid rammentiamo di aver preso nota di un'altra copia là esistente senza il nome dell'autore. Le copie di Napoli, che abbiamo avuto tutto l'agio di esaminare, ci hanno mostrato due fatti importanti, non ancora avvertiti per quanto sappiamo: 1°, che esse rappresentano la composizione originaria del libro in una forma molto rozza, ma robusta e ad ogni modo caratteristica; 2°, che varii ritocchi successivi furono fatti al libro quando venne tradotto in latino nel 1613, e perfino quando ne fu preparata la ristampa, ciò che deve riferirsi a dopo il 1629. E poichè questo libro offre un saggio notevolissimo delle opinioni politico-religiose riposte dell'autore, meritano di essere ponderate le modificazioni successive introdottevi in tre date diverse, corrispondenti agli anni 1602, 1613, 1629; l'esame di tali modificazioni, mentre rivela l'animo dell'autore nelle dette date, rivela in pari tempo che le opinioni espresse in quel libro non furono da lui abbandonate giammai non ostante tutte le apparenze in contrario, come del resto si desume egualmente dalle Quistioni sull'ottima repubblica scritte in difesa della Città del Sole tanto più tardi, e fino ad un certo punto anche dalla dedica della 2a edizione del libro De Sensu Rerum fatta nel 1637 al Card.l Richelieu, dal quale, niente meno, l'autore disse di attendersi l'edificazione della Città del Sole(376). Facciamo voti che questo libro, di cui si sono eseguite diverse traduzioni e edizioni, sia pubblicato anche con le varianti delle diverse date suddette. Più edizioni sono totalmente esaurite: l'ultima del Daelli (Bibl. rara, Milano 1863), che abbiamo non ha guari potuto avere, è stata condotta sulla 2a ediz. di Lugano 1850, analogamente a quella più diffusa del D'Ancona, il quale non potè servirsi del codice Riccardiano perché scorrettissimo. Entrambe quindi rappresentano un volgarizzamento dal latino, e per verità non ritraggono nel miglior modo la fisonomia del Campanella, de' suoi tempi e de' suoi luoghi, come lo farebbe l'italiano originale; basterebbe avere di esso almeno alcuni tratti, e possono sotto tutti i rispetti servire molto bene per una nuova edizione i codici napoletani.

Dopo la Città del Sole il Campanella attese certamente a comporre la sua Metafisica; e conoscendo essere stata questa un'opera voluminosa possiamo ritenere che ebbe a lavorarvi per tutto il resto del 1602. Essa andò poi perduta, almeno per un certo tempo come vedremo, e non avendo altro fonte dal quale trarne maggiori notizie, dobbiamo ricorrere al Syntagma, il quale per fortuna apparisce esatto in tale circostanza. Ecco quanto vi si legge: "Poco di poi a Napoli scrissi una Metafisica in italiano, distinta in tre parti e quindici libri, ove trattai de' principii dell'essere, del conoscere e dell'operare, e posi allora le cause, i principii e le primalità dell'ente, sopra la Necessità, il Fato e l'Armonia escogitati prima da me: e questa ricevè dalle mie mani Geronimo Tufo Marchese di Lavello nell'anno 1603, né me la restituì più mai". Adunque il Marchese di Lavello ebbe a fargli una visita in Castel nuovo il 1603, ed è verosimile che glie l'abbia fatta ai principii dell'anno, quando il processo dell'eresia era finito, ed anche la sentenza era stata comunicata al Campanella, ciò che vedremo accaduto in gennaio 1603; non sarebbe quindi arrischiato l'ammettere che a tale data la Metafisica fosse stata già menata a termine. Circa il non essergli stata restituita la detta opera, vedremo che egualmente nella lettera del 1607 allo Scioppio il Campanella si dolse di "un Marchese discepolo ingrato" che se la riteneva, e quindi non a Gio. Geronimo, ma al figliuolo di lui che avea dovuto essergli discepolo, il Campanella credevasi in dritto di muover rimprovero; difatti nel Syntagma medesimo si trovano registrate le peripezie sofferte dal libro "essendo morto il Marchese", peripezie le quali con ogni probabilità il Campanella non conosceva ancora allorchè scriveva la lettera allo Scioppio.

Ci fermiamo qui per contenerci nel periodo che ci siamo prefisso. Aggiungiamo solamente che di tempo in tempo il Campanella dovè scrivere ancora altre poesie dopo quelle già menzionate, e fuori ogni dubbio una gran parte di esse, di natura intima, dovè essere eliminata quando si fece la scelta che fu poi pubblicata a cura dell'Adami: intanto, con un poco di buona volontà, si può pervenire a riconoscere qualcuna delle rimaste appartenente al periodo attuale. Ne indichiamo p. es. una che si rivela del tempo in cui l'autore scriveva la Città del Sole; è il Sonetto annoverato tra' Profetali che ha quella chiusa:

"Se in fatti di mio e di tuo sia il mondo privo

nell'util, nel giocondo e nell'onesto,

cangiarsi in Paradiso il veggo, e scrivo:

E il cieco amor in occhiuto e modesto,

l'astuzia ed ignoranza in saper vivo,

e 'n fratellanza l'imperio funesto"(377).


CAP. VI.

ESITI DE' DUE PROCESSI, FINE DELLA PAZZIA E CONCHIUSIONE.

(dal settembre 1602 al novembre 1604 e seg.ti)

I. Nel settembre 1602, ritornando a Napoli, il Vescovo di Caserta giusta gli ordini avuti dovè riunirsi col Nunzio e col Vicario Palumbo, procedere con loro a' voti su ciascuno de' frati, e poi partecipare questi voti a Roma. Egli avea fatto redigere un completo "Sommario del processo", sulla base di quello formato in Roma dal Monterenzio con l'aggiunta delle cose raccolte posteriormente, ed anche un "Riassunto degl'indizii" per ciascuno degl'inquisiti, in fine del quale si registrò di poi il voto di ciascun Giudice. Queste scritture, composte quasi tutte dal Segretario del Vescovo D. Manno Brundusio, insieme con le bozze e con le copie de' Riassunti fornite di numerose postille di carattere del Vescovo, sono pervenute in mano nostra: esse non fanno parte del processo propriamente detto, ma ne compiono molto bene la conoscenza(378). Il Vescovo medesimo scrisse di suo pugno un elenco de' giudicabili in testa delle Copie de' Riassunti, e segnò queste con un numero progressivo in corrispondenza dell'elenco suddetto: naturalmente dobbiamo credere che nell'ordine medesimo si procedè alle votazioni; e siccome troviamo in primo luogo fra Pietro Ponzio, sul quale certamente nella 2a metà di agosto non si era votato ancora (ved. pag. 282), possiamo desumere che le votazioni cominciarono al più presto in settembre, verosimilmente nella 2a metà di settembre.

Si votò dunque dapprima su fra Pietro Ponzio. Il Riassunto contro costui recava: non essere stato nominato nel processo di Calabria ma carcerato d'ordine del Visitatore e per detto di D. Carlo Ruffo come germano di fra Dionisio: essere stato più volte accusato dal Pizzoni di minacce fatte nelle carceri da parte del Campanella, perché esso Pizzoni si ritrattasse, ma avere ciò negato fra Paolo citato per conteste; essere stato sorpreso in colloquio notturno col Campanella che fingevasi pazzo, dal quale colloquio risultava "non lieve sospetto di familiarità lasciva e disonestissima tra di loro, sebbene fra Pietro fosse innanzi negli anni, rilevandosi dalla sua deposizione, e dall'aspetto, di maggiore età, di anni trenta"; infine non essere stato né reputato né esaminato come reo dal Vescovo di Termoli e da' colleghi (si sarebbe dunque potuto e dovuto lasciarlo in pace da molto tempo). Il Nunzio, il Vescovo medesimo ed il Vicario Palumbo, a voti uniformi giudicarono dover essere rilasciato per ciò che spettava al S.to Officio, ma con fideiussione, potendo forse risultare qualche cosa contro di lui nel progresso delle cause del Campanella e fra Dionisio. - Da questo primo Riassunto può già rilevarsi l'animo e l'andamento del Vescovo di Caserta; preciso nella esposizione de' fatti, come del rimanente ci consta per tutti i Giudici di S.to Officio la cui opera abbiamo potuto studiare, ma feroce e senz'ombra di carità nella valutazione ed interpetrazione de' fatti esposti, ad un grado che ben raramente ci è accaduto d'incontrare. I lettori conoscono il colloquio notturno del Campanella e fra Pietro che il Vescovo citava (ved. pag. 88); come mai costui potè dargli quella brutale interpetrazione? È la cosa che più ci offende da parte di questo Vescovo, e che mostrerebbe veramente in lui un'anima abietta al maggior segno: si può solo perdonargli, conoscendo come fra tutte le grandi soddisfazioni, che altrettali soggetti possono godere, è del tutto negata loro quella di una tenera e sentita amicizia, onde debbono finire col perderne assolutamente ogni senso.

Si venne poi a fra Paolo della Grotteria. Recavasi contro di lui essergli stato trovato un libercolo di segreti e sortilegi, scritto non di sua mano, pel quale avea prodotto scuse varie e non mai accertate; essere stato nominato tra' complici del Campanella dal Pizzoni, dal Soldaniero, dal Petrolo, ma da una parte averlo poi fra Dionisio negato, e d'altra parte avere il Pizzoni chiarito che non dovea dirsi complice ma familiare, ed anche avere il Petrolo chiarito che lo conosceva amico del Campanella solo per detto altrui. Considerando che il libercolo, per relazione del P.e Cherubino, conteneva semplici superstizioni soltanto, e per diretta ispezione, appena due volte mostrava abuso di parole sacre, tutti e tre i Giudici, a voti uniformi, decisero doversi fra Paolo rilasciare con fideiussione, pel medesimo motivo detto innanzi, valutando qual pena il carcere sofferto. - Così verso questo frate de' più fangosi, e già galeotto, il tribunale fu piuttosto benigno, tanto che vedremo la Sacra Congregazione di Roma giudicare necessaria per lui qualche pena spirituale.

E si passò al Bitonto. Ricordavasi per costui la sua amicizia intrinseca col Campanella e fra Dionisio attestata da diversi, la visita da lui fatta al Campanella, la dichiarazione del Pizzoni di essere complice del Campanella; inoltre l'essere stato preso in abito secolare, l'avere conversato con secolari di pessima vita, tra gli altri con Cesare Pisano; principalmente poi venivano messe in mostra le ripetute deposizioni del Pisano, il viaggio fatto con lui a Messina e le molte eresie formali dette in tale occasione, rilevate anche nell'altro foro innanzi allo Sciarava, senza sapersi con quale autorità raccolte da costui, confermate poi in punto di morte, ratificate col tormento, e non invalidate da una deposizione di Giuseppe Grillo. I Giudici, del pari a voti uniformi, decisero doversi al Bitonto amministrare la tortura per un'ora, e non risultando altro doversi rilasciare con fideiussione. - Venne poi notato, dopo la discussione sul Bitonto, che gl'indizii medesimi constavano tutti anche per fra Giuseppe di Jatrinoli, contro cui non erasi mai proceduto ad Atto alcuno, forse perché non si trovava preso, ignorandosi anche se ne fosse stata mai ordinata la cattura o la citazione; e però i Giudici emisero il voto che fosse carcerato e si procedesse contro di lui.

Contro fra Pietro di Stilo rammentavasi la sua familiarità ed amicizia intrinseca col Campanella fin dalla puerizia; la testimonianza del Lauriana, che il Campanella ne faceva gran capitale e parlava con lui delle eresie; la testimonianza del Soldaniero che fra Pietro era venuto presso di lui a sollecitarlo perché andasse a visitare il Campanella; l'aver lui portata una lettera al detto Soldaniero, ciò che lo dimostrava consapevole de' segreti del Campanella. Inoltre il non aver denunziato il Campanella, mentre ne conosceva alcune eresie, e come religioso e come Vicario del convento era strettamente obbligato a denunciarlo e a fuggirlo; averlo invece continuato a commendare per uomo dotto e sapiente, ed essersi poi negato a deporre, nel 1° processo, ciò che egli ne conosceva. E qui, accennate le divergenti opinioni de' dottori intorno al doversi o no ritenere veementemente sospetto di eresia lo sciente e non rivelante, concludevasi per l'affermativa, aggiungendo che tale veemente sospetto di eresia veniva comprovato dall'avere fra Pietro più volte dichiarato di volere ammogliarsi, benchè si fosse poi scusato allegando di averlo detto in via di scherzo. E però il Vescovo di Caserta emetteva il voto che gli si dovesse amministrare la tortura per purgare gl'indizii: ma il Vicario Palumbo opinò che dovesse prima sottostare ad un nuovo interrogatorio più diligente e poi darglisi una lieve tortura, e non risultando nulla, dovesse abiurare come lievemente sospetto di eresia ed essere rilasciato, ma col bando dalla Calabria; il Nunzio, da parte sua, si uniformò al voto del Palumbo. - Così questa volta la maggioranza del tribunale non seguì la foga del Vescovo di Caserta, il quale evidentemente potea riuscire tollerabile come accusatore ma non come Giudice. Egli confondeva nel più basso modo curialesco i fatti concernenti la ribellione con quelli concernenti l'eresia, non teneva conto dell'essere stato il Lauriana dimostrato falso testimone, non teneva conto dell'essere stato il Soldaniero dimostrato di pessime qualità e forzato da fra Cornelio a dire quel che disse, non teneva conto degli esecrabili procedimenti di fra Cornelio, onde fra Pietro non avea creduto di dover rispondere nell'esame al quale costui l'avea chiamato. I Sommarii de' processi offrivano capitoli speciali contro il Lauriana, contro il Soldaniero, contro fra Cornelio e lo stesso Visitatore, ma questi capitoli pel Vescovo di Caserta rimanevano inavvertiti. Eseguita poi la votazione, il Vescovo aggiungeva che le lettere di fra Pietro ultimamente scoverte (le lettere alle Sig.re Prestinaci etc.) aumentavano i sospetti contro di lui (quasi che quelle lettere alludessero ad eresie)! Poteva e doveva fra Pietro ritenersi colpevole, ma molti degli argomenti addotti dal Vescovo potevano e dovevano tralasciarsi.

Contro il Petrolo allegavasi l'amicizia, conversazione intrinseca e confidenza col Campanella, di cui era discepolo; la fuga insieme presa in abito secolare; la comunicazione fattagli dal Campanella di più e diverse eresie oltrechè del segreto della ribellione, come esso Petrolo avea confessato, senza mai allontanarsene e senza denunziarlo, avendo appena deposto tali cose sotto le minacce e i terrori da parte del Visitatore. Inoltre la confessione ultima di Cesare Pisano ratificata in tortura, che rivelava molte eresie dette da fra Dionisio essere state confermate dal Petrolo; la testimonianza del Lauriana che egli fosse complice nella ribellione; la sua stessa condotta variabile tenuta nell'affermare, nel ritrattarsi, nel dichiarare falsa la sua ritrattazione. Laonde il Vescovo di Caserta opinava che gli si dovesse amministrare due volte la tortura, e non risultando altro, si dovesse farlo abiurare come veementemente sospetto di eresia e bandirlo dalla Calabria rilasciandolo sotto fideiussione; il Nunzio si uniformò a questo voto, ma il Vicario Palumbo votò per una tortura sola bensì gagliarda, accettando tutto il resto. - Come si vede, erano sempre messe in fascio la ribellione e l'eresia; e quantunque ciò accadesse ora in un campo più generale e più comportabile, non si può non riconoscere che il tribunale sconfinava, ed ammetteva un fatto, il quale non gli constava direttamente, e non era nemmeno passato ancora in cosa giudicata nelle persone de' frati. D'altronde pel Petrolo bastavano le proprie confessioni, rivedute e corrette con quelle del Pisano, ma il Vescovo di Caserta si credeva in obbligo di raccogliere tutto il peggio possibile, senza curarsi troppo di farne la scelta.

Contro il Lauriana ponderavasi la sua qualità di discepolo e confidente del Pizzoni "indiziato e quasi convinto delle eresie e degli altri delitti del Campanella"; la testimonianza del Soldaniero, che fosse uno degli eletti a predicare; l'avere udite eresie dal Campanella e dallo stesso Pizzoni senza averle rivelate; l'aver suonato la campana all'armi quando si andò a carcerarlo, con che mostrava "aver avuto coscienza e partecipazione de' delitti del Campanella". Inoltre il non aver deposto in giudizio se non dopo di essergli state comminate pene più gravi; e poi l'aver variato nelle deposizioni, l'aver cercato per lettere intorno ad esse consigli al Pizzoni e scuse a Ferrante Ponzio, negando in sèguito questi fatti e rimanendo convinto di mendacio; l'aver menato vita criminosa con costumi riprensibili etc. E però il Vescovo di Caserta espresse anche per lui il voto che gli si dovesse dare due volte la tortura, e non risultando nulla, dovesse abiurare come veementemente sospetto di eresia ed essere rilasciato con fideiussione: il Nunzio acconsentì a questo voto, ma il Vicario Palumbo votò per una tortura sola e per l'abiura come lievemente sospetto. - Senza dubbio contro questo abietto frate si sarebbe stato assai più nel vero procedendo per falsa testimonianza; ma non si usava, senza evidentissime ragioni, passar sopra alla quistione dell'eresia.

Con la votazione sul Lauriana chiudevasi la discussione sui frati i quali aveano rinunziato alle difese, e per tutti costoro i Giudici concordemente emisero pure il voto, che dovessero essere esiliati da entrambe le provincie di Calabria, e tenuti in monasteri ne' quali i loro Superiori potessero osservarne la vita e i procedimenti. Notiamo qui che non ci è pervenuta alcuna notizia di votazione fatta intorno al Campanella, e che verosimilmente non ce ne fu, a motivo della sua pazzia legalmente accertata, la quale facea sospendere ogni Atto ulteriore contro di lui. Ma non deve sfuggire che ne' Riassunti degl'indizii sopra riferiti, e basta guardare quello del Lauriana, trovasi espresso in termini non equivoci il giudizio di colpabilità sul Campanella, e così pure sul Pizzoni defunto. Notiamo ancora che in tutte le votazioni fatte il Nunzio non mostrò mai un'opinione propria, mentre pure egli che sedeva al tempo stesso nel tribunale della congiura, e conosceva intimamente molte e molte cose estragiudiziali, avrebbe potuto e dovuto tenerla; ma indubitatamente egli non avea studiato né seguito con premura lo svolgimento del processo, fu quindi obbligato a rimettersene a' colleghi, e pur troppo preferì quasi sempre uniformarsi al voto del collega peggiore. Invece il Vicario Palumbo mostrò sovente un'opinione propria: i motivi da lui addotti per sostenerla non furono registrati, ma possono intendersi agevolmente da quanto sappiamo intorno al processo, e bisogna dire che questa opinione riuscì molto più giusta; vedremo che la Sacra Congregazione di Roma la preferì costantemente.

Non rimaneva che procedere alla discussione e votazione su fra Dionisio. Il 20 settembre i Giudici emisero l'ordine di citarne l'Avvocato D. Attilio Cracco, perché l'indomani comparisse nelle case loro a dire ed allegare quanto volesse, a voce ed in iscritto, avvertendolo che avrebbero spedita la causa anche senza la sua comparsa. E subito dopo doverono imprendere la discussione de' meriti della causa, poichè nel Riassunto degl'indizii troviamo affermato essersi i Giudici più volte riuniti a tale oggetto, e nel processo troviamo registrata la loro decisione in data del 24 settembre(379).

Ben lungo e circostanziato fu il Riassunto degl'indizii, scritto interamente dal Vescovo di Caserta, contro fra Dionisio: e poichè esso da tanti lati riguarda anche la persona del Campanella, contro cui non abbiamo un'analoga scrittura, lo riporteremo per quanto è possibile minutamente, accompagnandolo pure con qualche appunto; del resto raccomandiamo di consultare il documento originale(380). Rammentavasi contro fra Dionisio la 1a deposizione del Pizzoni in Calabria ed anche la ripetizione del medesimo in Napoli; la deposizione del Lauriana, e quelle del Soldaniero, del Pisano, del Conia; la sua fuga dal convento di Pizzoni mentre procedevasi all'arresto del Pizzoni, e la sua cattura avvenuta in Monopoli mentre cercava mettersi in salvo con Maurizio; la sua amicizia strettissima e piena confidenza col Campanella, durata anche dopo che lo zio P.e Pietro Ponzio glie l'aveva inibita sotto pena di maledizione; la sua lettera al P.e Vincenzo Rodino, in cui parlava di molti segreti che non conveniva affidare alla penna, la sua qualità e i suoi costumi di poco buono odore, le vanterie di brutti peccati commessi, l'irrequietezza e il continuo vagare per la provincia anche "in compagnia de' giovanetti Cesare Pisano e Alfonso Grillo" (evidentemente il Vescovo aveva una speciale tendenza a vedere certi vizii da per tutto); infine l'ultima rivelazione di Maurizio, che non avendo mai confessato nulla con 70 ore di tortura, volle poi sgravare la sua coscienza, e "comportandosi abbastanza sobriamente, disse soltanto ciò che avea saputo dal suo cognato Gio. Battista Vitale" (era proprio certo che dovesse saperne di più). Allegavasi poi e combattevasi ciò che fra Dionisio si era sforzato di dimostrare nelle sue difese contro le persone e i detti de' testimoni a suo carico. E circa il Pizzoni, notavasi che gli era stato nemico e gli avea rubati alcuni scritti, ma osservavasi che già si erano riconciliati tra loro onde conversavano sempre insieme e si trovarono riuniti anche nel momento dell'arresto del Pizzoni; notavasi che il Pizzoni avea pessimi costumi, ma con una classica frase osservavasi che in ciò "nulla avea da dire Catilina a Cetego"; notavasi che era stato vario in certi fatti ed avea osservato molte cose essere state inserte falsamente negli esami da fra Cornelio, ma osservavasi che si erano avute "correzioni piuttosto che varianti", e si dovea credere a quel testimone tanto più, perché in fondo avea sempre persistito nella prima deposizione malgrado i tanti esami fatti e rifatti dal Vescovo di Termoli (e qui un calcio d'asino al suo predecessore); né doveasi prestar fede all'ultima assertiva di ritrattazione scritta dal Pizzoni in punto di morte e consegnata al suo confessore, poichè questa non s'era trovata e il confessore P.e Pietro Peres (forse Gonzales) non era di buoni costumi ed avea confessato di nascosto, senza il permesso de' Commissarii e del Curato, e poi per comune sentenza de' dottori non si dovea tener conto delle dichiarazioni de' morenti, estorte da confessori e confortatori, non essendo neanche ogni morente un S. Giovanni Battista (ma in tutti i modi, lasciando in pace S. Giovanni Battista, bisognava cercarla quella confessione e non essere verso i costumi del confessore più severo che verso quelli del Pizzoni, del Lauriana e del Soldaniero). Circa il Lauriana notavasi esserne stata messa in mostra l'intima amicizia col Pizzoni, la mala vita, l'opinione acquistata di testimone falso; ma osservavasi che queste ragioni erano frivole, e bisognava tener conto della diffamazione procuratagli da' Ponzii medesimi e dagli altri frati; che anzi le sue deposizioni erano assai verosimili, mentre già da un pezzo prima, quando non vi era sospetto d'inquisizione, per iscrupolo egli aveva attestato qualche cosa contro fra Dionisio, e poi non risparmiò neanche il suo maestro Pizzoni, e catturato con lui all'improvviso, senza precedente concerto, si trovò d'accordo con lui, né cedè alle minacce de' Ponzii, "i più furbi ed astuti tra' calabresi" (e le suggestioni di fra Cornelio provate per tante vie? e le incertezze posteriori e i mendaci provati dallo stesso Pizzoni?). Circa il Soldaniero notavasi essere stata allegata la seduzione per parte de' Polistina, sotto promessa dell'indulto che poi gli fu concesso dallo Spinelli, le sue molte varianti con sè medesimo e con Valerio Bruno suo domestico, il mendacio provato con le deposizioni del priore e lettore di Soriano sulla circostanza dell'aver fatto cacciare fra Dionisio e il Pizzoni dal convento: ma osservavasi che nulla constava della pretesa seduzione (pertanto il nome di fra Cornelio figurava nell'indulto), e il Soldaniero era stato dichiarato dal Pizzoni già anteriormente consapevole di tutto, per comunicazione fattagli dal Campanella mediante fra Dionisio, ciò che era del pari provato dal priore e lettore di Soriano, e poi il Campanella medesimo gli avea mandato per fra Pietro di Stilo una lettera, come era confessato da fra Pietro ed attestato dal priore e dal lettore che la videro (ma la lettera non parlava di eresia, e si trovano qui sempre studiatamente confuse l'eresia e la congiura); né le differenze tra lui e Valerio Bruno erano sostanziali, e Valerio, scorso un anno, avea potuto dimenticare qualche cosa ed anche mentirla, sussistendo non di meno una conformità tra il Soldaniero ed altri testimoni non sospetti. Circa il Pisano, si era allegata un'antica inimicizia per la parte da lui presa nella causa di fra Dionisio contro i Polistina, e la deposizione del Bitonto e del Petrolo, come pure di Giuseppe Grillo, attestanti non essersi fatti discorsi di eresia nella casa del Grillo: ma l'inimicizia era senza dubbio estinta, mentre fra Dionisio era andato col Pisano fino a Messina, e più tardi, insieme col Campanella, era andato a visitarlo nelle carceri di Castelvetere, per procurarne la liberazione, come aveva anche scritto al P.e Rodino; né poteva tenersi conto delle deposizioni negative del Bitonto e del Petrolo, essendo costoro complici e socii nel delitto, né di quella del Grillo, essendo inverosimile che i frati avrebbero parlato di cose tanto gravi in presenza di persone non sicure, e d'altronde la deposizione del Pisano era stata convalidata pure in punto di morte e ratificata in tortura. Circa il Caccìa, si era allegata una fede del Cappellano della galera su cui fu confortato a ben morire, attestante aver dichiarato false le cose da lui deposte contro monaci, in materia di ribellione e di eresia, essendogli state estorte con le torture dategli dallo Sciarava: ma questa fede non aveva alcun valore, perché non rappresentava una deposizione giurata, perché citava come contesti i P.i Ministri degl'infermi ed uno di essi nella sua fede parlò del Vitale e non del Caccìa, perché riguardava le deposizioni fatte innanzi allo Sciarava e non quelle fatte spontaneamente innanzi al Vescovo di Gerace etc. Aggiungevasi che erano state pure prodotte fedi di alcune università che attestavano avervi fra Dionisio predicato con edificazione dottrine cattoliche, ma, naturalmente, ciò non bastava. E ricordata una quistione trattata dal Pegna nelle sue aggiunte all'Eimerico, che cioè essendo i testimoni legittimi e degni di fede, ma diversi per luogo e per tempo, non si aveva una convinzione piena e tale da fare assegnare la pena ordinaria per l'eretico negativo ed impenitente (vale a dire la degradazione e la morte), ricordata d'altro lato la gravità degl'indizii, presunzioni e congetture, segnatamente la circostanza del trovarsi "pienamente convinto nella connessa causa della ribellione", si veniva a' voti. Ed uniformemente tutti e tre i Giudici votarono la doppia tortura, seguita dall'abiura per veemente sospetto di eresia, aggiungendovi la relegazione, dopo scontata la pena per la causa della ribellione che doveva ancora essere spedita, in un convento fuori la provincia, a scelta de' Sig.ri Cardinali supremi inquisitori, con l'obbligo di alcune penitenze salutari vita durante.

Gli appunti sparsamente fatti nell'esporre questo Riassunto ci dispensano da ogni ulteriore commento sopra di esso. Principalmente fra Dionisio era più che colpevole in eresia, ma il Vescovo di Caserta spiegava contro di lui insinuazioni su tutto e su tutti, equivoci volontarii, interpetrazioni doppie, giudizii benignissimi sui testimoni a carico e severissimi su' testimoni a discarico, premura nel trovare la colpa più che la verità, indifferenza per gli odii ferocissimi delle fazioni fratesche e per la nequizia de' primi inquisitori, che avevano tanto influito nella formazione del processo: insomma, l'abbiamo detto altra volta, i frati erano colpevoli, ma meritavano migliori Giudici; un solo ne ebbero veramente buono, il Vescovo di Termoli, e fu tolto loro dalla morte, e il Vescovo di Caserta non risparmiò le insinuazioni nemmeno verso di lui. Giova conoscere testualmente ciò che egli ne disse: "ognuno che si faccia a guardare rettamente il modo tenuto dal predetto Vescovo nel ripetere tante volte i testimoni del processo offensivo, benchè debba piamente credere che il Vescovo l'abbia usato per investigare e ricercare la verità, pure vi trova non saprebbe dirsi quale umano desiderio di voler cogliere in falso i testimoni del fisco e distruggere il processo di Calabria". Non era umano ma divino desiderio quello di legger chiaro in un processo nato sotto tanti maligni influssi e brutto per tante irregolarità; il Vescovo di Caserta, scrivendo a quel modo, mostrava bene che il senso della giustizia non era in lui molto sviluppato. Il Campanella, nella sua Narrazione, come deplorò la morte del Vescovo di Termoli così giudicò il Vescovo di Caserta, e disse che costui "con dar tormenti et esser troppo fiscale non provò altro": la qualità di "troppo fiscale" era il meno che potesse dire, e bisogna tener presente che nelle sue condizioni il Campanella dovea mostrare i più grandi riguardi alle persone e alle cose di S.ta Chiesa.

Esaurite le discussioni e le votazioni, doverono mandarsi a Roma i Riassunti degl'indizii co' voti de' Giudici, ed una copia, con le relative bozze, ne rimase presso il Vescovo, ed è quella a noi pervenuta: ma dobbiamo notare che il Riassunto contro fra Dionisio vi si trova solamente in bozza, non ricopiato, donde si desumerebbe che tutto questo lavoro durò fin oltre il 16 ottobre, e che il Riassunto contro fra Dionisio forse non fu mandato, come non dovè essere mandato nemmeno quello contro il Bitonto, poichè costoro a quella data riuscirono a mettersi in salvo. - Intanto deve notarsi che nel processo fu registrata la decisione presa su fra Dionisio con la data de' 24 settembre: questo fatto riesce singolare, poichè i voti de' Giudici servivano solamente per proposte da sottomettersi alla Sacra Congregazione Romana de' Cardinali Inquisitori, dalla quale poi veniva presa la risoluzione che doveva essere seguìta da' Giudici nella spedizione della causa. Noi crediamo assai verosimile che la decisione su fra Dionisio sia stata inserta nel processo molto più tardi, quando tutto fu esaurito, per far trovare un ricordo e non lasciare addirittura senza conclusione la causa di un soggetto principalissimo, su cui si aggirava la più gran parte del voluminoso processo.

Come dicevamo, fra Dionisio ed il Bitonto riuscirono a mettersi in salvo il 16 ottobre; essi fuggirono dal Castello insieme col carceriere, e senza dubbio tale fuga dovè essere preceduta da lunghi concerti, pe' quali probabilmente occorsero tutte quelle tergiversazioni, tutti quegl'incidenti fatti nascere da fra Dionisio negli ultimi tempi, non esclusa forse la rissa medesima con tutte le sue conseguenze prevedute e calcolate. Il Nunzio, il Vescovo di Caserta, e parimente il Card.l Gesualdo Arcivescovo di Napoli, tutti mandarono a Roma la notizia della fuga, che appunto dal Carteggio del Nunzio si rileva nella sua data e qualità precisa. In Roma se n'ebbe dispiacere, come si rileva da una lettera del Card.l Borghese in risposta a quella del Nunzio, al quale fu raccomandato caldamente di adoperarsi per riavere nelle mani i frati fuggiaschi(381). In Napoli se n'ebbe "universale meraviglia", come si rileva da una lettera del Residente Veneto Anton Maria Vincenti(382); e sicuramente il Vicerè dovè ordinare un'apposita inchiesta, ma di tale ordine non c'è riuscito trovare alcuna traccia. Abbiamo bensì trovato ordini vigorosi in questo senso, venuti da Madrid non appena vi giunse la notizia della fuga, e con essi menzionata una carta di avvertenze da doversi tener presenti, la quale carta per altro non fu trasmessa all'Archivio di Stato: con ogni probabilità le avvertenze principali riflettevano la convenienza e la maniera di conoscere se Roma avesse tenuto mano in tale faccenda. Abbiamo trovato inoltre che lo Xarava, recatosi a Madrid per sollecitare la sua nomina a Consigliere, profittò dell'avvenimento per offrirsi ad "impinguare", come allora si diceva, l'inchiesta, e finquì la cosa riesce naturale: ma ciò che riesce strano si è l'essersi offerto pure nientemeno che a procedere nella causa di eresia tanto di fra Dionisio quanto del Campanella, siccome bene informato di tutti i loro disegni, e l'essersi da Madrid ordinato al Vicerè di vedere cosa convenisse fare circa l'intervento dello Xarava; decisamente la fuga di fra Dionisio avea fatto volgere la più viva attenzione verso Roma. Questo si può argomentare da due Lettere Regie esistenti nell'Archivio di Stato(383); ma anche senza di esse, si comprende che, dopo le lungaggini verificatesi nello svolgimento della causa, il Governo Vicereale dovè rimanerne tanto più diffidente e sospettoso. Nulla poi conosciamo intorno a' particolari della fuga, la quale del resto non era un fatto assolutamente straordinario; basta ricordare che ne abbiamo già citato un altro esempio in persona del cav.re gerosolomitano fra Antonio Capece. Non potremmo nemmeno dire con certezza chi fosse stato il carceriere che se ne andò co' fuggiaschi. Senza dubbio non fu il Martines, che avea già da un pezzo perduto l'ufficio; ma tutto induce a credere che sia stato Antonio de Torres detto "sotto-carceriero" nella denunzia e ricorso di Camillo Adimari contro fra Pietro Ponzio, e successo interinalmente al Martines, perché ne' libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo, dopo di aver figurato più volte a motivo di paternità dal 7 8bre 1587 al 4 7bre 1601, egli scomparisce affatto senza lasciare alcuna traccia di sè, e d'altra parte Onofrio Martorel, che dovrebb'essere l'Onofrio sotto-carceriere citato nel processo e nella Narrazione del Campanella, dopo di avervi figurato del pari assai sovente fin dal 1583, è registrato nell'elenco de' morti in data del 14 gennaio 1605; aggiungiamo poi che nel processo, fin da' primi giorni del 1603, poco dopo la data di cui qui si tratta, incontrasi il nome di un nuovo carceriere, Martino Sances. Conosciamo per altro che fra Dionisio se ne andò a Costantinopoli e quivi abbracciò la fede Maomettana: ma le ricerche da noi istituite nell'Archivio Veneto, rovistando il grandioso Carteggio de' Baili, ci han fatto sapere che egli giunse a Costantinopoli nel maggio dell'anno seguente, essendosi trattenuto segretamente sulle galere di Malta, ed avendole lasciate nel trambusto di una fazione vittoriosa di quelle galere contro il castello di Lepanto. Avremo campo di parlarne più in là: per ora notiamo che questo incidente faceva peggiorare moltissimo la causa del Campanella.

Apparve allora un ordine di cattura "a' cursori, aguzzini ed inservienti di qualsivoglia Curia, tanto ecclesiastica quanto secolare, in qualsivoglia luogo, ecclesiastico, secolare, regolare ed anche di Monache comunque dotato di esenzione, non ostante qualunque privilegio", venendo dal tribunale accordate le veci e le voci proprie, ed inculcato a tutti e singoli, ecclesiastici e secolari, di dare aiuto, consiglio e favore necessario ed opportuno all'effetto predetto(384). Quest'ordine si trova in processo senza data, ma non è dubbio che dovè essere emanato propriamente il 17 ottobre; poichè vi si rileva questa circostanza, che al momento in cui fu scritto, vi si parlò solamente della cattura di fra Dionisio fuggito, e poi, con una postilla in margine, vi si aggiunse anche il Bitonto; e non ci manca nemmeno un documento fuori il processo, che attesta essere dapprima venuta al Vescovo di Caserta la notizia della fuga del solo fra Dionisio(385). Un'altra circostanza dobbiamo notare nell'ordine suddetto. Esso fu emanato a nome del Nunzio, del Vescovo di Caserta e del Vicario Alessandro Graziano: era costui il nuovo Vicario generale successo al Vaccari, e da questo momento in poi trovasi in quasi tutti gli Atti co' quali ebbe termine il processo principale.

Ma finalmente con lettera del 29 novembre il Card.l Borghese partecipava la risoluzione della Sacra Congregazione de' Cardinali(386), ed ecco quanto alla presenza di S. S.tà si era risoluto. Pel Campanella, "che sia condannato alle carceri di questo santo Uffitio (int. di Roma) ove perpetuamente sia ritenuto senza speranza alcuna di esserne liberato"; pel Lauriana e fra Pietro di Stilo, "che si dia loro la corda moderatamente... et non sopravenendo cosa che gli aggravi, si facciano abiurare come leggiermente sospetti di heresia, con impor loro alcune penitenze salutari"; pel Petrolo, "che se gli dia la corda più acremente... et non risultando altro, si faccia abiurare come sospetto vehementemente di heresia con imporgli alcune penitenze salutari"; e si aggiungeva per questi ultimi tre frati "l'essilio da tutto cotesto Regno" e l'assegnazione "da' loro superiori" in conventi ne' quali si vivesse con maggiore osservanza, notando essere "mente di N. S.re che per le dette pene... non si pregiudichi né si ritardi la speditione della causa della pretensa ribellione da farsi da' giudici sopra ciò deputati da S. S.tà". Quanto a fra Paolo, si era risoluto: "che sia rilasciato con imporgli alcune penitenze salutari"; e quanto a fra Pietro Ponzio, "che sia rilasciato liberamente dalle carceri per quello che spetta al santo Uffitio".

Ben si vede che in Roma furono accolti i voti de' Giudici nel senso più mite; solo per fra Paolo furono aggiunte le penitenze salutari, e per gli altri fu accolto propriamente il voto del Vicario Arcivescovile, che si era mostrato mite più di tutti. Ma pel Campanella, pel quale non vi furono o non giunsero fino a noi i voti de' Giudici, si prese una risoluzione abbastanza difficile a spiegarsi. Secondo la giurisprudenza del S.to Officio che abbiamo già altra volta avuta occasione di ricordare, come pazzo, quale era legalmente riuscito a dimostrarsi col tormento della veglia, il Campanella non avrebbe dovuto essere condannato, ma ritenuto in carcere, fino a che o rinsavisse o morisse, potendo solo in uno di questi due casi avere una condanna (è noto che in materia di eresia anche i morti non venivano risparmiati); invece come sano di mente, per la sua qualità di relapso, avrebbe dovuto essere condannato alla degradazione e consegna alla Curia secolare, dalla quale sarebbe stato giustiziato. Il carcere perpetuo ed irremissibile, ovvero la così detta "immurazione" che avea lo stesso significato, era la pena dell'eretico pentito, e più propriamente, secondo una prescrizione del Concilio Tolosano, la pena dell'eretico, che pel timore della morte o per qualunque altro motivo, ma non di spontanea sua volontà, era tornato in grembo alla Chiesa: posto che pel timore della morte il Campanella si fosse finto pazzo, egli non avea però dato alcun segno di ritorno in grembo alla Chiesa. D'altronde la condanna al carcere perpetuo avrebbe dovuto sempre essere preceduta dall'abiura pubblica ed anche dalla degradazione, almeno verbale se non attuale, come ordinava un rescritto di Urbano IV; e di ciò, a proposito del Campanella, non si fece alcuna parola, né realmente si vide poi alcun Atto in sèguito. Bisogna del resto ricordare ancora che né il carcere perpetuo, né l'irremissibile, importavano assolutamente la ritenzione vita durante, come dalla loro denominazione si potrebbe inferire; il S.to Officio non isconosceva del tutto la massima del foro laico, che cioè il carcere doveva servire a custodia e non a pena, e quindi soleva condonare il carcere perpetuo dopo tre anni, ed il carcere irremissibile dopo otto anni(387). - Queste considerazioni non poterono certamente sfuggire al Governo Vicereale, che a simili argomenti attendeva con molta premura in que' tempi, ma non ci pare che siano state fatte da coloro i quali si sono occupati del Campanella; e però si sono avuti giudizii veramente un po' strani sullo spirito della condanna che il Campanella ebbe da Roma, sull'atroce condotta del Governo Vicereale verso di lui, sulla stessa determinazione presa in Roma, quando, dopo tanti anni di ritenzione in Napoli, il Campanella giunto nelle carceri Romane finì per acquistare la libertà. Certamente il Campanella fu da Roma giudicato colpevole in eresia, e non sapremmo punto ammettere che il S.to Officio gli avesse dato una condanna al carcere irremissibile senza motivo, o per semplice finzione con lo scopo di trarlo a Roma: se i compagni del Campanella furono sottoposti a tortura ed obbligati ad abiurare come sospetti leggermente o veementemente di eresia, come mai si può concepire che egli non sia stato giudicato eretico? Forse potè non essere ritenuto plenariamente convinto, come si era riconosciuto dai Giudici per fra Dionisio; ma anche ammesso ciò pel Campanella, il cui caso era veramente più grave di quello di fra Dionisio, rimane sempre a spiegarsi come mai potè avere la condanna che ebbe. Se ci è lecito esprimere una nostra opinione, essa è, che da Roma si volle dare a questa faccenda un termine ad ogni costo, poichè con la semplice ritenzione nel carcere, per aspettare il rinsavimento o la morte del Campanella e poi venire alla condanna, la faccenda sarebbe durata indefinitamente, e questo era divenuto impossibile: si mutò quindi la ritenzione continua in carcere perpetuo sine spe, senza prescrivere l'abiura e la degradazione, che nello stato in cui il Campanella si trovava, o più veramente fingeva di trovarsi, non si sarebbe nemmeno riusciti ad effettuare, e con tale ripiego si apriva la via di dare un termine anche alla causa della congiura, essendo esaurita quella dell'eresia. La condizione poi del doversi la pena scontare nel carcere di Roma non fu nemmeno speciale, perocchè trattandosi del giudizio di un tribunale non diocesano, l'andata a Roma era di regola, e se si credè conveniente di esprimerla nella risoluzione, ciò si fece per evitare ulteriori controversie col Governo Vicereale, oltrechè per affermare quella "superiorità ecclesiastica" sempre ambita da Roma più di ogni altra cosa e non del tutto riconosciuta dal Governo in tale faccenda: d'altronde l'andata a Roma si sarebbe effettuata dopo la spedizione della causa della congiura, che non doveva essere "né pregiudicata né ritardata", e se per questa causa il Campanella avesse riportata la condanna della degradazione e consegna alla Curia secolare, come D. Giovanni Sances avea già chiesto, egli non sarebbe andato a Roma certamente. Adunque la risoluzione della Congregazione Romana non avea punto lo scopo di trarre il Campanella da Napoli a Roma: essa facilitava solamente, e di molto, ciò che il Governo Vicereale bramava, la spedizione della causa della congiura; essa dava modo di far proferire una condanna in quella causa, come una condanna era stata proferita nella causa dell'eresia, senza tener conto della pazzia legalmente accertata! Con ciò non diremo che il Governo Vicereale avesse dovuto rimanerne contento e soddisfatto. Si comprende che esso avrebbe preferita una condanna di degradazione e consegna alla Curia secolare, essendo il Campanella relapso in eresia, come D. Giovanni Sances non avea mancato di ricordare nella sua Allegazione: d'altronde non poteva fargli un'ottima impressione quella condanna di ripiego ad un carcere irremissibile che tale non era di fatto, quel ricordo di doversi codesta pena scontare in Roma, dopo "la speditione della causa della pretensa ribellione da farsi da' giudici sopra ciò deputati da S. S.tà", quasi che tale causa potesse terminare con una condanna a pena insignificante o con un semplice rilascio. Quando vi erano già state tante ragioni od occasioni di sospetti e diffidenze, riesce ben naturale ammettere che tutto ciò venisse ad aggiungere qualche cosa a' sospetti e alle diffidenze. Eppure non abbiamo alcuno indizio che il Governo Vicereale fosse rimasto irritato dalla risoluzione di Roma: se ne rinverrebbe qualche traccia nel Carteggio del Nunzio, come la si rinviene ogni qual volta vi era stato un positivo scontento da parte del Governo. Invece se dovessimo credere a ciò che ne disse poi il Campanella nella sua Narrazione, tutto fu fatto per compiacere il Governo; e per verità, quanto a sè, egli aveva ragione di dirlo, poichè Roma avea mostrato di non ritenerlo pazzo, mentre egli avea comprovata col più solenne de' tormenti la sua pazzia. Non sarà inutile ricordare qui le parole del Campanella. "Dopo questo (dopo il suo tormento) fuggio F. Dionisio dalli carceri, e li altri fur liberati; ma solo li frati furo esiliati dal regno per soddisfar alli regi Fiscali, el Campanella in perpetuo carcere del S. Officio in Roma sine spe. Ma perché li frati condannati a compiacenza d'officiali regi subito in Napoli et altri in Roma fur aggratiati e diventaro priori et officiali nella Religione, e si vide che questa condanna era ad ostentationem fatta dalli ecclesiastici; e sapendo ch'il Campanella senza esser esaminato fu condannato, e la sentenza è nulla per questo e per le appellationi secrete che prima e poi mandò a Roma, non volsero mai permettere che andasse alli carceri di Roma; né che si facesse la causa sua di ribellione a Napoli" etc. Ma i frati, nella più gran parte, furono liberati dopo tortura e solenne abiura, e se furono di poi graziati dell'esilio, ciò accadeva sempre nelle condanne del S.to Officio, e sarebbe del pari accaduto per lo stesso carcere perpetuo del Campanella: e dopo tutto quello che abbiamo visto, potrebbe mai ritenersi che le condanne con le torture fossero state date a compiacenza degli officiali Regii e ad ostentationem? A noi basta assodare che non vi fu, come non vi poteva essere, una grave dispiacenza del Governo Vicereale per quella specie di condanne, e che esso non ne rimase irritato più di quanto lo era già per molti altri fatti, ed in ultimo luogo pel lunghissimo tempo impiegato nello svolgimento della causa e per la fuga di fra Dionisio; vedremo in sèguito che la sua irritazione crebbe veramente più tardi per qualche altro fatto, il quale esacerbò la diffidenza e il sospetto, aggiungendovi il risentimento e il puntiglio della peggiore specie.

Pervenuta in Napoli la risoluzione di Roma, non rimaneva che spedire la causa secondo il dettato di essa. Si sarebbe potuto farlo in pochissimi giorni, ed invece, non sapremmo dire per quale motivo, scorse oltre un mese, e le sentenze e gli atti ultimi non si compirono che al principio dell'anno seguente: lo stesso fra Pietro Ponzio, per lo quale era stato ordinato il rilascio semplice, e già il Nunzio avea più volte dato a Roma promesse formali di sollecita spedizione, non si vide libero e dovè attendere ancora. Il Nunzio si limitò a partecipare al Card.l Borghese di aver ricevuta la risoluzione presa intorno alla causa del S.to Officio, e di aver fatto sapere al Vescovo di Caserta, che era sempre pronto ad intervenire nella spedizione di detta causa(388).

L'8 gennaio 1603 si venne finalmente alla spedizione della causa. Secondo lo stile del S.to Officio, le sentenze furono prima scritte, e quindi promulgate e lette dal Notaro della causa agl'interessati, non essendo lecito fare altrimenti sotto pena di nullità. Si cominciò dal Campanella(389). La sentenza, sottoscritta da' tre Giudici, diceva che, viste le informazioni e gli Atti, visto il tenore della lettera del Card.l Borghese scritta il 29 novembre 1602 d'ordine de' Cardinali sommi Inquisitori, in esecuzione di detta lettera essi Giudici provvedevano e decretavano, che per le cause di eresia per le quali trovavasi carcerato e detenuto il Campanella doveva essere condannato, come con quel decreto era condannato, sua vita durante alle carceri formali della S.ta Inquisizione in Roma etc. etc., ripetendo la condanna e la pena ne' termini precisi da Roma trasmessi. Nel medesimo giorno suddetto il Prezioso, chiamato il Campanella con l'intervento di due testimoni, i Rev.di D. Antonio Peri e D. Vincenzo Pagano, gl'intimò e lesse la sentenza audiente et intelligente, e ne rogò un Atto appunto in questi termini. Dunque il Campanella udiva e comprendeva, e non tenevasi più conto della sua pazzia, circostanza di cui non avea da dolersi certamente il Governo Vicereale: intanto, in una ricevuta di piccolo sussidio tratto dalla somma venuta di Calabria, alla data del 30 marzo 1603, trovasi che la parte spettante al Campanella era ancora esatta da fra Pietro di Stilo, il quale dichiarava di aver "pensiero" della persona del Campanella, naturalmente perché pazzo(390). Si venne poi a fra Paolo della Grotteria, per lo quale la sentenza, scritta con lo stesso formulario, decretava il rilascio dalle carceri con l'indicazione delle penitenze impostegli (recitare in giorni determinati l'ufficio de' morti, il Credo, i Salmi penitenziali e le Litanie, recitare ogni giorno il Rosario, digiunare il sabato) "riservatane la moderazione, la mitigazione e la commutazione a' Cardinali sommi Inquisitori". Ed egualmente il Prezioso, con le cautele medesime, gli lesse la sentenza audiente et bene intelligente, et omnia acceptante; più tardi poi, scorse oltre due settimane, gli consegnò la copia delle dette penitenze salutari, rogandone un altro Atto innanzi a due altri testimoni, uno de' quali era Martino Sances carceriere. Ma bisogna notare che il rilascio di fra Paolo rifletteva le cause di S.to Officio, e poichè egli era inquisito anche della ribellione, continuò a rimanere in carcere. - Si passò quindi a fra Pietro Ponzio, cui fu decretato il rilascio per le cause spettanti al S.to Officio, sempre in esecuzione della lettera di Roma; e il Prezioso gli lesse la sentenza audiente et intelligente. Fra Pietro fu veramente posto in libertà: non abbiamo notizia della data precisa in cui uscì dalle carceri, ma verosimilmente ciò accadde senza molto ritardo, non essendovi empara per lui; possiamo solamente dire con certezza che nell'ordine di pagamento del piccolo sussidio menzionato sopra, alla data del 22 marzo, egli non era più computato tra' frati esistenti in Castello e non figurava di poi nella ricevuta. Lo troveremo in sèguito nel suo convento di Nicastro, poichè ci darà ancora occasione di parlare di lui.

Nello stesso giorno 8 gennaio, innanzi al Nunzio, al Vescovo di Caserta e al Vicario Graziano, si amministrò la tortura, prima a fra Pietro di Stilo e poi a fra Silvestro di Lauriana(391), tortura moderata, di poco più di mezz'ora, dimandando loro se fossero vere le cose che aveano deposte contro gli altri, e se avessero aderito all'eresie che avevano udite (precisamente come in Roma era stato risoluto). Possiamo dire che l'uno e l'altro si mostrarono quali li abbiamo visti finora in tutto il processo. Fra Pietro di Stilo, lettogli il testo della sua deposizione fatta in Gerace, dichiarò vere le cose che avea deposto avere udite dal Campanella in Calabria, e quanto all'avervi aderito, disse che egli non avea nemmeno capito tutto quello che il Campanella diceva, anche perché come Vicario del convento non gli riusciva star sempre fermo e poter udire tutto il discorso: incalzato dalle domande, se avesse creduto a ciò che aveva udito intorno a' miracoli, che era manifesta eresia, e se sapesse che un cristiano avea l'obbligo di farne denunzia a' superiori ecclesiastici, disse che non vi aveva mai creduto, che non aveva nemmeno immaginato essere quella un'eresia, che aveva appreso l'obbligo della denunzia solamente dopo di essere stato carcerato (sempre la parte dell'ignorante). Posto allora alla corda, fra le solite grida di dolore confermò ad una ad una le risposte date, ed avendogli i Giudici domandato se volesse scendere per poter dire più comodamente la verità, disse "io non voglio scendere et non sò altro che dire, è la verità è detta". Poi oppresso dall'atrocità del dolore si fece a dire, "scenditimi, scenditimi che dirrò la verità"; ma mentre i Giudici ne davano l'ordine gridò, "non mi scenditi, non mi scenditi, perché la verità l'hò ditta" (il povero fra Pietro diffidava di sè medesimo, e si sforzava in tutti i modi di non lasciarsi andare a dire cose compromettenti). Infine non potè più resistere e volle scendere, ma disse "per Dio che non hò da dire niente, né posso dire altro per Dio"; e più volte mantenuto in alto, più volte sceso, dicendo sempre che la verità l'avea detta, con segni di grandi sofferenze, essendo scorsa oltre mezz'ora, fu lasciato definitivamente. - Quanto al Lauriana, lettogli il testo della deposizione fatta in Monteleone alla presenza di fra Cornelio, e dimandatogli se le cose quivi deposte erano vere, disse, "io sono stato essaminato un'altra volta in Napoli dinanzi al Vescovo di Termoli" (sempre un appello a deposizioni anteriori); circa poi l'avere aderito all'eresie, lo negò con gravissimi giuramenti; dimandatogli se sapesse che c'era l'obbligo della denunzia, disse di sì, ed osservatogli che non avea subito fatta la denunzia a' superiori disse "mi riferisco all'essamine". Posto alla corda, emettendo le solite grida, deplorando di aver conosciuto quelle persone che aveano proferito eresie, rispondendo sempre di aver detto la verità, fra le angosce del suo dolore esclamò, "Monsignore aiutatemi, Frà Campanella è luterano marcio, abrusciatelo"! Ed allora gli venne domandato in che fosse luterano fra Tommaso Campanella, ed egli "me rimetto alle mie essamine" (sempre ignorante e brutale). Infine, essendo anche per lui trascorsa mezz'ora e più, fu fatto scendere.

Gli 11 gennaio, del pari innanzi a tutti e tre i Giudici, si amministrò la tortura a fra Domenico Petrolo, secondo le prescrizioni di Roma, più acremente e rivolgendogli le solite dimande(392). Con molti particolari, come era suo costume, egli disse avere udito le cose deposte non tutte in Stilo, dalla bocca del Campanella, ma averne udite anche in Castelvetere, quando fra Tommaso gli persuase di imitare il Pizzoni, di farsi leggere la deposizione di costui e deporre alcune delle cose che costui avea deposte ad oggetto di scampare dalle mani de' secolari: ond'egli così fece, e fra Cornelio scrisse aggravando la deposizione, ed egli non si curò di questo aggravamento perché fra Tommaso gli avea detto che così gli piaceva; ma poi, innanzi al Vescovo di Termoli, avea corretto il primo esame, spogliandolo di tutto ciò che fra Cornelio aveva aggiunto. E lettegli le deposizioni fatte innanzi al Vescovo di Termoli, egli dichiarò che le cose in esse contenute erano vere, ed aggiunse che non aveva mai aderito alle proposizioni eretiche, ed aspettava che il Campanella le avesse proferite alla presenza di altri, per poterlo denunziare e far constare le cose da testimoni. Fu allora posto alla corda, sempre in esecuzione di quanto era stato ordinato con la lettera di Roma, che venne costantemente ricordata in tutti questi Atti. Le sue sofferenze furono vivissime, le sue esclamazioni strazianti continue: rivolgevasi al Nunzio, rivolgevasi al Vicario, diceva loro che si sentiva aprire il petto e si protestava che moriva; al Nunzio ricordò pure che compivano appunto allora tre anni, ed era egualmente giorno di sabato, quando aveva altra volta avuta la corda (per la congiura). Del rimanente confermò sempre che le cose deposte erano vere, e che non aveva aderito all'eresie udite: ed essendo scorsa un'ora intera, fu ordinato, come per tutti gli altri, che lo scendessero, lo slegassero, gli accomodassero le braccia, lo rivestissero e lo riponessero nel suo carcere.

Immantinente si passò a dar fuori le sentenze già scritte, e a promulgarle e leggerle, procedendo anche alla consegna delle copie delle penitenze, agli Atti dell'abiura e a quelli dell'assoluzione dalla scomunica, tanto pel Petrolo quanto per fra Pietro di Stilo e pel Lauriana successivamente; sicchè tutto venne esaurito nello stesso giorno 11 gennaio 1603(393). Le sentenze furono questa volta, secondo il rituale, scritte con maggiore solennità ed in lingua volgare. I Giudici, dichiarandosi speciali delegati de' Cardinali sommi Inquisitori, e rivolgendo la loro parola all'inquisito, gli ricordavano la sua causa: trovarsi lui nel tribunale del S.to Officio per avere udito "da alcuni religiosi" proferire eresie formali e non averle denunziate, avere avuto un termine per le difese senza averle fatte, essersi proposta e discussa la causa e fattane relazione a' Cardinali sommi Inquisitori, e dietro loro risoluzione essersi proceduto all'esame rigoroso (la tortura) con le debite proteste del Procuratore fiscale, e visti e considerati i meriti della causa, essersi deliberato di venire alla spedizione e alla sentenza anche d'ordine particolare di detti Cardinali. Invocato quindi il nome di Gesù Cristo e di Maria Vergine, nella causa vertente tra il Procuratore fiscale e lui "reo, inquisito et processato", sedendo pro tribunali, dicevano, pronunziavano, sentenziavano e dichiaravano essere stato lui giudicato sospetto di eresia (veementemente o lievemente) e perciò incorso nelle censure: ed affinchè togliesse dalle menti loro e di altri fedeli questo sospetto contro di lui concepito, ordinavano che avanti di loro, nella Chiesa del Castello, pubblicamente e in giorno festivo abiurasse, maledicesse, detestasse ed anatemizzasse questa ed ogni altra eresia nella forma che da loro sarebbe stata data, contentandosi, dopo ciò, di assolverlo dalla scomunica incorsa. E per non far rimanere que' gravi errori totalmente impuniti e dare esempio agli altri, lo condannavano all'esilio fuori Regno vita durante o pel tempo che parrebbe a' detti Cardinali, e alla permanenza in un convento assegnato dal suo superiore regolare, dando cauzione di 25 once d'oro per l'osservanza dell'esilio, e in difetto obbligandosi a servire "per un remigante alle galere della S.ta Sede" per un tempo ad arbitrio di detti Cardinali. Gl'imponevano poi per penitenze salutari la confessione una volta la settimana, la frequente celebrazione della Messa e il Rosario ogni giorno, dichiarando che questa condanna non dovea ritardare né impedire la spedizione della causa della ribellione, e riservando la moderazione, commutazione e mitigazione delle dette pene e penitenze a' Cardinali sommi Inquisitori. Conchiudevano: "Et così dicemo, pronontiamo, sententiamo, condanniamo, penitentiamo, et riserviamo in questo et in ogn'altro miglior modo et forma che di raggione potemo et dovemo", sottoscrivendosi ognuno col suo titolo e con la qualità di Commissario Apostolico. - Una simile sentenza di veemente sospetto fu dal Notaro della causa promulgata e letta dapprima al Petrolo, audiente et intelligente, alla presenza di 7 testimoni, e subito dopo, avuta anche la copia delle penitenze salutari impostegli, tutto addolorato com'era, il Petrolo fu tradotto nella Chiesa del Castello, ed ivi inginocchiato innanzi ai Giudici pronunziò la solenne abiura, secondo la scritta già preparata, e vi appose la sua firma. L'abiura conteneva la notizia della causa e della condanna, calcata sul formulario della sentenza. L'inquisito dichiarava che, inginocchiato innanzi a' Giudici e toccando i Santi Evangeli, confessava e si doleva di avere gravemente errato contro la Chiesa, perché avendo da alcuni religiosi udito proferire eresie formali non li aveva denunziati; ed essendo stato giudicato veementemente sospetto di eresia, per rimuovere dalla mente di tutti i fedeli questo veemente sospetto abiurava etc. etc., promettendo e giurando di non mai più ascoltare eretici, di denunziarli subito qualora gli accadesse di conoscerli e udirli per l'avvenire, di adempiere a tutte le pene e penitenze impostegli, ed infine ricercando il Notaro là presente di scrivere quella cedola di abiura recitata parola a parola, non sapendo lui bene scrivere (!) e di fare d'ogni cosa pubblico istrumento (ciò che per altro era stato già preparato). Da ultimo il Curato D. Gaspare di Accetto, con le solite cerimonie, procedeva alle assoluzioni dalla scomunica, censura e pene incorse; ed anche di questo fu rogato un Atto. - Allo stesso modo si fece di poi per fra Pietro di Stilo e pel Lauriana colpiti di lieve sospetto: l'uno dopo l'altro adempirono agli Atti e formalità di cui si è finora discorso.

Rimaneva intanto a compiersi ancora la parte più difficile pei poveri frati, la fideiussione di 25 once d'oro per ciascuno. Naturalmente, nella loro condizione, era quasi impossibile trovare anche uno degli strozzini i quali solevano fare questa specie di affari, e i Giudici l'aveano preveduto nella loro sentenza. Mandarono dunque un memoriale con cui diceano volersi obbligare alla pena della galera invece di dare la fideiussione, giacchè "per essere forastieri" non aveano fideiussori. E il 16 marzo il Notaro Prezioso, andato in Castel nuovo, rogò un Atto coll'intervento di cinque testimoni, e tra essi Felice Gagliardo, pel quale i tre frati, "sciolti da' ceppi e dalle catene e costituiti in libera libertà" secondo la formola solita in questi casi, spontaneamente dichiararono che non avendo trovato fideiussori si obbligavano a servire da remiganti sulle galere della S.ta Sede, per un tempo ad arbitrio de' Cardinali sommi Inquisitori, nel caso di contravvenzione all'esilio fuori Regno vita durante, e alla permanenza in un convento assegnato dal loro superiore giusta la sentenza(394). Il 21 marzo la copia delle sentenze, decreti, abiure, ed obbligo della galera fu mandata a Roma.

Così nel marzo 1603 ebbe veramente termine il processo di eresia del Campanella e socii, durato, soltanto in Napoli, poco meno di tre anni, dal 10 maggio 1600 al marzo 1603, e finito con sole quattro condanne di frati propriamente per l'eresia: ve ne sarebbero state sei, qualora fra Dionisio e il Bitonto non fossero riusciti a fuggire, e computandovi anche il Pizzoni morto nel carcere, si sarebbero in tutto avuti, dopo tanto scalpore, sette frati solamente più o meno eretici. Ecco a quali proporzioni si riducevano le cose circa l'eresia, ed essendoci note le condizioni di taluni di questi frati, sopratutto del Lauriana ed anche del Petrolo, di fra Pietro di Stilo e del Bitonto, dobbiamo assolutamente ridurre le cose sempre più, accordando a' soli tre nominati nel processo in modo più spiccato, Campanella, fra Dionisio e Pizzoni, la possibilità di una opera efficace nel senso di una riforma religiosa, e riconoscendo unicamente nel Campanella la capacità di concepirla ed insinuarla. - Pertanto i frati rimasti in carcere, cioè il Campanella, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Lauriana ed anche fra Paolo della Grotteria, erano in grado oramai di saldare il loro conto col tribunale per la congiura: ma vedremo che vi furono altri incidenti e si andò incontro a lungaggini egualmente da questo lato, né si potè cominciare a prendere una risoluzione a loro riguardo che nel luglio dell'anno seguente!

Dobbiamo aggiungere che il tribunale per l'eresia ebbe ancora a compiere qualche altro Atto circa il Soldaniero e Valerio Bruno, mentre per Orazio S.ta Croce e Felice Gagliardo avea provvisto con quello speciale processo secondario affidato al tribunale diocesano, le cui vicende abbiamo anche già narrato. Circa Valerio Bruno, rammentiamo che dietro due suoi memoriali, favorevolmente accolti dal Vicario Palumbo e dal Vescovo di Caserta, egli fu abilitato con fideiussione e coll'obbligo di non partire da Napoli, legalmente domiciliato presso Carlo Spinelli, avendo il Vicario Palumbo opinato che dovesse essere interrogato di nuovo e poi spedito. Fu quindi, il 19 luglio 1603, decretato un nuovo esame pel Bruno, ad oggetto di sapere se veramente il Soldaniero avesse chiesta al priore e al lettore di Soriano l'espulsione di fra Dionisio e del Pizzoni da quel convento, per l'eresie che aveano manifestate. Costretto a ripresentarsi in tribunale, il 19 agosto fu esaminato dal Vicario Palumbo "sostituto e deputato", e nell'esame si ricordò solamente di aver conosciuto fra Dionisio e il Pizzoni in Soriano, ma pel resto mostrò non ricordarsi più di nulla, dicendo, "dopò che hebbi la corda (int. per qualche incidente od anche per la sola ratificazione delle cose deposte nella causa della congiura) hò persa la memoria, è da quà ad un Credo non mi ricordarò di quello che V. S. me hà dimandato"(395). Così il 19 novembre fu emanato per lui un decreto di rilascio ma pur sempre con fideiussione; e questa volta, il 28 gennaio 1604, si trovarono due disgraziati, un tessitore ed un calzolaio, che si obbligarono a presentarlo ad ogni richiesta nelle carceri Arcivescovili sotto pena di 50 once d'oro, obbligandosi il Bruno medesimo alla pena della galera, e tutti e tre indicarono per domicilio legale la casa di Carlo Spinelli, onde si vede che costoro erano tutti dipendenti dallo Spinelli. - Circa il Soldaniero, rammentiamo che essendo nel marzo 1602 partito per la Calabria in contravvenzione all'obbligo assunto di rimanere in Napoli, accertato il fatto con una informazione, venne confiscata la cauzione data e prescritta la citazione a comparire fra tre giorni sotto pena di essere dichiarato scomunicato oltrechè confesso e convinto del delitto appostogli, onde finì poi per essere carcerato di nuovo in Calabria. L'informazione eseguita dal Prezioso nel domicilio del Soldaniero in Napoli, esaminando la sua albergatrice Lucrezia Marmana bottegaia alla Carità, Beatrice d'Avanno maritata ad un genovese e divenuta amante del Soldaniero, inoltre anche Agostino S.ta Croce clerico, fratello di Orazio ed albergato del pari in casa della Marmana, avea fatto conoscere che il Soldaniero se n'era andato in Calabria per arrolare soldati, avendo avuto l'ufficio di alfiere dal capitano Gio. Paolo de Corduba; poichè i banditi davano un contingente notevole all'esercito, come del resto dovunque, e nelle occorrenze il Governo concedeva anche indulti agli assassini coll'obbligo di servire alla guerra per un numero di anni determinato, facendo desolare segnatamente le provincie di Fiandra e facendo maledire il nome napoletano con altrettali soggetti. Il Soldaniero si schermì per non breve tempo, ma cadde finalmente in potere delle forze Regie, e venne chiuso nelle carceri dell'Audienza di Calabria a disposizione del Vescovo di Caserta. Carlo Spinelli s'interessò allora anche per lui, lo raccomandò a voce e scrisse di poi una lettera al Vescovo, che fu perfino inserta nel processo e ne mostra la firma autografa, presentando i nomi di varii individui capaci di fornire la cauzione pel Soldaniero, tra' quali nientemeno che il nome di Valerio Bruno(396). La lettera fu scritta il 23 gennaio 1604, e il 26 il Vescovo di Caserta emanò un decreto di rilascio pel Soldaniero dalle carceri della R.a Audienza di Calabria, con la cauzione di 50 once d'oro e l'obbligo di presentarsi fra quindici giorni nelle carceri Arcivescovili di Napoli. Una significatoria di tale decreto fu subito spedita al Governatore e alla R.a Audienza di Calabria, ma senza aspettarne l'esecuzione, il 28 gennaio 1604, nella stessa data in cui rogavasi la fideiussione per Valerio Bruno, fu rogata anche quella pel Soldaniero, rimanendo accettato per fideiussore, insieme con due altri individui, appunto Valerio Bruno, e sempre indicata per domicilio la casa di Carlo Spinelli presso la Chiesa di S. Lucia a mare. Evidentemente lo Spinelli e il Vescovo di Caserta erano due anime fatte per intendersi senza la menoma difficoltà: abbiamo motivo di ritenere che il Soldaniero sia stato lasciato in pace, non trovandosi alcun altro esame di lui, e conviene dire che con tanta benignità verso due furfanti quali il Soldaniero e il Bruno, dopo tanto rigore verso i poveri frati, il Vescovo di Caserta nella fine della causa abbia emulato la condotta tenuta nel principio da fra Cornelio. Ma conviene anche dire che non dal tribunale, bensì dal solo Vescovo di Caserta, furono compiuti questi ultimi Atti, co' quali rimase definitivamente chiuso il lungo processo dell'eresia.



II. Passiamo all'esito del processo della congiura; e qui esporremo dapprima le poche altre notizie che ci è riuscito raccogliere intorno agli Atti ulteriori del tribunale pe' laici, il quale non cessò mai di funzionare durante il lungo tempo in cui funzionò il tribunale dell'eresia, ed anzi si tenne ancora aperto per qualche anno dopo. Abbiamo già detto altrove, che secondo il costume del tempo si sentenziava separatamente e successivamente per ciascuno inquisito e per gruppi speciali d'inquisiti; vi furono quindi, di tratto in tratto, sentenze non solo pe' catturati, ma anche pe' contumaci che con pubblico bando erano stati dichiarati "forgiudicati". Possiamo dire con certezza che non si ebbero altri supplizii, poichè conoscendo i nomi de' principali inquisiti, li avremmo senza dubbio ravvisati ne' Registri dell'Archivio de' Bianchi di giustizia: si ebbero invece gravi condanne a parecchi anni di carcere, come per taluno degl'inquisiti ci risulta da documenti che abbiamo trovati nel Grande Archivio; e si ebbero ancora più numerose assoluzioni e rilasci, come ci risulta dalle notizie autentiche, registrate nel processo dell'eresia, circa coloro i quali figurarono egualmente in tale processo o vi furono semplicemente nominati.

Cominciando da quest'ultima categoria, non abbiamo che a riassumere le notizie sparsamente apprese dal processo di eresia. Ricordiamo dunque, che verso la fine di settembre 1600 erano stati abilitati e si trovavano pronti a partire per la Calabria tutti o quasi tutti gl'inquisiti di Catanzaro, segnatamente Geronimo Marra, Francesco Salerno, Nardo Rampano, e con costoro probabilmente anche il Franza, il Flaccavento, gli Striveri etc., onde a tale data nel processo dell'eresia fra Dionisio chiedeva che fossero interrogati di urgenza, prima che partissero. Ricordiamo che Felice Gagliardo, già torturato una prima volta in Calabria, ebbe un'altra tortura per la ribellione, un po' prima del 19 marzo 1602, quando fra Pietro Ponzio ne fece menzione come di un fatto non remoto(397); e la tortura fu acre, verosimilmente tamquam in cadaver come allora si soleva prescrivere ne' delitti gravi, onde il Gagliardo medesimo disse di aver avuto "a morire", ma non confessò nulla e dovè essere assoluto, poichè non trovò alcuno ostacolo all'uscita dal carcere quando finì di saldare i suoi conti col S.to Officio. Ricordiamo inoltre che tra il febbraio e l'aprile 1602 erano già stati assoluti il Conia, il Marrapodi, l'Adimari, probabilmente anche il S.ta Croce, tutto il gruppo degl'inquisiti che insieme col Gagliardo e col Pisano si trovarono rinchiusi nelle carceri di Castelvetere; e i primi tre aveano pure fatto ritorno in Calabria subito dopo l'assoluzione, mentre il S.ta Croce rimase in carcere essendo implicato nelle materie di S.to Officio. Ricordiamo infine che nel tempo medesimo era stato egualmente assoluto Geronimo Campanella e forse anche Gio. Pietro Campanella (ved. pag. 241): l'ultima notizia avuta intorno a Geronimo si fu l'assistenza che egli faceva insieme con Gio. Pietro, il 2 agosto 1601, al povero fra Tommaso ancora ammalato pel grave tormento sofferto; più tardi, tra il febbraio e l'aprile 1602, egli era già tornato a Stignano.

Relativamente a' contumaci forgiudicati, dallo stesso processo di eresia abbiamo appreso che Gio. Gregorio Prestinace nell'agosto 1601 voleva presentarsi, e fra Pietro di Stilo vivamente raccomandava che se ne astenesse: né altro sappiamo intorno alla fine di questo amico intimo del Campanella, come pure dell'altro egualmente fuggiasco, Fulvio Vua, mentre intorno a Tiberio e Scipione Marullo possiamo ritenere che non patirono gravi molestie, poichè troviamo Scipione registrato tra coloro i quali si dottorarono nell'aprile o maggio 1604, e però bisogna ammettere che egli abbia potuto fare i suoi studii negli anni precedenti(398). Abbiamo appreso poi da documenti, che ci è riuscito del pari trovare nel Grande Archivio, talune altre notizie sul Baldaia, sul Dolce, sull'Alessandria, sul Tranfo, inscritti, come si è veduto a suo tempo, in una lunga lista di forgiudicati.

Geronimo Baldaia di Squillace verso la fine del 1603 scorreva la campagna con comitiva di fuorusciti, ed aveva pur allora commesso un omicidio, d'accordo, a quanto pare, col capitano di Petrizzi (tanta era la confusione e corruzione amministrativa a que' tempi): la Corte del Principe di Squillace lo catturò, e pretese di farne essa la causa, ma l'Audienza di Calabria ultra si diede a raccogliere contro di lui informazioni "de più delitti"; nel luglio poi 1604 il Vicerè ordinò che queste informazioni gli fossero trasmesse, come pure che il Baldaia fosse dalle carceri di Squillace tradotto a Napoli, senza per altro fare alcun cenno della sua condizione di forgiudicato per la causa della congiura, sicchè dovrebbe dirsi essere stata quella condizione affatto dimenticata(399). Quanto a Tolibio Dolce di Satriano, nel giugno 1604 il Capitano di Stilo aveva già catturato un Gio. Antonio Lucano, che gli avea dato ricetto mentre trovavasi "forgiudicato per la causa di ribellione", e poi finì per essere catturato egli medesimo, nell'ottobre di quell'anno, per opera di D. Carlo di Cardines Marchese di Laino, Governatore di Calabria ultra in quel tempo: il documento che lo riguarda non fa menzione di altri delitti da lui commessi, ma lo dichiara solamente "forgiudicato nella causa della pretensa ribellione", ed inviato a Napoli perché quivi "in detta causa... si procede per delegatione", onde il Vicerè loda molto nel Marchese "la diligentia de un cossì accertato et signalato servitio"(400). Da ciò rilevasi che al cadere del 1604 il tribunale speciale della congiura pe' laici era sempre aperto; ed aggiungiamo che un altro documento ci mostra il Dolce tuttora nelle carceri del Castel nuovo nel 1610(401). Passando a Gio. Francesco d'Alessandria, dobbiamo dire che egli continuava nella sua mala vita di fuoruscito in compagnia pure di Antonio suo padre, e nel 1605 venne finalmente catturato: un reclamo contro di lui lo dichiara "carcerato inquisito per la causa della Rebellione", sottoposto ad informazione per un omicidio in persona di un Antonio Lapronia e per "altri homicidii et enormi delitti"; un reclamo poi contro l'Auditore Ferrante Barbuto, successo all'Auditore Hoquenda come delegato a tale informazione, rivela che il Barbuto ebbe per mezzo di Carlo di Paola, nostra vecchia conoscenza, D.ti 200 "acciò guastasse l'informatione presa"(402). Entrambi questi documenti meritano di essere consultati per acquistare una nozione de' tempi sempre più esatta, ma principalmente il secondo, scritto dal figlio di Gio. Geronimo Morano, altra nostra conoscenza, merita di essere consultato in tutta la sua estensione: poichè esso, oltre l'Alessandria, menziona diversi inquisiti, tra' quali Paolo e Scipione Grasso figli di Jacovo, presi con bando che concedeva indulto a chi li consegnasse vivi o morti; ed anche Gio. Domenico Martino famoso fuoruscito, probabilmente "il figlio di Nino Martino", che insieme co' "figli di Jacovo Grasso" il Campanella nominò nella sua Dichiarazione scritta come individui sui quali i Contestabili facevano assegnamento per la ribellione. Nessuno di costoro trovasi qualificato "inquisito per la causa della ribellione" come s'incontra in persona del D'Alessandria; e notiamo qui che la cosa medesima accade pure per altri fuorusciti egualmente nominati dal Campanella come amici di Maurizio disposti alla ribellione, cioè per Carlo Bravo e pe' Baroni di Reggio, secondochè ci mostrano altri documenti dello stesso tempo, onde si può dire che essi nemmeno vennero perseguitati per questa causa(403). Infine quanto ad Alessandro Tranfo, un documento del Grande Archivio ce lo mostra nel 1606 nella sua Baronia di Precacore, ma non perseguitato, sibbene in conflitto con un altro individuo di nostra conoscenza, quel furfantello di Aquilio Marrapodi figlio di Gio. Angelo (ved. pag. 129). Verosimilmente egli si presentò e riescì ad opporre qualcuna delle eccezioni consentite dalla giurisprudenza del tempo anche a' forgiudicati, e dovè difendersi in modo da rimanere assoluto: così, trovandosi nel luglio 1606 in compagnia del Capitano] di Precacore, ed essendogli passato arrogantemente dinanzi Aquilio Marrapodi già divenuto contumace per cause criminali, diede ordine che fosse preso, ma ne ebbe immediatamente minaccia di morte e dovè lasciarlo andare; né manca qualche documento che accenna alle violenze ed omicidii commessi così da Aquilio come dal medesimo Gio. Angelo Marrapodi suo padre(404). Di Marcantonio Contestabile, del Famareda, dell'Joy etc. non c'è riuscito trovare altra traccia; non ci farebbe meraviglia che, dopo un'ecclisse durante qualche tempo, abbia ognuno ripigliata la sua solita maniera di vivere, rimanendo nella mala vita coloro i quali vi erano abituati; senza dubbio questo s'incontra per parecchi già imprigionati e tormentati per la congiura, con essersi in loro verificato un peggioramento di vita dietro i travagli sofferti(405). Ma in somma, per quanto finora sappiamo, col 1605 cessano le notizie intorno al processo della congiura pe' laici, e non abbiamo motivo di ritenere che siasi ulteriormente proceduto per essa. Ci resta solo la notizia di una relegazione del D'Alessandria all'isola di Capri nel 1615, senza alcun cenno della causa; ma verosimilmente fu questa una mitigazione della pena negli ultimi anni che dovevano ancora scontarsi, secondo il costume del tempo(406).

Veniamo ora all'esito del processo della congiura per gli ecclesiastici. Anche da questo lato dobbiamo dire innanzi tutto, che il tribunale Apostolico non solo rimase aperto, ma tenne pure altre sedute, dopo che ebbe liberati i 12 inquisiti presi per sospetti senza fondamento, e trattate le cause di tutti gli altri ecclesiastici incriminati, riservando la spedizione di esse fino a che ciascuno, o come principale o come testimone, avesse esaurito il suo còmpito nel processo dell'eresia. Così per Giulio Contestabile, visto nel corso di quest'ultimo processo che egli risultava non più incriminabile come principale ed era stato già più volte interrogato qual testimone, dopo il suo ultimo esame del 15 novembre 1600 il tribunale dovè immediatamente riunirsi per spedirne la causa della congiura, e sappiamo che emanò una sentenza di condanna a cinque anni di esilio da Napoli e da entrambe le provincie di Calabria. Tale esito della sua causa trovasi notato in coda del Riassunto degl'indizii compilato contro di lui(407); e che la sentenza abbia dovuto essere pronunziata appunto nel novembre 1600, si desume da' documenti relativi all'espiazione della pena assegnatagli. Infatti una lettera del Card.l S. Giorgio al Nunzio, in data del 15 novembre 1602, fa conoscere che il Contestabile avea supplicato S. S.tà di rimettergli per grazia tre anni di esilio che gli rimanevano da scontare, avendone già scontati due, e S. S.tà volea sapere qual fosse l'opinione del Nunzio intorno a ciò(408). Fermandoci un momento a questo punto, dobbiamo indispensabilmente notare che circa tale condanna il tribunale non chiese a Roma la risoluzione da doversi prendere, ed anzi non ne diede nemmeno partecipazione alla Curia, come si può desumere dal non vederne fatto alcun cenno in questo senso nel Carteggio del Nunzio: eppure il Breve avea prescritto di procedere "usque ad sententiam exclusive"; sicchè bisogna dire esservi stato un tacito abuso da parte del tribunale e una tacita acquiescenza da parte di Roma. Ciò forse diè poi motivo o pretesto al Campanella di credere che il Breve avesse prescritto di procedere "usque ad sententiam inclusive", come egli scrisse in una Lettera del 1624 a Cassiano del Pozzo pubblicata dal Baldacchini, dolendosi perché nella persona sua non aveano neanche osservato il Breve che così prescriveva: ma invece è certo che il Breve avea la parola exclusive (noi l'abbiamo riscontrata tanto nella copia che se ne conserva in Firenze quanto nella copia che se ne conserva in Simancas), e bisogna pur dire che coll'abbandono di tale riserva divenne tacitamente compiuto in fatto, mentre non stava in dritto, l'abbandono degli ecclesiastici all'influenza del Governo Vicereale, essendo questa predominante per l'apatia del Nunzio verso di loro. Tornando ora alla grazia chiesta dal Contestabile a S. S.tà, dobbiamo dire che il Nunzio, in data del 22 novembre 1602, rispondeva che non stimava conveniente alcuna grazia prima che il negozio fosse finito, "perché, diceva, come viene rimproverato da questi Ministri Regii la tardanza in tale speditione, non ne venisse rimproverato anche questo"(409): e per verità in Roma non si teneva abbastanza conto dell'irritazione non del tutto ingiusta del Governo Vicereale, e deve anzi notarsi che nella stessa Lettera suddetta del Card.l S. Giorgio il Contestabile era indicato al Nunzio quale "bandito da V. S. di Calabria et di Napoli", come se D. Pietro De Vera non fosse esistito. né l'opinione del Nunzio valse a nulla. Non appena deliberata da Roma la sentenza da doversi pronunziare nella causa dell'eresia, il Card.l S. Giorgio nella data medesima scrisse al Nunzio essere cessato il rispetto che si opponeva alla grazia chiesta dal Contestabile, poichè nella Congregazione del S.to Officio era stata "spedita la causa del Campanella"; il Nunzio naturalmente rispose, che quando non si era mostrato favorevole alla grazia perché il negozio non era finito, aveva inteso dire che dovesse aspettarsi la fine del processo della congiura, nel quale il Contestabile era stato condannato, ma che poi se ne rimetteva a quanto in Roma si stimasse meglio(410). E si può ritenere per fermo essersi in Roma stimato meglio accordare la grazia, poichè troppo vive furono le insistenze del Card.l S. Giorgio, troppo potenti le raccomandazioni delle quali godeva il Contestabile; né occorre dire come il Governo Vicereale dovesse rimanere disgustato ed anche sospettoso relativamente agli altri giudicabili, massime relativamente al Campanella, vedendo che da un momento all'altro poteva esser concessa da Roma una grazia la quale rendeva frustranea ogni condanna, mentre esso avea tanto penato perché alla determinazione di questa condanna avesse preso parte un Giudice di sua fiducia.

Dopo il Contestabile venne la volta di D. Marco Antonio Pittella, che scappato già in Calabria fu poi ripigliato e tradotto a Napoli verso il marzo del 1601: in tale data il tribunale dovè riunirsi di nuovo e procedere allo svolgimento di questa nuova causa, la quale compì nell'aprile seguente, come rilevasi da una lettera del Nunzio che abbiamo pure avuta altrove occasione di menzionare(411). Potremmo dire in breve che questa causa procedè e finì come quella del Contestabile, cioè con una tortura e con una condanna a 5 anni di esilio; ma appunto perché si tratta di una causa finita con una condanna, gioverà sapere come e perché essa si ebbe. Oltre il Riassunto degl'indizii contro il Pittella, ci è pervenuta pure la Difesa scritta per lui dallo stesso Regio Avvocato de' poveri Gio. Battista de Leonardis che difese il Campanella: questa Difesa del Pittella non solo ci fa intendere le accuse del fisco, ma anche rischiara tutto lo svolgimento della causa(412). Si ricorderà che il Pittella a Davoli accoglieva in casa sua Maurizio e poi il Campanella ed altri incriminati di congiura. Esaminato affermò che Maurizio veniva in una casa la quale egli avea data in fitto ad un Astolfo Vitale parente di lui, e quanto al Campanella egli non lo conosceva: fu sottoposto ad oltre un'ora di corda e non confessò nulla; infine ebbe il decreto per le difese. Il fisco pretese che dovea dirsi colpevole di conversazione con Maurizio e col Campanella e di ricetto di Maurizio, sciente la ribellione e preparato a prendervi parte dietro la testimonianza del Vitale, convinto sciente e non rivelante dietro le testimonianze del Vitale e di Maurizio; e questa volta il Leonardis, avendo una buona causa per le mani, fu piuttosto audace nel farne la difesa. Dopo di aver ricordato che la conversazione e il ricetto si effettuarono in agosto e che il Bando proibitivo fu emanato il 17 e 18 settembre, il Leonardis fece anche notare che quel Bando, emanato da un Giudice laico, non poteva colpire il Pittella clerico; che la deposizione del Vitale, testimone unico e socio nel delitto, non provava nulla e non avrebbe dovuto neanche bastare a far dare la tortura, tanto più che era stata fatta innanzi ad un Giudice laico, tanto più che era controbilanciata da un'altra testimonianza in contrario fatta da Maurizio capo di quella fazione; che per altro il Pittella con la tortura sofferta si era scolpato di tutto; che il Vitale e Maurizio, socii nel delitto ed infami, non potevano convincere nemmeno nel delitto di lesa Maestà, tanto più che erano stati esaminati in un foro laico ed incompetente, non ripetuti nel foro ecclesiastico, né poi il Pittella, clerico, era obbligato a rivelare la ribellione contro il Principe di cui non era suddito. Malgrado tutte queste ragioni, il tribunale lo condannò a cinque anni di esilio da Napoli e da entrambe le provincie di Calabria, come avea fatto pel Contestabile, verosimilmente ritenendolo del pari sospetto di complicità nella progettata ribellione. Ognuno troverà senza dubbio un po' grave questo giudizio e la relativa condanna, poichè il Pittella avea per sè la testimonianza decisiva di Maurizio in punto di morte, attestante che egli non era nella congiura come gli altri, né mostrava di goderne come gli altri; si vede bene quindi che il tribunale Apostolico non avea punto smesso il suo rigore, comunque il tempo trascorso avesse dovuto calmare i furori primitivi. né occorre dire che esso riteneva sempre la tentata ribellione qual fatto vero ed indiscutibile, mentre condannava il Contestabile e il Pittella a quel modo, donde è facile desumere abbastanza chiaramente come avrebbe trattato il Campanella e gli altri frati più compromessi. E possiamo oramai occuparci appunto di costoro.

Il Campanella e gli altri frati, avuta la condanna per l'eresia ed esauriti tutti gli Atti relativi a questa condanna, nel febbraio o tutt'al più nel marzo 1603 avrebbero potuto vedere spedita la loro causa della congiura. Ma da una parte avvenne allora un mutamento di Vicerè, succedendo il 3 aprile a D. Francesco de Castro D. Alonso Pimentel d'Herrera Conte di Benavente, e sempre, fin dalle prime notizie di prossima mutazione, gli affari d'ogni genere solevano rimanere più o meno incagliati; d'altra parte sopraggiunse direttamente, nello stesso tribunale per la congiura, una difficoltà inaspettata. D. Pietro de Vera, già divenuto sin dall'aprile 1601 pro-Presidente del Sacro Regio Consiglio per morte di Vincenzo de Franchis, poi dal 16 10bre 1602 passato a Presidente per la promozione di Fulvio Costanzo a Reggente di Cancelleria(413), comunque in età più che matura, era preoccupato del non aver discendenza e trattava un matrimonio. Non era questa veramente la prima volta che a D. Pietro fosse venuto tale pensiero; il Residente Veneto, che non si lasciava sfuggir nulla ed anche di siffatte cose teneva informato il suo Governo, nel 1598 (25 7bre) scriveva che D. Pietro era sul punto di sposare la figlia di D. Hernando Mayorca già Segretario di più Vicerè, il quale, egli diceva, "prima non avea che la penna" ed allora, morendo, lasciava alla figlia 50 mila duc.ti di dote, ad un figlio 15 mila duc.ti di entrata. Ma poi non se ne fece nulla, ed al tempo al quale siamo pervenuti, come accade col progresso dell'età, D. Pietro non andava più in cerca di ricca dote ma di bellezza e gioventù, ed aveva intavolate trattative con la figliastra appunto del Reggente Fulvio Costanzo, D.a Livia Sanseverino, sorella di D. Scipione che abbiamo visto Marchese e poco dopo Duca di S. Donato (confr. pag. 115): era questa, come dice un manoscritto di Ferrante Bucca che l'aveva probabilmente conosciuta, "la più bella e bizzarra dama dell'età sua", e quasi non occorre dirlo, D. Pietro fu tutto occupato a vagheggiare la sua Diva andando allegramente incontro alle solite conseguenze(414). Un altro motivo tenne pure distratto D. Pietro in questo tempo, la morte di suo zio Francesco de Vera, Ambasciatore di Spagna a Venezia, ond'egli dovè partire per quella città: un documento rinvenuto nel Grande Archivio ci fa conoscere che D. Pietro sottoscrisse il contratto di nozze il 29 aprile, ed una lettera rinvenuta nel Carteggio del Residente Veneto ci fa conoscere che partì per Venezia il 30 aprile(415). Con queste circostanze e queste date si può intendere una lettera del Nunzio, nientemeno del 18 luglio 1603, nella quale faceva sapere a Roma (dove non apparisce punto che si pensasse tuttora al Campanella) che subito dopo la spedizione della causa di S.to Officio egli non aveva mancato di sollecitare il suo collega D. Pietro per la spedizione della causa della congiura, ma senza riuscirvi mai; che avendo avuta notizia della partenza di lui per Venezia, l'aveva sollecitato di nuovo ed aveva pure sollecitato il Vicerè, tanto più che i frati ne facevano istanze continue, ma gli si era risposto non essere possibile far nulla prima dell'andata, bensì tutto si sarebbe fatto al ritorno; che infine essendo D. Pietro tornato, e trovandosi prossimo a sposare, fra 10 o 12 giorni, la figliastra del Reggente Costanzo, egli non avea mancato di muovergli il dubbio che siffatta mutazione di stato poteva recare impedimento alla funzione di Giudice de' frati, e gli si era risposto che non dicendo il Breve dover essere clerico non coniugato, non appariva impedimento alcuno. Ora su tale quistione il Nunzio chiedeva gli ordini di S. S.ta(416).

Gli ordini, al solito, tardavano a venire da Roma, e per sollecitarli il Nunzio scrisse ancora il 1°, il 15, il 29 agosto, inoltre il 12 settembre, e a quest'ultima data aggiunse esser venuta nuova che fra Dionisio trovavasi coll'armata turca; ma poi ebbe a sapere che in Roma già aveano avuta da altro fonte una tale nuova, ed anzi l'avevano partecipata al Duca di Sessa Ambasciatore di Spagna ed Agente di Napoli(417). Il fatto merita bene di essere considerato, ed importa fermarci alquanto sopra di esso: un dispaccio del Bailo Contarini, da noi trovato nell'Archivio di Venezia, ci mostra che n'era rimasto anch'egli colpito, e torna impossibile immaginare che non ne dovesse rimanere colpito il Governo Vicereale. Il Contarini scriveva, che col Cicala si erano imbarcati due uomini del Regno, concertatisi con lui per guidarlo a "svaligiare" un posto di quel paese; inoltre era venuto un frate già carcerato col Campanella per complicità nella congiura e poi fuggito di prigione. Costui, trattenutosi segretamente sulle galere di Malta, nella fazione di Lepanto avea trovato modo di venirsene a Costantinopoli, avea preso l'abito di turco "come haveva anco il cuore", avea "havuto ricapito in casa del Cicala", diceva di conoscere in Calabria oltre 300 affiliati alla setta maomettana e tra essi alcuni di conto, predicava in italiano a' giovani rinnegati "facendo assai danno con la sua lingua", affermava "che presto uscirà anco di prigione il predetto Frate Campanella et ch'ancor lui venirà qui; il che se riuscirà, per esser anch'esso molto litterato, risulterà à grandissimo prejudicio della religione christiana"; aggiungeva poi il Contarini, che "oltre di questi" si erano imbarcati pure due soldati di Malta fuggiti in Lepanto, i quali fattisi turchi offerivano al Cicala l'isola di Gozo etc.(418). È agevole comprendere quanto siffatte notizie dovessero aumentare nel Governo Vicereale il sospetto e l'avversione pel povero Campanella. Possiamo affermare con sicurezza, che il Governo Veneto trasmise a Napoli, come era solito, le notizie della prossima venuta dell'armata turca con due uomini del Regno accordatisi col Cicala, e non disse una sola parola del frate già carcerato col Campanella, del quale d'altronde il Bailo non avea distintamente detto che si era imbarcato del pari: questo abbiamo rilevato dagli ordini de' Savii del Consiglio, registrati ne' così detti Codici-Brera che si conservano nell'Archivio Veneto(419). Ma il Governo Vicereale avea pure informazioni proprie direttamente da Costantinopoli e in brevissimo tempo, onde non si può affatto dubitare che gli fossero egualmente pervenute le notizie relative a fra Dionisio, tanto più che era già preoccupato dell'amicizia intima di lui col Cicala, siccome ci mostra una Lettera Regia da noi rinvenuta nel Grande Archivio di Napoli(420); né occorre dire come per siffatte cose dovesse sentirsi rimescolato. Esso era stato sempre persuaso che questi frati aveano già iniziati i loro disegni di ribellione e di eresia col mettersi d'accordo co' turchi, segnatamente col Cicala, ed è facilissimo intendere l'impressione che dovea fargli il contegno di fra Dionisio dopo la fuga, la sua andata tra' turchi, l'apostasia, l'intimità col Cicala, la venuta con l'armata nell'ordinaria escursione di essa verso il Regno, l'annunzio misterioso della prossima libertà del Campanella che sarebbe andato del pari a Costantinopoli. Come fin da principio, così anche adesso il Campanella era danneggiato dall'imprudenza, dalla loquacità, dalle vanterie di fra Dionisio, il quale non si smentì mai in tutta la sua vita; e bisogna sommare anche queste circostanze con tutte le altre, per intendere il contegno del Governo Vicereale verso il povero frate, ritenuto sempre pericoloso per la sicurezza e la fede del Regno. Vedremo più in là che fin dal momento in cui giunse la notizia dell'imbarco di fra Dionisio sull'armata turca, il Campanella fu rinchiuso in un carcere molto più duro. - Poniamo intanto qui che il Cicala in quest'anno, come ne' tre precedenti, non potè compiere alcuna impresa contro la Calabria, ed anzi fu notevolmente disgraziato: gioverà conoscere quanto avvenne tra napoletani e turchi in detto periodo di tempo. Dopo l'inutile venuta in Calabria nel 1599, egli uscì di nuovo da Costantinopoli in luglio 1600 con 30 galere, portando scale, zappe e badili, con l'intenzione, per quanto fu riferito, di scendere a Cotrone, sicchè venne spedito a quella volta il Priore di Capua D. Vincenzo Carafa: e il Cicala mandò, come allora si diceva, "due lingue" cioè due galere a prender lingua, a ricevere e dare notizie in Puglia e in Calabria, e scrisse anche al Vicerè, il 14 settembre, che passerebbe nella fossa di S. Giovanni, "quando non per altro, per sbarcare il Sig.r Carlo suo fratello escluso dal possesso del Ducato di Nixia"; ma un grosso temporale lo colse alla Vallona, e lo costrinse a ritirarsi in Costantinopoli, dove rientrò a' primi di dicembre. Anche Arnaut Memi, in settembre, apparve con tre galere in vista di Brindisi, ma forse per la ragione medesima non si mostrò più: invece Amurat Rais, uscito da Biserta più presto, ebbe a soffrire la perdita di una galera presagli da D. Garzia di Toledo, e tornò per vendicarsene e se ne vendicò pur troppo in Calabria. D. Garzia, a' primi di agosto, scorrendo con sei galere le coste del capo Bianco vi aveva incontrate tre galere di Biserta, ne aveva presa una facendo 110 schiavi e liberandone altrettanti, e secondo lui avrebbe preso anche la capitana se i suoi artiglieri avessero fatto fuoco a tempo: Amurat, tornato con sei galere e con una scorta di rinnegati calabresi, a' 23 settembre sbarcò a Cetraro presso Scalèa, vi uccise il Principe di Scalèa nostra vecchia conoscenza con altre 27 persone, e rimbarcò a suo comodo portando con sè 30 prigioni e il corpo del Principe(421). Nel 1601 poi, al 1° di luglio, il Cicala uscì da Costantinopoli con 35 galere che giunsero per via fino a 60, e con queste potè prendere qualche nave; ma avendo, il 22 ottobre, spedito da Navarino verso la Calabria tre galere per lingua, ed essendo stato informato che la costa era molto ben munita, alla fine di dicembre rientrò in Costantinopoli senza aver nulla tentato. Nel 1602, parimente in luglio, uscì con 37 galere che sempre si accrescevano per via, col proponimento di danneggiare la Calabria o la Puglia, e però senza ritardo, fin da' primi di luglio fu mandato per Governatore di Calabria ultra D. Garzia di Toledo: alla fine di agosto apparve al capo di Otranto l'armata divisa in due squadre e diretta verso la Calabria, ed a' primi di settembre, giunta nella fossa di S. Giovanni, ne sbarcarono circa tre mila uomini, ma furono respinti con la perdita di 5 de' loro; poi l'armata si diresse a Reggio e vi perdè circa 100 uomini, si rivolse indietro e tentò di sbarcare al Bianco, luogo del Principe della Roccella, e vi soffrì la perdita di circa 100 morti e 30 prigioni, infine spiccò 10 galere da quest'altra parte della Calabria e vi furono incontrate dalle galere di Genova, sicchè doverono anch'esse desistere da ogni impresa. Se ne tornò quindi il Cicala anche prima del solito a Costantinopoli, in novembre, e vi fu universalmente biasimato, tanto più che al tempo stesso giunse la nuova che i napoletani aveano fatta una diversione in Algieri e presa Bugia nell'ottobre. Da ultimo nell'anno presente 1603 egli uscì di nuovo in luglio con 37 galere che poi si accrebbero sino a 60, ma dovè in agosto liberarsi di parecchie di esse andate a male per vetustà, ed impazientito le fece vendere in Negroponte, rinunziando a tutti i suoi progetti e contentandosi di rimanere nell'Arcipelago a dar la caccia alle navi che andavano in cerca di grani: così fra Dionisio non giunse nemmeno a vedere le coste della Calabria, e il Cicala, compiuti i servizii annuali in Salonicco, in Scio, in Alessandria, rientrò a' primi giorni dell'anno seguente in Costantinopoli. Aggiungiamo che quivi era pur allora morto il Gran Signore "senza precedente male", come scrisse il Bailo Contarini, e succeduto Achmet giovanetto a 13 anni; e con suo dispiacere il Cicala dovè abbandonare il capitanato marittimo, inviare la moglie e la suocera al Serraglio e recarsi come generalissimo in Persia.

Giungeva frattanto, il 19 settembre, la risoluzione di S. S.tà circa il dubbio sorto pel matrimonio di D. Pietro de Vera(422). S. S.tà non credeva conveniente che un coniugato giudicasse cause di persone ecclesiastiche; ordinava quindi al Nunzio che "per sè solo" conoscesse, spedisse e terminasse per giustizia le dette cause, ma contentavasi che D. Pietro lo assistesse nel conoscerle e spedirle, rimanendo "la totale giuridittione" presso il Nunzio. Pur troppo Roma mostrava di non avere il sentimento esatto della situazione, o piuttosto dava un'altra fra le tante prove di voler mantenere senz'altro riguardo "la superiorità ecclesiastica", con quella insistenza che sovente è stata detta fermezza, ma che evidentemente si sarebbe dovuta dire incorreggibilità. Vi era prima di tutto una notevole contradizione con la teorica ogni giorno professata dai Vescovi e sostenuta sempre da Roma, che i clerici coniugati dovessero ritenersi quali veri e pretti clerici, con tutte le immunità e prerogative ecclesiastiche; il Governo non aveva mai voluto riconoscerlo, ed avrebbe avuto torto a pretenderlo in tale circostanza; ma poteva Roma sconoscerlo? In fin de' conti poi, dopo sforzi non lievi, bene o male, da Roma si era ottenuto che una persona di fiducia del Governo sedesse e giudicasse nel tribunale Apostolico per la congiura; ed ora, nel momento decisivo, profittando di una circostanza che non poteva punto menare a tale conseguenza, si ordinava che quella persona sedesse ma non giudicasse, mentre uno de' principali imputati, fuggito dalle carceri senza sapersi come, si era unito a' turchi e veniva con essi ad offesa del Regno, strombazzando che l'altro imputato sarebbe uscito dalle carceri egualmente e presto! Ma qualora al Nunzio fosse parso bene assegnare al Campanella una pena relativamente mite, si dovea perfino sottostare al ludibrio che l'uomo di fiducia del Governo si trovasse presente a tale decisione? Ci affrettiamo a dirlo: se il Governo si fosse seriamente preoccupato di questa ipotesi, avrebbe avuto torto. Il Nunzio, come si rileva da tutto il suo Carteggio, era pronto a dare mille volte il Campanella al braccio secolare. Egli era convinto che il Campanella fosse colpevole e non aveva per costui, al pari di Roma, il menomo sentimento di pietà: gli fosse pure apparso innocente, per un Nunzio il bisogno supremo era quello di mantenere le buone relazioni tra i due Stati, attendere al ricupero delle grosse entrate della Camera Apostolica e al riconoscimento della "superiorità ecclesiastica" senza guardare troppo pel sottile in tutto il resto. Ma gli uomini di Stato professavano allora strettamente la massima che abbiamo vista enunciare dal Conte di Lemos, "per non errare, fa mestieri ritener sempre il peggio". Il Campanella era pure una forza potente, come avea ben dimostrato col riuscire ad eccitare in tanto poco tempo gli animi di molta gente in Calabria; a Roma poteva essersi formato il pensiero di tenere viva ed in mano sua questa forza per ogni evenienza futura, e poteva esser questo il significato del volere che la pena inflitta al Campanella per l'eresia fosse da lui scontata nell'alma città. Varie altre ipotesi avrebbero potuto ancora affacciarsi alla mente del Governo Vicereale, ammesso che faceva mestieri ritener sempre il peggio. Ma poi, in ultima analisi, perché doveva esso rinunziare alla sua influenza con tanti sforzi conquistata in tale causa? Come potea riconoscere in modo assoluto la superiorità ecclesiastica anche pe' delitti di lesa Maestà, ciò che si era sempre negato a riconoscere? Senza alcun dubbio, agl'incessanti motivi di sospetto e di diffidenza venivano ad aggiungersi il risentimento e il puntiglio giurisdizionale, e bisognerebbe dimenticare tutta la storia napoletana per credere che questo risentimento e puntiglio avrebbero potuto rimanere senza conseguenze; evidentemente c'era più che non bisognasse per far ricorrere il Governo a' propositi più atroci, a fine di non lasciarsi sfuggire di mano il Campanella.

Il Nunzio non tardò a comunicare al Vicerè la risoluzione di S. S.tà, ed il 26 settembre potè ragguagliare il Card.l Borghese su quanto avea fatto(423). Egli avea mostrato a S. E., che la risoluzione presa "non alterava quello che era stato fermato co' suoi antecessori in tal negotio"; D. Pietro de Vera "doveva intervenire a tutto quello che si trattava in detta causa; solo si voleva che non apparisse più come giudice". Arrestandoci un momento su queste parole del Nunzio, osserviamo che egli non interpretava(424) fedelmente la risoluzione Papale, e la rendeva nel fatto assai meno amara; poichè ammetteva che D. Pietro sarebbe intervenuto a tutto e bastava che non apparisse giudice, mentre S. S.tà avea ritenuto non conveniente che giudicasse, ed ordinato al Nunzio che conoscesse spedisse e terminasse la causa per sè solo. Il Vicerè, che sicuramente avea avuto notizia della risoluzione originale di S. S.tà, mediante gli ufficii non mai interrotti della fazione Cardinalizia attaccata a Spagna, potè mostrarsi sereno, ma nel tempo medesimo dovè sentirsi preso sempre più da diffidenza; d'altronde era per lui molto facile vedere che a nulla avrebbe giovato il rinfocolare una quistione già pregiudicata da un solenne pronunciato del Papa, e conveniva meglio farlo cadere senza strepito, opponendovi la forza d'inerzia: ciò spiega il suo contegno nel momento, quale lo espresse il Nunzio nello scrivere a Roma, ed anche il suo contegno ulteriore, quale lo vedremo nello svolgimento successivo della faccenda. Secondochè scrisse il Nunzio, egli "mostrò di restare in pace", ma per non essere informato del fatto richiese che glie ne fosse lasciata memoria; rappresentava dunque la parte dell'ingenuo, e voleva intanto poste in iscritto le parole del Nunzio che già costituivano un guadagno. Da parte sua il Nunzio potè ancora scrivere a Roma, "non vedendo in questo quello che si possa opporre, spero che il negotio andrà per i suoi piedi": con ciò egli mostravasi ingenuo davvero, mentre pure ricordava quale fiera lotta giurisdizionale vi era stata per costituire il tribunale, e sapeva che il Governo Vicereale non era punto avvezzo a cedere facilmente in queste lotte; ma forse rappresentava egualmente la parte dell'ingenuo con Roma, dando larghe speranze per non avere richiami sul modo in cui aveva interpetrata la risoluzione di S. S.tà. E quasi sentisse il bisogno di far bene intendere la sua interpetrazione, conchiudeva, che con D. Pietro aveva fin allora trattato unitamente e così procurerebbe di trattare per l'avvenire, acciò il negozio si tirasse avanti. Dalle quali parole può rilevarsi che egli intendeva un po' meglio le circostanze, e può rilevarsi ancora che avrebbe fatto terminare la causa condannando senz'altro il Campanella, giacchè D. Pietro non si sarebbe certamente pronunziato per un'assoluzione.

L'indomani, 27 settembre, il Nunzio scrisse la memoria chiestagli dal Vicerè: nel suo Carteggio n'è rimasta la minuta che noi pubblichiamo(425). Dopo di aver fatta la storia particolareggiata di tutti i precedenti, egli terminava con lo specificare sempre meglio che S. S.tà si contentava che D. Pietro intervenisse ad ogni cosa "eccetto che al sententiare" aggiungendo, "il che alla sustanza del negotio non vuol dir nulla, perche saremo d'accordo come siemo stati sin'adesso, et quello che concordemente si fermarà si esseguirà, sì che l'effetto sarà il medesimo come le dissi à bocca; desidero dunque che ella commetta al medesimo che intervenga quanto prima". Da tutto ciò il Vicerè potea desumere anch'egli ben chiaramente, che per parte del Nunzio il Campanella sarebbe stato senza alcun dubbio condannato; ma o si serbò diffidente o non volle passar sopra alla quistione giurisdizionale, e veramente si ha motivo di ritenere l'uno e l'altro concetto, per intendere l'ultimo periodo del processo. Così tanto nel Vicerè quanto in D. Pietro de Vera si vide una mollezza, una fiaccona, da doversi dire che già si era deciso di opporsi a Roma col non far nulla: e non è dubbio che D. Pietro trovavasi nello stadio più acuto dell'"attender solo a star allegramente innamorato della propria moglie" come ci lasciò scritto il Bucca; ma se il Vicerè avesse voluto, D. Pietro avrebbe adempito all'ufficio suo.

Il 3 ottobre, e poi il 9, e poi ancora il 17, il Nunzio faceva sapere a Roma, che il Vicerè avea commesso a D. Pietro di andare a vederlo, che D. Pietro non era venuto ed il Vicerè avea detto che vi sarebbe andato ad ogni modo, che poi D. Pietro avea mandato a fare le sue scuse con l'assicurazione che sarebbe venuto nella prossima settimana(426). - Ma in che modo fu appresa in Roma l'interpetrazione data dal Nunzio alla risoluzione di S. S.tà? Il 24 ottobre il Card.l Borghese, partecipando al Nunzio che la lettera del 26 settembre era stata letta in Congregazione innanzi a S. S.tà, diceva laconicamente, "in risposta non mi occorre altro, se non ch'ella si regoli conforme a quel che sopra di ciò per ordine della S.tà sua le fù scritto". Riesce impossibile vedere in queste parole un consentimento; tutt'al più vi si potrebbe vedere un'acquiescenza, ma vi si trova ad ogni modo ripetuto l'ordine di adempiere alla risoluzione quale era stata trasmessa(427).

Finalmente in data del 7 novembre il Nunzio fece sapere a Roma essersi dato ordine che i frati, i quali avevano avuto il termine alle difese avessero l'Avvocato e il Procuratore, per poter poi finire il negozio coll'intervento del Sig.r D. Pietro de Vera(428). Non apparisce qui chiaramente che D. Pietro abbia preso parte nella decisione di dare quell'ordine, ma parrebbe piuttosto di no. È superfluo intanto ripetere che l'Avvocato e il Procuratore occorrevano solamente per intimar loro la citazione ad dicendum, necessaria nel momento in cui il tribunale dovea riunirsi per sentenziare; ma le difese erano state già fatte pel Campanella, rinunziate dagli altri rimanenti frati. Si potrebbe credere che allora veramente l'Avvocato avesse dovuto cominciare l'adempimento dell'ufficio suo, e perfino che la Difesa scritta del De Leonardis abbia a ritenersi composta nel periodo al quale siamo pervenuti: ma oltrechè la procedura del tempo non giustificherebbe tale credenza, il titolo di advocatus pauperum aggiunto al nome del De Leonardis basta ad eliminarla; poichè abbiamo già visto l'Avvocato De Leonardis promosso a Fiscale, e successivamente anche a Consigliere il 3 aprile 1602, sicchè egli era già Consigliere in tal tempo, e qui possiamo aggiungere che l'ufficio di Avvocato de' poveri si teneva da Gio. Geronimo di Natale, con esecutoria di Privilegio notata il 21 giugno 1602(429). Adunque, come è stato detto altrove, le difese doveano dirsi compiute, e l'intervento dell'Avvocato rappresentava una quistione di forma più che di sostanza(430).

Dopo il 7 novembre 1603 si verificò una lunga interruzione perfino nelle notizie riguardanti la causa: e questo non può spiegarsi in altro modo, che ammettendo un'assoluta noncuranza di D. Pietro de Vera nell'adempimento del suo ufficio, naturalmente col consenso segreto del Vicerè. Le lettere del Nunzio non offrono più alcun cenno del Campanella fino al 23 luglio 1604; manca veramente un registro ossia un fascicolo di queste lettere, ma la mancanza si estende appena dal 4 maggio al 5 luglio 1604, e la lettera del 23 luglio, nella quale si ricomincia a parlare del Campanella, è concepita in modo da fare intendere che non se n'era mai più parlato da lungo tempo. Anche le lettere di Roma non offrono nulla per tutto il suddetto periodo; né può supporsi che nella raccolta di esse vi sia qualche lacuna concernente il Campanella, poichè se da Roma fosse venuta la menoma richiesta di notizie intorno a lui od intorno alla causa de' frati in generale, il Nunzio non avrebbe potuto mancare di rispondere, e nel modo in cui sono registrate le lettere o meglio le minute delle lettere del Nunzio, la risposta si sarebbe dovuta trovare. Ciò mostra bene quanto pensiero si davano del Campanella in Roma, e quanto siano andati lungi dal vero i biografi, i quali hanno ritenuto che in Roma volevano assolutamente trarre il Campanella da Napoli, e che il S.to Officio con la sua condanna, concepita nel senso che conosciamo, aveva avuto principalmente quello scopo. Frattanto è certo che un nuovo aggravamento si era verificato nelle condizioni del Campanella. Il silenzio serbato per tanto tempo dal Nunzio, e poi la solita necessità d'ingarbugliare taluni fatti da parte del filosofo, hanno contribuito del pari a rendere oscuro questo periodo della sua prigionia: ma le deposizioni di Felice Gagliardo in punto di morte, e un altro documento da noi trovato in altre scritture d'Inquisizione, ci mostrano indubitatamente che il filosofo venne separato da' frati suoi compagni e rinchiuso con maggiore durezza nel torrione del Castel nuovo; altri documenti poi, allegati al processo di eresia, ed anche alcune notizie date in sèguito dal filosofo medesimo, ci fanno argomentare che tale trattamento più duro dovè essergli inflitto nel luglio o agosto 1603, sebbene egli, per procurarsi la commiserazione di Roma e dissimulare varie circostanze sfavorevoli, abbia esposte le cose in modo da far intendere che l'avessero tradotto nel Castello di S. Elmo in una fossa, la qual cosa accadde veramente più tardi, con ogni probabilità appunto nel luglio dell'anno successivo.

Ecco distintamente quanto era avvenuto al Campanella da che l'abbiamo lasciato, cioè dagli 8 gennaio 1603, giorno in cui gli fu letta la sentenza avuta nel processo di eresia. Egli continuò a rimanere per circa sei mesi nelle carceri comuni del Castel nuovo, in relazione co' frati, e segnatamente con fra Pietro di Stilo, unico suo confidente oramai dopo la liberazione di fra Pietro Ponzio, in relazione del pari con Felice Gagliardo, che da molto tempo bazzicava anche troppo co' frati: ed abbiamo avuta occasione(431) di dire che ebbe una visita del Marchese di Lavello cui consegnò la sua opera della Metafisica, ma dobbiamo aggiungere che dal 25 febbraio al 15 aprile di quest'anno ebbe anche occasione di far la conoscenza di alcuni Signori tedeschi venuti nelle carceri del Castello, uno de' quali divenne da tale data suo amicissimo e caldo protettore. Il Conte Giovanni di Nassau avea fatta in incognito un'escursione a Napoli per curiosare la città, seguito da due gentiluomini, Cristoforo Pflugh e Geronimo Tucher, e dal domestico Giovanni Winckes, inoltre accompagnato da Gio. Ottavio Gonzaga che aveva al suo sèguito Uberto Caroni di Bozzolo. Visitata la città i viaggiatori si trovavano oramai in partenza, quando un dispaccio da Roma del Duca di Sessa avvertì erroneamente che un figlio, o nipote, o fratello del Conte Maurizio di Fiandra ribelle al Re di Spagna, con un sèguito di Cavalieri francesi era venuto in Napoli; il Vicerè diede immantinente ordine di catturarli. Il Conte col suo domestico era già partito in precedenza e fu raggiunto a Sessa, gli altri furono rinvenuti ancora in Napoli, tutti furono tradotti nel Castel nuovo(432). Al Gonzaga, parente del Duca di Mantova, che dimostrò essersi accidentalmente trovato in compagnia de' tedeschi fu concesso di tenere per carcere, insieme col Caroni, la casa del Principe di Conca; al Nassau col suo domestico fu assegnata nel Castello una carcere separata, agli altri furono assegnate le carceri comuni, ma certificato l'equivoco mediante un'informazione presa da D. Pietro de Vera, furono poi rilasciati con molte cortesie equivalenti a scuse(433). Durante la prigionia il Campanella si strinse in grande amicizia sopratutto con Cristoforo Pflugh, latinamente Flugio, il quale parrebbe che appartenesse alla celebrata ed opulenta famiglia de' Fuggers negozianti di Augusta e divenuti Baroni di Kirchberg e Veissenhorn, più conosciuti in Italia col nome di Fuggheri e Foccari; ma avrebbe dovuto rabberciare il suo cognome e dichiararsi Sassone per rimanere incognito, e riesce allora notevole che perfino dopo molti e molti anni, a tempo della redazione del Syntagma il Campanella abbia continuato a chiamarlo "Flugio", come riesce notevole che a tempo della prigionia in Castel nuovo sia stato di religione protestante. Da alcune parole che leggonsi nel Carteggio del Turaminis, Agente Toscano, parrebbe che al pari degli altri suoi compagni di carcere egli dimorasse allora in Siena, forse ad oggetto di studio, e questo nemmeno si accorderebbe troppo coll'età del Cristoforo Fugger che conosciamo dall'opera del Custos(434). Ad ogni modo non sembra dubbio che egli appunto abbia fatto conoscere il Campanella a' Fuggers, come certamente lo fece conoscere a Gaspare Scioppio, onde queste poche notizie su' Fuggers non saranno state inutili, avendo ancora ad incontrarli nel corso della nostra narrazione. Una lunga lettera posteriore del Campanella diretta allo Pflugh e da noi pubblicata, riferibile all'anno 1607, ci fa conoscere che tanto lo Pflugh quanto il Conte Giovanni s'interessarono molto della sua sorte, e promisero di aiutarlo presso i Principi di Germania, che lo Pflugh specialmente si affezionò a lui, ascoltò le sue meditazioni filosofiche e religiose chiamandolo Mastro, gli giurò che avrebbe avuto pensiero della sua libertà, ne ebbe l'opera della filosofia (senza dubbio l'Epilogo, e probabilmente anche altre opere tra le quali la Monarchia di Spagna); mostrò poi una volta al Campanella un libro di spiriti che il Campanella derise, e videro anche insieme certe donzelle, che dalle finestre invitavano il Campanella a scherzi più che egli non avrebbe voluto (certamente le donzelle abitanti ne' piani superiori del Castello, a taluna delle quali il Campanella avea diretto e forse dirigeva ancora poesie più o meno vivaci); infine liberato dalla carcere ed andato a Roma si convertì al Cattolicismo, onde al Campanella balenò la speranza che glie ne sarebbe derivato un gran bene presso la Curia, avendo lui influito su tale conversione, e poi, col procurargli l'aiuto di altri suoi potenti amici e più tardi anche quello dello Scioppio, diè motivo di fargli concepire speranze sempre maggiori(435). Le deposizioni di Felice Gagliardo, fatte al S.to Officio in punto di morte, compiono la conoscenza di questo incidente. Lo Pflugh ed il Tucher andarono a stare nella camerata del Gagliardo, il quale insegnò loro le orazioni cattoliche poichè dubitavano di essere stati presi come eretici; ma fecero anche, tutti insieme, certe pratiche di negromanzia per rendersi invisibili ed uscire così dal Castello, secondo i precetti di Gio. Wierio, avendone procurato il libro De Menomachia daemonum (sic) e trattane anche una copia(436). Fu questo certamente il "libro di spiriti", che lo Pflugh mostrò al Campanella, e, come si vede, il Gagliardo trovavasi già molto avanti negli sperimenti di negromanzia e nella evocazione de' demonii.

Ma dopo circa sei mesi il Campanella dovè essere separato dagli altri frati e posto nel torrione del Castello, come risulta da più documenti. In primo luogo le medesime deposizioni anzidette del Gagliardo ce ne danno notizia precisa, rivelandoci in pari tempo fatti della maggiore importanza, capaci d'illustrare non solo tale periodo della prigionia ma anche il tema difficilissimo delle credenze riposte del Campanella con qualche tratto della sua vita intima: e sebbene al Gagliardo non si possa menomamente accordare una cieca fede, massime poi nelle condizioni in cui si trovava al momento di deporre questi fatti, vedrà ognuno se essi non concordino con le notizie che abbiamo da altri fonti indubitabili(437). Il Gagliardo disse, che essendosi già dato alla negromanzia, esercitata pure con taluni de' frati prigioni ed egualmente con altri, avea conosciuto il Campanella nel Castello, e nella carcere dove il Campanella stava, "al torrione", aveva appresa da lui segretamente l'astrologia, studiandola nelle Effemeridi del Magino, nell'Almanach, nel Cardano, libri che con altri ancora, e con gli scritti, un'amica a nome Oriana, dimorante sotto le carceri, con la quale il filosofo "faceva all'amore", conservava e poi porgeva mediante una cordicina dietro segnali convenuti, allorchè il filosofo li voleva: aggiunse, riportandosi evidentemente ad un periodo anteriore, che il Campanella non era affatto pazzo, ma tale si era finto per salvare la vita, che quando veniva gente estranea egli faceva pazzie, e poi con lui e con fra Pietro di Stilo, il quale gli era compagno, ridevano che avesse fatto credere di esser pazzo. Riferì inoltre che avendo più volte discorso da solo a solo col Campanella del testamento vecchio e del miracolo di Mosè al mare rosso, egli avea detto "che ne credesse solo quello che havea potuto essere naturalmente, et che l'altre cose che non potevano essere naturalmente non bisognava crederle, ancor che fussero scritte alla biblia" etc.; che poi gli aveva pure insegnato in Castello come dovesse adorare Dio, facendoglielo scrivere ed anche scrivendoglielo di sua mano, cioè a dire in piedi, col capo scoperto o coperto a volontà, guardando al cielo e recitando alcuni determinati salmi (ved. nel d.to Doc.) ma senza terminare col Gloria Patri etc., non credendo alla 2a e 3a persona della Trinità, ed invece dicendo: "Deo optimo maximo, potentissimo et sapientissimo, io te prego è supplico per lo fato armonia et necessità, per la potentia sapientia et amore et per te medemo, et per il cielo è per la terra et per le stelle erranti è fisse...". E gli aveva insegnato egualmente come dovesse adorare il sole e la luna, guardando in piedi, coperto o scoperto, fissamente il sole al nascere o al tramontare, e dicendo, "O sacro santo sole, lampa del cielo, patre della natura, portatore delle cose à noi mortali, conduttieri dela nostra Simblea" etc. per poi dimandare ciò che desiderava; ed alla luna, "Matre di tenebre" etc. etc. facendo lo stesso anche verso ciascun pianeta, le quattro parti del mondo e gli angeli che ad esse presedevano. Conchiuse poi il Gagliardo affermando, che con tali preghiere non aveva mai ottenuto nulla, che le eresie apprese dal Pisano e dal Campanella erano "capricci di huomini bestiali, dissoluti, senza fondamento di ragione alcuna", che il Campanella talora gli diceva certe cose e talora il contrario, e quando egli dimandava il motivo di queste contradizioni, gli rispondeva non essere stato inteso bene la prima volta. Naturalmente il Campanella, con la solita astuzia, faceva la parte del distratto: ci toccherà poi di vedere che alcuni cenni, datici da lui in qualche lettera ed anche in qualche opera, confermano sufficientemente le notizie deposte dal Gagliardo; ma già fin d'ora ognuno avrà senza dubbio ravvisato il riscontro che esse offrono con la legge naturale lodata dal Campanella, co' suoi principii metafisici, con le cose esposte nella Città del Sole ed anche cantate nelle Poesie(438). Si ha quindi un gravissimo argomento per non dubitare del racconto del Gagliardo, della relazione del filosofo con D.a Oriana, la quale evidentemente sarebbe la Dianora che abbiamo visto celebrata da lui con un Sonetto, non che dell'essere stati insieme contemporaneamente il Campanella e il Gagliardo "al torrione"; gioverà d'altronde ricordarsi che il Gagliardo dovè passare nel torrione appunto nel secondo semestre del 1603 e rimanervi fino al 2 marzo 1604, essendo stato quello il tempo delle sue strette col S.to Officio, sicchè non ci manca nemmeno l'indizio della data.

Abbiamo poi anche un documento notevole raccolto in altre scritture d'Inquisizione, che attesta del pari essersi il filosofo, nel periodo anzidetto, trovato nel torrione del Castel nuovo separato dagli altri frati: è la deposizione di un carcerato della Vicaria in una Informazione presa contro fra Pietro di Stilo quando era già uscito dal carcere. Un Ciommo ossia Girolamo dell'Erario, dimandato se fosse mai stato in altre carceri oltre quelle della Vicaria, rispose di essere stato, precisamente verso il marzo 1604, nel Castel nuovo; e "prima (egli disse) fui posto in una fossa dove stetti per otto giorni, dopoi fui levato da la fossa, et fui messo alo torrione dove stava uno che si diceva fusse Campanella, et portava la chierica come portano li frati, non intesi di che ordine fusse, et il Carceriero, et Campanella dicevano che era Calabrese, et per un mese in circa dimorai à quello torrione con lo Campanella, è ci venevano altri carcerati, è poi ne erano levati. Et essendo stato con lo Campanella da un mese, fui messo dopoi ad un altra carcere di castello, dove trovai uno monaco che andava vestito da monaco con le veste bianche, che si chiamava frà Pietro, uno mastro Marco scarpellino... etc., et alla carcere di frà Pietro dimorai da un mese in circa, dopoi fui tormentato in castello per la causa mia, è fui messo al civile del castello, dove stavano diversi carcerati, tra li quali ci erano tre frati vestiti di bianco, che uno havea nome frà Paolo, deli altri non mi ricordo lo nome" etc.(439). Questa separazione anche di fra Pietro di Stilo, questa differenza di trattamento, più duro per fra Pietro e meno duro per gli altri frati, meritano del pari di essere avvertite. Sorge naturalmente il pensiero che fra Pietro, l'amico intimo del Campanella, avesse dato motivo di richiamare sopra di sè l'attenzione del Governo: rimanga intanto assodato che nel marzo 1604 il Campanella trovavasi nel torrione, e non sembri puerile se facciamo avvertire che egli vi si trovava tuttora in abito laicale, riconoscibile solo pel suo capo raso e per la sua "corona"; qualunque fatto anche minimo della persona sua ci apparisce sempre memorabile.

né questo è tutto. Rammentino i lettori que' duc.ti 200 inviati da' conventi di Calabria in sussidio de' frati, e la stentata distribuzione che ne faceva il Prezioso dietro ordini successivi del Vescovo di Caserta: un ordine del 2 settembre 1603 assegna duc.ti due a ciascuno de' quattro frati carcerati, non più 5, mancandovi il Campanella: questo stesso si verifica in due altri ordini posteriori (27 febbraio e 9 giugno 1604). Non sarebbe impossibile che specialmente nel 1° ordine del 2 settembre 1603 fosse corsa una pura e semplice dimenticanza del Campanella da parte di quel Vescovo, che se ne curava così poco e così male: egli vi dimenticò certamente fra Paolo della Grotteria, ma ve l'aggiunse subito come il documento mostra, e così avrebbe potuto aggiungervi nel tempo stesso il Campanella; laonde bisogna dire che il 2 settembre era già accaduto qualche cosa di nuovo per il povero filosofo, e non abbiamo bisogno di far notare come questa data collimi più che sufficientemente con quella del luglio o agosto che vedremo or ora da lui accennata. L'ultimo ordine di pagamento poi, l'ordine del 9 giugno 1604, fu provocato da due memoriali de' frati, e segnatamente uno di essi reca che "li poveri quattro frati di S.to Domenico carcerati nel Regio Castello novo" si trovano ignudi ed affamati, senza il denaro della Corte da più mesi e senza alcuno indizio di prossima spedizione, onde supplicano che si dia loro quel poco danaro rimasto e si parli a S. E. per la spedizione della loro causa(440); adunque nemmeno da questo lato figura più il Campanella, e parrebbe veramente che soli quattro frati fossero rimasti in Castel nuovo e che il Campanella non vi si trovasse più. Ma non è possibile passar oltre alla deposizione di Ciommo dell'Erario sopra riportata; e quindi persistiamo nel ritenere che il Campanella alle date suddette trovavasi anch'egli nel Castel nuovo, bensì ristretto nel torrione, toltagli qualunque comunicazione con gli esterni ed anche co' frati suoi compagni; questi non ne parlarono ne' memoriali presentati, essendo loro vietato di comunicare con lui, e forse pure avendo dovuto persuadersi, che a voler fare causa comune con lui non sarebbero mai più venuti a capo di nulla.

Vi sono infine i cenni datine dal Campanella medesimo in più lettere ed anche nell'opera dell'Atheismus triumphatus, che scrisse dopo questo periodo, sebbene, come abbiamo già detto, egli siasi ingegnato di fondere insieme il passaggio al torrione e quello alla fossa di Castel S. Elmo. In una sua lettera al Papa, in data del 13 agosto 1606, egli scrisse così: "Hor sono tre anni (e quindi verso il luglio o l'agosto 1603) havendo interrogato il demonio che si faceva angelo, e compariva ad una persona da me instrutta a pigliar l'influsso divino, al qual mi pareva disposto per la sua natività che mirai, rispose di tutti i regni che dimandai... (seguono molte rivelazioni singolari specialmente intorno a Venezia e a Roma). Io accorto che era diavolo in molti segni, et avvisando quella persona dicendoli che dimandasse segnali come Gedeone et altre industrie, promesse il diavolo darli poi; ma comparse ad un signore in uno specchio, che trattava farmi fuggire, e lo fè che mi tradisse e rivelasse; e fui posto in questa fossa pur dal diavolo predettami". Ecco qui un disegno di evasione trattato e scoperto, che vedremo affermato anche dal Nunzio e che, naturalmente, ci occuperà di proposito; ma per ora lo mettiamo da parte. Al Card.l Farnese, pochi giorni dopo, il Campanella scrisse pure: "M'occorse ver la natività d'una persona, li dissi ch'era inclinata alla profezia, li donai il modo di disponersi all'influsso divino, e perché egli era scelerato, li comparse il diavolo e dicea esser angelo, e ci donò avviso di molte cose future in molti regni del mondo e del Papato e di Venetia ch'ha a rovinare. Io poi dimandai segni come Gedeone; s'era Dio o angelo, ci li promesse, e perché non insegnassi a colui a scoprir il diavolo, esso diavolo mi fece ponere in questa fossa con stratagemma stupenda che non posso scrivere". Egualmente al Card.l S. Giorgio riferì la cosa medesima, con poca differenza di parole e con questa circostanza di più, che il diavolo "fè capitar male quel pover'huomo", senza dirne altro(441). Non occorre poi riportare testualmente i brani dell'Atheismus triumphatus allusivi allo stesso fatto, avendo avuta già da un pezzo occasione di riportarli (ved. vol. 1.° pag. 21 in nota). Il Campanella in essi parla di "un astrologo moderato" spinto dalla superstizione di Aly Aben ragel, avido di sperimentare la dottrina de' Santi, che istruì un giovane incolto nel modo di pregare gli Angeli de' pianeti, lo dispose con le orazioni e le cerimonie, e il giovane cominciò a vedere cose mirabili, apparendogli uno spirito che si fingeva Angelo o luna, o sole, o Dio: l'astrologo per mezzo di costui ebbe risposte su cose gravissime, ma essendosi accorto che si trattava del demonio, si vide il falso angelo con inganni incredibili separare il giovane dall'astrologo e condurlo a morte violenta, oltrechè si vide un altr'uomo, che aspettava certe promesse fatte prima del caso del giovane, condotto a malanni atrocissimi etc. etc. Avremo in sèguito a commentare tutto questo garbuglio, ma già si vede manifestamente che si tratta qui delle relazioni passate tra il filosofo e il Gagliardo, con le preghiere al sole, alla luna, alle stelle, e con tutte le altre cose insegnategli mentre componeva appunto la sua opera di Astronomia, essendo l'astrologo e l'altro uomo, posti in iscena nell'Atheismus, una persona sola, il Campanella. Le lettere chiariscono i racconti dell'Atheismus, ed esse, come abbiamo veduto, ci menano al luglio o agosto 1603 quanto alle pratiche astrologiche fatte dal Gagliardo con l'assistenza del Campanella; d'altro lato il processo del Gagliardo ci mena al 2 marzo 1604 quanto alla separazione di lui dal Campanella, giacchè appunto in tale data egli fu liberato dal carcere, per poi tornarvi di nuovo ed essere condannato all'ultimo supplizio due anni dopo. Manifestamente quindi la data del luglio e agosto 1603 è quella del passaggio "nel torrione del Castello" dove il Campanella di certo si trovava tuttora il 2 marzo 1604, giacchè il Gagliardo difficilmente avrebbe mancato di dirne qualche cosa laddove ne fosse stato tolto prima: risulta perciò ben giustificata anche l'affermazione di Ciommo dell'Erario, d'averlo visto nel torrione in marzo 1604 separato dagli altri frati, e come il non trovare il Campanella contemplato negli ordini di pagamento della sovvenzione ai frati in data del 2 settembre 1603, e 27 febbraio 1604, non implica che egli fosse stato già tradotto a S. Elmo, così non l'implica nemmeno il non trovarsi contemplato in quello del 9 giugno 1604. Vedremo poi che non mancano altri argomenti per farci dire che il Campanella dovè essere tradotto dal torrione nella fossa di S. Elmo appunto verso il luglio 1604. E se vogliamo indagare perché sia stato posto nel torrione in luglio o agosto 1603, ne troviamo facilmente il motivo, ricordando che appunto in tal tempo giunse la notizia dell'imbarco di fra Dionisio sull'armata turca, con le sue ciarle già narrate della prossima liberazione del Campanella. Il fatto della conversione di fra Dionisio alla fede maomettana, che recava un aggravio manifesto a' giudizii già gravi intorno alle imprese disegnate in Calabria, fu sentito dal Campanella al punto, da vederlo schermirsene con tutti gli argomenti, possibili ed impossibili, in ciascuna delle lettere che scrisse nel 1606-1607, non appena vide la necessità di far udire la sua voce direttamente ai personaggi altolocati. Il fatto poi egualmente grave dell'imbarco sull'armata turca, veleggiando verso il Regno, fu dissimulato dal Campanella costantemente, e col proposito suo di volerlo dissimulare si spiega benissimo l'aver confuso il passaggio al torrione del Castel nuovo, il disegno di evasione scoperto, il trasporto a Castel S. Elmo, tre avvenimenti affatto distinti e verificatisi in tre tempi diversi.

Veniamo appunto alla faccenda del disegno di evasione scoperto e del passaggio a S. Elmo. Come dicevamo, il Nunzio ne fece menzione egli pure nelle sue lettere a Roma. Dopo circa otto mesi di silenzio, ripigliando la sua corrispondenza, nella lettera del 23 luglio 1604 egli ritesseva la storia delle peripezie avvenute per la spedizione della causa; riproduceva il fatto del matrimonio di D. Pietro de Vera, ricordava la risoluzione presa da S. S.tà per tale circostanza, esponeva le sue sollecitazioni continue per venire a qualche conclusione". E soggiungeva: "Ma l'essersi scoperto quà un certo Greco che praticava di fare scappare di Castello Fra Tommaso Campanella, come scappò Fra Dionisio Pontio et un'altro suo compagno, hà tenuto il negotio sospeso in modo, che non si è potuto trattar della sua speditione. Finalmente sabato passato fummo insieme, et quanto al detto Campanella S. E. l'hà fatto condurre nel Castello di S. Elmo, et non vuole che per ancora si tratti della sua speditione, crederò io, per quanto scuopro, per non haver interamente chiarito questa pratica che si teneva per la sua liberatione. Trattammo degli altri quattro che restavano" etc.(442). Se non c'inganniamo, dal contesto della lettera del Nunzio appariscono due fatti non contemporanei, la scoperta di certe pratiche per far fuggire il Campanella, la quale avea per qualche tempo tenuto sospesa la spedizione della causa, e il trasporto del Campanella a S. Elmo del tutto prossimo alla data della lettera, per un motivo che il Nunzio mostra di supporre e che difficilmente persuaderà alcuno, giacchè per continuare a chiarire le pratiche dell'evasione non occorreva tradurre il Campanella a S. Elmo; dovè quindi esservi un altro motivo che il Nunzio volle dissimulare, e la cosa riuscirà confermata da quanto saremo per dire. Innanzi tutto cerchiamo d'indagare chi mai abbia potuto avere tanta pietà pel povero prigioniero da intavolare trattative di evasione, chi mai abbia potuto essere quel Greco che praticava di farlo fuggire, come pure in che data potè questo accadere.

Sappiamo dalle notizie sparse nel processo di eresia che molti venivano nel Castel nuovo, ed entravano col carceriere nella stanza del Campanella per vederlo quando era pazzo; ma evidentemente bisogna guardare un po' in alto per la faccenda in quistione. Senza dubbio ebbe a visitarlo più o meno spesso il Marchese di Lavello Gio. Geronimo del Tufo, ed abbiamo visto che "nel 1603" ci fu una sua visita ricordata nel Syntagma. Pertanto il Residente Veneto, in data del 3 febbraio 1604, riferiva al suo Governo, che pareva si andassero "risvegliando novi pensieri del Campanella che si trova in Castello per li trattati da lui maneggiati in Calabria", che era stato ultimamente di ordine del S.r Vicerè "carcerato il Marchese di Laviello, di casa del Tuffo, sospetta alla Ecc.za sua che tenesse le mani in simili negotii", e che ad essi si attendeva con molta diligenza etc.(443). Ecco un nome ed una data che fanno volgere a buon dritto la mente sul progetto di evasione stato scoperto: il Residente potè non essere informato della cosa a fondo, e tutto il suo Carteggio mostra che davvero non lo fu mai; ma non gli mancò la notizia di diligenze che si facevano, e di una carcerazione, che riesce del tutto naturale credere motivata da qualche indizio o sospetto di maneggio in tale faccenda. Anche il Gagliardo nelle sue ultime deposizioni ricordò l'avvenimento senza accennare a' motivi, ciò che mostra essere stato da lui pure ignorato il progetto di evasione e la scoperta fattane: ma riescono sempre notevoli i termini ne' quali si espresse, avendo ricordato che il Marchese "per un tempo stette carcerato in detto Castello"(444). Considerando che il Gagliardo ne uscì nel marzo 1604, bisogna conchiudere che il Marchese ne fosse già uscito a questa data, e però vi fosse rimasto un mese o poco più: naturalmente tale circostanza mena a ritenere essersi avuto per lui un semplice sospetto ben presto chiarito senza solida base, oppure aver lui avuta una parte del tutto secondaria ed anche inconsapevole ne' maneggi per l'evasione. Chi dunque potè provvedervi? La mente ricorre subito a Cristoforo Pflugh, ed a' Fuggers de' quali abbiamo già dato notizia a proposito dello Pflugh; le promesse di Cristoforo, ed anche una parola del Naudeo, il quale nel Panegirico ad Urbano VIII, enumerando i tentativi fatti per la liberazione del Campanella, citò i "tot evanidos Fuggerorum ausus", ci aveano indotto a ritenere che con ogni probabilità i potenti mezzi di questa famiglia avessero potuto preparare l'evasione; le notizie poi dell'Epistolario del Fabre ora pervenuteci col nuovo libro del Berti, mostrando che in particolare Giorgio Fugger, dopo questo tempo, fissò perfino una somma di 10 mila ducati per aiutare la liberazione del Campanella, convalidano sempre più tale opinione(445). Aggiungiamo inoltre che non deve recar meraviglia l'intervento pure di quel certo Greco che praticava di farlo scappare, secondo la notizia datane a Roma dal Nunzio. Il Carteggio Veneto ci mostra che da un pezzo trovavasi nel Castel nuovo un Pietro Lanza, bandito di Corfù, al quale facevano capo i parecchi Greci che venivano in Napoli con progetti di imprese da corsari contro i turchi. Il Lanza, già capo delle spie del Levante per conto del Governo Vicereale, si era dilettato di simili imprese perfino nell'Adriatico, che la Serenissima considerava come suo Golfo: dietro richiami del Residente il Vicerè Conte di Lemos lo rinchiuse nel Castel nuovo (6 novembre 1599), ma dandogli tutto il Castello per carcere e speranza di prossima libertà. Egli propose allora alla Viceregina, e costei accettò, di mandare due feluche in corso alla Vallona "nelle viscere de i stati da mare di quella Serenissima repubblica", come diceva lamentandosi il Residente, e nel marzo 1600 fu liberato per tentare l'impresa, essendo stato il suo ufficio già dato a un Jeronimo Combi: fatti i preparativi, il Lanza si unì con un Michele Protetri, egualmente bandito di Corfù e corsaro, venuto in Napoli a rilevarlo, e con lui si partì di notte segretamente (7 maggio 1602). Cercarono insieme d'impadronirsi di una nave Buduana nelle marine di Otranto, ma non riuscirono: il Lanza tornò a Napoli e dovè rientrare nel Castel nuovo (7 agosto 1602). Quivi egli non cessò mai di far progetti contro i turchi, lusingando le cupidigie spagnuole, e giunse a prevalere su Jeronimo Combi e ad avere diversi incarichi di spedizioni segrete: né gli mancarono mai collaboratori levantini, specialmente Greci, che venivano in Napoli e si dirigevano appunto a lui nel Castel nuovo, con disegni di sorprendere senza pericolo, sicuramente, il tale o tal altro Castello turco e farvi ottima preda(446). Riesce quindi del tutto verosimile che qualcuno di costoro siasi preso l'incarico di procurare la fuga del Campanella, e che inoltre rappresenti quel Signore il quale poi finì per tradirlo e rivelarne i disegni, secondo ciò che ne lasciò scritto il Campanella medesimo.

Volendo dunque determinare la data della scoperta delle pratiche di evasione, non ne avremmo altra più verosimile che quella della carcerazione del Marchese di Lavello, cioè il gennaio 1604; e sarebbe pure, naturalmente, di poco anteriore la data della comparsa del diavolo con le sue rivelazioni, e dello spavento incusso a quel Signore che rivelò il disegno della fuga. Potrebbe sembrare una grossa obiezione la difficoltà di una riunione di più individui, perfino con qualcuno estraneo, in una carcere dura: ma bisognerebbe non aver mai conosciuto la curiosità de' carcerieri, prigioni e visitatori di ogni genere, in fatto di cose soprannaturali, sempre supposte feconde di grandi guadagni, in grazia de' quali non c'è né compromissione né rischio che valga a trattenere. E se è certo che nel marzo 1604 il Campanella trovavasi tuttora nel torrione del Castel nuovo, bisogna dire che la scoperta delle pratiche di evasione non abbia avuta influenza sul mutamento di Castello, e bisogna trovare un altro motivo per ispiegare il passaggio a Castel S. Elmo. Ritenendo che questo passaggio sia avvenuto nel luglio 1604, in un tempo del tutto prossimo alla data della lettera con la quale il Nunzio faceva conoscere la avvenuta riunione del tribunale Apostolico, troviamo facilmente il motivo del trasporto a S. Elmo nell'essersi voluto dal Governo che il tribunale si riunisse per la spedizione della causa degli altri frati senza potersi occupare del Campanella, tanto più dopochè il Nunzio aveva insistito nel voler sentenziare egli solo; con ciò ci spieghiamo pure che il Nunzio abbia voluto dissimulare questo avvenimento rincrescevole, compiuto in dispregio di lui e della Curia. È chiaro infatti che dovendo il tribunale riunirsi, qualora il Campanella fosse anch'egli rimasto nel Castel nuovo, non si sarebbe potuto evitare, senza recriminazioni e contrasti, che il Nunzio lo avesse fatto almeno venire alla sua presenza, mentre egli trovavasi là rinchiuso qual suo prigione, a sua istanza e sotto la sua autorità, secondochè fin da principio era stato convenuto con Roma. C'imbatteremo poi, nel progresso di questa narrazione, in parecchie circostanze che riescono a confermare la data del luglio 1604, e non mancheremo di notarle a misura che si presenteranno. Vogliamo intanto far avvertire che la scoperta del progetto di evasione non diede propriamente motivo di far finire il processo del Campanella nella barbara guisa in cui finì, ma diede soltanto occasione di giustificare in qualche modo il sistema dell'inerzia che era stato deciso ed attuato già da molto tempo; quando vi fu pericolo di vedere questo sistema compromesso, si venne nella determinazione di allontanare il Campanella ordinandone il trasporto a S. Elmo.

Come abbiamo avuta occasione di dire, i quattro frati minori, mal ridotti, insistevano vivamente per la spedizione della loro causa, e tolta di mezzo la persona del Campanella, vennero finalmente i Giudici a riunirsi e ad occuparsene nella 2a metà di luglio 1604. D. Pietro de Vera, che per tanti e tanti mesi non si era prestato, si decise allora a prestarsi, ma sarà bene rilevare dalle parole testuali del Nunzio in qual modo: "Trattammo degli altri quattro che restavano, et l'uno, Fra Domenico da Stignano, come più colpevole, fummo d'accordo che si condennasse per tre anni in Galera, gli altri che restavano, attesa la purgatione fatta da loro con li tormenti, si licentiassero, con questo però che non potessino tornare in Calabria per tempo à beneplacito di S. S.tà Et quando si cominciorono à dettare le sentenze, scoprendo che in esse il Sig.r D. Pietro di Vera voleva esser nominato come prima, contradissi, et gli mostrai la lettera che tenevo. Rispose che non voleva risolversi sopra questo, senza parlarne prima con S. E., et se bene gli replicai che questo non serviva à niente, toccando à N. S.re il risolver sopra ciò, stette pur nel proposito, e mi chiese copia della lettera, et io glie la diedi, parendomi necessario metterla anche nel processo". Così veramente D. Pietro discusse e fu d'accordo col Nunzio, il quale si attenne all'interpetrazione che avea data alla risoluzione Papale; e fra Domenico Petrolo fu condannato a tre anni di galera "come più colpevole", sicchè fino all'ultimo momento venne ammessa la colpa; gli altri poi furono rilasciati solamente coll'obbligo dell'esilio dalla Calabria, ad arbitrio di S. S.tà "attesa la purgatione fatta da loro con li tormenti". Si vede qui ancora una volta con quanto poca attenzione il Nunzio si era occupato e si occupava di questa causa: per la congiura il solo Petrolo aveva avuto il tormento, gli altri non ne avevano avuto punto, siccome mostrano anche due loro comparse altrove ricordate (ved. pag. 242); l'avevano bensì avuto per l'eresia e neanche tutti, essendone rimasto esente fra Paolo, ed il Nunzio confondeva insieme l'una e l'altra causa. Ma riesce notevolissimo quell'atteggiamento di D. Pietro nel voler figurare come Giudice, dopo che si era tanto parlato della risoluzione contraria di S. S.tà, come del pari l'atteggiamento del Nunzio nel volerglielo impedire. D. Pietro, Commissario Apostolico, per tanto tempo non si era curato di leggere la risoluzione Papale che lo riguardava, ed in ultima analisi volle prender consiglio dal Vicerè intorno ad essa: in tal modo egli mostravasi quello che realmente era, e che un Breve Papale non valeva a far cessare di essere, il rappresentante del Governo. Ed il Nunzio continuava a dar prova di una sorprendente ingenuità, obiettandogli che il parlarne al Vicerè "non serviva a niente, toccando a N. S.re il risolver sopra ciò". Fin allora dunque il Nunzio non aveva capito ancora, che i vincoli effettivi di D. Pietro col Governo erano ben superiori a quelli fittizii col Papa creati dal Breve, e tanto meno avea capito che le tergiversazioni di D. Pietro, negli ultimi tempi, non erano state spontanee ma prescritte dal Vicerè.

Quale fosse davvero l'opinione del Vicerè su quell'incidente, non si potè sapere prima di un altro paio di settimane. D. Pietro non si affrettò a parlare al Vicerè, o forse meglio, sollecitato dal Nunzio, il Vicerè diede ad intendere che D. Pietro non gli avea parlato ancora, e giunse fino a promettere, che non appena gli avrebbe parlato, la spedizione della causa sarebbe stata commessa "conforme a quello che comanda S. S.tà"; ma intorno al Campanella disse di nuovo, "bisogna lasciarlo star così per buon rispetto, per il tempo che sarà necessario". - Queste notizie trasmesse a Roma non vi fecero punto cattiva impressione; bastava che il comandamento di S. S.tà fosse per trionfare, il resto non importava nulla. Il 30 luglio(447) il Card.l Borghese partecipava al Nunzio, che a S. S.tà era piaciuta la risoluzione sua di non ammettere a congiudice il de Vera e farne capace il Vicerè, che ordinava si regolasse tuttavia conforme alle lettere scritte ne' mesi passati, né gli occorreva altro. E pel Campanella? né S. S.tà, né alcuno de' Cardinali componenti la Sacra Congregazione, innanzi a' quali la lettera del Nunzio era stata letta, si diedero il menomo pensiero di lui: al contrario di quanto si è finoggi creduto, a nessuno di loro importava che quell'infelice rimanesse a languire nelle carceri di Castel S. Elmo e la spedizione della sua causa fosse sospesa indefinitamente. Se vi era qualche ragione per la quale non conveniva tenerlo nel Castel nuovo, perché mai non poteva il tribunale riunirsi nel Castel S. Elmo?

Ma verso il 7 agosto, dietro nuove sollecitazioni del Nunzio, il Vicerè non tenne più oltre nascosta la sua vera opinione sull'incidente. A questa data(448) il Nunzio faceva sapere a Roma, che avendo parlato di nuovo al Vicerè, l'avea trovato "diverso" da quello di prima, perché gli avea detto che non potendo D. Pietro de Vera intervenire come Giudice, avrebbe scritto a Roma e nominato un altro il quale potesse intervenire. Aggiungeva che invano egli avea replicato al Vicerè non esser questo necessario, "perché il fine principale di N. S.re era stato che intervenisse qualch'uno de' Ministri di S. M.tà acciò vedesse come passava la causa, la qual cosa era fatta" (!); dimandava quindi nuovo ordine, poichè aveva saputo dal Notaro della causa che gli Atti, le minute e le sentenze erano in mano del medesimo D. Pietro, né egli poteva andare oltre "senza qualche turbatione", che non gli era parso di dover eccitare mentre la faccenda poteva avere altro rimedio. - Ma il rimedio non poteva essere altro oramai che quello di cedere, poichè si aveva manifesto torto: e nessuno vorrà ritenere che il Vicerè fosse stato mai diverso in cuor suo. Il Conte di Benavente aveva adottato un modo di procedere del tutto opposto a quello del suo antecessore Conte di Lemos. Per quanto costui si era mostrato attivo, insistente, premuroso, personalmente impegnato, altrettanto egli aveva preferito mostrarsi freddo, inerte, distratto, poco informato; e lusingando a tempo la vanità della Curia, mezzo di riuscita sempre sicuro, avea scansato i richiami sulla gravissima decisione da lui presa intorno al Campanella, e fatta anche essenzialmente terminare la causa per gli altri frati, rimanendo perfino le minute delle sentenze nelle mani della persona di sua fiducia. Così, salvata la sostanza, occorreva solo provvedere alla forma, ed egli poteva finalmente scovrirsi ed anche non aver fretta, mentre al Nunzio non rimaneva che zittire. Costui avrebbe potuto e dovuto gridare quando il Campanella venne tradotto al Castel S. Elmo a sua insaputa, ed avrebbe potuto e dovuto ricordarglielo la Curia vedendo che egli non se n'era dato pensiero: ma per appellarsi alle convenzioni stabilite col Governo Vicereale, bisognava non pretendere di trasgredirle.

I frati non cessavano d'insistere per la spedizione della loro causa, ed il 20 agosto(449) il Nunzio ne dava conto a Roma, partecipando essergli stato detto dal Vicerè, in risposta alle sue sollecitazioni, che avrebbe fatto nominare in Roma la persona che desiderava in luogo di D. Pietro de Vera.

E qui, nel Carteggio del Nunzio, cessa ogni altro documento intorno alla causa ed intorno alla persona del Campanella. Vero è che bisogna ammettere senza esitazione qualche lacuna nelle Lettere di Roma, e notare una lacuna evidente di tre registri delle Lettere di Napoli, da' primi di ottobre 1604 al 14 gennaio 1605. I soli documenti di questo periodo, che ci rimangono, son quelli pervenutici con gli Atti processuali inserti nel noto Codice Strozziano: 1° il Breve Papale del 27 ottobre 1604, calcato sull'altro precedente, col quale si ricorda la concessione fatta già al Conte di Lemos, si menziona la lettera ricevuta dal Conte di Benavente circa il matrimonio di D. Pietro de Vera, che "lo stesso Nunzio pretende" aver fatto spirare la facoltà accordatagli, e si nomina D. Giovanni Ruiz de Baldevieto in luogo del De Vera, accordandogli identica facoltà(450); 2° le note marginali, apposte nell'Elenco degl'incriminati a' nomi de' quattro frati de' quali si dovea spedire la causa, ed esprimenti le sentenze per loro emesse, cioè pel Petrolo un triennio in galera, per gli altri il rilascio(451). - Si può dunque ritenere che il Vicerè presentò direttamente a Roma il nome di colui che volea sostituito al De Vera, onde il Nunzio non ebbe ad occuparsene nel suo Carteggio, e che venuto il Breve potè il tribunale tener seduta tutt'al più a' primi di novembre, e senza discussione emettere le sentenze secondo le minute già fatte e ne' termini stabiliti fin dal luglio precedente. Aggiungiamo qui che D. Giovanni Ruiz de Baldevieto o Baldeviescio (come si trova talvolta nominato nelle scritture dell'Archivio di Napoli) era anch'egli membro del Sacro Regio Consiglio al pari di D. Pietro de Vera e di D. Giovanni Sances, ma entrato in ufficio da più fresca data, nel 1602(452). È superfluo poi far avvertire che doveva esser clerico; ed avendo di certo funzionato coll'apporre solo il suo nome alle sentenze, possiamo dispensarci dal discorrere ulteriormente di lui. Intanto la causa del Campanella rimase tuttavia sospesa. Non sappiamo se, ad occasione delle sentenze emesse per gli altri frati, il Nunzio si sia tenuto obbligato di spendere qualche parola col Vicerè intorno a lui: la lacuna sopraindicata, esistente nel suo Carteggio, non ci permette di affermar nulla su tale proposito, ma è un fatto notevolissimo che dal 14 gennaio fino al 16 dicembre 1605, data in cui egli lasciò il suo ufficio, nessuna parola fu spesa intorno al Campanella, sicchè bisogna dire che il povero filosofo rimase e dal Nunzio e dalla Curia Romana affatto dimenticato.

Invece sappiamo che se ne ricordarono gli aderenti suoi, ai quali egli stava realmente a cuore: essi presentarono al Nunzio un memoriale che cominciava con le parole "Ill.mo e Rev.mo Signore, Noi amici, e parenti e discepoli di Fr. Tommaso Campanella Sacerdote della Religione di S. Domenico carcerato in S. Ermo". Questo documento citato dal Nicodemo, e così pure dal Cipriano, dietro una nota rimessa loro dal Magliabechi intorno alle opere manoscritte del Campanella a quel tempo esistenti nella Magliabechiana, può dirsi oramai irreparabilmente perduto(453); e la perdita non sarà mai abbastanza deplorata, massime perché le sottoscrizioni apposte al memoriale, oltre al far conoscere i nomi de' coraggiosi cittadini che soli si diedero pensiero del Campanella, avrebbero anche fatto rilevare il primo nucleo di quella scuola, che andò crescendo più tardi e rappresentò in gran parte la cultura napoletana del secolo 17°, secolo più calunniato che conosciuto. Ignorando la data del memoriale, non si saprebbe nemmeno dire se esso sia stato presentato poco dopo il luglio 1604, allo scopo di reclamare contro i pessimi trattamenti che il Campanella soffriva senza ragione, ovvero sia stato presentato nella fine di ottobre 1604 ed anche più tardi, quando il tribunale era prossimo a riunirsi o si era già riunito per la definitiva spedizione della causa de' quattro frati, allo scopo di ottenere che la causa del Campanella fosse egualmente spedita. Ma quest'ultima ipotesi è la meno plausibile, ed anzi veramente da rigettarsi. Avremo infatti occasione di vedere più in là che a questa data, e fin qualche anno dopo, il Campanella non voleva menomamente che la sua causa terminasse in Napoli, e i suoi aderenti non avrebbero mai agito in controsenso. Ad ogni modo il memoriale rimase tra le carte inutili del Nunzio, verosimilmente con esse andò poi a Firenze, di dove è in sèguito scomparso.

Adunque mentre i frati uscivano di carcere, all'infuori del Petrolo che dovè essere tradotto nello Stato ecclesiastico per servire sulle galere di S. S.tà, il Campanella rimaneva in Castel S. Elmo, indefinitamente carcerato. Nella Narrazione egli disse, che i frati "subito in Napoli et altri in Roma fur aggratiati e diventaro priori et officiali nella religione..." mentre in quanto a lui "non volsero mai permettere che andasse alli carceri di Roma, né che si facesse la causa sua di ribellione a Napoli, perché non poteano condannarlo in altro, e perché non andasse a Roma dove sapean c'havea d'esser liberato. Però con crudeltà et astutia grande lo posero in Castel Santelmo dentro a una fossa oscura 23 gradi sottoterra, sempre alla puzza oscuro et acqua, et quando piovea s'empia d'acqua, e mai ci entrava luce, stava inferrato sopra uno stramazzo bagnato con appena mezzo reale di vitto malamente". Che il Petrolo abbia dovuto essere graziato della galera in Roma, e gli altri dell'esilio in Napoli, bisogna ritenerlo senz'altro, tale essendo il costume della Curia in quel tempo, e ne abbiamo pure veduta qualche cosa in persona di Giulio Contestabile. D'altronde le anzidette deposizioni ultime del Gagliardo, in data del 12 luglio 1606, ci danno notizia che fra Pietro di Stilo nella 1a metà di quell'anno era già nel suo convento in Stilo, non sappiamo se in carica o no; ed un'Informazione presa contro fra Pietro Ponzio in Nicastro in data di dicembre 1604, ci dà notizia che fra Pietro trovavasi allora nel convento dell'Annunziata di Nicastro ed era divenuto abbastanza audace, avendo in Chiesa, ed in presenza del Vicario capitolare, del Clero e di un numerosissimo pubblico, osato d'interrompere e protestare durante la predica di un Cappuccino che sosteneva la credenza dell'Immacolata Concezione(454). Che poi il Campanella sarebbe stato liberato in Roma non possiamo menomamente dubitare: abbiamo veduto qual era la giurisprudenza del S.to Officio intorno a ciò, ed abbiamo fatto avvertire che il Governo Vicereale non poteva non preoccuparsi di questa circostanza, e tanto più ricorrere ad ogni mezzo per non lasciarsi sfuggire di mano l'infelice filosofo. Ma che non sia stato permesso di far la causa della congiura, "perché non poteano condannarlo in altro", deve ritenersi un assurdo, e nel tempo stesso una delle tante affermazioni equivoche, alle quali il Campanella fu troppo sovente obbligato a ricorrere nel resto della sua vita: la causa era stata già fatta, rimanendo solo il dover formulare la sentenza; e dopo la condanna da lui avuta per l'eresia, con la quale egli non era stato riconosciuto pazzo, dopo la condanna per la congiura avuta dagli imputati di second'ordine, dal Contestabile, dal Pittella ed in ultimo luogo dal Petrolo, il Nunzio non avrebbe potuto non condannarlo, né occorre dire che l'altro Giudice, compagno del Nunzio, non avrebbe esitato un momento ad emettere un voto conforme. Infine quanto all'essere stato così duramente trattato in Castel S. Elmo, ed anche all'esservi stato tradotto con crudeltà ed astuzia grande, bisogna accettarlo pienamente. Senza dubbio si diè prova di una grande astuzia, per riuscire a tenere il Campanella nelle mani eludendo i dritti di Roma, e di altrettanta crudeltà nel farlo macerare in quella specie di carceri senza un motivo ragionevole, mentre anche il disegno di evasione era un fatto già vecchio di alcuni mesi. né si può dubitare delle pessime condizioni in cui egli ebbe a trovarsi, poichè qualche notizia contemporanea intorno alle carceri gravi di Castel S. Elmo ce le mostra appunto a quel modo. In sostanza quindi, menzionando i suoi patimenti, egli non esagerò di molto, così nelle poesie e nei libri, che sappiamo aver sempre continuato a comporre coll'assistenza di fra Serafino di Nocera malgrado i rigori che soffriva, come pure nelle parecchie lettere, che conosciamo avere scritte al Papa, a' Cardinali ec. dopochè si era già da qualche tempo deciso a smettere apertamente la sua pazzia: non esagerò menzionando "il Caucaso" in cui si trovava qual Prometeo novello, la fossa nella quale era sepolto, l'acqua che lo bagnava ne' giorni di pioggia, il giaciglio fradicio, il puzzo e il freddo, il vitto poco e sporco da provvedersi con 17 tornesi (40 centesimi), l'inverno e la notte continua "con tre hore sole di luce la sera et il giorno un poco a 22 hore per dire l'officio" sicchè invidiava "alle mosche et a' serpi la mirabile gratia della luce"(455). Egli mostrò allora di attribuire questi crudeli trattamenti al Capitano del Castello amico de' suoi nemici, cioè Carlo Spinelli, Principe della Rocella, Barone di Gagliato, Barone di Bagnara e D. Loise Sciarava, amico de' "Satrapi" che avevano tanto guadagnato coll'ammettere la congiura. Sappiamo che Castellano di S. Elmo era D. Garzia di Toledo, già tornato in quel tempo dalla missione di Governatore di Calabria ultra, e poi, nell'aprile 1605, mandato a Porto Longone qual Commissario della fabbrica di una fortezza, onde talvolta il Campanella si dolse non più del Capitano ma del Luogotenente del Castello(456). D. Garzia dunque, co' suoi "50 leopardi" (i soldati spagnuoli) si sarebbe permesso di trattare così male il Campanella, impedendogli anche di parlare al Vicerè, com'egli avrebbe voluto, e ciò per suggestione de' Satrapi, i quali consigliavano il Vicerè "di non darlo al Papa e non lasciare che si difendesse secondo i canoni e la ragion naturale": ma è chiaro che D. Garzia obbediva agli ordini ricevuti, e verosimilmente li eseguiva con un eccesso di zelo, facendo egli pure, secondo la curiosa espressione del Campanella, "come quelli che son pagati a piangere i morti, che gridano più che li figli e mogli che si doglion davero"; né c'era da fare col Vicerè nuove difese secondo i canoni e la ragion naturale, quando un Breve del Papa aveva definito il modo di trattare la sua causa e questa era stata già trattata, oltrechè una decisione egualmente del Papa avea mostrato chiaramente che non c'era da ritenerlo pazzo.

 III. Nel Castel S. Elmo si chiuse finalmente alla scoperta il periodo della pazzia del Campanella, e si chiuse col suo rivolgersi dapprima al Vicerè per mezzo di fra Serafino di Nocera, mandando ad esporgli taluni suoi concetti che costituivano promesse mirabili pel bene del Regno e quindi in favore del Re; poi col rivolgersi al Nunzio e al Vescovo di Caserta, procurandosi una visita di costoro ed esponendo in essa gli studii fatti e certi suoi concetti intorno alla fine del mondo, gl'inganni avuti dal diavolo e poi le grazie avute da Dio con le rivelazioni vere, onde potea far cose mirabili ad utile del Cristianesimo, delle quali cose presentava l'elenco in un memoriale. A queste prime mosse tenne poi dietro più tardi il suo rivolgersi al Papa, ad alcuni Cardinali ed anche all'intero Senato Cardinalizio, quindi al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria, segnatamente dopochè gli venne procurato l'aiuto di Gaspare Scioppio, inviando lettere che ritessevano la storia delle cose sue, giustificavano la pazzia pregressa, ripetevano le promesse delle cose mirabili in vantaggio della Chiesa e dello Stato, presentavano l'elenco delle opere fin allora scritte, conchiudevano col supplicare che fosse udito e posto alla prova. Indubitatamente ciascuna delle dette mosse del Campanella fu coordinata a certi suoi pensieri, che egli andava esprimendo in varie e successive opere di occasione, alle quali attese col maggiore impegno comunque sepolto in una fossa tanto orribile; e diciamo opere di occasione, perocchè esse furono scritte con lo scopo manifesto di procurarsi grazia presso gli arbitri della sua sorte, presso il Vicerè e gli Agenti del ramo temporale e spirituale della Curia Romana, infine anche direttamente presso la Curia e tutti i potenti capaci di aiutarlo, sforzandosi di far acquistare di sè un miglior concetto nel campo politico e nel religioso, di mostrare quali e quanti servigi egli avrebbe potuto rendere laddove fosse posto in libertà. Riuscirà quindi utilissimo vedere in precedenza le opere che compose, con tutti gli accidenti della composizione di esse, in questo periodo che comprende gli esiti de' processi e che dalla fine del 1602 può protrarsi al 1605-1606, data almeno del termine della pazzia, giacchè il termine del processo della congiura non si vide per lui mai più.

Cominciamo dunque dal ricordare che il 1602 era stato impiegato dal Campanella per una piccola parte nella composizione della Città del Sole, e per la massima parte nella composizione della Metafisica, la quale verosimilmente fu compiuta ne' primi mesi del 1603 (ved. pag. 305). D'allora in poi egli dovè subito metter mano a' 4 libri di Astronomia contro Aristotile, Tolomeo, Copernico e Telesio, indicati anche col titolo De motibus astrorum juxta physica nostra e forse indirizzati alla memoria di Giulio Cortese, come abbiamo detto altrove potersi desumere da un brano dell'opera "Del Senso delle cose" che ha richiamata la nostra attenzione(457). Sulla data di composizione dell'Astronomia non cade dubbio: la troviamo infatti registrata fra le altre opere negli elenchi inviati il 1606 a' Card.li Farnese e S. Giorgio; la troviamo del pari nell'elenco inviato il 1607 al Re di Spagna coll'altro titolo De nova astronomia libri 4 etc., aggiuntovi che erano rimasti "imperfetti", la quale ultima circostanza, motivata con ogni probabilità da' nuovi travagli sopravvenuti, dovè impedirgli di mandare l'opera allo Scioppio nel 1607. D'altra parte la cosa ci è confermata abbastanza dalle deposizioni ultime del Gagliardo, per le quali abbiamo già veduto che nel 1603 il filosofo si occupava di Astrologia e certamente ancor più di Astronomia, avendo per le mani, con quel singolare ripostiglio, il Magino, l'Almanach, il Cardano, senza il quale aiuto non avrebbe in verità potuto trattare una materia simile; e secondo lo stesso Gagliardo ne avrebbe trattato così nel carcere ordinario come nel torrione, vale a dire dal febbraio o marzo al luglio o agosto 1603 ed anche da questa data in poi, fin verso il tempo dell'uscita del Gagliardo dal carcere, vale a dire fin verso il marzo 1604. È verosimile poi, che se non all'entrare nel torrione, almeno quando vide scoperto il disegno di evasione, carcerato il Marchese di Lavello e poi protratta tanto la spedizione della causa della congiura, penetratosi delle circostanze evidentemente aggravate, egli abbia interrotto la composizione della pura Astronomia, e posto mano al trattato De Symptomatis mundi per ignem interituri; infatti questo trattato si vede sempre menzionato come annesso a' libri di Astronomia nelle lettere del 1606-1607 e seguenti, e fu inviato esso solo allo Scioppio nel 1607, senza i libri di Astronomia, col titolo di Prognosticum astrologicum de his quae mundo imminent. Il Campanella poteva servirsene per difesa, essendo ricominciato ad apparire il bisogno di ulteriori difese, e così come già si è visto aver fatto altre volte, egli passava immediatamente a comporre opere adatte a' suoi bisogni: aggiungiamo che il trattato potrebbe ancora trovarsi in qualche Biblioteca, essendo stato mandato allo Scioppio, ma per l'autore andò certamente perduto insieme co' libri di Astronomia, che gli furono tolti dietro una perquisizione ordinata dal Nunzio il 1611, come apparisce dal Syntagma, nel quale per altro la data di composizione di questi libri si mostra esposta in una maniera impossibile. S'intende poi che il Campanella in tutto questo tempo continuò a comporre poesie, e che esse ci furono conservate solamente in parte, rimanendo eliminate le poesie confidenziali. È molto verosimile che debbano assegnarsi alla prima metà del tempo trascorso nel torrione le tre Salmodie, che vennero riportate in ultimo luogo nella scelta data alle stampe, dicendosi nel Syntagma che ve ne furono di quelle servite a rinvigorire gli amici ne' tormenti; esse sarebbero state composte a' primi del gennaio 1603, quando tre de' frati suoi compagni furono tormentati, e bisogna dire che veramente poterono servire pel solo fra Pietro di Stilo. Negli elenchi delle opere inviati a' Cardinali ed al Re si trova anche citata tra le Rime la "Salmodia della legge naturale e divina in tutte cose", ma essendo stati quegli elenchi compilati il 1606-1607, parecchie altre Salmodie poterono essere indicate sotto quella dicitura così generale; tuttavia le tre sopradette appariscono Inni suggeriti dalla speranza di un termine de' travagli, che a quella data poteva sembrare davvero imminente.

Al tempo trascorso nella fossa di Castel S. Elmo appartengono di certo molte opere e la massima parte delle poesie che furono pubblicate; né si può dubitare che fin dal primo momento il Campanella abbia dovuto porre mano alla composizione delle opere, giacchè il numero di esse riferibile a' primi anni della dimora in S. Elmo è davvero sorprendente; e però crediamo che egli abbia dovuto ben presto trovar modo di ottenere da' "leopardi" un maggior numero di ore di luce, alla qual cosa provvidero verosimilmente gli aiuti di fra Serafino di Nocera ed anche le risorse sue proprie, essendo stato sempre stimato tale da comandare al diavolo. Una delle poesie, che apparisce la prima di questo periodo, ce lo mostra rassegnato, come d'altronde era naturale, dovendosi stare a vedere dove la cosa andrebbe a riuscire: alludiamo al "Sonetto nel Caucaso", in cui il Campanella professa inutile il credere la morte un rimedio a' guai, giacchè "per tutto è senso", e conchiude:

"Filippo in peggior carcere mi serra

or che l'altr'ieri: e senza Dio no 'l face,

stiamci come Dio vuol, poichè non erra"(458).

Non abbiamo bisogno di dire che il carcere dell'"altr'ieri" sarebbe il torrione del Castel nuovo. Ma la fossa non consentiva una calma rassegnazione: ben presto egli dovè comporre ancora la "Lamentevole orazione profetale" e un po' più tardi le "Quattro Canzoni in dispregio della morte", così indicate nell'edizione Adami. Infatti la Lamentevole orazione tra gli altri dolori esprime quello per la separazione dagli amici tuttora in carcere, ciò che può riferirsi solamente a' frati lasciati nel Castel nuovo, ed ancora esprime l'apparizione di mostri e di draghi, ciò che fino ad un certo punto accenna all'apparizione de' diavoli, da' quali in più luoghi il Campanella affermò di aver ricevuto travagli nella fossa:

"Qui un mar di guai confuso

pien di mostri e di draghi

sopra di me si aduna,

e 'l tuo furor spirando aspra fortuna".

. . . . . . . . . . . . . .

"Da gli amici disgiunto

sono, e obbrobrio al mio sangue".

. . . . . . . . . . . . . .

"La gente del mio seme

m'allontanasti, e preme

duro carcer gli amici,

altri raminghi vanno ed infelici"(459).

Nelle Canzoni poi in dispregio della morte c'è l'affermazione esplicita di aver visto il diavolo, di gustare già la dottrina di Cristo, di essersi fatto certo dell'immortalità dell'anima, de' futuri premii e pene etc., e nelle note si dice che allora l'autore compose questa Canzone (la 4a) e "scrisse l'Antimachiavellismo", la qual cosa vedremo avvenuta in una data non molto lontana da quella dell'entrata nella fossa:

"Or ch'han visto i miei sensi

non più opinante son ma testimonio,

né sciocche pruove ho di secreti immensi,

già gusto quel che sia di Cristo il pane.

Deh sien da noi lontane

quelle dottrine che 'l celeste conio

non ha segnato; ch'io vidi il Demonio.

Credendosi i Demon malvagi e fieri

indiavolarmi con l'inganni loro,

benchè con mio martoro,

m'han fatto certo ch'io sono immortale,

che sia invisibil più d'un concistoro,

che l'alme uscendo van co' bianchi e neri" etc.(460).

Ben si rileva che il Campanella s'infervorava assai nelle dottrine della Chiesa, e come nelle poesie così vedremo pure nelle prose; ma il lato singolare del fatto è che questo venne determinato propriamente dal diavolo, e potrebbero anche dirsi abbastanza singolari i modi usati da lui nell'esprimere i concetti nuovamente acquistati; vale la pena di farvi attenzione. Non apparisce intanto che egli abbia scritte altre Salmodie nel periodo in esame. La Salmodia metafisicale è assai posteriore, giacchè vi si parla di "sei e sei anni" di pena, di "dodici anni d'ingiurie e di stenti"(461); e per verità le prose l'occupavano anche troppo.

Nel tenersi rassegnato ed in aspettativa, egli non rimase certamente in ozio, e ben presto dovè attendere alla ricomposizione dell'opera Del Senso delle cose, che questa volta scrisse in italiano, come ci mostrano i Codici della Nazionale di Napoli e della Casanatense, la lettera del 1607 allo Scioppio da noi pubblicata, nella quale disse voler tradurre in latino il Senso delle cose e la Metafisica(462), da ultimo anche un brano dell'opera medesima, riprodotto del pari nella traduzione fattane, che venne poi stampata il 1620(463). È verosimile che il Campanella siasi deciso a questo lavoro, perché era di semplice reminiscenza, avendolo già una prima volta fatto in Napoli il 1590, né esigeva essenzialmente l'aiuto di altri libri. Ad ogni modo non dubitiamo di assegnargli la data dell'ultimo quadrimestre 1604, poichè vedremo or ora il Campanella nel gennaio 1605 occupato in un lavoro di altro genere, poi lo vedremo ancora occupato in altri lavori, ed intanto troviamo il Senso delle cose già inserto negli elenchi delle opere compilati il 1606, quindi lo troviamo pure inviato allo Scioppio il 1607; d'altro lato, percorrendo l'opera, vi troviamo citata principalmente la Metafisica  e i libri Astrologici, le ultime opere composte dall'autore, ma non l'Antimachiavellismo e del pari i Machiavellisti, citati in due brani dell'opera che fu poi stampata, d'onde si rileva che l'Antimachiavellismo fu composto veramente più tardi. Così un confronto tra i manoscritti e l'opera stampata, mentre ci conduce a determinare la data di questa ricomposizione in un modo abbastanza esatto, ci mostra pure che i manoscritti debbono dirsi realmente la ricomposizione originaria dell'opera, non una traduzione dal latino fatta per conto di qualcuno poco versato nelle lingue antiche. Abbiamo detto che ci son due manoscritti di quest'opera, in Napoli e in Roma; aggiungiamo che del 4° libro di essa, costituito dalla "Magia naturale", vi sono inoltre più copie, una in Firenze nella Magliabechiana, due ancora in Parigi, nella Bibl. dell'Arsenale n.° 14 e in quella di S.ta Genoveffa n.° 15. La dicitura italiana vi si mostra oltremodo rozza; alcune parole esprimenti gli organi sessuali e gli atti generativi non si potrebbero ripetere, e si direbbe aver l'autore sentita l'influenza del linguaggio dell'ergastolo nel torrione e in S. Elmo. Il Berti, ispiratosi senza dubbio alla lettura della Monarchia di Spagna, degli Aforismi etc., ha giudicato che "queste versioni italiane... fatte per lo più con correzioni e purgatezza si potrebbero raccogliere e pubblicare"(464); ma si tratta in realtà di composizioni originarie, ed alcune tra esse, in particolare quella Del Senso delle cose, sono tutt'altro che purgate. Notiamo poi nell'opera, sotto il punto di luce del nostro argomento, il ricordo di fra Pietro di Stilo più volte e quasi sempre in termini affettuosi; il ricordo analogo di D. Lelio Orsini due volte; fino ad un certo punto il ricordo anche de' Ponzii, là dove, recando un esempio, dice, "et così nel senso che quando vedo Pietro mi pare vedere Dionisio perché simigliano". Notiamo ancora il ricordo indiretto del trovarsi carcerato, là dove, parlando della calamita, dice, "non sò se miri al polo antartico, che non mi lice parlare a' naviganti" (nella trad. lat. "non licet misero navigantes interrogare"); dippiù il ricordo dell'essere a lui pure riuscito, come all'Orsini, di atterrire con lo sguardo e con la voce coloro i quali lo teneano preso, alludendo con ogni probabilità ai momenti più acuti della sua pazzia; e da ultimo il ricordo che "li profeti hoggi si chiamano brabanti (leg. birbanti) et sciagurati dall'empio volgo", alludendo in modo chiarissimo alle condizioni proprie. Ma sopratutto crediamo notevoli varie affermazioni che si direbbero ostentati ripudii delle accuse mossegli nel processo di eresia, e in ispecie le ripetute affermazioni dell'esservi angeli e diavoli indubitatamente, dell'essere "empia" l'opinione che non esistano demonii ma solo esorbitanze d'umore melanconico, dell'essere "una sfacciataggine" negare che l'uomo comunichi con gli angeli e demonii e con Dio; alle quali affermazioni si trovano associate le altre, che "per esperienza propria" avea conosciuto solamente diavoli, i quali gli erano apparsi e si erano sforzati di fargli credere la trasmigrazione delle anime e la mancanza di libero arbitrio, oltrechè gli avevano predette cose vere e false, ed egli avea pregato Dio che gli facesse vedere angeli buoni e non l'avea "mai impetrato", ma era diventato per la malignità del diavolo "più huomo da bene". Taluna di queste proposizioni, così spinte, fu poi alquanto smussata nella traduzione, e così "la sfacciataggine" fu detta "imprudentia": ma l'essere "divenuto più huomo da bene" si elevò a "sanctior evasus"; e in tutti i conti il Campanella aggiunse con asseveranza, "né questa è esperienza de sciocco né(465) di bugiardo, che dell'uno et dell'altro sempre mi guardai più che del diavolo stesso", ciò che fu tradotto "nec experientiam narro imperiti, timidi, vel mendacis hominis, utrumque enim vitavi semper sicut pestem diram". Intanto nell'ultimo libro dell'opera si trova notata un'altra circostanza, ma in modo assai oscuro: "Porfirio e Plotino aggiungono che vi siano gli Angeli buoni et perversi, come ogni dì si vede esperienza et io ne ho visto manifesta prova, non quando la cercai, ma quando pensava ad altro (lat. non quando investigatione avida id tentavi sed quando aliud intendebam); però non è meraviglia se al curioso Nerone non sono comparsi": ignoriamo a quale momento il Campanella alluda, ma parlandosi della curiosità di Nerone non soddisfatta, e sapendosi che Nerone volle vedere i diavoli senza potervi riuscire, è certo che finqui il Campanella, ripetendo quanto cantava nelle Poesie, non aveva ancora progredito al punto da essergli comparsi angeli, come poi gli comparvero più tardi, essendosi sempre più ingolfato nelle dottrine de' Santi. Da ciò rimane anche chiarita la data di questa ricomposizione in italiano dell'opera Del Senso delle cose(466).

In gennaio 1605 abbiamo ragione di credere che il Campanella siasi occupato de' due opuscoli intitolati Del Governo del Regno e Consultazione per aumentare le entrate del Regno. Lo argomentiamo dal fatto che in questo tempo appunto, dopo di avere aspettato invano qualche provvedimento intorno alla sua persona, dovè uscire dal raccoglimento, non far più un mistero delle sue buone facoltà intellettuali, e sotto gli auspicii di fra Serafino di Nocera trasmettere proposte e promesse mirabili al Vicerè, naturalmente per conquistarne la grazia ed essere chiamato innanzi a lui. Certamente le proposte doverono essere analoghe a quelle espresse negli opuscoli, e naturalmente questi non si potevano ancora presentare, senza svelare e compromettere la comodità di scrivere di cui il prigioniero godeva; mentre poi era pure necessario che fra Serafino, il quale dovea presentare tali proposte, ne avesse avuto un cenno scritto, vale a dire avesse avuto gli opuscoli, i quali ne trattavano. D'altronde sappiamo che almeno la Consultazione fu poi data allo Scioppio separatamente dalle altre opere, ma nello stesso periodo di tempo, un poco prima o un poco dopo della data in cui le opere furono inviate, come apparisce da una delle lettere del Campanella pubblicate da noi(467); sicchè laddove sia corso un qualche intervallo tra l'aver ventilate le proposte e l'averle scritte, esso sicuramente non fu molto lungo. L'opuscolo Del Governo del Regno non è pervenuto sino a noi; la Consultazione col titolo di Arbitrio o Discorso primo sopra l'aumento dell'entrate del Regno di Napoli, fu scoperta dal Dragonetti nella Casanatense e poi con accurato lavoro pubblicata dal D'Ancona. Quantunque relativa ad un tema niente affatto biblico, il Campanella, pur facendo proposte non indegne di considerazione, vi fa campeggiare la Bibbia largamente e vi si mostra un fervido religioso: e dev'essere notato che malamente nel Syntagma fu scritto essere stata diretta "al Conte di Lemos", ciò che rimanderebbe la cosa al 1610. Fin dalle prime parole dell'opuscolo si vede che l'autore si dirige ad un Vicerè tenerissimo dell'annona, e sappiamo che il Conte di Benavente se ne occupò davvero con un'attività e severità straordinarie: nell'ultima pagina poi, evidentemente aggiunta con alcune altre dopo che si riuscì a far accogliere l'opuscolo dal Vicerè, è detto che il Torres Segretario di S. E. lesse l'opuscolo; e sappiamo dal Capaccio, come dal Parrino, che D. Baldassare Torres fu Segretario del Conte di Benavente con autorità eccessiva, tanto che le popolazioni assai se ne dolsero, ma assai più si dolsero poi di averlo perduto. - Lo stesso dobbiamo dire di due altri Discorsi, qualificati secondo e terzo, che abbiamo trovato nella Casanatense al sèguito del precedente e che diamo oggi alla luce, essendo parte integrante della Consultazione, siccome mostra anche il cenno fattone dallo Scioppio in una delle sue lettere pubblicate non ha guari dal Berti(468). Mentre il primo tratta propriamente dell'annona, il secondo tratta della moneta scadente o falsa, e il terzo della pena di morte. Da ognuno di questi articoli il Campanella intende trarre un utile di 100 mila ducati pel Governo, 300 mila in tutto, mercè provvedimenti benefici in pari tempo alle popolazioni; ma l'aumento dell'entrate è il suo scopo principale, sicchè le sue proposte riescono vere proposte di occasione, fatte per rendersi propizii i potenti, come già abbiamo annunziato fin da principio verificarsi ampiamente nelle opere del periodo attuale. Il Dragonetti non pose mente a questo fatto nel giudicare il Discorso primo relativo all'annona, e però tanto più crediamo necessario farlo rilevare.

In sèguito, dal febbraio al luglio 1605, rivolgendo i suoi sguardi al Papa, dopo di averli inutilmente rivolti al Vicerè, il Campanella dovè porre mano alla Monarchia del Messia coll'annesso capitolo De' dritti del Re di Spagna sul nuovo mondo, ed ancora alla Ricognizione della Religione secondo tutte le scienze contra l'anticristianesimo machiavellistico, cui lo Scioppio volle poi dare invece il titolo di Atheismus triumphatus. Lo argomentiamo dal fatto che appunto nel luglio 1605 o qualche mese più tardi secondo i nostri còmputi che più sotto esporremo, il Campanella si procurò la visita del Nunzio e del Vescovo di Caserta dicendo di volersi accusare, e manifestò in essa i principii che andava svolgendo nelle dette opere, essere sicuramente venuto il tempo di "far una greggia et un Pastore", avere "esaminato la fede con la filosofia Pitagorica, Stoica, Peripatetica, Platonica, Telesiana e di tutte sette antiche e moderne" etc. etc., ed avere "con tutte le scienze finalmente humane e divine assicurato se stesso et gli altri che la pura legge della natura è quella di Christo a cui solo li Sacramenti son aggiunti" etc.; con singolari affermazioni di aver ottenuto da Dio rivelazioni e potestà di difendere il Cristianesimo dopo di essere stato con altri ingannato dal diavolo, potestà perfino di far miracoli etc. La Monarchia del Messia fu scritta in italiano, messa da parte una volta e ripigliata tra mano più tardi; molto più tardi poi fu tradotta in latino. Ne esistono ancora in italiano una copia in Lucca, nel codice 2618 più volte citato, due in Parigi, nella Bibl. nazionale n.° 985, e nella Bibl. di S.ta Genoveffa n.° 3, inoltre una in Londra, nel Brith. Mus. n.° 2255. Il non trovarsene alcuna nelle Bibl.e di Napoli ci ha tolto di poter vedere se e quali differenze vi siano tra il manoscritto in italiano e il libro che fu poi stampato in latino a Jesi nel 1633; ma crediamo bene che non vi siano differenze contemplabili, sapendo per prova che il Campanella nelle traduzioni è stato sempre fedele alle composizioni originarie (salvo il caso in cui qualche brano fosse riuscito troppo spinto in un senso o in un altro), forse perché le composizioni originarie si trovavano sempre già diffuse nel pubblico ed egli non volea mostrare di aversi a correggere. Naturalmente nella Monarchia del Messia la Bibbia campeggia in modo quasi esclusivo. Allorchè la diede alle stampe, disse in una prefazione che il libro si connetteva agli altri anteriori della Monarchia del Messia; e così dicendo ci pare che abbia alluso alla "Monarchia de' Cristiani" e al "Governo della Chiesa", mentre quando cita la prima di queste due opere nell'elenco mandato il 1606 al Card.l S. Giorgio, dice che essa offre i soli primi fondamenti, poichè egli "anchora non haveva proceduto nelle leggi e profezie, ma solo per historia politica e natura", e quando la cita nella lettera latina al Papa, la chiama addirittura "Monarchia del Messia". Ma la Monarchia del Messia di cui qui parliamo non si trova registrata negli elenchi mandati il 1606-1607 a' Cardinali e al Re di Spagna, e si trova poi nell'elenco mandato in giugno o luglio 1606 allo Scioppio: ciò vuol dire che essa fu condotta a termine solamente verso quest'ultima data, né deve sorprendere che non si trovi nell'elenco mandato al Re, che è quasi contemporaneo, poichè conveniva poco nominarla al Re, al quale si vede anche la "Monarchia universale de' Cristiani" annunziata col titolo di "Monarchia universale alli Principi Christiani". - Quanto all'Ateismo debellato (lo chiamiamo fin d'ora così pel vantaggio della brevità), esso dovè essere scritto fin dall'origine in latino, ovvero, se fu cominciato in italiano, dovè essere presto tradotto e poi compiuto in latino acciò potesse meglio servire allo Scioppio, per cui fu compiuto ed a cui fu dedicato; e può dirsi che precisamente al tempo nel quale fu menato a termine, il Campanella abbia abbandonato il costume di comporre dapprima in italiano per poi tradurre in latino. Sicuramente fu menato a termine del pari verso la metà del 1607, essendo rimasto interrotto per qualche tempo: difatti esso si trova già chiaramente indicato nelle lettere del 1606 a' Cardinali, ma quasi in un poscritto, non figurando negli elenchi delle opere ad essi mandati, ed invece figura nell'elenco del 1607 mandato al Re, col titolo "La esamina di tutte le sette del mondo a paragon del Vangelio con la ragion comune e di tutte scole" etc.; la qual cosa contribuisce a dimostrare quanto abbiamo sostenuto nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella circa la data della lettera al Re, assegnandole probabilmente quella del giugno 1607, mentre appunto verso tale data l'Ateismo fu certamente compiuto e mandato allo Scioppio con tutte le altre opere disponibili. Dovrebbe anzi dirsi che il Campanella vi abbia lavorato fino all'ultima ora, se si trovasse realmente esatto quanto affermò lo Struvio, che cioè nella copia mandata allo Scioppio tutta la materia dal cap. 7° all'11° fu scritta di mano dell'autore. Senza pretendere menomamente di dare un cenno qualunque di tale opera, meravigliosa per essere stata scritta in una fossa e lungi dal corredo opportuno di libri che ad ogni altro sarebbero stati indispensabili, ci limiteremo a far avvertire che essa era destinata a mostrare come l'autore oramai, perfino co' soli lumi della filosofia e della critica, fosse giunto a convincersi profondamente della verità della fede di Cristo, e si sentisse tutto fuoco e fiamme contro gli Atei, contro gli Anticristiani, contro i Machiavellisti e il Machiavelli; che al tempo medesimo essa era destinata a rappresentare la confutazione e la condanna delle tante accuse mosse all'autore col processo di eresia, la sua professione di fede ardente, in modo da farlo stimare capacissimo d'imprendere e conseguire cose grandi, qualora, s'intende, fosse stato posto in libertà. Dedicata poi allo Scioppio, che appariva l'unico aiuto possibile e che era noto per la rabbia fanatica ed insolente contro i suoi antichi correligionarii, l'opera riuscì forse anche per questo assai piccante, e però venne a procurare giudizii molto ostili all'autore da parte degli Acattolici, senza nemmeno conciliargli la benevolenza del Capo del Cattolicismo. Per noi riescono notevoli sopratutto alcune parti di essa, che offrono la confutazione di cose particolarmente addotte nel processo di eresia e contemplate con molta puntualità: così accade p. es. a proposito dell'Eucaristia, ove si parla della "contumelia vermium, muscarum et murium", e si muove la quistione "cur irrisa Eucharistia miracula non facit semper"; egualmente a proposito della "religio colendi imagines", del "colere Crucem in qua repraesentatur crucifixus", del "peccatum Adae", del "transitus maris rubri", etc. etc. Notevoli riescono inoltre le narrazioni circostanziate, ma pur sempre oscure, di quel tale astrologo che istruì un giovane incolto ad invocare gli angeli de' pianeti, d'onde si ebbe la comparsa di diavoli e una quantità di rivelazioni, con la conclusione che essi separarono poi il giovane dall'astrologo e lo trassero a morte violenta: non può qui non colpire che il Campanella parli di un astrologo, e taccia delle posteriori comparse di angeli con le rivelazioni e facoltà ottenute, mentre, al tempo in cui il libro fu compiuto, già con le sue lettere del 1606 al Papa e a' due Cardinali aveva affermato essere stato quel giovane istrutto da lui medesimo, ed avere poi lui medesimo visto altri diavoli e da ultimo angeli; si direbbe che nell'opera egli avesse avuto ritegno di esprimere apertamente quanto si era permesso di esprimere nelle lettere confidenziali(469). E si sa che lo Scioppio non tradusse in tedesco l'opera né la pubblicò, come l'autore desiderava, e dovè l'autore medesimo pensare a pubblicarla quando divenne affatto libero, nel 1630, ma fu obbligato ad aggiungervi in alcuni punti le autorità de' S.ti Padri, mutando lo stile filosofico in teologico; che più tardi, perfino dopochè l'opera era stata ampiamente approvata e pubblicata, vi si trovarono altri appicchi né si consentì che fosse ripubblicata, e in somma Roma finì per non rimanerne contenta. Si sa d'altro lato che presso gli Acattolici l'avere spiattellato tutti gli argomenti degl'increduli, come pure l'averla tirata troppo contro il Machiavelli, diè motivo di far dubitare della sincerità dell'autore. Ma basta aver chiarita l'occasione nella quale l'opera fu scritta, meritando senza dubbio tale occasione di essere molto bene considerata.

Diremo ora in breve delle altre opere appartenenti a questo stesso periodo, scritte fra le interruzioni delle precedenti, secondochè le circostanze le facevano apparire all'autore più o meno atte a procurargli la libertà. Dopo l'agosto 1605 egli ebbe verosimilmente ad occuparsi de' due trattati, de' quali si trova fatta menzione negli elenchi delle opere mandati a' Cardinali Farnese e S. Giorgio, col titolo Cur sapientes et prophetae Nationum omnium in magnis temporum articulis fere omnes rebellionis et heresis tamquam proprio simul crimine notentur ac morti violentae subjaceant, et postmodum cultu et religione reviviscant": l'esito del suo colloquio col Nunzio e col Vescovo di Caserta spiega ad un tempo l'interruzione dell'Ateismo e la convenienza de' detti trattati; pertanto è notevole che essi non si trovino registrati nell'elenco mandato in sèguito al Re. Forse l'autore stimò più conveniente metterli da parte dirigendosi all'Autorità civile, mentre vi si parlava della "morte violenta de' filosofi" come di un affare ordinario e consueto; forse anche egli li fece presentare appunto al Nunzio e al Vescovo di Caserta non appena li compose, e così potrebbe pure spiegarsi che siano andati perduti; infatti non li troviamo nemmeno nell'elenco delle opere mandate allo Scioppio. - Il titolo medesimo de' detti trattati ci mena a ritenere che subito dopo egli abbia posto mano alla ricomposizione degli Articoli profetali con una maggiore ampiezza, quali son pervenuti, tuttora manoscritti, fino a noi: essi figurano negli elenchi mandati così a' Cardinali come al Re con la nuova intestazione, De eventibus praesentis saeculi Articuli prophetales 18. La nuova intestazione e il numero degli Articoli mostrano bene che non si tratta qui degli Articoli primitivi; il numero medesimo mostra che al tempo in cui l'autore redigeva i detti elenchi, gli Articoli non erano compiuti ancora, poichè egli credeva che dovessero raggiungere il n.° di 18, ed invece non oltrepassarono il n.° di 16, come si trovano in più Biblioteche(470). D'altronde sappiamo che nel giugno o luglio 1607 il Campanella non potè o non volle ancora mandarli allo Scioppio, il quale vivamente li desiderava trovandosi impegnato in una quistione circa l'Anticristo, provocata da una sua opera su tale argomento; e una lettera posteriore del Campanella, da noi pubblicata, mostra che in novembre 1608 erano già pronti, sicchè per essi bisogna contare un anno iniziale 1605-1606 e un anno finale 1608. - Ma ecco ancora un'altra opera, per la cui composizione dovè rimanere interrotta egualmente quella degli Articoli, vogliamo dire i tre libri intitolati Antiveneti, a' quali è del tutto naturale assegnare la data della fine di agosto e mesi seguenti 1606, non appena l'autore ebbe notizia dell'interdetto lanciato dal Papa Paolo V contro Venezia, come si desume dalla 1a e 2a lettera al detto Papa pubblicate dal Centofanti: a questa data il Campanella diè fuori febbrilmente le rivelazioni del diavolo e quelle dell'angelo, alle quali i fatti di Venezia si prestavano in un modo magnifico; gli Antiveneti doverono essere composti con ottima vena in un tempo relativamente breve, e si trovano registrati nell'elenco delle opere mandate allo Scioppio. - Inoltre, un po' più tardi, egli dovè senza dubbio ricomporre ed ampliare i Discorsi a' Principi d'Italia, che dapprima verosimilmente erano in una forma più ristretta; lo si può argomentare anche vedendo che gli elenchi inviati a' Cardinali recano "Un discorso a' Principi" etc., mentre le copie manoscritte che tuttora ci rimangono in gran numero sono abbastanza voluminose recando 11 o 12 discorsi, e, ciò che più monta, citano tutte assai spesso non solo la Monarchia di Spagna, ma anche la Monarchia del Messia, il Discorso de' dritti del Re Cattolico sul nuovo mondo, gli Articoli profetali; né vi manca (alla fine del disc. 7° od 8° secondo le diverse copie) una menzione dell'"empio Machiavello" che ricorda troppo l'Ateismo debellato appena compiuto e forse non ancora compiuto(471). La data di siffatto lavoro può dirsi quella de' primi mesi del 1607, quando Cristoforo Pflugh fece acquistare al Campanella la conoscenza dello Scioppio, che appunto allora fu nominato Consigliere Austriaco e designato dal Papa ad andare invece del Nunzio al Congresso di Ratisbona. Tutte queste circostanze di tempo di luogo e di persone, che si vedranno giustificate più in là, fanno intendere le opinioni manifestate dal Campanella ne' Discorsi, i quali doveano servire a rendergli propizii il Re di Spagna, l'Imperatore e gli Arciduchi di Austria. Aggiungiamo che specialmente dopo di avere acquistata la conoscenza di Gaspare Scioppio, ed anche del medico Gio. Fabre di Bamberga residente in Roma, nel corso del 1607 e in parte nel 1608, il Campanella ebbe a scrivere diversi opuscoli epistolari, come quello Sul modo di evitare il freddo, quello Sulla sordità e l'ernia, e gli altri tutti da noi pubblicati, cioè Sulla peste di Colonia, Sul modo di evitare il calore estivo, Sul Peripateticismo, Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo, Sul Pieno e sul Vacuo; avremo occasione di parlarne nel corso della nostra narrazione(472).

Possiamo oramai venire al racconto de' particolari di ciò che il Campanella imprese per uscire dalla fossa di Castel S. Elmo e riacquistare la libertà: egli medesimo ne parlò segnatamente nelle lettere che scrisse più tardi, in agosto 1606, al Papa Paolo V e al Card.l Farnese; e da questi fonti possiamo attingere le principali notizie ed anche argomentare le date approssimative degli avvenimenti, alle quali siamo sempre usi di annettere molta importanza(473). "Dopo 5 mesi di stento" (così egli si espresse) propose al Vicerè di fare in servizio del Re cose mirabili, che importavano più che tre regni con aver parole del cielo, ma il Principe non volle ascoltarlo né cavarlo da quella fossa orrenda, né dargli agio di scrivere quelle cose né di difendersi; "dopo 6 mesi" ottenne con arte di parlare al Nunzio e al Vescovo di Caserta, dicendo che si voleva accusare (vedremo tra poco in qual maniera si accusò e quali risposte ne ebbe), ed erano scorsi già "10 mesi" senza che potesse trovar credito (tale è il significato della espressione volgare da lui adoperata, "aver udienza"). Fermandoci dapprima alle date, ammesso il trasporto del Campanella a S. Elmo nel luglio 1604, abbiamo che egli si sarebbe rivolto al Vicerè nel gennaio 1605, e poi avrebbe ottenuto di poter parlare al Nunzio e al Vescovo di Caserta nel luglio dello stesso anno; così il 13 agosto 1606 erano scorsi all'incirca dieci mesi, e diciamo "all'incirca" perché vi sarebbe una differenza di poco oltre due mesi, i quali del resto avrebbero potuto essere scorsi dalla data dell'assentimento ad una visita alla data della visita fatta; tenuto conto della stagione la cosa riuscirebbe naturalissima, ed allora il colloquio dovrebbe dirsi avvenuto in settembre od ottobre 1605. D'altronde non deve sfuggire che se si ammettesse il trasporto a S. Elmo avanti il luglio 1604, il conto non potrebbe tornare in alcun modo, e però le date anzidette sono le approssimative unicamente possibili. In qual modo il Campanella abbia fatte le sue proposte al Vicerè, emerge precipuamente da ciò che sappiamo intorno a' suoi opuscoli Del Governo del Regno, e Consultazione sopra l'aumento delle entrate. Dovè presentarsi fra Serafino di Nocera, esporre principalmente i rimedii escogitati intorno all'annona, che tanto teneva occupato il Conte di Benavente, poi anche quelli intorno alla moneta scadente e alla pena di morte nel senso di far guadagnare altri 200 mila ducati, ed indicare la provenienza di ciò che aveva esposto mettendo fuori il nome del Campanella, capace di queste e di molte altre cose mirabili; ma non dovè trovare buona accoglienza, e così il Campanella potè poi dire che il Principe non volle ascoltarlo. Parrebbe che fra Serafino avesse anche sollecitato pel Campanella, ed inutilmente, il permesso di porre in iscritto le sue idee; ma se così passarono realmente le cose, non potrebbe trarsene la conseguenza che il Campanella non avesse già scritti questi rimedii intorno alle entrate, ed anche altri libri, poichè conveniva tenere tale fatto nascosto. Le sue "cose mirabili" furono ricordate egualmente nelle lettere del 1606 ai Cardinali, nella lettera del 1607 al Re, e tanto più tardi ancora nel Memoriale del 1611 al Papa che pubblicò il Baldacchini, non senza un qualche miglioramento ed accrescimento ulteriore: a capo di esse nel 1606-1607 troviamo sempre, e sotto pena della mutilazione di una mano nel caso di menzogna, il far aumentare le rendite nel Regno di 100 mila scudi oltre l'ordinario, appunto ciò che si legge ne' primi versi della Consultazione; poi vengono altre promesse, far guadagnare per una volta 500 mila scudi per una impresa importantissima a tutti i negozii d'Europa, fare un libro ove si mostri venuto il tempo di riunire tutte le genti sotto una sola legge ed un principato felicissimo etc., fare un altro libro segreto al Re ove si mostri il modo di arrivare a questa monarchia, e così tante altre cose atte ad eccitare l'estro del soprannaturale e l'ingordigia terrena(474). Molte di queste cose erano evidentemente "parole di cielo", e del resto la Consultazione medesima si vede saper tanto di cielo che è un piacere. Malgrado ciò, non fu possibile piegare l'animo del Vicerè, come non fu possibile nemmeno di piegar l'animo del Papa in sèguito. Intanto il Campanella mostrava che la sua pazzia era finita; e siamo in grado di esporre l'esito finale delle dette pratiche, poichè dagli ultimi brani di ciascun Discorso della Consultazione, aggiunti come poscritti più tardi, se ne può rilevare qualche notizia. Solamente dopo alcuni anni l'opuscolo venne accolto in Palazzo, ove fu portato dal P.e Pegna (un P.e Gaspare Pegna forse Domenicano, del quale non ci è riuscito finora saper altro), e il Segretario Torres, che lo lesse, approvò taluni mezzi in esso suggeriti, contro altri fece varie obiezioni alle quali il Campanella rispose. In particolare circa l'annona il Torres comandò che l'autore scrivesse sopra un altro punto: ma il Campanella fece sapere che ne avea scritto nella Monarchia già mandata al Re, appellandosi al Vescovo di Monopoli il quale l'avea letta, e si rifiutò di scriverne ancora volendo essere "inteso a bocca" da S. E., costante desiderio che non fu mai esaudito. L'appello al Vescovo di Monopoli ci mostra che tutto ciò dovè accadere non prima del 1608, quando già al Campanella erano state procurate molte commendatizie presso il Vicerè, come sappiamo da altri fonti, e il Vescovo di Monopoli P.e Gio. Lopez Domenicano, rinunziata la sua Chiesa per grave età, e giunto in Napoli, vi era trattenuto dal Vicerè qual suo Consigliere intimo, sino a che gli fu concesso di ritirarsi a Valladolid sua patria(475).

Fermandoci alle mosse del Campanella nel 1605, riuscita inutile quella fatta in gennaio presso il Vicerè, dicevamo che in luglio ne fece un'altra presso il Nunzio e il Vescovo di Caserta: e qui innanzi tutto dobbiamo avvertire che Nunzio era ancora l'Aldobrandini, ma Vescovo di Caserta era fra Diodato Gentile, successo già al Tragagliolo nel Commissariato generale del S.to Officio in Roma, e poi successo al Mandina defunto nel Vescovato di Caserta, con exequatur del 24 luglio 1604, occupando del pari la carica di Ministro della S.ta Inquisizione nel Regno. Senza dubbio per far uscire il Nunzio dalla sua apatia verso di lui, il Campanella disse di volersi accusare, onde il Vescovo di Caserta fu chiamato ad intervenire egli pure; e così il Campanella potè anche dire di averli chiamati "con arte". Naturalmente, più o meno presto, essi doverono recarsi a S. Elmo, ed ivi in qualche sala ascoltare il Campanella, ma non videro la sua prigione: questo leggesi in un altro brano della lettera a Paolo V, ove il Campanella racconta che Mons.r Nunzio vide il carcere di fuori, e per non avere a contradire al Vicerè non entrò né mandò a vederlo, e disse che era buono, "nel modo ch'ogni sepoltura par buona di fuori". Ecco ora il discorso del Campanella e le osservazioni de' due Vescovi; sarà meglio far parlare il Campanella medesimo: "M'accusai come, per mancanza dello spirito, che trovai tra' Cristiani molto difformi dell'antichità e profession nostra, mi risolsi ad esaminar la fede con la filosofia Pitagorica, Stoica, Epicurea, Peripatetica, Platonica, Telesiana e di tutte sètte antiche e moderne, et con la legge delle genti antiche e d'Ebrei, Turchi, Persiani, Mori, Chinesi, Cataini, Giaponesi, Bracmani, Peruani, Messicani, Abissini, Tartari, et com'ho con tutte le scienze finalmente humane e divine assicurato me stesso et gli altri che la pura legge della natura è quella di Christo, a cui solo li Sacramenti son aggiunti per aiutar la natura a ben operare con la gratia di chi l'ha dati; et che son pur simboli naturali et credibili: et vidi come Dio lasciò tante sètte caminare, e la mancanza dello spirito in noi, e lo scompiglio della natura e suo fine. Onde son fatto possente a difensar con tutto il mondo il Christianesmo; che fui sentinella fin mò dell'opere di Dio. E come la divina Maestà disegna in questo tempo far una greggia et un Pastore, e 'l giudicio dell'errore di tante nationi, e quel che soprastà al Christianesmo: e li sintomi celesti et terrestri del mondo morituro per fuoco, contra li filosofi con S. Pietro et Heraclito. La difficoltà del mondo nuovo, e dell'incarnatione et altri articuli difficultosi, l'esamina delle profetie e miracoli veri e falsi d'ogni setta. Et com'io et altri fummo ingannati dal diavolo aspettando scienza e libertà da lui, credendoci che fosse Angelo, e poi Dio, secondo si fingeva; e come, dopo lunga dieta, Dio benigno condescese al mio desiderio, che mai non fu maligno, se fu erroneo: e presentai memoriale di questa, e molti capi di cose faciende ad utile del Christianesmo. Nondimeno Monsignore Nuntio rispose ch'io era poco humile. Non so se l'ha fatto per provarmi: perché ben so ch'è scritto nella Sapienza: Qui intuetur illam permanebit confidens: et che l'humiltà è magnanima et non vile, et io certo so che mai non ho bramato dignità né honori, et a tutti vilissimi servitii ho posto mani. Sed neque me ipsum judico. Monsignor di Caserta fece conseguenza, ch'havendo io vagato per tante sètte, e cercato li miracoli veri e falsi, e le profetie e la novità del secolo, com'egli lesse nel mio processo in Roma, non havevo cattivato me ad ossequium Christi: e che mò voglio far miracoli falsi per scampare o allungar la vita. Ben fanno a non creder subbito; ma negarmi l'esperienza, o scriver a V. B. che "non la voglia vedere, è un negar lo spirito di Dio, che ubi vult spirat, et seguir lo spirito degli huomini: Venite cogitemus adversus Jeremiam" etc. Così il Campanella mostrava anche da questo lato che la sua pazzia era finita e già da qualche tempo, tanto che avea visto anche con altri il diavolo, e poi, dopo lungo aspettare in penitenza, Dio l'aveva esaudito ed oramai si sentiva in grado di far cose mirabili ad utile del Cristianesimo. Quali abbiano dovuto essere queste cose, delle quali diè "molti capi", si può comprenderlo dagli elenchi più volte indicati, estraendo da essi i capi relativi appunto all'utile del Cristianesimo: dovè quindi promettere di far il libro in dimostrazione della prossima fine del mondo coll'unione di tutte le genti costituendo una gregge ed un solo pastore, far il libro contro i politici e Machiavellisti, un libro per convertire i Gentili delle Indie orientali, un libro contro i Luterani, ed andare in Germania ottenendovi la conversione di due Principi protestanti e il discredito completo di Calvino, fare al ritorno 50 discepoli contro gli eretici etc. etc. Di certo egli dovè promettere anche di far miracoli, come non cessò poi di prometterli più o meno esplicitamente fino al 1611; ed anche nella sua prima lettera al Papa e in una lettera posteriore allo Scioppio, pubblicate entrambe dal Centofanti, si dolse che il Nunzio e il Vescovo di Caserta avessero chiamato finzioni, delirii od astuzie, per uscire dal carcere, i suoi presagi, i suoi segni nel sole, luna e stelle, e i miracoli che avrebbe fatto per costringere ogni anima a riconoscere il Vangelo. Questo d'altronde emerge dalle osservazioni medesime fatte da costoro, quali il Campanella le narrò al Papa, da doversi dire in verità rispondenti a quanto sappiamo del carattere dell'Aldobrandini, che ci è abbastanza noto, e del Gentile, che parecchi documenti ci mostrano spietato ed esorbitante non meno del Mandina(476). Secondo il nuovo Vescovo di Caserta, il Campanella voleva "far miracoli falsi per scampare od allungar la vita"; sicchè, nel concetto di questo Vescovo, pel disgraziato filosofo si trattava sempre di avere a perdere la vita più o meno presto. Dobbiamo intanto dire che il Vescovo di Caserta, per parte sua, ebbe a scrivere qualche cosa a Roma intorno a tale colloquio, ma il Nunzio non scrisse certamente nulla, come ci mostra il suo Carteggio del 1605, ultimo anno di ufficio per lui: che anzi in una sua lettera del 24 agosto 1605 al Card.l Valenti, tenuto allora provvisoriamente da Papa Paolo "nel luogo che si sogliono adoperare i proprii nipoti", passando a rassegna, per sua giustificazione, i casi di torto giurisdizionale da lui trattati, egli non citò punto il caso del Campanella, e quindi dalla parte del Nunzio, non meno che dalla parte di Roma, rimaneva non curato il torto ricevuto in persona del povero filosofo, contentandosi che la sua causa non fosse spedita. Dalla parte del Campanella poi ognuno avrà notato come, tanto presso il Vicerè, quanto presso il Nunzio, egli non fece la menoma richiesta che la sua causa fosse spedita; né veramente espresse mai più un desiderio simile per lungo tempo, se non sotto certe condizioni.

Scorsero non meno di 10 mesi dal detto colloquio, e il 13 agosto 1606 il Campanella si spinse a rivolgersi direttamente al Papa, moltiplicando anche questa volta i reclami e le lettere in più sensi e non trovando requie per molto tempo. Sicuramente tanto ritardo non provenne dall'essersi rassegnato, e lo dimostrano i gridi di dolore che sovente erompono nelle dette lettere; ma bisogna dire che egli non nutriva alcuna speranza di essere ascoltato, e però non si mosse di nuovo se non quando avvenne un fatto tale da tenere in agitazione vivissima l'animo del Papa; fu questo l'interdetto scagliato a Venezia, seguito dalla superba resistenza del Governo Veneto, e dall'abbandono del Papa in una pessima condizione da parte di coloro medesimi che gli aveano offerto aiuto. Allora appunto il Campanella tentò di profittare dell'occasione e scrisse la sua lettera, nella quale comincia col giustificarsi degli stratagemmi usati durante la causa (e certamente del principale tra essi che era stato la pazzia, come risulta dal veder citata l'autorità di S. Geronimo), si appella mostrando la necessità di venir tradotto a Roma e l'impossibilità di consentire che il giudizio della congiura ed anche dell'eresia termini in Napoli, fa un racconto delle cose di Calabria e degli avvenimenti posteriori come può farlo un giudicabile, riconosce commessa da lui la colpevole imprudenza di aver servito alla "revelation presente" ed esservi stato un "voluto, non fatto, eccesso", chiede per giudici il Bellarmino e il Baronio ma non in Napoli, coll'affermare che ha cose grandi, parole di cielo, da dire al Papa e alla Chiesa, ed aggiunge un poscritto in cui dichiara avere avuto nuova delle cose di Venezia, occorrere una guerra spirituale e la chiamata di tutte le persone sante a Roma, per parte sua obbligarsi a mostrare con miracoli stupendi la verità del Vangelo ed allungare le profezie laddove sia necessario. Questo poscritto apparisce l'occasione vera della lettera, la quale è seguita poi da un'altra, o, se piace meglio, da un allegato, in cui pel fatto di Venezia insiste sempre più sulla necessità di venir tradotto a Roma, narra le rivelazioni avute dal diavolo fintosi angelo tre anni prima, e per esse la caduta di Venezia nel 1607 con la perdita di gran parte dell'autorità del Papa, la caduta della dignità Pontificale e del Senato Cardinalizio dietro uno scisma dopo il 1625; narra poi la comparsa successiva di altri diavoli che l'afflissero, e in sèguito, dietro preghiere a Dio, le rivelazioni vere che ebbe con gli avvertimenti da dover dare a S. S.tà, e suggerisce consigli, e cita profezie, e dichiara di voler parlare a S. S.tà e poi morire etc. etc.

Importa commentare quest'altra mossa del Campanella, sempre più degna di attenzione comunque rimasta senza il menomo effetto. Non a torto dovè sembrargli molto opportuna l'occasione per rivolgersi al Papa. Fin da' primordii del suo Pontificato Paolo V si era mostrato assolutamente deciso a far rispettare ad ogni costo l'immunità ecclesiastica, e dopo di aver fatta e facilmente vinta una quistione con Lucca e poi con Genova in condizioni davvero esorbitanti, avea voluto farne un'altra anche con Venezia, che non si era mai adattata a riconoscere l'immunità ecclesiastica negli Stati suoi(477). Annunziato dapprima con un Breve fin dal dicembre dell'anno precedente, emanato dappoi nel solenne Concistoro del 17 aprile 1606 il gran Monitorio, che dichiarava incorsi nelle scomuniche il Doge e il Senato Veneto per essersi rifiutati a consegnare al Nunzio due scellerati malfattori, il Canonico Saracino e il Conte Brandolino Abate di Narvese, Venezia si era mostrata inflessibile, si che il Papa avea stimato opportuno radunare un grosso esercito, e Venezia avea dovuto fare altrettanto. Napoli, così vicina, non poteva rimanersi indifferente, e dal Carteggio del Residente Veneto Agostin Dolce si rilevano, con le rispettive date, i fatti avvenuti allora nella città. I Gesuiti, irritati anche per essere stati espulsi da Venezia i frati del loro ordine insieme co' Teatini e Cappuccini ossequenti al Papa, gridavano nelle scuole contro Venezia e diffondevano per la città alcuni presagi tratti specialmente dal libro di M.° Antonio Arquato medico (in ciò i Gesuiti s'incontravano col Campanella). Il Nunzio Mons.r Guglielmo Bastoni Vescovo di Pavia, successo all'Aldobrandini fin dal dicembre passato, benediceva pubblicamente la capitana delle galere che partivano sotto il comando del Marchese di S.ta Croce per fare una dimostrazione ostile a Venezia, mentre un inviato, Ugo de Moncada, andava a Roma per dichiarare il Vicerè pronto a vendicare con la persona e col Regno le offese che fossero fatte a S.ta Chiesa, emulando le offerte del Conte di Fuentes Governatore di Milano e de' Duchi di Modena e di Urbino. Ma appunto a' primi di agosto si venne a sapere che il Marchese di S.ta Croce si era limitato a veleggiare nelle acque di Brindisi, ciò che in realtà non era tollerato da' Veneziani, ma avea finito poi col rivolgersi contro i pirati di Durazzo ed espugnare questa città; che per armare le galere si era preso il danaro de' privati dal Banco di S. Eligio; che bisognava pensare a provvedersi di grano poichè quello promesso, da doversi estrarre dalla Marca d'Ancona, non sarebbe più venuto; che mancando il danaro, ed essendo le gabelle divenute insopportabili, già si pensava di sospendere il pagamento degli interessi agli assegnatarii (creditori dello Stato) come poi si verificò; che per tutte queste ragioni non si sarebbe passato alle armi, e in ultima analisi da Spagna erano venuti anche ordini di non passare alle armi(478). Naturalmente il Campanella dovè giudicare che oramai poteva provarsi presso un Papa tanto attaccato all'immunità da pretenderla anche là dove non c'era mai stata, e tanto poco avveduto da compromettere a quel modo l'autorità Pontificia, riducendosi poi a supplicare almeno l'invio da Napoli di un'Ambasciata a Venezia per trattare la pace, ciò che fu commesso a D. Francesco de Castro accompagnato dal Duca di Vietri, due nostre vecchie conoscenze.

Egli credè pertanto necessario rannodare la sua mossa alle precedenti, dare alla sua lettera l'impronta di un "appello", che secondo lui dovea render nullo il giudizio compiuto, siccome disse tanti anni dopo nella sua Narrazione, e credè anche necessario rifare la storia delle cose di Calabria, spingendosi ad affermazioni che crediamo inutile dimostrare insussistenti dopo tutto ciò che abbiamo visto nel corso della narrazione nostra. Basterà citar quelle, che l'eresia fu trovata da' frati, che il negozio de' turchi fu inventato da lui per non morire, che furono appiccati sul molo uomini per altra causa, che fecero confessare a Maurizio sub verbo regio mille bugie, che tutti morendo si ritrattarono. Ma gioverà notare due cose: l'una, il bisogno che sentì sempre di non essere messo a fascio con fra Dionisio divenuto maomettano, "di cane fatto lupo pe' gridi di mali pastori"; l'altra il nessun desiderio ed anzi il rifiuto di vedere spedita la sua causa in Napoli. Su quest'ultimo punto egli si espresse recisamente: non consentirebbe in Napoli a giudizio alcuno, perché era odiatissimo, perché non vi erano aequa jura, perché avrebbero detto al Nunzio che era finita la causa e lo condannasse senza ascoltarlo (così difatti avrebbe dovuto accadere). né si trattenne dallo scrivere: "questi giudici anche ecclesiastici più tosto mi vorrebber trovar nocente che innocente, perché... non si fidano né ponno difensarmi la innocenza, se in me la trovano, come Nicodemo non difese Christo; ma sendo colpevole senza briga ponno starsi e gratificarsi con questi Signori", mentre "non hanno alcuna autorità se non di farmi male, perché son ligati al farmi bene". In somma la sua causa era straordinaria e dovea trattarsi in Roma, annullando, s'intende, ciò che si era fatto sin allora, ed egli volea che si dimandasse la persona sua, anche con l'obbligo di restituirla a Napoli qualora fosse trovata in falso. Più tardi poi disse che non aveano potuto conchiudere la causa della congiura in Napoli, perché non aveano in che condannarlo: questa contradizione non ha bisogno di commento.

Ma un po' di commento occorre al fatto della comparsa del diavolo tre anni prima, invocato da una persona che egli aveva istrutta a pigliar l'influsso divino (sicuramente il Gagliardo), delle rivelazioni avutene anche circa Venezia e il Papato, e poi della comparsa di altri diavoli nella fossa, col sèguito delle grazie ottenute per via di flagelli e di studii, dell'avere avute altre rivelazioni, dell'esser divenuto capace di far miracoli, o, secondochè disse poco dopo, dell'aver visto angeli ed avuto autorità come quella di S. Giovanni a' farisei e potestà di far miracoli più stupendi che quelli di Mosè(479). La frequenza ed asseveranza, con le quali il Campanella parlò in prosa ed in versi della comparsa del diavolo, delle rivelazioni avute e delle conseguenze di esse, non possono non fare un certo peso; e la cosa riesce di tanto maggiore interesse, in quanto che segna il punto di partenza del suo passaggio definitivo, reale o simulato, nel campo delle credenze cattoliche pure, e quindi riflette il vero problema difficilissimo della vita del Campanella, cioè l'essenza delle sue intime convinzioni religiose. Potrebbe ammettersi un'allucinazione, ma non mai la "lunga aberrazione mentale", che il Centofanti ha invocata e che si vede ricordata ancora da altri, mentre il Campanella medesimo non fece poi un mistero che la sua pazzia era stata simulata, e lo ripetè egualmente in prosa ed in versi troppe volte, sebbene in qualche determinata circostanza siasi contraddetto(480). Ci sembra pertanto che invece dell'allucinazione riesca più verosimile trattarsi di un fatto molto semplice, dell'evocazione de' diavoli esercitata dal Gagliardo, amplificata e messa innanzi dal Campanella così per premunirsi contro qualche nuova denunzia al S.to Officio specialmente da parte del Gagliardo, come per procacciarsi qualche via di uscita nelle sue tristissime condizioni, giustificando il suo ritorno nel retto sentiero con un evento straordinario, ed eccitando la curiosità e l'interesse del Papa, mentre poi, alla peggio, avrebbe potuto tutt'al più acquistarsi una riputazione di stravagante, che sarebbe sempre riuscita giovevole alla conclusione della sua causa. Benchè si possa dire aver lui veramente professata l'esistenza di spiriti buoni e rei, o "più o meno buoni", custodi de' pianeti e delle stelle ed anche vaganti pel mondo, dal processo di eresia conosciamo che con gli amici suoi avea sempre riso del diavolo nelle condizioni e forme comunemente ammesse; e conosciamo che il Gagliardo si era occupato realmente di diavolerie, con ogni probabilità sotto gli occhi del Campanella, ma nemmeno possiamo dire che l'avesse fatto con quella larghezza e serietà che dalle affermazioni del Campanella emergerebbero, poichè egli non si sarebbe trattenuto dal farne parola nelle sue ultime deposizioni in S.to Officio, almeno per tentare di allungar la vita; forse egli attese alle scene di comparsa del diavolo, secondo il suo solito, per profitto, non che per acquistarsi la considerazione e l'ossequio de' carcerieri, e fu in questo agevolato dal Campanella che ne avea bisogno egualmente, laonde non dovè poi dare a quelle scene tanta importanza, e riesce un po' duro ad accettare che invece abbia dovuto darcela sul serio il Campanella. Conosciamo poi che non appena pose mano a comporre poesie ed opere nella fossa di S. Elmo, il Campanella attestò dapprima il fatto puro e semplice dell'apparizione evidente di diavoli a lui occorsa, ma con la circostanza un po' singolare nel fondo e nella forma, che per quel fatto era divenuto più uomo da bene (come abbiamo visto in qualche poesia e nell'opera Del Senso delle cose); più tardi, nell'Ateismo, tornò sul fatto corredandolo di molti particolari misteriosi già più volte menzionati, né si trattenne dall'affermare nelle lettere che gli era stata con inganno promessa dal diavolo scienza e libertà, e dall'affermare nelle poesie che gli era stato pure promesso che "sarebbe esaudito", che "si canterebbe Viva Campanella nel fine del suo carcere"(481); d'altronde in un brano dello stesso Ateismo debellato, lasciando chiaramente intendere essere stato lui medesimo in relazione co' diavoli per mezzo del Gagliardo, reca un'altra delle risposte avute là dove dice, "Astrologo per juvenem interroganti de multis dixerunt, quod ipse scripsisset de libero arbitrio, sed rectius Calvinum". Dopo tutto ciò si ammetta pure che tra le bizzarrie del Gagliardo, durante l'evocazione de' diavoli, vi sia stata quella di far pronostici su Roma e su Venezia; ma nessuno vorrà credere che il Campanella abbia prese sul serio altrettali visioni, e non le abbia rivedute e corrette, aggiungendovi del suo tante singolari particolarità oltrechè una coda non indifferente, in vista de' suoi gravi bisogni. né ci sembra punto temerario il ritenere che le visioni consecutive degli angeli, e le facoltà ottenute da Dio, siano del medesimo stampo; e tutto il garbuglio ci apparisce consentaneo all'indole del Campanella, perpetuamente motteggiatrice anche nelle circostanze più terribili, rimanendo vero soltanto che Dio gli avea concesse facoltà intellettive ed operative straordinarie, atte a costituirlo, secondo il suo concetto, condottiero della umanità con un migliore indirizzo.

Ma dunque il Campanella potè mentire a tal segno? Eh sì, non c'è da farne le meraviglie, e c'è da farle invece perché si sia mancato di riconoscerlo, mentre egli non mancò di dichiararlo, segnatamente nelle sue Poesie; né adoperò alcuna circumlocuzione nel dichiararlo, e se i posteri non hanno voluto capirlo, la colpa senza dubbio non fu sua. Egli disse nettamente che era "bello il mentire" in determinate circostanze, appellandosi agli esempî della storia sacra e profana, e non meno nettamente pure disse che i savii, per schifar la morte, "furon forzati a dire e fare e vivere come gli pazzi, se ben nel lor segreto hanno altro avviso"(482). né fu propriamente lui che inventò la trista massima "intus ut libet, foris ut moris est", bensì egli fu costretto a seguirla; né ci sorprenderebbe che si gridasse allo scandalo, comunque pur oggi si tolleri con la più grande indifferenza che quella massima sia seguita gloriosamente da tanti e tanti, senza pur l'ombra delle condizioni del Campanella; basta considerare il numero grandissimo degli spiriti forti in religione, e de' partigiani de' così(483) detti grandi principii in politica, che quasi sempre "nel lor segreto hanno altro avviso" per onta e malanno dell'umanità. Ma bisogna anche guardarsi dal comparare le cose grandi alle meschine, e però aggiungiamo di non credere che possa rimanerne vulnerata la fama del Campanella presso le persone non volgari. A niuno è venuto in mente mai che la fama di Galileo Galilei sia rimasta vulnerata dall'avere, con la sua abiura, affermato il contrario di ciò che pensava: l'infamia è ricaduta su coloro che ve lo costrinsero, e pel Campanella, travolto in un abisso di miserie che non ha riscontro nella storia de' nostri uomini di lettere, non è possibile avere un concetto diverso senza manifesta ingiustizia. Aggiungasi che egli si credeva nato per una missione altissima, per "debellare i tre mali estremi, tirannide, sofisma, ipocrisia", né semplicemente con lo scriver libri, come potrebbe supporsi dietro monche notizie della sua vita; ed ebbe poi a provare, nel modo più efferato, "il senno senza forza de' savii esser soggetto alla forza dei pazzi" non solamente dall'alto, ma anche dal basso, non solamente da parte de' grandi, ma anche da parte del popolo le cui sorti egli si era sforzato di rialzare, ciò che gli diede amarezza infinita, come si rileva da più punti delle sue poesie. Eppure non disperò né si arrestò mai, ciò che prova la ricchezza e la nobiltà della sua natura; ma necessariamente tutte le maniere di astuzia doverono sembrargli accettevoli, anche quelle che agli animi nostri, tanto distanti dal suo, recano molto dolore. Così coloro i quali ebbero l'opportunità o la sagacia di saperne o penetrarne i pensieri intimi, lo apprezzarono maggiormente o lo vituperarono secondo i proprii umori diversi; e son note certe qualificazioni denigranti assegnate specialmente a talune delle sue opere più caratteristiche, certi epiteti ingiuriosi affibbiati alla sua persona, quando non si volle o non si seppe intendere che egli aveva idee riposte, nemmeno tenute addirittura sepolte ed erompenti sempre, perfino mentre era obbligato ad esternare idee di tutt'altro colore per uscire dalla sua tristissima condizione. Egli non tacque le sue idee riposte in politica e in religione, che trovò modo di esporre con un vero stratagemma, secondo una maniera non nuova ma più che ardita nello stato suo, facendo la descrizione della immaginaria Città del Sole; e poichè nella sua estrema vecchiezza ne curò la ristampa e vi aggiunse ancora le Quistioni sull'ottima repubblica, composte veramente da un pezzo e poi messe da parte, si ha motivo di ritenere che a queste idee, con poche varianti, egli sia stato attaccato fino alla morte. Intanto è costretto a salvarsi dall'ira universale, è costretto a mostrarsi diverso da quel che è; non giunge per questo a nascondere le sue interne credenze, e più volte anzi s'ingegna di farle rilevare almeno a' savii, ma pur troppo i savii riescono vigilanti solo tra' suoi avversarii o sonnecchiano affatto. Perfino nella lettera che egli scrive in appello al Papa, lo si vede deplorare "l'ecclisse di spirito" e che "bisogna credere o andar prigione", lo si vede annunziare che il Cristianesimo è "la pura legge della natura, a cui solo li sacramenti son aggiunti per aiutare la natura a ben operare", non lodando così certamente lo spirito della Curia, ed attribuendo a Dio creatore una parte affatto preponderante su Dio salvatore. Nelle opere poi, nello stesso Ateismo debellato, destinato a rappresentare la sua rumorosa professione di fede atta a salvarlo, sia quando impiega la maniera di esposizione ad utramque partem, sia quando adotta la maniera di esposizione ordinaria ed obiectionibus occurrit, lo si vede produrre con tanta larghezza gli argomenti degli avversarii, da aggiungerne perfino molte volte taluni non prodotti mai e suggeriti propriamente da lui. Il fatto trovasi notato da un pezzo quasi come una scoperta, mentre, se fossero state sempre lette con attenzione le cose del Campanella, si sarebbe visto che da lui medesimo non era stato taciuto(484): pertanto esso ti rimane molte volte incerto se l'autore abbia veramente voluto convincerti appieno sull'opinione che sostiene, o invece illuminarti meglio su quella che combatte; sempre poi ti obbliga a riflettere su quello che espone e su quello che non può esporre, su quello che spesso accenna doversi fare e che s'intende non poter fare. Ma il nostro assunto ci trattiene dall'affisare lo sguardo in questo orizzonte elevato, e ci richiama al penoso viaggio pedestre che abbiamo intrapreso: solo dimandiamo di poter dichiarare ancora una volta, che a nostro modo di vedere è indispensabile farlo questo viaggio prima di librarsi a volo, in caso contrario si correrà il rischio di una falsa strada(485).

IV. Noi potremmo fermarci qui, bastandoci di aver mostrato non senza una certa larghezza le tre principali occasioni e maniere, nelle quali il Campanella, dando un termine manifesto alla sua pazzia, tentò successivamente ed infruttuosamente, presso lo Stato e presso la Chiesa, di essere ascoltato per non rimanere sepolto nella fossa di S. Elmo. Ci parrebbe tuttavia di non avere esaurito il nostro còmpito, se non narrassimo anche il sèguito de' tentativi da lui fatti ulteriormente ed a breve intervallo, non solo presso la Curia Romana, ma anche presso la Corte di Madrid e presso le Corti Cattoliche di Germania, con tutte quelle lettere e mediante tutte quelle persone che abbiamo avuto bisogno di citare più volte.

Nello stesso anno 1606, quasi immediatamente dopo di essersi rivolto al Papa, egli invocò l'aiuto del Card.le d'Ascoli (fra Girolamo Bernerio Domenicano, protettore dell'Ordine), e poi anche quello de' Card.li Farnese e S. Giorgio. Non è pervenuta fino a noi la lettera diretta al Card.le d'Ascoli, ma n'è rimasta soltanto la notizia nelle altre dirette agli altri Cardinali. Queste furono scritte in data del 30 agosto 1606, cioè 17 giorni dopo che era stata scritta la lettera al Papa, ed offrono gli argomenti medesimi addotti al Papa, con poche varianti ed un cenno fugace delle rivelazioni intorno a Venezia. Sempre rifacendo la storia delle cose di Calabria in una maniera adattata alla sua difesa, dichiarando di essersi salvato con la stoltezza dove era odiosa la virtù e di aver finto contro la violenza dietro l'esempio di David, annunziando grandi rivelazioni avute e le grazie de' miracoli per beneficio della Chiesa, supplicò che fosse ascoltato de jure e che l'aiutassero a farlo chiamare a Roma anche condizionatamente; aggiunse l'elenco delle promesse fatte ad utile del Re e della Chiesa, come pure l'elenco dei libri fin allora composti per dimostrare che egli era in grado di mantenere le sue promesse(486). È superfluo dire che non ottenne nulla; probabilmente non ebbe nemmeno una risposta da qualcuno de' Porporati suddetti.

Ma ne' primi mesi del 1607 nuove e più forti speranze si destarono nel Campanella, avendo già potuto acquistare la conoscenza di Gaspare Scioppio oltre quella di Giovanni Fabre, spinti da' Fuggers in aiuto suo. Qui alle notizie dell'Epistolario che diremo napoletano, pubblicato in parte dal Centofanti e in più gran parte da noi, son venute or ora ad unirsi le notizie dell'Epistolario romano del Fabre dateci dal Berti, ma è a deplorarsi che la massa dei documenti di quest'ultimo Epistolario giaccia pur sempre inedita, sicchè nemmeno si è in grado di parlare del periodo in quistione con tutta l'esattezza che si richiede(487). Cristoforo Pflugh, che aveva eccitato in favore del Campanella i Fuggers e tra essi principalmente Giorgio, eccitò pure lo Scioppio, avendo con ogni probabilità già prima impegnato il Fabre. La lettera autografa del Campanella allo Pflugh, da noi pubblicata, ci mostra fuori contestazione che lo Scioppio venne eccitato da Cristoforo: e possiamo ben dire che le relazioni tra il Campanella e lo Scioppio cominciarono non prima del 1607. Per certo il brano di lettera del Campanella allo Scioppio, posto dal Centofanti innanzi tutte le lettere Campanelliane da lui pubblicate, perfino innanzi a quella del 13 agosto 1606, fu così posto arbitrariamente, e non può servire a dimostrare una relazione tra' due personaggi anteriore al 1607: parlandosi, in quel brano, dell'impresa di convertire due Principi non che di allettare i savii di Germania mercè le nuove dottrine, risulta abbastanza chiaro che debba riferirsi al 1607, al tempo in cui lo Scioppio era destinato a partire per la Germania in missione presso la Dieta di Ratisbona(488). Gaspare Scioppio di Neumark, giovane grammatico eruditissimo, se ne stava da 8 o 9 anni in Roma, dove aveva abiurato il Protestantismo, e spiegando un fervore rabbioso contro gli antichi correligionarii, scrivendo successivamente panegirici al Papa e al Re di Spagna, Commentarii sulla verità Cattolica, sull'Anticristo, sul primato del Papa ed anche su' Priapei, era venuto in fama e al tempo stesso in molto favore presso la Curia Romana, tanto che dovendosi mandare qualcuno invece di un Nunzio alla Dieta di Ratisbona, Paolo V decise mandarvi lui con la veste di Consigliere di casa d'Austria; e possiamo affermare che già nel febbraio 1607 era Consigliere Austriaco, poichè con questo titolo lo troviamo nominato appunto nella Disputa del Fabre "De Nardo et Epithimo adversus Scaligerum, Rom. 1607" a lui diretta in data del 1° febbraio di tale anno. Quanto a Giovanni Fabre di Bamberga, domiciliato in Roma dal 1600, egli era medico dell'Ospedale di S. Spirito, lettore di Anatomia alla Sapienza, inoltre Prefetto dell'Orto Vaticano onde s'intitolava Semplicista di N. S.re; è noto poi che venne più tardi ascritto alla famosa Accademia dei Lincei insieme col Persio (1611), e divenutone Cancelliere (1614) ebbe a scrivere le "Praescriptiones Lynceae" etc. etc. Lo scopo di Giorgio Fugger nel proteggere tanto vivamente il Campanella, era sopratutto quello di adoperarlo a' servigi del Cattolicismo in Germania, giudicandolo per la sua dottrina, eloquenza ed attività, il più capace di combattere con successo i Protestanti. Si sa che nelle feroci dissensioni religiose di Germania i Fuggers erano tra' Cattolici più caldi, e che un Ottone Enrico Fugger, giovinetto al tempo del quale trattiamo, distintosi poi in molte fazioni militari sotto le bandiere di Spagna, fu quello che in ultima analisi prese Augusta, vi depose il Senato Luterano e ve ne istituì uno Cattolico. Non fa quindi meraviglia l'ardore di Giorgio per liberare il Campanella, non conosciuto da lui come colpevole di eresia ed invece stimato vittima di malevoli, onde lungamente tentò tutti i mezzi per averlo in Augusta, lo soccorse in danaro e in commendatizie, lo protesse e lo fece proteggere, lo fece visitare e lo visitò egli medesimo, destinò una forte somma per farlo fuggire o liberare: le promesse di miracoli, le affermazioni di possedere segreti meravigliosi, le esagerazioni di ogni maniera, che il Campanella avea poste innanzi per acquistarsi la grazia e l'interesse de' potenti, non destavano allora le diffidenze di oggidì se non presso i ben pochi spregiudicati; si può dire che esse giovarono più che nocquero, e forse contribuirono sopra ogni altra cosa ad infervorare i Fuggers nella protezione del Campanella. Lo Scioppio riusciva pel filosofo un uomo provvidenziale, essendo confidente della Curia Romana e destinato ad avvicinare l'Imperatore Rodolfo, l'Arciduca Massimiliano di Baviera, l'Arciduca Ferdinando di Austria e tutti que' Principi di Germania che erano impegnati con Spagna a sostenere gl'interessi del Cattolicismo; il Fabre poi riusciva sempre un buono assistente ed un utile intermediario per la corrispondenza, la quale era già avviata da un pezzo tra i Fuggers residenti in Augusta e il Campanella, venendo le lettere dirette a un Marco Velsero gentiluomo di molta levatura ed influenza e non a' Fuggers, e d'allora in poi doveva allargarsi comprendendo anche le lettere dello Scioppio. Motori di tutte queste pratiche erano, come ben si vede, i Fuggers, e di essi specialmente Giorgio, mentre in Napoli si prestava con tenera sollecitudine fra Serafino di Nocera, che il Campanella chiamava suo "tutore"; per altro Giorgio mandò talvolta anche qualche suo agente particolare, dapprima forse un Sigismondo, che trovasi nominato nell'Epistolario napoletano ma che potrebb'essere veramente un incaricato dello Scioppio, più tardi poi un Daniele Stefano di Augusta, che trovasi nominato nell'Epistolario romano e che deve dirsi con sicurezza un agente di Giorgio.

Parrebbe che lo Scioppio avesse già letto qualche opera del Campanella, con ogni probabilità avuta da Cristoforo Pflugh, e che ne fosse rimasto altamente sodisfatto: così, dietro le sollecitazioni de' Fuggers, che doveano equivalere a comandi atteso l'enorme credito ed influenza di quella famiglia, dirigendosi al Campanella gli manifestava ammirazione per la prestanza sua apparsagli ne' libri suoi, gli prometteva di adoperarsi per la sua liberazione presso i Principi del Cristianesimo, gli esprimeva il desiderio di averlo a socio contro gli eretici; questo si può argomentare da un brano della lettera pubblicata poi dallo Struvio, con la quale più tardi il Campanella accompagnò l'invio di una copia delle sue opere dimandate dallo Scioppio. Naturalmente costui apparve al Campanella un Angelo, un Liberatore, un Redentore, e così trovasi chiamato sempre nelle lettere del filosofo. I nuovi documenti rinvenuti dal Berti mostrano che il 26 aprile 1607 egli era in Napoli, e scriveva al Fabre, "De Campanella in bona spe sum fore ut ei loquar, et quae velim ab eo auferam: interque coetera disputationem adversus Venetos, quam Pontifici gratissimam fore confido". Questa è la sola notizia datane finoggi, e da essa non risulta che lo Scioppio abbia visto il Campanella, ma risulta che sperava di vederlo e di carpirne tutto ciò che volesse, accennando agli Antiveneti che diceva dover riuscire assai graditi al Papa, e mirando senza dubbio agli Articoli profetali che sarebbero riusciti graditissimi a lui medesimo; troveremo infatti che egli li desiderò e li chiese per lungo tempo e per tutte le vie, mentre il Campanella, tutt'altro che facile ad essere superato in avvedutezza, l'aveva ben capito e se ne schermì fin da principio. Lo Scioppio si era impegnato nell'astrusa quistione dell'Anticristo e de' futuri eventi della fine del mondo(489), e ciò forse, più di ogni altra cosa, gli fece apparire il Campanella tanto interessante; poichè, quanto agli scritti contro Venezia, il Papa trovavasi già in via di accomodamento per mezzo del Card.l di Gioiosa, che mandato da Errico IV era stato in Venezia ed era poi giunto a Roma fin dal 22 marzo, la qual cosa lo Scioppio non poteva ignorare. È posto intanto fuori controversia che lo Scioppio sia venuto in Napoli nell'aprile 1607, non già nel 1608; ma è posto in pari tempo fuori controversia che egli sia venuto per parlare al Campanella e carpirne le opere, d'accordo col Fabre, e che non abbia menomamente avuta una missione del Papa per trattare la libertà del prigioniero, come finora si era creduto dietro una delle tante erronee notizie registrate nel Syntagma, che noi abbiamo recisamente oppugnata; ci riserbiamo per altro di tornare più in là su tale quistione, di cui ognuno intende la grande importanza.

Come dicevamo, rimane tuttora ignoto se in Napoli lo Scioppio abbia visto il Campanella; ma non sarebbe meraviglia che non avesse potuto vederlo, mentre era tanto rigorosamente guardato, e le premure di un noto faccendiere della Curia Romana doveano piuttosto riuscire a farlo guardare maggiormente. Forse in tale occasione, se pure la cosa non sia accaduta un po' prima per via epistolare, lo Scioppio ebbe le copie delle lettere già dirette dal Campanella al Papa ed a' due Cardinali nell'agosto 1606, acciò rimanesse informato de' passi fatti, ed ebbe poi quella lettera al Papa da noi pubblicata; la quale mostra bene di essere del 1607, dicendovisi il Campanella carcerato da otto anni, ed oltrechè attesta l'invio delle lettere antecedenti con le parole "scrivo tremando et altre lettere mandai", accenna pure in modo manifesto allo Scioppio che si era offerto a favorirlo con le parole abbastanza notevoli, et mò io stava piangendo com'Helia sotto il Junipero, dimandando la morte, et ecco venir quest'Angelo Samaritano, dopò che mi sprezzaro li Leviti e li Sacerdoti, e me tradiderunt in manus tribulantium et in animam inimicorum meorum, questo dico mosso da spirito di Sapienza... et vult alligare vulnera mea". Tutta la lettera rappresenta un 2° appello al Papa, come è attestato fin dalle prime parole, "Io di novo appello la causa mia al Tribunal proprio di V. B." etc.; e del resto vi si trovano ripetute le solite cose, essersi in procinto di veder le meraviglie, avendo parlato di segni e profezie essere stato ritenuto ribelle, aver sofferto tormenti e malanni gravissimi, voler essere ascoltato nel tribunale romano, poter mostrare cose mirabili, aver visto e toccato ne' suoi guai i misteri della fede e le cose celesti(490). Ma ancora in data del 7 aprile 1607, non sapremmo dirne il motivo, scrisse quella lettera latina solenne al Papa ed a tutto il Senato de' Cardinali che fu pubblicata dal Centofanti, e in essa, tra umili supplicazioni e audaci rampogne, si dolse che non aveano voluto ascoltarlo, mentre "spesso li avea avvertiti di voler mostrare innanzi a' Principi del suo popolo ed alle tribù d'Israele secondo le sacre decretali, mercè le autorità della Scrittura come Giovanni Battista, e con miracoli da non potere essere imitati dal diavolo, come quelli di Mosè alla presenza di Faraone, che per volontà di Dio egli era chiamato alla salute de' popoli"; e dicendo che "se era pazzo lo liberassero" (proposizione degna di esser notata), ricordando le imputazioni ingiustamente sofferte per l'addietro e poi quelle degli ultimi tempi, accennando alle opere che avea composte, esponendo i segni della prossima fine del mondo e le relative profezie, difendendosi dalle accuse, mostrò la necessità di esser tradotto a Roma, citò i casi analoghi ne' quali si era fatto lo stesso, si dolse di non vedere esaltata la giustizia. Lo Scioppio avrebbe dovuto presentare questa lettera, ma da' documenti che finora possediamo emerge essersi rifiutato a presentarla, consigliando che non si parlasse di miracoli e si facessero semplici supplicazioni, al quale consiglio il Campanella non si piegò; e forse apparve per questo uno stravagante, come del resto apparve anche a parecchi in sèguito, mentre i tanti garbugli prodotti in sua difesa, le scene non brevi di simulazione di pazzia, gli sforzi continui per farsi credere ispirato, e le vicende tutte di una così lunga prigionia doverono fargli acquistare un portamento tale da rendere plausibile un giudizio di quella fatta. Ma si converrà che specialmente presso Paolo V, il quale negli ultimi tempi del suo Cardinalato avea tenuto il suggello dell'Inquisizione, e presso il Card.l S. Giorgio, il quale avea tenuto il suggello dello Stato, e però buoni conoscitori entrambi degli avvenimenti di Calabria e relativi processi, il Campanella nel 1606 non avrebbe potuto sperar nulla senza prendere un atteggiamento straordinario; e naturalmente presolo una volta, egli non si poteva più smentire senza suo danno, e doveva ad ogni costo mantenersi nella condizione d'ispirato. Lo Scioppio non poteva capacitarsene, perché in realtà non conosceva ancora, o meglio conosceva solamente in parte lo stato vero delle cose del Campanella: per altro continuò a mostrargli stima grandissima, si attendeva di poter apprendere molto da lui in poco tempo, oltrechè di ottenere la spiegazione delle cose più recondite intorno all'Anticristo, né cessò mai di dirigergli di tratto in tratto quesiti, perfino dopo che avvenne qualche cosa per la quale lo vedremo essersi ritenuto offeso: e il Campanella prometteva che gli avrebbe insegnate tutte le scienze durante un solo anno, si offriva a fargli la natività, ne secondava ed ampliava i disegni di voler convertire i Protestanti e i Gentili, dava sollecite risposte a' quesiti di lui non appena gli pervenivano, affaticandosi anche a menare a termine l'Ateismo e que' Profetali che erano sommamente desiderati da lui. L'Epistolario napoletano ci mostra tutte queste cose, e ci mostra pure che lo Scioppio inviava al Campanella qualche sussidio, o del suo o del danaro de' Fuggers, per gli alimenti e per la trascrizione delle opere, la quale, come abbiamo dimostrato con l'esame delle copie pervenute fino a noi, venne fatta da un amanuense non napoletano.

Secondo una notizia tratta dall'Epistolario romano, il Fabre avrebbe accompagnato lo Scioppio o meglio sarebbe venuto poco dopo lo Scioppio in Napoli, e, nientemeno, avrebbe ottenuta l'uscita del Campanella dalla fossa di S. Elmo! Egli lo fece sapere a Marco Velsero, e costui, in data del 9 maggio 1607 gli scriveva, "grand'obbligo debbe tener il Campanella a V. S. di essere stato trasferito et accomodato come lei dice". Siamo tentati di credere che per lo meno debba esservi qui un errore di data, parendoci molto strano che il Fabre abbia potuto far credere una cosa simile, mentre non solo sappiamo che il Campanella il 26 giugno e l'8 luglio 1607 (nella sua lettera sulla peste di Colonia e nell'altra a Mons.r Querengo) disse trovarsi ancora nella fossa in ceppi, ma sappiamo pure dal medesimo Epistolario romano che vi fu bisogno di far scrivere al Vicerè dall'Arciduca Ferdinando, nel gennaio 1608, che volesse far trasferire il Campanella "dalla fossa di S. Elmo, dove giaceva, nel Castel Nuovo" (così si esprime il Berti). Vi fu poi un'altra venuta del Fabre abbastanza più tardi, dopo che avea pubblicata la disputa "De Nardo et Epithimo" e coll'occasione di dover raccogliere piante per l'Orto Vaticano: queste due circostanze si trovano ricordate da Giulio Cesare Capaccio che vide il Fabre in Napoli(491), e ci fanno comprendere lo scopo della venuta ed anche la data di essa; poichè basta guardare la disputa anzidetta, per vedere che questa fu diretta allo Scioppio in data del 1° febbraio, ma fu dedicata all'Archiatro Pontificio Vittorio Merolli in data del 1° agosto 1607. Vedremo che la venuta di cui parliamo si deve riportare propriamente all'anno 1608. Notiamo pertanto non essere dimostrato davvero che il Fabre e lo stesso Scioppio, venendo a Napoli, si siano adoperati in favore del Campanella nel senso di avere direttamente procurato dal Vicerè mitigazione di custodia, miglioramento di vitto, e tanto meno avviamento alla libertà: in obbedienza alle premure di Giorgio Fugger essi doverono recar sussidii e procurare facilitazioni per questa via; ma finoggi possiamo affermare che realmente il solo fra Serafino, il meno nominato, si presentò una volta al Vicerè per parlargli del Campanella.

Assai più del Fabre, per quanto sappiamo, lo Scioppio diresse quesiti al Campanella. Ve ne furono Sul modo di evitare il freddo, come pure Sulla sordità e l'ernia, a' quali il Campanella rispose prima che agli altri, secondochè rilevasi dal Syntagma e in parte anche da qualcuna delle risposte a' quesiti successivi; ma le risposte a' detti quesiti non sono pervenute fino a noi. Ve ne fu un altro Sul modo di far cessare la peste in Colonia, trasmesso mediante fra Serafino, e il Campanella vi rispose il 24 giugno 1607: un esemplare della risposta si trova anche nella Magliabechiana, ma scorrettissimo e senza data; quello che fu da noi pubblicato è sodisfacente, e dobbiamo notarvi la premura del Campanella anche presso i Coloniesi per essere chiamato colà a curarvi la peste, offrendosi perfino ad essere lapidato nel caso d'insuccesso! Ancora ve ne fu un altro Sul modo di evitare il calore estivo, e la risposta, da noi pubblicata, fu fatta l'8 luglio 1607: in essa si notano anche varie precauzioni da doversi adottare durante il viaggio, accennandosi abbastanza al viaggio che lo Scioppio dovea intraprendere, ed oltracciò si parla di lettere commendatizie avute e di altre aspettate, a cura dello Scioppio; ci riserbiamo di dirne i particolari più sotto, limitandoci qui a stabilirne la data. Altri quesiti, come quello Sul Peripateticismo che il Campanella condannava, l'altro Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo, che si riteneva dover essere di soli 45 giorni, così pure un altro Sul Pieno e sul Vacuo nell'interesse del Fabre, parrebbe che veramente fossero stati diretti al Campanella nell'anno 1608: noi abbiamo pubblicate le risposte, che recano la data del 13 giugno e del 7 novembre senza indicazione di anno, e vediamo ora tra i nuovi documenti del Berti una lettera dello Scioppio, senza indicazione né di luogo né di tempo, che rappresenta indubitatamente la proposta de' quesiti suddetti; ma alludendosi in essa ad una lettera che il Campanella avrebbe dovuto scrivere particolarmente all'Arciduca Ferdinando, bisogna riferirla al 1608 e con ogni probabilità alla fine di maggio di tale anno. - Dobbiamo intanto dire, che terminata oramai la trascrizione delle opere, potè farsene l'invio allo Scioppio con quella lettera notevolissima anche pel ricordo delle persecuzioni sofferte, posta qual Proemio all'Ateismo e pubblicata dallo Struvio con la data del 1° giugno; se non che trovandosi nella lettera citate come già mandate le risposte circa il freddo, il calore e la peste di Colonia, è evidente che la data di essa, quale fu letta dallo Struvio, riesce errata, e invece del 1° giugno si dovrebbe forse leggere p. es. 10 luglio 1607(492). Ecco l'elenco delle opere trasmesse allo Scioppio in tale data, essendogli stata la Consultazione per aumentare i tribuni consegnata separatamente: la Monarchia di Spagna, i Discorsi a' Principi d'Italia, il Dialogo contro i Luterani, l'opera Del Senso delle cose, l'Epilogo magno di Fisiologia seguito dagli Aforismi politici e dalla Città del Sole, la Monarchia del Messia col discorso De' dritti del Re di Spagna etc., il libro De Regimine Ecclesiae, gli Antiveneti, e la Recognitio verae Religionis detta poi Atheismus triumphatus: possiamo aggiungere ancora che talune copie furono dal Campanella corrette ed altre no, come si rileva da quelle pervenuteci, l'una degli Aforismi politici fornita di correzioni autografe, l'altra della Città del Sole rimasta senza correzioni. All'Ateismo il Campanella diede la massima importanza, evidentemente per le sue condizioni infelicissime: lo dichiarò "suo monumento", lo dedicò allo Scioppio, mostrò desiderio che egli lo traducesse in tedesco insieme col Dialogo contro i Luterani. Si dolse pure di non poter mandare la Metafisica, perché "un certo Marchese discepolo ingrato la riteneva ad istigazione di Satana", alludendo senza dubbio a Francesco del Tufo successo al padre Gio. Geronimo, che le scritture dell'Archivio di Stato, da noi ricercate appositamente, ci mostrano defunto il 17 luglio 1606. E dobbiamo dire che a torto egli credè effetto d'ingratitudine il non aver avuta la Metafisica, poichè essa, morto il Marchese Gio. Geronimo, era stata rubata da un domestico cognominato Gallo e venduta a Gio. Battista Eredio Pisano di Puglia, come il Campanella medesimo dovè sapere più tardi onde se ne trova il ricordo nel Syntagma; dobbiamo dire inoltre che verosimilmente reclamò l'opera sua quando seppe l'accaduto, alcuni anni dopo, e così essa potè capitare nelle mani del Reggente della Vicaria e del Vicerè, secondochè risulta da un documento che abbiamo rinvenuto del pari nell'Archivio di Stato(493). Ma non mandò gli Articoli Profetali  e disse che li avrebbe mandati in sèguito: forse non aveva potuto compierli, o invece volle tenerli in serbo (e difatti non li mandò neanche quando poi disse di averli già pronti), acciò lo Scioppio, rimanendo nell'aspettativa, non cessasse dal favorirlo. Egli se ne attendeva l'adempimento delle promesse, cioè "essere suo liberatore presso i Principi del Cristianesimo, e dargli modo di essere suo commilitone contro le eresie de' figli di Abaddon". Questo gli ricordò nella sua lettera, e fatta la rassegna delle opere che gl'inviava soggiunse: "vedi, ho consegnato tutto nelle tue mani; poichè mi prevenisti co' tuoi beneficii, non volli apparire ingrato". Ma inoltre lo avvertì che molti, ricevute le opere, trascrivevano da esse le proprie, e gli raccomandò di badare a non cadere con gli altri, "poichè questo furto è peggiore di quello della fortuna e dell'onore e di ogni altro delitto, venendo sottratti i figli non del corpo ma dell'anima, e figli perenni....", ed allora potrebbe "volerlo estinto, e il diavolo subito gli direbbe nel cuore bastare quanto avea fatto intorno a ciò che avea promesso con giuramento, bastare averlo tentato, essendo impossibile procurare la salvezza del Campanella... di cui ogni male gli parrebbe provenire dalla giustizia di Dio". E finiva dicendo: "Tibique commendo libros, sicut me Deus tibi, si forte non simulas, ut coeteri"! Pare impossibile che un uomo come lo Scioppio non sia rimasto offeso da simili parole; ma sappiamo con certezza che se ne mostrò irritato in sèguito allorchè il Campanella, non vedendo pubblicare le sue opere, gli fece intendere di nuovo la sua preoccupazione che egli volesse servirsene, e non gli mandò i Profetali che egli desiderava sempre più. Per altro c'è motivo di ritenere che lo Scioppio siasi mostrato tollerante verso il Campanella molto al di là del solito suo, per deferenza a' potenti Fuggers, che non cessavano di proteggerlo accanitamente.

Abbiamo visto che il Campanella, nell'inviare le opere, diceva di farlo per non sembrare ingrato. Egli ritenevasi obbligato allo Scioppio, perché era condisceso a favorirlo e si era impegnato a patrocinare la sua causa: d'altronde sappiamo avergli lo Scioppio procurato alcune lettere commendatizie dirette al figlio del Vicerè, altre averne sollecitate mediante Mons.r Querengo dal Card.l Borghese dirette egualmente al figlio del Vicerè, che le cronache ci dicono essersi recato a Roma insieme coll'altro suo fratello non appena eletto Paolo V, e però doveva essere stato conosciuto da molti della Curia; forse lo Scioppio medesimo sollecitò le lettere dell'Ambasciatore Cattolico e dell'Ambasciatore Cesareo, che il Campanella nella lettera dell'8 luglio 1607 diceva di attendere. Ma nessuna sollecitudine egli mostrò presso il Papa; e non deve nemmeno sfuggire che egualmente Mons.r Querengo non si adoperò presso il Papa, mentre non solo era suo Prelato domestico assai ben veduto, ma anche, secondo l'Eritreo, precettore ed aio del nipote di lui Gio. Battista Vittorio. Sicuramente al Papa non dovea piacere di udire a parlare del Campanella, e niuno osò affrontarne il disgusto; ma è chiaro che vennero grandemente ridotte le promesse di aiuto fatte dallo Scioppio, per le quali il Campanella era condisceso a dargli nelle mani tutte le opere sue. Poniamo qui che ad occasione delle commendatizie promesse dal Querengo dietro le istanze dello Scioppio, il Campanella scrisse al Querengo una lettera di ringraziamento notevolissima, con molti cenni della sua vita passata, de' suoi studii e del suo modo di filosofare: verso il tempo medesimo scrisse una lettera non meno notevole a Cristoforo Pflugh, per rimoverlo da una tresca lasciva alla quale si era abbandonato in Siena, ed eccitarlo ad andarsene con lo Scioppio che preparavasi a partire per la Germania(494). - Ma importantissime riescono per la nostra narrazione le lettere che in questo periodo il Campanella scrisse al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi d'Austria, e che lo Scioppio dovea far ricapitare o presentare personalmente. Esse vennero scritte senza dubbio nel 1607, come risulta dal vedere che il Campanella vi si dichiara sempre carcerato "da 8 anni"; e può dirsi anche essere state scritte tra il giugno e il luglio, poichè quella diretta al Re, scritta prima delle altre, reca nell'elenco delle opere "La esamina di tutte le sètte" etc. ossia l'Ateismo debellato allora appunto condotto a termine. La lettera al Re fu scritta prima, giacchè trovasi menzionata nelle altre. Prendendo sempre le mosse da' futuri eventi, lusingando con la Monarchia universale che dovea verificarsi, rifacendo come altre volte la storia delle cose di Calabria, non negando ed anzi giustificando la simulazione della pazzia, dichiarando di trovarsi aggravato dai vassalli di S. M.tà che non volevano né udirlo né consegnarlo al Papa, perché "temevano che lo liberasse subito", si appellava a S. M.tà, e per la solenne occasione della nascita del felicissimo Principe (intend. della futura nascita del Principe che accadde in ottobre, venendo alla luce l'Infante Ferdinando che fu poi il Card.le Infante) chiedeva la grazia di essere ascoltato secondo la legge. Ricordava di avere scritto la Monarchia di Spagna, i Discorsi ai Principi d'Italia, la Tragedia della Regina di Scozia, annunziava di avere autorità come S. Giovanni e miracoli più grandi di quelli di Mosè; pregava quindi che lo facesse venire innanzi a lui e al suo Consiglio, terminando con l'elenco delle promesse anche accresciute, come pure con l'elenco delle opere che avea composte, ed aggiungendo che lo lasciasse dar prove celesti degli avvisi celesti almeno in Roma(495). Poi dovè scrivere ancora le due lettere latine all'Imperatore e agli Arciduchi di Austria, che lo Scioppio avrebbe presentate mostrando in pari tempo le opere da lui avute, non che le copie della lettera scritta al Re e di quella scritta al Papa e a tutti i Cardinali, "da doversi consegnare, se il timore non trattenga pure l'Angelo suo" (non aveva mai cessato di sperare che lo Scioppio l'avrebbe consegnata, smettendo il "timore" che lo tratteneva). In entrambe queste lettere egli press'a poco ripeteva le cose stesse tante volte dette, i segni da lui studiati, le opere composte per tale circostanza, le imputazioni avute di "volere usurpare il Regno" e di essere eretico, l'aver trovato salvezza con la pazzia, l'essere stato posto in una fossa, l'avere scritto cose mirabili e il doverne dire a voce molte di più. In ultima analisi poi, all'Imperatore chiedeva che lo facesse venire in ceppi innanzi a lui, dannandosi al fuoco se si fosse trovato mendace, ovvero procurasse di farlo andare presso il Papa o almeno presso il Re Cattolico; agli Arciduchi chiedeva di adoperarsi presso il Re, perché volesse udirlo o farlo udire dal Papa o dall'Imperatore, sempre dannandosi al fuoco se fosse trovato mendace, ed additando lo Scioppio che avrebbe mostrato le opere e le lettere da lui scritte, e molte altre cose avrebbe esposte a voce. Ognuno avrà notato, che dalla prima all'ultima sua mossa la dimanda continua del Campanella fu sempre quella di essere ascoltato: anche dopo di avere scritto tante opere che potevano farlo ben conoscere nel senso in cui voleva essere conosciuto, egli non rifinì dal voler essere ascoltato; e perfino in una delle sue lettere allo Scioppio(496), dopo di avergli detto che i proprii libri di Metafisica gli sarebbero parsi scritti da un Angelo e non da un uomo, essendo superiori a tutti gli altri "che aveva già ricevuti", soggiungeva, "ma quando mi udrai faccia a faccia, terrai a vile anche gli stessi miei libri di Metafisica" (ciò che prova pure non aver mai avuto lo Scioppio tale occasione). Per intenderlo, bisogna ricordarsi della prepotente efficacia del suo discorso, attestata in ogni tempo e dalle persone più diverse, a cominciare dal povero Maurizio, che lo provò in Calabria e disse, "quando parla, ritira ognuno dove vuole", a finire a Vincenzo Baronio, che lo conobbe negli ultimi anni in Parigi e scrisse, "maior fuit impetu ingenii, quod in conversationibus eminebat, et in libris obscurum est et pene extinctum"(497).

Nell'agosto o forse nel settembre 1607 lo Scioppio partiva per la Germania fermandosi un poco in Venezia: l'Epistolario romano ha una sua lettera da Venezia in data del 22 settembre d.to anno, e poi ne ha anche un'altra posteriore da Ratisbona, in cui egli dice aver portato dall'Italia una malattia dell'intestino retto cagionatagli dall'aver mangiato troppo melloni ed altre frutta in Roma; da ciò si desume chiaramente che partì da Roma al cadere dell'està. In Venezia egli affermò aver patito fastidii dal Magistrato de' Dieci avendo portato nella sua valigia le opere del Campanella, e più volte poi ripetè di averle tutte date al libraio Gio. Battista Ciotti per farle stampare, senza che costui avesse voluto più né stamparle né restituirle, sicchè dovè poi reclamarle per mezzo dell'Ambasciatore Cesareo, né potè ricuperarle che dopo molto tempo(498); ed inutilmente anche reclamò gli Antiveneti, e dovè esserne inviata da Napoli un'altra copia, e il Governo Veneto fece proposte volendo acquistar l'opera acciò non si stampasse. Ma su questi fatti, asserti dallo Scioppio e rilevati dal Berti ne' documenti dell'Epistolario romano, accade di dover fare qualche osservazione. È notissimo che in Venezia lo Scioppio fu imprigionato per due giorni ed obbligato a sfrattare, sia perché tentò di sedurre o spaventare fra Paolo Sarpi, sia perché venne accusato di essere l'autore di un libello a favore del Papa contro Venezia intitolato "Nicodemi Macri Romani cum Nicolao Crasso Veneto disputatio", siccome leggesi in una Vita di lui pubblicata da lui medesimo col nome di Oporino Grabinio(499): ponendo in rapporto tale avvenimento co' fastidii avuti per le opere del Campanella, c'è da sostenere che lo Scioppio abbia compromesse queste opere, assai più che queste opere abbiano compromesso lui. né riesce facile intendere il suo desiderio di dare alle stampe le opere del Campanella appunto in Venezia e la sua determinazione di lasciarle lì, mentre si era impegnato di mostrarle all'Imperatore e agli Arciduchi, e il Campanella ne avea fatta menzione nelle sue lettere a questi personaggi. Finchè altri documenti non chiariranno tutte queste cose, avremo sempre il dritto di dire che il Campanella aveva ben capito lo Scioppio, e non a torto si doleva di lui, avendolo in sospetto circa le opere consegnategli. - Intanto nell'ottobre il Fugger avea mandato in Italia Daniele Stefano di Augusta, perché cercasse di far liberare o far evadere da S. Elmo il Campanella a qualunque spesa. Il Fugger dovea professare l'opinione dell'onnipotenza del danaro, e in ciò questa volta s'ingannava. Lo Scioppio, meglio avveduto, stimava che siffatti tentativi avrebbero potuto nuocere, e in realtà il Governo Vicereale non era composto di dormienti; esso aveva le sue informazioni a tempo e luogo, né sarebbe arrischiato lo spiegare il tanto protratto rigore di custodia del Campanella per qualche sentore di maneggi di altrettali Papalini accaniti. Ma giova conoscere ciò che lo Scioppio avrebbe preferito: come ci narra il Berti, egli "proponeva che venissero espugnati i segretari col denaro, facendo forza sul loro animo affinchè lo assolvessero, od anche, se non volessero venire fino all'assoluzione, lo proscrivessero dal Regno, purchè finita la causa non fosse poi consegnato all'Inquisizione". Da ciò si vede che lo Scioppio avea già saputo essere stato il Campanella condannato nel tribunale dell'Inquisizione, ma non avea punto capito da chi dovesse venir sentenziato nel tribunale di Stato; poichè non i Segretarii Vicereali avrebbero dovuto sentenziarlo, ma il Nunzio e il Consigliere Baldovieto, né il Nunzio avrebbe poi lasciato andare il Campanella altrove che nelle carceri dell'Inquisizione di Roma.

In Germania lo Scioppio potè presentare all'Imperatore le lettere del Campanella ma non le opere, per la semplice ragione che non le aveva; poi disse che pure avendole non gli sarebbe stato possibile presentarle, per le proposizioni che contenevano; ma veramente le proposizioni, che a lui parevano compromettenti, si trovavano nelle lettere più che nelle opere. Ad ogni modo dovè persuadersi che l'Imperatore era informato di cose gravi intorno al Campanella, e però egli scrisse da Ratisbona il 19 10bre 1607, e ripetè il 27 febbraio 1608, che poco o nulla doveva attendersi da quel lato. Forse l'Imperatore avea avuto notizia dell'esservi stato certamente un disegno di ribellione coll'aiuto del Turco; e secondo lo Scioppio, gl'italiani medesimi residenti in Praga gli aveano dato cattive informazioni sul Campanella (miseria, come si vede, non nuova). Andò poi ad Oetingen e presentò la lettera del Campanella all'Arciduca Massimiliano, il quale scrisse una commendatizia al Vicerè; e non potendo ancora recarsi a Grätz, mandò là la lettera del Campanella all'Arciduca Ferdinando, il quale dapprima si negò, ma otto giorni dopo scrisse anche lui una commendatizia al Vicerè. Questo affermò lo Scioppio, ed affermò pure di aver mandata la lettera al Re, facendola presentare alla Regina insieme coll'opera della Monarchia di Spagna. Ma si dolse che le promesse fatte in quelle lettere toglievano credito al Campanella, parendo favolose, e se non bugiarde, almeno dettate dalla tetraggine del carcere; né mancò di rammentare che egli le avea sconsigliate. Maggior fiducia mostrò di avere nelle commendatizie dell'Arciduca Ferdinando, che diceva "suo patrono"; ma conchiuse che non dovesse concepire speranze, che non dovesse confidare, come soleva, più nell'aiuto umano che nel divino; se Dio non voleva esaudirlo, si uniformasse e gli dimandasse la morte! Queste cose lo Scioppio scrisse al Campanella in data del 27 febbraio 1608, e ci sembra veramente che a siffatta lettera abbia dovuto seguire quella del Campanella al Fabre da noi pubblicata, che comincia con le parole, "Mi scrisse il mio Angelo Scioppio ch'io attendessi all'oratione, che più devo sperar in Dio che negli huomini...; ho fatto a Dio questa oratione, che le mie peccata non sieno impedimento all'attioni Scioppiane" etc.(500); ci sembra pure che ad una lettera del Fabre allo Scioppio, esprimente il dolore e il timore del Campanella per le dette parole, abbia dovuto seguire quella dello Scioppio al Fabre pubblicata or ora dal Berti, che evidentemente è del marzo 1608 e non 1607, leggendovisi tra le altre cose, "Quod meum officium, quo ut ad mortem aequo animo subeundam se compararet monui, sic interpetratur quasi qui charitatem et opem ei praecidere ac negare voluerim, suo more facit". Lo Scioppio, nella lettera di cui parliamo si mostra ristucco del Campanella e de' suoi sospetti, perocchè il Campanella tornava a dolersi del non essere state le sue opere né date alle stampe né presentate all'Imperatore (la qual cosa pur troppo era vera); e ripete ciò che egli ha fatto, e manifesta che il suo patrono Ferdinando ha scritto più efficacemente di quanto era lecito sperare, avendo chiesto al Vicerè non il trasferimento ma la libertà del Campanella. Aggiunge per altro che l'invio della lettera è stato ritardato; che tutti dubitano se sia bene farlo mettere in libertà, essendo lui andato tanto innanzi con la sua pazzia, da credersi un nuovo legislatore del mondo e perfino da anteporsi a Cristo, "perocchè Cristo ebbe soli 5 pianeti ascendenti ed egli ne ha 6; queste cose son ventilate dagli amici suoi nelle aule medesime de' Principi, e non può dirsi quanto abbiano alienato da lui gli animi loro". Infine non dispera, e vuole che sieno trascritte compiutamente le opere della Metafisica e de' Profetali, acciò possano mandarsi quanto prima al suo patrono, in cui ecciterà il desiderio di vederle, proponendosi intanto di presentargli la Consultazione per aumentare i tributi del Regno, che egli, lo Scioppio, ha gustato molto. - Ognuno avrà qui notata la proposizione de' pianeti ascendenti favorevoli, e si sarà rammentato di fra Pietro di Stilo, che deponeva averlo il Campanella saputo da un astrologo delle parti di Germania, conosciuto nel S.to Officio di Roma: la cosa riesce quindi confermata, ma risulta anche chiarito che il Campanella l'aveva invece detto lui a quel tale astrologo (Gio. Battista Clario), forse dopo di essere stato messo sulla via di farne la scoperta dall'astrologo Abramo in Cosenza ed Altomonte. Gio. Battista Clario era tuttavia il Protomedico della Stiria, residente in Grätz presso Ferdinando come si rileva dal libro de' suoi Dialoghi, stampato nel 1606; riesce quindi naturalissimo ammettere che costui principalmente tra gli amici del Campanella abbia manifestate le dette cose nell'aula del Principe, e che molto abbia agito egli pure nel determinare Ferdinando a scrivere in favore del Campanella, mentre conosciamo che alle prime istanze dello Scioppio Ferdinando si era già negato. Sarebbe puerile il credere che costui, il quale attendeva egualmente la sua stella per ascendere al soglio Imperiale, abbia davvero provato disgusto pel Campanella tanto protetto da' pianeti, e non invece curiosità di fargli indagare anche i pianeti Arciducali: vedremo tra poco lo Scioppio raccomandare al Campanella di volergli manifestare qualcuno dei segreti suoi utili a Ferdinando, perché questo avrebbe giovato non poco alla sua liberazione, e vedremo anche Ferdinando stesso scrivere al Vicerè di farsi dire dal Campanella questi segreti; era dunque stato tutt'altro che balordo il Campanella a far tante promesse, come lo Scioppio diceva. D'altronde gli Arciduchi solevano annettere molta importanza ai frati predicanti nelle guerre contro i Maomettani, ed anche in questi ultimi mesi, a proposito della canonizzazione del P.e Lorenzo da Brindisi, ci venne rammentato che costui, fondatore de' conventi cappuccini in Praga, Vienna e Grätz, predicò nell'esercito guidato dall'Arciduca Massimiliano contro i turchi, e nella sua lettera agli Arciduchi il Campanella non mancò di dire, "jam paro libellum ad Pannoniae filios contra Macomethum". Aggiungasi che in Grätz gli eretici aveano pure dato molto da fare a Ferdinando, sicchè egualmente da questo lato il Campanella poteva essergli utile come e quanto il Fugger stimava che sarebbe riuscito utile a tutta la Germania; e da un brano di una delle lettere dello Scioppio al Campanella, per verità non molto chiaro, si avrebbe motivo di ritenere che Giorgio Fugger temesse di non poter avere con sè il Campanella qualora fosse stato liberato da Ferdinando(501). In somma un'idea di tornaconto non mancava in tutti questi protettori, e il Campanella l'avea calcolato con la sua solita avvedutezza, come avea pure previsto che durando a lungo il gioco sarebbe sfumato; ciò forse aumentava la sua impazienza anche più del giusto.

La 1a lettera dell'Arciduca Ferdinando al Vicerè, almeno finoggi, non ci è nota testualmente: sappiamo solo che l'Arciduca scrisse nel principio dell'anno 1608 da Ratisbona, avendolo ricordato egli stesso nella 2a lettera, e che dimandò la liberazione del Campanella, ma l'invio della lettera fu ritardato da un tale che non conosciamo. Tutto induce a credere che in conseguenza di essa, o forse meglio in attesa di essa per prevenire le sollecitazioni, il Campanella sia uscito dalla fossa, rimanendo per altro sempre in S. Elmo. Una lettera dello Scioppio al Campanella senza indicazione di luogo né di tempo, ma evidentemente riferibile all'aprile o maggio 1608 come vedremo, comincia col dire, "Godo che le tue cose vadano un pochino meglio", ciò che indica essere avvenuto un cambiamento nelle condizioni del prigioniero in febbraio o marzo. Continua poi col suggerire che scriva particolarmente all'Arciduca Ferdinando, rendendo grazie dell'aver cominciato a gustare il frutto delle sue commendatizie, pregando di richiederlo in ceppi al Re di Spagna, con la promessa di restituirlo quando e dove al Re piacerebbe, e dichiarando che in tre mesi avrebbe fatto molte e così grandi cose a vantaggio dell'Arciduca e di casa d'Austria, da dover confessare che a niun altro egli era tanto debitore quanto allo Scioppio che glie l'avea raccomandato. Aggiunge inoltre voler essere spiegate due opinioni sue che venivano censurate: come mai il Peripateticismo, che avea messo tanta radice nella Chiesa, poteva dirsi empio al punto da ritenere Aristotile precursore dell'Anticristo; perché mai bisognava affaticarsi a propagare la Monarchia Austriaca, se l'Anticristo era prossimo, e per opinione di molti, poggiata sopra alcune parole di Daniele, appena 45 giorni doveano passare tra la morte dell'Anticristo e il giudizio universale. Aggiunge da ultimo che assai avrebbe giovato comunicargli qualcuno de' segreti che egli possiede in beneficio dell'Arciduca. Come ben si scorge, lo Scioppio riconosceva finalmente che le grandi promesse non alienavano niente affatto gli animi de' Principi, ed anzi, furbo com'era, si disponeva a gustarne lui pure i frutti, espilando sempre; coglieva al tempo stesso destramente l'occasione per essere illuminato sulle maggiori quistioni relative all'Anticristo, suo tentativo continuo di espilazione. In fondo poi, il consiglio che dava al Campanella, circa il modo di scrivere all'Arciduca Ferdinando, era identico a quello che il Campanella aveva posto in atto presso l'Imperatore; non avea potuto riuscire presso l'Imperatore, ma conveniva tentarlo presso Ferdinando. - A questa lettera dello Scioppio dovè certamente seguire quella che reca la data del 13 giugno senza l'anno, e poi ancora l'altra in data del 7 novembre egualmente senza l'anno, entrambe da noi pubblicate(502); giacchè vi si trovano riprodotte intere frasi dello Scioppio, vi si parla del doversi ricorrere del tutto all'aiuto del patrono Ferdinando, vi si risponde a' quesiti proposti. Nella 1a lettera il Campanella dà la spiegazione de' tempi dell'Anticristo e del Peripateticismo che considera come uno de' capi dell'Anticristo medesimo, distinguendo in questo 7 capi, 7 corna, ed anche una coda rappresentata da Gog e Magog, con molte altre particolarità atte a solleticare maggiormente la curiosità dello Scioppio: ma non si occupa della quistione de' 45 giorni, che interessava personalmente il suo interrogante come si vide in sèguito e come egli avea capito fin da principio; si duole del resto di non aver potuto mandare i Profetali, facendone nascere sempre più vivo il desiderio, e cerca infine qualche sussidio per gli alimenti e la trascrizione de' libri. Ma l'importante per noi è che riconosce doversi riporre ogni speranza in Ferdinando, per opera del quale solamente vede farsi sempre più sereno, mentre da niun altro c'è da sperare; e ripete che deve ottenersi da Ferdinando il suo trasferimento in ceppi presso di lui per tre mesi, manifestando che il Papa non aveva potuto ottenere né il trasferimento suo a Roma né la terminazione della causa de jure in Napoli (la quale notizia non saprebbe dirsi donde gli fosse venuta). Nell'altra lettura poi si rileva qualche cosa di più. Lo Scioppio, irritato, non rispondeva già a molte lettere del Campanella, principalmente perché il filosofo sospettava sempre che egli volesse farsi bello con le opere sue; ma gli premeva di sapere come dovesse interpetrarsi la faccenda de' 45 giorni successivi alla morte dell'Anticristo, poichè il Re d'Inghilterra lo aveva confutato e deriso circa tale fatto; si era quindi rivolto a fra Serafino di Nocera perché procurasse una risposta dal Campanella, dicendo con furberia che la confutazione cadeva meno sopra di sè che sopra lo Squilla, il quale ammetteva doversi verificare dopo l'Anticristo la Monarchia de' Santi, e però, laddove non producesse argomenti capaci di sodisfare, egli ne avrebbe deriso i Profetali (è manifesto che i Profetali gli aveano toccato il cuore). Questa lettera a fra Serafino era stata scritta il 23 ottobre e giunse nelle mani del Campanella il 7 novembre, d'onde si potrebbe desumere che lo Scioppio si trovasse pur sempre in Germania; ma forse qualche circostanza estranea impedì un sollecito arrivo della lettera, essendo ad ogni modo indubitabile, per notizia tratta da una lettera dello stesso Scioppio scritta assai più tardi a Cassiano del Pozzo e da noi pubblicata, che il 1608 egli tornò a Roma in qualità di Ambasciatore Cesareo per menare innanzi la lega Cattolica, e siffatta circostanza non deve sfuggire. Il Campanella, nella sua risposta, si duole della freddezza dell'amico, e soggiunge, "abbastanza in addietro hai fatto per me, se non vuoi far altro, nessuno ti costringerà"; ma avendo lo Scioppio affermato essere facilissimo e spontaneamente offerto dal suo patrono il trasferimento "ad urbem", dice che lo gradirebbe assai, amando meglio morire in grembo alla Chiesa che essere ben nudrito in mano di nemici, e soggiunge, "non dire di non poterlo fare, poichè altrimenti riterrò essere stato uno scherzo quanto hai professato di aver fatto per me" (forse si alludeva al trasferimento da S. Elmo nella città di Napoli, ma piuttosto a quello da Napoli a Roma, essendo oramai certo che lo Scioppio non credeva utile quest'ultima maniera di trasferimento, perché il Campanella sarebbe stato rinchiuso nelle carceri del S.to Officio, e ne sarebbe rimasto contrariato il Fugger che lo voleva presso di sè). Del resto, quanto alla Curia Romana, il Campanella dice con disdegno ed alterigia, cessino di augurarmi il peggio in Roma; la terra tollera più facilmente un Sole che due" (parrebbe che in Roma avessero conosciuto gli sforzi che si facevano in Germania per averlo colà, ma non li avessero punto approvati, e il Campanella avea dovuto persuadersi non esservi per lui alcuna simpatia nella Curia, ma invece una decisa avversione). Chiarisce poi la quistione de' 45 giorni successivi alla morte dell'Anticristo, ed accenna che per lui questo tempo è di molti secoli, facendo avvertire la necessità di distinguere i capi e la coda dell'Anticristo, la necessità di bene interpetrare i tipi e i postipi, il trigono nel tetragono, i fini latenti negli esordii (un mucchio di particolarità astruse); ed aggiunge, "i Profetali potrebbero ora servire, dì al Papa che comandi si portino a lui, e forse io pure sarò trasferito con essi"; quindi cerca di rabbonirlo e dice, "ti aspetto fra breve ed avrai ciò che desideri da me" (le quali circostanze menerebbero tutte a far ritenere che lo Scioppio già si trovasse in Roma), ed infine chiede che gli mandi il libro del Re d'Inghilterra, perché risponderebbe egli medesimo, e questo forse gli profitterebbe di più (ma non manda niente affatto i Profetali).

Non conosciamo finoggi altre lettere del Campanella allo Scioppio, comunque apparisca possibile che ve ne siano state ancora. Aggiungiamo poi che nell'intervallo scorso tra gl'invii delle due lettere suddette, nell'autunno 1608, dovè accadere la venuta del Fabre a Napoli, nella quale egli "lasciò" al Campanella un quesito Sul Pieno e sul Vacuo; e il Campanella vi rispose, e in fine della sua risposta, che fu da noi pubblicata, disse che stava "più stretto di prima quanto allo scrivere" e che sperava venisse una lettera da Ferdinando, per la quale potesse andare presso di lui; tale circostanza fa determinare con esattezza la data che nella risposta manca, e giova tener presente che a tale data i rigori verso il Campanella non erano del tutto cessati(503). Bisogna anche dire, secondo le notizie tratte dall'Epistolario romano, che tanto lo Scioppio in Germania quanto il Fabre in Roma aveano cominciato ad occuparsi della traduzione delle opere del Campanella: il Fabre faceva tradurre in latino e in tedesco il Dialogo contro i Luterani, e lo Scioppio, che ne sollecitava l'invio al Fugger, faceva tradurre in latino i Discorsi a' Principi d'Italia ed anche il primo libro degli Antiveneti; ma di tutte queste traduzioni non si vide mai la fine. Del pari non si vide mai la conchiusione della mossa del Campanella presso Ferdinando così come era stata concertata con lo Scioppio, vale a dire che Ferdinando scrivesse al Re di Spagna di lasciar venire il Campanella in ceppi presso la persona sua per tre mesi: invece se ne ha una lettera al Vicerè in data di Grätz 3 ottobre 1608, con la quale, accennando all'altra sua precedente inviata nel principio dell'anno, dice che, sebbene non gli sia nota la causa della continuazione della prigionia del Campanella, essendo informato che questo soggetto "per la sua rara dottrina può far gran profitto nella religione Cattolica, si come massime in questi tempi simili persone sono molto necessarie", prega S. E. "di fare gratia al nominato Campanella, liberandolo quanto prima della sua ritentione", ciò che sarà a lui "et a' principali altri, che fanno la medesima instanza, di molto gusto". Come mai Ferdinando desistè dal chiedere il trasferimento del Campanella presso la persona sua? Forse egli seppe che questo non piaceva punto a Roma, dove per lo meno si dovea pretendere che il prigioniero venisse a scontare nel S.to Officio la condanna riportata, onde il Campanella ebbe poi a dire "cessino di augurarmi il peggio in Roma"; forse anche il progetto di far dimandare quel trasferimento fu un semplice artificio dello Scioppio per indurre il Campanella a rivelargli qualcuno de' segreti, de' quali avea dapprima biasimata la promessa. Forse vi fu l'una e l'altra cosa insieme, ma privi della lettura di tutti i documenti noi non siamo in grado di tentarne l'interpetrazione: solo possiamo dire che il Berti assicura essersi dalla lettera ottenuto il semplice trasferimento del Campanella dal Castel S. Elmo al Castel nuovo. Dobbiamo poi aggiungere che vi fu ancora un'altra lettera di Ferdinando al Vicerè, scritta ad istigazione di Giorgio Fugger in data di Grätz 10 maggio 1609, e in questa non si parlò più di liberazione del Campanella, ma invece di due altre cose ben diverse, che meritano di fermare l'attenzione. Ferdinando pregò S. E. in questi termini: "di dar ordine et procurare affine che detto Campanella finisca senza impedimento e dimora i suoi libri della Matematica, d'Articoli profetali et anco della Metafisica. E tanto maggiore sarebbe l'appiacere se mi fossero mandati essi libri, come spero non l' sarà contrario. E poichè molti degni di fede rendono testimonianza et affermano che l'istesso Campanella habbi per il rarissimo suo ingegno et sottil intelletto molte cose di palesare che ridondano in utile et beneficio della M.tà Cat.ca mio sig. cognato, e della nostra casa d'Austria, sarebbe ben fatto che V. Ecc.za lo facesse venir avanti di sè, et intendesse quelli suoi secreti; si come la prego a farlo per amor mio, et comunicarmi poi quel tanto che l' parerà necessario". A questa lettera il Vicerè avrebbe risposto "che non era in sua facoltà di far uscire il Campanella": come ognuno vede, tale risposta non ha alcuna relazione con la proposta, e potrebbe intendersi meglio in relazione con la lettera antecedente. Ma ad ogni modo, con l'ultima lettera, a che riducevasi infine la protezione accordata da tutti questi Signori al Campanella? Ad una pura e semplice espilazione e su tutta la linea, col riconoscimento di qualità superiori nell'uomo di cui s'intendeva carpire le opere e i consigli; e ciò forma il più grande elogio del Campanella, e dovrebbero riflettervi coloro i quali trovano in lui tanti difetti, e cercano sparger dubbî perfino sulla sua capacità e sulla sua dottrina. Con tanti difetti, con tanto poca capacità e dottrina, per sì lungo tempo e con sì grande ardore egli fu stimato in Germania quasi indispensabile per tener fronte agli eretici di quell'età: non è a nostra notizia che parecchi individui siano stati stimati altrettanto(504).

È inutile oramai per la nostra narrazione vedere come anche il Fugger dopo altri tentativi presso la Corte di Madrid, venuto egli medesimo in Napoli nel 1610, si fosse raffreddato definitivamente, e il Fabre e lo Scioppio si fossero persuasi che il Campanella "stava bene dove stava", con accompagnamento anche di dileggi villani e spudorati da parte dello Scioppio: la nozione chiara del disegno di congiura d'accordo col Turco, e il convincimento che varie cose, e tra le altre le apparizioni dì diavoli, fossero state simulate per uscire dalla prigione, tolsero al Campanella ogni appoggio; ed è indubitabile che cessato questo appoggio, i rigori del carcere furono per lui sempre più mitigati dal Governo Vicereale. A noi importa qui principalmente mettere in luce, che in tutti i maneggi per la liberazione del Campanella non vi fu la menoma partecipazione della Curia Romana. Nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella avevamo combattuta la pretesa "missione Papale avuta dallo Scioppio per trattare la liberazione del prigioniero", ed anche negata la venuta dello Scioppio in Napoli che dicevasi effettuata nel 1608, essendoci costui apparso senza dubbio un protettore del Campanella ma col fine recondito di espilarne le opere: i nuovi documenti datici dal Berti hanno provato che vi fu una venuta dello Scioppio, ma nel 1607, ed hanno confermato appieno che la Curia Romana non contribuì per nulla a' tentativi di liberazione ma forse li contrariò, ne hanno affatto smentito che lo Scioppio fu principalmente un espilatore. La missione Papale avuta dallo Scioppio fu già affermata dal Naudeo, il quale nel Syntagma, a proposito de' libri inviati allo Scioppio, fece dire dal Campanella "omnes jam dictos libros Scioppius a me accepit anno 1608, cum venit missus a Paulo V meam tractaturus libertatem, dedi etiam et Atheismum triumphatum": e rimarrà sempre un esempio di grande distrazione l'aver voluto trovare nella lettera del Campanella con la data del 1607, posta qual Proemio dell'Ateismo e pubblicata dallo Struvio, la conferma di una venuta che dicevasi effettuata nel 1608; così pure l'avervi voluto trovare la conferma della missione favorevole data allo Scioppio da Paolo V, mentre vi si legge, "Levitae et Sacerdotes pertransierunt me absque benedictione..., jacebam prastolans mortem sicut Elias sub junipero, tu autem tanquam Angelus me ad vitam excitasti, sed subcineritium panem non attulisti, in cujus fortitudine me usque ad Oreb faceres ambulare". Il Campanella in una prefazione a nome del tipografo, apposta alla ristampa dell'opera De Sensu rerum fatta in Parigi il 1637, disse che al pari di Tobia Adami e Rodolfo di Bima venuti in Napoli il 1613, anche lo Scioppio si aveva procurate dagli amici tutte le opere che egli avea composte "in anno 1608"; ma in una data più vicina a questa di cui trattiamo, nel 1631, quando potè pubblicare per la prima volta in Roma l'Ateismo debellato, nella prefazione disse, "misi hunc libellum amico ut proficeret in Germania, anno Domini 1607, multosque libros meos"; né in alcuno di questi due brani parlò mai della missione data allo Scioppio da Papa Paolo. Il Naudeo, che fu il vero redattore del Syntagma, venne forse tratto a scrivere ciò che scrisse, rilevando l'anno dal primo de' due brani suddetti, ed aggiungendo la circostanza della protezione del Papa pel gusto inopportuno di recar gloria al Papato e vantaggio alla riputazione del Campanella: egli avea già fatto lo stesso scrivendo il celebrato Panegirico ad Urbano VIII, in cui non solo esaltò questo Papa qual protettore del Campanella, ma anche Gregorio XV, Paolo V, e perfino Clemente VIII, che aveva certamente inaugurato l'abbandono del filosofo nelle mani degli spagnuoli. Ma, al solito, lo stesso Naudeo parlò nuovamente della venuta dello Scioppio a Napoli in una lettera privata diretta appunto a lui, che fu pubblicata dopo la sua morte e che noi non mancammo di ricordare; e in questa lettera parlò ben diversamente dello scopo della venuta a Napoli, riducendolo alla semplice voglia di vedere il Campanella, senza alcuna missione Papale. "Neapolitanum iter, quod ejus tantum invisendi gratia susceptum a te fuit"; e del resto per non mancare all'abitudine dell'elogio continuo, vero o falso, il Naudeo aggiunse essere stato dallo Scioppio procurato al prigioniero l'assegno di una non mediocre quantità di danaro per vitto e la concessione di una somma libertà, i quali beneficii sappiamo veramente essere stati goduti dal prigioniero alcuni anni dopo(505). - Non paia eccessivo questo trattenerci a lungo sul fatto della missione Papale: se ci fossero elementi capaci di accreditarlo, il fatto riuscirebbe sufficientemente grave; e per esso appunto siamo entrati ne' tanti e tanti particolari di ciò che avvenne dal 1607 in poi, giacchè altrimenti ci sarebbe bastato dire che il Campanella non trovò ascolto favorevole alle sue dimande né in Roma né in Spagna, in nessuna delle due parti che avrebbero potuto realmente dare un termine a' suoi guai. Qualora avesse dovuto accogliersi il fatto di una missione di Paolo V "per trattare la libertà del Campanella" od anche una partecipazione di Paolo V a' maneggi altrui per farlo uscire in libertà, sarebbe apparso molto naturale essere state mandate buone al Campanella le ragioni da lui addotte in difesa presso la Curia, circa la congiura e l'eresia, essersi riconosciuta ne' guai del Campanella una pura e semplice soperchieria di Spagna: per verità questo non avrebbe scosso dalle fondamenta ciò che abbiamo esposto massime intorno alla congiura, mentre la Curia mille volte pretese essere stati calunniati i delinquenti sol perché clerici; ma avendo spesso abbandonato gl'imputati ecclesiastici anche appena sospetti, ogni qual volta trattavasi d'imputati politici, sarebbe sempre rimasto un motivo di dubbî e di perplessità. Invece è chiaro che Paolo V, già guarito della mania dell'immunità ad ogni costo dopo la faccenda di Venezia, avrebbe potuto solamente reclamare dal Governo Vicereale che si pronunziasse una volta la sentenza nella causa della congiura in persona del Campanella, la qual cosa nemmeno il filosofo desiderava, ma non mai trattare perché egli fosse posto in libertà. Essendo stato dal suo antecessore, con un Breve in piena regola, istituito un tribunale ecclesiastico speciale in Napoli, non avrebbe potuto seriamente esigere che il Campanella fosse stato giudicato dal tribunale Romano com'egli dimandava: è superfluo poi dire quanto grave sarebbe riuscito l'accogliere l'altra dimanda del Campanella, l'annullamento di un giudizio di eresia, menato innanzi con tutta la solennità possibile, sotto l'ingerenza continua della rispettiva Congregazione Cardinalizia preseduta dal medesimo Papa antecessore. Ed appunto perché vi era stata una condanna in siffatto giudizio, riesce chiaro che il Papa avrebbe sempre dovuto esigere che il Campanella, non appena uscito dal carcere di Napoli, l'espiasse, e non andasse già a predicare contro gli eretici, mentre con quella condanna egli medesimo era stato implicitamente dichiarato un eretico: sotto tale rispetto è pure da notarsi che lo Scioppio, consapevole della condanna e tanto svisceratamente attaccato al Papa e alle istituzioni Cattoliche, vi si sia mostrato davvero tanto poco ossequente; ma vediamo anche oggi dove vada per solito a parare lo sviscerato attaccamento al Papa e alle istituzioni Cattoliche.

Inutili dunque riuscirono gli appelli, le suppliche, le lettere del Campanella, e gli sforzi de' suoi protettori, compresi quelli attuati per mezzo dello Scioppio, non approdarono a nulla: egli rimase nel carcere, dove i rigori furono ulteriormente mitigati sempre, ma non si venne mai più alla sentenza, essendosi poi col tempo perfino disperso o bruciato il processo, sicchè, anche volendo, non si sarebbe potuto sentenziare. E vogliamo dire che egli non cessò mai di serbare viva gratitudine verso coloro i quali si adoperarono per lui, verso lo stesso Scioppio, sebbene avesse avuto ragione di convincersi che si era servito delle opere trasmessegli per comporre le proprie. Appunto nella prefazione dell'Ateismo debellato stampato nel 1631, ricordando di aver mandato "ad un amico" quel libro con molti altri, il Campanella aggiunse, "quibus ad suorum compositionem profecit", ed augurò all'Ateismo "meliores fructus apud veritatis et non propriae gloriae cultores": nella prefazione poi della ristampa parigina dell'opera De Sensu rerum, nel 1637, lodando Tobia Adami che gli si era mostrato fedele nell'aver procurata la pubblicazione delle opere avute, e menzionando lo Scioppio ed altri tedeschi e francesi, che avute le opere "nulla fecero per la gloria dell'autore", aggiunse "nisi Scioppius pro vita in principio". Così fino agli ultimi anni suoi il Campanella, ricordando il male, non dimenticò il bene, e ciò prova la bontà della sua natura, la quale del rimanente è attestata anche da varii altri fatti memorabili: basta considerare la difesa di Galileo Galilei, che scrisse mentre si trovava tuttora nel carcere di Napoli, e la difesa di Girolamo Vecchietti, che sostenne con pieno successo quando se lo trovò a lato nel carcere del S.to Officio in Roma(506). Le speranze di prossima liberazione lo tennero inerte per molto tempo. Dopo di aver menato a termine febbrilmente le opere da doversi trasmettere allo Scioppio, scrisse soltanto gli opuscoli epistolari che abbiamo menzionati: gli ultimi tra questi, riferibili al 1608, furono gli opuscoli Sul Peripateticismo e Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo, che forse rappresentano le risposte al Re d'Inghilterra delle quali si trova fatta menzione nel Syntagma, ed inoltre quello Sul Pieno e sul Vacuo diretto al Fabre. Al sèguito di essi si può mettere quello Per l'Abate Persio sull'uso della bevanda calda, che dovè essere di maggior mole e vedesi già preconizzato nell'opuscolo antecedente Sul calore estivo: esso apparisce riferibile a questo periodo, nel quale certamente il Campanella trovavasi in assidua corrispondenza col Persio, come mostra l'ultima sua lettera al Fabre tra quelle da noi pubblicate; ma bisogna anche dire che vi furono molti opuscoli e lettere all'indirizzo de' Fuggers, secondochè risulta dalla menzione fattane nel Syntagma. Compose inoltre senza dubbio molte poesie di dolore o di sdegno pubblicate poi dall'Adami, delle quali riesce di poter determinare talvolta la data precisa e più sovente la data approssimativa, sia dietro qualche circostanza che vi si vede notata, sia dietro qualche riproduzione di pensieri che si trovano espressi nelle lettere e nelle opere di data conosciuta. P. es. non si può dubitare che l'"Elegia al Sole", composta quando stava ancora nella fossa, debba dirsi della fine di marzo 1607, poichè vi si parla del sole in ariete e del tempo in cui Gesù risorse, ciò che ci mena alla Pasqua di risurrezione del 1607, sapendosi che in quest'anno veramente la Pasqua si celebrò col sole in ariete il 26 marzo, mentre nell'anno anteriore e nel posteriore si celebrò in aprile; dippiù vi si trova quel pensiero che fu poi riprodotto nella lettera a Mons.r Querengo del luglio 1607:

"Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive,

invidio misero tutta la schiera loro".

Ancora il pensiero che trovasi nella stessa lettera, l'esser cioè il povero prigioniero "un meschino condannato dall'opinione popolare e di Principi, come il più empio e malvagio che fosse mai stato nel mondo", ci apparisce quello che ispirò i Sonetti "Della plebe" ed "A certi amici, ufficiali e Baroni" etc.; ma perfino le lettere al Papa, oltrechè l'Ateismo debellato, recano pensieri posti del pari in versi quasi letteralmente, né possiamo far altro qui che indicare tale criterio per la ricerca delle date. E poichè abbiamo citati que' due Sonetti, vogliamo pur dire che nell'uno "Della plebe" il sentimento di un legittimo disgusto ci apparisce fin dal titolo predominante su quello della compassione, e nell'altro "A certi amici" il contesto di tutta la proposizione, là dove si dice che "un piccol vero gran favola cinge", non rende queste parole applicabili propriamente alle imprese tentate in Calabria, come è parso ad un egregio storico; né sappiamo poi resistere alla tentazione di ricordare qui l'aurea sentenza che vi si legge, e che non è riferibile propriamente alla plebe, da cui il Campanella professava non potersi trar nulla, bensì riferibile a coloro che vanno per la maggiore:

"né il saper troppo come alcun dir suole,

ma il poco senno degli assai ignoranti

fa noi meschini e tutto il mondo tristo".

Ma ciò che qui principalmente c'interessa di ricordare si è, che tutte queste poesie insieme con le altre scritte posteriormente fino al 1613, come pure le note delle quali vennero corredate dallo stesso Autore, sebbene fossero state soggette ad una scelta e non col solo criterio del merito filosofico e letterario, bensì(507) con quello pure della convenienza politica e giudiziaria, costituiscono pur sempre un fonte prezioso di ricerche sugli atti e sugl'intendimenti veri del Campanella, le notizie de' quali doverono sottostare a tanti garbugli. Come da un lato la Città del Sole mostra le idee riposte del Campanella, così questa Scelta delle Poesie filosofiche con l'esposizione, studiata con amore ed accorgimento, rivela notizie importanti e testimonianze autentiche ben capaci di stare a fronte alle testimonianze del pari autentiche ma in senso affatto diverso: nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella, a proposito della edizione Adami da noi trovata e studiata nella Biblioteca de' PP.i Gerolamini, ci si è offerta l'occasione di fare alcune considerazioni su tale proposito, e ad esse rimandiamo i nostri lettori(508).

Abbiamo detto che secondo le notizie tratte dall'Epistolario romano il Campanella sarebbe uscito dalla fossa di S. Elmo, rimanendo sempre in quel Castello, verso il febbraio o marzo 1608, dopo che era stata scritta la 1a lettera dall'Arciduca Ferdinando nel gennaio: noi eravamo pervenuti allo stesso risultamento con calcoli fatti sopra una notizia, per altro poco chiara, che trovasi nella nota posta in coda alla Canzone "Della Prima Possanza"(509). Quivi si legge che egli uscì dalla fossa, in cui stava quasi disfatto, otto mesi dopo di avere scritta quella Canzone, "sebbene ci stette tre anni ed otto mesi": il "sebbene" rende poco chiara la notizia, ma ritenendo l'entrata nella fossa avvenuta in luglio 1604 secondo i còmputi altrove esposti, e aggiungendovi tre anni ed otto mesi, abbiamo che, mentre la Canzone fu scritta in luglio 1607, l'uscita dalla fossa dovè accadere verso il marzo 1608; ed è superfluo fare avvertire come rimanga provato sempre meglio che la data dell'entrata nella fossa deve dirsi quella da noi stabilita. Importerebbe poi conoscere con precisione la data del trasferimento dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, e finora si ha in modo vago che il trasferimento sarebbe accaduto dopo la 2a lettera di Ferdinando, vale a dire dopo l'ottobre 1608: dal Syntagma si ha dippiù che nel 1611 era già accaduto un altro trasferimento dal Castel nuovo al Castello dell'uovo. La conoscenza della data precisa del 1° trasferimento, dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, importerebbe anche per fermare una circostanza fondamentale, capace di contribuire al chiarimento di un fatto della vita intima del Campanella, che è affermato dalla tradizione ma che potrebb'essere piuttosto leggendario. Alludiamo alla nascita di quel grande che fu Gio. Alfonso Borrelli, alla cui memoria si vedrebbe già elevato in Napoli un monumento, se vi fosse, come vi dovrebb'essere, il culto della dottrina e della virtù; è noto che verso questo tempo egli nacque nel Castel nuovo, e che una tradizione vorrebbe fosse nato dal Campanella(510). Aggiungiamo poi che tanto nel Castel S. Elmo, quanto nel Castel nuovo e del pari nel Castello dell'uovo, il Campanella, assomigliandosi a Prometeo, continuò sempre a dire di trovarsi "nel Caucaso"; altre volte disse di trovarsi "nella Ciclopèa caverna"; questo rilevasi dalle Lettere e dalle Poesie. perché mai il Campanella si assomigliava a Prometeo? In molte sue lettere egli si riconobbe colpevole di aver voluto servire alla rivelazione de' tempi, e così essendo le cose dovrebbe intendersi avere avuta la sorte di Prometeo per aver voluto scrutare ed annunziare agli uomini i pensieri di Dio, gli eventi ordinati da Dio. Ma nella lettera allo Scioppio pubblicata dallo Struvio parlò esplicitamente della sua condizione di Prometeo, consegnando l'opera dell'Ateismo debellato con queste parole: "Eia mi Scioppi, cape facellam hanc, in pectoribus hominum interclude, si forte ex ruderibus fiant animalia, ex animalibus homines; tibi debetur hoc munus, qui hujus saeculi es aurora; ego tanquam Prometheus in Caucaso detineor, quoniam non rite hoc functus sum munere, abusus sum donis ejus, ebibi indignationem ejus". Intanto nella lettera medesima lo Scioppio era sospettato tutt'altro che l'aurora del secolo, e quindi ognuno, tenendo presente l'alto concetto che il Campanella aveva di sè e della sua missione nel mondo (principale ragione di fargli desiderare la vita), ammetterà piuttosto che siasi rassomigliato a Prometeo nel senso della trilogia di Eschilo: aver concepito disegni divini, riflessi del Primo Senno, ed essersi sforzato d'infonderli ne' petti umani; venir punito "per avere troppo amato gli uomini"; aspettarsi un giorno la liberazione e il trionfo. Su questo ultimo fatto non cade dubbio, sapendosi dalle sue Poesie che egli sperava doversi al termine del suo carcere gridare "Viva, Viva Campanella"; sicchè da tutti i lati emerge abbastanza chiara anche la vera condizione sua per la quale ritenevasi punito, conforme a quella dichiarata dal Prometeo d'Eschilo:

[...]

Certamente poi bisogna del pari intendere con le nozioni dateci da Omero (quell'arguta versione tra le tante, che lo stesso Campanella fornì circa il termine della sua condizione di Prometeo o l'uscita dalla Ciclopèa caverna: tale versione si legge nella sua lettera a Pietro Seguier, posta innanzi all'opera intitolata Disputationum Philos. realis lib. quatuor Paris. 1637, ed essa, a parer nostro, avrebbe dovuto fermare moltissimo l'attenzione de' biografi del filosofo. Parlando degli ergastoli, ne' quali i persecutori, "gl'ingrati padroni", l'aveano tenuto "gratis", il filosofo dice che non avrebbe mai pubblicato le opere in essi composte, "nisi Deus per miraculum longe mirificentius quam astutum facinus Ulyssis, quod de antro Polyphemi fecit ut exiret, me liberasset". Si comprende che il titolo d'"ingrati" dato a' padroni, naturalmente tanto laici quanto ecclesiastici, è consentaneo all'atteggiamento preso dal filosofo dopo la carcerazione e mantenuto per tutto il resto della sua vita; ma in ultima analisi questi padroni rappresentavano per lui Polifemo, e coll'aiuto di Dio egli ne scampò mediante un "astutum facinus longe mirificentius" di quello di Ulisse, vale a dire che astutamente, e in una sfera ben più elevata, egli li ubbriacò, li accecò, e riuscì a salvarsi ponendosi in branco tra le pecore, aggrappato bravamente agli egregi velli del pecorone massimo (storia che non ha bisogno di commenti e che dice anche troppo):

[...]

Una simile proposizione, anche figurata, emessa quando già non c'era più nulla a temere e tanto meno a sperare da tutti i lati, riesce degna di fede incomparabilmente più di tutte le altre emesse in tempi ben diversi: e questo criterio vale senza dubbio per giudicare le cose dette sì dal Campanella che da' suoi più intimi amici circa le cause delle sue sciagure; poichè non mancano neppure proposizioni di qualche suo intimo amico, attestanti piena innocenza quando gravi riguardi imponevano di parlare in tal modo, ed attestanti tentativi di nuovo Regno e di nuova religione quando non c'era da usare riguardi e poteasi dire la verità senza danni.

Il nostro compito è esaurito; dobbiamo solamente fermarci ancora un poco su due quistioni, che senza dubbio saranno sorte nell'animo de' lettori, i quali per avventura abbiano seguito con interesse il corso di questa narrazione. perché mai il Governo Vicereale volle comportarsi così brutalmente col Campanella, costituendosi anche dal lato del torto, mentre avrebbe potuto ottenerne dal tribunale Apostolico la condanna all'ultimo supplizio? perché mai il Governo Vicereale volle far soffrire al Campanella il martirio di oltre un quarto di secolo, e la Curia Romana, tanto lesta ed ardita nell'esigere il rispetto delle prerogative degli ecclesiastici, non ebbe alcun sentimento o per lo meno alcun sentimento efficace della tutela di queste prerogative in persona del Campanella?

Circa la prima quistione, a noi sembra evidente che sulla determinazione del Governo abbiano avuto ad influire dapprima il sospetto e la diffidenza, poi anche il puntiglio giurisdizionale, in sèguito la sconvenienza assoluta di un supplizio tanto ritardato. Coi criterii d'oggidì sarebbe quasi impossibile intenderlo, ma è necessario riportarsi a' criterii del tempo. Il sospetto e la diffidenza, che aveano sempre campeggiato in questa causa per una lunga serie d'incidenti, doverono al termine di essa destarsi con maggiore intensità. C'era il gusto della soverchieria anche tra' Governi, e l'abilità si faceva consistere nel soverchiare. Poteva darsi il caso, veramente improbabile ma non impossibile, che all'ultima ora da Roma fosse stato insinuato al Nunzio il risparmio della vita del Campanella, con la condanna p. es. alla galera in vita; l'altro Giudice, compagno del Nunzio, si sarebbe invece pronunziato per la pena di morte; chi avrebbe allora dovuto risolvere la discrepanza? E risoluta la discrepanza nel senso della galera in vita, come si sarebbe scansata la richiesta dell'invio del condannato a Roma, per remigare sulle galere di S. S.tà? Quanto al puntiglio giurisdizionale, bisogna considerare le tendenze del tempo veramente incredibili in tale materia, la lotta vivissima e continua, benchè non sempre appariscente, tra Napoli e Roma. In questa lotta, anche più degli spagnuoli, si distinguevano i napoletani, e il Vicerè medesimo, trattandosi di quistioni giurisdizionali, difficilmente riusciva a sottrarsi all'influenza loro nel Consiglio Collaterale; se si avesse, come sarebbe a desiderarsi grandemente, una storia di questo Consiglio, riuscirebbe manifesto che i Consiglieri napoletani, serbando tutte le possibili forme di devozione e di ossequio, in sostanza erano i più diffidenti e puntigliosi verso Roma; tra le scene di servilismo più abietto, le quistioni con Roma avevano il potere di far lampeggiare in essi il patriottismo più rovente. Così a ragion veduta, anche a proposito degl'indegni trattamenti a' quali il filosofo venne sottoposto, noi abbiamo parlato di Governo Vicereale più che di spagnuoli e Corte di Spagna, contro cui sono stati sempre esclusivamente diretti i biasimi e i vituperii, sapendo che il Vicerè dovè udire l'avviso del Consiglio Collaterale negl'incidenti della causa del Campanella(511). E pur troppo Roma avea data occasione a' puntigli: durante la causa, i superbi "comandamenti di S. S.tà" erano venuti in campo abbastanza sovente, ma l'ultimo di essi, quello di far sentenziare dal solo Nunzio in una causa di Stato mentre si era pure convenuto altrimenti, sorpassava davvero ogni limite. Bisognava dare una risposta a Roma, e la risposta fu atroce, quantunque in forma più che modesta e affatto calma. Roma la comprese perfettamente e non parlò più, ma bisogna pure ammettere che essa venne ad accomodarvisi di buon grado: riuscirebbe altrimenti inesplicabile l'aver potuto tollerare in pace, né per breve tempo bensì per anni, la violazione perfino di quanto si era convenuto fin da principio, di doversi cioè tenere il Campanella in carcere, egualmente che tutti gli altri ecclesiastici, a nome ed istanza del Nunzio, come prigione di lui; e ciò mentre quotidianamente per ogni menomo clerico, ancorchè malfattore de' più feroci, fioccavano i suoi reclami laddove si fosse verificata la più lieve infrazione dell'immunità ecclesiastica. Non occorre poi spendere molte parole per dimostrare, che essendo scorsi già varii anni dal momento del reato e della cattura del reo, al Governo doveva ripugnare l'esecuzione di una pena capitale, massime in persona di un ecclesiastico. Trattandosi di reati gravi, non appena il voluto reo era caduto nelle mani della giustizia, per canone indeclinabile si abbreviavano i termini in modo spietato, e si preferiva di andare incontro ad una condanna meno giusta, anzichè ad una condanna tardiva: la prontezza ed esemplarità della pena era ritenuta una condizione tanto necessaria, che quasi non occorreva più pensare alla pena allorchè quella condizione mancava. Un cumulo di circostanze, non provocate ma deplorate dal Governo Vicereale, aveano prodotto un ritardo notevole, ed oramai alla pena capitale non si poteva più pensare: si devenne a ciò che dapprima il Campanella medesimo avea proposto come il migliore espediente, il carcere per un tempo indefinito, il quale fu poi anche mitigato, sia pure dietro le potenti commendatizie, e mitigato di certo ulteriormente in modo niente affatto ordinario, ma senza dubbio facendo rimanere negata la giustizia, calpestata ogni maniera di dritto. Tuttavia non deve sfuggire che se in dritto il non essersi proceduto alla sentenza fu una solenne ingiustizia, nel fatto solamente in tal guisa il Campanella riuscì ad aver salva la vita, non potendo dubitarsi che la sentenza del tribunale Apostolico, anche col nuovo Nunzio e col nuovo Consigliere, sarebbe stata sempre la degradazione e la consegna alla Curia secolare e quindi l'ultimo supplizio. Così bisogna pure guardarsi dal maledire l'interruzione della causa, e bisogna piuttosto esser grati alla lotta giurisdizionale, alle superbie, alle pretensioni, alle diffidenze, a' puntigli, all'abbandono; perfino all'abbandono, poichè se Roma avesse insistito su ciò che era veramente un suo dritto, la cosa non sarebbe andata affatto meglio pel povero Campanella, e si è visto che egli medesimo si protestava energicamente che la sua causa non doveva terminare in Napoli.

Circa la seconda quistione, non ci pare dubbio che i due fatti egualmente notevoli, cioè la pervicacia e crudeltà del Governo Vicereale nel non desistere da un'ingiustizia, e l'indolenza e mollezza della Curia Romana nel non reclamare seriamente un suo dritto per anni ed anni, si spieghino solamente con l'opinione divenuta comune ad entrambe le parti, che il Campanella fosse un uomo pericoloso per lo Stato e per la Chiesa. Possiamo aggiungere senza esitazione, che più si mostrava la rigogliosa vitalità del prigioniero, più si veniva a manifestare la sua dottrina, la sua energia, la sua versatilità, la sua vena inesauribile, più doveva egli essere giudicato pericoloso. La cosa merita di essere ben valutata, e gioverà trattenervisi qualche momento.

Lo Stato, che avea veduto sorgere in breve tempo un disegno non lieve di ribellione per la sola parola efficace del Campanella, non potè mai rimanere tranquillo sul conto di lui; e per quanto egli si stemperasse in proteste di devozione, e spiegasse nelle sue opere un grande attaccamento a Spagna, non gli accordò mai fede. Vedendolo poi rivolto a Roma assiduamente, con la teorica del dovervi essere una sola greggia ed un solo pastore Sacerdote e Re al tempo medesimo, sospettò sempre che una volta liberato avrebbe potuto riuscire nelle mani del Papa una forza notevole. Così dopo una diecina di anni al più, sebbene il Campanella avesse continuato a dire che si trovava nel Caucaso, in realtà sappiamo che il Governo Vicereale lo tenne in carcere da potersi veramente chiamare cortese, come il Baldacchini chiamò il carcere di S. Officio sofferto più tardi in Roma, e con ragione incomparabilmente maggiore, vista la qualità del Governo che a tanto si piegava e il tempo in cui vi si piegava; ma di mandarlo via non volle mai udire a parlare, presago che avrebbe avuto a pentirsene. Gli concesse perfino di tenere insegnamento privato nelle carceri, oltrechè scrivere a sua volontà, porsi in corrispondenza con chi gli piacesse, ricever visite anche da illustri viaggiatori di passaggio per Napoli, e quanto alle opere che componeva, si vide il Nunzio nel 1611 fargli fare una perquisizione ed impossessarsi di quello che gli si trovarono, mentre nulla di simile si vide da parte del Governo. I Vicerè che si successero, il Conte di Lemos figlio, il Duca d'Ossuna, infine anche il Duca d'Alba, ebbero per lui stima e riguardi, più che non ne ebbero i Vicerè ecclesiastici, il Card.l Borgia e il Card.l Zapatta, e fin dal 3 novembre 1616, certamente pe' favori dell'Ossuna, il Campanella potè scrivere al Galilei "sto quasi in libertà"; ma l'uscita dal Castello non gli venne accordata, se non dopo che scorse oltre un quarto di secolo, dopo che il processo si era già perduto da un pezzo, ed un'ulteriore custodia del prigioniero non sentenziato né sentenziabile si potea dire, più che inumana, vergognosa. La preoccupazione del Governo fu sempre che il Campanella avrebbe potuto riuscire una forza notevole nelle mani del Papa: ce lo ha dimostrato tutto l'atteggiamento da esso preso durante i processi, e ce lo conferma un prezioso documento da noi rinvenuto in Madrid. Perfino poco tempo prima che il Campanella fosse liberato, il Card.l Trexo spagnuolo, ammiratore suo e giudice competentissimo della posizione, gli ricordava le condizioni del Regno a fronte di Roma, gli faceva riflettere che troppo sovente egli aveva ne' suoi scritti lodato l'insolito governo di un Principe che fosse Re e Sacerdote ad un tempo, e soggiungeva: "poni mente a cancellare quest'articolo, o almeno a spiegarlo in un senso tale, che l'animo del Re, il quale non è né può essere Sacerdote, e le orecchie de' suoi ministri non se ne offendano e ti abbiano ancora in sospetto". Nessuno intanto, speriamo, vorrà supporre in noi l'intenzione di scusare il Governo Vicereale, adducendo le concessioni fatte al Campanella e la preoccupazione che gli vietava di accordargli la libertà: noi, forse più di chiunque altro, siamo convinti che il procedimento del Governo fu non solo iniquo ma anche letale segnatamente pel Napoletano; poichè il colpo gravissimo, inflitto alla cultura e al carattere di un uomo portentoso, ricadde sulla cultura e sul carattere del paese. Colui che aveva iniziato la sua carriera con la "Filosofia dimostrata co' sensi", ed aveva osato concepire un più che audace progetto di riscossa nei campi dello Stato e della Chiesa, non potè appunto profittare dei suoi sensi, dovè abbondare in fantasie, abbondare anche pur troppo in simulazioni; e parecchi i quali emersero di poi sulla folla degl'ignoranti, essendo accorsi al suo privato insegnamento non appena mitigati i rigori del carcere, ne riportarono naturalmente i molti pregi ma anche i gravi difetti. A noi però incombe il debito di spiegare la condotta del Governo e di mostrare che essa non fu capricciosa. Il Campanella era giuridicamente colpevole verso lo Stato, e venne ritenuto inesorabilmente un pericolo continuo per la Spagna: fu questa la maggiore delle sue glorie, e il Governo vi provvide con quella ferocia che era la sua forza.

Ma al martirio del Campanella non contribuì solamente lo Stato. La Chiesa aveva avuto occasione di conoscerlo già da un pezzo, né poteva non tener conto degli antecedenti; dapprima un grave sospetto di eresia finito con una solenne abiura, poi varie altre imputazioni dello stesso genere ma riuscite a vuoto, da ultimo un disegno di ribellione d'accordo col nemico del nome Cristiano e un mucchio di eresie, accertati con un processo Apostolico ed un processo Inquisitoriale; c'era più di quanto occorresse, per rimaner sorda alle proteste di devozione, e guardare con diffidenza le opere del prigioniero ancorchè riboccanti di fervore religioso. Come abbiamo dimostrato, la condanna pronunziata dalla Chiesa nel processo di eresia non fu benevola pel Campanella, ma al contrario, e le ripetute istanze fatte perché si sentenziasse nel suo processo di congiura, dopo di aver dato termine a quello di eresia, non erano dirette a salvarlo. Ignoriamo quali pratiche Roma abbia veramente fatte dopo un lungo, lunghissimo silenzio, a fine di ottenere il passaggio del Campanella almeno sotto l'autorità del Nunzio, come essa esigeva per ogni ordinario delinquente ecclesiastico, e come erasi convenuto fin da principio. Conosciamo soltanto con sicurezza, che pur quando si seppe indubitatamente che il processo della congiura non si trovava più essendo stato disperso o bruciato, come accadde nel 1620 a tempo del Vicerè Card.l Borgia il quale volea vederlo e non lo potè avere, nessun reclamo efficace fu sporto da Roma per uscire da una posizione tanto scandalosa. Conosciamo inoltre che perfino dopo 25 anni di carcere, durante il Pontificato di Urbano VIII, il Campanella chiedeva istantemente che il P.e Generale dell'Ordine facesse una dimanda al Re perché lo concedesse a' Superiori, come da Spagna si desiderava per uscire dall'imbarazzo: e non avendo potuto ottenerlo, ed essendosi fatto raccomandare al potentissimo Card.l Barberini per questo, ebbe a provare che il Cardinale si acquetò facilmente alla negativa del P.e Generale, e ripetendo una proposizione emessa già dal Fabre e dallo Scioppio disse che il Campanella "stava meglio dove stava"(512). Conosciamo infine che dietro le insistenze di Mons.r Massimi Nunzio in Ispagna, fautore particolare del Campanella e carissimo al Re, venne una lettera Regia per lui, e sopra un memoriale da lui presentato si decretò in Consiglio Collaterale non la consegna al Nunzio ma la libertà provvisoria con l'obbligo di risedere nel convento di S. Domenico in Napoli; che di poi, in barba del Governo Vicereale, se ne fuggì travestito a Roma, e quivi scontò tre anni di pena nel carcere del S.to Officio, come era solito farsi pe' condannati al carcere perpetuo, senza che fossero veramente computati i 26 anni di carcere sofferti in Napoli; né per quanto mite sia stato il carcere di Roma, si può dirlo più mite di quello di Napoli negli ultimi quindici anni, mentre in quest'ultimo era stato permesso fin l'insegnamento, che non fu mai permesso in Roma, non solo dentro, come era naturale, ma neanche fuori del carcere, consecutivamente. Tutto ciò mena a far ritenere che durante la prigionia di Napoli l'abbandono del Campanella fosse dipeso anche dalla sua condizione di delinquente politico, giacchè di simili abbandoni si ebbe pure un altro esempio più spaventoso sotto lo stesso Pontificato di Papa Urbano: è noto come finì l'allievo del Campanella fra Tommaso Pignatelli, reo di Stato in un ordine incomparabilmente inferiore a quello del suo maestro, abbandonato al giudizio di un ecclesiastico gradito al Vicerè nominato dal Nunzio per delegazione avutane dal Papa; egli fu atrocemente strangolato, dopochè quell'ecclesiastico, con la semplice assistenza di un Consigliere Regio, lo sentenziò reo di lesa Maestà, e bisogna tenerlo presente quando si discute de' casi del Campanella. Del resto la sola condizione di condannato per eresia bastava a far sì che Roma si curasse poco o niente del Campanella prigione, e sarebbe strano il pretendere che avesse dovuto mostrare tenerezze per lui. Qui dunque, speriamo, nessuno vorrà attendersi da noi vederci ingrossar la voce contro Roma: noi invece siamo dolenti di ciò che accadde più tardi e che è da tutti glorificato, della benevolenza mostrata al Campanella da Papa Urbano, la quale per verità non fu punto disinteressata, e in ultima analisi finì con la compromissione, con l'esilio, con l'abbandono spietato del filosofo nella più affliggente miseria. Ma pel nostro assunto ci preme ora solamente rilevare e spiegare la condotta di Roma verso il Campanella durante la prigionia. Il Campanella era non solo giuridicamente colpevole ma anche condannato dalla Chiesa, né giunse ad ispirare fiducia per l'avvenire, e Roma si comportò con lui non diversamente da quanto doveva attendersi da essa. Così lo Stato e la Chiesa vennero a trovarsi tacitamente d'accordo nel far soffrire al disgraziato filosofo un martirio efferato.

In conclusione ci si permetta ancora di dire, che non solamente due tribunali in regola, entrambi istituiti da Roma, aveano verificata e punita la congiura e l'eresia ne' pochi ecclesiastici più indiziati e non isfuggiti al Fisco, onde rimaneva del pari giustificata l'opera del tribunale pe' laici, ma tutti veramente in quel tempo ammisero esservi state pratiche dirette dal Campanella per fondare, aiutandolo anche il Turco, un nuovo ordine di cose in Calabria, con nuove istituzioni politiche e religiose. né solo pel tempo degli avvenimenti, ma anche per più anni consecutivi questa fu l'opinione generale, partecipandovi del pari senza riserva Agenti di altri Stati perfino in momenti di forte irritazione verso Spagna, come si può rilevare da' Carteggi de' Residenti Veneti che si successero nel Regno: se qualche volta si disse, come il Campanella medesimo affermò, che la Calabria era stata macchiata di falsa ribellione e straziata per questo, si volle intendere che tutta quella regione era stata tenuta responsabile di un fatto concepito e preparato da un gruppo d'individui, e con tale falso giudizio se n'era abusato scelleratamente. Ma, oltrechè negli avversi a Spagna, negli indifferenti medesimi non del tutto inetti, venne mano mano a destarsi la più profonda pietà verso un uomo tanto straordinario, che si vedeva indefinitamente prigione di Stato senza alcuna condanna, mentre, dopo i primi supplizii e le estese carcerazioni, già tutti i complici e in ispecie i frati si trovavano in libertà. Vennero quindi le voci de' pietosi e degli ammiratori ad unirsi alle franche denegazioni ed agli amari lamenti del prigioniero, massime dopo che, mediante l'insegnamento, gli fu permesso un più largo contatto co' migliori, e le corrispondenze, le visite, e sopratutto le opere che si diffondevano manoscritte o si citavano con meraviglia, diedero motivo a far parlare di lui diversamente dalla maniera in cui se n'era parlato prima. Talora in buona fede, più sovente con lo scopo di giovare al prigioniero, lo si disse candido ed ingenuo, vittima del suo spirito d'innovazione scientifica, avversato dagl'invidiosi; si accreditarono le sue discolpe, e fu agevole dimostrarle giuste nominando certe opere da lui scritte; si diffuse che Spagna gli negava la libertà per errore e per tirannia, che Roma l'avrebbe voluto e l'avea voluto, che il Papa era tutto per lui. Cominciò quindi a ritenersi, press'a poco come fino ad oggi i più gravi biografi del Campanella hanno mostrato di ritenere, che egli avea solamente fatto presagi e raccolto profezie per dimostrare la imminente fine del mondo e il secolo d'oro da doversi godere prima di essa, che della congiura era affatto innocente, che il Papa con la sua condanna in materia di S.to Officio aveva inteso trarlo a Roma per toglierlo dalle mani di Spagna, che Spagna lo teneva violentemente prigione in Napoli non avendo potuto trovare tanto che bastasse a farlo condannare, che era infine stato disperso, celato o bruciato il processo, per impedire che l'innocenza fosse riconosciuta e l'analoga sentenza fosse pronunziata. Le denegazioni del Campanella sempre più spinte nel conoscere che il processo non si trovava più, l'interesse spiegato per lui dal Massimi Nunzio del Papa a Madrid, quindi la sua fuga a Roma non appena uscito dalle mani del Governo Vicereale, la sua prigionia nel carcere del S.{to} Officio in Roma per soli tre anni e non perpetuamente giusta le consuetudini non a tutti note, di poi la benevolenza mostratagli da Urbano VIII senza essersene capiti i veri motivi, tutti questi fatti suggellarono l'opinione che egli era stato davvero innocente, oppresso da Spagna, protetto da Roma; e vi furono allora, come vi sono stati di poi e vi sono ancor oggi, ammiratori del filosofo credutisi in obbligo di purgarlo dalle calunnie sofferte e di cantare le glorie del Papato che spiegò tanto favore verso di lui(513). Sappiamo che perfino un cronista calabrese contemporaneo, Gio. Angelo Spagnolio la cui conoscenza si deve al Capialbi, mentre avea dapprima, nel 1599, affermata la congiura di Calabria e la parte presavi dal Campanella, si fece poi a revocare almeno quanto concerneva il filosofo nel 1642(514). Già in Napoli Antonino Marzio fin dal 1626 aveva scritta un'Elegia e un Discorso a proposito della liberazione del Campanella facendone la dedica a Urbano VIII e forse in buona fede, ma alcuni anni più tardi in Roma Gabriele Naudeo scrisse uno sfolgorante Panegirico ad Urbano VIII a proposito de' favori accordati al Campanella, e senza dubbio artificiosamente; poichè in un'altra opera posteriore, destinata a rimaner segreta, egli ingenuamente narrò che a breve intervallo il Postel in Francia e il Campanella in Calabria aveano tentato di fondare un nuovo stato di cose, ma non erano riusciti per non avere avuto forze, "condizione necessaria a tutti coloro i quali vogliono stabilire qualche nuova religione"; ed aggiunse, che "quando il Campanella ebbe il disegno di farsi Re dell'alta Calabria, scelse molto a proposito per compagno della sua impresa un fra Dionisio Ponzio che si era acquistata riputazione del più eloquente e del più persuasivo uomo del suo tempo"(515). Questa testimonianza di un disegno del Campanella di voler fondare una nuova religione e farsi Re in Calabria, con l'indicazione del modo prescelto e del motivo per lo quale non riuscì, da parte del Naudeo stato in intime relazioni col Campanella nell'anno 1631 e seguenti, poi anche le lettere del Campanella pubblicate in piccola parte dal Baldacchini e in più gran parte dal Berti, avrebbero dovuto richiamare le menti a più esatti giudizii, far ricercare con diligenza i documenti dell'accusa e non soltanto quelli della difesa, far guardare un po' più addentro sulla condotta vera del Papato in genere e di Urbano VIII in ispecie verso il Campanella.

Su quest'ultimo punto, ed anzi su tutte le tribolazioni patite dal Campanella dopochè uscì dalle mani degli spagnuoli, nemmeno ci pare che siasi profittato davvero de' documenti del tempo, studiandoli da tutti i lati e con la necessaria equanimità. Si è riconosciuto oramai che il Campanella non finì col godere un tranquillo ed agiato riposo, come del tutto erroneamente era stato ammesso; ma si è posta anche troppo in mostra la sua irrequietezza, la sua imprudenza, la sua testardaggine, senza porre in altrettanta mostra la condotta di coloro che dapprima lo trattarono con benevolenza pel gusto de' dispetti politici e pel desiderio di trarne vantaggiosi consigli, e poi lo abbandonarono, lo sprezzarono, lo lasciarono perseguitare fino alla morte da due ribaldi invidiosi, il P.e Generale dell'Ordine e il Maestro del Sacro Palazzo, d'accordo con un altro ribaldo, il Card.l Nipote, i quali tutti avrebbero voluto vederlo assolutamente annullato. È certo che Papa Urbano, quando gli parve giunto il momento di scovrirsi partigiano di Francia, mostrò benevolenza ed accordò uno stipendio al Campanella, per far dispetto a Spagna ed anche per averne conforti nelle vive apprensioni circa la propria salute, essendo rimasto scosso dalle varie predizioni astrologiche venute fuori contro di lui, e poi dalle sciocche malie che Giacinto Centini con l'assistenza di un frate e di un eremita eseguì per affrettarne la morte: allora egli sentì il bisogno delle conversazioni del Campanella ed anche delle sue contro-predizioni astrologiche, benchè avesse solennemente condannata l'astrologia, onde molto si mormorò in Roma per questo, e il Card.l Nipote vide necessario allontanare un poco il Campanella dal Palazzo Apostolico. È certo inoltre che quando i Card.li di casa Barberini crederono conveniente di non tirarla troppo con la Spagna, la quale anche venne a rilevarsi di molto con la vittoria di Nordlinga, e d'altro lato Papa Urbano giunse a rinfrancarsi intorno alla sua salute mediante gli esorcismi del rinomato frate della Trinità de' monti, e le predizioni astrologiche di un ebreo Abramo che gli assicuravano 24 anni di regno avendo il Sole nella 9.a casa, il Campanella fu abbandonato all'avarizia e alla perfidia del Card.l Nipote, che desiderava risparmiare lo stipendio accordatogli ed era collegato col Generale de' Domenicani, il cui fratello Ludovico già trattava segretamente col Vicerè di Napoli per conto de' Barberini: così, alla richiesta del Vicerè che voleva riavere il Campanella nelle mani, si facilitò l'andata di lui in Francia donde non sarebbe più tornato, invece dell'andata a Venezia dove egli avrebbe voluto recarsi, e mentre il povero esule era ancora in viaggio, il Card.l Nipote commetteva al Mazarini, Nunzio straordinario in Francia, di "screditarlo"(516). È certo ancora che il Re di Francia lo accolse con benevolenza e gli accordò una pensione per far dispetto a Spagna, ed anche per averne consigli politici, come lo affermò un testimone irrecusabile, il Foerstner, che vide più volte il filosofo in colloquio col Re e col Card.l di Richelieu su materie di Stato; ma poi la pensione non fu più pagata, e rimasero i dileggi del Richelieu ed anche del Mazarini, atti solo a provare una volta di più che in essi non c'era alcun senso di onestà e di giustizia. È certo infine che ben presto gli fu intimato da Roma di non stampare alcuna opera senza il permesso romano, il quale non veniva mai, altrimenti lo stipendio gli sarebbe stato tolto, esigendo pure che si fosse "quietato" a vedersi sospeso il publicetur per le opere già approvate e stampate, come l'Ateismo, la Monarchia del Messia, i Discorsi della libertà e felice soggezione etc., e a vedersi sospeso l'imprimatur per altre opere da doversi stampare, come il Reminiscentur, il Cento thomisticus de Praedestinatione etc., con la circostanza aggravante del non vedersi restituiti i manoscritti né significate le proposizioni censurabili in essi rinvenute. Insomma egli avrebbe dovuto annullarsi, veder soppresse le opere sue benchè non condannate, vedersi trattato peggio del Galilei, il quale assistè all'abbruciamento del suo libro ma dopo che era stato condannato. E il Campanella non vi si piegò, e dategli appena 900 lire-tornesi fino al 15 marzo 1636 lo stipendio gli fu tolto, ed invano il povero vecchio, con una continua serie di lettere, fece conoscere le sue condizioni infelici esclamando, "mi muoio di necessità..; egestate premor..; non mi levate la lemosina che S. B. mi donò perché la levate a Dio crocifisso..; sono uscito della memoria di V. B. in manera che mi lascia morir di fame e di necessità..; crepo di fame..; sto mendicando". Qual meraviglia se in una persecuzione simile siasi mostrato irrequieto, riottoso, imprudente? Sarebbe tempo oramai di non guardare taluni portamenti del Campanella senza tener conto degli strazii che gli furono inflitti, di non accogliere quasi con compiacenza certi giudizii sul conto di lui emessi perfino da chi non si fece scrupolo di trattarlo in un modo tanto abominevole, di riconoscere che tutta la sua vita fu un martirio continuato, e che ben pochi meritano quanto lui l'ammirazione e la gratitudine dovute a coloro i quali fortemente vollero e grandemente patirono.


FINE.


INDICE DEL VOL. II.(517)


CAP. IV. - Processi di Napoli e pazzia del Campanella.      

A. - Processo della congiura (primi mesi del 1600).          

I. Arrivo delle quattro galere co' prigioni in Napoli; per ordine del Vicerè, all'entrare in porto ne sono impiccati quattro alle antenne, ed anche squartati due in mezzo alle galere, il Caccìa e il Vitale, ma dopo di averli fatti soffocare; ultimi atti di costoro (1). Notizie esagerate che ne dava il medesimo Vicerè; sua istanza che il Vescovo di Mileto si rechi a Napoli, e che nella causa dei frati e clerici intervenga un suo ufficiale; fra Cornelio consegna al Nunzio il processo di Calabria (4). Scelta de' componenti il tribunale pe' laici ed istruzioni relative; Marcantonio de Ponte Giudice commissario, D. Giovanni Sances Avvocato fiscale assistito dallo Xarava, Giuliano Canale Mastrodatti; notizie sul De Ponte e sul Sances (5). Difficoltà incontrate dal Nunzio per riconoscere i carcerati ecclesiastici; fra Cornelio, dopo di averne visitato qualcuno, parte per Roma, dove non riesce a sodisfare il S.to Officio che l'interroga; non per tanto Roma accetta che oltre il Nunzio intervenga nella causa degli ecclesiastici un ufficiale Regio (7). Ricognizione de' carcerati ecclesiastici nel Castel nuovo eseguita dall'Auditore del Nunzio; il Castellano D. Alonso de Mendozza; ricognizione del Campanella e socii; si trovano al n.° di 23 i carcerati ecclesiastici detenuti a nome del Nunzio di S. S.ta (11). Trattative per la costituzione del tribunale per gli ecclesiastici; Roma accorda che uno de' Delegati Apostolici venga nominato dal Vicerè, purchè non sia coniugato, ed abbia o pigli la prima tonsura; il Vicerè nomina D. Diego De Vera, mantenendo il Sances come fiscale anche per gli ecclesiastici; giudizio su tale determinazione di Roma (15). Vita del Campanella nel carcere; il Castel nuovo, i suoi torrioni, le sue carceri, le sue fosse; il Campanella è posto nel 2° piano del torrione detto del Castellano; nel 1°, sotto di lui, trovasi Maurizio; parole tra' carcerati dalle finestre e cartoline scambiate tra loro (20). Il Campanella sollecita il Petrolo e più ancora il Pizzoni perché si ritrattino; scambia col Pizzoni cartoline in un breviario; inoltre si occupa a scrivere poesie (23).

II. Comincia il processo della congiura o "tentata ribellione" pe' laici, venendo sostituito al Canale per Mastrodatti Marcello Barrese; nuovi e terribili tormenti a Maurizio de Rinaldis che non confessa nulla; se ne conferma la condanna a morte, condanna che fu poi attribuita dal Campanella ad altre cause (26). Si conferma la condanna anche del Pisano già confesso, e si fanno i preparativi per le due esecuzioni; ma il Nunzio interviene e fa sospendere l'esecuzione del Pisano che era clerico; invece Maurizio è condotto al patibolo dirimpetto al torrione in cui stava il Campanella, ma sotto la forca, dietro l'ingiunzione avutane dal confessore, dichiara di voler rivelare ogni cosa a scarico della sua coscienza e ne rimane quindi sospesa l'esecuzione (30). Motivi inaccettabili addotti poi dal Campanella per la spiegazione di tale fatto; sunto delle rivelazioni di Maurizio; dopo di averle fatte ratificare con una nuova tortura si decide di ritardare ancora la morte di Maurizio per farne la confronta col Campanella e co' complici (32). Tormenti a molte altre persone; provvedimenti contro i contumaci; forgiudicazione di parecchi secondo i documenti raccolti (39). Giunge da Roma l'assoluzione della scomunica pel P.pe di Scilla, pel Poerio e per lo Xarava, richiesta dal Vicerè e dagl'interessati; giunge da Calabria il Vescovo di Mileto ed ha un colloquio col Vicerè: giunge infine anche il Breve del Papa circa la costituzione del tribunale per gli ecclesiastici, ed allora il Vicerè, di sorpresa, fa procedere all'esecuzione di Cesare Pisano (42). Ultimi atti del Pisano; sue dichiarazioni innanzi a' Delegati del S.to Officio e discolpe innanzi ai Bianchi di giustizia; particolari del supplizio e delusione del Nunzio (43).

III. Si costituisce il tribunale della congiura per gli ecclesiastici; analisi del Breve Papale, risulta che con esso creavasi un tribunale Apostolico (48). Si esamina il Campanella, che nega anche il contenuto della sua Dichiarazione scritta in Calabria; si procede alla confronta di lui con Maurizio e poi col Franza, Cordova, Tirotta, Gagliardo, Conia, fra Silvestro di Lauriana; il fisco chiede che si venga alla tortura, ma il Nunzio esige che se ne chiegga licenza al Papa (50). Si esamina fra Dionisio, che nega; si esamina quindi il Pizzoni, che forse dapprima si ritratta ed è posto in una fossa, ma finisce col confermare quanto ha deposto in Calabria con poche varianti; si esamina quindi il Petrolo, che certamente comincia col ritrattarsi ed è posto nella fossa, e poi non solo conferma ma anche sviluppa i disegni del Campanella; si procede quindi alla confronta tra loro due (53). Il Campanella è posto nella fossa del miglio per una settimana; intanto si fa la confronta di fra Dionisio con Maurizio, si esaminano il Bitonto ed altri, tra' quali fra Scipione Politi (56). Si conduce Maurizio ad esortare fra Pietro di Stilo che confessi e poi si procede all'esecuzione di esso; sue ultime rivelazioni innanzi a' Delegati del S.to Officio; particolari dell'esecuzione; ottima riputazione che lascia di sè; i suoi beni sono distribuiti in tre parti, a' monasteri, alla vedova e alla figliuola (57). Sono esaminati il Flaccavento e il Sanseverino, e inoltre Lauro e Biblia che sono pure confrontati con fra Dionisio; venuta la licenza da Roma si dà al Campanella il tormento del polledro; particolari di questo tormento (61). Nello svestire il Campanella gli sono trovate cartoline scrittegli dal Pizzoni, e una carta scrittagli dal Lauriana; sono consegnate al Sances; non reggendo alla tortura egli confessa aver voluto fare la repubblica, ma sotto certe condizioni (62). Confessione del Campanella in tormento secondo i brani che ne rimangono; complici da lui nominati; commenti; non senza ragione è dichiarato "confesso" (66). Gli si dà la copia degli atti esistenti contro di lui con un termine per le difese, e gli si assegna difensore Gio. Battista de Leonardis avvocato de' poveri; notizie intorno a costui; il Sances fa anche dettare dal Campanella molti articoli profetali sui quali egli si fondava per sostenere l'avvenimento delle mutazioni (71). Si dà lo stesso tormento del polledro a fra Dionisio, che non confessa nulla; si dà la corda aggravata dalle funicelle per due ore al Pizzoni con lo stesso risultamento, ma rimane leso in una spalla (73). Si esamina il Cortese e il Milano: si dà la corda per due ore al Petrolo che nemmeno confessa; si esamina Giulio Contestabile; si dà la corda al Bitonto e poi anche al Contestabile, i quali risultano parimente negativi (ib.). Sono rilasciati dapprima 8 e poi altri 4 tra frati e clerici imputati di minor conto; Giulio Contestabile presenta subito documenti, testimoni e la Difesa scritta da un avvocato proprio; particolari di questa Difesa (74). Difesa del Campanella scritta dal Leonardis; commenti; Allegazione scritta dal Sances in replica; non è nota la Difesa di fra Dionisio (77). L'attività del tribunale si rallenta per l'andata del Vicerè a Roma e poi per le feste di Pasqua; il Sances dimanda che si spediscano le cause del Campanella e di fra Dionisio, ma il Nunzio prevedendo che la fine delle cause sarebbe stata la loro condanna a morte, mentre non ancora si era fatto nulla circa l'eresia, si oppone per attendere gli ordini del Papa; intanto continuano le difese per gli altri frati (80). Durante le feste di Pasqua si manifesta nel Campanella un subitaneo e violento accesso di pazzia; particolarità e motivi del fatto; il Sances, alcuni giorni dopo, fa spiare il Campanella da due scrivani, i quali sorprendono due volte il Campanella in dialoghi notturni con fra Pietro Ponzio; relazione di questi dialoghi (84). Vita intima del Campanella nel carcere fin da principio della sua venuta in Napoli; poesie da lui composte per dare animo agli amici, le quali oggi si pubblicano per la prima volta; rassegna di queste prime poesie, cercando di ognuna la data e rilevandone l'importanza (89). Difese da lui scritte che non giunge in tempo a presentare, "1.a Delineatio" e "2.a Delineatio, Articuli prophetales"; analisi di esse e commenti; inoltre l'"Epistola ad amicum pro apologia" con ogni probabilità diretta a fra Dionisio per giustificarsi; infine la ricomposizione del libro della Monarchia di Spagna, eseguita mentre rimaneva sospesa la spedizione della causa della congiura ed il filosofo continuava a mostrarsi pazzo (97). Premii dati frattanto a Lauro e Biblia; concessioni fatte e posto di Consigliere del Collaterale dato più tardi al P.pe della Roccella; posto di Capitano della cavalleria pesante dato allo Spinelli, avendo per aggiunto e successore il suo nipote Marchese di S. Donato poco dopo nominato Duca; promozione di D. Carlo Ruffo da semplice Barone a Duca di Bagnara; nomina dello Xarava a Consigliere, e pensione accordata a fra Cornelio; la nomina del Leonardis a Consigliere, avuta dopo il passaggio a Fiscale, non reca alcun cenno del servizio prestato nella causa della congiura (113).

CAP. V. - Sèguito de' processi di Napoli e della pazzia del Campanella                           

B. - Processo dell'eresia (maggio 1600 a settembre 1602)           

I. Viene risoluto da S. S.tà che il processo dell'eresia si faccia in Napoli dal Nunzio, dal Vicario Arcivescovile e dal nuovo Vescovo di Termoli, che è il Tragagliolo già Commissario del S.to Officio in Roma; notizie sul Tragagliolo e sul Vicario (119). La parte principale è deferita al Vescovo di Termoli, e il Nunzio spesso manda in voce sua alle sedute il Rev. Antonio Peri fiorentino suo Auditore; Mastrodatti è Gio. Camillo Prezioso, Notaro della Curia Arcivescovile; comincia il processo offensivo coll'esame del Pizzoni, che dichiara di avere avuto minacce dal Campanella, conferma le cose già deposte in Calabria, con varianti di minor conto, e sostiene avere già prima denunziato il Campanella per lettere al P.e Generale, e di persona a fra Marco e fra Cornelio (121). Sono esaminati fra Marco e fra Cornelio che negano quanto ha asserto il Pizzoni; è interrogato per lettere il P.e Generale Beccaria che risponde negando del pari; è esaminato il Petrolo, che conferma le cose già deposte con poche varianti e dichiara di avere anche avute minacce dal Campanella (122). Si esamina il Campanella che sèguita a mostrarsi pazzo ed è rinviato; si esamina fra Pietro di Stilo che attenua le cose già deposte; si esamina il Lauriana che dice occorrergli soltanto di manifestare che ha continue minacce dal Campanella, ed attenua di molto unicamente le cose già deposte contro il Pizzoni, evidentemente per concerti presi tra loro; si esaminano inoltre fra Paolo della Grotteria e il Bitonto che fanno deposizioni negative (123). È presentata una denunzia contro il Campanella da fra Agostino Cavallo circa le sue passate relazioni con l'ebreo Abramo; sono esaminati per questo il denunziante ed anche fra Giuseppe Dattilo (125). Il Vescovo di Termoli privatamente raccoglie informazioni anche presso fra Cornelio, Xarava, Fabio di Lauro, D. Pietro de Vera, e le comunica al Card.l di S.ta Severina; ritiene che al Campanella debba amministrarsi la tortura, ma sa che non la teme; da Roma gli si mandano i sommarii de' processi di Calabria cioè di Monteleone, di Gerace, di Squillace (126). Sono riesaminati fra Paolo, il Bitonto, il Petrolo, fra Pietro di Stilo e il Lauriana; fra Pietro Ponzio invia al Vescovo una lettera del Lauriana al Pizzoni sorpresa da fra Dionisio; sono esaminati diversi su tale incidente; il Lauriana nega con giuramenti, ma risulta indubitato che egli ed il Pizzoni agivano d'accordo ed in falso (128). Sono riesaminati il Pizzoni, il Lauriana ed il Petrolo, su varie circostanze; il Nunzio, tornando dalla sua Chiesa di Troia, si convince per via della pessima vita de' frati in relazione co' banditi e ne scrive a Roma (130). Sono ancora riesaminati nuovamente il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Pizzoni e poi anche il Bitonto; cominciano a rivelarsi i modi iniqui usati da fra Marco e fra Cornelio in Calabria, ma le cose deposte non sono smentite (133). Quattro esami successivi di fra Dionisio, che nega di avere avuto mai scandalo dal Campanella per cose di eresia, parla di dimanda di perdono direttagli dal Lauriana, fornisce ampie spiegazioni e cerca di ribattere tutte le accuse; esame di Giulio Contestabile, che sostiene essergli il Campanella divenuto nemico per aver lui divulgato che era stato già condannato all'abiura (135). Esame di Giulio Soldaniero, fatto venire da terra d'Otranto ove si era ritirato ed era stato carcerato ad istanza del S.to Officio; egli ha già dimenticate troppe cose e si contradice su varie circostanze (138). Avuto l'assenso da Roma si dà un'ora di corda al Campanella che continua a mostrarsi pazzo; poi sono esaminati suo padre Geronimo e suo fratello Gio. Pietro; poi è ricondotto il Campanella innanzi a' Giudici, e mostrasi sempre pazzo (139). Nuovo esame del Soldaniero, cui si fanno notare le contradizioni nelle quali è caduto; esame di Giuseppe Grillo; nuove dimande a fra Dionisio e al Pizzoni circa la loro andata a Soriano (141). Il tribunale emana i decreti occorrenti per passare al processo ripetitivo; ma sono ancora esaminati il priore e il lettore di Soriano come pure Valerio Bruno, ed inoltre fra Gio. Battista di Placanica e fra Francesco Merlino fatti venire da Calabria per chiarimenti; al tempo stesso in Squillace si compie un supplimento d'informazione commesso dal Vescovo di Termoli (142).

II. Processo ripetitivo; maniera di farlo; il fiscale della Curia Rev.do Andrea Sebastiano dà gli articoli solamente contro i tre imputati principali, il Campanella, il Pizzoni e fra Dionisio; il Rev.do Attilio Cracco è assegnato quale avvocato di officio; particolari degli articoli del fiscale e degl'interrogatorii presentati dall'avvocato (149). Si comincia dalle ripetizioni contro il Campanella, e sono esaminati il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo; riescono attenuate le deposizioni del Soldaniero, false quelle del Lauriana, sempre gravi quelle del Pizzoni e del Petrolo, più favorevoli quelle di fra Pietro di Stilo; unanimi le dichiarazioni di mala condotta de' primi processanti (153). Seguono gli esami ripetitivi contro il Pizzoni; sono esaminati il Soldaniero, il Lauriana, il Bruno e il Petrolo; le accuse riescono attenuate, e rimane il grave sospetto contro di lui principalmente per le troppe rivelazioni fatte e le sue stesse discolpe trovate false (157). Esami ripetitivi contro fra Dionisio; sono esaminati il Bruno, il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo: anche per lui le accuse riescono attenuate, e sempre son posti in rilievo i modi iniqui di fra Marco e fra Cornelio (159). Perplessità del Vescovo di Termoli, quali si rilevano da una lista di varianti e di contradizioni da lui compilata; sollecitazioni del Governo perché si possa terminare la causa della congiura; i Giudici per l'eresia deliberano di venire alla spedizione; maniera di procedervi (163). Assegno del termine di 8 giorni per le difese; avvocati Grimaldi e Montella, il quale ultimo è sostituito poi dallo Stinca: Gio. Battista dello Grugno avvocato pel Campanella; notizie intorno a costoro (166). Processo difensivo; esami difensivi per fra Dionisio; alcuni articoli vengono presentati in fretta, acciò siano esaminati sopra di essi alcuni de' carcerati per la congiura che stanno per uscire in libertà; 18 interrogatorii dati dal fiscale: sono così esaminati Geronimo Marra, Francesco Paterno e Minico Mandarino, ma infruttuosamente (168). Articoli completi per fra Dionisio al n.° di 58, con oltre 60 testimoni e varii documenti in suo favore; notizie su' testimoni Spinola, Castiglia, Capece e Giustiniano (170). Sono esaminati dapprima il Castiglia e il Contestabile, poi il Capece, Cesare Forte, lo Spinola, il Giustiniano e il Grillo; ne risulta che il Lauriana era stimato falso testimone, come pure il Bruno, e che il Soldaniero medesimo avea fatto intendere le cose passate tra lui, il priore di Soriano e fra Cornelio (176). Sono ancora esaminati il carceriere Martines, Nardo Rampano, Marcello Salerno, Cesare Bianco, Geronimo Campanella, Gio. Bat. Ricciuto e Tom. Tirotta; di poi fra Paolo, fra Pietro di Stilo, il Petrolo e il Bitonto; infine il Barone di Cropani e Geronimo di Francesco: ne risultano sempre più messe in rilievo le tristi qualità del Lauriana, del Bruno, del Soldaniero ed anche del Pizzoni, oltrechè la malvagità de' primi Inquisitori (179). Contemporaneamente si menavano innanzi gli esami difensivi pel Pizzoni, che avea presentato 34 articoli con molti testimoni scelti senza alcuna avvedutezza: erano esaminati dapprima fra Paolo, il Petrolo, il Lauriana: poi fra Pietro di Stilo, il Bitonto, lo Spinola, il Contestabile, il Castiglia e il Di Francesco; ne risulta il Pizzoni niente affatto difeso, e circa le qualità sue abbastanza aggravato (187). Pel Campanella, avendo il suo procuratore dichiarato non potersi compilare gli articoli difensivi perché pazzo, ed avendo anzi dimandato un termine per provare detta pazzia, si procede a una informazione, e 10 testimoni, compreso il carceriere, attestano il Campanella esser pazzo; particolari della pazzia(196). Fra Pietro Ponzio comunica le istanze fattegli già dal Lauriana per essere perdonato delle falsità deposte, e consegna anche una lettera analoga scritta dal medesimo a suo fratello Ferrante: perizia calligrafica circa la lettera (201). Il Vescovo di Termoli non nasconde le sue perplessità circa i meriti della causa, fa note a Roma le tante irregolarità commesse e finisce con dichiarare che dovrebbero gl'inquisiti esser tradotti a Roma per potere scoprire la verità; trasmette anche un memoriale analogo di fra Dionisio, mostrandosi animato dalle più caritatevoli intenzioni (202).

III. Morte del Vescovo di Termoli con grave danno de' frati; insistenze continue del Governo perché la causa dell'eresia abbia termine; è nominato Giudice il Vescovo di Caserta D. Benedetto Mandina; notizie intorno a costui (206). Istruzioni del Card.l di S.ta Severina a nome di S. S.tà; si prescrivono visite mediche e il tormento della veglia per chiarire la pazzia del Campanella, inoltre nuove diligenze in Squillace; articoli del fiscale ed interrogatorii dell'avvocato per esse: è esaminato Geronimo di Francesco in tal senso (209). Le sedute del tribunale son sospese; fra Pietro Ponzio dimanda inutilmente di essere giudicato o rilasciato: fra Dionisio fa sapere a Roma che fra Cornelio era partito per Madrid; il Nunzio è costretto a confermarlo, dolendosi di lui ma dolendosi anche de' giudizii molto severi che avea sempre manifestato il Vescovo di Termoli contro di lui e contro fra Marco (212). Il Pizzoni, rimasto leso nel braccio dietro la tortura avuta, muore nel carcere; i preparativi per la veglia da darsi al Campanella mettono in agitazione i frati; fra Pietro di Stilo manda a' Giudici alcune carte già dategli dal Campanella, che sono le proprie Difese con gli Articoli profetali scritte per la causa della congiura; fra Dionisio manda una lettera del Petrolo che chiede di essere riesaminato (215). Senza aspettare le fedi de' medici si dà al Campanella il tormento della veglia; notizie intorno a questo tormento; particolari del tormento sofferto per 36 ore; durante l'amministrazione di esso si prescrive a fra Dionisio che consigli il Campanella a rispondere adeguatamente, ma il Campanella persiste a mostrarsi pazzo (217). Conseguenze del tormento sofferto: il chirurgo Scipione Cammardella curante di fra Tommaso (222). Esami di fra Dionisio e poi di fra Pietro di Stilo circa le comunicazioni fatte a' Giudici; fedi de' medici Vecchione e Jasolino, che sebbene perplessi inclinano a ritenere essere la pazzia simulata; esame di un aguzzino che fa conoscere alcune parole dette dal Campanella dopo il tormento; condizione giuridica del Campanella in sèguito di tutte queste prove (225). Nuova sospensione delle sedute del tribunale; accade una rissa tra i Ponzii, il Bitonto e il Petrolo da una parte, e il Soldaniero, il S.ta Croce, il Gagliardo e l'Adimari da un'altra parte, risultando ferito fra Dionisio; dietro denunzia de' laici si procede dagli ufficiali del Castello ad una ricerca di carte, e si trovano scritture di sortilegi presso fra Dionisio, ma non appartenenti a lui, diverse lettere appartenenti a fra Pietro di Stilo, una raccolta di poesie del Campanella presso fra Pietro Ponzio, uno scritto del Campanella che il fratello di lui buttò dalla finestra al momento della venuta degli officiali (230). Le carte sono portate al Vicerè; fra Dionisio, rinchiuso in un torrione al pari di fra Pietro Ponzio, scrive a' Giudici di voler essere esaminato circa le carte trovate nella sua cassa, e prega che si dia agio a fra Pietro di poter presentare capi di accusa contro i feritori; l'Adimari si querela di uno schiaffo avuto da fra Pietro, ed anche il Lauriana reclama di voler essere riesaminato (233). Il Vicerè si ammala e muore; il suo secondogenito D. Francesco de Castro rimane Luogotenente generale: la causa dell'eresia languisce; languiscono anche i frati in desolante miseria, e il Nunzio chiede nuovi sussidii per loro da' conventi di Calabria (235).

IV. Dietro sollecitazioni del Card.l di S.ta Severina si ripigliano le sedute del tribunale; si riesamina fra Dionisio circa le carte trovate nella sua cassa; si fa richiesta delle carte al Governo; fra Pietro Ponzio denunzia i feritori e qualche altro loro compagno in materia di S.° Officio (237). S'inizia un processo secondario specialmente contro il S.ta Croce e il Gagliardo; dall'elenco dei testimoni presentati per questa causa si rileva che parecchi carcerati, tra gli altri il padre e probabilmente anche il fratello del Campanella, erano stati allora rilasciati; cominciano gli esami pel detto processo, ma poi questo è interrotto per dar termine al processo principale (240). S'intima a fra Dionisio un termine perentorio per le difese; così pure agli altri frati i quali vi rinunziano; si abilita il Soldaniero a starsene in una casa in Napoli loco carceris, e i carcerati, frati e laici, dichiarano appartenere a lui le carte trovate nella cassa di fra Dionisio (242). Il Governo manda le carte richieste; rassegna di queste carte; le lettere di fra Pietro di Stilo mostrano in che maniera i frati giudicassero le cose loro; carte di sortilegi e poesie in dialetto calabrese del Gagliardo; come il Teologo qualificatore abbia giudicate le poesie del Campanella; lo scritto buttato dalla finestra del Campanella risulta essere una copia della Filosofia epilogistica su cui l'autore lavorava (243). Dietro ordine del Card.l di S.ta Severina il tribunale si occupa delle carte avute; esami del sergente Alarcon, di fra Pietro di Stilo, di fra Dionisio, del Bitonto; si viene a conoscere che vi sono altre carte trovate presso il Gagliardo fin da che stava nel Castello dell'uovo (250). È esaminato il Gagliardo, e poi fra Pietro Ponzio e il Bitonto, il quale esibisce una nuova carta di sortilegio scritta dal Gagliardo per un Napolella carcerato; il Napolella ed alcuni testimoni sono interrogati per questo, e poi sono esaminati di nuovo fra Pietro Ponzio, fra Pietro di Stilo, il Bitonto e il Napolella medesimo a sua richiesta (254). Continua l'informazione sulle carte avute, con gli esami del S.ta Croce e poi di fra Pietro Ponzio circa la provenienza delle poesie del Campanella trovate presso di lui, inoltre con l'esame anche di fra Paolo della Grotteria; da ultimo sono esaminati il Figueroa e il Navarro circa le carte trovate nel Castello dell'uovo; rassegna di queste carte; un'altra poesia del Gagliardo in dialetto calabrese, due lettere di un capo di fuorusciti, tre prologhi di commedie, molti versi sciolti sempre del Gagliardo (259). Rimangono in causa solamente il S.ta Croce e il Gagliardo, a' quali si fa un processo separato che è commesso al Vicario Arcivescovile; brevi cenni su questo processo: il S.ta Croce finisce per essere abilitato ad uscire dal carcere e se ne parte per la Calabria senza licenza; il Gagliardo è sottoposto a tortura, e finisce egli pure per essere abilitato e partirsene senza licenza, venendo poi, due anni dopo, ripigliato e giustiziato in Napoli per un omicidio commesso in Calabria (269). Circa il processo principale, si provvede alle miserie de' frati col danaro venuto di Calabria, ma se ne dispone di una parte per pagare il Mastrodatti; nel tempo medesimo, facendo cessare le tergiversazioni, s'intima a fra Dionisio un brevissimo termine per le nuove difese (272). Tre nuovi articoli difensivi di fra Dionisio, attestanti le ritrattazioni fatte dal Pizzoni in punto di morte, i replicati desiderii di ritrattarsi mostrati dal Petrolo, l'aver fatto il Soldaniero porre scritti proibiti nella sua cassa per rovinarlo definitivamente; varii testimoni esaminati sopra di ciò, e notizie sopra di loro; gli esami non riescono vantaggiosi a fra Dionisio; in ispecie il Petrolo dichiara di aver detto volersi ritrattare per sottrarsi alla persecuzione de' frati, ma non aver nulla a ritrattare (275). Nuovi ritardi del tribunale per la stagione estiva, con raddoppiate lagnanze del Governo Vicereale; Valerio Bruno è abilitato a stare fuori carcere per essere poi nuovamente interrogato e quindi spedito; fra Pietro Ponzio fa nuove istanze perché la sua causa sia spedita, ma inutilmente (281).

V. Opere composte dal Campanella in questo lungo periodo di tempo: dopo gli Articoli profetali, composizione o meglio ricomposizione della Monarchia di Spagna; fasi e successo di questo libro (283). Al tempo medesimo Poesie; esse rivelano la vita intima del Campanella, e conviene ricercare la data almeno delle principali: sonetti profetali, ed anche al P.pe di Bisignano, all'Italia, a Genova, a Venezia, a Roma; commenti (285). Altri sonetti sul monte di Stilo e su temi religiosi; altre poesie indirizzate a persone dimoranti nel Castello ed anche fuori, come lo Spinola e il Castiglia carcerati, il Sig.r Troiano Magnati, D.a Ippolita Cavaniglia, la Sig.ra Olimpia, D.a Anna; notizie circa queste persone (288). Sonetti al Sig.r Francesco Gentile, alla Sig.ra Maria, alla Sig.ra Giulia, a Flerida, a Dianora; sonetti composti dopo il tormento della veglia, specialmente quelli al Sig.r Petrillo; commenti (293). Ritorno alle opere filosofiche; compimento della Filosofia epilogistica o Epilogo magno, con l'aggiunta degli Aforismi politici e dell'Economica, istaurata anche l'Etica; poco dopo, al cominciare del 1602, composizione della Città del Sole, quindi composizione della Metafisica, con altre poesie di tempo in tempo (297).



CAP. VI. - Esiti de' due processi, fine della pazzia e conchiusione (dal 7bre 1602 al 9bre 1604 e seg.ti).                    pag. 306.



I. Giusta gli ordini avuti, il tribunale per l'eresia procede finalmente alla discussione de' meriti della causa e alla votazione; Sommarii del Processo e Riassunti degl'indizii co' voti de' Giudici per fra Pietro Ponzio, fra Paolo, il Bitonto, fra Pietro di Stilo, il Petrolo e il Lauriana: lo stesso per fra Dionisio un po' più tardi; commenti (ib.). Fuga di fra Dionisio e del Bitonto dal Castello insieme col carceriere; ordini da Roma e poi da Madrid perché i fuggiaschi siano ripigliati; inchiesta ordinata dal Governo, e singolare profferta dello Xarava per tale inchiesta; ma il tribunale non avea mancato di decretare provvedimenti (314). Viene da Roma la risoluzione presa dalla Sacra Congregazione al cospetto di S. S.tà nella causa di eresia del Campanella e socii; il Campanella è condannato al carcere perpetuo ed irremissibile nel S.to Officio di Roma; altri frati sono condannati all'abiura dopo un tormento; per fra Paolo è ordinato il rilascio con penitenze salutari; per fra Pietro Ponzio il rilascio senza condizioni; commenti in particolare sulla condanna riportata dal Campanella (316). Il tribunale spedisce la causa secondo la risoluzione venuta da Roma; la sentenza è partecipata al Campanella; sono tormentati e fatti abiurare fra Pietro di Stilo, il Lauriana e il Petrolo (320). Non potendo dare fideiussione, i frati si obbligano invece a tre anni di galera e così possono andar via rimanendo in carcere il Campanella; poco dopo anche Valerio Bruno, e più tardi il Soldaniero, carcerato di nuovo in Calabria, sono rilasciati con fideiussione eleggendo il loro domicilio in casa di Carlo Spinelli; in tal modo finisce il lungo processo di eresia (325).

II. Il tribunale della congiura pe' laici è tenuto sempre aperto, anche dopo finita la causa di eresia; primo gruppo di carcerati abilitati a tornare in Calabria si conosce essere stato quello de' carcerati di Catanzaro; secondo gruppo quello de' già carcerati in Gerace col Pisano, dietro torture anche atroci; con esso fu abilitato egualmente il padre del Campanella e con ogni probabilità anche il fratello, ma restarono in carcere il S.ta Croce e il Gagliardo per conto del S.to Officio (327). Intorno a' forgiudicati, si hanno notizie del Baldaia, del Dolce, del D'Alessandria, del Tranfo; pel solo Del Dolce, catturato insieme con Desiderio Lucano suo ricettatore, si conosce che fu condannato a parecchi anni di carcere e trovavasi ancora carcerato il 1610; notizie circa gli altri anzidetti e circa diversi già rilasciati che ripigliarono la mala vita (328). Quanto al tribunale della congiura per gli ecclesiastici, dopo la liberazione di molti e lo svolgimento delle cause degli altri lasciandone sospesa la spedizione, finisce per condannare Giulio Contestabile a 5 anni di esilio, e poi tratta la causa del Pittella nuovamente carcerato; particolari di questa causa, difesa del Leonardis, condanna egualmente a 5 anni di esilio (333). La spedizione della causa degli altri frati è impedita definitivamente dal matrimonio di D. Pietro De Vera con la sorella del Duca di S. Donato; opposizioni del Nunzio, tergiversazioni del De Vera; giunge intanto la nuova che fra Dionisio, capitato a Costantinopoli in casa del Cicala e fattosi maomettano, erasi imbarcato sull'armata turca che veniva verso il Regno; ciarle di fra Dionisio in Costantinopoli nocive al Campanella; fatti dell'armata turca dal 1600 in poi, e sua rinunzia ad ogni impresa nell'anno in corso pel cattivo stato delle navi (336). S. S.tà ordina che il Nunzio dia termine per sè solo alla causa, rimanendo il De Vera qual semplice assistente; impossibilità di tale pretensione; il Nunzio si sforza di farla accettare, il Vicerè finge, il De Vera temporeggia; s'intima a' frati un ultimo termine per le difese, ma il Campanella era stato già da un pezzo separato dagli altri frati e posto nel torrione (341). Fatti del Campanella dopo la sua condanna per l'eresia; visita avuta dal Marchese di Lavello cui consegna la sua Metafisica; relazioni acquistate col Conte Giovanni di Nassau, Cristoforo Pflugh e Geronimo Toucher venuti prigioni nelle carceri del Castello; lo Pflugh, o Flugio, è da lui convertito al Cattolicismo, gli rimane amico, e più tardi poi gli procura il patrocinio de' Fuggers e di Gaspare Scioppio (346). Posto, dopo 6 mesi, nel torrione, il Campanella si occupa a scrivere l'Astronomia, e più tardi De' Sintomi della futura morte del mondo per fuoco; testimonianze che lo provano; suoi importanti colloquii col Gagliardo in questo tempo, credenze che gli svolge ed orazioni che gl'insegna con riscontro delle cose scritte nella Città del Sole; altre testimonianze; scene di evocazione di spiriti (348). Essendosi poi scoperto un disegno di evasione, è trasportato nel Castel S. Elmo; indagini su questo disegno di evasione; il Marchese di Lavello è carcerato probabilmente per esso (354). Il Nunzio e il De Vera vanno in Castello per la spedizione della causa, e si trovano d'accordo nel condannare il Petrolo a tre anni di galera, e rilasciare fra Pietro, fra Paolo e il Lauriana con l'esilio dalla Calabria per un tempo a beneplacito di S. S.tà; ma il De Vera vuol continuare a figurare come giudice, il Vicerè interpellato s'infinge, Roma insiste, il Campanella rimane dimenticato in S. Elmo; il Vicerè fa poi sapere che nominerà un'altra persona invece del De Vera, ed essa fu il Ruiz de Baldevieto che approvato da un altro Breve ebbe a sottoscrivere la sentenza; ma pel Campanella dice doversene pel momento sospendere la spedizione (358). Gli amici, parenti e discepoli del Campanella presentano un memoriale al Nunzio per lui; indagini su questo documento oggi perduto; affermazioni equivoche del Campanella circa questo periodo importante della sua vita; durissimi trattamenti sofferti in S. Elmo (361).

III. Fine palese della pazzia del Campanella in S. Elmo; dopo 5 mesi egli manda a far proposte al Vicerè, dicendo aver concetti tali da dare vantaggi mirabili al Regno ed al Re, ma non trova ascolto; dopo altri 6 mesi manda a dire al Nunzio e al nuovo Vescovo di Caserta di volersi confessare, ed espone loro studii fatti, visioni avute, concetti capaci di difendere il Cristianesimo in tutto il mondo, facoltà di far miracoli etc.; quanto a' concetti, egli si riferiva ad opere che diceva dover comporre e forse stava già componendo a fine di uscire dalla sua trista posizione (365). Rassegna di queste opere; lasciando imperfetta l'Astronomia, e continuando a comporre di tempo in tempo poesie come il Sonetto nel Caucaso, la Lamentevole orazione profetale e poi le Canzoni in dispregio della morte, egli ricompone l'opera del Senso delle cose; poi compone gli opuscoli Del Governo del Regno e la Consultazione per aumentare le entrate del Regno, in tre discorsi, de' quali si dànno gli ultimi due finora inediti (367). In sèguito, rivolgendosi a Roma, compone la Monarchia del Messia, aggiuntovi un capitolo Dei dritti del Re di Spagna sul nuovo mondo, inoltre la Ricognizione della vera religione, detta più tardi Ateismo debellato; considerazioni su queste opere e specialmente sull'ultima; composizione di un altro opuscolo e poi ricomposizione ampliata degli Articoli profetali; ancora gli Antiveneti, e poi i Discorsi a' Principi d'Italia del pari ampliati, tutte opere di occasione; infine parecchi opuscoli specialmente a richiesta di Gaspare Scioppio e Gio. Fabre da lui conosciuti in tal tempo (373). Racconto particolareggiato delle mosse del Campanella presso il Vicerè, poi presso il Nunzio e il Vescovo di Caserta, poi ancora presso il Papa; sue promesse mirabili ed esito delle proposte fatte con le Consultazioni; discorso fatto al Nunzio e al Vescovo di Caserta in S. Elmo, promesse sue anche in tale circostanza; non gli si crede e dopo altri 10 mesi scrive lettere al Papa Paolo V, a modo di appello, con affermazioni di comparsa del diavolo e rivelazioni avutene circa Venezia e l'avvenire del Papato (378). Commenti su quest'ultima mossa del Campanella, e principalmente sulla comparsa del diavolo che si rannoda alle evocazioni di spiriti fatte dal Gagliardo; essa è una delle parecchie sue finzioni, e fra le altre quella della pazzia sofferta, a proposito della quale non mancò poi di dichiarare che egli ammetteva il mendacio quando trattavasi di un alto fine; onde malamente la sua riputazione è stata bistrattata da coloro i quali non hanno voluto darsi la pena di studiarlo bene (384).

IV. Sèguito de' tentativi del Campanella per uscire dalla fossa di S. Elmo;, scrive anche a' Card.li D'Ascoli, Farnese e S. Giorgio, e manda l'elenco delle promesse fatte e de' libri composti; poco dopo acquista la protezione de' Fuggers, e con essa quella di Gaspare Scioppio e Gio. Fabre, mediante Cristoforo Pflugh; notizie intorno a costoro (392). Lettere tra lo Scioppio e il Campanella; venuta dello Scioppio a Napoli per favorirlo, certamente non per missione del Papa come si disse di poi; richiesta da lui fatta di tutte le opere del Campanella; costui scrive un'altra lettera al Papa, a guisa di un 2.° appello, poco dopo scrive una lettera latina al Papa ed a' Cardinali da doversi presentare dallo Scioppio, il quale non la presenta perché vi si dicea di voler fare miracoli (395). Venuta anche del Fabre a Napoli; parecchi quesiti sono diretti da lui e dallo Scioppio al Campanella, e danno occasione a parecchi opuscoli epistolari; finita la trascrizione delle opere, il Campanella ne fa l'invio con una lettera premessa all'Ateismo debellato, ma non manda gli Articoli profetali maggiormente desiderati dallo Scioppio (398). Commendatizie procurate dallo Scioppio al Campanella, ma non presso il Papa; lettera del Campanella a Monsig.r Querengo in tale occasione; lettere a Cristoforo Pflugh e poi al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria, da doversi presentare dallo Scioppio facendo anche vedere le sue opere, ad occasione della andata di lui in Germania qual Consigliere di casa d'Austria presso la Dieta di Ratisbona; in queste lettere ai Sovrani il Campanella, narrando i suoi guai a modo suo, chiede di essere ascoltato (401). Partenza dello Scioppio per la Germania con fermata a Venezia, dove consegna le opere del Campanella al Ciotti perché le stampi e costui non se ne cura; è poi imprigionato per due giorni ed obbligato a sfrattare, venendo sequestrata dal Consiglio de' Dieci l'opera degli Antiveneti del Campanella; invio di Daniele Stefano in Napoli da parte di Giorgio Fugger per fare evadere il Campanella a qualunque spesa; nocumento di questi tentativi preveduto dallo Scioppio (403). In Germania lo Scioppio presenta la lettera del Campanella all'Imperatore, che trova mal prevenuto; manda la lettera al Re di Spagna e confida meglio nell'Arciduca Ferdinando, ma si duole de' sospetti continui del Campanella, il quale a sua volta si duole di non vedere le sue opere né stampate né presentate (405). Ferdinando scrive più volte a favore del Campanella dimandandone perfino la liberazione; in fondo egli, come il Fugger, riponeva grandi speranze nella dottrina e nel fervore del filosofo per propugnare in Germania la causa Cattolica contro gli eretici, oltrechè ne attendeva ottimi consigli nelle cose di Stato; ma alla fine, abbandonando la persona del filosofo, chiede al Vicerè che gli faccia compiere i libri della Matematica, de' Profetali e della Metafisica, gli faccia dire anche qualche segreto che ha in favore di Spagna ed Austria, e mandi a Grätz libri e segreti (407). Si raffredda il favore di Giorgio Fugger pel Campanella, dopo di aver conosciute le cause vere della prigionia sua, e i garbugli da lui messi innanzi per acquistare la libertà; lo Scioppio e il Fabre finiscono per dileggiarlo, dopo di averne espilate le opere; deve poi dirsi smentito che la Curia Romana abbia partecipato a' tentativi di liberazione, i quali non potevano neanche esser visti da essa di buon occhio (412). Malgrado l'abbandono da parte de' suoi protettori, il Campanella continuò sempre a mostrarsi grato verso di loro; sua inerzia di qualche anno durante gli ultimi tentativi infruttuosi di liberazione; pochi opuscoli scritti in tal tempo e diverse poesie di dolore e di sdegno, di alcune delle quali è possibile determinare la data; importanza delle sue Poesie in complesso e delle note aggiuntevi in sèguito, rivelatrici de' casi del filosofo da lui ingarbugliati per necessità in altre sue opere; ricerca della data in cui uscì dalla fossa rimanendo in S. Elmo, per poi passare al Castel nuovo e quindi al Castello dell'uovo; interpetrazione del suo rassomigliarsi a Prometeo nel Caucaso (415). Si discute perché il Governo Vicereale abbia voluto comportarsi così brutalmente col Campanella, e la Curia Romana non si sia curata di esigere il rispetto dell'immunità ecclesiastica in persona di lui; ragioni abbastanza chiare che spiegano questi fatti; lo Stato e la Chiesa contribuirono egualmente al martirio del Campanella risparmiandone la vita (420). Due tribunali in regola, entrambi istituiti da Roma, aveano trovato il Campanella colpevole verso lo Stato e verso la Chiesa; le denegazioni posteriori sorsero abbastanza tardi dietro un sentimento di pietà e varii apprezzamenti inesatti; la benevolenza di Urbano VIII cominciò sol quando costui piegò verso Francia e volle far dispetto agli spagnuoli, oltrechè ebbe bisogno de' consigli e conforti del Campanella per la sua salute, ma cessate o modificate tali condizioni il Campanella fu abbandonato alla persecuzione de' suoi rivali e alla più desolante miseria in terra straniera; così ben pochi meritano quanto lui la nostra ammirazione e gratitudine (426).


ERRATA(518).

pag. 264; vers. 9: fior ridarà eterno - leg. hor ridarà eterno


NOTE:


(1) Così nel Carteggio del Residente di Venezia; ved. Doc. 184, ag. 94.

(2) Ved. nel Carteggio Vicereale il Doc. 36, pag. 42.

(3) Ved. Doc. 382, pag. 395.

(4) Ved. Doc. 307, pag. 256.

(5) Ved. Doc. 373, pag. 383.

(6) Ved. Doc. 61, pag. 53.

(7) Ved. Doc. 209, pag. 109.

(8) La serie de' Notamentorum che si è salvata dalle tante sciagure dell'Archivio di Stato comincia appena col 1610, e non vi manca la risoluzione presa quando, dopo 26 anni, il Campanella fu liberato; così avremmo avute egualmente tutte le altre risoluzioni prese ogni volta intorno a' principali imputati e a' diversi gruppi degl'imputati minori.

(9) Pel De Ponte come Consigliere, ved. Reg. Sigillorum v. 30. a. 1594, a 17 10bre; come Deputato della pecunia, ved. Reg. Curiae v. 43, fol. 11, let. del 18 giugno 1598. Intorno alla famiglia o alle notizie biografiche ved. Santanna, Della Storia genealogica della famiglia del Ponte, Nap. 1708, pag. 98 etc.

(10) Ved. Registri Privilegiorum vol. 141, fol. 120.

(11) Ved. per tutte le notizie sul Sances, De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, Nap. 1654-71, voi. 2.° part. 3a p. 390; pel parentado co' Morano ved. specialmente Della Marra Duca della Guardia, Discorsi delle famiglie estinte, forastiere, o non comprese ne' Seggi di Napoli, Nap. 1642 p. 264.

(12) Ved. Doc. 54, pag. 51.

(13) Ved. Doc. 52, pag. 50.

(14) Ved. Doc. 365, pag. 365.

(15) Ved. Doc. 394, pag. 455 e seg.ti.

(16) Ved. Doc. 62 e 65, pag. 54 e 55.

(17) Ved. Registri Sigillorum vol. 31 (an. 1595) 1° 10bre; vol. 32 (an. 1596) 9 7bre e 16 7bre. Inoltre De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili etc. Nap. 1654 vol. 1°, pag. 399.

(18) Cons. Doc. 304, pag. 246.

(19) Ved. Doc. 64, pag. 54.

(20) Ved. Doc. 67, pag. 56.

(21) Ved. Doc. 37, pag. 42.

(22) Ved. Doc. 39, pag. 13.

(23) Ved. Toppi, De origine omnium tribunalium, Neap. 1655-66, vol. 2°, pag. 187.

(24) Il Nunzio gli era anche molto amico, siccome si rileva da un'altra sua lettera del 1° giugno 1601, dove si legge: "Fra tutti i Ministri che son qua di S. M.tà Cattolica non ho maggiore domestichezza che con il Consigl. Pietro di Vera d'Aragonia, che mi fu dato per Collega da N. S.re nella causa della rebellione".

(25) Ved. Doc. 38, pag. 43.

(26) Ved. Doc. 325, pag. 276.

(27) Ved. la nostra Copia ms. de' processi ecclesiast. tom. 2° fol. 173-1/2.

(28) Un ms. posseduto dal Minieri-Riccio dà notizie delle fosse oscure, delle iscrizioni, delle ossa "rinvenute ne' sotterranei della torre Aragonese in occasione della fabbrica di una stufa per la nuova fonderia, di cannoni di ferro". La qualificazione della torre è uno sbaglio del raccoglitore delle iscrizioni, poichè la fonderia esiste sempre ed è facile vedere dove corrispondano i suoi fornelli. Le iscrizioni trovate leggibili rimontano solo al 1660; una del 1698 è di un tale che da 27 giorni vi si trova per essere andato incontro al Cardinale Principe di Savoia; spaventevole è quella di un tale, che impreca a' suoi parenti, i quali, per salvarsi, l'hanno fatto menare in quel posto, senza luce e tutto nudo, ove cerca la morte per finire di penare, e residui di scheletro ivi giacenti fanno pensare che vi trovò la morte. Ved. Catalogo de' MS. della Bibl. di Minieri-Riccio voi. 3° Nap. 1869, pag. 158.

(29) Ved. Doc. 421, pag. 527. Quivi specificatamente si notano tutte queste cose, attestate da fra Pietro Ponzio; e fra Pietro, per sua scusa, potè bene inventare che il Campanella trasmettesse i suoi Sonetti a Maurizio, calandoli giù dalla finestra, ma non inventare che la finestra di Maurizio si trovasse sotto quella del Campanella. D'altronde anche nella confessione ultima di Maurizio vedremo fatta menzione di parole scambiate tra lui e il Campanella nelle carceri di Napoli, e questo non potè accadere che dalle finestre.

(30) Ved. Doc. 376, pag. 386.

(31) Rimanga ben chiaro che il processo fu propriamente intitolato "di tentata ribellione"; solo pel vantaggio della brevità noi diciamo "processo della congiura", la quale maniera di esprimerci è del resto consentanea all'altra anzidetta, e certamente preferibile a quella che troviamo pure usata negli Atti e ne' Carteggi, cioè "processo di ribellione".

(32) Ved. i Doc. 441 e 442, pag. 551.

(33) Abbiamo fatto avvertire altrove (vol. 1.° p. 303) che potevano i Giudici, pe' delitti di lesa Maestà servirsi de' più gravi tormenti, ma non di tormenti nuovi. Qui aggiungiamo che lo stesso Farinacio cita la veglia, aggravata da successive modificazioni, col precetto "non habeatur nisi in vere atrocissimis ut laesa Majestate, assassiniis famosis et similibus" (De indiciis et tortura Ven. 1649 p. 348). Aggiungiamo ancora che Maurizio, malgrado fosse nobile, poteva essere sottoposto a tortura trattandosi di lesa Maestà, ed anzi a tortura più atroce, perché "Nobilitas saepe auget delictum" secondo la massima del Gigante (De crimine les. Majest. Ven. 1588 fol. 67).

(34) Nell'originale "mascola". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(35) 1.° Ne' Reg.i Curiae, vol. 46, (an. 1599-1601) fol. 10 si legge: "All'Audientia di Calabria ultra. Per alcune cause et degni rispetti moventi nostra mente ce è parso provedere et ordinare che D. Camilla morano figlia del q.m Barone di Gagliati di questa città di Catanzaro non sia amossa dal Mon.io di S.ta Chiara di detta città, dove al presente se ritrova per ordine di quessa R.a Audientia.... 18 julii 1601". - 2.° Ibid. vol. 49. (an. 1599-1601) fol. 114 t.° si legge: "All'Auditor don Sancio di miranda. Per lettera delli 15 del passato mese de luglio havemo visto quanto per voi è stato provisto nel particolare del matrimonio di donna Camilla Morana figlia del barone di Gagliano havendola posta nel monasterio di S.ta Chiara di quessa città che il tutto sta molto ben fatto. et circa quello che ci dite che donna Anna sancez matre di detta donna Camilla tiene per sospetto il detto monasterio et per darli satisfatione l'haveti offerto un altro, già che le parte senne contentano, vi dicimo che debbiate dar sodisfatione à detta donna anna circa il mutare detta donna Camilla sua figlia in altro monasterio come vi parerà meglio, non obstante l'ordine nostro che non si dovesse mutare da detto monasterio senza altro ordine che tale è mia voluntà et intentione. Datum neap. die 4 augusti 1601". - Il primo figlio di Gio. Geronimo Morano, Gio. Antonio, invece di D.a Camilla sua cugina sposò D.a Cornelia Ricca de' Signori dell'Isola (ved. Duca della Guardia. Discorsi delle famiglie nobili etc. Nap. 1641 pag. 264).

(36) Il feudo di Burgorusso, già difesa per le razze de' cavalli di Corte sotto gli Aragonesi, concesso poi al Conte di S.a Severina, era passato fin dal cadere del 1400 a Geronimo de Connestavulo subfeudatario del d.to Conte, e Francesca de Connestavulo lo recò in dote a Gio. Francesco Morano fin dal principio del 1500; era quindi già da un secolo posseduto da' Morano, onde poi con D.a Camilla Morano passò al Sances sud.to che divenne anche Marchese di Gagliato (ved. Reg.i delle Significatorie de' Relevii vol. 4.° fol. 112 t.°, e confr. Id. vol. 32.° fol. 154 t.°, inoltre Quinternioni n.° 175, fol. 191). Non c'è notizia che qualche porzione del feudo di Burgorusso fosse stata concessa in subfeudo a' De Rinaldis, e si sa che le notizie de' subfeudi si possono trovare solo accidentalmente nell'Archivio di Stato. Eppure, secondo il cenno datone dal Campanella, non avrebbe nemmeno dovuto trattarsi di quella specie detta subfeudum planum o de tabula, giacchè in altrettali suffeudi, tanto della varietà militare quanto della varietà rustica, per le costituzioni di Federico II succedevano anche le donne; avrebbe dovuto invece trattarsi di quella specie detta subfeudum quaternatum secundum quid, che veniva concessa col consenso anche del Re, giacchè in tal caso veramente, per estinzione di linea maschile od anche per solo crimine, succedeva il Barone sotto cui il feudo era tenuto. Ma rimane sempre che Burgorusso apparteneva a D.a Camilla, e che agli zii Gio. Geronimo, Scipione e Pietro, secondogeniti di Gio. Battista, spettava solamente la vita-milizia in D.ti 72, come risulta dal sud.to vol. 32.° delle Significatorie, fol. 154 t.°. Piuttosto Gio. Geronimo avrebbe potuto pretendere ed ottenere in mercede qualche feudo appartenente a' De Rinaldis dopo la confisca fattane, ma è singolare che non si abbiano notizie di feudi de De' Rinaldis per tutto il 1500, né se ne abbiano di Gio. Geronimo Morano e figli per l'anno 1600 e seguenti. Per la fine del 1400 abbiamo trovato notizia del feudo di S. Marco in Calabria citra (detto anche S. Maoro nell'anno 1488) "concesso per la M.ta del S.or Re a Mosca de Raynaldo regio cavallarizo" e i feudi di Prato e di Cocchiato "concessi ad Michelangelo de Ranaldo"; ma in sèguito questi feudi si trovano tutti restituiti al Principe di Bisignano, e i due ultimi venduti da lui ad altri. In Stilo e Guardavalle poi verso i primi anni del 1600, oltre Burgorusso, si trova il feudo di Ragusa appartenente a' Tomacelli, da Lucrezia 2.a figlia di Geronimo e d'Ippolita Ruffo portato in dote a D. Filippo Colonna, che per morte del fratello Marcantonio divenne Duca di Paliano e Tagliacozzo e Gran Contestabile del Regno (amico del Campanella più tardi, e forse con l'occasione del feudo). Si trova inoltre il feudo di Arcamone, disputato tra Salvatore Reycitano e Cesario Salerno; e si trova infine il feudo Colicestra ed Agapito, acquistato da Berto Presterà. Il nome di Gio. Geronimo Morano non vi s'incontra affatto. Ciò darebbe ragione di creder vera la destinazione de' beni di Maurizio nel modo che vedremo affermato dal Residente Veneto.

(37) Ved. Doc. 78, pag. 59.

(38) Ved. Doc. 79, pag. 59. Questa copia di biglietto Vicereale senza data e senza indirizzo, ma inserta fra le lettere del periodo di cui trattiamo nel Carteggio del Nunzio, ci pare appunto che rappresenti la risposta del Vicerè alla lettera anzidetta.

(39) Così scrisse poi il Nunzio a Roma con la sua lettera del 21 gennaio 1600; ved. Doc. 83, pag. 60.

(40) Ved. Doc. 239, pag. 125. Chi conosce Napoli sa che la Chiesa di Monserrato trovasi all'ingresso dell'attuale Strada di Porto e di rimpetto alla torre del Castellano.

(41) Ved. Doc. 307, pag. 256.

(42) Ved. Doc. 84, pag. 61.

(43) Nell'originale "interpretazione". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(44) Per ciò che è scritto nella Difesa, ved. Doc. 401, pag. 484. Per ciò che è scritto nelle Lettere, ved. Archivio Storico Italiano an. 1866, pag. 24, 59, 68 e 90.

(45) Facevano parte della Compagnia quasi sempre il Card.l Arcivescovo della città, molti Vescovi, Nobili titolati, Signori, Dottori, Sacerdoti, e per istituto un numero determinato di P.i Gesuiti e P.i dell'Oratorio, non che P.i di altri ordini. Ne faceva allora parte anche D. Gabriele Sances Cappellano maggiore, fratello di D. Giovanni; lo Stinca vi si era ascritto fin dal 6 gennaio 1585; più tardi, nel 1603, vi si ascrisse lo stesso Nunzio Jacopo Aldobrandini Vescovo di Troia. Annualmente uno de' fratelli era eletto all'ufficio di "scrivano". Costui registrava le relazioni delle giustizie, con la lista de' parenti del giustiziato, che la Compagnia aveva il carico di assistere e soccorrere, e con le discolpe e ritrattazioni se ve ne erano, oltrechè raccoglieva in altri libri i testamenti dei giustiziati, gli originali delle Autorità che ordinavano od invitavano la Compagnia alle giustizie etc. etc. Secondo l'attività dello scrivano e l'importanza del caso, si ha qualche notevolissima relazione, come quella della giustizia di fra Tommaso Pignatelli allievo del Campanella, che fu scritta da D. Antonio d'Aytona, e che trovata in copia nella Biblioteca Brancacciana dal chiar. prof. De Blasiis servì di base al suo bel lavoro intitolato Una seconda congiura del Campanella (ved. Giornale Napoletano di filos. e lett. giugno 1875). Nella Biblioteca dell'Abate Cuomo, ora Municipale, si hanno parecchie relazioni di giustizie, segnatamente de' tempi di Masaniello, che trascrisse da' Registri della Compagnia lo stesso compianto Abate.

(46) Nell'originale "Ecco o". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(47) I suddetti ordini di Spagna rappresentano senza dubbio una delle voci diffuse allora ad arte; abbiamo altrove riferita la lettera del Re, che mostra gli ordini veri e ben diversi. Rappresenta del pari una voce diffusa ad arte quella che il Residente avea già trasmessa in un dispaccio anteriore (ved. Doc. 185, pag. 94) e che fornì al Mutinelli l'occasione di una nota sul tono di un idillio. Da' Registri Sigillorum di quel tempo si può vedere come S. M.tà di Spagna avesse pietà della borsa de' napoletani, facendo diluviare le grazie co' diversi titoli, di pensioni, avantagii, intertenimienti, piazze morte, sempre nell'interesse degli spagnuoli; e il fatto è illustrato assai bene da un'affannosa lettera del Vicerè che noi pubblichiamo (ved. Doc. 41, pag. 45). Si comprende poi che non si può fare alcuno assegnamento su quanto il Residente dice che Maurizio avrebbe confessato, trattandosi di un atto processuale del tutto segreto; e non abbiamo veramente notizia che fossero "cominciati" allora altri processi e catture dietro le confessioni di Maurizio.

(48) Ved. Doc. 40, pag. 44.

(49) Ved. Doc. 244 pag. 141-142-143; D. 247 pag. 159; D. 248 p. 160-161; D. 250 p. 163; D. 252 p. 166; D. 263 p. 175; D. 265 p. 182; D. 266 p. 184.

(50) Ved. Doc. 40, pag. 44.

(51) Ved. la Lett. al Card.l Farnese e quella latina al Papa e Cardinali, Arch. Storico Italiano 1866 p. 59 e 82.

(52) Ved. Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.° fol. 132.

(53) Nell'originale "seppeliti". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(54) Ved. Doc. 217, pag. 115.

(55) Ved. Doc. 218, pag. 115.

(56) Nella Numerazione de' fuochi di Tropea per l'anno 1595, vol. 1398 della collezione, si legge: "n.° 60. M. Jacovo Giovanne Tranfo a. 65; M. Ipolita Barone moglie a. 56; (*) M. Alessandro f.° a. 15; Isabella f.a a. 18; Cassandra f.a a. 11; Caterina schiava a. 30; Pietro schiavo an. 35; Giovanne schiavo a. 10; Fabritio schiavo a. 5. Barone de la terra de crepacore (sic) et del Casale de sant'Agata" etc. - Per la successione di Alessandro Tranfo al padre ved. i Rog. delle Significatorie de' Relevii. - Un altro documento intorno a lui troverà posto nel sèguito della narrazione.

(57) Ved. D'Amato, Memorie historiche dell'illustr.ma famos.ma e fedel.ma città di Catanzaro, Nap. 1670.

(58) Ved. i nostri Doc. 83, 86, 89, pag. 61, 63, 64; e le notizie date nella nota a pag. 127 del vol. 1° di questa narrazione.

(59) Ved. Doc. 81, pag. 59.

(60) Ved. Doc. 306, pag. 248.

(61) Ved. Doc. 238, pag. 124.

(62) Ved. nell'Arch. Mediceo, filz. 4087, Let.ra del Battaglino del 18 gennaio 1600: "Horrendo spettacolo hebbi hieri nella mia loggia col veder perire inesorabilmente sette navi con quantità di marinari, fra esse è il galeone di Giorgio d'ulista carico di grani di Puglia come le altre cinque navi; il settimo fu un vascello Brettone chiamato da' nostri Vecchietti c'havea cominciato a caricar alberi et remi per andar in Spagna" etc. Un'altra del Turamini, ibid. stessa data, lo ripete. Inoltre ved. la Lett. dello Scaramelli, stessa data; Doc. 188, pag. 96.

(63) Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 2.° fol. 236.

(64) Ved. il Doc. anzid.to

(65) Ved. Doc. 85 pag. 62, e Doc. 88 pag. 63.

(66) Ved. il Breve e gli altri Atti suddetti ne' Doc. 242 e 243 pag. 129; le Lett. del Nunzio degli 11 e 21 gennaio, Doc. 81 e 83, pag, 60 e 61; la Let. Vicereale de' 18 gennaio, Doc. 40 pag. 44; e l'altra Let. scritta d'ordine del Vicerè egualmente il 18 gennaio, Doc. 216 pag. 115.

(67) Ved. in Baldacchini la Lett. a Cassiano del Pozzo del 25 giugno 1624.

(68) Nell'originale "quando". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(69) Ved. Doc. 244, pag. 143.

(70) Ved. Doc. 84, pag. 61.

(71) Loc. cit. Doc. 244, pag. 143.

(72) Ved. Doc. 247, pag. 160.

(73) Ved. Doc. 376, pag. 387.

(74) Ved. Doc. 401, pag. 485.

(75) Ved. Doc. pag. 389. 378, 389, 378.

(76) Ved. Doc. 379, pag. 390.

(77) Ved. Doc. 380, pag. 391.

(78) Ved. Doc. 252, pag. 167.

(79) È questo uno de' punti della Narrazione che gioverebbe rivedere. Il Capialbi lesse niglio, ed aggiunse in nota "niglio, coccodrillo", citando l'Afflitto (Scrittori del Regno di Napoli, pag. 46, art. Acquaviva) che avrebbe forse alluso alla medesima fossa. Ma non ci è noto che la parola plebea niglio corrisponda a coccodrillo, bensì sappiamo che corrisponde a nibbio, sparviero; e l'Afflitto dice fossa del miglio, ed egualmente dice il Confratello de' Bianchi di giustizia che ci lasciò il ricordo degli ultimi momenti di fra Tommaso Pignatelli.

(80) Ved. Doc. 254, pag. 170.

(81) Ved. Doc. 256, pag. 172.

(82) Ved. Registri Curiae vol. 38.° (an. 1595-99) fol. 13, Let. Vicereale del 23 febbr. 1596.

(83) Ved. Doc. 307, pag. 254.

(84) Ved. Doc. 247, pag. 160.

(85) Ved. Doc. 87, pag. 62; ma bisogna notare che la data del 24 gennaio, quivi assegnata alla lettera in quistione, potrebb'essere errata, poichè il 4 febbraio essa era ancora attesa.

(86) Ved. Doc. 381, pag. 394.

(87) Sarno (Anelli de) Novissima praxis civilis et criminalis, cura observationibus... ac singulari tractatu inscripto Il Medico fiscale pro optima cognitione delictorum in genere, videlicet cadaveris venenati, virginis defloratae, pueri constuprati et aliorum consimilium Doctoris Horatii Graeci Medici phisici Regiae Curiae etc. Neap. 1717.

(88) Ecco il fac-simile del disegno del polledro datoci dal Greco (op. cit. pag. 499). Non rifuggano i lettori dal contemplarlo, specialmente quelli, che per caso menassero vanto di principii repubblicani; vedranno cosa costava a' padri nostri il professarli, e rileveranno bene la differenza:

 
(89) Ved. Doc. cit. 381, pag. 394.

(90) Ved. Doc. 250, pag. 163.

(91) Ved. Doc. 87 e 88, pag. 62 e 63.

(92) Ved. Doc. 245, pag. 145-46; Doc. 247, pag. 160; Doc. 248, pag. 161; Doc. 253, pag. 169; Doc. 250, pag. 163; Doc. 251, pag. 165; Doc. 252, pag. 167; Doc. 265, pag. 183; Doc. 263, pag. 175, e Doc. 264, pag. 176.

(93) Ved. Doc. 192, pag. 97.

(94) Ved. Doc. 241, pag. 127, e Doc. 244, pag. 143.

(95) Alludiamo a' Doc. 244-266, pag. 129-183. Il Notamentum (Doc. 241, pag. 127) dovè essergli trasmesso o nell'inizio del processo, o piuttosto nel periodo di cui trattiamo, essendovi poi stato aggiunte a lato di ciascun nome le annotazioni relative all'esito del giudizio mano mano che questo si compiva per ciascuno inquisito.

(96) Ved. Doc. 394, pag. 456.

(97) Il Toppi (De Origine omnium tribunalium etc. Neap. 1655-66, vol. 2.° pag. 319), nel dare le notizie del Leonardis, non riesce esatto intorno alla data della nomina di lui ad Avvocato de' poveri, indicando per essa il 30 luglio 1601, che urta con la cronologia del processo del Campanella, nel quale si sa avere il Leonardis funzionato. Invece abbiamo trovato ne' Registri Privilegiorum le date sopraindicate pel Privilegio di nomina ad Avvocato de' Poveri (Ved. Privileg. vol. 120, an. 1599-600 fol. 188), e ne' Reg.i Sigillorum la data 30 luglio 1601 come quella del pagamento per l'esecutoria del Privilegio col quale venne poi nominato Avvocato fiscale della Vicaria (Ved. Sigil. vol. 38, an. 1601, introiti del 21 novembre). A complemento della rettificazione aggiungiamo che negli stessi Reg.i Sigillorum abbiamo trovato l'esecutoria del Privilegio di Avvocato de' poveri pel Catalano in data 16 febbraio 1594 (vol. 29), poi la nomina provvisoria di Jo. Vincenzo Cavaliero "mentre sua M.tà e sua Ecc.a provederà" in data 25 gennaio 1599 (vol. 35), infine l'esecutoria del Privilegio pel Leonardis in data 29 febbraio 1600 (vol. 37). Indubitatamente questo modo di successione, ed inoltre la data stessa del Privilegio del Leonardis "Metimnae coeli 30 7bris 1599", mostrano che il Leonardis non dovè essere nominato a bella posta nell'occasione di questo processo: sarebbe stato necessario un periodo di tempo molto maggiore per far giungere in Ispagna la proposta ed avere la decretazione di essa nella data suddetta.

(98) Naturalmente furono i Giudici quelli che ordinarono la consegna degli Atti al Campanella e gli assegnarono anche l'Avvocato; ma il Campanella parimente qui si studia di mettere nell'ombra i Giudici e di far comparire il Sances.

(99) Ved. Doc. 247 pag. 160; e risc. l'Illustr.ne II, pag. 619, per tutti gl'inquisiti che seguono.

(100) Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.°, fol. 377.

(101) Il dottor Orazio Greco, che abbiamo citato a proposito del polledro, ci fa conoscere a proposito delle funicelle che se ne applicavano quattro, due ai carpi con uno o più nodi, le quali sempre recavano un'incisione della cute più o meno superficiale, e due alle braccia, a quattro dita sotto i capi degli omeri: preparato in tal guisa il paziente era poi elevato in alto con la corda, e finiva per rimanervi in uno stato orribile, che il Greco descrive minutamente.

(102) Ved. Doc. 93, pag. 65.

(103) Ved. Doc. 241, pag. 127.

(104) Ved. Doc. 264, pag. 175.

(105) Si avverta questa osservazione fatta dall'Avvocato, che si accorda con quanto avea già detto il Nunzio (ved. pag. 66) e che vedremo poi accordarsi anche con le affermazioni del Fiscale e infine con le affermazioni del Campanella medesimo nella sua Difesa; quattro affermazioni parallele emerse co' processi di Napoli. né si creda un'esagerazione curialesca il notatus infamia con le sue conseguenze. Era massima del S.to Officio che la sola carcerazione per delitto di eresia apportasse "notabile infamia" al carcerato, e i confessori, i medici, i maestri di scuola, i quali avessero abiurato come veementemente sospetti d'eresia, non solevano restituirsi o abilitarsi a' loro primitivi ufficii se non di espresso ordine e grazia del sommo Pontefice (Ved. Masini, Sacro Arsenale overo Pratica della S.ta Inquisitione, Roma 1639, pag. 309). La condanna poi in eresia formale colpiva d'infamia, di privazione di ufficio ed anche di successione i discendenti, e il potere civile in Napoli lo riconosceva. Ecco un breve documento in proposito, molto significativo e appunto del tempo del quale trattiamo: esso leggesi ne' Registri Sigillorum vol. 34, an. 1598, sotto la data 26 settembre: "Lettera per la quale se reintegra hercole miglionico a la dignità del dottorato et altri honori e officii publici e successione per lo delitto del eresia de suo avo"!

(106) Ved. Doc. 245, pag. 144.

(107) Ved. Doc. 246, pag. 149. Le parole, dalle quali risulta che questa Allegazione sia stata scritta in risposta a quella dell'Avvocato, si leggono a pag. 151: - "nos non instamus puniri eum, quod iam ejecerit Regem a Regno, Rempublicam fecerit, quod dicit se facturum procurasse, et hoc sub conditione et spe futuri eventus, ut advocatus partis fatetur" etc.

(108) È bello conoscere l'atteggiamento de' giuristi napoletani e del Consiglio Collaterale, fin dalla prima notizia di questo passo della Corona di Spagna verso Roma: ce l'insegnano due brani di dispacci del Residente Veneto scritto il 14 7bre e 26 8bre 1599. - 1.° "Intorno alla investitura del Reame persistono tuttavia quelli che nelle materie feudali sono stimati più intendenti, che non dovesse la M.tà Cattolica condescender mai a dimandarla, poichè il Re suo padre, nell'atto che allhora era necessario per la rinuncia fatta vivendo dall'Imperator Carlo, fù investito da Papa Giulio terzo per sè et legitimi heredi, et discendenti secondo l'obligo et uso delle antiche et moderne infeudationi". - 2.° "Il Consiglio non può accomodarsi che sia la persona sua (int. del Vicerè) che faccia l'atto di prestar l'obedientia al Papa, facendo in ciò molte considerationi, et movendo consequenze importanti per gli interessi di questo Regno con la Sede Apostolica, le quali tutte sono state con esso corriero rappresentate alla M.tà Cattolica". - Ma le rimostranze furono vane, e al Vicerè fu rinnovato l'ordine di recarsi a Roma.

(109) Confr. vol. I.° pag. 70.

(110) Ved. nell'Archivio Storico Italiano an. 1866 la Lett. latina al Papa, a pag. 82, e la Lett. al Re di Spagna a pag. 91.

(111) Ved. le Poesie ediz. d'Ancona p. 100. Anche nelle Lettere più volte accenna a riconoscere che la pazzia fosse simulata.

(112) Ved. il Carteggio del Nunzio filz. 231, Lett. del 13 aprile, 25 maggio e 15 giugno.

(113) Ved. Doc. 392, pag. 416.

(114) Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.° fol. 362-1/2. Dal brano della lettera del Vescovo risulterebbe che il Nunzio avesse fatto molti giorni prima osservare il Campanella, e gli fosse stato riferito che in segreto egli parlava assennatamente: ma fu questa senza dubbio una piccola vanteria del Nunzio, mentre l'osservazione del Campanella venne ordinata dal Sances, il quale dovè poi discorrerne al Nunzio; difatti le relazioni avute dal Sances si raccolsero in sèguito nel processo di eresia, non le relazioni avute dal Nunzio, il quale si curava ben poco del Campanella e de' frati.

(115) Ved. Doc. 350, pag. 327.

(116) Ved. Doc. 361, pag. 356. Ma non è sicuro che questo d'Assaro fosse carcerato per la congiura: un Cesare d'Assaro, clerico, trovasi nominato qual prigione nel Carteggio del Nunzio; egli era incriminato di assassinio, con la tortura avea purgato gl'indizii, e non vedendosi liberato fuggì di Castello in compagnia del cav.r Capece ma fu ripigliato. Ved. Lett. da Roma, filz. 210 e 211, let. del 18 8bre 1597, 13 marzo 1598 etc. etc.

(117) Si dia uno sguardo all'indice delle poesie che pubblichiamo. E ci si permetta di aggiungere che quando fra Pietro fu poi interrogato circa le poesie, tra le diverse provenienze, indicò "per la maggior parte che sono più di 25" quella da altri carcerati, i quali dicevano averle avute da Maurizio, cui sarebbero state date direttamente dal Campanella etc. Non ci fermiamo su questa scusa di fra Pietro che cita il morto, scusa manifestamente inventata anche perché sarebbe difficile riferire tante poesie al breve periodo in cui Maurizio rimase nelle grazie del Campanella, vale a dire dal 9 9bre al 19 10bre, o poi gli argomenti di molte fra esse alludono fuori ogni dubbio a circostanze posteriori a tale periodo; ma notiamo la distinzione di questo numero di "più di 25" poesie, che rappresenterebbero un gruppo speciale più antico.

(118) Ved. Doc. 436, pag. 549, e i seguenti.

(119) Ved. Doc. 441, pag. 551, e i seguenti.

(120) Ved. Doc. 459, pag. 558.

(121) Le favole da una parte, gli scismi dall'altra. Vedi Doc. 456, pag. 556.

(122) Ved. Doc. 452, 453 e 457, pag. 555 e 557.

(123) Ved. Doc. 489, pag. 569.

(124) Ved. Doc. 447, pag. 553.

(125) Ved. Doc. 451, pag. 554.

(126) Ved. Doc. 439, pag. 550.

(127) Ved. Doc. 440, ib.

(128) Ved. Doc. 449 e 450, pag. 554; dippiù gli anteriori 444-46, e 448, pag. 552-53.

(129) Ved. Doc. 464, pag. 559.

(130) Ved. Doc. 455, pag. 556.

(131) Ved. Doc. 400, pag. 475.

(132) Ved. Doc. 268, pag. 188.

(133) Anche nella stampa di questi documenti ci siamo ingegnati di riprodurre le postille e le aggiunte in modo da poterle distinguere dallo scritto primitivo impiegandovi altro carattere: preghiamo i lettori di guardarli, in riscontro a quanto stiamo per dire; ved. Doc. 401, pag. 478.

(134) Nell'originale "le". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(135) Nell'originale "un obiezione". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(136) Allude manifestamente alla perdita delle navi che si ebbe al tempo in cui si fece morire il clerico Cesare Pisano.

(137) Intendi Niccolò Tedeschi, Benedettino Catanese, Arcivescovo di Palermo, poi Cardinale, detto anche l'Abate Palermitano. Di lui si hanno molte opere; morì nel 1445.

(138) Ved. per Ferrante la Numerazione de' fuochi riportata nella nota alla pag. 10 del vol. 1.°; per fra Pietro ved. la sua prima deposizione innanzi al Vescovo di Gerace (Doc. 294, pag. 226).

(139) Ved. Capaccio, Il Forastiero, Nap. 1634, pag. 503.

(140) Ved. Doc. 229 pag. 120. Il poter "nominare" delinquenti, per farli indultare, era uno de' diversi modi di compensi pro meritis: nel caso del Lauro la nominazione fatta non è espressa, ma s'intende, mentre in altri casi è espressa. Ne citiamo uno relativo ad un soggetto del quale anche si è parlato in questa narrazione: "a 17 de marzo 1594 indulto et gratia facta à Prospero morales de peczolo per l'homicidio commesso in persona de mutio costantino stante lo servitio facto per battista de amicis d'havere dato in mano dela corte Marco sciarra e nominatione facta in persona de decto prospero". Ma generalmente era questa una delle concessioni minori, che si accompagnavano ad altre di maggiore entità.

(141) Ved. i Reg. Sigillorum vol. 40 e 42. - 1.° "3 Gennaro 1602. Licentia de arme in persona de Fabio de Lauro, pietro de lauro, mauritio spina et ferrante de lauro". - 2.° "3 de aprile 1604. Licentia de arme in persona de fabio de lauro, pietro de lauro, mutio spina (sic) et ferrante de lauro".

(142) Ved. i Reg. Sigillorum vol. 31 (an. 1595) e vol. 37 (an. 1600); in quest'ultimo si legge: "A dì 16 xbro, Privilegio del off.° di perceptore della seta della città di Catanzaro in persona de Gio. Battista Biblia".

(143) Ved. Doc. 231, pag. 120.

(144) Ved. i Reg. Litterarum S. M.tis vol. 12, (an. 1602-1610) fol. 545. Re Filippo dice al Vicerè che approva la transazione proposta dal Principe, ed aggiunge: "y por obligar le mas, he tenido por bien de le honrrar y hazer merced de una plaça del Conseio Collateral de que se le embiara su Titulo como se lo dereis de mi parte, y que en lo de la Compania de gente de armas que pide, en las ocasiones que se offroscieren se tenra con su persona y meritos la cuenta que es razon para hazer le la merced que huviere lugar". La lettera è in data del 12 luglio 1606.

(145) Ved. Doc. 232, pag. 121.

(146) Ved. i Reg. Privilegiorum vol. 125 (an. 1602) fol. 13. t.°; e confr. i Reg. Officiorum Suae Maj.tis vol. 1.° fol. 202.

(147) Reg. Privilegiorum vol. 123 (an. 1602-1603) fol. 128.

(148) Ved. Doc. 233, pag. 122.

(149) Ved. Doc. 235, pag. 123. Il suo viaggio a Madrid è ricordato in una delle sue lettere al Gran Duca di Toscana, che abbiamo già citata altrove; ved. vol. 1.° pag. 127 in nota.

(150) Ved. i Reg. Mercedum, vol. 2°, fol. 203. La pensione dicesi data pe' "multa grataque obsequia... per spacium triginta quatuor annorum singulari fide, vigilantia et integritate tam in dicto Consilio quam in officio Advocati fiscalis nostri Provintiae Calabriae ac interim in rebus magni ponderis nobis praestita".

(151) Ved. nell'Arch. di Stato in Torino Lettere Ministri Due Sicilie, maz. 2.°, let. del 4 e del 14 giugno 1613, dell'8 novembre 1616 e 6 gennaio 1617; inoltre Lettere Ministri Roma maz. 27, fasc. 2°, let. del 26 novembre 1616.

(152) Per le esecutorie di entrambi i Privilegi successivamente avuti, ved. i Registri Sigillorum vol. 38 e 39 alle date suddette. Pel Privilegio della nomina a Consigliere, ved. i Reg.i Privilegiorum vol. 123 fol. 168: quivi i meriti della sua persona sono espressi ne' seguenti termini, "cuius nobis et eruditio ac diligentia, et quidem probitas atque prudentia probantur, quandiu hactenus officium Advocati fiscalis nostrae Magnae Curiae Vicariae et alia munia cum laude exercuisti". Per la comunicazione fattane al Consiglio, ved. i Reg.i Notamentorum S. R. C. ab anno 1599 usque et per totum annum 1609, data suddetta.

(153) Questa lettera del S.ta Severina non si trova nel Carteggio esistente in Firenze, ma è citata nelle due lettere del Nunzio al S. Giorgio e al S.ta Severina degli 11 febbraio (ved. Doc. 87 e 88, pag. 63). L'assenza del Vescovo di Caserta dal Regno rilevasi dalla lettera precedente del Nunzio del 16 novembre 1599 (vedi Doc. 54, pag. 51).

(154) Fontana, Sacrum Theatrum Dominicanorum, Rom. 1666, pag. 589 e 544.

(155) Ughelli, Italia Sacra, Venet. 1720. t. 8, p. 37. - Quétif et Echard, Scriptores ordinis Praedicatorum, Lutet. Parisior. 1721, t. 2, p. 343-44.

(156) Nella sua Narrazione il Campanella lo nomina due volte, dicendolo Tragagliola, e il Capialbi lo corregge sempre dicendo "leg. da Firenzuola"; inoltre il Capialbi lo dice di Firenzuola in Toscana, ma anche l'Ughelli l'avea già dichiarato "Insuber".

(157) Vedi i Registri Comune vol. 29 (an. 1599-1603) fol. 28 t.°, dove il Vescovo è cognominato "tragaiolo", e i Registri Sigillorum vol. 37 (an. 1600), data 8 marzo, dove si legge: "Exequotoria de bulle apostolice del Vescovato della città di termole in persona del Rev. frate Alberto tragarola taxato nihil solvat" etc. Anche nel processo del Campanella non di rado il cognome del Vescovo trovasi scorretto; ma nel Carteggio del Nunzio (Lettere dal 1597 al 1598, Filza 210) può vedersene la firma autografa sotto una Fede rilasciata per aver ricevuto un frate prigione inviato da Napoli, e del pari se ne legge molto esattamente il cognome ne' preziosi documenti del processo di Giordano Bruno raccolti dal Berti.

(158) Vedi Doc. 308, pag. 256.

(159) Anche nel Carteggio del Nunzio si trovano parecchie notizie sul Prezioso, ma posteriori al periodo di cui ci stiamo occupando. Egli era in continui contrasti con Giacomo Protonotaro, altro Mastrodatti della Curia, invadendone senza posa le attribuzioni; e fu precisamente lui, che alcuni anni più tardi, per una quistione intorno a un processo di bigamia, essendosi negato di consegnare il processo all'autorità civile, fu senz'altro preso e mandato in galera, onde ne nacque la scomunica al Reggente de Ponte ed una delle più rumorose controversie giurisdizionali.

(160) Ved. Doc. 309, pag. 258.

(161) Ved. Doc. 310, pag. 260.

(162) Ved. Doc. 331, pag. 284.

(163) Ved. Doc. 311, pag, 261.

(164) Ved. Doc. 312, pag. 263.

(165) Ved. Doc. 313, pag. 264.

(166) Ved. Doc. 314, 315, 316, pag. 265 e 266.

(167) P.e Fiore, Della Calabria illustrata, Nap. 1691, vol. 2.°, pag. 394.

(168) Ved. Doc. 328 e 329, pag. 281 e 282.

(169) Si rilevano dalla risposta del Card.l di S. Severina; ved. Doc. 330, pag. 284.

(170) Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. I.°, fol. 111-1/2.

(171) Ibid. fol. 362-1/2-63.

(172) Ved. Doc. 317 a 321, pag. 268 a 273.

(173) Ved. Doc. 322 a 326, pag. 274 a 277.

(174) Ved. Doc. 327, pag. 279.

(175) Ved. la nostra copia ms. de' processi eccles. tom. I.° fol. 96-1/2.

(176) Ved. Lett. del Nunzio del 16 giugno 1600 filz. 230.

(177) Cioè al Monastero di Monte Vergine propriamente detto, sul monte Partenio presso Avellino. Chi scrive questa narrazione serba dolorosissimi ricordi familiari di fatti dello stesso genere, avvenuti in questi nostri tempi sul detto monte.

(178) Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.° fol. 98-1/2; così pure per gli esami seguenti.

(179) Ved. Doc. 332, pag. 284; quivi anche gli esami seguenti di fra Dionisio.

(180) Nell'originale "sottocrivere". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(181) Ved. Doc. 333, pag. 295.

(182) Nella Numerazione de' fuochi di Stilo (vol. 1385 della collez.) fasc. dell'anno 1636, l'elenco "veteris numerationis (1596) per comprobationem", oltre Giulio figlio di Paulo Contestabile di an. 26 sotto il n.° 200, reca anche: "n.° 256, Giulio Contestabile a. 35, Caterina uxor an. 20, Lucretia filia a. 2". Ne' Registri Partium vol. 1390 fol. 28 (an. 1596) si trova "Giulio Contestabile de Theseo"; invece nel processo leggesi "di Lucio".

(183) Ved. Let. del Nunzio al Vescovo di Nardò, del 28 giugno, e Let. del Nunzio al Vicerè del 4 luglio; Doc. 103 e 104, pag. 67.

(184) Ved. Doc. 334, pag. 296.

(185) Per la lettera del S.ta Severina ved. Doc. già cit.to 330, pag. 284. Per l'atto del tormento del Campanella ved. Doc. 335, pag. 298.

(186) Ved. Doc. 336 e 337, pag. 300 e 301.

(187) Ved. Doc. 338, pag. 301.

(188) Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 1.° fol. 130 e seg.ti.

(189) Pel D'Amico ved. la nostra Copia ms. de' processi tom. 1.° fol. 134 e 137; pel Polistina ved. Doc. 339 pag. 302.

(190) Ved. Doc. 340, pag. 303.

(191) Ved. Doc. 351 a 355, pag. 329 a 337.

(192) Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 1° fol. 308 e seg.ti

(193) Ved. Doc. 341, pag. 306.

(194) Ved. Doc. 343, pag. 309.

(195) Ved. Doc. 342, pag. 306.

(196) Ved. Doc. 344 a 349, pag. 311 a 326.

(197) Nell'originale "crocifissso". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(198) Ved. Doc. 358, pag. 340.

(199) Ved. nel Carteggio del Nunzio, Doc. 105, pag. 68.

(200) Ricordiamo che questa odiosità o inimicizia capitale avea sempre una importanza particolare nelle cause di S.to Officio; ved. la nota a pag. 260 del 1° volume di questa narrazione.

(201) Quando negli esami difensivi si vede interrogato un testimone sopra una serie di articoli, e poi sopra altri, saltatine alcuni con la formola "omissis aliis de voluntate producentis", s'intende che questa omissione non è fatta per volontà di persona presente, ma per volontà espressa dall'inquisito, d'accordo col suo Avvocato, nel dare la lista de' testimoni, avendo indicato che quel testimone doveva essere udito sopra determinati articoli. L'Avvocato dunque non era presente agl'interrogatorii. Circa le Difese scritte, anche tra' MS. della Biblioteca Nazionale di Napoli c'è una così detta "Collezione di processi per carcerati nel S.to Officio della Curia Napolitana" (XI, B, 34), che veramente è una Collezione di Difese per carcerati nel S.to Officio e in piccola parte anche per cause civili e criminali del foro ecclesiastico. Naturalmente in ogni Difesa, spesso intitolata "Tutamen pro..." etc., la "enucleatio facti" dà una certa contezza sommaria del processo. Le Difese per cause di S.to Officio, riunite in quella Collezione, vanno dal 1673 al 1680 ed appartengono quasi tutte a un D. Clemente Ferrelli avvocato de' poveri: i testimoni vi si veggono indicati con lettere A, B, C, talora anche l'inquisito, specialmente se è sacerdote, è indicato con N. N. Possediamo poi una Difesa anche stampata per causa di S.to Officio, ed è la sola che abbiamo incontrata fra tanti opuscoletti da noi veduti.]

(202) Ved. la Copia ms. tom. 1°, fol. 267. Il Memoriale, scritto dal Lauriana e degno di lui, vedesi firmato appunto da' frati affidati alle difese del Montella e poi dello Stinca, ed attesta la bontà del Vescovo di Termoli per que' frati. Fu inserto nel processo a lato di una comparsa di fra Pietro di Stilo del 17 novembre, con la quale fra Pietro rinunziava alle difese. Ma essendovi nel memoriale, con cui si dimandava un Avvocato, la firma anche di fra Pietro di Stilo, è chiaro che la data di tale scrittura deve riferirsi a un periodo anteriore, e verosimilmente a' primi di ottobre.

(203) Ved. Doc. 357, pag. 339.

(204) Ved. Toppi, De origine omnium tribunalium etc. Neap. 1655-66, vol. 3° p. 29.

(205) Questo elenco annuale de' Cappellani Regii fu redatto in quel tempo per la franchigia del pagamento del "grano a rotolo" ed inviato a' Deputati della pecunia dal Cappellano maggiore. Vi si legge: "Rev. dot.r Scipione stinca con doi servitori". Notiamo che dall'anno 1604 in poi non fu inviato un elenco nominativo, e però non si trova più registrato il nome dello Stinca.

(206) Ved. i Certificati de' lettori, che il Cappellano maggiore inviava allo Scrivano di razione pe' pagamenti. La provvisione raddoppiata, concessa al Dello Grugno, raggiungeva appena D.i 80 annui; così poco costava a que' tempi un buon lettore.

(207) Ved. Doc. 359 e 360, pag. 341 e 342.

(208) Ved. Doc. 362, pag. 359.

(209) Ved. Doc. 356, pag. 339.

(210) Ved. Doc. 361, pag. 344.

(211) Questo è il significato della espressione che si legge nell'art. 53, che cioè "non l'aveva mandato a Roma per penitenza", modo volgare ancor oggi abbastanza usato nel mezzogiorno d'Italia.

(212) Ved. Doc. cit. pag. 356.

(213) Costoro sappiamo certamente essere stati già carcerati, poichè se ne fa menzione in diverse parti del processo. Su molti altri, compresi nella medesima categoria de' testimoni dimoranti in Napoli, non abbiamo uguale certezza: potrebbe supporsi che fossero stati anche carcerati, poichè fra Dionisio li dà per testimoni precisamente sull'art. 58, vale a dire sulla sua condotta "da tutto il tempo in qua che è stato carcerato"; ma riesce notevole che non abbia dato alcuno di loro per testimone anche su qualche fatto avvenuto nel carcere, come si verifica in persona di quelli che sappiamo essere stati certamente carcerati. È più probabile quindi che si tratti di frequentatori del carcere per ragione di visite, come si ha per Aquilio Marrapodi compreso nella stessa categoria, frequentatore del carcere per ragione di servizii; e così ci è parso doverli escludere dall'elenco de' carcerati che ci siamo ingegnati di compilare (ved. nel vol. III, Illustraz. IV, pag. 644). Diamo tutte queste spiegazioni perché la cosa rifletterebbe individui di conto, tra gli altri il Dot. Gio. Vincenzo Serra e il Dot. Ottavio Serra, sul quale ultimo dal documento inserto nel processo si ha che trovavasi Sindaco di Nicastro quando fra Dionisio fu inviato al Papa per la faccenda dell'interdetto, e molti altri documenti potremmo produrre esistenti nel Grande Archivio.

(214) Ved. Doc. 382, pag. 395.

(215) Ved. i Reg.i Partium vol. 1165 bis e 1181 fol. 126; 1244 bis fol. 6; 1271 fol. 193; 1275 fol. 205 etc. etc. Inoltre i Reg.i Privilegiorum vol. 91 folio 137; e gli stessi Reg.i Partium vol. 1317 fol. 100 t.°, e vol. 1508 fol. 133.

(216) Ved. Reg. Sigillorum vol. 35 (an. 1599), sotto la data 21 giugno. Quivi si legge: "Licentia d'arme a Cesare Spinola affittatore de S.to Nicola, Massari e garzoni, taxato tarì uno".

(217) Ved. Reg. Officiorum Viceregum vol. 6 (an. 1593-96) fol. 75, e vol. 7 (an. 1595-98) fol. 155. Quivi si legge: "Expedita fuit provisio Patens officii Capitaneatus. Hostuni in personam mag.ci Don Francisci de Castiglia pro uno anno integro, et deinde in antea ad beneplacitum, cum provisione, lucris, gagiis, et emolumentis solitis, et consuetis, et cum clausulis in forma Regiae Cancellariae, qui etiam praestitit Juramentum in posse mag.ci et circumspecti D. Petri de Castellet regii Collateralis Consilii ac Regiam Cancellariam Regentis. Neapoli die 31 mensis Januari m.° d.° nonagesimo octavo. El Conde de Olivares". - Per l'esecutoria ved. Reg.i Sigillorum vol. 34 (an. 1598) sotto la data 20 febbraio.

(218) Non mancavano frattanto in favore di questo pessimo soggetto commendatizie perfino da Cardinali come il Bellarmino; ed il Nunzio, dopo la fuga e la ripresa di lui in Gaeta, scriveva che il suo negozio era "aggravato con intiera sua colpa, che s'è lassato ripigliare", né seppe far di meglio che consegnarlo nel 1605 alla Religione di Malta che lo reclamò. Il Vicerè fin da principio avea fatto istanza che fosse giudicato dal Nunzio coll'intervento di un ufficiale Regio (come si fece pel Campanella più tardi), ma S. S.tà non volle concederlo, benchè si trattasse di un così volgare assassino. Ved. il Carteggio del Nunzio in Firenze: Lett. da Roma del 5 maggio 1595, 8 novembre 1600, 14 giugno 1602, 12 novembre 1604; e Lett. da Napoli 3 marzo 1598, 17 marzo e 5 maggio 1600, 17 maggio e 22 giugno 1602, 14 e 30 luglio e 28 ottobre 1605. Inoltre i Reg.i Curiae in Napoli: vol. 40 (an. 1595-99) fol. 181, 12 marzo 1598; e vol. 47 (an. 1599-600) fol. 15 t.°, 31 agosto 1599.

(219) Ved. Doc. 363 e 364, pag. 360 e 361.

(220) Ved. Doc. 365, pag. 364.

(221) Ved. Doc. 366, pag. 366.

(222) Ved. Doc. 367, pag. 367.

(223) Ved. Doc. 368, pag. 369.

(224) Nell'originale "dela". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(225) Ved. Doc. 369, pag. 370.

(226) Ved. Doc. 370 a 372, pag. 371 a 379.

(227) Esclamazione comunissima tra' calabresi.

(228) Ved. Doc. 373, pag. 381.

(229) Ved. Doc. 384, pag. 397.

(230) Ved. Doc. 385 a 391, pag. 402 a 414.

(231) Ved. Doc. 392, pag. 415.

(232) Intendi Scanderbeg; nel volgare napoletano dicevasi Scannaribecco, e del resto "Scannalibec" e "Scandalibechi" leggesi anche in molte scritture pubbliche, p. es. ne' processi della Sommaria.

(233) Ved. Doc. 106, pag. 68. La ricevuta del processo fu da Roma annunziata il 16 10bre, ved. Doc. 107, ibid.

(234) Ved. Doc. 377 a 381, pag. 388 a 394.

(235) Ved. Doc. 376, pag. 386.

(236) Ved. Doc. 374 e 375, pag. 383 e 384.

(237) Ved. Let. del 6 aprile 1601, Doc. 120, pag. 71.

(238) Ved. Doc. 394, pag. 448, 455, 456, 449. Per le parecchie altre proposizioni ved. la nostra Copia ms. tom. 1°, fol. 362-1/2, 363, 380-1/2, 377, 394, 398, 392-1/2. Son questi tutti gl'importanti brani del Carteggio del Vescovo.

(239) Ved. Doc. cit. pag. 457. - Molte ricerche abbiamo fatte su tale negozio di Bitonto (nota città della Puglia), ed abbiamo trovato questi tre documenti, che ci sembrano riferibili al negozio cui allude il Vescovo di Termoli: essi si leggono ne' Reg.i Curiae vol. 34, fol. 216, 270 e 277 t.go - 1° "Al m.co giodice di butonto (sic). Havemo visto quanto ci scrivete per la vostra delli 14 del mese passato intorno al particolare della carceratione fatta per lo Rev.do Vicario di quessa città della donna fattocchiara contra la quale pretende procedere nella sua corte ecclesiastica prosopponendo che il sortilegio fatto per detta donna sia hereticale et per voi si pretende procedere nella vostra corte per le cause et raggioni che in detta vostra ci allegate dandoci del tutto aviso acciò havessimo ordinato quello havessivo dovuto exequire, al che respondendo vi dicimo che essendosi per noi ben considerato quanto ci scrivete ci è parso di ordinarvi che non vi debbiate intromettervi in quella causa ma in quella lassarete procederci dal detto vicario nella detta sua corte Ecclesiastica, et cossi l'essequirete non facendo lo contrario per quanto se hà cara la gratia della predetta M.ta Dat. neap. die 8 aprilis 1593. El c. de Miranda". - 2.° "Al m.co Jodice de bitonto... Per la vostra de li XI de febraro che havete scritta all'infrascritto mag.co et circumspetto Reg.te Moles havemo visto l'aviso che li date deli sortilegii, et magarie che si fanno in quessa terra. In resposta dela quale vi decimo che havete fatto bene a dar l'aviso predetto et vi ordinamo che da mano in mano ci debiate donar particolare aviso di quello che accaderà in simili negotii acciò per noi se possa provedere et ordinare quello che più meglio ci parerà che convenghi et cossi lo debiate exequire che tal è nostra voluntà. Dat. neap. die 24 mens. martii 1594. El c. de Miranda". - 3.° "Al Capitano della città de Bitonto... Nelle carcere della Viscoval corte de questa città de Bitonto se ritrovano ritenute alcune donne e un giovanetto vaxallo del stato ecclesiastico per cause gravi de apostasia dalla santa fede impietà magarie et altre cose spettanti al santo officio del inquisitione, et per che conviene per il servitio de nostro Signor iddio che quelli se mandino in questa fidelissima città de Napoli nel miglior modo che si potrà, o con sicurta o pleggiaria se l'haveranno o vorranno dare, overo non dandola o volendola dare con farli condurre preggioni secondo sarà giudicato per il Rev.do Vescovo de questa predetta città, per ciò ci e parso farvi la presente per la quale ve dicimo, et ordinamo che al ricevere d'essa parendo al d.to Rev.do Vescovo dare quella pleggiaria che al d.to Rev.do Vescovo parirà doversi dare, la quale per quella quantità sia buona et sufficiente de venire retto tramite et presentarsi nelle carcere della Vicaria etc. Dat. Neap. die 23 augusti 1594. El Conde de Miranda". Sembra manifesto che gl'imputati venuti a Napoli sieno stati mandati a Roma, dove le imputazioni furono poi trovate insussistenti.

(240) Engenio, Napoli sacra, Nap. 1623, pag. 151-152.

(241) Ved. Doc. 108, pag. 68.

(242) Ved. Doc. 108 a 115, pag. 68 a 70.

(243) Ved. Doc. 116, pag. 70.

(244) Vedi l'Ughelli loc. cit. - La data dell'exequatur fu il 25 feb. 1594, come si rileva da' Reg. Sigillorum, vol. 27 (an. 1586-95) fol. 213 t.°.

(245) Ved. l'Engenio, Napoli sacra, Nap. 1623, p. 562; Silos, Historiarum clericorum regularium t. 2. Rom. 1655, p. 67 e 156.

(246) Ved. Doc. 396, pag. 470.

(247) Ved. Doc. 396 e 398, pag. 461 e 473.

(248) Ved. vol. 1°, pag. 70.

(249) Ved. Doc. 117, pag. 70.

(250) Ved. Doc. 398 b, pag. 473.

(251) Ved. Doc. 118 pag. 70, e Doc. 407 pag. 507.

(252) Ved. Let. del 18 maggio 1601; Doc. 122, pag. 72.

(253) Ved. Doc. 119, pag. 71.

(254) Ved. il cit. Doc. 122, pag. 72. In questa lettera si parla anche di patenti e licenze da trasmettersi al Pittella e al Contestabile: non riesce agevole intendere di che si tratti, ma parrebbe trattarsi di fornir loro i permessi di andare a deporre in Squillace circa le nuove diligenze ordinate da Roma, poichè per la condanna avuta essi dovevano rimanere "extra provinciam Calabriae".

(255) Il fatto è registrato anche dal Campanella nella sua Informazione, ed interpetrato naturalmente così: "fra Cornelio era di mala conscienza, poi c'ha venduto il sangue di suoi fratelli, et andò fin a Spagna per la paga allo ingannato Re". È da notarsi che il Campanella non aggravò mai la mano sopra fra Marco e lo disse perfino "huomo buono ingannato da loro, che stava tanquam idolum et pastor", mentre tutto il processo, ed anche la parte del Carteggio del Nunzio di cui ci stiamo occupando, mostrano il contrario; parrebbe che al Campanella premesse di non tirarla troppo.

(256) Ved. Doc. 118, pag. 70, e 120-121, pag. 71-72.

(257) Ved. Doc. 400, pag. 475.

(258) Ved. Doc. 399, pag. 474.

(259) Ved. Hippolyti De Marsiliis Bononiensis, In nonnullos ff. et C. titulos Comment. et Repetit. etc. Venet. 1635 p. 45: "Aliud est tormentum, quo saepe usus sum contra obstinatos et contra non timentes tormenta, et vere nemo ita ferox invenitur qui huic tormento possit resistere, et est tormentum non laedens corpus, tamen est maximae potentiae, et antequam de ipso fecissem experientiam, videbatur mihi potius res ridiculosa quam tormentum, quod tormentum tale est. Nam ponitur reus super uno scamno ad sedendum, et ibi adsunt duo qui eum custodiunt ut non dormiat, nec de die nec de nocte, et cum ipse reus inclinet caput in una parte propter somnum, ille famulus qui est ibi ab illa parte dat cum manu sibi in capite, et excitat eum et elevat sibi caput, et idem faciat alter famulus quando inclinat caput ab alia parte versus eum, et quando illi duo sunt fessi et volunt dormire, alii duo novi subrogantur in locum illorum, et non permittunt unquam dictum reum dormire nec quiescere, in tantum quam ad tardius in duabus noctibus et uno die, reus omnia confitebitur promissa sibi quiete..." etc. - Grillandus Paulus Castilioneus, Tractatus de hereticis et sortilegiis omnifariam coitus etc. Lugd. 1536 fol. 94 t.°. "Profecto vidi ea quae prius non credebam, quod illud affert maximum tormentum et fastidium in corpore, absque aliqua membrorum lesione". - Ambrosini Tranquilli Senogalliensis Processus informativus; acced. Bernardini Franc. Mediolanensis Scholia, et Farinacei Prosp. Decisiones de indiciis et tortura Venet. 1649, pag. 348: "Quomodo haec duo tormenta dentur (ignis et Vigilia) consule alios, ego enim non sum apparitor aut birruarius". E pag. 237: "Tormentum vigiliae est scamnum quoddam altum a terra per septem vel octo palmos in circa tribus inhaerens hastis tanquam fulcris, non planum sed paulum acclive et in medio elevatum, conficiens angulum sed obtusum, super quo angulo manet reus ano denudato. Dixi angulum obtusum, quia si esset acutus, ut quandoque vidi, posset tortum ipsum fractis et foratis sibi inferioribus partibus interimere". - Zacchia Paul. Quaestiones Medico-legales, ed. 4.a Avenion. 1655, t. 1, pag. 411: "Secundum tormentum, quo in praesentiarum utuntur, illud est quod tormentum Vigiliae nominant, quod quidem ex nonnullis conditionibus atrocius multo videtur quam tormentum funis; est autem hoc tormentum hujusmodi. Reus in totum denudatus, illique pilis omnibus etiam reconditarum partium derasis, brachiis versus spinam retro contortis, ut in tormento chordae, alligatur tanquam fune torquendus. Tripes tum scamnum in promptu est, quod Capram, vel Equum, vel vulgo il Cavalletto nuncupant, sexipedalis altitudinis, cujus summitas ex quadrangulari tabula lignea est pollicaris crassitudinis, latitudinis undique bipalmaris: ejus tabulae superficies plana quidom in totum non est, sed sensim paulatimque versus medium ex singulis latibus sese elevans, in obtusum angulum desinit seu potius obtusam planitiem efformat. Reus eo modo chordae ex trochlea pendenti alligatus hic sedens sistitur. Lata insuper fascia ad pectus inditur, ac retro in proximo pariete firmatur; uterque humerus muris hic inde a lateribus existentibus longo funiculo medius deligatur; tum ad pedes longus inditur baculus ipsos pedes divaricans, ne eos Reus jungere possit; hic baculus per alium funiculum, quo medius ligatur, sursum elatus pedes etiam, et crura Rei attollit, adversoque parieti firmatur. Hoc modo relinquitur misellus per decem, duodecim, quindecim, aut viginti, et plures horas ad Judicis libitum, nisi delicta confiteatur, ea tamen cautela adhibita, ne brachia retro contorta per crassiorem funem trochleae appensam nimis extendantur; fit enim, ut miseri Rei multum extensis brachiis de vita periclitentur" etc.

(260) Ved. Eymerici Nicol. Directorium Inquisitorum" etc. Rom. 1578, p. 136: "Saepe contingit huic fictae insaniae remedium afferre torturam; nam dolor non facile patitur jocum et fictionem, atque in hoc casu nullum videtur periculum ad explorandum animi morbum..... cum nullum hic mortis periculum timeatur".

(261) Intorno a questo fra Raimo ved. nell'Archivio di Firenze il Carteggio del Nunzio; Lett. da Napoli 19 febb. 1593; 1° giugno e 28 10bre 1601; 25 febb.° e 20 9bre 1602; e Lett. da Roma 16 feb.° 1602; 28 mag. e 4 giugno 1604. Fra Raimo non confessò nulla nemmeno alla veglia e fu mandato alle galere Papali; ma giunse a farsi credere inabile e quindi a farsi liberare dal Generale delle galere; di poi fu nuovamente carcerato per indebita liberazione. Può servire per esempio del come andassero le cose a que' tempi.

(262) Ved. Doc. 402, pag. 498. Per le frequenti parole in dialetto ed anche per l'abbondanza del latino, onde l'Atto potrebbe riuscire oscuro ad alcuni lettori, ci crediamo obbligati ad esporlo qui senza restrizioni, mentre avremmo tanto volentieri fatto il contrario.

(263) Ved. Doc. 168 e 169, pag. 86.

(264) Nella lettera al Card.l Farnese del 30 agosto 1606 pubblicata dal Centofanti si legge: "Quello Altissimo Dio, che mi liberò di sette tormenti horrendi"; e in quella al Papa e Cardinali del 12 aprile 1607: "bis tormentum eculei sustinui; semel torturam brachiorum; et 40 horas suspensus fune et funiculis ad ossa penetrantibus, insidens acutissimo ligno quod devoravit carnes meas ad duas libras, et sanguinem ad octo sextertia exhausit plagis decurrentibus". - Nella Lett. al Papa del 1607 pubblicata da noi: "oltre li tormenti asprissimi di corda, e dui polledri, et 40 hore di veglia con funicelli sin'all'ossa, et sedendo sopra un acutissimo legno, chi mi secaro più di due libre di carne e più che vinti di sangue in diverse volte"; e in quella a Mons.r Querengo dell'8 luglio 1607: "per sapientiam et per stultitiam 7 volte dalla presentissima morte il Senno eterno mi liberò; et inanti à questi 8 anni stetti in carcere più volte, che non posso numerar un mese di vera libertà se non di relegatione: hebbi tormenti inusitati e li più spaventosi del mondo cinque fiate e sempre in timore e dolore"; (non contemplandosi qui il solo caso dell'ultima prigionia di Napoli, le cinque fiate darebbero motivo di sospettare che vi sia stato anche un tormento in Roma nel 1591, ma bisognerebbe ammetterne dippiù un altro in Padova nella 1a prigionia della fine del 1592, altrimenti il conto non tornerebbe, e non abbiamo criterii bastevoli a chiarirlo). - Nelle Poesie filosofiche, ediz. d'Ancona a p. 110, si legge: "Cinquanta prigioni, sette tormenti Passai..."; e a pag. 117, "Il corpo sette volte tormentato". - Nella Lett. allo Scioppio posta come proemio al ms. dell'Atheismus triumphatus e pubblicata dallo Struvio, a pag. 6: "Vide quaeso simne asinus ipsorum qui quidem jam in quinquaginta carceribus huc usque clausus, afflictusque fui, septies tormento durissimo examinatus, postremumque perduravit horis quadraginta, funiculis arctissimis ossa usque secantibus ligatus, pendens manibus retro de fune super acutissimum lignum, qui carnis sextertium in posterioribus mihi devoravit, et decem sanguinis libras tellus ebibit. Tandem sanatus post sex menses divino auxilio fossa demersus sum". - Nelle Disputationum in quatuor partes suae philosophiae realis, Quaestionum moralium pag. 8: "Id ego expertus sum 40 horis pendens de fune tortis brachiis ligatus et funiculis simul usque ad ossa adstrictis; super acuminatum lignum insidens, ita ut si velim brachiis me subtinere contortis, nimis affligerentur brachia scapulae, et pectus, et collum, si me demitterem a ligno nates devorabantur: quae distentae usque ad vessicae collum et radices genitalium, sanguinem multum emittebant, donec tanquam mortuum post 40 horas torquere cessarunt. Homines alii me maledicebant, et intendebant dolores, funem excutiendo: alii laudabant clanculum fortitudinem". - E ne' Medicinalium juxta propria principia lib. 6, pag. 58: "Mihi autem et venas et arterias disrupit nedum carnes laceravit cruciatus equulei in posterioribus partibus, et tamen diligentia Chirurgi Scamardelli, optimi viri, sanitatem adeptus sum".

(265) Nelle Cedole di Tesoreria e Cassa Militare vol. 439 (an. 1610), fol. 869 si legge: "a ultimo de maggio 1610... a Bonifatio del Castillo medico Cirugico del r.° castello di Sant'Elmo per suo soldo de mesi ventidue etc. a ragione de d.ti 3 il mese, D.i 72,3, - ". Pel medico Orabona ved. segnatamente i Processi della Cappellania maggiore.

(266) Nel Lib. I. Baptizatorum ab. an. 1544 usque 1600 si legge: "A di 3 de Agosto 1566 Lucretia Camardella fig. de Gio. Antonio Camardella et Mad.a lavina Camardella" etc. Nel Lib. III Baptizatorum et Mortuorum, all'elenco de' morti si legge: "A dì 22 de febraro 1601 morse lavina madre de sipione (sic) camardella medico"; inoltre "A dì 29 de luglio 1631 morì Scipione Cammardella Cerusico del Castello sepolto alla sep.ra de Sacerdoti nella Chiesa". - È facile intendere che le parole scritte da fra Tommaso "diligentia Chirurgi S. Camardelli (Scipionis Camardelli)" sieno state nella stampa interpetrate "diligentia Chirurgi Scamardelli". Così nella stessa opera Medicinalium a p. 350 si parla di "Cioccio del Tupho", evidentemente Ciccio ossia Francesco del Tufo; a pag. 378 si parla del "medicus Santarellus nolanus", alludendo senza alcun dubbio al medico Antonio Santorelli da Nola, celebratissimo in quell'età, lettore di pratica nello studio pubblico dopo il Cannizales nel feb.° 1613, poi lettore di filosofia dietro il ritiro di Latino Tancredi nell'8bre 1617 etc. etc. In somma è difficile avere un nome senza storpiatura, ciò che s'incontra egualmente ne' non pochi libri italiani del tempo, dati a stampare all'estero senza la revisione degli autori.

(267) Ved. il cit.to Doc. 400, pag. 476.

(268) Questo Vincenzo Ubaldini non ci riesce ignoto. Era di Stilo e insieme con tutta la famiglia dimorava in Napoli. Andato a Stilo col fratello Francesco, fu carcerato insieme col fratello e tradotto in Vicaria; l'Archivio di Stato ci fa conoscere la famiglia loro ed anche il motivo della loro carcerazione; trovandosi in Vicaria ebbero più tardi ad essere chiamati quali testimoni in una informazione di S.to Officio presa appunto contro fra Pietro di Stilo. - 1° Numerazione de' fuochi, vol. 1385. Fuochi di Stilo della vecchia numerazione (1598) estinti: "n.° 39. Bartolo Baldino a. 48; Livia uxor a. 30; Vincenzo f.° a. 18; Francesco f.° a. 15; Mutio f.° a. 5; Dalfina Brescia famula a. 18". - 2° Reg.i Curiae vol. 55 fol. 9 t.° "All'Audientia di Calabria ultra..... Da alcune Monache del Mon.io di S. Maria della gratia de' Vergini della città di Stilo ci viene scritto dell'insulto, et parole ingiuriose fattoli, da Vincenzo et Francesco baldini dell'istessa città in detto loro monasterio..." (segue l'ordine di prendere informazione, assicurarsi delle persone ed avvisare) 29 maggio 1603. - 3° Contra fratrem Petrum Dominicanum etc. nella n.a Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2°. fol. 267.]

(269) Nei suoi scritti si disse sempre "Hipponiata", dando così luogo ad interpetrazioni diverse, onde fu dichiarato di Monteleone, di S. Eufemia, di Gerace, di Taverna. In un curioso documento da noi trovato, del 1614, egli si dice napoletano, di circa 72 anni, figlio del q.m Mario e Lucrezia Galfuna. Intanto ci consta pure che dopo il Perrotta, dal 23 8bre 1607 fino al 1622, tenne la cattedra di chirurgia ed anatomia un Mario de Burgos y Azolin; potrebbe stare che questo Mario fosse un parente di Giulio, accomodatosi a ripigliare l'originario cognome spagnuolo per ottenere più facilmente la cattedra; se così fosse, s'intende che riescirebbe accertata l'origine spagnuola di Giulio Jasolino, ma è indubitabile che egli era nato in Calabria, e ci consta da altri fonti che aveva due fratelli in Napoli, Orazio e Ferrante, oltrechè vi fu contemporaneamente qualche altro dottore Jazzolinus di Taverna in Calabria (ved. per quest'ultimo nel Grande Archivio la Collectio Salernitana vol. 170 fasc. 1.° f. 47; il tom. 1.° fasc. del 1588 della stessa Collezione ha un autografo di Giulio Jasolino).

(270) Ved. Doc. 403, pag. 502.

(271) Ved. Doc. 404, pag. 503.

(272) Ved. Pegna, Scholia in Eymerici Directorium Inquisitorum, Romae 1578, Schol. XXV pag. 136; "Quid si revera haereticus in furorem incidat,... quomodo ejus causa tractanda? Respondeo custodiendum esse omnino, donec ad sanam mentem revertatur: nec potest damnari priusquam in furore moriatur, quia fortassis resipiscet et reconciliabitur Ecclesiae: nec ob id dicetur recedere impunitus, cum satis ipso furore puniatur". Anche se l'eretico fosse divenuto pazzo mentre era già condannato all'ultimo supplizio, bisognava sospenderne l'esecuzione: "Minus malum videtur eum impunitum relinquere, quam puniendo animam perdere; differendum est igitur aut etiam amovendum penitus omne supplicium" (Ibid.).

(273) Su questo Cesare d'Azzia potremmo dare varie notizie, ma ci basterà dire che era di famiglia nobilissima, bensì di costumi molto tristi. Anche nell'Arch. di Stato in Torino, Lettere-Ministri Due Sicilie maz. 1°, lett. dell'Agente Melchiorre Reviglione 28 mag. e 7 giugno 1602, trovasi qualche cosa intorno a lui; poichè egli era Cav. di S. Lazzaro fin dal 1560 e possedeva le commende di Ariano, Barletta, Venosa e Rocca-Rainola. Il Reviglione suggerì di farlo processare e privare dell'abito dal Nunzio Pontificio, del quale il Duca di Savoia si serviva in simili casi.

(274) Ved. Doc. 417, pag. 521. Si ricordi che dopo la veglia il Campanella fu posto in una camera presso la Sala Reale, ed ora si badi che lo scritto fu trovato nel reveglino tra le due porte del castello: a chi conosce il luogo è chiaro che il Campanella dovea trovarsi nel bastione che rimane tra i due torrioni, quello detto Bibirella e quello detto del Castellano, ma più dappresso a quest'ultimo e nel 2° piano.

(275) Ved. Doc. 423, pag. 528.

(276) Ved. Doc. 405, pag. 504.

(277) Ved. Filza 4089, Lettere di particolari scritte da Napoli al Sig.r Lorenzo Usimbardi l'anno 1601 et 1602. La relazione è senza data, ma precede di poco l'annunzio della morte del Vicerè; per altro le Lettere stanno in quella Filza assai disordinatamente.

(278) L'Ughelli, Italia Sacra t. 6° p. 624, qualifica il Provenzale "nobile Filosofo e Teologo" non già medico; ma dice che Clemente VIII si servì dell'opera sua e cita i libri medici di lui. - Quanto al Bonaventura, può leggersi il Carteggio del Nunzio, Let. di Napoli 2 9bre e 7 10bre, 4 8bre 1602 e 26 7bre 1603; e Lett. di Roma del 30 9bre 1601, 13 7bre 1602, 15 maggio 1604. - Notiamo che negli ultimi giorni della malattia del Vicerè il Nunzio non si trovava in Napoli; avea dovuto recarsi, con suo vivo dispiacere, a Larino, dove il popolo avea chiuso le porte della città in faccia al suo Vescovo Mons.r Vello, e vi si era fatto accompagnare da 50 soldati a cavallo concessigli dal Governo; ved. il suo Carteggio, Lett. da Napoli del 21 7bre, 5 e 15 8bre 1601 etc. e il Carteggio Veneto, Let. del 9 8bre 1601.

(279) Nell'originale "trai". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(280) Anche ne' Diurnali di Scipione Guerra, ms. della Biblioteca Nazionale di Napoli (X, B, 11) si trova un Sonetto apparso al tempo della morte del Lemos, che canzona la sua intemperanza e comincia così:



"Giungi roba al pignato Satanasso

vien teco a cena l'alma di un ghiottone

che andò mangiando per ogni pontone

con scusa di portar la moglie a spasso" etc.



Nel Carteggio poi del Residente Veneto, una volta in data del 7 7bre 1599, a proposito delle doglianze affisse pe' cantoni circa la carestia, si biasima "la smoderata presunzione et superbia del popolo"; un'altra volta in data del 19 8bre 1601, a proposito delle accuse che si facevano al Lemos estinto, trovasi un'osservazione molto amara, ma che è bene conoscere, perché rimossa l'esagerazione potrebbe anche offrire qualche cosa da apprendere, ed essa è, che i napoletani "per natura danno sempre per fatto da altri quello che fariano essi se havessero la potestà"!

(281) Ved. Doc. 123, pag. 72.

(282) Ved. Doc. 407, pag. 507.

(283) Ved. Doc. 406, pag. 506.

(284) Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2°, fol. 180 e seg.ti

(285) Nell'originale "di". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(286) D. Manno Brundusio di Fondi era stato dapprima Segretario del Vescovo di Lucera, e poi divenne Segretario del Vescovo di Caserta; secondo alcuni suoi reclami né l'uno né l'altro gli avrebbero dato mai compenso; vedi nel Carteggio del Nunzio Aldobrandini Lett.e di Roma del 1° 7bre 1600 e 24 10bre 1604; e Lett.re di Napoli del 21 genn. 1605. Suo fratello parrebbe che fosse stato quell'"Appio Brundusio Fundano filosofo e medico preclarissimo" il quale diresse ad Antonio Serra l'economista alcune poesie che si leggono in fronte all'opera di costui intitolata: Delle cause che possono far abbondare gli Regni d'oro et d'argento, Nap. 1613.

(287) Ved. Doc. 408, pag. 507.

(288) Ved. Doc. 415, pag. 519.

(289) Ved. Doc. 410, pag. 509.

(290) Ved. Doc. 411, pag. 510.

(291) Questa Sig.ra Giulia fu poi moglie del medico e filosofo celebratissimo a' tempi suoi, Francesco Leotta, di cui fanno menzione il P.e Fiore, il P.e Elia de Amato etc. etc. Nella Numerazione de' fuochi di Stilo, fasc. del 1630 si legge: "n.° 411. Dott.r Francesco Leotta (assente nella città di Roma); Giulia Prestinace moglie a. 62" (con due serve).

(292) Il Principe di Conca, di cui qui si parla, non potrebb'essere altri che quel Matteo di Capoa, "grande Ammirante del Regno" fin dal 1597, cav.re del Toson d'oro etc. che abbiamo visto testimone a carico di Colantonio Stigliola nel processo che costui ebbe dal S.to Officio (confr. vol. 1°, pag. 95 in nota).

(293) Questo opuscoletto, di carte 11-1/2 non numerate, comincia così: "Pithagoram, cum occultam musices rationem admiratum esse legeretur, et ex fabrorum malleis juxta pondera invenisse: eumdem quoque ad hominum natales et genituras descendisse videtur. Ideoque hominis partum vitalem esse, quum armonias explesse (?) videtur: perfectiorem vero nonimestrem, eo quod pluribus simphoniis confectum esse dicitur (?): septimestris igitur ideo armonicus, quum id tempus ex triginta quinque (?) per senarium ductum constat. Triginta quinque vero ex sonoris numeris colligitur, quibus homo formatur in utero. Nam primis sex diebus semen ut lac decoquitur, sequentibus octo erubescit in sanguinem: subsequentibus 9 fit caro: postremis 12 organizatur et in hominem formatur. Unde per armonias transit. Nam a primis sex ad octo Diatesseron est: et ad novem Diapente: et ad duodecim Diapason: ex quibus triginta quinque confiantur; cui si denarium adas, quatraginta quinque conficies; quem si per senarium ducas efficies 270, quem numerum, si in menses dividas, novem menses faciunt. Denarium si per unum, duo tria et quatuor dividas totum decem faciunt: si binarium ad unitatem comparabis Diapason videbis: Ternarius ad binarium Diapente: Quaternarius ad ternarium Diatessaron: e contra vero Quaternarius ad unitatem Bis diapason: Ternarius ad unitatem Diapason cum diapente. Quae cum plures sint, nonimestris vitalis erit; Octomestris vero cum nullas istas habeat proportiones, immusicus est, et non vivet quod in eo nascitur mense, ut clarius in hoc exemplo schematis hujus patet". Segue una tavola schematica, che lasciamo, come tutto il resto, anche perché la scrittura riesce di una lezione molto difficile; vi scapiteranno solamente i Musici e i Fisiologi, che avrebbero forse visto con piacere accomunati i più sublimi principii delle rispettive discipline.

(294) Pare che debba leggersi: "a mucciari" che vuol dire "a nascondere"; ma è scritto "amacciari".

(295) Veramente l'originale dice: "fingi chi mi vidi" etc.; ma non andrebbe né il senso né il verso.

(296) Nell'originale "interpetrarla". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(297) Ved. Doc. 409, pag. 509.

(298) Nell'originale "esauri". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(299) Ved. Doc. 417, pag. 521.

(300) Ved. Doc. 418, pag. 522.

(301) Ved. Doc. 419, pag. 524.

(302) Ved. Doc. 420, pag. 525.

(303) Eccola questa scrittura; è brevissima, e possiamo soddisfare chi voglia un saggio di tali scempiaggini: "Arie sequi Cunaim Enamenìcon Amael settantol Coniuro vos per Dom. nostr. Jes. Christ. et Mariae (sic) Virginis matris eius ut statim talis in amore meo corrumpere faciatis." E poi: "Abagator Amon Averamon canus masque pedasque conturbant te





(304) Su questa faccenda del matrimonio di D. Andrea de Mendozza, figlio di D.a Isabella de Mendozza 2a moglie e già vedova di D. Pietro Gonzales de Mendozza 4° Marchese della Valle Siciliana e Rende, abbiamo trovato notizie quasi complete nel Carteggio del Nunzio, notizie che non dà il De Lellis (Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli 1654 part. 1a p. 398); ed è bene saperne qualche cosa, poichè madre e figlio abitavano nel Castel nuovo, e in questa faccenda del matrimonio si trovano implicate certe persone che hanno potuto aver relazione col Campanella. Adunque D. Andrea, essendo capitano d'infanteria spagnuola in guarnigione a Bisceglie, s'invaghì di D.a Ilaria Sifola, che abitava in quella città con la madre Beatrice Sassi, ed apparteneva a famiglia nobilissima e potentissima in quella regione, tanto da far correre il proverbio notato dagli scrittori di cose nobiliari, "pe' Sifoli e Palagani non si può vivere in Trani". D. Andrea la sposò e vi si unì, ma la madre Marchesa della Valle montò in tanta collera da far istituire un processo di rescissione di matrimonio nel tribunale del Nunzio; D.a Ilaria Sifola, contro la volontà della Marchesa che avrebbe preferito vederla in un convento, venne sequestrata presso una nobile Signora di Barletta D.a Giulia Gentile, certamente de' nobilissimi Gentili che vantavano nella loro famiglia 14 Conti di Lesina (ved. Zazzera, della nobiltà dell'Italia, Nap. 1625 t.° 2.° pag. 81) sorella di Michele 2° Gentile e di Tommaso, che da D.a Eleonora della Gatta ebbe Francesco Gentile. Il Carteggio del Nunzio offre alcuni memoriali della madre della Sifola ed anche di D. Alonso de Mendozza il Castellano, che era fratello della Marchesa della Valle e quindi zio di D. Andrea, diverse lettere di Roma e di Napoli su questi memoriali, ed una lettera del Nunzio medesimo a D. Artuso Pappacoda, che sappiamo essere anche parente della Marchesa della Valle (marito della zia D.a Caterina de Mendozza) ed inoltre a quel tempo Governatore della Capitanata, onde avea voluto ingerirsi nella quistione, tentando, a quanto sembra, far uscire D.a Ilaria dalla casa Gentile per ingarbugliare semprepiù la lite sul matrimonio (ved. Lett. di Roma 13 7bre, 11 8bre e 1° e 29 9bre 1602; e Lett. di Napoli 18 7bre, 25 8bre, 22 9bre e 6 10bre 1602). Ma il matrimonio fu da ultimo dichiarato valido, sicchè D. Andrea si unì di nuovo a D.a Ilaria e n'ebbe figli e figlie, una delle quali si maritò ancora a un Gentile: i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo recano i nomi di taluno de' discendenti di D.a Ilaria e D. Andrea, cominciando peraltro D.a Ilaria a figurarvi non prima dell'anno 1618.

(305) Ved. Doc. 421, pag. 526.

(306) Ved. Doc. 422, pag. 527.

(307) Riportiamo qui la bozza de' cedoloni; vi apparisce anche il fisco per pura e semplice finzione legale: "Hic auctoritate Apostolica denuntiatur et publicatur Excomunicatus, et ab omnibus christi fidelibus arctius evitandus Capitaneus Moya, qui fuit locumtenens Regii Castri novi hujus Civitatis, ob non paritionem mandatorum Apostolicorum eidem intimatorum, instante fisco et petente. - .... locus sigilli. - Donnus Benedictus Episcopus Casertanus et Commissarius. - Amoventes, et lacerantes, aut quomolibet (sic) deturpantes sint etiam Excomunicati".

(308) Ved. Doc. 423, pag. 528.

(309) Nel Carteggio del Nunzio (Let. da Napoli filz. 230) trovasi la seguente lettera del Nunzio al Card.l di S.ta Severina: "17 marzo 1600. Hò ordinato mi sia chiamato quel Melchiorre Mescia de Figueroa che V. S. Ill.ma mi scrive per la sua de' 10 del corrente che sta in Castello dell'ovo et è scomunicato, acciò sappia che hò facoltà di assolverlo, come l'assolverò tuttavia che venga conforme al suo ordine".

(310) Contrada nel territorio di Gerace.

(311) Ved. Doc. 435, pag. 547.

(312) Nel Grande Archivio non mancano notizie intorno ad alcuni di costoro, e propriamente intorno a quelli che hanno maggiore attinenza co' soggetti della nostra narrazione. Luzio Gagliardo finì ammazzato con taglia promessa dal Governo, come si rileva dal seguente dispaccio Vicereale all'Audienza di Calabria ultra: "Magn.ci viri etc. Per parte de Vincenzo Schinosi ci e stato fatto intendere come ritrovandosi Cap.to della città di S. Agata di quessa Prov.a andando in perseq.ne di Banditi ammazzò lutio Gagliardo Capo di Banditi, la testa del quale ha presentato a D. Garsia de Toledo olim Governatore di quessa prov.a et per tal causa li spettano D.i cento in virtù deli regii banni....." (dietro la dimanda di pagamento il Vicerè vuole informazioni) 14 10bre 1603,[** .] Ved. Reg. Curiae vol. 55. an. 1603 - 1604, fol. 78. - Ed anche il Veronese dovè saldare qualche conto, come si rileva da un altro dispaccio parimente diretto all'Audienza di Calabria ultra: "Magn.ci viri etc. Si è ricevuta l'informatione che ci havete inviata con la vostra delli 4 di maggio prox.° passato presa di nostro ordine in Gerace ad instantia del Rev.do Vescovo di quella città contra alcuni particolari laici di essa, et essendosi vista per noi et referitaci in questo regio Collaterale cons.° ci è parso per risposta di detta vostra dirvi sincome per questa ve dicimo et ordinamo che al recevere di questa la debbiate (sic) incontinente con ogni diligenza procurare de haver in mano Pietro Veronese inquisito tra l'altri in essa et carcerato che l'havereti debbiate incontinentemente mandarlo sotto buona e cauta custodia nelle carcere della gran Corte della Vicaria con vostro aviso a noi, verum offerendove plegiaria di venirsene à presentare fra termine di un mese dandola di d.ti mille debbiati liberarlo e permettere che venga inviandoci copia di detta plegiaria et aviso del dì della sua scarceratione acciò che non venendo fra d.to tempo si possa procedere all'accusa di quella. Dat. neap. die 30 junii 1612. El c.de de lemos". Ved. Reg. Curiae vol. 83, an. 1612-1616, fol. 24 t.°.

(313) I Registri Curiae (vol. 30 an. 1581-1588, fol. 241) recano solamente, in data del 21 gennaio 1587, l'ordine al dot.r Vello, Commissario di campagna contro fuorusciti e malfattori, di avere in ogni modo nelle mani il Duca di Amalfi. Il processo di eresia, che abbiamo potuto esaminare, reca la notizia della carcerazione sofferta, secondo i diversi tempi, nella Vicaria, nel Castello nuovo, nel Castello dell'uovo, e così pure quella della condanna avuta e della grazia concessa, oltre tutti i particolari de' fatti in materia di S.to Officio. Vi abbiamo notato fra' testimoni "carcerati in Castello" fin dal 1595, anche il Sig. Cesare d'Azzia (che fu in relazione col Gagliardo nella faccenda delle scritture proibite) insieme con altri nobili di primo ordine, come Alvise d'Aragona, Arimanno Pignone, Francesco Loffredo. Il duca aveva posseduto egli pure una copia della Clavicola di Salomone, e fin dai primi anni suoi, nel 1579, passando per Venezia, con un monaco del convento de' Frari si era occupato di sortilegi, continuati poi di tratto in tratto con altri frati e preti in modi spesso curiosi. Abiurò il 21 agosto nella Chiesa di S. Maria a Cappella, dove fu tradotto dal vicino Castello dell'uovo. Il rescritto di abilitazione da parte di Clemente VIII, in data del 6 gennaio 1600, fu firmato anche da fra Alberto (Tragagliolo) Vescovo di Termoli Commissario generale del S.to Officio; e la commutazione dell'anno di carcere in penitenze salutari fu decretata dallo stesso fra Alberto il 13 gennaio 1600. La rimozione dell'empara fu fatta il 24 marzo 1600, e a questa data il Duca dovè uscire in libertà, ma alla guerra andò nell'anno seguente e durò molti anni nella vita militare. - Il Residente Veneto, effettuata l'abiura, la partecipò al suo Governo in data del 7 7bre 1599 in questi termini: "Il Sig. D. Alessandro Piccolomini Duca di Amalfi, che per antichità di titolo era uno de' primi SS.i di questo Regno, dopò havere alienato il stato et consumato affatto ogni altro suo havere, et permesso che sua moglie con potestà Pontificia si sia sacrata monaca, et essendo poi lui per diverse colpe stato dal Conte d'Olivares confinnato xij anni in Castel novo si è questi ultimi giorni nella Chiesa di Capella alle mure della Città abiurato in valida forma di cose hereticali". Di poi, il 23 maggio 1600, partecipò il desiderio del Duca "già libero" di servire la Repubblica Veneta. Infine, il 9 gennaio 1601, partecipò l'andata del Principe di Avellino alla guerra con 24 compagnie e 43 capitani, tra' quali il Duca di Amalfi.

(314) Ne diamo alcuni brani per saggio. "Prologho (sic). Se 'l verno coprisse di continuo la terra di giaccio, e di neve, e gli estivi, et tepidi soli non la disfacessero, come potrebono gli alberi e gli pianti produrre i fiori et frutti? cossì se qualche breve riposo non iscemasse tal volta la fatica, et alleggiasse il peso de' continui fastidj, et de noiosi pensieri ch'agravano gli animi nostri, come potremmo noi lungamente vivere? non à dubio che per ripararci dell'arma della morte più che si può, ne fa bisogno d'alcun soccorso honesto, ò utile, ò dilettevole, et che soccorso può dunque trovarsi più convenevole che la Comedia, che à in se tutte questi tre parti, è honesta, perche fu trovata per ritrarre gli huomeni dell'ampia strada de vitii, et guidarli per lo stretto sentiero della virtù..." etc. "Ma all'età nostra si prezzano si poco che rarissime si ne veggono a rapresentare, né so si di ciò debba incolpare l'avaritia o il poco amore che si porta alla virtù, dall'un canto mi cade nel pensiero di darne cagione all'avaritia poi che non e chi voglia scomodarsi di un mino danaro (sic) per fare una scena, e dall'altro canto m'induco ad accusare il poco amore della virtù, per che gli ascoltanti, vedendosi porgere a gli occhi un vitio, del quale essi sono machiati, temono in presentia dell'altri non arrosirse, et conferma questa mia oppinione il vedere che non voglino in quelle poche comedie che si fanno, che si reprendino vitii ma solo si dicano ciance et cose ridicole e di nisuna sostantia, servendosi della Comedia per uno spasso et per un gioco, e non a quel fine che fu ritrovata, et sono alcune persone che essendo elle degne di riso, come sentonu una parte che move meraviglia à dolorore (sic) à compassione ò ad altro effetto contrario o diverso dal riso si sentono svenire, et bisogna apparechiare lo aceto per unger loro i polsi, et stimano più una chiachiarata all'improviso et fori di proposito d'un vecchio venetiano o di un trastullo accompagnata di quattro accione disonesti et vili usati farsi da bagattellieri, che una Comedia grave che si serrà stentato tre anni a comporla et sei mesi a recitarla, vedete a chi termine e ridotto il poeta Comico, che essendo stato ripotato da ingegni eccellentiss.mi più difficile a comporre che lo Epico e 'l tragico, non mancano infiniti che non havendo pure una minima notitia di poesia solo con un certo loro discorso naturale, o per dir meglio materiale, et con l'osservanza secca c'hanno fatta in leggere quattro o sei comedie, stimandosi dotti senza arte presummono darne giudicio, et poi come sentono una protassis, una epitassis, una catastrophe, o simil altra sorte di voci convien loro di ricorrere ogni tratto al Calepino: et perciò (intend. se perciò) l'autore havesse pensato di contentare tutti i cervelli non si sarrebbe mai messo a durare questa fatica, perche non à tanta albaglia (sic) nel capo, che presumma esser miglore di Plauto, e di terentio, et di gli altri Autori moderni eccellenti, le Comedie de i quali non hanno potuto passare senza reprensione per li mani di certi Maestri Aristarchi, che con la barba quadra et col mantello lungo, col passo della picca, col far carestia delle parole et non dire che non sieno sesquipedali et preugne di sententie, aquistono credito appresso gli ignoranti et fanno profissione di havere i nasi critici che sentono l'odore insino al vetro, et non componendo essi mai, sono severissimi Giudici delle compositione altrui..." etc. "La Comedia è nova non più recitata e pur hora uscita di sotto il pennello del pittore e chiamasi torti Amorosi, da torti grandi che fa Amore alle persone che ne intervengono, facendole seguir chi le fugge scacciar chi li brama e i desiderii loro difformi et non corrispondenti, ma acortosi al fine che la Comedia sì rapresenta in Gerace che è questa che vedete, che è lugo (sic) dove si puniscono severamente le ingiustitie et i torti ben che legerissimi, et però temendo che costoro non ricorressero per gustitia (sic) al tribonal dello sdegno, si risolve far raggione a ciascuno, et farlo rimaner contento. Di silentio non ardisco ricercarvi, perché mi parrebbe far inguria (sic) alla cortesia et alla gentileza vostra vedendove stare cossi chieti, attendeti che adesso si derra principio".

(315) Notiamo di passaggio che questo Michele Cervellone, propriamente messinese, fu poi uno de' 4 principali imputati nella così detta 2a congiura del Campanella, che finì col supplizio di fra Tommaso Pignatelli il 1634.

(316) Ved. la nostra Copia ms. de' proces. ecclesiast. tom. 2°, fol. 215-1/2.

(317) Il decreto leggesi nel Carteggio del Nunzio, Filz. 216. Esso è stampato, e fu così trasmesso al Nunzio per farlo conoscere a tutti, con lett. del 18 10bre 1602; bensì la sua data è anteriore, e rimonta al 1601. Le ragioni del decreto sono espresse ne' considerandi: "Ut causae et negocia quovismodo spectantia ad Sanctam Inquisitionem cognoscantur et expediantur omni qua docet integritate, amotis quibusvis sordibus ac pecuniariis solutionibus" etc. Vero è che la Camera Apostolica non dava mai nulla e non compensava neanche il Ministro Generale della S.ta Inquisizione; si attesta infatti in una lettera a proposito della morte di Mons. Carlo Baldino predecessore del Vescovo di Caserta, che egli avea "servito 30 anni all'officio dell'Inquisitione senza mercede" (Lett. di Roma del 10 aprile 1598, Filz. 211). In che modo dunque dovea provvedersi alle spese? Ne' tribunali Diocesani vi provvedeva il Vescovo con l'entrate del Vescovado, e infatti in un'altra lettera, scritta a tempo della vacanza della Chiesa Napoletana per la morte del Card.l Gesualdo, si ordina al Nunzio, amministratore temporaneo, che faccia pagare dall'entrate dell'Arcivescovado "le spese del vitto et altre necessarie occorrenti per li carcerati del S.to offitio et speditioni delle loro cause" (Lett. di Roma del 23 maggio 1603, Filz. 218): ma nel tribunale del Ministro Generale dell'Inquisizione potevano sopperire alle spese unicamente le confische delle cauzioni degli "abilitati"; ad ogni modo non avrebbero mai dovuto sopperirvi l'elemosine raccolte in sollievo de' poveri carcerati.

(318) Ved. Doc. 412, pag. 513.

(319) Ved. Doc. cit.

(320) Le scritture della Cappellania maggiore, dalle quali abbiamo desunto i particolari suddetti, sono rappresentate da' Processi della Cappellania maggiore, che avemmo a studiare nel far le ricerche sul chirurgo Scipione Camardella.

(321) Ved. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, Nap. 1654 - 71, vol. 2°, part. 3a, pag. 349. - Carteggio del Nunzio, Lett. di Roma 30 nov. 1601, 23 feb. 1602, 24 genn. 1603; e Lett. di Napoli 14 10bre 1601, 25 gen. 1602, 21 marzo 1603, 24 marzo 1605.

(322) Ved. Reg. Sigillorum vol. 38 (an. 1601) sotto la data 24 di maggio.

(323) Ved. Reg. Curiae vol. 52 (an. 1601 - 1603) fol. 17, ove leggesi il seguente memoriale: "Gio. Francesco de Apuczo expone a V. Ecc.tia come sono octo mesi e più che se ritrova carcerato senza haver' fatto male sotto pretesto fosse consapevole dela morte del q.m notar' Gio. Carlo d'Apuczo suo padre per il che fu delegato per la felicis.ma memoria dell'Ecc.tia del Conte di lemos in detta causa il giudice Gio. Andrea Auletta, il quale come delegato procedè in detta causa et hà tormentato atrocissimamente esso supplicante mediante il quale (sic) è ridotto in tanta poca salute che si ritrova in pericolo di morte senza posser' ricorrere à persona alcuna che lo proveda per non haver' giodice..." etc. (supplica che gli si faccia giustizia, e S. E. all'ultimo di ottobre 1601 delega per la causa il giudice Tirone).

(324) Ved. Doc. 413, pag. 514.

(325) Ved. Doc. 414, pag. 518.

(326) Ved. Doc. 416, pag. 520.

(327) Ved. Doc. cit.

(328) Ved. Doc. 127, pag. 73.

(329) Ved. Doc. 128, pag. 74.

(330) Da una lettera del Campanella del 10 agosto 1624 a Cassiano del Pozzo, lettera pubblicata dal Baldacchini, apparisce che il Campanella riteneva essere stata la Monarchia tradotta anche in ispagnuolo e che questo accresceva le sue speranze di liberazione: per lo meno se fu tradotta in ispagnuolo, non fu stampata in questa lingua, avendola noi invano cercata nella Bibl. naz. di Madrid e in quella dell'Escuriale. Il Bosoldo poi ebbe cura di tradurla o farla tradurre in tedesco, perché la politica era uno de' suoi studii prediletti, ma non si comprende perché non l'avrebbe pubblicata in latino, se fosse stata già tradotta in latino, e questo ci dà motivo di sospettare che le affermazioni del Syntagma sopra citate possano essere inesatte. Quanto alla pubblicazione in italiano, essa fu condotta sulla copia scorrettissima esistente in Firenze, e il D'Ancona dovè lavorarvi assai e se la cavò con molto suo onore; ma ci sia lecito ripetere il voto, che laddove abbia a rifarsene l'edizione si tengano presenti le copie napoletane che si prestano tanto bene a' confronti.

(331) Ved. Doc. 524, pag. 604.

(332) Ved. Doc. 497 e 498, pag. 572 e 573.

(333) Ved. Doc. 494, pag. 571.

(334) Ved. Doc. 488, pag. 569.

(335) Ved. Doc. 504, 512, 515, 513, 517, pag. 575, 579, 580, 581.

(336) Nella lett. al Card.l Farnese si legge: "un volume di sonetti e canzoni a varie repubbliche regni et amici e salmodie..." etc. Nel Memoriale al Papa, pubblicato dal Baldacchini e riprodotto dal D'Ancona, si legge: "un volume di varie rime e Salmodie... morali e politiche".

(337) Ved. Doc. 502, pag. 574.

(338) Ved. Doc. 507, 505, 506, 509, 510, 508; pag. 576-577.

(339) Ved. Doc. 495, pag. 571; e 511, pag. 579.

(340) Ved. Doc. 462, pag. 559; e 491, pag. 570.

(341) Ved. Doc. 492, pag. 570.

(342) Ved. Doc. 499, pag. 573.

(343) Ved. Doc. 463, pag. 559.

(344) Ved. le Cedole di Tesoreria vol. 427, an. 1596, pagamento in data 30 giugno di D.i 150 per soldo de anno uno; e le Carte diverse del Governo dei Vicerè, fasc. 2°, an. 1610, dimanda in data 10 luglio, con la quale D. Troiano chiede licenza di poter rimanere un anno fuori Napoli.

(345) Ved. Doc. 467, 468, 477; pag. 560, 561, 564.

(346) Ved. i Registri Privilegiorum vol. 104, an. 1593-95, fol. 84. Sospettiamo che la madre di D.a Ippolita non sia stata Porzia Pignatelli moglie di D. Garzia, giacchè in questo documento, oltre l'assegno in moneta fattole dal padre, si ricorda anche questa promessa da lui avuta, "vita durante della madre di d.ta D. Ipolita consignarli ogni anno mensatim tomola ventiquattro di grano".

(347) Ved. Sarrubbo, Trattato della famiglia Cavaniglia, Nap. 1637, e De Lellis, Famiglie nobili di Napoli, ms. della Bibl. naz. nap. X, A, 3. fol. 263, e X, A, 8, fol. 175-193. - Negli stessi Reg.i Privilegiorum vol. 86, an. 1587-88, fol. 96, trovasi la donazione della parte legittima de' suoi beni fatta da Cornelia Cavaniglia nel vestirsi monaca, e in essa si citano la madre Porzia Pignatelli e i fratelli Troiano, Scipione, Fabrizio e Mario. Ne' libri parrocchiali della Chiesa di Castel nuovo è citato più volte Fabio Magnati fino al 1585, e Troiano Magnati due volte, nel 1596 e 1598; D.a Ippolita Cavaniglia poi è citata un grandissimo numero di volte, specialmente come madrina, anche in compagnia di D.a Anna e di D.a Maria de Mendozza, talora in compagnia del Principe di Bisignano quando costui era carcerato; e da ultimo l'elenco de' morti reca, "A dì 29 de xbre 1615 morì D.a Polita Cavaniglia, sepolta nel ihs vecchio" (intend. nella Chiesa del Gesù vecchio).

(348) Capaccio, Il Forastiero, Nap. 1634, pag. 774.

(349) Ved. Doc. 469, pag. 561.

(350) Nell'originale "interpetrare". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(351) Ved. Doc. 465, pag. 560.

(352) D.a Anna de Mendozza, figlia di D. Diego e D.a Claudia de Caro fu sposa a D. Ferrante de Bernaudo (ved. Reg.i Sigillorum 18 7bre 1595) e ne ebbe varii figli, Claudia, Francesco, Diego, Beatrice (ved. i libri parrocchiali per gli an. 1595-98-99 etc.); era dunque figlia e non moglie al Bernaudo, che fu poi creato Duca, la Claudia di cui parla il De Lellis (Discorsi delle famiglie nobili etc. Nap. 1564 vol. 1° pag. 399). Aggiungiamo che vi fu una Claudia Antonia de Mendozza, ultima figlia di D.a Isabella Marchesa della Valle e quindi nipote di D. Alonso il Castellano, la quale nel 30 8bre 1614 sposò Alessandro Ridolfi di famiglia fiorentina, generale del Papa, Ambasciatore straordinario di Mattia Re d'Ungheria al Re di Spagna, divenuto in Napoli Consigliere del Collaterale, pensionato con D.ti 1000, ed anche Marchese di Baselice: costui parecchi anni più tardi fu in relazione col Campanella, il quale parlò appunto di lui in una Lettera al Papa del 9 aprile 1635, che è tra quelle pubblicate dal Berti, quando disse che co' fratelli Ludovico ed Ottavio (Ridolfi) stava "in Castel di Napoli dove era accasato il Marchese et io carcerato".

(353) Ved. Doc. 466, pag. 560.

(354) Ved. Doc. 473, pag. 562.

(355) Ved. in Allacci Drammaturgia, Venez. 1775, pag. 522 e 779. Le Commedie sarebbero: "La memoria di Dario e Grisante" e "I trastulli d'Amore" Viterbo 1647.

(356) Ved. Doc. 470, pag. 561; e 478 pag. 564.

(357) Ved. Doc. 471, pag. 562; 472, ib.; e 474, pag. 563.

(358) Ved. Doc. 475, pag. 563.

(359) Ved. Doc. 479, pag. 564.

(360) Ved. Doc. 476, pag. 563. Pel Campanella la filoprogenitura è una ingannevole tendenza naturale ad eternarsi o immortalarsi, come si può rilevare anche da un brano della lettera al Flugio, che fu da noi pubblicata; da ciò emerge chiaro quale sia il fonte consecrato all'appetito dell'immortalità.

(361) Ved. Doc. 484, pag. 568.

(362) Ved. Doc. 483, pag. 567: 482, ib.; 480, pag. 564; 481, pag. 566.

(363) Pel Sonetto ved. Doc. 501, pag. 574. I Reg.i Partium, volume 1420, an. 1597-1599, fol. 133, nell'elenco de' possessori di rendite pagabili sull'arrendamento del vino recano, "Sore Elionora Barisana D.i 14"; i libri parrocchiali del Castel nuovo, nell'elenco de' morti, fol. 93, recano, "A di ij de marzo 1620 morì Sore Dianora Barisana de Barletta sepolta a Monte Calvario". Si sa che la Dianora del dialetto vuol dire Eleonora.

(364) Ved. Doc. 516, pag. 581.

(365) Ved. Doc. 485, pag. 568.

(366) Ved. Doc. 486, ib.

(367) Ved. Doc. 460 e 461, pag. 558.

(368) Nel 1° de' Libri parrocchiali si legge, "1583 12 marzo, se battezò Gioseph Horatio figlio de Ottavio Cesarano e de pulisena Camardella"; nel 3° poi l'elenco de' morti reca, "a dì 16 de marzo 1603 morse petrillo Cesarano".

(369) Ved. Doc. 490, pag. 570.

(370) Percorrendo infatti l'art. 3° del Syntagma, dove appunto si parla de' libri composti o ricomposti nel carcere, non è difficile scorgere che la cronologia in genere e in ispecie è stata addirittura negletta. Lasciamo da parte le Poesie, sulle quali ci siamo già spiegati nel trattarne fin da principio. Dopo le Poesie si parla degli Aforismi politici etc., che siamo per vedere essere stati scritti non prima della 2a metà del 1601; poi della Monarchia di Spagna, che abbiamo veduta indubitatamente già ricomposta, se non composta, prima degli Aforismi; poi si parla de' 15 Articoli profetali, che sicuramente furono scritti anche prima della Monarchia di Spagna. In sèguito si parla de' libri Medicinali e degli Astrologici, che non sono nominati ancora negli elenchi del 1606; e passando sopra a' libri Astronomici e alle Quistioni, osserviamo che dopo tutto ciò, con un notevole salto indietro, si legge, "poco di poi in Napoli scrissi una Metafisica... e questa ricevè dalle mie mani Geronimo Tufo Marchese di Lavello nell'anno 1603"! In sèguito si passa a parlare de' libri di Teologia, del Reminiscentur, delle Orazioni alle 4 grandi nazioni con la data del 1617 e 1618, e quindi, come aggiunte a' libri anzidetti, si parla della Monarchia della Sapienza eterna e del Dritto del Re Cattolico sul nuovo mondo, libri che si trovano registrati tra quelli inviati allo Scioppio nella sua lettera del 1607! Tralasciamo la Metafisica scritta nel 1611 e la Consultazione sulle entrate del Regno che vedremo scritta più anni prima, e notiamo che a questo punto, essendo stati già citati libri perfino con la data del 1618, si dice, "tutti i suddetti libri lo Scioppio da me ricevè nell'anno 1608, quando venne mandato da Paolo V°... ed anche gli diedi l'Ateismo debellato"! Così mostrasi fuori ogni dubbio mal fondato tutto ciò che è stato detto in tale materia sempre con la scorta del Syntagma, il quale può servire pe' particolari della composizione, non per la data di essa, verosimilmente perché fu redatto su note staccate. Aggiungiamo che negli elenchi annessi alle lettere del 1606 sopra menzionate si dà talvolta per compiuta qualche opera che ancora non l'era, p. es. i 18 Articoli profetali (ultima composizione accresciuta), e si afferma anche essere le opere "tutte salve" ciò che per alcune non era vero, e basta citare l'opera "De rerum universitate", quella "De Philosophia Pithagoreorum", la "Tragedia della Regina di Scozia". Nella lettera allo Scioppio poi si citano le opere con l'ordine seguente: Monarchia di Spagna, Discorsi a' Principi, Dialogo contro i Luterani, Del senso delle cose, Pronostici astrologici, Compendio (epilogo) di Filosofia etc. etc.; e ben si vede che l'ordine cronologico non è serbato, e insomma unicamente con accurati confronti, e tenendo sott'occhio le opere stesse e tutto l'epistolario del Campanella dal momento in cui cominciò a scriver lettere stando in prigione, si può venire a capo di questo importantissimo lavoro.

(371) Nell'originale "bensi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(372) Avremo altrove occasione di vedere che questa copia fu involata dalla Magliabechiana, e poi tornò nelle mani del Governo con altre scritture, per le quali ebbe posto nell'Archivio. Ma vogliamo dire che dal Magliabechi in qua si trova sempre citata col titolo di Concetti methodici etc., mentre veramente il suo titolo è 150 Concetti methodici etc.

(373) Ved. Lett. inedite di T. Campanella e Catalogo de' suoi scritti, Roma 1878, pag. 74.

(374) Ved. la nota alle Poesie Filosofiche nell'ediz.e D'Ancona pag. 100.

(375) Ved. Berti, Tommaso Campanella, Nuova Antologia, luglio 1878, p. 217.

(376) La cosa è di un'importanza capitale per l'argomento che trattiamo, e ci si permetterà di riprodurre qui taluni confronti già notati nella 1.a nostra pubblicazione sul Campanella (Il Codice delle lettere etc.) esprimenti certe differenze contemplabili, nella forma e nella sostanza, tra la composizione originaria del libro fatta nel 1602 e rappresentata da' codici napoletani, la versione latina fatta nel 1613 e pubblicata dall'Adami in Frankfort, la 2a edizione della versione latina preparata dopo il 1629 e pubblicata dall'autore in Parigi; quest'ultima veramente differisce dalla penultima quasi sempre per qualche aggiunzione, e volgarizzata a cura di un editore Luganese fu poi riprodotta dal D'Ancona, sicchè possiamo citare l'edizione D'Ancona nell'esporre i confronti, anche perché essa è più diffusa e popolare. - Circa la forma, si direbbe che con la magniloquenza latina fosse apparso necessario magnificare perfino gl'interlocutori del dialogo, i quali nella composizione originaria del libro erano "Hospitalario, Genovese marinaro", col latino furono promossi ad "Hospitalarius magnus, et Nautarum Gubernator Genuensis hospes", e col volgarizzamento divennero "Il Gran Maestro degli Ospitalieri ed un Ammiraglio Genovese di lui ospite". Oltracciò il Capo Supremo della Repubblica, che dapprima era semplicemente O (con o senza un punto nel mezzo, cioè a dire il Sole, come si mantenne nell'esemplare latino dell'Adami) divenne in sèguito Hoh. Naturalmente anche la dicitura italiana primitiva, convertita in latino e poi ritornata italiana, si vede trasformata di molto. P. es.: (cod. nap.) "S'io havesse tenuto à mente e non havesse pressa e paura, io te sfondacaria gran cose, ma perdo la nave se non mi parto"; (ediz. D'Anc.) "Oh! se mi ricordassi d'ogni cosa e non mi stesse a cuore la partenza, e più se nulla temessi, ti direi altro e ben più sorprendente, ma perdo la nave se non mi affretto a prendere il largo". Ancora: (cod. nap.) "Nulla femina si sottopone à maschio se non arriva a' 19 anni, ne il maschio si mette à generatione innanzi il 21"; (ed. D'Anc.) "Alcuna donna prima del decimonono anno non può consacrarsi à questo ministerio, e gli uomini debbono aver passato il ventesimo primo". Così la forma venne ingentilita, ma cessò di esser caratteristica, e ciò che è peggio non sempre riuscì a serbare la precisione. P. es.: (cod. nap.) "Una fiata mangiano carne, una pesce, et una herbe, e poi tornano alla carne per circolo"; (ed. D'Anc.) "Dapprima mangiano carni, poi pesci, infine erbaggi. Ricominciano poscia con le carni," - etc. Ma ciò che maggiormente interessa è la diversità nella sostanza in più luoghi. Da una parte le cose relative a filosofia e religione sono più spinte nella 1a maniera e più attenuate nelle posteriori. P. es. (cod. nap.) "Son nemici di Aristotile, l'appellano pedante"; (ed. D'Anc.) "Sprezzano l'opinione di Aristotile, che chiamano logico non filosofo". Ancora: (cod. nap.) "trovai Moisè, Osiri, Giove Mercurio Macometto et altri assai, et in luoco assai onorato era Giesù Christo et li 12 Apostoli, che ne tengono gran conto. Ond'io ammirato come sapeano quelle historie" etc.; (ed. D'Anc. con molto maggiori distinzioni e qualificazioni) "ho veduto Mosè, Osiride, Giove, Mercurio, Licurgo, Pompilio, Pitagora, Zamolxi..... e moltissimi altri. Che più? Hanno dipinto lo stesso Maometto che però reputano fallace ed inonesto legislatore. Ma vidi l'immagine di Gesù Cristo essere stata collocata in un posto eminentissimo, assieme a quelle dei dodici Apostoli da essi altamente venerati e creduti siccome superiori agli uomini. Sotto i portici esterni osservai dipinti Cesare, Alessandro, Pirro, Annibale ed altri sommi la maggior parte cittadini romani.... Ed avendo con maraviglia chiesto come essi conoscessero le nostre istorie" etc. Inoltre: (cod. nap.) "tengono per cosa certa l'immortalità dell'anima et che s'accompagni morendo con spiriti buoni o rei secondo il merito; ma li luochi delle pene e premii non l'hanno per tanto certo (sic) ma assai ragionevole, pare che sia il cielo et i luochi sotterranei. Stanno anche molto curiosi di sapere se queste pene sono eterne ò nò. Di più son certi che ci siano angeli buoni e tristi come avviene tra gli huomini; ma quel che sarà di loro aspettano aviso dal cielo. Stanno in dubbio, se ci siano altri mondi fuori di questo"; (ed. D'Anc.) "credono all'immortalità dell'anime, ed alla loro associazione dopo la sortita del corpo cogli angeli buoni o cattivi secondo le azioni della presente vita, e questo perché le cose simili amano i loro simili. Differente della nostra è la loro opinione intorno ai luoghi delle pene e de' premii. Dubitano se esistano altri mondi fuori del nostro". Come si vede, la prima composizione era ben cruda e molto più spinta, e le attenuazioni venute in sèguito non furono lievi. D'altro lato poi per un fatto risguardante la persona dell'autore troviamo tutta la riserva possibile nella prima composizione, e l'abbandono di ogni riserva in sèguito: 1° (cod. nap.) "dicono che se in 40 hore di tormento un huomo non si lascia dire quel che si risolve tacere, manco le stelle che inclinano con modi lontani ponno sforzare" etc.; 2° (ed. D'Anc.), "dicono che se un sommo filosofo per quaranta ore venne crudelmente tormentato da' suoi nemici senza mai potergli strappare di bocca una parola su quanto essi domandavano, perché nel fondo dell'animo avea determinato di tacere, così nemmeno le stelle che movonsi in distanza e con lentezza non possono costringerci" etc. Adunque scrivendo il libro nel 1602 non palesò la faccenda della sua pazzia simulata, la palesò invece nel 1613, quando diede il libro tradotto all'Adami; e per verità sarebbe stata una pazzia vera il farlo prima. V'introdusse poi varie aggiunzioni mano mano, ed anche, quando preparò l'edizione di Parigi. Così, mentre nell'esemplare primitivo si trova notata soltanto l'invenzione del volare (che nel libro de Sensu rerum et Magia è riconosciuta in un calabrese), in quello latino dato all'Adami si trova notata anche l'invenzione degli strumenti oculari per vedere le occulte stelle (riconoscimento delle cose del Galileo sulle quali egli già cominciava a riflettere), e degl'istrumenti auricolari per udire le armonie de' cieli (presagi del telefono ad un'altezza non ancora raggiunta): ma è singolare che non vi si trovi l'invenzione sua, attribuendola agli abitanti della città del Sole, del modo di navigare senza vele e senza remi, ciò che pure avea già promesso con le lettere del 1606-1607 a' Cardinali e al Re di Spagna. Invece essa si trova nella 2a ed ultima edizione della versione latina, dove è registrata pure la scoperta del modo di evitare il fato sidereo, attribuita sempre agli abitanti della città del Sole, da doversi riferire al libro da lui composto De fato siderali vitando; ed in pari tempo è registrata la proibizione dell'Astrologia da parte del Papa, ciò che prima egli non reputava ben fatto e poi si credè in obbligo di accettare e difendere col suo opuscolo An Bullae Sixti V.i et Urbani VIII.i contra judiciarios calumniam in aliquo patiantur. Per le quali ultime circostanze abbiamo detto che la 2a edizione del libro dovè essere preparata dopo il 1629; giacchè dal Syntagma sappiamo con certezza che il libro De fato siderali etc. fu scritto nel S. Ufficio di Roma dopo la liberazione dal lunghissimo carcere di Napoli, vale a dire tra il 1626 e il 1629. Non è arrischiato l'ammettere che le modificazioni successive introdotte dall'autore nel modo di esprimere le sue opinioni circa Gesù, e circa i premii e le pene e l'eternità di esse, rappresentino pure e semplici attenuazioni pro bono pacis: e merita di essere considerata la sua persistenza in altrettali opinioni fino agli ultimi anni della sua vita, benchè abbia contemporaneamente abbondato nella composizione di libri di assolute credenze Cristiane Cattoliche.

(377) Ved. Poesie, ed. D'Ancona, p. 95.

(378) Ved. Doc. 395, pag. 457.

(379) Ved. Doc. 425, pag. 531.

(380) Ved. Doc. 395, alla pag. 464.

(381) Ved. Doc. 131, pag. 75.

(382) Ved. Doc. 193, pag. 97.

(383) Ved. Doc. 234 e 236, pag. 122 e 124.

(384) Ved. Doc. 426, pag. 531-32.

(385) Questo documento è rappresentato da un foglietto di pergamena, su cui a grossi caratteri si trovano segnati i nomi di tutti coloro le cui cause doveano spedirsi, frati ed anche secolari; ed è notevole che solamente a lato del nome di fra Dionisio si legge "aufugit", mentre a lato del nome del Bitonto non si legge nulla di simile. Tale foglietto stava insieme con le bozze e copie de' Riassunti degl'indizii presso il Vescovo di Caserta, e lo si dovè scrivere subito dopo la notizia della fuga di fra Dionisio, contemporaneamente all'ordine di cui si parla nel testo, forse nel determinarsi a rompere ogni altro indugio, fare le copie de' Riassunti ed inviarle sollecitamente a Roma; sicchè fino ad un certo punto esso confermerebbe il ritardo avvenuto nell'invio delle copie de' Riassunti oltre il 16 ottobre, e la non avvenuta copia del Riassunto contro fra Dionisio.

(386) Ved. Doc. 134, pag. 75.

(387) Giustifichiamo le proposizioni emesse nel testo. 1.° "Se l'heretico pendente la sua causa diverra pazzo o furioso... bisognerà tenerlo ben custodito né condannarlo fino à tanto che egli ò risani ò muoia nel furore: perché risanandosi potria per avventura rihaversi, e convertito, ritornare al grembo di S.ta Chiesa"; Masini, Sacro Arsenale, Roma 1639, pag. 381. art. 99. - 2.° "Il rilasso legitimamente convinto dee, ò confessando, ò nò, rilasciarsi al braccio secolare"; Id. pag. 331. art. 93. - "Quantumcumque poeniteat, nihilominus relapsus est tradendus Curiae saeculari, ultimo supplicio feriendus"; Eymerici Directorium Inquisitorum, Romae 1578. p. 331. - 3.° e 4.° "... à gli heretici pentiti, oltre alla publica abiuratione s'impone anco la pena di carcere perpetuo, perché altrimenti, non potendo i Sacri Canoni con pena di morte castigar alcuno, non ci sarebbe pena alla gravità del delitto confacevole"; Masini, pag. 325. art. 76. - "Carcer perpetuus est poena haeretici reversi"; Locatus, Opus Judiciale Inquisitorum, Romae 1570. pag. 269. - Prescrizione del Concilio Tolosano: "Haeretici autem qui timore mortis vel alia quacumque causa, dummodo non sponte redierint ad catholicam unitatem, ad agendam poenitentiam per Episcopum loci in muro cum tali includantur cautela, quod facultatem non habeant alios corrumpendi"; Pegna, Scholia in Eymerici Directorio, Schol. LXV. lib. 3. pag. 185. - Rescritto di Urbano IV: "Clericus, qui est perpetuo immurandus, prius debet a suis ordinibus degradari"; Id. ibid. - "Cum illis qui vel in perpetuum carcerem vel in perpetuum ad triremes condemnantur dispensari soleat, ideo non solent condemnandi ad has poenas actualiter degradari sed solum verbaliter"; Id. ibid. - 5.° "Poena perpetui carceris post lapsum triennii remitti solet"; Simancae Jacob. Enchiridion Judicum violatae religionis, Venet. 1578. - "Quaesitum scio, post quantum tempus solent in carcere perpetuo dispensari..; post lapsum triennii remitti solere scripsit Simancas. Quod si poena carceris irremissibilis fuerit imposita, elapso octavo anno solet relaxari"; Pegna, op. cit. p. 224. - Aggiungiamo a chiarimento dell'immurazione: "Eadem prorsus poena immurationis et carceris perpetui"; Pegna, op. cit. Schol. LXV. lib. 3. pag. 184. - "In aliquibus partibus.... Inquisitores habent in suis domibus carceres, quos vocant muros, quia domunculae illae adhaerent muro loci, qui est Episcopo et Inquisitori communis"; Locatus, op. cit. p. 39.

(388) Ved. Doc. 137, pag. 77.

(389) Ved. Doc. 427, pag. 532.

(390) Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2°, fol. 124.

(391) Ved. Doc. 428 e 429, pag. 533 e 535.

(392) Ved. Doc. 430, pag. 537.

(393) Ved. Doc. 431, pag. 540.

(394) Ved. Doc. 432, pag. 543.

(395) Ved. Doc. 433, pag. 544.

(396) Ved. Doc. 434, pag. 546.

(397) Ved. Doc. 420, pag. 326.

(398) Ved. la così detta Collectio Salernitana, vol. 171. fasc. 1.° fol.° 166 t.°: "Ego Scipio Marullus Stilensis" etc.

(399) Ved. Doc. 219, 220 e 221, pag. 116 e 117. Vi sarebbe anche un altro Documento, per brevità omesso, una lettera Vicereale che prescrive l'invio della persona stessa del Baldaia nelle carceri della Vicaria in Napoli, sempre per l'omicidio suddetto, senza alcun ricordo de' fatti della congiura. Ved. Reg. Curiae, vol. 55, an. 1603-1604, fol. 163 t.°.

(400) Ved. Doc. 222 e 223, pag. 117.

(401) Ved. Doc. 224, pag. 118.

(402) Ved. Doc. 225 e 226, pag. 118 e 119.

(403) Intorno a' Grassi sarà bene conoscere ancora i documenti di data anteriore che abbiamo trovati nel Grande Archivio: 1.° Registri Curiae vol. 46, an. 1599-1601, fol. 40, t.° "All'Audientia di Calabria ultra... Semo informati come Paulo, Pompeo et Scipione Grassi del Casale de Gionadi destritto di Melito hanno commesso molti delitti, per il che fu mandato Commissario dal nostro predecessore, et se le verificorno molti homicidii et furno reputati contumaci per la Vicaria, et dall'hora in poi sempre hanno (sic) armati in cometiva di dodici et più banniti commettendo delitti, et particolarmente li dì passati intorno in lo casale de S.to Constantino et scassorno la casa de una vidua nomine Gratia, et pigliatole due sue figlie l'una zita, et l'altra vidua, et, violentemente conosciutole et stupratole, al che volendo noi provedere come conviene..." (segue l'ordine di catturarli, prendere l'informazione sul fatto e darne avviso) 27 giugno 1600. - 2.° Id. vol. 55, an. 1603-1604, fol. 195. "All'Aud. di Calabria ultra... Con questa v'inviamo l'alligate copie d'informationi contro Paulo Pompeo et Scipione grasso sopra il particolare della causa delle scoppettate tirate a francesco aquaro et sua cometiva, et vi dicimo et ordinamo che nella causa predetta debbiate procedere à quanto sarà de justitia che tal'è nostra voluntà. Dat. neap. die x° 7bris 1604". - Al 1606 parrebbe che Pompeo fosse stato già ucciso.==Relativamente a' Baroni di Reggio, essi erano parecchi e si distinguevano da' Baroni di Tropea e da' Baroni di Annoya, egualmente fuorusciti ed anche più numerosi; intorno a loro abbiamo i seguenti documenti, contemporanei e successivi alla data de' processi: 1.° Reg. Curiae vol. 46, an. 1599-1601, fol. 30. "All'Aud. di Calabria ultra... Dal Capitaneo della città de riggio ci viene scritto che havendo havuto notitia, che alcune persone di quella si erano disfidati et che la città stava in... (sic) andò in persequtione di quelli et carcerò li capi de le due partite che si erano disfidati nomine francesco pesello et domitio barone, per la quale carceratione se quietò il rumore, et forno excarcerati, dopoi li sopraditti francesco et domitio giontamente con innocentio candeloro della medesima città, per causa che il caporale di detta Corte li havea carcerati, in presentia di detto Capitaneo assaltorno detto caporale et con scoppette et spade l'ammaczorno, et fattesi per esso alcune diligentie non ha possuto averli nelle mani stando in paliczi.." (segue il fatto di un altro caporale ammazzato per la stessa ragione, avendo carcerato Paolo Melissari "contumace et uno delli predetti che si disfidorno", e quindi l'ordine di catturare i delinquenti). Ultimo di 10bre 1599. - 2.° Id. vol. 54, an. 1603, fol. 15. "A D. Garzía de Toledo (governatore di Calabria ultra)... Per la vostra delli 7 del presente havemo visto quel' che vi veneva havisato da riggio, che Paulo et Gio. Domenico barone fratelli haveano ammazzato Pietro Gueria per causa di una lite civile che tenevano fra loro, quali si sono andati à salvare dentro una Ecclesia di detta città, et havendoli posto le guardie attorno, il Rev.do in Christo P.e Arcivescovo non li ha voluto permettere se non per quaranta passi attorno detta Ecclesia dentro la quale si stanno detti delinquenti senza nessuno timore, supplicandoci ve si ordinasse quel' che doverete exequire. Al' che respondendo ve dicimo et ordinamo, che si l'homicidio predetto è stato commesso appensatamente, poi che non deve godere dell'immunità dell'Ecclesia debbiati procurare d'haverli nelle mani in ogni meglior modo avvisandoci di quel' che exequireti acciò ne si possi ordinare quel' che convenerà per castigo di detti delinquenti. Dat. neapoli die ultima mens. februar. 1603."==Da ultimo relativamente a Carlo Bravo, costui scorreva la campagna già prima del 1599 con un suo fratello Fabrizio, e poi, rimasto solo, fu preso nel 1603, ma per delitti comuni, secondochè risulta dai seguenti documenti: 1.° Reg. Curiae vol. 45, an. 1596-1601, fol. 47 t.° "Commissione in persona del magnif.° u. j. d. Julio Cesare malatesta quale si conferisce nella terra di filogasi a pigliare informatione... A noi è stato presentato memoriale del tenor sequente videlicet: Ill.mo et excell.mo Sig.re la povera gratia teti d'anni undici della terra de filogasi della prov. di Calabria ultra fa intendere a V. E. come li mesi passati da fabritio et carlo bravi et ferrante pisano di monte santo fu proditoriamente ammazzato Vincenzo teti patre d'essa supplicante ad instantia di Minico di tini della terra di filogasi per antiquo odio che detto Minico portava ad esso Vincenzo suo patre mediante una certa quantità di denari data a' detti tre assassini, quali fatto detto assassinio perché poco distante veddero una certa donna nominata antonia quale haveria possuto vedere commettere detto assassinio l'ammazzorno, et dubitando detto minico di tini mandante che tale sceleragine non si scopresse fè dare subito tutore dal Capitaneo d'essa terra, come potente in quella et essendo persona facultosa, ad essa supplicante Masiello di nofrio con il quale proprio haveva trattato di farsi fare subito la remissione per potersi transigere con la corte baronale..." (segue la Commissione ad istanza del R.° fisco e con la proeminenza della Vicaria). Ult.° di ottobre 1597. - 2.° Id. vol. 55, an. 1603-1604, fol. 80. "Al Marchese de layno... Per la vostra delli 15 del passato havemo inteso come havete incominciato a procedere nella causa contra Carlo bravo conforme l'ordine nostro non obstante la remessione che dimandava il Prencipe de melito et Duca di Nocera, et como che tal remessione l'ha dimandata quessa città di Catanzaro, et per non farsene mentione nel predetto nostro ordine ci supplicate di posser procedervi non obstante detta remessione si dimanda per questa città con lo de piu che in cio andate significando. Alla quale respondendo ve dicimo che cossì si intende lo predetto nostro precalendato ordine ancorche non ci sia particulare expressione..." (segue la raccomandazione che si spedisca con sollecitudine, vedendo che "in questo negotio se ci procede con molta flemma") 19 decembr. 1603. - 3.° Id. ibid. fol. 175. "All'Audientia di Calabria ultra... Havemo visto la relacione che di ordine nostro ci havete fatta delli delitti che si ritrova inquisito Carlo bravo, per lo che considerato la gravità et moltiplicità delli delitti che hà commessi ve rispondemo et ordinamo che ci debbiate procedere all'espedicione della sua causa conforme à giustitia senza perdere un momento di tempo, et prima de publicare la sententia ci debbiate donare particolare aviso del voto che seranno quessi magn.ci Auditori in tal causa et cossì l'essequirete che tale è nostra voluntà. Dat. neap. die 28 mens. julii 1604". - 4.° Id. vol. 64, an. 1605-1608, fol. 21. "All'Aud. di Calabria ultra... Per una nostra de li 18 del passato havemo visto per che voto è quessa Reg.a Audientia di condennare à Carlo bravo carcerato in quesse carceri per l'inquisitione di suoi delitti, mà non haveti voluto publicare la sententia per exequtione del ordine che da noi teneti, et ci supplicati siamo serviti darvi ordine di quel tanto in ciò haveti da exequire, alla quale rispondendo vi dicimo et ordinamo che nella causa di detto Carlo bravo debbiate procedere à quanto vi parirà che convenga de justitia che tale è nostra voluntà. Dat. neap. die ult.a mensis martii 1605".

(404) 1.° Reg.i Curiae vol. 64, an. 1605-1608, fol. 138. "All'Aud. di Calabria ultra... Dal Capitanio della Baronia di precacore et S.ta Agata di quessa provintia di Calabria ultra ci è stato scritto come alli 14 de luglio prossimo passato ritrovandosi in compagnia de Alexandro tranfo Barone di detta Baronia venne passando per avante di esso Barone Aquilio marrapodi suo vassallo armato di scoppetta a focile delle lunghe, et essendo passato con arroganza senza levarsi la barretta, et in contento dela Corte mentre era contumace per cause criminale, detto Barone havendoli detto per che causa passava cossi mal creatamente ordinò fosse carcerato, et detto Aquilio con la detta scoppetta che portava calò il cane drizzò la bocca di essa verso detto Barone dicendo adietro non passati avanti che vi ammazzo fando resistenza non lasciandosi pigliar carcerato, per lo che ni ha preso informatione et l'ha inviata a noi per che si proveda a lo che conviene.." (segue l'ordine che procuri aver nelle mani il detto Aquilio e lo mandi in Vicaria) Dat. Neap. 27 septembr. 1606. - Inoltre a fol. 178 t.° trovasi pure una lettera sullo stesso tema al Cap. di Precacore. - 2.° Id. Ibid. fol. 142. "Al Gov.re di Calabria ultra che faccia relatione di quanto per la vedova portia sotira della terra di precacore è stato scritto intorno all'eccessi et homicidii commessi per Gio. Angelo Marrapodi et Aquilio suo figlio in persona de molte persone di d.ta terra et precise del suo marito à finem providendi". Lett. dell'ult.° di ottobre 1606.

(405) 1.° Reg.i Curiae vol. 64, an. 1605-1608, fol. 60. "A D. luise de moncada gov.e di Calabria ultra... A nostra notitia è pervenuto come francesco strivieri, Gioseppe Serra, Gio. thomase di franza, Gioseppe di Paula et aurelio biase di quessa città di Catanzaro non lassano ogni dì fare assassinii, robare chiese, svergognare monasterii de donne monache, stuprare vergine, uccider hor questo et hor quel altro, tagliar facci ad homini et donne honorate, mantener latri et far altri delitti, et che nel mese di 8bre prox.° pass.° non contenti delle cose predette habbiano svergognato a una casa nobile di quessa città in haver appostatamente struppiato un povero homo delli più honorati di quessa città in havendoli tagliato il naso, cavato un occhio et tagliatoli le labra et datoli una ferita in testa, delitti veramente molto imperiosi..." (segue l'ordine che coll'intervento dell'Aud.re Barbuto s'informi) 18 9bre 1605. - 2.° Ibid. fol. 71. "A D. luise de moncada... Dall'Auditor fabritio auletta, et Marc'Antonio rossino advocato fiscale di questa reg.a Audientia, et anco dal Capitaneo di quessa città di Catanzaro semo stati avisati como essendono stati occisi Gio. francesco, et vitaliano bonelli patre et figlio da Geronimo et Gio. Paulo di Cordua di d.ta città di Catanzaro, che nel pigliare dett'informatione sia stato maltrattato il detto Capitaneo dalli Commissionati et soldati di quessa Regia Audientia.." (segue l'ordine che prenda subito informazione) 15 10bre 1605. - 3.° Ibid. fol. 81 t.° "Risposta à don loise di moncada per conto delli forasciti di Catanzaro... Havemo recevuta la vostra relatione de nostro ordine fattaci intorno li delitti se pretendono essere stati commessi per francesco strivieri, Gioseppe Serra, Gio. thomase di franza, gioseppe di paula et aurelio biasi di quessa città di catanzaro, et come per voi sono stati inviati in certi lochi destinati, et de poi usate tutte le deligentie possibile per scoprir li detti delitti non haveti possuto in sin adesso havere tracza alcuna de essi, solo havete inquisito à Gio. thomaso del stroppio fatto in facci de gio. domenico marcello per la causa contenta in detta relatione, et como non l'haveti possuto havere alle mani, narrandoci come li predetti insieme a gio. paulo di cordova ammazzorno gio. francesco et vitaliano bonelli padre e figlio et anco insultorno al dottor fabio Conte..." (lo loda e ordina che continui) 30 gen.° 1606. - Questo per la sola città di Catanzaro, dove è manifesto che il Franza, il Cordova e lo Striveri con gli altri, aveano intimidato tutti; e senza uscire dallo stesso sud.to vol. Curiae si può vedere cosa accadeva a Stilo, dove (fol. 59) trovandosi il Capitano in Guardavalle, "alla casa del giudice di Stilo absente fu fatta petriata due notte" etc. etc.

(406) Ved. Doc. 228, pag. 120.

(407) Ved. Doc. 263, pag. 175.

(408) Ved. Doc. 132, pag. 75.

(409) Ved. Doc. 133, pag. 75.

(410) Ved. Doc. 135 e 136, pag. 76 e 77.

(411) Let. del 6 aprile 1601; ved. Doc. 119, pag. 71.

(412) Ved. Doc. 266, pag. 183.

(413) Ved. Registri Privilegiorum vol. 124, an. 1602, fol. 114. Il Privilegio per D. Pietro in data "Vallis Oleti 16 xbris 1602" ebbe l'esecutoria in Napoli il 18 marzo 1603.

(414) Ved. il ms. della Biblioteca Nazionale di Napoli (X, c. 20), intitolato "Desgratiato fine di alcune case napolitane", fol. 62. Pur troppo si rinvengono in questo codice registrate molte nostre conoscenze, il Principe di Conca, D. Ottavio Orsini Conte di Pacentro, Fabrizio di Sangro Duca di Vietri, Marc'Antonio d'Aponte, Gio. Battista De Leonardis. Non la finiremmo più a voler dare anche un piccolo cenno delle miserie patite da tutti costoro.

(415) Ved. Registri Privilegiorum vol. 137, an. 1607-1608, fol. 80, ove trovasi il Regio assenso alla convenzione tra D.a Livia e D. Scipione Sanseverino Duca di S. Donato, pel pagamento di D.ti 15mila assegnati in dote con molti patti e clausule dalla madre e balia D.a Lucrezia Carafa Marchesa di Corleto già moglie di D. Ippolito Sanseverino, ed è citato "l'albarano" tra la Marchesa e D. Pietro nella data suddetta. - Ved. inoltre il Carteggio del Residente Veneto anno 1603, Dispaccio del 29 aprile.

(416) Ved. Doc. 138, pag. 177.

(417) Ved. Doc. 139 a 142, pag. 77 e 78; inoltre Doc. 144, pag. 79.

(418) Ved. Doc. 200, pag. 99.

(419) Ved. Doc. 201, pag. 100.

(420) Ved. Doc. 237, pag. 124. Si noti che il 12 di luglio avvenne la partenza dell'armata: il 27 già poteva il Governo Vicereale averlo conosciuto, poichè soleva contemporaneamente partire un legno sottile con una spia, che in quindici giorni toccava le coste del Regno e trasmetteva le notizie a Napoli.

(421) Tutti questi fatti, e così pure i seguenti, sono stati raccolti nell'Archivio Veneto e nel Toscano, da' Carteggi de' Baili da Costantinopoli, del Residente di Venezia e dell'Agente di Toscana da Napoli. I Baili al ritorno del Cicala, sempre che potevano, facevano procedere all'interrogatorio con giuramento di qualche schiavo o di qualche altro individuo loro confidente che avea preso parte alla spedizione, e mandavano il processo verbale a Venezia; tanta era l'importanza che Venezia annetteva all'avere notizie precise di ciò che avveniva sul mare. Il Parrino fa succedere la spedizione ben riuscita di D. Garzia allo sbarco di Amurat, ma è attestato invece il contrario tanto dal Residente di Venezia quanto dall'Agente di Toscana. Vedi pe' Dispacci Veneti i volumi degli anni suddetti, e per quelli di Toscana le filze Medicee 4087 e 4088, dispacci del 22 e del 29 agosto 1600.

(422) Ved. Doc. 143, pag. 78.

(423) Ved. Doc. 145, pag. 79.

(424) Nell'originale "interpetrava". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(425) Ved. Doc. 147, pag. 79.

(426) Ved. Doc. 148 a 152, pag. 80 e 81.

(427) Ved. Doc. 153, pag. 81.

(428) Ved. Doc. 154, pag. 81.

(429) Ved. Registri Sigillorum vol. 39, data suddetta.

(430) Il Campanella medesimo diè modo di farlo rilevare, quando più tardi, in agosto 1600, vistosi abbandonato con la causa indecisa, scrisse a Papa Paolo V: "hora informano monsignor Nuntio come essi vogliono... e diran ch'è finita la causa, che mi condanni senza ascoltarmi". Ved. Centofanti, Arch. storico italiano 1866, pag. 24.

(431) Nell'originale "occcasione". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(432) Riproduciamo qui un brano di documento, che abbiamo raccolto nell'Arch. di Spagna in Simancas e che concerne il fatto di questa carcerazione: è una relazione di D. Pietro de Vera, annessa in copia a un dispaccio di D. Francesco de Castro al Re, in data del 2 marzo 1603. "Quel che resulta de l'informatione presa contra Giovanni Conte di Nassau Todesco, è, che essendo gionto in Napoli esso Conte Giovanni l'ultimo sabato di Carnevale prossimo passato, in compagnia di D. Giovan Ottavio Gonsagha, e di Cristofaro Pflug di Sassonia, Geronimo Tucher di Germania, Uberto alias Roberto Caroni de la città di Bozoli trà Mantua et Cremona et Giovanni Winckes Alemano creato d'esso Conte Giovanni, et andando incognito, si fe diligentia d'haverlo nelle mani, et mentre D. Giovan Ottavio Gonsagha giovedì passato 20 del mese presente di febbraro mandò in Palazzo per haver licentia esso con tre altri d'andar con cavalli di posta à Roma, si mandò a pigliar tanto esso quanto tutti quelli di sua compagnia, che foro esso D. Giovan Ottavio, Cristofaro Pflug, Geronimo Tucher, e Uberto alias Roberto Caroni, et non si trovò detto Conte Giovanni di Nassau, perché lo detto giovedì mattino, per tempo, esso Conte Giovanni insieme con detto Giovanni Winckes suo creato s'erano partiti à cavallo senza la compagnia di detto D. Giovan Ottavio, et altri sopradetti, e V. E. li mandò appresso gente per haverlo, e D. Antonio Sanchez de luna che andò fra gli altri lo trovò vicino Sessa et lo condusse in Napoli col detto suo creato... etc. etc. D. Pedro de Vera i Aragon" (Ved. Arch. sud.to Scritture Estado, legazo 1099).

(433) Questi particolari risultano da' Carteggi dell'Agente Toscano e del Residente Veneto, e in parte dalla relazione del De Vera mandata in Ispagna, dalla quale veramente si hanno i nomi di tutti i prigionieri, che ne' Carteggi non sono punto registrati. Ved. nell'Arch. di Firenze, Scritture Medicee filz. 4090, Lett. del Turaminis del 25 feb. 1603; nell'Arch. di Venezia, Senato-Secreta Napoli, Lett. di Anton M.a Vincenti del 25 feb. 1602 (more veneto) e degli 11 marzo e 15 aprile 1603.

(434) Malgrado le più vive ricerche non abbiamo potuto vedere alcuna delle varie edizioni dell'opera del Custos e Kilian intitolata "Fuggerorum et Fuggerarum... quot extant aere expressae imagines, Augbsb. 1593, 1618, 1630" etc., ma abbiamo trovata ultimamente in Roma, nella Corsiniana, l'altra opera del medesimo Custos intitolata "Atrium heroicum etc. August. Vindelic. 1602", in cui si hanno non meno di 12 Fuggers, tra' quali Giorgio, che nel corso della narrazione incontreremo protettore accanito del Campanella, e Cristoforo figlio di Giovanni, che dovrebb'essere il Cristoforo di cui qui si parla. Ma il suo ritratto, alla data del 1592, lo mostra già adulto, di bella e distinta figura, non giovanotto, qualificato illustre e generoso Barone; evidentemente egli è il Cristoforo della branca di Kirkeim, padre di Ottone Enrico già nato al tempo di cui trattiamo, e non può avere nulla di comune con Cristoforo Pflugh.

(435) Ved. Il Codice delle Lettere etc. pag. 63.

(436) Ved. Doc. 518, pag. 585. Il Bierio citato dal Gagliardo è senza dubbio Gio. Wierio, dotto e benemerito medico Belga, che trattò ampiamente delle cose demoniache. Nella ristampa delle sue "Opera omnia Amstel. 1660 t. 2" si ha il trattato intitolato veramente "Pseudo monarchia Daemonum" con gli altri "De origine et lapsu Daemonum, De Praestigiis daemonum et De Lamiis"; il trattato "De Menomachia (o meglio Monomachia, duello) daemonum" ci apparisce una svista del Gagliardo.

(437) Ved. Doc. cit. pag. 589.

(438) Sarà bene ad ogni modo rammentare le parole testuali che si leggono nella Città del Sole, riferibili alle deposizioni fatte dal Gagliardo. "Studiarono (i solari) aver propizie le quattro costellazioni di ciascuno de' quattro angoli del mondo (ediz. d'Ancona pag. 267). Al mattino... rivolgendosi verso oriente recitano breve orazione (ibid.). Ogni volta che fanno orazione si rivolgono a' quattro angoli del mondo; al mattino guardano prima all'oriente, poi all'occidente, indi al mezzodì (274). Onorano, non adorano il sole, le stelle, siccome cose viventi, statue e tempii di Dio ed altari animati del cielo... Nel sole contemplano l'immagine di Dio e lo nominano eccelso volto dell'Onnipotente, statua viva, fonte d'ogni luce e calore, vita e felicità d'ogni cosa...; in lui i sacerdoti adorano Dio, e raffigurano nel cielo un tempio, nelle stelle altari, ed anche case viventi di angeli buoni nostri intercessori appresso Dio (275). Adorano Dio nella trinità e ciò fa meraviglia, ma dicono che Dio è somma Potenza dalla quale procede la somma Sapienza che è pure Dio, e da ambedue poi l'Amore, che è Potenza e Sapienza...; non hanno però distinte nozioni delle tre nominate persone come i Cristiani, non avendo essi avuto rivelazione" (277). - Rammenteremo inoltre ciò che si legge nelle Poesie, a proposito dell'orazione a Dio nella "Canzone 3a in Salmodia metafisicale":



"Poi ti prego, ti supplico e scongiuro

per l'influenze magne

necessità, fato, armonia, che 'l regno

dell'universo mantengon sicuro

. . . . . . . . . . . . . . . ,

pe 'l tempo, e per le statue tue viventi

stelle, uomini ed armenti"; etc.;



e a proposito dell'orazione al Sole nell'"Elegia al Sole"



"Tempio vivo sei, statua, e venerabile volto

del verace Dio, pompa e suprema face.

Padre di Natura, e de gli astri rege beato

vita, anima e senso d'ogni seconda cosa" etc. etc.,



aggiuntovi in nota che "il Sole è insegna della semblea d'esso autore". Circa la preghiera alle stelle e agli angelici spiriti in esse abitanti, se ne trova un saggio perfino nella "Canzone di pentimento":



"Aria, tu vivo ciel, voi sacre stelle,

e voi spirti vaganti dentro a loro

ch'hor m'ascoltate ed io non veggio voi,

mirate al mio martoro,

di voi sicuri pregate per noi".

(439) Ved. Informazione contro fra Pietro di Calabria Domenicano carcerato in Castel nuovo, depos. suddetta, nella nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2.° fol. 273-1/2.

(440) Ved. la nostra Cop. ms. tom. 2°, fol. 125-1/2.

(441) Aggiungiamo che la data del luglio o agosto 1603, come quella dell'entrata in una fossa venne sempre mantenuta dal Campanella anche in altre lettere, come p. es. in quella opuscolare sulla peste di Colonia e quella a Mons.r Querengo, da noi pubblicate, dove in data 24 giugno e 8 luglio 1607, afferma trovarsi nella fossa già da 4 anni (ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 54 e 60). Ma in altre lettere e p. es. in quella al Papa da noi pubblicata, nell'altra latina al Papa ed a' Cardinali, e nelle altre al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria pubblicate dal Centofanti, tutte sicuramente del 1607, egli dicesi da 8 anni nella fossa, vale a dire fin dal momento in cui venne tradotto a Napoli, ciò che riesce assolutamente inesatto: laonde bisogna ammettere che egli abbia parlato di fossa, ogni qual volta intese dire di essere stato posto in carceri dure.

(442) Ved Doc. 155, pag. 81.

(443) Ved. Doc. 194, pag. 98.

(444) Ved. Doc. 518, pag. 583.

(445) Ved. Berti, Nuovi documenti su Tommaso Campanella, Roma 9bre 1881, pag. 22.

(446) Il Carteggio de' Residenti Pietro Bartoli ed Agostino Dolce, non solo col Serenis.mo Principe ma anche con gl'Ill.mi et Ecc.mi Sig.ri Capi del Consiglio de' Dieci, offre spesso notizie di questo genere e talvolta assai curiose: notiamo tra le altre quelle di certe palle di foco per incendiare l'arsenale di Costantinopoli, od anche di certe macchine per dar morte al Gran Signore, costituite da scatole dorate con sapone muschiato, che nascondevano archibugetti forniti di micce la cui preparazione veniva accuratamente descritta. Il Vicerè, per una scala segreta, andò nel Castello a vedere queste sottili invenzioni di Pietro Lanza, e parimente si occupò sempre con molta cura de' disegni dei Greci, accogliendoli con favore (ved. i Carteggi sud.ti e segnatamente quello co' Capi del Consiglio dei Dieci, Busta n.° 19, fasc. 2.° an. 1608).

(447) Ved. Doc. 156, pag. 82.

(448) Ved. Doc. 157, pag. 82.

(449) Ved. Doc. 158, pag. 83.

(450) Ved. Doc. 267, pag. 186.

(451) Ved. Doc. 241, pag. 127.

(452) Il Toppi (De Origine omnium Tribunalium vol. 2.° p. 425 e seg.) fa figurare D. Giovanni Ruiz nel Sacro Regio Consiglio dall'anno 1604-1605 fino al 1610: ma ne' Registri Sigillorum, vol. 39, an. 1602, si legge in data del 19 giugno l'esecutoria del Privilegio che assegna al Ruiz "la piazza de Consigliero che vaca per morte de Ximenes". La cronologia del Toppi avrebbe potuto far pensare che il Ruiz fosse stato nominato pe' bisogni del processo del Campanella.

(453) Vedi Nicodemo, Addizioni copiose alla Biblioteca Napoletana del Toppi, Nap. 1683, e Cyprianus, Vita Th. Campanellae, Traiecti ad Rhenum 1741, pag. 69. Il memoriale nella raccolta Magliabechiana trovavasi intitolato "Epistola sociorum et parentum Fr. Thom. Campan.la J. Aldobrandino Nuntio Neapolitano" (nel Nicodemo leggesi malamente stampato "S. Aldobrandino" ma nel Cipriano leggesi esattamente). Riscontrando il Codice Magliabechiano menzionato anche altre volte (Campanellae et aliorum Op. varia Class. VIII, 6) alla fine del fol. 509, sotto l'ultimo verso si trova la parola "Epistola" per richiamo al principio del fol. seguente; ma, come si rileva appunto dalla numerazione e dalle tracce de' guasti avvenuti, furono quivi strappate ed involate molte carte, nelle quali, secondo la nota del Magliabechi pubblicata dal Nicodemo e dal Cipriano, erano compresi anche i "Concetti metodici o ammaestramenti politici di Fr. Tom. Campanella". Noi abbiamo potuto verificare che il furto avvenne in tempo molto rimoto; perché sapendo esservi in quella Biblioteca il Catalogo a classi compilato dal medico Giovanni Targioni-Tozzetti fin dalla metà del secolo passato, ci siamo data la pena di consultarlo, e non vi abbiamo rinvenuta alcuna menzione né dell'Epistola né de' Concetti metodici. Avendo poi conosciuto che il D'Ancona avea trovato questi Concetti metodici in un Miscellaneo dell'Archivio Mediceo (Filza VIII, 6) siamo corsi a farne richiesta, nella speranza di trovare con essi anche l'"Epistola": ma la speranza è riuscita vana, perocchè la detta Filza è stata scomposta, e i Concetti metodici si trovano staccati, senza alcuna traccia dell'"Epistola". Abbiamo potuto intanto verificare che la numerazione delle carte nelle quali si contengono questi Concetti metodici va dal fol. 519 al 537, e tornando al Codice Magliabechiano abbiamo trovato che dopo il fol. 509 si ha un fol. 517 che è tutto bianco, quindi il fol. 538 che reca i "Discorsi a' Principi d'Italia" etc. Adunque l'"Epistola", cominciando dal fol. 510, andava con ogni probabilità fino al 516 ed occupava 7 folii, circostanza da doverne far deplorare la perdita tanto maggiormente.

(454) Ved. la nostra Copia ms. de' proc. eccl. tom. 2.°, fol. 255 a 265. In questa Informazione, presa per conto del Nunzio, il Vicario generale Abate Achille Cittadino attesta che fra Pietro aveva un grande partito favorevole in Nicastro, e un testimone, incidentalmente, afferma che egli è fratello di fra Dionisio, il quale, fuggito in Turchia e rinnegato, dicevasi già morto in quel tempo. Il Capaccio (nel Forastiero, Nap. 1634 pag. 503) dice che fra Dionisio pagò la pena del suo peccato, perché "un giorno quistionando con un Giannizzero fu ucciso". Ma bisogna accogliere con riserva altrettali dicerie, non raramente sorte pel desiderio di mostrare la punizione del peccato. - Degli altri frati non abbiamo notizia. Aggiungiamo solamente, circa fra Pietro di Stilo, qualche fatto singolare che risulta da un'Informazione presa contro di lui dal S.to Officio in data dell'11 luglio 1605 (ved. la cop. sud.ta tom. 2.° fol. 269 a 280). Un Lelio Macro di Pietrafitta, studente di legge condannato a morte, nelle sue ultime deposizioni prescrittele dal confessore affermò di essere stato in novembre 1604 per 22 giorni nel torrione del Castel nuovo, avervi conosciuto un fra Pietro Domenicano, aver saputo da lui che il Campanella era stato tradotto a S. Elmo e che col tempo sarebbe riuscito legislatore, aggiungendo che bisognava adorare il sole, la luna, le stelle, donde si aveva bene e male, suggerendogli anche le formole delle orazioni, e poi le solite storie sulla Trinità, sulla persona di Cristo, su Maria, su' luoghi di premio e di pena, su' sacramenti etc. Il Macro nominò pure altri individui che avrebbero dovuto conoscere fra Pietro e le sue opinioni, tra essi Ciommo dell'Erario e i due Baldini di Stilo (ad uno de' quali fra Pietro disse aver commesso di far ricopiare le difese del Campanella): nessuno de' nominati attestò cosa alcuna contro fra Pietro, e veramente, per quanto sappiamo almeno della sua avvedutezza, la cosa riesce incredibile; tuttavia come potrebbero spiegarsi le tante particolarità esposte da Lelio Macro, che hanno tanti riscontri? Si sarebbero forse alquanto diffuse tra' carcerati di quel tempo le notizie del processo dell'eresia e le orazioni a' pianeti?

(455) Queste ultime particolarità si leggono nella lettera a Mons.r Querengo da noi pubblicata (ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 60); di tutte le altre riboccano le poesie e i libri, non che le altre lettere del tempo, segnatamente quelle pubblicate dal Centofanti.

(456) Così si espresse nella lettera al Re pubblicata dal Centofanti (pag. 91). Il ritorno di D. Garzia al comando in S. Elmo accadde nel luglio 1603; ved. Reg. Curiae vol. 55, an. 1603-1604 fol. 16, dove si legge la Commissione data al successore Marchese di Laino (D. Carlo de Cardines) Governatore di Calabria ultra "all'estirpatione de forasciti et annettare (sic) la detta provintia de quelli". La Commissione di sopraintendere alla fabbrica in Porto Longone fu data nell'aprile 1605; ved. Carteggio Veneto Napoli 1605, Resid. Pietro Bartoli, lett. del 26 aprile e seg.ti che rivelano anche i modi affatto selvaggi adoperati per procurare i lavoratori.

(457) Ved. vol. 1° pag. 91.

(458) Ved. le Poesie, ed. D'Ancona, pag. 105.

(459) Ibid. pag. 106-108.

(460) Ibid. pag. 138.

(461) Ibid. pag. 110 e 124.

(462) Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 42.

(463) Abbiamo dato questo brano nel vol. 1.° pag. 41 in nota.

(464) Ved. Lettere inedite di T. Campanella e Catalogo de' suoi scritti, Roma 1878 pag. 73.

(465) Nell'originale "ne". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(466) Possiamo dire che il Codice della Bibl. nazionale di Napoli sia stato scritto da un amanuense non napoletano ed anche ignorantissimo: difatti nel lib. 1.° cap. 3, vi si legge, "l'esperienza di quei che girano il mondo doppo la scoperta del Palombo", in vece di dire "del Colombo", e nel lib. 2.° cap. 26 si leggono le parole "coquiglie, ostraghe, incini", con dicitura non napoletana; ma tutto il contesto e mille altre parole sentono anche troppo del napoletano e mostrano l'originaria ricomposizione dell'opera. Il Codice della Casanatense in taluni punti ha miglior lezione, ma in generale è più scorretto: basti citare p. es. che là dove il Cod. nap. dice "el cavallo Montedoro di Mario dello Tuffo" etc., il Cod. rom. dice, "e il cavallo del Monte d'oro di Mario del Tufonico" etc. Potremmo riferire varie differenze non prive d'interesse; ma almeno due vogliamo notarne. La 1.a è, che nel Cod. rom. parecchie note marginali rimandano ad altre opere dell'autore; la 2.a è, che mentre il Cod. nap. nella fine dell'opera dice, "La quale (universale sapienza) sia pregata che me et te N. mio alzi alla sua dignità et cognoscenza, Amen", il Cod. rom. dice, "La qual sia pregata che me et Berillo mio alzi alla sua dignità et conoscenza et mandi presto il mio liberatore". Si sa dalle Poesie (Canzone di pentimento, senza alcun dubbio del 1613) che Berillo era D. Brigo di Pavia amico dell'autore, con ogni probabilità Cappellano del Castello dell'uovo, e si sa che nel 1613 l'opera era stata pur allora tradotta in latino: può dunque al Cod. rom. assegnarsi la data del 1610-1612, e su questa base possono valutarsi le altre piccole differenze tra' due Codici. Veniamo ora alla giustificazione delle cose notate sopra. I luoghi, ne' quali non si trovano le citazioni dell'Antimachiavellismo e de' Machiavellisti, come si trovano nella versione latina, sarebbero i cap. 24 e 25 del lib. 2.°: anche nel cap. 18 dello stesso libro si trova non citata l'autorità del Papa e qualche altra variante; nel resto non ci sono differenze contemplabili, e le citazioni della Metafisica e dell'Astronomia, si trovano egualmente nel lib. 1.° cap. 3, 6, 7, 13, e nel lib. 3.° cap. 2. - Pel ricordo di fra Pietro ved. il lib. 2.° cap. 20 e 21, e il lib. 3.° cap. 10; quivi c'è nome e cognome, "Pietro Prestera". Pel ricordo di D. Lelio Orsini, ved. il lib. 3.° cap. 9 e il lib. 4.° cap. 17; per quello riferibile a' Ponzii, il lib. 2.° cap. 21. - Pel ricordo dello stato di prigionia e delle altre circostanze personali dell'autore ved. lib. 1.° cap. 8, lib. 4.° cap. 17, lib. 4.° cap. 1. - Per l'argomento degli angeli e dei diavoli ved. lib. 1.° cap. 6 in fine, lib. 2.° cap. 25, lib. 3.° cap. 4 e 5, lib. 4.° cap. 1 e 2; segnatamente nel lib. 2.° cap. 25 si hanno le notizie delle apparizioni del diavolo e delle sue rivelazioni con tutte le conseguenze in persona del Campanella.

(467) Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 47.

(468) Le parole dello Scioppio son queste: "Consultatio de reditibus regni... 300 augendis mire mihi placuit"; ved. Berti, Nuovi Documenti etc. Rom. 1881 pag. 30. I Discorsi che pubblichiamo si leggono nel nostro Doc. 519, pag. 591.

(469) Anche allo Scioppio, prima che gli mandasse l'Ateismo, il Campanella avea scritto in termini aperti e chiari di aver visto non solo diavoli ma anche angeli (ved. il brano di lettera del 6 maggio 1607, pubblicato dal Centofanti nell'Archivio storico italiano 1866, pag. 86). Nell'Ateismo si limita a dire che si era accertato dell'esservi angeli e diavoli in sèguito de' mentovati esperimenti (ved. cap. 13.° in fine).

(470) Abbiamo detto già in altri luoghi che ve n'è una copia nella Bibl. nazionale di Napoli, un'altra nella Casanatense, ed un'altra anche nella Bibl. nacional di Madrid (L, 101): quest'ultima è mancante delle prime 14 carte ed ha per titolo, scritto in margine da altra mano, "Questiones filosoficas y astrologicas". L'"Appendix ad amicum" già esposta altrove (pag. 111) riusciva opportunissima ne' tempi a' quali siamo pervenuti: merita bene di essere considerata egualmente l'occasione in cui fu riprodotta.

(471) Le copie manoscritte di quest'opera, tuttora esistenti nelle diverse Biblioteche, offrono una variante nella distribuzione della materia e quindi nel numero de' Discorsi, oltre non poche varianti nella materia medesima. La Bibl. Brancacciana di Napoli ne ha due copie, una in italiano, l'altra tradotta in spagnuolo; la Nazionale ne ha una in spagnuolo; quella de' PP. Gerolamini una in italiano. Dippiù, sempre in italiano, ce n'è una copia nella Magliabechiana, ma scorrettissima; un'altra in Lucca, un'altra in Torino. Ancora un'altra se ne conserva in Parigi (Bibl. naz. num. nuov. Ital. 986). Si sa che nell'originale italiano i Discorsi furono già pubblicati dal Garzilli (Nap. 1848), poi anche dal D'Ancona (Torino 1854).

(472) Avvertiamo intanto che tra le nostre Illustrazioni i lettori potranno trovare raccolto in un Catalogo quanto finora abbiamo sparsamente detto circa le opere del Campanella; ved. Illustraz. VII, pag. 663.

(473) Ved. Arch. storico italiano an. 1866; Let. a Paolo V, pag. 22 e 24; e Let. al Card.l Farnese pag. 66.

(474) Si comprende pertanto che delle molte promesse e cose mirabili, delle quali si trova l'elenco ne' documenti suddetti, una parte solamente sia stata messa innanzi nel tempo di cui discorriamo. P. es. non vi potè figurare ancora il fare un volume contro i Machiavellisti, che il Campanella meditò e cominciò a scrivere più tardi, onde si trova poi menzionato nell'elenco di agosto 1606 insieme con diverse altre promesse in vantaggio della Chiesa che vennero fatte consecutivamente.

(475) Il P.e Giovanni Lopez noto per le sue opere (Epitome SS.m Patrum etc. vol. 3, Rom. 1596), già Vescovo di Cotrone sin dal 1595, fu trasferto al Vescovato di Monopoli il 25 9bre 1598; ma non prima del 1608 abbandonò la sua Chiesa e se ne venne in Napoli; si sa che morì poi a Valladolid dell'età di 108 anni (ved. Fontana, Sacrum Theatrum Dominicanorum, Rom. 1666, pag. 181 e 239).

(476) Ci basterà qui dire che il Gentile si mostrò avverso al Campanella anche dopo il tempo del quale trattiamo. Fu lui il Nunzio che nel 1611 ordinò la perquisizione e il sequestro delle opere del Campanella dentro il Castello dell'uovo, come si legge nel Syntagma in termini curiosamente ridotti. Ebbe il carico di Nunzio con exequatur del 14 aprile 1610, succedendo a fra Valeriano Muti Vescovo di Castelli, e lasciando il carico di Ministro dell'Inquisizione a fra Stefano de Vicariis Vescovo di Nocera (ved. nell'Arch. di Stato i Registri Comune vol. 31, fol. 75 t.°, e Parrino, Teatro etc. Vicerè D. Pietro Fernandez de Castro).

(477) Per comodo di qualche lettore che non lo tenga presente, ricordiamo che Lucca avea proibito il commercio epistolare tra' cittadini e que' parenti di essi i quali abbracciata la Riforma aveano emigrato, e Roma approvò il fatto ma biasimò che fosse stato compiuto dalle autorità laiche, dovendo compierlo lei. Genova poi sciolse una congregazione gesuitica, alla quale i Gesuiti aveano fatto giurare di non dar voti per magistrati se non agl'individui appartenenti alla congregazione, oltrechè punì taluni amministratori di confraternite che si avevano appropriato il danaro di esse; e Roma, per la solita ragione, volle che la congregazione fosse ripristinata e gli amministratori ladri fossero rilasciati.

(478) Ved. nel Carteggio Veneto suddetto specialmente le lettere del 20 e 27 giugno, 18 e 25 luglio ed 8 agosto 1606. Non sarà poi inutile notare che pochi mesi prima del tempo suddetto, parlando delle gabelle divenute insopportabili, e in ispecie delle nuove gabelle sulla seta riuscite gravi sopratutto in Calabria, il Residente Bartoli scriveva de' Calabresi: "dicono palesemente che si darebbero, se havessero chi li volesse ricevere, non solamente a' turchi, come tentarono di fare cinque anni sono, ma anche à peggior generatione più tosto, che vivere sotto à questo governo". Nemmeno sarà inutile notare in che maniera rispondevano gli ufficiali del Governo agli assegnatarii, i quali si dolevano dell'essere stato trattenuto il pagamento degl'interessi loro dovuti: scriveva il Residente Dolce essersi risposto, "che era noto a cadauno che l'anima dell'huomo era di Dio, ma le vite, le facoltà et il danaro dei sudditi sono del Prencipe, et come padrone li era nelle occasioni lecito valersene à gusto e piacer suo".

(479) Così nella sua lettera di poco posteriore, in data del 30 agosto 1606, al Card.l Farnese; ved. Centofanti, nell'Archivio storico italiano, luglio 1866, pag. 66.

(480) Le lettere e i libri del Campanella in molti luoghi fanno intendere che egli simulò la sua pazzia. Difatti, quanto alle lettere, parecchie tra quelle pubblicate dal Centofanti lo rivelano, onde riesce strano che il Centofanti medesimo abbia ammessa nel filosofo "una lunga aberrazione mentale". Nella lettera a Paolo V, fin da principio, col ricordo del fatto "naturale anche a' bruti deboli servirsi dell'industria contra li possenti", coll'esempio de' savii, e coll'autorità di S. Geronimo, confessando "le strattagemme usate non per fuggir la giustitia ma la violenza", il Campanella fece allusione evidente anche alla pazzia simulata. Nella lettera al Card.l Farnese ricordò pure fin da principio il motto "placuit Deo per stultitiam salvos facere credentes", e in quella al S. Giorgio non solo ripetè che era stato conservato da Dio "con la stoltitia dov'era odiosa la virtù", ma anche rammentò che "la fintione s'usa contro la violenza, come insegna S. Geronimo con l'esempio di David e di Solone". Nella lettera latina al Papa ed a' Cardinali, ed egualmente nella lettera al Re di Spagna, affermò che per avergli negato le difese e pe' tanti tormenti "lo fecero pazzo"; ma perfino al Re non si peritò di scrivere, "dicono c'ho finto d'esser pazzo, io rispondo che David e Solone si finsero pazzi per lo stesso modo, e son lodati da S. Geronimo". - Quanto a' libri, il tratto più singolare è quello che leggesi nella Città del Sole e che oggi sappiamo doversi riferire alla pazzia, ma che pur quando non si sapeva che dovesse riferirsi alla pazzia, avrebbe meritata tutta l'attenzione degli scrittori intenti a decifrare le faccende del Campanella; vogliamo dire quel tratto già da noi riportato parlando del libro (ved. la nota alla pag. 304), là dove si cita un gran filosofo, che per 40 ore venne crudelmente tormentato da' suoi nemici, senza mai potergli strappare di bocca una parola su quanto essi domandavano, perché nel fondo dell'animo avea determinato di tacere. D'altra parte son conosciuti da un pezzo i versi e la nota ad un suo Sonetto intitolato "Di sè stesso" ove si riproducono i concetti palesati al Card.l S. Giorgio, leggendosi: "quando bruciò il letto e divenne pazzo o vero o finto: Stultitias simulare in loco prudentia est disse il comico, et de jure gentium i pazzi son salvi"; mentre nel Sonetto si canta:



"Bruto e Solon furor finto coperse

e Davide temendo il re Geteo.

Però là dove Jona si sommerse

trovandosi l'Astratto, quel che feo

al santo Senno in sacrificio offerse".



S'intende bene che l'Astratto qui è il Campanella, il quale si trovava in faucibus Orci, come sovente si espresse; e che avrebbe potuto dire di più nelle sue condizioni? Pur troppo, segnatamente nella Narrazione, disse anche essere stato pazzo "non finto": questo pertanto mostra solo che le sue circostanze l'obbligarono molte volte a nascondere il vero, e che però le sue assertive debbono essere vagliate con molta circospezione.

(481) Ved. gli ultimi versi, con la nota annessa, della Canzone III in Salmodia metafisicale.

(482) Così nella Canzone "Della Bellezza", Madrigale 9°, egli dichiarò che



"Bello è il mentir, se a far gran ben si prova".



E nella nota quivi annessa citò la menzogna di Ulisse a Polifemo, e di Sifra e di Puha a Salomone. In un'altra nota annessa al Madrigale 4.° della "Canzon II al Primo Senno", parlando dello Spirito impuro, disse che esso è per natura mendace, ma aggiunse che "è segno di natura corrotta e viziosa, quando mente non per industria, bisogno e sagacità". L'essere poi stato costretto a fingere, e l'aver finto, si rileva dal Sonetto intitolato "Senno senza forza de' savii esser soggetto alla forza de' pazzi", dove il filosofo ci apparisce ritratto con la maggior fedeltà, essendo quivi citati i suoi presagi, le sue "Regie imprese" e le conseguenze di esse.

(483) Nell'originale "cosi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(484) "Nec potest Macchiavellista dissimulare in hoc aliisque saeculis praeteritis, futurisque, quod argumenta potiora dissimulaverim: nam plura quam ipsi queant imaginari et fortiora apposui, dissolvique per coelestem et humanam philosophiam non semel neque bis, usque ad radices". Così nella lettera proemiale all'Atheismus pubblicata dallo Struvio.

(485) Abbiamo detto che il Campanella fu diversamente ed assai spesso vituperosamente giudicato nella persona e nelle opere sue. Segnatamente circa le opere politiche e religiose, che appunto riguardano più da vicino l'argomento nostro, fu ammessa in lui un'astuzia con frode, un Machiavellismo combattendo il Machiavelli, un Ateismo combattendo gli Atei, la quale ultima proposizione in verità è affatto insulsa. Possono leggersi nel Cyprianus e nell'Echard le testimonianze di questo genere emesse dal Boecler, dal Conringio, dal Voël etc. etc. e non a torto l'Echard fece riflettere che in altrettali giudizii ostili dominava il dispetto de' Protestanti di Germania, i quali furono veramente, per esagerazione di zelo, trattati con molta durezza dal Campanella. Per conto nostro dobbiamo dire che nel paese, dove potè essere meglio conosciuto intimamente, oltre la caratteristica di astuto e furbo, stabilita a' tempi suoi e mantenutasi per tradizione, non mancarono le testimonianze dell'aver lui scritto ben diversamente da ciò che sentiva, e questo per verità importa di assodare. Così il Nicodemo, da potersi considerare un'eco di affermazioni d'individui che aveano trattato col Campanella, nelle Addizioni alla Biblioteca del Toppi disse, "Per quanto ebbe ingegno e dottrina, tanto fu ingannatore, e spesso, spesso, per compiacere altrui e per proprii fini, cose scriveva lontanissime da quello che nell'interno sentiva": respingendo un modo di esprimersi tanto sciocco, che non tiene il menomo conto della posizione orribile del Campanella, rimane accertato il fatto della dissonanza tra i suoi pensieri e i suoi scritti. Potremmo poi riferire testimonianze e ricordi pieni di stima e di affetto, da parte di qualche suo discepolo distintissimo, che ebbe campo di conoscerlo intimamente e di valutarne al tempo medesimo le stringenti necessità: né vi è chi ignori le testimonianze di stranieri illustri che lo conobbero, come Tobia Adami il quale ebbe a conversare con lui per più mesi al Castello dell'uovo nel 1613, e Gabriele Nandeo il quale ebbe a conversarvi del pari lungamente a Roma nel 1631, mostrandosi entrambi convinti non solo dell'ingegno e della dottrina del filosofo, ma anche del suo candore ed innocenza, mentre per lo meno il Nandeo era certamente consapevole delle sue imprese di Calabria. Ora a' tempi nostri il Sainte-Beuve (Portraits litteraires, Paris 1862, vol. 2.° p. 522) ha pubblicata un'altra lettera del Nandeo, rinvenuta nella corrispondenza ms. di Mons.r Peirescio, nella quale, in data del 30 giugno 1636, invelenito contro il Campanella, che assicuravasi avere sparlato di lui e che protestava di "non aver detto nulla a suo svantaggio e voler morire suo servitore ed amico", il Nandeo vomita largamente grossolani giudizii sul conto di lui. E dice che vuole "una sodisfazione per lettera di propria mano, concepita in guisa da mostrare almeno di essere dispiaciuto di avere offeso a torto e con leggerezza", ma aggiunge che "qualunque sodisfazione gli avesse dato, non lo stimerebbe mai altrimenti che un uomo stordito più di una mosca e negli affari del mondo meno sensato di un ragazzo", e "se ha evitato i giusti risentimenti del M.° del Palazzo di Roma fuggendosene a Parigi sotto pretesto di essere perseguitato dagli spagnuoli che non pensarono punto a lui, non eviterà frattanto i suoi" (giunge il Nandeo a tradire la verità fino a questo punto). E dice che il Campanella "ciarla potentemente, mentisce impudentemente, spaccia bagatelle al popolaccio, e con tutto ciò è un matto arrabbiato, un impostore, un mentitore, un superbo, un impaziente, un ingrato, un filosofo mascherato. . . ", terminando col motto "ipse est catharma, carcinoma, fex, excrementum di tutti gli uomini di lettere, a' quali fa vergogna e disonore"! Il Sainte-Beuve, aggiungendovi anche una nota del Guy-Patin, che dopo di aver visitato il Campanella in Parigi scrisse di lui nel suo libro di ricordi il beau-mot "multa quidem scit, sed non multum", dice per conto suo bonariamente: "in un tempo in cui si è in via di esagerare sul Campanella, ho stimato bene far conoscere questa opinione segreta del Naudè e della cerchia degli amici del Naudè; giacchè sovente è invocata la loro testimonianza esteriore..., era giusto che se ne avesse anche la testimonianza intima e confidenziale". Per conto nostro, a fronte di testimonianze provenienti da uomini di coscienza sciaguratamente doppia, siamo disposti ad accogliere le testimonianze segrete anzichè le pubbliche, ma, naturalmente, riserbandoci il dritto di apprezzarne il valore: ed essendoci noto come negl'italiani si trovi ancora tanta dabbenaggine, che mentre al di là delle Alpi si professa lo chez-nous ad ogni costo, essi si affaticano a professare il favorite-signori senza eccezioni, stimiamo bene spendervi intorno alcune poche parole. Lasceremo da banda le testimonianze del Guy-Patin: vi sono le opere del Campanella, e chi è avvezzo a leggere deve da esse trarre i suoi convincimenti, non dalle impressioni di un uomo che studiava spirito e maldicenza per farne traffico, ricavandone un pranzo e un luigi per ogni seduta, ed era tanto competente in filosofia da maledire Descartes. Quanto alla lettera scritta nel 1636 dal Naudeo, essa per noi vale solo a mostrare due cose: 1.° che il Campanella non aveva l'abitudine del mutuo incensamento tanto diffuso tra' dotti a quell'età, onde il Naudeo, come il Peirescio, il Gassendo etc., non potevano tollerarne qualche giudizio sul conto loro, che non fosse un elogio continuo in tutto e per tutto; 2.° che il Naudeo era capace di bizze momentanee senza alcuna misura, da doversi dire francamente bestiali. Quando si avesse a ritenere la detta lettera del Naudeo non come una bizza momentanea, ma come l'espressione del suo profondo convincimento sul Campanella, allora, avendo lui scritto le note lettere latine posteriori al 1636 e la lettera dedicatoria del Syntagma, avendo inoltre pubblicato il Panegirico ad Urbano VIII con la relativa avvertenza, nel quale del resto diede veramente prova solenne di menzogna e d'impostura, andrebbe a lui rivolto quel suo motto "ipse est catharma, carcinoma", con ciò che segue.

(486) Ved. Doc. 520, pag. 596.

(487) Alludiamo a' "Nuovi Documenti su T. Campanella tratti dal Carteggio di Giovanni Fabri, Roma 9bre 1881". Notiamo che i documenti di tale Carteggio pubblicati nella loro integrità sono solamente cinque, rappresentati da due lettere dell'Arciduca Ferdinando e tre lettere dello Scioppio, mentre le notizie che li accompagnano ne mostrano un numero assai maggiore. Come abbiamo detto nella Prefazione di questo libro, ancora non si concede di poter vedere il Carteggio.

(488) Ved. Centofanti nell'Arch. storico italiano, luglio 1866 pag. 19: "De cleri reformatione iterum dico tibi me quasi nihil sperare...; ipsi orabunt nos, si Principes duos, quos quasi manibus teneo convertemus, et sapientes Germaniae per novitatem doctrinae admirabilis alliciemus": d'onde si vede che il Campanella avea giù rinunziato a sostenere la riforma del Clero consigliata come indispensabile nella lettera del 1606 al Papa, e il suo pensiero era tutto rivolto alle imprese di Germania da doversi compiere insieme con lo Scioppio, al quale aveva pure scritto un'altra volta. Aggiungiamo che essendo ora accertato da uno de' documenti rinvenuti dal Berti essere lo Scioppio venuto in Napoli nell'aprile 1607, e cominciando la lettera del Campanella con le parole "Mirifice me angit quod adspectus denegatur tuus", saremmo tentati di assegnarle appunto la data suddetta, quando essi stavano vicini e non si permetteva che si vedessero. Aggiungiamo ancora che non può dubitarsi essere stato l'anno 1607 quello in cui lo Scioppio ebbe la missione di Germania, poichè una lettera autografa di lui a Cassiano del Pozzo, da noi pubblicata, reca: "L'anno 1607 havendo gli Catolici di Germania supplicato il Papa Paolo V che soprasedesse di mandar un Nunzio alla Dieta di Ratispona per evitar la gelosia de' Protestanti, si risolse il Papa di mandarvi la mia persona come Consegliero di casa d'Austria" etc. (ved. Il Codice delle lettere del Campanella, pag. 80 in nota).

(489) Scioppii, De Antichristo, Epistola ad Ill.um quemdam Germaniae Principem Protestantem scripta, accesserunt ejusdem De Petri primatu, De adoratione summi Pontificis, de splendore et divitiis ecclesiasticorum, de Papae denique potestate in saecularibus etc. Ingolstadii 1605.

(490) Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 35.

(491) Jul. Caesaris Capacci, Illustrium mulierum et illustrium virorum elogia, Neap. 1608-1609, t. 2, pag. 275-77. Il Capaccio dice che il Fabre gli "mostrò" la disputa mandata alla stampa contro lo Scaligero.

(492) Questo errore non sarebbe il solo: probabilmente per colpa dell'amanuense la lettera si mostra erronea in più punti. Fin dall'intestazione vi si leggo "Gaspari Scioppio... qui se litteratorem exhibet" e dovea dire "liberatorem"; offre poi "politicae XV aphorismos" e dovea dire "CL"; più oltre, "rogo te sis mihi ac tibi dedecori et onori", e dovea dire "ne sis" etc. etc.

(493) La data della morte del Marchese di Lavello Gio. Geronimo trovasi ne' Reg.i delle Significatorie de' Relevii vol. 39, fol. 108. - Quanto al ricupero della Metafisica ved. Doc. 522, pag. 603. L'intervento del Reggente della Vicaria fa ritenere che il Campanella abbia dovuto reclamare pel ricupero dell'opera sua.

(494) Entrambe le lettere sono state da noi pubblicate.

(495) È curioso il vedere che al Re, oltre le promesse solite di edificare una città inespugnabile etc., far che i vascelli navighino senza remi e senza vento, far che le carra camminino col vento con buoni pesi, far che i soldati a cavallo adoperino entrambe le mani senza obbligo di tener la briglia (cose più o meno già dette pure nella Città del Sole), aggiunse straordinariamente la promessa de' "Rimedii di rinnovar la vita ogni 7 anni". Nessuno meglio del Campanella sapeva adattarsi alle persone con le quali avea da fare.

(496) Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 45.

(497) Così nell'Echard, Vita Campanellae, ediz. agg.ta al Cyprianus, Traiecti ad Rhenum, 1741, pag. 175.

(498) Ved. i Nuovi documenti pubblicati dal Berti, Doc. 1.° pag. 29. Ma ci permettiamo di far avvertire che la data di esso, 17 marzo 1607, non può stare; la lettera evidentemente fu scritta dalla Germania e basta riflettere che accenna ad una lettera commendatizia già scritta dall'Arciduca Ferdinando, la qual cosa conosciamo essere avvenuta in gennaio 1608; vedremo poi, nel corso della narrazione, come essa si colleghi a qualche altra lettera pubblicata da noi.

(499) Ved. Griselini, Memorie aneddote spettanti alla vita di fra Paolo Servita, Losanna 1760, pag. 142, e Oporini Grabinii, Amphotides Scioppianae, Paris. 1611, pag. 162.

(500) Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 50.

(501) Riportiamo qui il brano suddetto perché i lettori possano valutarlo: "Primum ab Archiduce Maximiliano, cum totos XI dies cum maxima mea molestia neque minimis impensis Oeniponti desedissem, literas ad Proregem impetravi, et quidem adnitente D. Georgio nostro. Deinde ut ipse Georgius hominem ei rei allegaret perfeci: ita tamen ut stipulanti promitterem, curaturum me ut secum prius toto anno esses quam quaquam discederes; tum etiam nullius me alterius principis auxilia imploraturum, quamdin spes aliqua sit suam tibi operam profuturam... Et tamen, bona cum ipsius pace, ut te Serenissimus Patronus meus Ferdinandus Archidux ex praescripto meo Proregi commendaret perfeci". Così nell'ultima delle tre lettere pubblicate dal Berti, che a noi pare debba mettersi in primo luogo.

(502) Ved. Il Codice delle lettere, pag. 46 e 68.

(503) Ved. Il Codice delle lettere, pag. 42. Dobbiamo fare avvertire che in questa lettera il Campanella dice dippiù esservi disgusto fra Abacuc e il Tutore: oggi, sapendosi dall'Epistolario romano che fin dall'ottobre 1607 era stato dal Fugger mandato in Italia Daniele Stefano di Augusta, per far evadere il Campanella, potrebbe lo Stefano esser ritenuto per Abacuc, disgustatosi col Tutore ossia fra Serafino.

(504) Abbiamo cercato di vedere con la maggiore attenzione se nell'Archivio di Stato in Napoli fosse rimasta qualche traccia di questo Carteggio dell'Arciduca Ferdinando ed anche dell'Arciduca Massimiliano intorno al Campanella. Ci pare che le tre seguenti Lettere Regie vi si riferiscano: ma il mistero col quale sono scritte vieta di ritenerlo in modo assoluto. E però le mettiamo qui per lasciarne giudici i lettori, pregandoli di ricordarsi che primo a scrivere fu Massimiliano, che pochi giorni dopo scrisse Ferdinando, nel gen.° 1608 (lettere giunte con ritardo), e che Ferdinando scrisse ancora in sèguito, il 3 8bre 1608 e il 10 maggio 1609. - 1.° "El rey. III.° Conte de Venavente Primo mi Visso Rey, lugar teniente y Capitan general del Reyno de Napoles. He visto vuestras cartas de los 23 de mayo y 30 de iunio con los papeles que acusan tocante a mejorar el presidio y poblaçion de puerto Ercules, y sobre el socorro que pide el Archiduque Massimiliano Ernesto, y agradezco os mucho el cuydado que teneys de lo primero, en lo qual quedo mirando para proveer lo que convenga, y en lo que toca a lo que os escrivio el dicho Archiduque no se offrece que dezir, sino que fue açertado lo que le respondistes y lo sera que siempre vays con la misma consideracion no resolviendo nada sin avisarmelo, porque ay mucho que mirar en la forma de hazer aquellas ayudas. De Valladolid a 10 de setiembre 1608. Yo el Rey". - 2.° "III.° Conde etc. Las cosas de la Religion Catolica en Alemana se van poniendo en tan mal estado que obliga a atender a su reparo con summo cuydado, y haviendo entendido el en que se hallan los Ser.mos Archiduques ferdinando y leopoldo mis hermanos por lo que toca a sus estados, He acordado de engargaros y mandaros, como lo hago, les asestays y ayudeys en lo que pudieredes de esse Reyno, y demas desto procureys que por todas vias se entienda que yo de acudir a la defensa de la causa Catolica y al empaxo de la cassa (sic) de Austria en qualquier evento, como debo, para que con esto se reprima el atrevimiento de los hereges, y avisareysme de lo que hizieredes, y se os ofreçiere açerca desta materia. De Segovia a 13 de agosto 1609. Yo el Rey". - 3.° ".... queda entendido lo que el Archiduque ferdinando mi Hermano os ha embiado a pedir con el Conde fu.° efforça de Porçia, y que os le aveys respondido y ya se os ha avisado lo que es mi Voluntad, se haya por agora ensto, a quen no se offreze que anadir, sino que aquellas cosas me dan el cuydado que es razon y se va mirando en lo que se deve hazer.... De Segovia a 22 de Agosto 1609. Yo el Rey". (Da' Reg.i Litterarum S. M.tiz vol. 12, fol. 878, 1053, 1703).

(505) Ved. Gabr. Naudaei Epistolae, Genevae 1667. Ep. 82, pag. 614.

(506) Il Berti, nella Vita del Campanella stampata nella Nuova Antologia (luglio 1878, p. 615), parlando del carcere di Napoli dice che il Campanella "ricevette pure nel carcere la visita del celebre Gerolamo Vecchietti, di cui prese a difendere talune opinioni che erano state allora giudicate eretiche"; e in una nota aggiunge, "coteste opinioni si riferiscono alla cronologia sacra nella riforma del Calendario Giuliano". Ma in un Avviso di Roma della Collezione esistente nella Bibl. Corsiniana (cod. 1768) abbiamo trovato in data del 30 aprile 1633: "Il Vecchietti fiorentino dopo esser stato sett'anni prigione all'Inquisitione questa settimana n'è uscito". Era dunque prigione fin dal 1626, e quindi compagno del Campanella; e le Lettere Inedite del Campanella dateci dallo stesso Berti ci mostrano quale sia stata veramente l'opinione eretica, per la quale passò pericolo di essere dannato al fuoco da 18 Teologi d'accordo, l'aver negato che Cristo avesse mangiato l'agnello (ved. le Lett. da Aix 2 9bre 1634, da Parigi 4 10bre 1634, da Parigi 22 7bre 1636).

(507) Nell'originale "bensi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(508) Ved. Il Codice delle Lettere etc. pag. 131 e seguenti.

(509) Ved. le Poesie, ediz. D'Ancona pag. 151.

(510) Di testimonianze relative a tale notizia non conosciamo finora altra più antica di quella del Bulifon, cronista della fine del 1600 e principio del 1700; ed essa viene a luce oggi per la prima volta, comunicataci dal chiarmo Scipione Volpicella. Si sa che il Bulifon, libraio, registrava notizie di ogni sorte per compilare il suo così detto Cronicamerone: ma essendo stato saccheggiato il suo negozio e il suo domicilio il 1707, i manoscritti andarono perduti con tutto il resto, e poi se n'è venuto ricuperando qualche volume più tardi. Due di essi stanno nella Biblioteca Nazionale (X, F, 51-52), altri in mano di particolari, ed uno di questi ultimi reca: "La notte che divide l'anno 1679 dal 1680 morì in Roma quasi in miseria il celebre matematico Giovanni Alfonso Borelli d'anni 72. Egli nacque spurio, come dicono, nel Castello Nuovo di Napoli da un officiale spagnolo, sebbene v'è chi dica dal Padre Tommaso Campanella ivi carcerato. Ma restò tanto odioso di quella nazione che si assunse il cognome della madre. Questo nelle sue opere stampate e ristampate in più luoghi diede saggio della profondità di sua dottrina, con la quale gareggiò con li primi ingegni dell'Europa. Non si deve tacere che la maggior parte delle esperienze fatte nell'Accademia del Cimento in Firenze sono del nostro Borelli in quella aggregato. Le opere da lui stampate sono De vi....... (sic), De motibus a gravitate pendentibus, De motionibus animalium, Dell'incendio del Vesuvio, e Euclide restituito". - Ognuno apprezzerà, come merita, la notevolissima ragione del cambiamento di nome del Borrelli addotta dal Bulifon, tanto più che da' posteriori è stata variamente e meno acconciamente interpetrata. Noi pertanto abbiamo raccolto e discusso in una speciale Illustrazione quelle poche cose che finora ci è riuscito di trovare su tale argomento ne' libri parrocchiali del Castel nuovo e nell'Archivio di Stato. Ved. Illustraz. V, pag. 646.

(511) Il Conte di Lemos lo aveva dichiarato a S. M.tà fin da principio (ved. Doc. 36, pag. 42); d'altronde tale era la regola.

(512) Questa iniqua proposizione del Card.l Barberini trovasi riportata in una delle lettere del Campanella pubblicata dal Baldacchini, quella del 1O agosto 1624, ed era perciò nota fin dal 1840; ce l'ha poi confermata un'altra lettera pubblicata nel 1878 dal Berti, quella del 13 agosto 1624 (non 13 aprile come il Berti lesse, avendolo noi personalmente verificato nella Barberiniana). E tuttavia si è continuato sempre a parlare della gloriosa protezione del Campanella spiegata da Roma, dove è noto che il Card.l Barberini, Card.l Nipote, spadroneggiava.

(513) Anche oggi di questo favore di Papa Urbano pel Campanella si ha una notizia molto confusa, perfino riguardo al tempo in cui avvenne. P. es. il Berti parla della "pensione mensile che gli fu accordata quando venne di Napoli in Roma": ma evidentemente una pensione, o meglio uno stipendio per la carica di cameriere intimo, non si potè accordare allora al Campanella, se fu rinchiuso nel carcere di S.to Ufficio per tre anni. E circa questo fatto della prigionia parimente il Berti dice, che il Campanella "passò tre anni sotto la mentovata custodia senza muoverne lagnanza"; ma non poteva muoverne lagnanza se aveva avuta una condanna al carcere irremissibile; del resto, dovè pure trovare chi l'aiutasse ad uscirne, disobbligandosi col fargli la natività, e in una lettera scritta al Papa, quando stava nel S.to Officio, usò le espressioni medesime usate con lo Scioppio quando stava nella fossa di S. Elmo, "Adiutor meus et liberator meus es tu Domine, ne tardaveris". Queste notizie risultano dagli stessi preziosi documenti datici appunto dal Berti (ved. Nuova Antologia luglio 1878 p. 400 e 392, e Lettere inedite, let. 12.a p. 40, e let. 4.a p. 21). Chiunque si faccia a leggere i documenti e a considerare le cose senza idee preconcette, troverà che la Curia Romana non ebbe mai alcun riguardo pel Campanella eccetto quello finale dell'averlo tenuto nel carcere di Roma per soli 3 anni, invece degli 8 anni soliti a farsi scontare, trattandosi di condanna al carcere perpetuo ed anche irremissibile. Ma si deve tener presente che dopo la condanna egli avea sofferto oltre ventitrè anni di carcere, che varii Cardinali e Prelati aveano molta considerazione della sua dottrina, massime poi che sopraggiunsero circostanze straordinarie e del tutto estrinseche, per le quali Papa Urbano, personalmente, mostrò di proteggerlo ed amarlo, e pure fino ad un certo punto. Si può ben dire che quella volta il Campanella non vide chiaro, e ad ogni modo, circa la protezione trovata da lui in Papa Urbano, si sarebbe dovuto accuratamente distinguere più periodi successivi, ne' quali le cose andarono ben diversamente.

(514) Da buon teologo, lo Spagnolio "reverentemente abolì" ciò che avea detto del Campanella e de' congiunti e familiari di lui; pel resto scrisse, "de coeteris, jure, an fraude et calumnia circumventi, saevis sint affecti suppliciis aut morte puniti, nullo modo contendo". Gli riusciva quindi anche indifferente il determinare se ci fosse stata o non ci fosse stata una congiura.

(515) Così nel libro intitolato "Considerations politiques sur les coups d'Etat, Hollande 1679" p. 262 e 277. Il libro era stato stampato anche nel 1667 e 1671 sempre assai dopo la morte dell'autore, e come abbiamo dimostrato nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella, esso fu certamente stampato per la prima volta in piccolo numero di esemplari, dovendo rimaner segreto, dopo il 1638; poichè nella dedica al Card.l di Bagno, il quale avea data al Naudeo la commissione di scriverlo, si parla del riposo e degli onori che il Cardinale godeva in Roma dopo sette governi di provincie, una Vicelegazione e due Nunziature, e si sa che tutto questo accadeva dopo il 1638, avendo in tale anno il Cardinale rinunziato il Vescovato di Rieti e preso stanza in Roma. - Quanto al "Panegyricus dictus Urbano VIII Pontif. max. ob beneficia ab ipso in Thom. Campanellam collata, Paris ap. Sebast. Cramoisy 1644", esso reca in fine la data del 1632, e sebbene nel titolo ed anche nella dedica si affermi essere stato "recitato" ad Urbano VIII, e l'Echard aggiunga che appunto nel 1632 questo sia accaduto "coram percelebri omnium ordinum consessu", gioverà conoscere un brano di lettera autografa inedita dello stesso Naudeo, che riportiamo tra i Documenti (ved. Doc. 527 b, p. 607). Vi si rileverà che il Panegirico non fu mai recitato, e che nel 1635 l'autore dolevasi di non poterlo dare alle stampe, del quale ultimo fatto ognuno naturalmente intenderà la ragione. Nulla diciamo poi del trovare affermato nel Panegirico, che Papa Urbano beneficò il Campanella "judicium non modo suum..., sed Clementis VIII, et Pauli V mentem, in aestimandis Campanellae dotibus mirificis, sequutus"; perfino Clemente VIII avea stimato le qualità del Campanella!

(516) Tutte le suddette particolarità emergono da' Carteggi e dagli Avvisi del tempo; l'ultima poi, la più scellerata, è venuta fuori co' documenti raccolti dal Bazzoni pel suo bel lavoro intitolato "Un Nunzio straordinario alla Corte di Francia nel secolo 17°", pubblicato nella Rivista Europea 2.° semestre 1880. Notevole riesce l'industria del Mazarini per adempiere alla commissione ricevuta; si serve del noto P.e Giuseppe e vuol servirsi anche del Card.l Della Valletta, ma attesta che il Campanella parla molto bene del Card.l Barberini non che del Papa (ecco una difficoltà). Più tardi fa sapere che ha parlato risentitamente al Campanella perché vuole stampare alcune opere avendone ottenuta la permissione dalla Sorbona; vuole stampare l'Ateismo e vi si riscalda, "per qualche profitto che ne caverà"; e malvolentieri si lascia persuadere che non stampi, "parendogli che l'opporvisi sia togliergli la gloria" (cose da nulla). Con ciò fa anche sapere che il Richelieu lo stima un chiacchierone, e che veramente il giudizio suo non corrisponde all'ingegno. Senza dubbio in quelle condizioni l'avrebbe perduto ognuno il giudizio; ma che dire poi del giudizio di chi ha cantato inni di gloria a Papa Urbano ed a' Barberini a proposito del Campanella? Ed oggi c'è da temere per soprappiù, che debba il filosofo scontare il risentimento di coloro i quali non sono riusciti a capirlo.