«La così detta congiura, che il Baldacchini
e i più dei biografi Campanelliani qualificano
eterno ed insolubile problema degli
eruditi».
Berti, T. Campanella, 1878.
PREFAZIONE
I.
La congiura di fra Tommaso Campanella, il fatto più cospicuo della
vita del filosofo calabrese ed uno de' più audaci disegni di
riscossa nel Napoletano, continua pur troppo ad essere finoggi un
problema. Affermata da tutti quando essa avvenne, negata poi mano
mano in seguito, e più spesso per pietà verso il povero filosofo
rimasto a marcire in prigione senza condanna, fu ammessa in modo
vago od anche negata affatto da' biografi principali venuti
posteriormente, come il Cyprianus e l'Echard, che ebbero
sott'occhio le semplici enunciazioni dell'accusa e le vive
denegazioni del filosofo a propria difesa. Riaffermata poi con
varii particolari ed ingiuriosi commenti dal Giannone, che ebbe il
vantaggio indiscutibile di poter leggere una copia manoscritta del
processo, a' tempi nostri essa si è vista, variamente, negata di
nuovo o al contrario ammessa con la medesima asseveranza. Si è
vista negata di nuovo massime da coloro i quali se ne sono
occupati di proposito, raccogliendo documenti ma dando troppa
importanza a quelli della difesa, e negata perfino sdegnosamente,
quasi che fosse stata un'azione ignominiosa l'aver tentato di
condurre la patria a libertà; al contrario si è vista ammessa come
fatto notorio, fuori controversia, massime da coloro i quali se ne
sono occupati di passaggio, dietro le assertive del Giannone,
quasi sempre senza alcuna ricerca di nuovi documenti, e non di
rado con l'aggiunta di particolari addirittura fantastici.
In siffatta condizione si trova tuttora questo gravissimo
argomento, che domina sull'intera storia del Campanella; il quale,
costretto a scolparsi a ogni modo e per ogni via fino alla morte,
l'ingarbugliò al maggior segno, giungendo non solo a dissimulare
le proprie opinioni, ma anche a sostenerne vivacemente alcune che
non può affermarsi essere state davvero le sue; ond'è che riesce
del pari difficilissimo indagarne seriamente il pensiero e le
convinzioni intime, se non si conosca e quando e dove e come egli
scrisse ciò che scrisse.
I maggiori biografi del Campanella meritamente stimati, il Baldacchini, il D'Ancona, il Berti, hanno spiegato le imputazioni di novità disegnate nel campo politico e religioso, alle quali il Campanella soggiacque, co' vaticinii astrologici e mistici d'imminenti mutazioni che egli predicò nella fine del secolo 16° (Baldacchini e Berti), inoltre con l'odio e la calunnia de' frati che non tolleravano la nuova filosofia antiaristotelica della quale egli si era fatto campione (D'Ancòna). Questo per altro aveva addotto in sua discolpa il Campanella medesimo oppresso da sì gravi imputazioni, e si conosceva perfettamente da grandissimo tempo. Sarebbe stato necessario fare un'analisi minuta ed un riscontro accurato de' documenti della difesa e de' documenti dell'accusa, i quali ultimi già da un pezzo si sono rinvenuti in discreto numero, illustrandoli anche con quelli derivanti da persone indifferenti: ma, bisogna pur dirlo, non si è rinvenuto chi si sobbarcasse a questo lungo e penoso lavoro, mediante il quale solamente è possibile avere, se non la verità piena ed intera, difficilissima ad aversi ne' processi politici in ispecie, almeno ciò che è più vicino alla verità o non affatto contrario alla verità. Ed è pur singolare questa svogliatezza per lo studio minuto de' documenti circa la congiura del Campanella.
Si può affermare senza timore di smentite che il Giannone
medesimo, avendo sott'occhio una copia del processo, la percorse a
sbalzi e del tutto superficialmente, senza andare fino in fondo.
Lo attestano le parecchie notizie inesatte che da lui furono date,
come quella de' «25 frati del convento di Pizzoni» che invece
furono 25 voluti capi clerici e laici ivi congregati, e quella
della complicità di 300 frati di diversi ordini, 200 predicatori,
1800 fuorusciti, parecchi Vescovi e Baroni, esagerazioni de'
sobillatori per eccitar la gente, ripetute da' denunzianti,
ridotte alle proporzioni vere nel corso del processo; così pure la
notizia di un congiurato «affogato in mare», mentre invece fu
soffocato da' suoi compagni, e la notizia di Maurizio de Rinaldis
preso come «spensierato» e confesso «prima e dopo la tortura»,
mentre invece fu preso ben lungi dalla sua provincia e non
confessò nulla malgrado torture inaudite; perfino le notizie della
costituzione del doppio tribunale per la congiura e per l'eresia,
della condanna riportata dal Campanella etc. etc., si risentono
gravemente della poca attenzione messa nello studio degli Atti
processuali. In che maniera poi sieno stati a' giorni nostri
studiati gli Atti pervenuti fino a noi, si vedrà più sotto.
Facciamo dapprima una rassegna di tutti i documenti che si
posseggono, capaci di chiarire l'arruffata quistione della
congiura. Ci atterremo ad una classificazione che ci sembra
naturalissima, in tre categorie; documenti dell'accusa, documenti
della difesa, notizie e relazioni degl'indifferenti.
I documenti della difesa possono dirsi quelli che hanno
singolarmente richiamata l'attenzione, massime perche hanno
campeggiato a lungo quasi soli, oltrechè emanavano direttamente
dal Campanella e quindi apparivano degnissimi di fede. Tali sono
in primo luogo le notizie sparse copiosamente nelle opere, negli
opuscoli, nelle lettere del filosofo ed anche di qualche suo amico
ben noto, p. es. Gabriele Naudeo: il Cyprianus e l'Echard posero
uno studio particolare nel raccoglierle, senza trascurare anche le
altre di diversa provenienza e di diverso genere; sono state
quindi facilmente ripetute da tutti i posteriori, che hanno
trovato il lavoro già fatto.
Una menzione particolare merita tra questi documenti la Lettera proemiale dell'opera intitolata Atheismus triumphatus, scritta dal Campanella nella fossa di Castel S. Elmo il 1606-1607, rinvenuta dallo Struvio col ms. dell'opera in Jena, ed ivi pubblicata il 1705: essa dà notizie tanto del processo della congiura ed eresia, quanto degli altri sofferti già prima. Ma a' tempi nostri si sono avuti diversi altri documenti di tale categoria sempre più importanti. Gaspare Orelli di Zurigo, il 1634, pubblicando in Lugano le Poesìe filosofiche del Campanella con le annotazioni annesse, rimaste tanto lungamente conosciute solo pel semplice ricordo del loro titolo e per la traduzione di alcune di esse tentata dall'Herder, fornì una quantità di notizie interessantissime.
Una completa esposizione poi di tutta la faccenda della congiura
e sue conseguenze, dettata senza dubbio dal Campanella, venne
pubblicata il 1845 in Napoli da Vito Capialbi di Monteleone: essa
è intitolata Narratione della historia sopra cui fu appoggiata la
favola della ribellione, ed è seguita da un'Informatione sopra la
lettura delli processi fatti l'anno 1599 in Calabria etc.,
mancanti entrambe di alcune carte in fine. Il Capialbi affermò di
averle tratte da un autografo, ciò che è verosimile, ed inoltre
affermò essere lo scritto medesimo dato dal povero filosofo, il
1626, all'avvocato Parisi e a Gio. Battista Contestabile nel
momento di dover informare il Consiglio chiamato a decidere sulla
sua sorte, ciò che è verosimile egualmente: ma la lettura di esso
mostra fuori dubbio che fu composto il 1620, forse quando si ebbe
una prima volta bisogno d'informare il Vicerè di quel tempo Card.l
Borgia, e mostra pure che l'Informazione deve porsi innanzi alla
Narrazione.
Quasi contemporaneamente, e mano mano successivamente, si sono avute le moltissime lettere del Campanella, pubblicate in ispecie dal Baldacchini, dal Centofanti, dal Berti, da noi medesimi ma al Berti si deve dippiù un estratto degli Articuli prophetales, che trovò manoscritti nella Casanatense, e che sono propriamente una ricomposizione posteriore ed ampliata di quelli già scritti dal filosofo a propria difesa durante il processo; inoltre un estratto dell'Apologia ad amicum, che si trova in appendice agli Articoli anzidetti.
Meritano poi di essere menzionate ancora una Difesa pel
Campanella scritta dall'avvocato de Leonardis, e due analoghe
Difese per Giulio Contestabile e Marcantonio Pittella, clerici
involti nel processo della congiura, che si vedrà tra poco dove e
da chi trovate; inoltre una Difesa per Gio. Paolo e Muzio di
Cordova, gentiluomini di Catanzaro ritenuti egualmente complici,
che si conosce appena per alcuni frammenti riportati dal Capialbi
nelle sue note apposte alla Narrazione del Campanella. Come si
vede, questa categoria è ben fornita, ma, naturalmente, va accolta
con le più grandi riserve: non si giungerebbe mai alla scoperta
del vero qualora si udisse soltanto la voce dell'imputato, ed è
strano che un fatto così ovvio non sia stato mai tenuto presente
da' moderni biografi del Campanella.
Passando alla categoria de' documenti dell'accusa, non farà
maraviglia se essi siano abbastanza scarsi, mentre i processi non
erano pubblici, e d'altronde si sa che il processo originale della
congiura o «tentata ribellione» fin dal 1620 era stato già
bruciato o disperso. Per lungo tempo non si è avuta che
l'esposizione del Giannone, degna di riguardo perché risultante
dalla lettura di una copia del processo, ma sempre da doversi
discutere col confronto di altri documenti. A' giorni nostri poi
si è avuta una serie importantissima di scritture autentiche, per
la maggior parte estratte già ufficialmente dal processo e degne
della più grande attenzione.
Un napoletano bibliotecario della Palatina di Firenze, Francesco Palermo, le trovò nell'Archivio di Stato di quella città insieme con altre scritture di non minore interesse, e il 1846 ne fece una pubblicazione sommaria nell'Archivio Storico italiano: il Centofanti lo prevenne coll'annunziare di avere scoperto tali scritture, che del resto neanche in sèguito mostrò di avere mai studiate. Il trovarsi annotate nel d.to Archivio sotto il titolo di «Processo contro il P.e Tommaso Campanella e più altri inquisiti» ha fatto dire al Palermo, e ripetere da coloro i quali hanno avuto a parlarne, che trattavasi di una copia abbreviata del processo, ma questo non è del tutto esatto.
Trattasi veramente, per la più gran parte, de' così detti Riassunti degl'indizii, che il Mastrodatti compilava in più copie su ciascuno imputato, estraendo gl'indizii dalle deposizioni processuali con la maggior fedeltà, per trasmetterli a ciascun Giudice allorchè era venuto il momento di spedire le cause: ad essi va unita la Requisitoria del fiscale contro il Campanella, oltrechè la Difesa pel Campanella e le Difese pel Contestabile e pel Pittella superiormente già indicate; va unito ancora un Elenco degli ecclesiastici incriminati, con la relativa sentenza o condizione di sentenziabilità aggiunta posteriormente in margine (ciò che trovasi fatto pure quasi sempre in coda di ciascun Riassunto degl'indizii), più un doppio Breve Papale circa la costituzione del tribunale Apostolico della congiura, ed anche un Sommario dell'Informazione di Calabria, presa da due frati Domenicani.
Evidentemente l'Elenco e il primo Breve rappresentano le copie di due scritture poste a capo del processo per gli ecclesiastici fatto in Napoli, e l'Informazione di Calabria rappresenta la copia di un allegato di questo processo; ma i Riassunti degl'indizii e la Requisitoria, al pari delle Difese, rappresentano Atti giudiziarii concomitanti, che solo convenzionalmente possono chiamarsi Atti processuali, non facendo parte delle scritture del processo; ond'è che gioverebbe preferire il nome di Atti giudiziarii, il quale ha un significato più largo e viene a comprendere tutte queste scritture. Nè è dubbio per noi che esse, con altre ancora delle quali si parlerà più sotto, abbiano appartenuto a Mons.r Jacopo Aldobrandini fiorentino Vescovo di Troia, Nunzio in Napoli e Giudice in entrambi i processi della congiura e dell'eresia; portate da costui in Firenze vennero poi, circa il 1670, nelle mani del Senatore Carlo di Tommaso Strozzi, d'onde più tardi, insieme con tutte le altre carte Strozziane, nell'Archivio Mediceo.
Il Palermo, sia per amore di brevità, sia per fretta nel vedere tenute d'occhio le sue ricerche, sia pel proposito di dare più tardi una storia delle cose del Campanella come si può bene argomentare da più circostanze, non pubblicò i documenti interi, ma invece una «Esposizione delle cose principali contenute nel processo informativo», aggiungendovi pochissime parole d'introduzione, con le quali fece rilevare esser posto fuori dubbio che il Campanella avesse concepita una rinnovazione politica e l'avesse apparecchiata; egli preferì che i lettori se ne persuadessero da loro medesimi, la qual cosa non si vede punto avvenuta, non essendo stati i documenti ricercati e discussi con la debita premura. Il D'Ancona pubblicò più tardi il doppio Breve Papale circa la costituzione del tribunale per la congiura, ed anche l'Elenco degli ecclesiastici incriminati.
In questi ultimi tempi poi il Berti ci ha dato dippiù una
Denunzia di alcuni cittadini di Catanzaro avuta dallo stesso
d'Ancona e creduta inedita, ma essa era stata già pubblicata nel
Rendiconto dell'Accademia Pontaniana del 1864 pag. 62, a cura del
Baldacchini, il quale l'aveva ricevuta in dono dall'insigne
magistrato Pirro Giovanni De Luca; costui la rinvenne in copia
legalе tra le carte familiari di una Signora discendente da uno
de' denunzianti (Gio. Battista Sanseverino); oggi trovasi
depositata nell'Archivio di Stato in Napoli, a cura dell'Accademia
suddetta. Questa Denunzia fu già oppugnata dal Campanella nella
sua Narrazione, ed è superfluo dire che tanto essa, quanto la
maggior parte de' documenti contemplati nella presente categoria,
esigono del pari una critica condotta con molto accorgimento:
l'atroce severità con la quale si difendevano i dritti dello
Stato, le torture crudelissime, le speranze d'immunità come quelle
di premii, le cure della propria salvezza, hanno potuto e dovuto
far asserire più volte cose ben lontane dal vero.
Infine, circa la categoria delle notizie e relazioni
degl'indifferenti, bisogna riconoscere che questa indifferenza è
ammissibile fino ad un certo punto, giacché a fronte di un fatto
così straordinario nessuno si mostrò interamente spassionato; ma
in somma non si tratta di documenti venuti fuora da persone
interessate a negar tutto o ad accoglier tutto; e del resto la
circostanza del non trovarsi una indifferenza completa importa
solo che la critica debba anche qui intervenire accuratamente.
Possiamo annoverare nella presente categoria in primo luogo le notizie de' cronisti e scrittori contemporanei, le quali per verità si riducono a semplici affermazioni generiche sprovvedute di un certo corredo di particolari, eco evidente del gran rigore spiegato dallo Stato e dalla Chiesa contro il Campanella e i suoi compagni di sventura: il valore di queste affermazioni sta sopratutto nella concordanza che vi si nota, e che riesce certamente assai significante, poiché se la faccenda si fosse prestata a dubbî, qualcheduno si sarebbe spinto a manifestarlo.
Ma gravissimo è l'interesse delle relazioni venute in luce a'
giorni nostri per opera principalmente dello stesso Francesco
Palermo, il più benemerito della storia del Campanella. Da una
parte dobbiamo a lui il Carteggio del Nunzio Aldobrandini con la
Corte di Roma, vale a dire del suddetto Jacopo Aldobrandini
Vescovo di Troia, e non già Cinthio Aldobrandini come il Palermo
ritenne: oltre l'ufficio di Nunzio, il Vescovo di Troia tenne pure
quelli di Giudice, e non solo nel processo della congiura ma anche
in quello dell'eresia, ciò che basta a fare intendere l'importanza
capitale delle sue lettere e delle risposte avute da Roma. D'altra
parte dobbiamo egualmente al Palermo il Carteggio dell'Agente di
Toscana in Napoli, che fu Giulio Battaglino, un napoletano da
lungo tempo a' servigi del Gran Duca e in piena intimità con la
Corte Vicereale.
Deve poi aggiungersi ancora agli anzidetti il Carteggio del
Residente Veneto, che fu Gio. Carlo Scaramelli e dopo di lui
Gio. Maria Vincenti. Questo Carteggio fa parte del vol. 2° della
Storia arcana ed aneddotica d'Italia pubblicata da Fabio Mutinelli
il 1856, e con sorpresa non si vede messo a profitto da alcuno di
coloro che si sono occupati del Campanella, mentre pure si conosce
quanto gli Agenti Veneti fossero acuti e diligenti osservatori:
nel caso nostro poi l'Agente Veneto si mostra il più spassionato
fra tutti, non sempre esatto per le cose avvenute in Calabria,
nemmeno esattissimo per le cose avvenute in Napoli, ma sempre
abbondante ne' particolari; senza dubbio la sua contribuzione di
notizie non è di poco valore, quantunque abbia bisogno, come tutte
le altre, di un accurato riscontro.
Dietro questa rassegna si converrà che i documenti non sono punto
mancati, in ispecie circa la persona del Campanella e degli
ecclesiastici incriminati di congiura, mentre diversamente è
accaduto pe' laici; la quistione poi dell'eresia connessa con
quella della congiura è rimasta veramente al buio. Di certo per
poche o nessun'altra congiura si possiede un numero di documenti
tanto grande, bensì, come dicevamo, è mancato lo studio minuto de'
documenti; e ci rincresce molto, ma siamo costretti a provarlo,
dovendo anche necessariamente dimostrare come e perché la congiura
del Campanella sia rimasta tuttora un problema. Faremo quindi un
breve commento alle cose dette su questo tema a' giorni nostri da'
maggiori biografi del Campanella, e daremo anche un breve cenno
delle cose dette da qualcuno de' più rispettabili scrittori; che
senza essersene occupato di proposito ha avuta occasione di
parlarne.
Il Baldacchini va qui posto fuori causa. Egli scrisse nel 1840, ed
allora né la Narrazione del Campanella, né gli Atti giudiziarii e
i Carteggi del Nunzio e dell'Agente di Toscana erano per anco
noti; quando poi venne alla 2a edizione del suo libro, nel 1847,
avrebbe dovuto rifare ogni cosa e glie ne sarebbe anche mancato il
tempo. Eppure, malgrado avesse accolta l'opinione che la colpa del
Campanella fosse stata l'aver palesato inconsideratamente i
vaticinii astrologici e i sogni cavati da S. Brigida e
dall'Apocalisse, ebbe premura di aggiungere: «né dico interamente
falsa l'accusa di meditata ribellione, perciocché troppo
pubblicamente il governo punì quelli che ne potè provare
colpevoli...; né tampoco dico che il Campanella per inconsiderato
desiderio di novità non vi accedesse, bene dico ed affermo ch'ei
non ne fu primo autore, com'egli ebbe a replicare più volte in
Francia a' suoi amici, quando poteva confessare il tutto senza
pericolo». Aggiunse inoltre: «di questa congiura, qual ch'ella
fosse stata, io qui non iscrivo la storia particolare; accidente
della vita di un uomo di scienza, ella mi ha solo porto
l'opportunità di sceverare alcune sue idee da'fatti che gli si
appongono». Del Resto si scagliò contro il Giannone, e sostenne
che i processi fatti in que' barbari tempi non meritavano la
menoma fede.
Certamente parecchie obbiezioni si possono e si debbono fare alle cose da lui dette e pocanzi riportate. La congiura non fu un accidente secondario nella vita del filosofo, mentre egli ne rimase addirittura schiacciato fino alla morte; né si potrà mai definire qual parte egli vi abbia presa, finchè non se ne sveleranno i particolari, né sarà mai facile trovare chi abbia potuto avere tanta autorità da farlo accedere a una congiura, mentre per lo meno si conosce che l'indole sua non comportava di essere secondo a veruno; né poi egli avrebbe potuto manifestarsi a un tratto in Francia vecchio fautore di repubblica e di nuova religione, dopo di averlo negato per tanti e tanti anni, né avrebbe veramente potuto farlo senza pericolo, mentre si conosce che vi era oppresso dalla miseria, e costretto a mendicare soccorsi dallo Stato e dalla Chiesa.
Ma è inutile insistere, quando il Baldacchini non ha voluto o non ha potuto trattare l'argomento, che senza dubbio avrebbe saputo trattare meglio di ogni altro: basta aver rilevato che egli ammise genericamente esservi stata una congiura, la qual cosa dagli altri biografi è stata nettamente negata. Il D'Ancona si occupò della congiura, ma attenendosi puntualmente alla Narrazione pubblicata dal Capialbi e già dettata dal Campanella, comunque di tale provenienza non si fosse mostrato persuaso: ed è facile intendere a quali conclusioni si fosse avviato, con la scorta della esposizione fatta da un uomo carcerato da oltre un ventennio, e destinata ad informare i Giudici che doveano ancora sentenziarlo. Volle seguire strettamente la massima, che «quando gli autori parlano di sé stessi, sempre alle loro attestazioni prima che alle altrui devesi ricorrere»; la quale massima per verità non avrebbe escluso un ricorso serio alle attestazioni altrui, trattandosi di un autore imputato di fatti gravissimi, in pericolo di pessima morte, e quindi in necessità di difendersi anche nascondendo e ingarbugliando il vero.
Trasportato da baldanza giovanile e da affetto impetuoso, il D'Ancona emulò il Baldacchini negli sdegni contro il Giannone, pescò appena, per deriderla, qualche strana, o maligna, o insulsa testimonianza inserta negli Atti giudiziarii, abbracciò tutti in un fascio i ricordi de' processi sofferti dal Campanella in tempi e luoghi diversi, e conchiuse sommariamente essere «inventata la congiura...; mattissima accusa che per mezzo de' Turchi volesse piantar la repubblica...; impossibile ch'egli volesse farsi Re...; impossibile ch'egli volesse proclamar nuova legge e nuova religione...; ribalderia credere ch'egli macchinasse col Turco...; sciocchezza presumer un'alleanza fratesca» etc. etc.. Non credè di dover porre a riscontro della Narrazione del Campanella una narrazione condotta con elementi cavati dagli Atti giudiziarii; percorse questi Atti, pubblicò anche due di essi come abbiamo già riferito più sopra, e per gli altri si limitò a ripetere l'annunzio che li avrebbe pubblicati il Centofanti; ma degli Atti medesimi da lui pubblicati, come di quelli percorsi, non mostrò di avere acquistata una conoscenza chiara. Infatti, dando l'Elenco de' 24 ecclesiastici incriminati, a capo de' quali il Campanella, mostrò di credere che fosse quella la lista di tutti i congiurati rimasti in iscena, e non vide che ci erano rimasti ancora più che cento laici, senza contare che taluni altri erano stati già puniti con l'estremo supplizio, secondochè il Carteggio dell'Agente di Toscana facea pure conoscere.
Dando il doppio Breve, mercé cui Clemente VIII nominava i Giudici della congiura per gli ecclesiastici, con facoltà di amministrare le torture etc., continuò a parlare di Spagna e di spagnuoli che processarono e torturarono il Campanella, mentre ogni cosa fu veramente fatta ad istanza del Governo Vicereale, ma da Delegati Apostolici, dietro ordini formali emanati da Roma: vedesi per altro questo errore professato da tutti coloro i quali hanno più o meno trattato del Campanella, come se non vi fosse stata a que' tempi l'immunità ecclesiastica, e da ciò può bene argomentarsi quanto le nozioni sulle cose del Campanella si trovino fuori via. Citando poi la Requisitoria del fiscale, il d'Ancona l'attribuì allo Xarava, mentre una lettera annessa al Breve, pubblicata da lui egualmente, mostrava essere stato nominato fiscale D. Giovanni Sances.
Parlando delle atrocissime torture sofferte dal Campanella,
ripetè con gli altri che le avea sofferte senza neppure mandar
fuori un lamento (fiore rettorico assai male a proposito), mentre
nell'Elenco da lui pubblicato, a fianco del nome del Campanella
leggevasi «confexus». Volendo riportare le conclusioni del
tribunale intorno al clerico Giulio Contestabile, divenuto
accusatore del Campanella per salvarsi, scambiò le parole finali
del Riassunto degl'indizii con quelle della Difesa, ed affermò
essersi concluso, «ex omnibus constat notoria innocenza ipsius cl.
Julii Contestabilis», mentre invece avrebbe dovuto leggere,
«exulatus per quinquennium». E chiudiamo oramai queste
annotazioni, le quali in verità ci procurano grandissima pena.
Venendo al Berti, dobbiamo dire che egli egualmente non ha creduto
punto alla congiura, essendosi anche meno del d'Ancona occupato
de' documenti raccolti, eccettuati quelli raccolti da lui
medesimo. Già trattando di Giordano Bruno, nel 1868, egli avea
manifestata l'opinione, «che il processo del Campanella, meglio
che da' documenti insino ad ora pubblicati, si ricava da ciò che
ne dice in più luoghi delle sue opere»; di poi, avendo avuta tra
mani la Denunzia de' cinque di Catanzaro, e trovati gli Articoli
profetali e l'Apologia che vi è annessa, su questi documenti
appunto si è poggiato, per sostenere essersi il Campanella
soltanto dato «ad annunziare in privati colloquii e dal pergamo,
così a' laici come a' chierici che scossi dalla sua facondia gli
si stringevano intorno» vaticinii astrologico-mistici di prossimi
mutamenti; e però ha stabilito che «in questi vaticinii, e più
ancora nelle aggiunte che a quelli altri frati facevano
ripetendoli, è da cercarsi in gran parte la spiegazione del fatto
cui si diè nome di congiura».
Ha ammesso che arbitrariamente Maurizio de Rinaldis bandito, per mutare la sua fortuna, avesse iniziato pratiche presso i turchi, e che fra Dionisio Ponzio, esaltato per le profezie del Campanella, avesse del pari arbitrariamente iniziato pratiche presso alcuni cittadini di Catanzaro; ha ammesso che il Campanella non avesse sconsigliato i più animosi dal porsi con le armi in mano sulle montagne al fine di premunirsi contro i futuri rivolgimenti, ma in somma ha conchiuso: «le deposizioni processuali nulla palesano che accenni a congiura; lo stesso Rinaldis ed il frate Dionisio non avevano forse complici, ma operarono entrambi di loro arbitrio; nissun fatto si recò nel processo che provasse che Campanella fosse capo di congiurati e che una congiura propriamente detta fosse stata ordita in Calabria; quindi i giudici non poterono profferire, per quanto ostili, una sentenza di condanna contro esso; laonde, trascorsi pochi anni, venne il processo sospeso, e gli ufficiali regi, non sapendo come trarlo legalmente a morte, stettero contenti di ritenerlo nella terribile sepoltura del carcere».
In verità le deposizioni processuali si possono impugnare e ripudiare, o per lo meno valutare in un senso assai meno grave; ma sarebbe impossibile provare co' documenti raccolti che i Giudici le avessero valutate in tal guisa, e che sia stato quello indicato dal Berti l'andamento del processo, del quale per altro egli non ha fatto conoscer nulla, essendosi limitato a darne un semplice annunzio in una quindicina di versi. Il primo Breve Papale, pubblicato dal D'Ancona, mostra che avrebbero dovuto profferire la sentenza di condanna due sole persone, il Nunzio Aldobrandini, che non era già il Card.le Aldobrandini ma il Vescovo di Troia, e il magistrato clerico D. Pietro de Vera, entrambi Delegati del Papa; né dipese punto dal Nunzio, come si rileva molto bene dal suo Carteggio pubblicato dal Palermo, il non aver profferito la detta sentenza, e l'essere quindi il Campanella rimasto nelle carceri dello Stato, dove trovavasi rinchiuso appunto col consenso del Nunzio. L'Elenco degl'incriminati ecclesiastici, pubblicato egualmente dal D'Ancona, mostra che il Campanella era ritenuto da' Giudici «confexus», e il Carteggio anzidetto lo suggella, spiegando pure in termini non equivoci come «reputandosi l'uno confesso che è il «Campanella, et l'altro convinto che è il Pontio, potrà facilmente «essere la fine delle loro cause il degradarli e darli alla Curia «secolare», vale a dire mandarli al patibolo.
Lungi dunque dal non aver trovato nelle deposizioni processuali
fatti che provassero il Campanella essere stato capo di congiura
propriamente detta in Calabria, i Giudici Apostolici vi aveano
trovato questi fatti pienamente, come ve l'aveano trovato anche
dal canto loro i Giudici Regii per gl'infelici laici, onde
parecchi di costoro erano stati riconosciuti colpevoli di «tentata
ribellione» ispirata dal Campanella, e quindi trascinati,
attanagliati, impiccati, squartati. Ed accenniamo appena che
furono riconosciuti numerosi complici ma non tra' frati; che nelle
deposizioni processuali c'è il fatto di un importante colloquio
del Campanella con taluno de' firmatarii di quella Denunzía, su
cui il Berti si è fondato per provare l'opposto; che volendo stare
alle sole assertive consegnate in qualche documento senza il
riscontro degli altri, massime poi alle sole assertive del
Campanella, si corre certo rischio di essere trasportati assai
lungi dal vero. Ma basti aver mostrato che lo studio minuto de'
documenti delle diverse categorie non è stato fatto.
Poco ci tratterremo su coloro i quali non si sono occupati di
proposito della congiura del Campanella. Citeremo in primo luogo
il prof.re Bertrando Spaventa, che ne' suoi Saggi di Critica
filosofica riprodusse una carica a fondo sul lavoro del D'Ancona,
già da lui pubblicata poco dopo la comparsa di tale lavoro. Ma la
natura medesima della critica dello Spaventa lo condusse a
discettare in modo speculativo sul lavoro del D'Ancona, anzichè a
studiare i documenti, mediante i quali avrebbe confermato non
essere stato reso bene il carattere del Campanella, e avrebbe
avuto modo di renderlo egli stesso con maggiore esattezza. Del
resto lo scopo suo principale fu manifestamente quello di aprirsi
la via alla esposizione e alla critica delle dottrine filosofiche
del Campanella, sul quale tema egli si mostrò, come ognuno lo
conosce, profondamente versato.
Citeremo in secondo luogo il prof.re Francesco Fiorentino, che nel suo magnifico libro sul Telesio, discorrendo de' casi del Campanella, si spinse un poco piú addentro nelle cose della congiura, ma dando molta importanza al Bassà Cicala, che ritenne essere stato un calabrese cosentino, nominato Pietro Cicala, già compagno di Marco Berardi divenuto poi popolare col nome di Re dei monti, essendo entrambi sfuggiti al carcere e al rogo inquisitoriale. Il Campanella avrebbe volto l'occhio a lui, conoscendolo odiatore degli spagnuoli per amore della Calabria. Pertanto la storia veramente ci mostra il detto Bassà essere stato un messinese, oriundo genovese, a nome Scipione Cicala, preso da' turchi nella sua adolescenza, e non amico ma devastatore di Reggio e di molti altri paesi della Calabria nel 1594, sotto gli occhi del medesimo Carlo Spinelli che fu poi il persecutore del Campanella.
Del resto il Fiorentino riconobbe appieno nel Campanella il
merito del «sublime ardimento, che non può annidare in animi
volgari, e che perciò o fu discreduto o parve follia»; ma non
entrava nel disegno del suo libro il discutere i particolari di
tale ardimento. Citeremo inoltre l'insigne patriota e prof.re
Luigi Settembrini, che in fatto di cospirazioni nel Napoletano non
si potè mai dire davvero poco informato. In un Elogio di Michele
Baldacchini egli ebbe occasione di parlare della congiura del
Campanella, e diede un'importanza incomparabilmente maggiore al
Cicala, ritenendolo del pari calabrese ma qualificandolo
diversamente. Secondo lui, tutti coloro i quali scrissero la vita
del Campanella non tennero molto conto di quell'uomo straordinario
che fu il Bassà Cicala: costui «fece nascere e fu occasione» alla
congiura, cui «presero parte alcuni Vescovi, alcuni baroni, molti
ecclesiastici e molti banditi, e per dilargarsi fra tanti avea
dovuto essere meditata da lungo tempo, e se aveva un capo non fu
il Campanella, il quale era tornato da poco a Stilo e non poteva
muovere tutta quella macchina, né dal processo che si fece
apparisce esserne stato egli l'autore, ma vi entrò tardi e vi
operò a suo modo». In somma, con quella sua vivissima fantasia che
lo rendeva tanto caro a chiunque ebbe la fortuna di avvicinarlo,
egli voleva che fosse attribuita la più gran parte in questa
congiura a «Dionisio Cicala», secondo lui già povero contadino
calabrese di Castelli, paesello non molto lontano da Stilo, fatto
schiavo mentre tagliava erbe in campagna, e divenuto poi
conquistatore di Tunisi cacciandone gli spagnuoli, parente del
Sultano, Vicerè in Tunisi, Tripoli ed Algieri, famoso capitano a
Lepanto, col nome di Ulucci-Alì. Ma certamente egli confondeva con
Scipione Cicala, divenuto Bassà Cicala o Sinan-Bassà che fu
veramente in rapporto co' congiurati mossi dal Campanella, un
altro capitano di mare antecessore del Cicala, che fu propriamente
Ucciali-Alì, detto anche Ucchiali-Alì da' suoi conterranei, Uluge
e Chilige-Alì da' turchi, Uluzzi-Alì da' veneziani, fatto schiavo
da Dragut nel modo suddetto, e divenuto celeberrimo nell'impero
ottomano, come l'attestano le Relazioni di molti Baili Veneti
pubblicate dall'Albèri, oltre alle Memorie del Sagredo; riesce poi
superfluo dire che gli Atti processuali, citati dal Settembrini,
mostrano le cose in modo ben diverso. - Non taceremo nemmeno che
il racconto del Settembrini, insieme con la Denunzia dal Berti
creduta inedita, ispirò al dotto magistrato Francesco Sav.° Arabia
le sue Scene sul Campanella, e in una prefazione, con quella
competenza che lo distingue, egli fece una giustissima critica
della Narrazione del Campanella tanto apprezzata dal Capialbi e
dal D'Ancona come fondamento di storia, senza entrare per altro
nella disamina degli Atti processuali, che gli avrebbero fatto
ripudiare anche Ulucci-Alì e la Denunzia.
E qui ci fermiamo, aggiungendo solamente essere stato dimandato in
questi ultimi mesi, non ricordiamo più da chi ma non in Napoli, se
il Campanella non dovesse dirsi «una specie di Lazzaretti abortito
sul nascere». Per conto nostro non esitiamo a rispondere, che
siffatta rassomiglianza non è solo irriverente, ma addirittura
sciagurata. Il carrettiere di Arcidosso, che iniziò la sua
missione profetica con le truffe, e la continuò in buono accordo
coi clericali di Francia e gli arrabbiati della Curia Romana
contro la patria divenuta libera ed una, non ha proprio nulla di
comune col filosofo di Stilo, che tutto sacrificò pel grandioso
concetto di liberare la sua patria dal doppio giogo di Spagna e di
Roma; l'impresa del carrettiere di Arcidosso è stata veramente una
macchia per la Toscana, mentre l'impresa del filosofo di Stilo fu
una gloria per la Calabria. Ma in somma riesce evidente che si è
pur sempre lontani, molto lontani, dall'avere studiato i documenti
atti a chiarire le cose del Campanella.
II.
Da alcuni anni, ricercando in Italia ed anche nell'estero notizie
e documenti intorno a' vecchi medici e naturalisti napoletani, ci
siamo imbattuti in gravi scritture finoggi ignorate intorno al
Campanella; e quantunque sapessimo che non ce ne sarebbe venuto
plauso da un grosso numero di persone, che nulla ama, nulla venera
e nulla sa, incapace di comprendere altro che l'arte proficua
alimento unico degli spiriti volgari, ci siamo sobbarcati a dure
fatiche per trarne le copie. Basta citare il Processo di eresia,
che giustamente il Berti dice essere «rimasto del tutto ignoto», e
che, passato in tre diverse collezioni private con altre scritture
di S. Officio riferibili più o meno direttamente al Campanella, è
stato da noi raccolto e trascritto, risultandoci una copia di due
grossi tomi in folio, complessivamente di 1412 pagine. Un'altra
raccolta, assai meno voluminosa ma non meno importante, è stata
quella del Carteggio ufficiale del Viceré di Napoli con la Corte
di Madrid sulla faccenda del Campanella, rinvenuto nel vecchio
Archivio di Spagna in Simancas, dove ci eravamo recati per le
nostre primitive ricerche. Decisi a partecipare al pubblico le
cose che possedevamo, ci siamo successivamente tenuti in obbligo
di occuparci di proposito anche del Campanella in quanti Archivii
e Biblioteche ci è stato possibile visitare, per arricchire sempre
più la nostra raccolta, rivedendo in pari tempo ciò che era già
noto, per acquistarne nozioni complete ed estenderle maggiormente
all'occorrenza.
Così in Madrid, in Dublino (dove sapevamo trovarsi non meno di 66
volumi di carte di S. Officio tolte nel 1848 all'Archivio
dell'Inquisizione Romana), in Londra, in Parigi, in Montpellier, e
poi nelle Biblioteche e negli Archivii di Stato di Torino, di
Venezia, di Modena, di Firenze ed Urbino, di Roma, di Napoli,
abbiamo cercato ciò che poteva esservi di manoscritti, di lettere,
di documenti e notizie di ogni specie tanto sul Campanella, quanto
sulle molte e diverse persone che da' documenti raccolti risultava
aver figurato intorno a lui, come amici, nemici, fautori,
persecutori, giudici etc.; e dobbiamo dire che le nostre fatiche
sono riuscite tutt'altro che vane. Anche nel Grande Archivio di
Napoli, di dove erano venute fuori, l'una dopo l'altra, due
lettere di Soprintendenti che attestavano non trovarvisi nulla
intorno al Campanella, abbiamo trovato varie cose intorno a lui,
oltrechè moltissime intorno a coloro i quali furono più o meno in
relazione con le cose sue. né abbiamo poi mancato di procurarci
l'ingresso nell'Archivio della Compagnia dei Bianchi di giustizia,
per cavarne i particolari delle esecuzioni e delle discolpe de'
calabresi che si conosceva essere stati giustiziati in Napoli; né
abbiamo mancato di rovistare i Libri parrocchiali della Chiesa del
Castel nuovo, per cavarne notizie su varii nomi, che in ispecie i
nuovi documenti ci aveano fatto conoscere. In tal guisa siamo
pervenuti a raccogliere una quantità di documenti abbastanza
notevole, alcuni pochi de' tempi anteriori alla congiura ed a'
relativi processi, altri ben numerosi de' tempi della congiura e
de' processi, altri pochi de' tempi posteriori: e sotto questa
triplice categoria li pubblichiamo in un volume aggiunto alla
nostra narrazione, ma riportandovi le sole scritture riferibili
strettamente a' fatti e persone della congiura ed eresia, mentre
le molte altre scritture riferibili a' tanti fatti e persone che
vi hanno un'attinenza meno stretta o semplicemente relativa, son
riportati a piè di pagina là dove nella narrazione accade di
doverne discorrere. Né abbiamo esitato ad includervi anche
parecchi documenti editi, non tacendo mai siffatta loro qualità,
semprechè ci sieno apparsi di molto interesse per la piena
intelligenza dell'argomento, ovvero ci sia occorso di farvi
correzioni ed aggiunte nel rivederne gli originali, la qual cosa
possiamo dire esserci occorsa piuttosto sovente.
Ma in ispecie per la categoria, de' documenti de' tempi della
congiura e de' processi, gioverà qui fare una rassegna che ne dia
qualche notizia determinata, contemplandone i diversi capi o
gruppi.
I. Carteggio Vicereale con la Corte di Madrid. - Son 40 documenti
rinvenuti ne' fasci di carte che in Simancas si trovano sotto la
rubrica «Secretaria de Estado, Negociacion de Napoles»; fanno
parte del «Legazo 1096, Leg. 1097, Leg. 1099» (anni 1598-99,
1600-01, 1603), e qualcuno trovasi nel Leg. 1095 (an. 1596-97) per
una di quelle lievi anomalie inevitabili negli Archivii;
principalmente per siffatto motivo estendemmo le ricerche fino al
Leg. 1106 (an. 1610-11), ma senza frutto. Vi figurano oltre venti
lettere originali del Vicerè, quasi sempre dirette a S.M.tà
Cattolica, ed una in minuta della medesima M.tà diretta al Vicerè,
otto copie di lettere di Carlo Spinelli, il crudele repressore
della congiura, ed una di D. Luise Xarava, il feroce Avvocato
Fiscale, dirette al Vicerè, inoltre diverse relazioni appartenenti
ad un Commissario, ad un Capitano, ad un Agente in Roma, una copia
della prima Informazione presa da fra Marco il Visitatore e fra
Cornelio di Nizza ed un'altra del Breve Papale che istituì il
Tribunale per gli ecclesiastici ribelli (questi ultimi due
documenti analoghi a quelli che già si conosce trovarsi in
Firenze; del resto il primo di essi più importante, perché mostra
in appendice essere stata comunicata a Giudici laici la copia di
un'Informazione di S.to Officio). Ma vi brillano massimamente
l'importante Denunzia testuale di Lauro e Biblia, e
l'importantissima Dichiarazione scritta dal Campanella, da lui
rilasciata all'Avvocato Fiscale poco dopo la sua cattura. Tutti
questi documenti non rappresentano il Carteggio intero, poichè vi
sono indizi di diverse lacune, e d'altronde vedremo tra' documenti
rinvenuti nell'Archivio di Napoli qualche altra lettera di S.M.tà
la cui minuta non si trova in Simancas: ma costituiscono ciò che
n'è rimasto in que' fasci di scritture, e riferendosi quasi per
intero all'ultimo quadrimestre del 1599, illuminano abbastanza lo
svolgimento delle cose di Calabria, la qualità e quantità de'
congiurati, le vedute del Governo e de' suoi ufficiali, le vedute
di Roma, la parte attribuita al Turco, i severissimi provvedimenti
adottati. Sono scritti quasi sempre in lingua spagnuola e così
saranno riportati, potendosi lo spagnuolo intendere senza
difficoltà dalla gente latina. Bisogna solo avvertire che la
lingua vi è abbastanza impura, l'ortografia consentanea al tempo,
la punteggiatura poi deficientissima e molto irregolare, non
trovandosi nell'originale che pochissime virgole e sovente gittate
a caso: questa punteggiatura soltanto ci è parso necessario di
migliorare, per rendere sempre più agevole l'intelligenza del
testo; nel rimanente si è cercato di serbare la più scrupolosa
fedeltà. Queste stesse avvertenze vanno fatte pe' pochi documenti
in italiano ed in latino che vi si trovano compresi: essi sono
stati copiati da ufficiali spagnuoli del tempo, e naturalmente
questa circostanza vi si fa sentire non poco.
II. Carteggio del Nunzio Pontificio in Napoli con la Corte di
Roma. - Questo Carteggio, contenuto nelle Scritture Strozziane
dell'Archivio di Firenze, va dal 1592 al 1605 ed occupa 31 grossi
volumi, i quali recano le lettere di Roma in originale e quelle di
Napoli in minute, comunque il Catalogo dell'Archivio, sotto il
nome di «Aldobrandini Mons. Jacopo» segni solamente «Lettere da
esso scritte a varî...». Sono le Filze 205 a 236 num.ne nuova, e
propriamente le 205-221 recano le lettere di Roma, e le 222-236
recano le lettere o meglio le minute di Napoli non autografe come
il Palermo ha creduto. Volendo circoscriversi nel periodo
strettamente riferibile al Campanella, si tratterebbe delle Filze
212 e seg.ti e 229 e seg.ti. Il Palermo, che scoprì questo
Carteggio, ne estrasse sole 32 lettere, delle quali 16
integralmente, e le altre, per amore di brevità e forse anche pel
proposito di non trattare lo svolgimento de' processi, mancanti
sempre di qualche brano; tutte poi mancanti d'indirizzo quando
partono dal Nunzio e di firme quando vengono al Nunzio, essendo
solamente notato in massa che sono dirette a' Card.li
Aldobrandini, S. Severina e Borghese. Noi abbiamo voluto averle
nella loro integrità, come pure nella loro lezione precisa, non
che munite degli indirizzi e provenienze rispettive; e con
l'aggiunta di parecchie altre che erano state omesse, e di poche
altre scritte dal Nunzio al Vicerè, al Castellano di Castel nuovo,
a diversi Vescovi etc. sempre in rapporto all'argomento in esame,
abbiamo potuto aumentarne il numero per modo che ascendono a non
meno di 114 lettere. Queste vengono pubblicate tutte insieme
nell'apposito gruppo, comprendendovi anche le edite senza
tralasciar mai di dichiararlo, e con varie correzioni specialmente
nelle date, alcune volte abbastanza importanti. Dobbiamo
aggiungere che nel Carteggio esistono pure diverse lacune,
mancando evidentemente molte lettere di Roma, alcune delle quali
sono citate in quelle che si hanno, e mancando qua e là interi
fascicoli o «Registri» delle lettere di Napoli, come risulta dalla
numerazione ad essi apposta e da' salti sensibili nelle date. Ci è
parso necessario notare queste lacune là dove sono risultate
manifeste, perché ne sieno prevenuti i futuri ricercatori, e
perché non si credano, per que' periodi, sopite le trattative del
negozio, mentre invece ci mancano le notizie delle trattative.
Riesce poi quasi superfluo avvertire, che percorrendo tutti i 31
volumi, come noi li abbiamo percorsi, vi si trovano tante altre
notizie e documenti sulle persone e sulle cose di que' tempi,
capaci di chiarire non solo gli umori di Napoli e di Roma, che
naturalmente ebbero la più grande influenza sull'andamento de'
guai del Campanella, ma anche capaci di chiarire i fatti medesimi
nella loro essenza: basta accennare le precedenti guerre fratesche
de' Ponzii co' Polistina per l'assassinio del P.e Provinciale fra
Pietro Ponzio, le gravi quistioni giurisdizionali nelle Diocesi di
Nicastro e di Mileto, le cresciute ricezioni de' fuorusciti in
asilo ne' conventi, perfino le discordie di famiglia tra'
Contestabili e Carnevali, circostanze tutte che il Campanella
continuamente allegò come basi degli odî suscitati contro la sua
persona. Queste altre notizie e documenti troveranno il loro posto
nel corso della narrazione.
III. Carteggio dell'Agente Toscano in Napoli col suo Governo. -
Questo Carteggio, diretto a Lorenzo Usimbardi Segretario del Gran
Duca da Giulio Battaglino, e in sèguito, morto costui, dal lettore
di dritto Alessandro Turaminis sienese, trovasi nell'Archivio
Mediceo, e va dal 1592 in poi, occupando le Filze 4084 e seguenti.
Il Palermo, intorno alla congiura ed a' processi, vi raccolse
solamente 5 brani di lettere dell'ultimo quadrimestre del 1599;
noi vi abbiamo proseguito le indagini, e abbiamo portato ad 11 il
numero di questi brani, taluno de' quali, se fosse stato ricercato
sin da che fu nota l'esistenza di questo Carteggio, avrebbe fatto
evitare qualche solenne abbaglio circa le torture del Campanella.
Naturalmente nelle Filze suddette si trovano anche altre notizie
illustrative di que' tempi, ma vi abbiamo trovato inoltre molte
lettere di particolari, taluni de' quali figurarono nelle faccende
in questione: basta citare p. es. da un lato lettere autografe di
Mario del Tufo notissimo amico del filosofo, e d'altro lato
lettere autografe nientemeno che di D. Loise Xarava suo
implacabile persecutore, e poi lettere del Principe di Bisignano,
di D. Lelio Orsini, del Duca di Vietri, nominati quali complici
della congiura etc.; e ne abbiamo trovate egualmente in altre
Filze intitolate appunto «Lettere di Napoli di particolari»,
sicchè ce n'è risultato un mucchio di notizie che serviranno nella
narrazione. Aggiungiamo che, pei tempi anteriori alla congiura,
abbiamo trovato una lettera del Battaglino illustrativa della vita
del Campanella, e pe' tempi della congiura abbiamo trovato nello
stesso Archivio Gazzettini ed Avvisi, dei quali si parlerà più
sotto. - Avvertiamo infine che non abbiamo mancato di rovistare in
Firenze l'Archivio d'Urbino, oggi posto accanto al Mediceo, ma ci
è accaduto trovarvi soltanto notizie di particolari; e la cosa
medesima diciamo qui di passaggio relativamente all'Archivio di
Torino.
IV. Carteggio del Residente Veneto in Napoli col suo Governo. -
Questo Carteggio costituito da' dispacci che erano spediti al
Ser.mo Principe dal Residente Veneto, il quale fu Gio. Carlo
Scaramelli a tempo della congiura e de' processi, e poi Anton
Maria Vincenti per alcuni anni successivi, trovasi nell'Archivio
a' Frari tra le scritture dette «Senato-Secreta» sotto la rubrica
«Napoli», e per l'anno 1599 e seguenti reca i n.i 15 e seguenti.
Il Mutinelli, nella sua Storia arcana ed aneddotica, pubblicò
solamente 10 lettere o brani di lettere concernenti la congiura e
i congiurati, tratte da questo Carteggio pel periodo compreso tra
il 14 settembre 1599 e 7 febbraio 1600: noi abbiamo cominciato lo
spoglio del Carteggio da alcuni anni prima e l'abbiamo continuato
per varii anni dopo, badando pure alle notizie sull'armata turca,
che essendo stata ritenuta un elemento essenziale della congiura
meritava tutta l'attenzione; e così abbiamo più che raddoppiato il
numero de' documenti, oltre all'aver restituito alla loro
integrità quelli già noti. È superfluo poi dire che molte
importanti notizie relative a quei tempi si cavano dal Carteggio,
studiato non pe' soli anni 1599-1600, anche circa le cose che non
parrebbe aver dovuto richiamare gli sguardi del Residente, p. es.
circa le lotte giurisdizionali in Calabria: ma nulla sfuggiva a'
Residenti, bensì, pel troppo entrare ne' particolari, essi non di
rado riuscivano inesatti, salvo il caso in cui gl'interessi di
Venezia fossero direttamente impegnati. Notiamo di aver fatto
anche ricerche nel Carteggio de' Residenti co' Capi del Consiglio
de' Dieci e con gl'Inquisitori di Stato, ma senza frutto.
V. Carteggio dell'Ambasciatore Veneto in Roma col suo Governo. -
Essendo corse trattative in Roma per la faccenda del Campanella,
da parte del Vicerè mediante l'Ambasciatore di Spagna, abbiamo
reputato conveniente percorrere anche i dispacci dell'Ambasciatore
Veneto in Roma, che pel 1599-1600 fu Giovanni Mocenigo, dispacci
conservati egualmente tra' «Senato-Secreta» sotto la rubrica
«Roma» co' n.i 43-45. Ed abbiamo trovato due brevi notizie, non
inutili per la nostra narrazione.
VI. Carteggio del Bailo da Costantinopoli ed Avvisi di Levante. -
L'importanza delle notizie sull'armata turca per ciò che si volea
tentare in Calabria, e il fatto della fuga a Costantinopoli di uno
de' capi dell'impresa, fra Dionisio Ponzio con un altro frate
ritenuto complice, ci hanno deciso a rovistare anche i dispacci
dei Baili, che furono a que' tempi il Capello ed il Gradenigo, e
poi il Nani e il Contarini, ma prendendo note su varii anni, anche
per acquistare nozioni precise intorno al Bassà Cicala. Abbiamo
scorsi i bellissimi Rubricarii e poi anche i Dispacci originali
conservati nei soliti «Senato-Secreta»; ma abbiamo veduti inoltre
i così detti Codici Brera, che si conosce esser passati da Milano
a Venezia dietro ordine del Governo austriaco, per gli Avvisi che
Venezia comunicava a varii Governi e tra gli altri a quello
Vicereale di Napoli. L'aspettativa non è stata delusa: abbiamo
raccolto un importante dispaccio e varie notizie tanto pel volume
de' documenti quanto per le note su' fatti della narrazione.
VII. Gazzettini ed Avvisi di Roma. - Il valore che altrettali
documenti vanno acquistando, sebbene troppo spesso riescano utili
per la buona intelligenza dello stato della pubblica opinione a
tempo di un fatto notabile più che per la precisa conoscenza del
vero, ci ha spinti alle più attive ricerche di essi. Ne abbiamo
trovati dovunque, ma di quelli dell'anno 1599 e seguenti, con
notizie sulla faccenda del Campanella, solo in tre luoghi e sotto
questi titoli: Lettere di Fr.co Maria Vialardo dirette al Sig.r
Giovanni Galletti (pseudonimo ovvero ufficiale del Gran Duca)
conservate nell'Archivio Mediceo; Avvisi di Roma della Cancelleria
Estense, mandati in servigio di casa d'Este, conservati
nell'Archivio di Modena; ed ancora Avvisi di Roma della collezione
Urbinate, in servigio de' Duchi di Urbino, oggi esistenti nella
Biblioteca Vaticana. Le lettere del Vialardo, un cavaliere
torinese male andato, che scriveva anche pel Duca di Savoia, come
si rileva da alcuni frammenti de' suoi Avvisi che abbiamo trovati
nell'Archivio di Torino, son veri «Gazzettini» di Avvisi, e con
tal nome si trovano qualificate nello Spoglio dell'Archivio
Mediceo; dànno le notizie più stravaganti, e riescono assai
curiose per questo. Gli Avvisi della Cancelleria Estense sono più
pochi e sobrii, mentre quelli della collezione Urbinate sono più
numerosi e pieni; gli uni e gli altri recano nomi di congiurati da
doversi notare, ma del resto contengono sempre grosse sciocchezze,
e basta dire che si chiudono con la notizia che il Campanella
venne finalmente appiccato! Non sarà per altro inutile conoscere
anche questo.
VIII. Atti Amministrativi e giudiziarii esistenti nel Grande
Archivio di Napoli. - Abbiamo raccolti in questo gruppo non meno
di 32 documenti inediti, costituiti da ordini del Governo venuti
fuori per la congiura e pe' congiurati, sia allo scopo della
repressione e gastigo degl'incriminati, sia per la premiazione de'
persecutori. Alcuni possono dirsi veramente Atti processuali,
giacchè senza dubbio gli originali di essi furono inserti nel
processo: tali sono gli ordini circa la costituzione del tribunale
pe' laici, e circa la forgiudicazione di varii contumaci. Uno poi
deve dirsi essenzialmente Atto processuale, ma fu già edito, la
Denunzia de' 5 di Catanzaro, che ora trovasi nell'Archivio e che
riproduciamo, dovendosi correggere in più punti e massime riguardo
ad alcuni nomi. I documenti inediti sono stati rinvenuti ne' più
svariati generi di scritture e Registri, in quelli così detti
Curiae, in quelli Notamentorum, Sigillorum, Privilegiorum,
Litterarum etc. Cinque di essi son costituiti da Lettere Regie,
delle quali si sarebbe dovuto trovare le minute in Simancas, e non
ci è occorso di trovarle, come non ci è occorso di trovare in
Napoli la Lettera della quale in Simancas esiste la minuta.
Adunque non solamente in Napoli si deplorano le lacune continue,
ma bisogna dire che in Napoli le lacune sieno state procurate fin
da' tempi del Vicerè. Questo fatto, che spiega come pe' negozii
politici di maggior rilievo l'Archivio riesca sempre quasi muto,
può bene dimostrarsi con uno de' documenti che pubblichiamo (Doc.
234); esso, al pari di varii altri dello stesso genere, è in copia
evidentemente mutilata, coll'attestazione del Segretario del
Vicerè che la copia concorda con l'originale. Da ciò si vede
esservi stato un altro luogo, l'Archivio particolare de' Vicerè
non pervenuto fino a noi, nel quale erano sepolti i documenti più
importanti, senza trasmetterli, o trasmettendoli in copie mutilate
nell'Archivio di Stato. - Anche qui poi s'intende che non è
mancata una grande quantità di documenti e notizie, che troveranno
luogo nel corso della narrazione, avendocene fornito i detti
generi di scritture e diversi altri, a cominciare dalle
Numerazioni de' fuochi e da' Registri Partium, senza contare i
documenti riferibili alle cose del Campanella ne' tempi anteriori
e posteriori a quelli della congiura e de' processi. Veramente
anche da quest'ultimo lato avrebbe dovuto trovarsi qualche cosa di
più, e sebbene dalle scritture viste ci sia noto esservi stati
Registri Secretorum non giunti fino a noi, questo solo motivo non
riesce a soddisfarci. La nostra impressione nello studiare le
scritture dell'Archivio è stata sempre questa, che oltre alle
tante rincrescevoli lacune, originarie per l'esistenza
dell'Archivio segreto e fortuite pe' molti incendii e le varie
devastazioni accadute durante i tumulti popolari, ve ne sieno
state anche altre procurate posteriormente, quando si credè buon
sistema di governo sopprimere perfino la storia di questo paese
tanto disgraziato. Difatti, non appena si giunge al periodo di
qualche avvenimento storico un poco importante, si può esser certi
che s'incontrerà una lacuna e non nelle sole scritture essenziali;
tuttavia son rimaste sempre notizie svariatissime sulle persone e
sulle cose di ciascun periodo, da farne acquistare una nozione
spesse volte considerevole. Così nelle faccende del Campanella,
da' più elevati personaggi a' più bassi malfattori e fuorusciti
che vi si trovano nominati, dalle più alte quistioni
giurisdizionali alle più umili pratiche di amministrazione
verificatesi nel tempo della congiura e de' processi, tutto vi
riesce, più o meno, convenientemente illustrato.
IX. Atti delle esecuzioni registrate nell'Archivio de' Bianchi di
giustizia. - Due documenti abbiamo rinvenuti in questo bellissimo
Archivio, che non è aperto al pubblico, per le indiscrezioni
rincrescevoli alle quali le ricerche su' giustiziati potrebbero
dar luogo. Esso fu ricercato dall'Abate Cuomo pe' giustiziati de'
tempi di Masaniello, e i relativi documenti si leggono manoscritti
nella Biblioteca che l'Abate generosamente donò al Municipio di
Napoli; ma non sappiamo che alcuno abbia mai pensato a farvi
ricerche pe' giustiziati del tempo del Campanella. I documenti non
sono che due, perché due soli furono i calabresi giustiziati in
Napoli coll'assistenza della Confraternita de' Bianchi, mentre sei
altri furono giustiziati coll'assistenza de' PP.i Ministri
degl'infermi, come risulta da notizie autentiche. Nel primo de'
detti documenti si leggeranno con interesse le «escolpazioni», nel
secondo i nomi degli assistenti a ben morire, oltre qualche
circostanza speciale dell'esecuzione. Non abbiamo poi mancato di
raccogliere un terzo documento, relativo al supplizio di un altro
individuo, già processato per la congiura e l'eresia, carcerato
col Campanella e in istrette relazioni con lui, liberato e poi di
nuovo processato e condannato per altra causa; ma tale documento,
escluso dal presente gruppo, è stato incidentalmente registrato a
parte nella narrazione.
X. Atti giudiziarii circa gli ecclesiastici incriminati di
congiura, esistenti nelle Scritture Strozziane di Firenze. -
Abbiamo già avuta occasione di menzionare questi documenti, e di
dire che per la maggior parte di essi il Palermo pubblicò soltanto
una «esposizione delle cose principali», ond'è che si può
considerarli veramente quasi tutti inediti. Furono rinvenuti nel
Codice Strozziano n. nuov. 330, intitolato «Casi strani», dove si
trovano alla rinfusa: l'importanza grandissima di essi ci ha
decisi a riordinarli e pubblicarli integralmente, anche a costo
d'incorrere nelle ripetizioni che vi si trovano con una certa
frequenza; come pure a non trascurare nemmeno gli editi, per
alcuno de' quali non manca la necessità delle correzioni. Nel
riordinarli abbiamo posto in primo luogo l'Elenco degl'incriminati
e il primo Breve del Papa, poi il Sommario dell'Informazione di
Calabria (atti veramente processuali), in seguito i Riassunti
degl'indizii per ciascun incriminato giusta la sua importanza e
qualità, con le Requisitorie e le Difese che per alcuni di essi ci
vennero conservate (atti puramente giudiziarii). Aggiungiamo che
uno studio delle citazioni de' folii del processo, registrate
sopratutto in questi documenti ed anche in taluni altri, ci ha
fatto ricavare uno «Schema del processo della congiura» che ne dà
un'idea sicuramente non disprezzabile. Abbiamo così potuto
scoprire che l'intero processo, o meglio l'intera serie de'
processi, col titolo di «tentata ribellione» componevasi di 4
volumi, de' quali i due primi comprendevano i processi di
Calabria, essendo Giudice Commissario Carlo Spinelli e Fiscale D.
Luise Xarava; gli altri due comprendevano i processi di Napoli,
l'uno pe' laici, condotto certamente da Marc'Antonio de Ponte con
D. Giovanni Sances fiscale assistito dallo Xarava, e l'altro per
gli ecclesiastici, condotto dal Nunzio Aldobrandini e da D. Pietro
De Vera, Commissarii Apostolici, col medesimo D. Giovanni Sances
fiscale; le numerose citazioni di folii, poste nel loro ordine
progressivo, rendono discretamente bene la fisonomia di ciascun
processo, e tutto ciò servirà anche a facilitare la ricognizione
de' documenti che potranno venir fuora nell'avvenire. Dippiù uno
studio de' nomi, registrati del pari in questi documenti ed in
altri ancora, ci ha fatto ricavare un «Elenco degl'incriminati
laici», che fa riscontro a quello degl'incriminati ecclesiastici e
dà un'idea notevole dell'estensione della congiura, o forse meglio
delle conseguenze della congiura. Questi due lavori figureranno
tra alcune Illustrazioni poste al sèguito dei Documenti.
XII. Apologia del Campanella. - Quest'Apologia, trovata dal Berti
nella Casanatense annessa agli Articoli profetali già scritti dal
filosofo in sua difesa e poi rifatti, non è stata pubblicata che
in sunto, essendo l'esemplare, per colpa dell'amanuense, troppo
scorretto. Avendone noi trovato un esemplare egualmente nella
Nazionale di Napoli, oltrechè in quella di Madrid, ma pure
scorretti, diamo nella loro integrità il testo dell'esemplare
Casanatense e di quello napoletano, perché si possono correggere
abbastanza bene l'uno con l'altro.
XIII. Processo di eresia con gli allegati e le poesie del
Campanella, ed altre scritture d'inquisizione. - Questo processo è
costituito egualmente da una serie di processi, a' quali può anche
darsi la denominazione di «processi ecclesiastici», sia perché
ecclesiastici per eccellenza, sia perché in tal guisa vedonsi più
volte menzionati dal Campanella. Esso è stato fornito, come
abbiamo già detto, da tre collezioni private, e si compone
essenzialmente di quattro volumi, con la giunta di un quinto di
allegati; ma a ciascuno de' volumi si possono unire altre
scritture staccate, che illuminano molto i fatti del Campanella e
socii ne' tempi de' processi e ne' tempi di poco posteriori. Così
ci troviamo di aver redatta la nostra Copia in sei volumi, che
danno materia a due tomi: e poichè tutte queste scritture son
rimaste affatto ignorate, tanto che il Berti si è lasciato perfino
dire sembrargli «dubbio che il tribunale ecclesiastico abbia
potuto trovare eresie nelle predicazioni del Campanella», crediamo
opportuno darne conto con una certa larghezza. La serie de'
processi fu cominciata in Calabria, primitivamente in Monteleone
da fra Marco da Marcianise Visitatore e da fra Cornelio di Nizza
suo compagno, poco dopo in Gerace dal Vescovo di Gerace unitamente
con questi stessi frati, e fu da ultimo menata innanzi e condotta
a termine in Napoli dal Nunzio, dal Vicario Arcivescovile e dal
Vescovo di Termoli, il quale poi, essendo disgraziatamente morto
durante il processo, fu sostituito dal Vescovo di Caserta. Si
ebbero quindi, essenzialmente, due processi di Calabria ed uno di
Napoli, ma per un'altra commissione data da Roma al Vescovo di
Squillace, se n'ebbe anche un altro detto di Squillace, condotto
indipendentemente dagli altri: il processo di Napoli, che fu
l'ultimo, venne compiuto in tutte le sue parti, cioè a dire,
secondo il costume del tempo, distinto in offensivo, ripetitivo, e
difensivo. Aggiungiamo che sulla coperta de' volumi, che
compongono tutta la serie de' processi, non si legge alcun titolo
relativo alla qualità dell'imputazione, come per solito si ha ne'
processi di S.to Officio; ma questa trovasi notata segnatamente
ne' Capitoli del fiscale napoletano con le parole «De haeretica
pravitate et atheismo», aggiuntovi inoltre «et relapsu». Dobbiamo
anche dire che in qualche vecchia carta di S.to Officio tutto il
complesso di questi Atti processuali trovasi talvolta indicato con
la denominazione generica di «Acta fratrum», rappresentando, anche
per la sola parte svolta in Napoli, un processo contro frati
straordinario, condotto da tre Curie riunite, quelle del Nunzio,
dell'Arcivescovo Diocesano e del Ministro dell'Inquisizione
Romana; ma eccone specificati i diversi volumi, col loro titolo
nell'ortografia originale.
I. «Processus formatus in provintia Calabriae contra fratrem
Thomam Campanellam, et alios fratres predictae provintiae ordinis
predicatorum, super non nullis ad Sanctum Officium pertinentibus».
Questo volume comprende l'inquisizione fatta dal Marcianise e dal
Nizza in Monteleone (dal 1° al 9 7bre 99), e l'altra dal Vescovo
di Gerace in Gerace unitamente con gli anzidetti (dal 13 al 19
8bre), entrambe condotte e scritte da fra Cornelio di Nizza;
inoltre un'informazione presa da un delegato del Vescovo di Gerace
contro il Clerico Cesare Pisano (13 7bre), la quale trovasi cucita
in fine del volume, e la ricognizione de' carcerati ecclesiastici
venuti in Napoli, fatta dal Rev. Antonio Peri fiorentino, Uditore
del Nunzio Jacopo Aldobrandini Vescovo di Troia, per parte di
costui nel Castel nuovo di Napoli (23 9bre). In questa
ricognizione per la prima volta figura un breve esame di fra
Tommaso, il solo fornito di firma autografa, perocchè gli esami
successivi coincidono col tempo della sua pazzia. - A questo
volume si possono unire due altre scritture importantissime, di
poco posteriori per tempo, esistenti in un volumetto separato col
titolo che segue:
«In hoc volumine sunt Denuntia Cesaris Pisani terrae Montis leonis
(sic) qui denuntiavit tam de se, et abiuravit tanquam hereticus
formalis, quam de infrascriptis fratribus videlicet, Fratre Thoma
Campanella, Fr. Dionisio Pontio, Fr. Josepho de bitonto, Fr.
Dominico de Stignano, et Denuntia Mauritii Rinaldi de Stilo (sic)
qui denuntiavit contra predictos Campanellam et fr. Dionisium
Pontium in rebus ad S. Officium pertinentibus». - Trattasi di due
dichiarazioni ad exonerationem conscientiae, fatte da questi due
infelici poco prima di essere giustiziati (15 gen. e 3 feb. 1600).
Sono scritte, come i volumi seguenti e tutto il complesso delle
altre carte, da Gio. Camillo Prezioso, Notario e Mastrodatti
ecclesiastico, che s'incontra tanto sovente ne' processi di S.
Officio di que' tempi.
II. «Secundus Processus offensivus compilatus in civitate Neapolis
contra fr. Thomam Campanellam et alios fratres ordinis
predicatorum et etiam Repetitivus contra eosdem». Questo titolo
dispensa da altre spiegazioni. Gli esami sono condotti
segnatamente dal Vescovo di Termoli fra Alberto Tragagliolo da
Firenzuola. L'offensivo va dal maggio all'agosto 1600: vi si
notano, tra gli altri, gli esami del padre e del fratello del
Campanella che vennero egualmente carcerati, gli esami del
Campanella che mostrasi pazzo, con l'atto del 1° tormento di
un'ora di corda permesso dal Papa per conto dell'eresia; inoltre
una nuova denunzia intorno ai rapporti, molto confusamente noti,
fra lui ed un Ebreo astrologo nella sua prima gioventù, e
naturalmente rifulgono molte circostanze della sua vita passata,
fra le altre quella di un processo precedente avuto nel 1591, del
tutto ignorato finoggi e tale da aggravare estremamente la sua
condizione giuridica. Il ripetitivo, dietro i Capitoli di accusa
del fiscale, e gl'Interrogatori dati dagli Avvocati, va
dall'agosto all'8bre, e comprende le Ripetizioni de' testimoni
contro il Campanella, contro fra Gio. Battista di Pizzoni e contro
fra Dionisio Ponzio, terminando co' giuramenti de' rispettivi
avvocati difensori. Uno de' più curiosi documenti vi è alligato,
la relazione di due dialoghi passati di notte tra il Campanella,
già dichiaratosi pazzo, e fra Pietro Ponzio suo amicissimo,
raccolti da scrivani mandati a spiarli; questa relazione è inviata
in copia dall'altro tribunale, e fa quindi parte del processo
della congiura. Vi è alligato inoltre uno specchietto di appunti
critici fatti dal Vescovo di Termoli alle diverse deposizioni fin
allora raccolte.
III. «In hoc volumine sunt: Tertius: Defensiones fratris Dionisii
Pontii, Defensiones fratris Jo. Baptistae de Pizzone, Comparitio
fratris Petri de Stilo declarantis nolle facere defensiones et
expediri, Informatio capta de furore Campanellae. Copia
informationis captae per Ill.m et Rev.m episcopum Squillacensem
etc., Summarium factum in S.to Officio de Urbe... in causa fratris
Thomae Campanellae et aliorum fratrum ordinis predicatorum pro
causa ad S.m Officium spectante». Anche qui il titolo dispensa
dalle spiegazioni. Il processo difensivo va dal 7bre al 9bre 1600,
e vi si fanno notare gli esami a difesa di fra Dionisio,
accompagnati da parecchie copie di documenti provenienti
dall'altro tribunale; gli esami a difesa di fra Gio. Battista di
Pizzoni, seguìti da altri fatti più tardi per accertarne la morte
avvenuta nel carcere; gli esami di 10 testimoni che affermano la
pazzia del Campanella, onde per lui non si può più procedere agli
esami difensivi. Nel Sommario di tutta la causa redatto in Roma
(giacchè sempre si mandavano a Roma tutte le carte de' processi di
S. Officio che non erano addirittura lievissimi, e di là se ne
dirigevano le fila e s'inviavano le condanne o le assoluzioni
deliberate in Congregazione) si fanno notare diversi appunti sul
processo, un cenno di diverse irregolarità, contradizioni e dubbi,
e da per tutto il più grande interesse per la verità. - A questo
volume si può anche riferire un altro fascio di scritture analoghe
ed importantissime, che non fanno propriamente parte del processo
e sono di altra provenienza, essendo state trovate fra le carte
rimaste presso il Vescovo di Caserta, che sostituì come giudice il
Vescovo di Termoli morto durante lo svolgimento della causa.
Eccone il titolo: «Summaria facta in urbe, et neapoli per Dom.
Benedictum Mandina Episcopum Casertanum bonae memoriae. -
Reassumptum inditiorum et aliorum quae videntur constare... contra
subscriptos Fratres carceratos tanquam complices Fratris Thomae
campanellae, et quae in eorum defensione ponderantur». - Sono i
Sommarî completi de' processi non solo offensivi ma anche
difensivi; e in essi gli appunti non si limitano agli andamenti
de' processi, ma si estendono alle persone de' primi processanti
Marcianise e Nizza, e vi si citano inoltre i giudizî del fu
Vescovo di Termoli desunti dalle lettere da lui scritte a Roma.
Dippiù sono i Riassunti degli indizî co' voti dei Giudici,
riferendosi il voto di ciascuno, contro fra Pietro Ponzio, fra
Paolo della Grotteria, fra Giuseppe Bitonto, fra Pietro di Stilo,
fra Domenico di Stignano, fra Silvestro di Lauriana e fra Dionisio
Ponzio, i soli frati rimasti giudicabili, mentre il Campanella con
la sua pazzia si sottraeva al giudizio. Evidentemente questi
Riassunti co' voti dei Giudici si mandarono a Roma e servirono di
base alla deliberazione della Sacra Congregazione: e vi è annessa
la Lettera del Card.l Borghese che partecipa tale deliberazione
mandata in copia al Mandina, la quale presenta qualche leggiera
variante a fronte di quella già conosciuta e ripetuta anche nel
volume seguente.
IV. «Quartus processus compilatus in causa fratris Thomae
Campanellae et aliorum fratrum ordinis predicatorum inquisitorum
et carceratorum pro causis ad Sanctum Officium spectantibus, post
commissionem admodum Illustris et Rev.mi domini episcopi
Casertani». - Questo volume importantissimo, rinvenuto più tardi
in un'altra collezione, rappresenta l'ultimo periodo della causa,
che pel Campanella corre dal marzo 1601 al gennaio 1603. Oltre
alcuni nuovi articoli addizionali contro di lui, esso reca le sue
difese scritte, presentate da fra Pietro di Stilo come già
composte prima della pazzia, ricopiate da altri e fornite di
aggiunte e correzioni di mano di fra Tommaso: queste consistono in
una elaborata arringa e negli Articoli profetali, e riguardano
propriamente il fatto della congiura. Reca inoltre il terribile
atto del tormento della veglia, durato 36 ore, che fu ordinato dal
Papa in Congregazione per scovrire la simulazione della pazzia, e
non già dato dall'altro tribunale per la ribellione come finora si
è creduto. Reca i certificati de' medici intorno alla pazzia
scritti dopo il tormento. Reca l'incidente di una rissa accaduta
tra frati e laici nelle carceri, dopo la quale si fece una ricerca
e si rinvennero molte scritture di diverso genere, carte di
sortilegio, corrispondenze, poesie, e tra queste le poesie del
Campanella raccolte da fra Pietro Ponzio. Reca ancora nuovi esami
in difesa di fra Dionisio, che presenta sempre nuovi articoli
prima di fuggirsene dalle carceri; tra questi esami quelli
relativi ad una voluta ritrattazione del Pizzoni prima che
morisse. Reca infine l'informazione sulle scritture trovate, la
deliberazione venuta da Roma intorno al Campanella e agli altri
frati, e le sentenze pronunziate. - A questo volume vanno uniti i
conti della spesa delle ultime somme di danaro, le quali si
facevano venire da' conventi di Calabria per sussidio de' frati,
essendo i compagni del Campanella rimasti in carcere fino al
giugno 1604.
v. «Scripture (sic) seu secreta manu scripta prohibita inventa in
archa fratris Dionisii Pontii in Castro novo cum relationibus
Rev.di Theologi de illorum qualitatibus». - È questo un volume di
allegati al processo, che comprende tutte le scritture trovate
presso i carcerati, e non solamente quelle che stavano nella cassa
di fra Dionisio; ve ne sono perfino alcune trovate già in Castello
dell'ovo presso Felice Gagliardo, uno de' complici nella congiura.
Specialmente a questo giovane di vivacissimo ingegno, ma di animo
guasto, appartengono diverse scritture di sortilegi,
corrispondenze con fuorusciti di Calabria, e certe curiose
produzioni letterarie, poesie in italiano ed in dialetto
calabrese. Ma la parte cospicua del volume è rappresentata da 82
poesie del Campanella, delle quali soltanto 14 o 15 sono
conosciute ed anche con varianti. Esse riescono di un'importanza
grandissima specialmente per la storia, avendo d'altra parte quasi
tutte ben poco valore letterario.
- Dànno poi materia per un VI. volume le scritture seguenti, anche
di S.to Officio, che non fanno parte de' processi del Campanella,
ma vi stanno bene come appendice, illustrando la vita di lui, de'
frati e di alcuni laici implicati nella congiura.
a. - «Contra Horatium Santa Croce de Civ. hieracensi Prov.
Calabriae, Felicem Gagliardum predictae Civ.is hieracensis
carceratum in Castro novo, qui scripsit, et transcripsit secreta
et alia scripta, descripta et contenta in actis fratrum, et que
fuerunt reperta in archa fratris Dionisii Pontii». - È un processo
intorno alla rissa e alle suddette scritture trovate in Castello;
vi sono uditi diversi frati, e finisce coll'abilitazione del S.ta
Croce, e col tormento, coll'abiura e coll'abilitazione anche del
Gagliardo. Va dal 13 gen.° 1602 al 2 marzo 1604.
b. - «Denuntia magna facta in magna Curia Vicariae de quam
pluribus heresibus de se et aliis, tempore quo erat condennatus ad
ultimum supplicium, per Felicem Gagliardum de Civitate
hieracensi». - Questa scrittura contiene particolari curiosissimi
e gravi intorno al Campanella, pel tempo nel quale trovavasi con
lui carcerato il Gagliardo, essendo costui tornato in potere della
giustizia per un omicidio commesso dopo la sua liberazione. È del
5 luglio 1606.
c. - «Informatio capta per Rev. Vicarium Civ. Neocastri prov.
Calabriae ulterioris contra fratrem Petrum Pontium ordinis
predicatorum ejusdem civitatis». - Riguarda uno scandalo dato da
fra Pietro dopo la sua liberazione, avendo in Chiesa pubblicamente
protestato contro un Cappuccino che predicava l'Immacolata
Concezione. Caratterizza fra Pietro, chiarisce il credito di
questi frati dopo il processo, dà qualche notizia di fra Dionisio
fuggito in Turchia. Va dal dic.e 1604 al gen.° 1605.
d. - «Contra fratrem Petrum Calabrum ordinis predicatorum
carceratum in carceribus Castri novi, et fratrem Andream Casalis
Corsani ordinis S. Augustini carceratum in carceribus Magnae
Curiae Vicariae». - È un processo in sèguito della denunzia di un
Lelio Macro di Pietrafitta già carcerato in Castel nuovo e
condannato a morte per altre cause, il quale dà per fatto, ovvero
anche finge, che un fra Pietro Domenicano (sicuramente fra Pietro
di Stilo) avea voluto indurlo a credere molte eresie. Vi sono
notizie del Campanella, anche per parte di altre persone di Stilo
che vennero esaminate. Va dal luglio all'agosto 1605.
Come si vede, dal lato de' Processi dell'eresia la raccolta
potrebbe dirsi perfino esuberante; non di meno vi si fa desiderare
ancora qualche cosa: 1.° l'Informazione commessa da Roma e presa
dal Vescovo di Squillace, poichè quella inserta nel vol. 3.° è
supplementare, commessa dal Vescovo di Termoli per ulteriori
chiarimenti; 2.° il Carteggio con Roma del Vescovo di Termoli, e
di poi anche del Vescovo di Caserta, nel corso del Processo di
Napoli. Fortunatamente i Sommarî ci dànno le cose importanti
dell'Informazione e del Carteggio del Vescovo di Termoli: ma giova
sapere che c'è questa lacuna, comunque fino ad un certo punto,
affinchè nelle ulteriori ricerche si tenti di colmarla. Le carte
del Vescovo di Caserta sono andate disperse in guisa, da potersi
attendere di trovarne qualche fascio dove meno si pensi. È
manifesto frattanto che riescirebbe impossibile dare alle stampe
tutto ciò che si è di sopra accennato: non vi sarebbe il
tornaconto, e però dobbiamo limitarci a darne i pezzi più
rilevanti. Così ci siamo prefissi di non tralasciare alcuna delle
scritture che riflettono essenzialmente la persona del Campanella,
aggiuntevi quelle che riflettono almeno fra Dionisio Ponzio;
giacchè tutte le scritture veramente convergono al Campanella, e
mostrandosi lui ben presto pazzo, figurano per lui coloro che lo
circondano. D'altra parte ci siamo prefissi di non tralasciare
alcuna delle scritture trasmesse dal tribunale della congiura a
quello dell'eresia, perché si cominci ad avere un piccolo nucleo
di documenti interi anche del processo della congiura. Del resto,
pel desiderio di riuscire fedeli espositori, ci siamo sempre
ingegnati di riportare nella narrazione brani testuali di
qualunque documento, sicchè non si sentirà in modo assoluto la
mancanza di quelli che si omettono; ed avendo deciso che un giorno
o l'altro la nostra Copia ms. de' processi debba prender posto in
qualcuna delle pubbliche Biblioteche, ci è parso di poterla
talvolta citare, allorché nella narrazione accada di avere ad
esporre fatti contenuti in documenti che rimarranno inediti. Per
fare poi acquistare una piena nozione di tutto il processo e delle
altre scritture di S.to Officio che vi si connettono, abbiamo
stimato conveniente pubblicare l'indice particolareggiato della
nostra Copia ms., costituendone una delle Illustrazioni poste al
sèguito de' Documenti.
XIV. Due altri Discorsi inediti del Campanella sopra l'aumento
dell'entrate del Regno. - Queste scritture, come quella che segue,
appartengono già al periodo in cui la conchiusione del processo
della congiura rimaneva sospesa nella sola persona del Campanella,
ed egli tentava tutte le vie per non rimanere dimenticato. In un
codice della Casanatense fu già trovato dal Dragonetti, e poi
pubblicato dal D'Ancona, un «Arbitrio o Discorso primo sopra
l'aumento dell'entrate nel Regno di Napoli», che si sa aver
rappresentato originariamente una delle proposte fatte fare dal
Campanella in suo nome al Vicerè; ma al sèguito di questo Discorso
primo ve ne sono ancora nello stesso codice due altri qualificati
secondo e terzo, che rappresentarono altre proposte analoghe,
sempre allo scopo di far guadagnare al Re, con ciascuna di esse,
100 mila ducati. Non sappiamo come mai questi Discorsi siano stati
negletti fino a rimanere ignorati; è possibile che non siano stati
ritenuti di un merito eguale a quello del Discorso primo; ma per
la storia del Campanella il merito non è diverso, e quindi li
pubblichiamo, con alcune correzioni delle mende lasciatevi
dall'amanuense.
XV. Le promesse fatte dal Campanella per riacquistare la libertà;
lettera al Card.l S. Giorgio. - Questo documento, con altri
analoghi, fu già pubblicato dal Centofanti, e le necessità della
nostra narrazione ci spingono a ripubblicarlo. Ci occorre mettere
sotto l'occhio de' lettori così le promesse, come l'elenco de'
libri composti dal Campanella fino al 1606, e la versione da lui
adottata per la faccenda della congiura e dell'eresia. La lettera
al Card.l S. Giorgio, il quale figura anche molto nella nostra
narrazione, ne dà notizie sufficienti.
Son questi i documenti de' tempi della congiura e de' processi;
seguono poi gli altri pochi relativi a' tempi posteriori, trovati
nell'Archivio di Napoli, nella Biblioteca nazionale di Madrid,
nell'Archivio di Modena e finalmente nell'Archivio particolare di
S.A.R. il Duca d'Aosta, dove è noto che si conserva l'Epistolario
inedito di Cassiano del Pozzo, in cui, oltre alle lettere
autografe del Campanella pubblicate già dal Baldacchini, se ne
hanno pure altre di qualche amico intimo del filosofo con notizie
capaci d'illustrarne la storia. Dobbiamo pertanto dire che avremmo
desiderato di pubblicare inoltre la Narrazione del Campanella
ripristinata nella sua lezione, e almeno in parte i documenti che
si contengono nell'Epistolario inedito di Giovanni Fabre venuto in
proprietà dell'Ospizio degli Orfani di Roma: ma non ci è riuscito
di effettuare il nostro desiderio. La Narrazione del Campanella,
che offre con tanti particolari i fatti e le circostanze della
congiura e de' processi secondo la versione della difesa, avrebbe
trovato posto degnamente tutt'intera e riveduta a lato de'
documenti secondo la versione dell'accusa. Essa fu pubblicata dal
Capialbi con molte lacune, nelle quali si legge «qui il ms. è
inintelligibile»: in sèguito, durante il breve respiro di libertà
del 1848, venne fuori un foglio volante, col quale si avvertivano
i lettori della Narrazione, che il Regio Revisore aveva di suo
arbitrio posto in tanti luoghi essere il manoscritto
inintelligibile sopprimendo le parole e le frasi del Campanella, e
si davano queste parole e frasi soppresse. Il Palermo, nel
ripubblicare la Narrazione, avea già cercato di riempire le lacune
con frasi plausibili, ma esso non riuscirono sempre felicemente,
come di poi si è potuto vedere; d'altra parte il foglio volante
non è punto pervenuto a tutti i lettori della Narrazione. Queste
circostanze, e l'altra del dubbio circa l'essere o non essere lo
scritto autografo, come pure il bisogno di rivederne interamente
la lezione e studiarne tutte le accidentalità che sempre possono
rivelare qualche cosa, ci hanno fatto insistere per più anni
presso gli eredi Capialbi, perché ci permettessero di darvi
un'occhiata e prenderne una copia per ripeterne la pubblicazione,
facendo noi una corsa in Calabria a tale oggetto: ma abbiamo
invano atteso una risposta concludente, e ci siamo rassegnati a
desistere, rimanendo a vedere quando gli eredi Capialbi sentiranno
ciò che debbono alla memoria del loro benemerito antenato ed al
loro cognome. Circa i documenti dell'Epistolario di Giovanni Fabre
riferibili al tempo compreso tra il 1607 e il 1615, sono oramai
non meno di tre anni che il Berti ne fece l'annunzio all'Accademia
de' Lincei; e l'Amministrazione dell'Ospizio degli Orfani si nega
perfino a concederne la lettura, per deferenza al Berti che dovrà
pubblicarli. Noi intendiamo questa delicatezza: frattanto non ha
guari il Berti si è deciso a pubblicarne solamente cinque, con un
racconto fondato sulle notizie che ha rilevate negli altri.
Bisognerà dunque attendere ancora, e sottostare pur sempre al
rischio di qualche facile smentita, trattando di un periodo pel
quale i documenti ci sono, ma non sono accessibili a noi.
Fortunatamente il nostro tema non si estende sino al detto periodo
in un modo essenziale, ed attenendoci alle cose finora esposte dal
Berti, semprechè non ci apparisca evidente il contrario, possiamo
riposare tranquilli. Decisi per altro a ripigliare la penna
all'occorrenza, quando non ci verrà più negato di vedere questi
documenti con gli occhi nostri, pubblichiamo quelli da noi trovati
riferibili agli anni successivi, perché chiunque voglia possa
profittarne.
Non lasceremo poi il tema de' documenti, senza dichiarare che per
quanto ci è stato possibile abbiamo cercato di rispettarne
l'integrità, ed in ogni caso ne abbiamo rispettata scrupolosamente
la forma. Perfino le frasi curialesche, la presenza del tale e non
del tal altro Giudice in un interrogatorio, insomma le menome
particolarità che sembrerebbero superflue, hanno non di rado la
loro importanza, e possono offrire al critico materia di notevoli
considerazioni; laonde abbiamo stimato opportuno piuttosto
limitare il numero de' documenti che mutilarli. D'altro lato
conoscendo che coloro i quali sono avvezzi a farne oggetto di
studio vi leggono molte altre cose al di là delle notizie che essi
contengono, abbiamo stimato indispensabile darli nella precisa
lezione nella quale li abbiamo trovati; e sarebbe assai
rincrescevole, se dopo di aver fatto lungamente i maggiori sforzi
per riprodurli con fedeltà, sino ad aver reso un po' vacillante la
propria ortografia, dovessimo incontrarne biasimo anzichè lode.
Aggiungiamo pure che dietro siffatto principio non ci siamo
nemmeno trattenuti dall'adoperare nel corso della narrazione voci
e maniere del tempo, che sappiamo bene non essere ammesse nel
linguaggio purgato; serbare la fisonomia del tempo ci è sembrato
desiderabile sopra ogni altra cosa. E pe' documenti inserti nel
corso della narrazione abbiamo preferito di abbondare, come
abbiamo preferito di abbondare nelle citazioni e nelle ricerche
intorno agl'individui che in qualunque modo abbiamo trovato
nominati nelle cose del Campanella. I nomi e i fatti di altrettali
individui possono sempre dare adito a ritrovamenti ulteriori: le
carte di famiglia anche degl'individui meno elevati, come si è
visto p. es. nel caso di Gio. Battista Sanseverino, tanto più gli
Archivi privati delle famiglie nobili, possono riuscire sorgenti
di scritture perfino di primaria importanza. E però non abbiamo
esitato ad addentrarci anche nelle genealogie e parentele di
queste famiglie, convinti che se ne sarebbe avuto ad un tempo la
nozione chiara delle persone ed un possibile fonte di nuovi
documenti.
III.
Ci rimane a dire de' criterii a' quali ci siamo ispirati, e
dell'andamento che abbiamo dato alla nostra narrazione.
I criterii principalissimi sono stati segnatamente due: tener
sempre innanzi agli occhi le condizioni de' tempi, badando di non
presentare e giudicare gli uomini e le cose come se fossero de'
tempi attuali; non perdere mai di vista che trattasi di quistioni
estremamente ardue, badando di venire a qualche affermazione
solamente dietro analisi o critiche minute. Non occorrerebbe dire
tutto ciò, ma non è colpa nostra se ci sentiamo obbligati a
ricordarlo, mentre a proposito de' fatti del Campanella lo vediamo
posto in dimenticanza, tanto che ci apparisce necessario fare
alcune considerazioni sull'argomento anche da questo lato.
Cominciando dalle pratiche della congiura, naturalmente si ha che
il Campanella dovè trovarsi in mezzo a frati sbrigliatissimi, in
mezzo a fuorusciti con le mani lorde di sangue e di rapina; e tale
fatto ha potuto e potrebbe ancora dare a taluni motivo di
scandalo. Ma oltrechè in un disegno d'insurrezione erano in grado
d'intervenire soltanto persone manesche e poco timorate, non deve
sfuggire che molto tristi erano allora generalmente i costumi de'
frati, molto tristi i costumi delle persone che aveano un po' di
forza nel braccio, tanto più se appartenenti a classe elevata e
nobile. A noi è sembrato di sognare quando abbiamo letto nel libro
della Colet, che «i conventi erano allora l'asilo de' più grandi
spiriti», e parimente nell'opuscolo dell'Angeloni Barbiani, che
«mentre tutto il laicato cadeva o infiacchiva... una vita nuova
s'agitava nei monasteri e la bianca lana di S. Domenico era
segnale di risorgimento e di moto». Il laicato non era tutto
fiacco, e se in molta parte era fiacco ed anche tristo, ciò
accadeva per l'influenza predominante de' monasteri; né i
monasteri vanno giudicati per la presenza in essi di qualche rara
individualità, che d'altronde vi stava assolutamente a gran
disagio, come si conosce appunto in persona del Campanella. Tra le
migliaia e migliaia di persone, che indossavano la cocolla, od
anche il ferraiolo nero de' clerici, per menare vita rispettata e
senza stenti, immune da' rigori delle leggi dello Stato e dal
pagamento delle tasse, doveano pure esservi persone colte e
persone amiche di libertà; tuttavia nel caso nostro se ne ebbero
in numero insignificante. Ma conviene persuadersi che il fra
Cristofaro del Manzoni, in tempi non molto lontani da quelli del
Campanella, fu veramente un riflesso della bella anima dello
scrittore, non il ritratto del frate del tempo, considerato anche
il caso raro del frate dabbene; e l'Innominato medesimo fu un tipo
eccezionale sotto il rispetto della sua qualità d'innominato,
mentre a' Signori prepotenti e carichi di delitti non dispiaceva
punto di essere chiamati col proprio nome e cognome, ma solo
volevano che il loro nome e cognome fosse pronunziato con gran
timore. Basta percorrere pochi volumi del Carteggio del Nunzio
Aldobrandini, per capacitarsi delle qualità de' frati in ispecie
Domenicani, e pochi volumi de' Registri Curiae, dell'Archivio di
Napoli, per capacitarsi delle qualità de' laici prepotenti in
ispecie nobili; se ne avranno alcuni tipi nel corso della
narrazione nostra, e si vedrà che il Campanella venne a trovarsi
in mezzo a persone relativamente assai meno triste, ed anche in
mezzo a persone molto dabbene.
Circa l'essenza stessa della congiura, si sarebbe voluto e si
potrebbe ancora volere la dimostrazione di una vasta trama, forse
anche con depositi bene accertati di fucili e di cannoni, in somma
con apparecchi tali da riuscire a combattere efficacemente un
colosso come la Spagna. Ma nessuna congiura, nessun tentativo di
ribellione, ha proceduto mai in tal guisa; né la gravità di una
congiura, e peggio anche l'esistenza di essa, va misurata co'
grandiosi apparecchi, i quali anzi, se sono grandiosi, menano a
farla sventare con la massima facilità. Analogamente ha potuto e
potrebbe ancora sembrare, che le prediche del Campanella sulle
vicine difficoltà nelle quali si sarebbe trovato il Governo, le
sue sollecitazioni a raccogliersi, ordinarsi ed armarsi, per
profittare di quelle difficoltà e venire ad un diverso ordinamento
dello Stato, fossero sfoghi innocui di un visionario, cose da
curarsi con la noncuranza. Ma anche se il paese avesse allora
goduto un regime di libertà, si può metter pegno che gli alti
Ufficiali dello Stato, i Consiglieri napoletani medesimi non che i
Magistrati, conoscendo il nesso che si stabilisce tra il pensiero
e l'azione, valutando le conseguenze del pervertimento de'
giudizii nelle moltitudini, non si sarebbero mai mostrati fino a
tal punto (chiamiamo le cose col loro nome) scioperati o sleali.
Noi che tendiamo a smarrire perfino la nozione etimologica della
parola Stato, noi che assistiamo all'applicazione della teorica
che sia lecito l'apostolato contro la forma di Governo esistente,
lecito il prepararsi ad un mutamento radicale di essa facendone
solo quistione di tempo e di opportunità, noi che professiamo
ottimo consiglio sempre il lasciar correre, lasciar fare, lasciar
passare, predicando poi con grande disinvoltura che è difficile,
difficilissimo il governare con la libertà, noi non possiamo
pretendere che il Governo, i Consiglieri e i Magistrati d'allora,
avessero dovuto pensare ed agire come noi. Trattandosi poi di una
dominazione straniera, è naturale attendersi che perfino un
tentativo appena adombrato sia stato ritenuto gravissimo, e subito
schiacciato da una repressione del tutto sproporzionata, con mezzi
e modi feroci: eppure si vedrà che la congiura del Campanella non
fu un tentativo appena adombrato.
Così la congiura come la repressione meritano pure di essere
valutate non solo in rapporto al tempo, ma anche in rapporto ai
luoghi ed alle circostanze. Vi furono trattative col Turco più o
meno spinte, non importa se condotte dall'uno più che dall'altro
degl'incriminati; vi furono al tempo medesimo insinuazioni che il
Papa avrebbe aiutato il movimento, che sollecito del benessere del
Regno, feudo della Chiesa, vi avrebbe messe le mani sue, e ciò
mentre i Vescovi, segnatamente in Calabria, si spingevano con
ardore incredibile nelle lotte giurisdizionali. Ecco più di quanto
occorreva perché non solo gli spagnuoli ma anche i Consiglieri
napoletani si mostrassero senza pietà, e la gente illuminata come
tutto il volgo, per diverse vie, negasse ogni simpatia a' poveri
incriminati, né solamente a' tempi della congiura, ma anche molti
anni dopo e perfino qualche secolo dopo. Si potè da parecchi, per
commiserazione verso un uomo straordinario, quando lo si vide
caduto in un abisso di miserie, negare che egli avesse concepito e
menato innanzi una congiura, ma non mai scusare questa congiura e
giustificare le circostanze che dicevasi averla accompagnata. Tali
circostanze meritano un'attenta ponderazione; gioverà quindi
fermarci un poco sopra di esse.
Si era ancora ben lontani da' tempi ne' quali abbiamo visto
principalmente i fautori della Curia Romana acquistare e
consigliare l'acquisto de' valori turchi, facendosi sostegno della
mezzaluna. Allora i turchi erano i nemici aborriti del nome
cristiano e della santa fede, da doversi sempre maledire e
combattere, né poteva perdonarsi a chi avesse solamente pensato a
stabilire qualunque maniera di relazioni intime con loro. Vero è
che molti e molti calabresi non la pensavano addirittura così, ed
andavano a rifugiarsi in Turchia per godervi la pace negata loro
in patria, sicchè nella sola Costantinopoli ve n'era una colonia
molto numerosa, la quale in gran parte lavorava nell'arsenale
turco, ed abitava «un grossissimo casale» fabbricato appunto da
Ucciali-Alì presso la casa sua e detto la «Calabria nuova», come è
attestato anche nella Relazione del Bailo Contarini. Ma tutti
costoro dall'universalità dei calabresi rimasti in patria erano
chiamati maledetti da Dio; e non occorre dire che da qualunque
ceto del rimanente del Regno, più o meno, si professava la
medesima opinione, e che gli spagnuoli la rincalzavano
potentemente, contribuendovi del pari il loro fanatismo religioso
ed il loro interesse. Vi fu quindi, allora e poi, un coro di
vituperii sugli sventurati calabresi, che aveano cercato di far
coincidere la loro insurrezione con l'ordinaria venuta autunnale
de' turchi verso le coste di Calabria, e di procedere d'accordo
con essi anche consentendo che occupassero qualche punto delle
coste; ciò fece dire avere i congiurati disegnato di dar la
Calabria in mano de' turchi, i quali, non bisogna dimenticarlo,
sino al principio di questo secolo erano tuttora temuti anche come
conculcatori della fede cristiana, comunque già da un pezzo
fossero in tramonto. Gli esempî storici addotti dal Baldacchini e
dal D'Ancona, per provare che diversi Principi cristiani e il Papa
medesimo più di una volta non si erano peritati di stringere la
mano a' turchi, e che quindi non era stata poi gravissima la colpa
del Campanella, se pure la commise, nel trattare accordi col
Cicala, potrebbero servire per uso nostro qualora noi ne
sentissimo il bisogno; ma non potranno mai servire ad attenuare il
fatto che Governo e paese, allora e poi, sentirono assai malamente
gli accordi del Campanella e de' patrioti calabresi co' turchi.
D'altro lato ancora peggiore fu l'impressione de' voluti accordi
col Papa, segnatamente nel ceto più colto, oltrechè negli
spagnuoli; e qui bisogna tener presenti anche le condizioni
speciali del Regno di Napoli. Se è vero che un paese, come un
individuo, deve avere un pensiero, un'aspirazione, uno scopo,
senza il quale gli è impossibile il vivere, l'unico pensiero che
sottrasse alla morte le Provincie napoletane può dirsi essere
stato la lotta contro le pretensioni e le cupidige della Curia
Romana, la quale ad ogni menoma occasione ripeteva essere il Regno
di Napoli un feudo della Chiesa, temporaneamente dato a governare
al tale o tal altro col permesso dei superiori, potersi sempre
ripigliare dalla Chiesa quando lo credesse; anche il Carteggio del
Nunzio Aldobrandini, ne' tempi di poco anteriori a quelli de'
quali ci occupiamo, mostra che la Curia si fece un dovere di
ricordarlo a proposito della difficoltà mossa dal Vicerè Conte di
Miranda intorno all'esazione delle decime senza il consenso del
Re. Questa lotta tenne accesa la lampada che per tante ragioni
avrebbe dovuto spegnersi; e non si possono leggere senza
commozione i documenti che attestano gli sforzi de' padri nostri,
tanto più meritevoli di ammirazione, in quanto che i Vicerè
spagnuoli, per quell'affettato fervore religioso che parve gran
mezzo di ottima educazione e fu lo spegnitoio di ogni sublime
ideale, li lasciavano sovente scoverti di rimpetto alla Curia; ed
essi con le loro hortatorie affrontavano le scomuniche, le quali
avevano a quei tempi un'efficacia notevole, e potevano anche
menare direttamente a un processo di eresia, per la massima allora
in corso che coloro i quali fanno i sordi nella scomunica dànno a
sospettare di essere eretici.
Non si trattava soltanto di custodire le ordinarie prerogative
dello Stato nelle ordinarie quistioni giurisdizionali, in ciò
altri Stati ancora, e massimamente Venezia, non tenevano allora
una condotta meno risentita della nostra; si era ognuno persuaso
avere gli ecclesiastici per divisa «tutto ci si deve e niente
dobbiamo», ringalluzzendo sempre co' fiacchi e ristando solo co'
forti, laonde a nessuno veniva in mente mai d'«ignorare» ciò che
essi facevano, di «non curare» gli sfregi quotidiani alle leggi
dello Stato. Ma qui in Napoli si trattava di qualche cosa di più,
si trattava di preservare l'esistenza medesima dello Stato,
minacciato di disfacimento e di assorbimento da parte della Curia.
Ognuno sapeva bene che due dinastie da potersi dire proprie, già
naturalizzate, aveano soccombuto per guerre mosse dal Papato; ed
erano sempre vive le ricordanze di un Papa, Paolo IV Carafa, che
ci aveva mossa direttamente una guerra di conquista; laonde la
vigilanza e l'oculatezza non parevano mai sufficienti, si
sospettava sempre altissimamente degli ecclesiastici, si riteneva
che essi fossero i veri e proprî nemici della patria. Si potrebbe
perfino dire che questa lotta d'indipendenza dalla Curia avesse
tenuti occupati gli animi in guisa, da attraversare per lungo
tempo i desiderî d'indipendenza dallo straniero, desiderî che non
mancavano punto, come l'attestano i parecchi documenti che ancora
ne rimangono malgrado la cura presa dagli spagnuoli per
distruggerli, e che sarebbe una buona azione evocare dall'oblio
nel quale giacciono; si sentiva la fatale necessità di cercare
nelle forze di una grande potenza quella tutela che le risorse
sole del Regno non bastavano a dare.
Ad ogni modo questa lotta senza posa, questa repressione delle
esorbitanze ecclesiastiche, meticolosa, accanita, incessante,
merita di essere meglio conosciuta ed apprezzata, e la narrazione
ci darà campo di mostrarne qualche cosa. Non era un rabbioso
pettegolezzo di avvocati, come talvolta è accaduto di udire da
persone pregevolissime ma non bene informate delle cose
napoletane, era il sentimento pungente della patria in pericolo; e
lo scopo fu raggiunto, e potrebbe sorriderne soltanto chi
giudicasse le cose con la scorta delle idee de' tempi nostri,
commettendo un solenne anacronismo. Lo Stato divenne ciò che
doveva essere, la personificazione della patria e il simbolo della
civiltà: a questo principio s'informò una schiera di dotti e
valorosi giuristi, e costituì una scuola che è il più gran vanto
del passato di Napoli, co' suoi pregi e co' suoi inconvenienti.
A questa scuola appartenne il Giannone, che non aveva odio
personale contro gli ecclesiastici, sibbene quel fondo di odio
sentito da tutti coloro i quali s'interessavano delle sorti dello
Stato e vedevano negli ecclesiastici i nemici della peggiore
specie: così, naturalmente, era vano attendersi, che il Giannone
avesse mostrato simpatia pel Campanella. Giurista positivo,
considerando le pretensioni di lui a riformare il mondo, dovea
reputarlo perfino un ignorante, «col capo pieno di varie fantasie,
portentosi delirî, sorprendenti illusioni». Difensore acerrimo
dello Stato, considerando le giaculatorie Papesche del filosofo e
i vaticini tratti dall'Apocalissi, da varî Santi e perfino dal
Responsorio di S. Vincenzo Ferrer, onde ritenevasi obbligato co'
suoi frati a predicare la santa repubblica, dovea reputarlo «un
grande imbrogliatore», dovea esser condotto a tirare al peggio
ogni cosa, dando il massimo peso alle accuse ed anche alle accuse
più grossolane senza curarsi d'altro; e se avea percorso gli
Articoli profetali e l'Apologia, come è possibile, avendovi letta
quella frase «nos dolis et mendaciis collusimus ad vitam
servandam», qual maraviglia che nella sua mente abbia potuto
sorgere quel concetto così crudamente espresso?
Con ogni probabilità, negli ultimi ed infelicissimi anni della
vita sua, egli dovè modificare moltissimo i suoi giudizî intorno
al povero frate da lui tanto severamente trattato; dovè
specialmente rincrescergli l'aver detto che «a lungo andare pure
seppe co' suoi imbrogli uscire dal carcere». Noi facciamoci un
dovere di non irritarci per le convinzioni altrui quando non le
dividiamo; e pel povero Giannone invochiamo piuttosto che si elevi
un segno, una memoria, un monumento, e meglio che altrove dinanzi
a quella cittadella di Torino ove patì quello strazio che aspetta
ancora un qualche lavacro espiatorio; la Monarchia medesima
dovrebb'esserne sollecita, poichè il confessare un errore non
offende ma rafferma l'opinione della nobiltà dell'animo. Intanto
l'avversione così profonda alla persona e all'impresa del
Campanella, durata ne' giuristi fino a' tempi del Giannone ed
ancora più oltre, fa ben comprendere l'avversione destata a' tempi
della congiura e quindi anche la feroce repressione che ne seguì.
L'aiuto che il Papa avrebbe dato all'insurrezione rappresentò una
di quelle fandonie, che vanno sempre sparse a piene mani quando si
tratta d'incitare ad un movimento insurrezionale; eppure il
Governo non ne dubitò menomamente, e sebbene avesse avuto ben
presto motivo di disingannarsi, i parecchi incidenti verificatisi
durante il processo ridestarono senza posa i sospetti e le
diffidenze, e così pure li ridestarono in sèguito le professioni
di fede Papesca, che il Campanella non cessò mai di fare quando
non vide altra possibile speranza di aiuto che nel Papa. Lo stesso
principio da lui continuamente svolto, che per un buono assetto
delle cose del mondo fosse necessario l'avere riuniti in una
persona sola il potere spirituale e il temporale, ciò che del
resto veniva a riferirsi egualmente al capo della repubblica da
lui concepita, doveva senza dubbio farlo apparire agli occhi delle
persone che s'interessavano alle sorti dello Stato un nemico
mortale del paese; e così possono bene intendersi certi rigori e
certi giudizii, apparsi sempre di difficile spiegazione.
Ciò che sinora abbiamo detto, circa la feroce repressione della
congiura, comprende naturalmente anche il processo; ma su questo
conviene del pari fermarsi un poco. Sarebbe strana pretensione
voler trovare nel processo l'osservanza delle infinite guarentige
che oramai circondano l'accusato, e che alla sensività morbosa e
alla svenevolezza de' tempi nostri non sembrano ancora bastanti.
Si riteneva che l'efficacia e l'esemplarità della pena esigesse
imprescindibilmente l'applicarla alla minor distanza possibile dal
giorno in cui il reato era stato commesso; non si conoscevano le
lungaggini e le procedure macchinose, bastava un Giudice, un
Fiscale ed un Mastrodatti aiutato da' suoi scrivani, ed il mezzo
di prova definitiva, mezzo deplorabile ma già reso accetto
dall'abitudine, era sempre la tortura, più o meno spinta ne' casi
ordinarî, assai spinta nei casi di lesa Maestà. In tal guisa
vedremo condotto innanzi il processo pe' laici, su' quali il
Governo avea la mano libera, bensì abbreviando i termini ad modum
belli, impiegando la tortura fin dalle prime informazioni e
servendosi di torture atrocissime, ciò che del resto era ammesso
da tutti i giuristi del tempo: il delitto di lesa Maestà dicevasi
allora «privilegiato», cioè tale da ammettere modi di procedura e
mezzi di rigore eccezionalissimi, mentre oggi è divenuto quasi
privilegiato in un senso diametralmente opposto; deve dirsi dunque
che tutto fu fatto in regola, almeno in quanto alla forma, pe'
poveri congiurati laici.
Pel Campanella poi e per gli altri ecclesiastici vi furono
dapprima due frati a' quali venne ben presto associato pure un
Vescovo, e più tardi, in Napoli, vi furono due Giudici invece di
uno, nominati entrambi dal Papa, oltre il Fiscale e il
Mastrodatti; ed anche furono impiegate le torture durante il
processo informativo e torture atrocissime, non di meno sempre ne'
limiti del dritto ed anzi col consenso espresso del Papa; così,
egualmente da questo lato, deve dirsi che tutto fu fatto in
regola. Senza dubbio ciò non significa punto che i risultamenti
del processo debbano ritenersi l'espressione della verità, come
sarebbe puerile il ritenerlo senz'altro pe' processi de' tempi
nostri, massime pe' processi politici, e tanto più dopo che vi
abbiamo adottato quella sorprendente maniera di farli giudicare:
sempre occorrerà di analizzarli con un penoso lavoro, senza
preoccupazioni, senza pregiudizii, con la conoscenza de' tempi,
de' luoghi, delle persone, di tutte le circostanze, a fine di
rintracciarvi, ne' limiti del possibile, la verità; ma non potrà
mai esser lecito di rifiutarvisi con una comoda pregiudiziale,
poggiata su' troppi vizii dell'andamento de' processi. Nel caso
nostro il Baldacchini ha mostrato di credere che pure a' tempi del
processo del Campanella non si sia prestata troppa fede alla
congiura, poichè nel Carteggio del Nunzio con la Corte di Roma si
parla della «causa di pretesa ribellione»: ma tale era il
linguaggio del tempo; finchè la sentenza non era pronunziata,
dicevasi il tale o tal altro preteso reato, come ora dicesi la
tale o tal'altra imputazione di reato.
Ugualmente il D'Ancona trova nel Giannone «preziosa» la parola di
«processo fabbricato»: ma tale era la parola in uso; processus
formatus traducevasi appunto in processo fabbricato, e neanche per
facezia si potrebbe in ciò vedere la significazione di processo
inventato. L'uno e l'altro poi notano che le confessioni furono
fatte in tormentis, e con parole di sdegno si scagliano contro il
modo allora usato di fare i processi: «Alcuni vili uomini, i quali
non avevano ufficio di magistrato, non stipendio, non grado,
nell'ombra del mistero raccoglievano, Dio sa come, le pruove;
quest'inquisitori o scrivani..., il cui nome solo mettea spavento,
facevano un traffico infame del loro mestiero, sempre, anche nelle
cause de' privati; pensate dove il governo accusava, giudicava e
condannava. Non v'era pubblica discussione del fatto, non libera
difesa dell'accusato; tal'era un giudizio criminale». In verità
non può non sorprendere che perfino dopo la conoscenza de'
documenti trovati dal Palermo, a proposito del processo del
Campanella siano state riprodotte le parole qui riferite, con
l'asserzione che il Governo non solo accusava, ma anche giudicava
e condannava senza libertà di difesa, mentre que' documenti
mostravano addirittura l'opposto, ed anche intorno alle
atrocissime torture, sulle quali davvero non si potrà mai passare
alla leggiera, mostravano che i principali imputati le aveano
sofferte senza nulla confessare, eccetto il povero Campanella che
non era stato in grado di resistervi. Ma in somma donde mai dovrà
scaturire la verità in un fatto per lo quale vi è stato un
processo criminale, se non dall'esame di questo processo?
Che non se ne debbano accettare senz'altro i risultamenti, sta
benissimo: anche i nostri successori, liberati una volta dal
pregiudizio tanto più grave del cittadino-giudice, come noi siamo
finalmente riusciti a liberarci dal pregiudizio del
cittadino-milite, convinti del santo principio «ognuno al suo
mestiere», avranno a fare su' risultamenti de' nostri giudizii
criminali una critica più fondata e non meno acerba di quella
fatta dal Baldacchini e dal D'Ancona su' giudizii antichi. Ci pare
proprio di udirli. «Dodici uomini per lo più inetti, scelti senza
criterii ragionevoli, senza obbligo della menoma nozione dì ciò
che è necessario ad un magistrato, spessissimo anche privi della
più discreta cultura mentre i codici già riboccavano di sottili
distinzioni giuridiche da potersi bene intendere solamente dietro
appositi studî, assistevano allo svolgimento del giudizio e davano
i pronunziati, Dio sa come, sul fatto: questi cittadini-giudici o
giurati, il cui nome riempiva di speranza i colpevoli e i loro
avvocati, sottostavano a tutte le influenze, seduzioni e peggio,
non foss'altro, per la loro incapacità; e se disgraziatamente
taluno di essi conosceva o pretendeva di conoscere la legge,
costui trascinava tutti gli altri dove voleva, perocchè mentre
doveano decidere nel silenzio e nel raccoglimento, non essendo
ammessa la discussione fra loro, questa si faceva sempre e ad
onore e gloria del più inframmettente e capace d'imporsi.
Il Governo teneva i così detti giudici del dritto, magistrati con
grado e stipendio, ma erano destinati ad ascoltare e tacere, ad
esser complici di errori grossolani e rendersi indifferenti al
giusto e all'ingiusto, mentre il Presidente, occupatissimo, dovea
fra le altre cose affaticarsi a far comprendere agl'ignoranti
giudici del fatto le sottili distinzioni ammesse dal codice ne'
diversi reati, senza riuscirvi novanta volte su cento per
l'intrinseca natura delle cose; gli avvocati liberissimi nel dire,
prolungare ed intralciare, poichè i riguardi doveano concedersi
agli accusati anzichè alla società che accusava, agli uomini
implicati ne' delitti anzichè agli infelici giudici costretti ad
abbandonare il lavoro proprio non per giorni ma per settimane,
trasmodavano in tutti i sensi per far colpo sugl'ignoranti, su'
quali non poco pesava pure l'atteggiamento della maggior parte del
pubblico che prendeva interesse nel giudizio, intervenendovi come
ad una scuola d'istruzione sul miglior modo di perpetrare i
delitti e scansarne la pena. Così i pronunziati intorno al fatto
venivano fuori per lo meno a caso, le sentenze doveano calcarsi su
que' pronunziati e tutto si guastava; i cittadini medesimi
cercavano con ogni mezzo di scansare tale ufficio, poichè non era
permesso il rifiutarvisi, ma grosse multe obbligavano a godere e
far godere i beneficî di quest'aurea libertà; tal era un giudizio
criminale».
Bisognerebbe disperare de' miglioramenti serii delle istituzioni
umane, per ritenere che siffatta critica, da potersi allargare e
prolungare per un volume, non abbia ad essere pronunziata da'
nostri successori: così Dio pietoso non voglia che abbiano a
pronunziarla con maledizioni verso di noi imbevuti di
dottrinarismo fino a smarrire il senso della realtà, dominati da
pregiudizii assai più che non crediamo, molto spesso repugnanti a
predicare su' tetti ciò che riconosciamo tra le mura domestiche,
ed avviati pur troppo a mostrare, dolorosamente, che non è tanto
difficile conquistare un gran bene quanto è difficile conservarlo.
Ma essi non si rifiuteranno certamente a discutere i processi de'
tempi nostri; bensì li vaglieranno con tutta la cura possibile,
costretti a guardarsi dalle esagerazioni che abbiamo introdotte in
un certo senso, dopo quelle che hanno dominato in un senso
opposto.
Che si tratti di quistioni estremamente ardue, è stato già ammesso
da coloro i quali hanno voluto vedere un po' addentro nel fatto
della congiura del Campanella. E veramente ogni imputazione
politica grave, massime in tempo di servitù, suscita sempre
nell'animo dello storico una perplessità inevitabile, se non
sull'esistenza medesima della colpa ventilata, almeno sulla
precisa indole ed estensione di essa. Ma la perplessità cresce a
mille doppi nel fatto del Campanella, trattandosi di
un'imputazione politica complicata da un'imputazione religiosa,
seguita da processi senza dubbio formati in tempi orribili per
oscurantismo, efferatezza e rapacità, presso al sorgere pauroso di
un nuovo secolo, tra lotte giurisdizionali accanite, sospetti
governativi eccitati, malumori popolari profondi, inimicizie
cittadine roventi, odii frateschi implacabili; aggiungendovi lo
zelo ferocemente interessato de' primi Inquisitori, le torture e
spoliazioni inaudite, il terrore universalmente diffuso, la
sollecitudine in molti e nello stesso Campanella di salvarsi ad
ogni costo, il guiderdone apertamente dimandato da alcuni plebei,
e non meno apertamente ambito da alcuni nobili, si ha un cumulo di
quistioni non solo oscure, ma anche complesse ed intralciate al
più alto grado.
Chi si è lusingato di avere pienamente risoluto il problema, in
un modo o in un altro, uscirà presto d'illusione, quando da' nuovi
documenti saprà che uno de' Giudici ecclesiastici, antico
Inquisitore e peritissimo nella materia processuale, il Vescovo di
Termoli, reputava il processo di eresia «malissimamente fondato» e
riteneva anche il fondamento del processo di congiura «molto tenue
anzi falso»; invece un altro Giudice successo al primo,
originariamente avvocato, non meno avveduto ed anche esercitato
nelle cose del S.to Officio e ne' più alti negozii, il Vescovo di
Caserta, non aveva il menomo dubbio sulla verità di entrambe le
imputazioni e trovava anzi nell'una un valido appoggio per
l'altra, Difatti, tutto considerato, la congiura del Campanella ci
si prosenta senza mezzi termini, o come una macchinazione da parte
sua per un audacissimo tentativo di rivolgimento politico e
religioso ad un tempo, o come una macchinazione da parte del
Governo per estinguere anche la più lontana velleità di un
rivolgimento. D'altronde, giustamente o ingiustamente, i processi
vennero a costituire il Campanella in una posizione giuridica
tale, da non avere innanzi a sè che una di queste due vie: o
sobbarcarsi all'ultimo supplizio, sia montando rassegnato, come
Maurizio de Rinaldis, sulla scala della forca, sia montando
alteramente, come allora appunto faceva in Roma Giordano Bruno,
sul rogo dell'inquisizione; ovvero adoperare tutti gli
accorgimenti, i cavilli, le finzioni ad ogni costo, che poteva
suggerirgli il suo ingegno versatile e sottilissimo. Egli
prescelse quest'ultima via, e disse, disdisse, accusò, scusò, non
potè resistere, fece la sua confessione ne' tormenti; di poi,
propriamente nella faccenda dell'eresia, si mostrò pazzo, ed
appunto per questa pazzia, alla quale non si prestò credito, ebbe
quel tormento crudelissimo da lui medesimo narrato non senza
qualche garbuglio, lasciando per lo meno nel buio perché e da chi
l'avesse avuto; in tal guisa egli giunse a sottrarsi alla morte
dal lato dell'eresia e a pigliar tempo dal lato della congiura,
tanto da essere poi lasciato in una prigionia indefinita, onde il
fatto della sua pazzia ci è apparso importante al punto, da
doverlo notare fin sul titolo di questo libro.
Nessuno potrebbe legittimamente fargli un rimprovero di avere
prescelta la seconda via anzichè la prima, e si vedrà che egli
aveva una ragione riposta, un po' più alta di quella della propria
conservazione, per non comportarsi altrimenti: ma è chiaro che
egli più di tutti dovè contribuire ad addensare le nebbie intorno
alle cose sue, non solo quando si trovò sotto l'enorme pressione
de' testimoni e de' Giudici, ma egualmente durante e dopo la lunga
e terribile prigionia; è chiaro che egli dovè con le notizie date
ne' suoi scritti svariatissimi sconvolgere in tutti i sensi i
fatti processuali, fino a rimanerne i suoi più cari amici
crudelmente bistrattati, le sue convinzioni intime ostentatamele
rigettate e con ogni probabilità dissimulate per tutto il
rimanente della sua vita.
Adunque non è possibile sentenziare in fretta e in furia sopra
quistioni di loro natura intralciate, e divenute studiatamente
sempre più intralciate: bisogna procedere oltremodo riguardosi e
cauti, attingere a tutti i fonti, investigare, vagliare,
confrontare, e questo, lo diciamo francamente, ci mantiene
alquanto angustiati. Giacchè ci accade spesso di leggere tirate
contro i così detti infarcimenti di erudizione, contro la facile
erudizione, contro l'analisi minuta, ed inni alla forza
d'intuizione, alla potenza della sintesi e ad altrettali parole
rumorose. La facile erudizione! Forse per questa facilità si
trovano sempre quasi deserte o affatto deserte le sale di studio
degli Archivii, tanto che si è mostrati a dito, e spesso con
taccia di stravaganza, allorchè vi si accede piuttosto
frequentemente; forse per questa facilità avviene altrettanto,
allorchè si accede alle pubbliche Biblioteche e vi si dimandano
libri di vecchia data. Pur troppo ogni lavoro che sforzi chi legge
ad occuparsi sul serio è preso in uggia, ed assai sovente lo si
dichiara indigeribile, sol perché le facoltà digerenti sono
affievolite. Ma non c'è rimedio: il Campanella non è di que'
soggetti che si possano capire a prima vista, e in sèguito delle
sue traversìe dovè rendersi tanto più riboccante d'incognite da
tutti i lati; basta vedere che con la medesima chiarezza egli è
apparso ad alcuni monarchico e cattolico per eccellenza,
passionato fautore della Monarchia di Spagna e del Papato, ad
altri è apparso uomo senza alcuna religione ed alcuna fede,
canzonatore degli spagnuoli e del Papa. Bisogna dunque ingegnarsi
a rifarne la storia con più numerosi documenti e più retti
criterii, lasciare da parte i voli pegasèi, ed attenersi ad un
viaggio pedestre, abbastanza faticoso, molte volte noioso; con
tutto ciò non lasciarsi nemmeno illudere dalla speranza di aver
detta l'ultima parola, ma contentarsi di avervi con qualche
efficacia spianata la via e farsi un dovere di agevolarne in tutti
i modi l'accesso. Ecco quindi, in pochi cenni, l'andamento dato
alla nostra narrazione.
Indispensabili ci sono apparse le seguenti cose. Cominciare a
parlare del Campanella fin dalla sua nascita, per accompagnarlo
passo passo ne' suoi studii, nelle sue amicizie, nelle sue
peregrinazioni, ne' suoi primi incontri col S.to Officio, che non
furono pochi né di poca importanza: si avranno così tante notizie
che aiuteranno di molto a conoscere non solo l'uomo, i suoi tempi,
le sue relazioni, ma anche certi fatti in intima connessione con
quelli della congiura e consecutivi processi, giacchè vi sono da
questo lato antecedenti degni di molta considerazione. Tener
presenti le opere d'ingegno da lui successivamente composte,
indagandone con ogni diligenza le date della composizione ed anche
della ricomposizione per quelle in buon numero che furono
ricomposte, non senza notarvi in pari tempo taluna delle varianti
introdottevi quando riesca possibile: le vicende del Campanella
non doverono avere poca influenza sulle idee che egli venne a
manifestare, e i lunghi cataloghi delle sue opere, così come li
abbiamo, senza la data rispettiva di ciascuna, non contribuiscono
a far intendere l'atteggiamento suo ne' diversi tempi, ma invece
possono menare come hanno menato a notevoli abbagli. Non lasciare
indietro alcuna nozione delle persone e delle cose del tempo,
dovendo cercar lume da per ogni dove, apprezzare le circostanze in
mezzo alle quali si potè pensare a un disegno d'insurrezione,
giudicare ciascuno di coloro i quali vi presero parte effettiva o
supposta, o vi ebbero in qualunque modo relazione: specialmente
per quelle persone che condivisero col Campanella le esultanze,
gli errori, i meriti, le tristi conseguenze, non si potrebbe in
altro modo valutare l'atteggiamento che assunsero, la credibilità
di ciò che dissero; e la cosa medesima vale pe' persecutori, pe'
Giudici e via via fino alle supreme Autorità dello Stato e della
Chiesa. Appellarsi di continuo a' documenti, far parlare essi
medesimi sempre che si può, citare i fonti di qualunque fatto che
si asserisca, anche se pel momento non sembri di una certa
importanza: abbiamo troppe volte avuto motivo d'indignarci,
perché, nel caso di materie molto quistionabili, gli scrittori non
si siano creduti in dovere di citare i fonti, per documentare le
loro assertive e facilitarne contemporaneamente lo studio agli
altri che vi avrebbero atteso in sèguito; nel caso attuale,
certamente quistionabile ancora, sarebbe grave la mancanza delle
citazioni e di tutte le dilucidazioni opportune, tanto più che
infine non occupano un grandissimo spazio, e coloro i quali non vi
prendono interesse possono saltarle.
Da un lato solo forse ci siamo veramente lasciati trasportare un
po' troppo, dal lato delle memorie di Napoli, avendo spesso
abbondato in particolari nel farne menzione. Ma ci ha arriso la
speranza che i napoletani avrebbero gradito leggere questa
narrazione, e rilevato con compiacenza il ricordo delle cose del
tetto nativo. Considerando l'interesse destato sempre da quelle
scene, in verità abbastanza luride, che s'intitolano dal
Masaniello, nelle quali, tra mille rovine, una plebe sfrenata
faceva pur sempre udire le rauche grida di Viva il Re di Spagna,
ci è parso impossibile che altrettanto interesse non sarebbe
riuscita a destare la congiura che s'intitola dal Campanella, la
sola che preparava il grido d'indipendenza, recando poi tanto
strazio ad uno di coloro i quali hanno maggiormente onorata la
patria. E se ci fossimo ingannati? Ce ne increscerebbe molto per
l'editore, giacchè per la prima volta abbiamo trovato un vero e
proprio editore; quanto a noi, siamo già abituati ad avere
solamente quel premio che dà a sè stesso il dovere adempiuto.
Nella fine di luglio 1598, fra Tommaso Campanella, dopo
parecchi anni di assenza, se ne ritornava nella sua Calabria, e
fermatosi un poco in Nicastro si riduceva poi direttamente a Stilo
suo luogo natale. Quivi, scorso appena un anno, nell'agosto 1599,
si trovò imputato di quella rinomata congiura che s'intitolò dal
suo nome, per la quale la Calabria fu aspramente percossa,
parecchi furono giustiziati, moltissimi dispersi e spogliati de'
loro beni; ed egli, con un gran numero di compagni laici ed
ecclesiastici, tradotto a Napoli soffrì un doppio processo, di
congiura e di eresia, fu costretto a mostrarsi pazzo per qualche
tempo, ne riportò immani sevizie e 26 anni di carcere. Questo
fatto capitale della vita del Campanella noi intendiamo di
narrare; ma gioverà vedere con ogni diligenza tutti i precedenti
del filosofo, non solo per rettificare diverse cose ed aggiungere
ulteriori notizie a quanto si conosce della sua biografia, ma
principalmente per rilevare diverse circostanze rimaste oscure od
ignote, e tutto ciò che può dare un po' di luce appunto nella
tenebrosa faccenda della congiura e dell'eresia.
CAP. I.
PRIMI ANNI DEL CAMPANELLA E SUE PEREGRINAZIONI.
(1568-1598).
I. Si conosce oramai per documenti essere il Campanella nato in
Stilo, il 5 settembre 1568, da Geronimo e Caterina Martello, ed
essere stato battezzato col nome di Gio. Domenico, il 12 7bre,
nella Chiesa di S. Biagio al Borgo, che le scritture dell'Archivio
di Stato ci rivelano a que' tempi una delle cinque Chiese
parrocchiali della città, oggi ridotte a tre. Coloro i quali
poterono consultare i libri della detta parrocchia, che furono poi
dispersi col sacco dato a Stilo da' briganti il 29 agosto 1806,
assicurano di avervi letto questo brano: «A 12 settembre 1568.
Battezato Giovan Domenico Campanella figlio di Geronimo, e
Catarinella Martello nato il giorno cinque, da me D. Terentio
Romano Parroco di S. Biaggio del Borgo». La data della nascita ha
avuto pure una conferma, degna di menzione, nelle notizie trovate
in un processo celebre del 1630, che si conserva nell'Archivio di
Stato in Roma e che fu illustrato dal Bertolotti, quello
dell'infelice D. Orazio Morandi Abate di S.a Prassede, colpito
dallo sdegno di Urbano VIII irritato contro gli Astrologi che
aveano cominciato a presagire e a divulgare imminente la sua
morte: quivi, in un registro delle «natività» di molti personaggi
distinti, si legge anche la natività di fra Tommaso Campanella con
la data «An. 1568, Mens. Sept., Die 5, Hora 12, Min. 6. Hor. p.
m.»; così rimane pienamente eliminato il dubbio, che quel Gio.
Domenico notato ne' libri parrocchiali potesse non essere colui il
quale prese poi il nome di fra Tommaso. Ma in quanto alla sua
madre, dobbiamo dire che appunto nel processo di eresia pe' fatti
di Calabria si legge un interrogatorio da lui sottoscritto, nel
quale essa è detta «Caterina Basile»: non potendo negar fede a un
documento simile, accorderemmo tutt'al più che questa Basile sia
stata una 2a moglie di Geronimo, madrigna di fra Tommaso nel tempo
della carcerazione. Si trovavano con lui carcerati egualmente
Geronimo suo padre ed anche Gio. Pietro suo fratello (circostanza
sinoggi ignorata), ed egli forse stimò bene evitare una
dichiarazione, la quale avesse potuto sembrare difforme dalla
dichiarazione che questi suoi parenti avrebbero fatta; ad ogni
modo non sapremmo rinunziare in alcuna guisa alla notizia che
fornisce il documento nostro. Dobbiamo aggiungere che ci siamo
occupati di cercare qualche lume ne' Registri della Numerazione
de' fuochi esistenti nell'Archivio di Stato in Napoli; ma
precisamente all'epoca di fra Tommaso vi si trova una lacuna, che
ci ha tolto di saperne altro. Abbiamo bensì potuto rilevare che
gli antenati del Campanella in origine si cognominavano «Loli» ed
ebbero in sèguito il cognome «Campanella», come pure che taluno di
loro si ridusse a prendere domicilio in Stignano, casale di Stilo
lontano da esso un cinque a sei miglia. Vedremo or ora che il
padre di fra Tommaso fece anch'egli lo stesso più tardi, onde
allora e poi si tenne da alcuni l'erronea credenza che il
Campanella fosse nato in Stignano; ma nell'interrogatorio medesimo
anzidetto, e troppe altre volte nelle sue opere e nelle sue
lettere, il Campanella si disse di Stilo, e fino a non molti anni
fa, presso la Chiesa di S. Biagio, vi si mostrava la casa in cui
egli nacque; oggi se n'è perduta qualunque traccia!
La sua famiglia ci risulta in umile stato, priva di beni di
fortuna ed anche della più elementare cultura. Non una volta il
filosofo ebbe a dire di esser nato povero; ma è parso al Berti che
la famiglia dovesse ritenersi educata ed autorevole, specialmente
perché uno zio di fra Tommaso fu lettore di dritto nell'Università
di Napoli, una sua sorella fu donna istruita, e suo padre e un
prossimo congiunto ebbero l'onore di rappresentare la città di
Stilo. Tutto ciò ha bisogno di essere rettificato: vedremo più in
là che lo zio non fu propriamente lettore dello studio pubblico, e
quanto alla sorella o meglio cugina Emilia, il Campanella medesimo
ci lasciò scritto che era convulsionaria, e si mostrava di tratto
in tratto chiaroveggente e sapientissima in Teologia «senza
imparare»; né il padre fu veramente uno degli eletti della città
di Stilo quando nel 13 7bre 1541 gli Stilesi espulsero il Duca di
Nocera, come è stato affermato dal Capialbi, perocchè a
quell'epoca Geronimo padre del Campanella era appena da pochi anni
nato, sibbene molto più tardi fu sindaco del casale di Stignano,
ed allora bastava la qualità di uomo probo per esser chiamato a
tali ufficii. Egli poi in uno de' documenti che lo riguardano, da
noi rinvenuto nell'Archivio di Stato, affermava di vivere
nobilmente delle sue sostanze: ma era questo un ripiego
frequentemente usato per sottrarsi alle tasse, perocchè, col «non
fare arte nisciuna» si pretendeva, ed era riconosciuta, la qualità
di gentiluomo e l'immunità specialmente dal testatico. Certo è che
il processo di eresia dibattuto in Napoli, al quale dobbiamo
spessissimo appellarci perché ricco di notizie di ogni genere bene
accertate, ci mostra Geronimo padre e Gio. Pietro fratello del
Campanella esercenti entrambi l'umile mestiere del calzolaio, ed
oltracciò entrambi analfabeti; ci mostra ancora, a quell'epoca, la
famiglia di Geronimo in Stignano composta di 9 donne tra figlie e
nipoti in una grande miseria, delle quali sono menzionate soltanto
Costanza che abbracciò la vita monastica, Lucrezia che prese
marito ed andò a risedere alla Motta Gioiosa, Giulia ed anche
Emilia cugina, figlia dello zio; ci mostra infine un fratello del
Campanella a nome Giulio, che andò a risedere egualmente alla
Motta Gioiosa, e l'altro a nome Gio. Pietro dimorante in Stilo.
Unicamente il piccolo Gio. Domenico, pel suo svegliato ingegno, fu
mandato a scuola dalla più tenera età, ma non studiò altro che
grammatica, e poi due anni di logica e fisica di Aristotile,
indossando da fanciullo l'abito di chierico, che più tardi mutò in
quello di S. Domenico. Possiamo perfino dare il nome del suo
probabile maestro di grammatica: questi dovè essere Agazio Solea,
poichè uno de' frati i quali gli furono poi compagni di sventura,
fra Pietro Presterà di Stilo suo costante ed efficace amico,
depose di averlo conosciuto «piccolo alla scola», ed in un altro
processo posteriore di S. Officio contro questo fra Pietro, un
Vincenzo Ubaldini di Stilo depose di essere stato con costui alla
scola presso il grammatico Agazio Solea. Oggi in Stilo si mostra
ancora una casa annessa alla Chiesa di S. Biagio, appartenuta al
Parroco della Chiesa maestro del Campanella: ma se Agazio Solea
fosse stato Parroco, difficilmente in un processo ecclesiastico
sarebbe stata omessa tale sua condizione.
Certamente le speciali attitudini del piccolo Gio. Domenico
decisero il padre a favorirlo nelle sue tendenze allo studio,
avendo mostrato ben presto un intelletto acutissimo
straordinariamente accoppiato ad una memoria prodigiosa. Anche per
un frenologo egli sarebbe stato soggetto di studio del più alto
interesse; poichè presentava sette prominenze molto appariscenti
nel suo capo, e vedremo in sèguito che egli riteneva que' «sette
monti» qual dono di Dio.
Come abbiamo avuto occasione di dire, il padre emigrò con la
famiglia da Stilo a Stignano. Il Campanella medesimo ci lasciò la
notizia di tale fatto, dicendo che mentre si trovavano emigrati in
Stignano sopravvenne la peste, introdotta mediante panni da
Algieri in Messina, quindi da Messina in Placanica e Stignano per
colpa del Barone di Placanica, e suo padre che presedeva a quella
terra estinse la peste salvando sè e la famiglia. Non sapremmo
dire con precisione in quale anno sia accaduto tale fatto, ma dovè
accadere non molto tempo prima che il Campanella vestisse l'abito
di S. Domenico; poichè da una parte le sue parole lasciano
intendere che si trovò egli pure in Stignano a quell'epoca, ed
oltracciò nel processo più volte menzionato leggiamo che un frate
appunto di Stignano, fra Domenico Petrolo suo compagno di
sventure, disse di averlo conosciuto fin da che era «prevetello»
(int. piccolo prete); d'altra parte se egli aveva già studiato la
logica in Stilo e tutti gli altri suoi studii furono poi fatti
durante la sua vita monastica, ne consegue che dovè rimanere in
Stignano non molto tempo. Certamente egli vi rimase per tutto il
tempo in cui ebbe a soffrire una quartana ostinata, che sappiamo
averlo afflitto durante sei mesi, mentre pure in età più tenera ne
avea sofferto rimanendogli un male di milza. Il Berti ha fatto
notare che nell'opera Medicinalium il Campanella ci lasciò scritto
essersi risanato tutte e due le volte mediante le cure magiche di
una donna; noi aggiungiamo che da un'altra opera, quella De Sensu
rerum, si rileva essere avvenuta una di queste cure, e
naturalmente la seconda, mentre egli già vestiva l'abito di frate,
poichè si ebbe per essa «la licenza del suo priore dottissimo e
Teologo». E però siffatta credenza nelle arti magiche non può
addebitarsi esclusivamente al Campanella, come il Berti ha
pensato, mentre vi partecipavano, comunque indirettamente, i
Priori e i Teologi.
Sarà bene pertanto rammentare ciò che trovasi registrato nel
Syntagma de libris propriis, intorno agli studii della sua piccola
età, e alle circostanze che accompagnarono la sua risoluzione di
farsi frate. Noi terremo sempre un conto speciale delle notizie
consegnate in quest'opera, comunque ci risulti abbastanza
inesatta: non abbiamo nulla di meglio da poter tenere per guida, e
d'altronde ci proponiamo di discuterne ogni punto in cui
appariscano notizie difformi da quelle di altre fonti, ovvero
anche semplici indizii di poca esattezza. Ecco quanto vi si legge
circa il periodo che stiamo trattando. «Veramente ancora
quinquenne attesi con tanto ardore a' rudimenti letterarii ed alla
pietà, da riporre nell'animo tutto ciò che i genitori e gli avi e
i predicatori dicessero delle cose sacre ed ecclesiastiche. A
tredici anni aveva appreso le regole della grammatica e
dell'arte versificatoria in guisa, da poter dettare in prosa ed in
verso quanto piacesse, e diedi fuora molte poesie, ma non robuste:
indi a poco incogliendomi una quartana durata sei mesi, a circa 14
anni e mezzo avvenne che mio padre volesse mandarmi in
Napoli, chiamatovi da Giulio Campanella lettore di
giurisprudenza: ma contemporaneamente volli far professione nella
religione de' Domenicani, avendo udito di essa un eloquente
predicatore e gustato dal medesimo i principii della logica,
massimamente poi essendo rimasto preso dalla storia di S. Tommaso
e di Alberto Magno». Adunque fin da che dimorava in Stilo, sotto
l'influenza del P.e predicatore Domenicano suo maestro di logica,
egli volgeva in mente di vestir l'abito di frate; ma vi si decise
in Stignano, mentre gli si faceva premura dal padre e dallo zio
Giulio lettore in Napoli di recarsi in questa città per attendere
allo studio della legge. Chi era questo zio Giulio, e dove e
quando il Campanella vestì l'abito di frate?
Uno degli eruditi calabresi dimorante in Napoli nel principio di
questo secolo, Michelangelo Macri citato dal Capialbi, trovò un
Giulio Cesare Campanella di Stilo nell'albo de' dottori, laureato
il 6 marzo 1585; noi abbiamo trovato nel Liber juramentorum il suo
giuramento autografo prestato appunto nel marzo 1585. Riflettendo
a questa data, verrebbe in mente che costui non potesse insegnare
nell'epoca indicata dal Syntagma, cioè a dire verso il 1582, tre
anni prima di aver presa la laurea: invece bisogna sapere che per
antica consuetudine, in Napoli, coloro i quali volevano aprirsi
una carriera, innanzi di laurearsi e mentre erano soltanto
licenziati o «professi» come allora si diceva, solevano dimandare
ed ottenere annualmente un permesso di fare una determinata
lettura, quando non si prendevano tale permesso da loro; poichè
non si faceva allora un mistero che il privato insegnamento
servisse, come fino ai giorni nostri ha servito, principalmente
all'insegnante, per dargli occasione di rifare molto meglio la
propria istituzione e procurargli nel medesimo tempo qualche
sussidio. E c'è motivo di ritenere che Giulio Campanella abbia
dovuto allora leggere le «Instituta juxta textum», non altra
materia, e ben inteso nella qualità di privato insegnante, senza
essere, come allora si diceva in un linguaggio privo di orpelli,
«salariato dalla Regia Corte». Poichè appunto nel 1582, il
Cappellano maggiore che presedeva al pubblico studio, e che era D.
Gabriele Sanches successo in quell'anno a Fabio Polverino Vescovo
d'Ischia, si mostrò severissimo contro i privati insegnanti ed
anche contro i lettori pubblici i quali facevano in casa letture
che non fossero delle «Instituta», mettendo in istretto vigore un
vecchio Bando rimasto sempre inascoltato, e intraprendendo una
delle meglio riconoscibili persecuzioni contro gl'insegnanti
privati. Giulio Campanella era dunque un insegnante privato e del
tutto novizio, evidentemente uno di coloro i quali si sforzavano
di uscire dal basso stato della propria famiglia, secondo il tipo
dello studente che veniva dalla provincia in Napoli a farsi
dottore, tipo espostoci da varii scrittori napoletani pe' quali le
cose del tetto natio non hanno perduto le loro attrattive; né
giunse poi a far carriera, non trovandosi più alcuna memoria di
lui ne' tempi posteriori.
Circa l'epoca in cui il Campanella vestì l'abito religioso,
abbiamo veduto che nel Syntagma si legge essere ciò avvenuto a 14
anni e mezzo della sua età: ma dobbiamo dire che nella Philosophia
sensibus demonstrata, scritta in un tempo più vicino al fatto, si
legge a 14 anni, ed ancora il Campanella medesimo nel processo di
eresia avuto in Napoli depose parergli essere entrato nella
religione il 1581, vale a dire a 13 anni. La differenza non è
molta; può ritenersi per termine medio il 1582, e rimane il fatto
che vestì l'abito in giovanissima età, come per altro si costumava
allora generalmente, dimostrandolo la più gran parte de' frati che
vedremo figurare in questa narrazione. Circa il luogo poi,
troviamo da' biografi indicato Stilo e il suo piccolo convento di
S. Maria di Gesù; ma le notizie emergenti dal processo dibattuto
in Napoli non lo confermano. Il Campanella medesimo allora diceva
di aver preso l'abito alla Motta Gioiosa, ma lo diceva mentre
mostravasi pazzo, e quindi non può prestarglisi molto credito. Due
frati invece deposero che fu dapprima novizio in Placanica, ed
anzi uno di loro lo disse esplicitamente «figlio del convento di
Placanica», la quale terra trovasi a non più di un miglio e
mezzo da Stignano, dove appunto era già domiciliata la famiglia
del Campanella. Tre altri frati dissero che fu novizio in S.
Giorgio, ed uno di loro aggiunse che vi fu nel 1585 e poi passò
studente a Nicastro, volendo forse dire che fu a S. Giorgio fino
al 1585, e dopo questa non breve permanenza in S. Giorgio passò a
Nicastro, la quale ultima circostanza ci risulta assolutamente
ignorata finora. Di certo in un convento egli prese l'abito col
nome di Tommaso, e questo dovè essere il convento di Placanica, in
un altro fece di poi il suo noviziato, e questo fu indubitatamente
il convento di S. Giorgio: tale passaggio da un convento all'altro
vedesi accennato anche nel Syntagma, col racconto di tutto ciò che
il Campanella fece in S. Giorgio, senza per altro alcuna menzione
della successiva fermata in Nicastro, che realmente pare essere
stato il luogo in cui ebbe a compiere i maggiori suoi studii. Dopo
il ricordo che avea voluto far professione nella religione de'
Domenicani, ecco come nel Syntagma seguita il racconto delle cose
del Campanella. «Mandato dunque di poi nel convento della terra di
S. Giorgio per udire le lezioni di logica e di filosofia, venendo
il Signore della terra per la prima volta nel suo auspicato
dominio, tra un gran concorso di popolo e di gente vicina
recitai un'orazione da me composta in verso eroico con
un'ode saffica, e molti versi da me dettati veggonsi ancora
scolpiti così nella nostra Chiesa come nell'arco trionfale.
Inoltre scrissi in forma ristretta e compendiosa le lezioni
intorno alla logica, alla fisica ed all'Anima. Di poi essendo
inquieto, poichè pareami che nel Peripato campeggiasse non
la verità sincera ma piuttosto il falso in luogo del vero,
esaminai tutti i commentatori di Aristotile, Greci, Latini ed
Arabi, e cominciai ad esitare maggiormente ne' loro dogmi, e
però volli indagare se le cose che essi affermavano si
leggessero pure nel mondo, il quale dalle dottrine de' sapienti
appresi essere il codice vivente di Dio. E non potendo i miei
maestri soddisfare agli argomenti che io esternava contro le loro
lezioni, stabilii di percorrere io medesimo tutti i libri di
Platone, di Plinio, di Galeno, degli Stoici, de' seguaci di
Democrito, ma principalmente i libri Telesiani, e compararli col
codice primario del mondo, per conoscere, mercè l'originale ed
autografo, che cosa le copie contenessero di vero o di falso». -
Circa il ricevimento fatto al Signore di S. Giorgio, dobbiamo
innanzi tutto rilevare che l'orazione pronunziata dal Campanella
consistè in una poesia, verosimilmente italiana perché riuscisse
più o meno intelligibile, e non fu un'orazione latina come parve
al d'Ancona; dobbiamo inoltre dire che Signore della terra di S.
Giorgio era allora Giacomo Milano, figliuolo di Baldassarre, il
quale ne fu poi creato Marchese da Filippo II il 18 febbraio 1593,
come ci fece conoscere con la sua abituale diligenza il
Baldacchini. Dal canto nostro possiamo aggiungere che ne' Registri
delle Significatorie de' Relevii esistenti nel Grande Archivio di
Napoli, trovasi indicata la data degli 11 marzo 1585 come quella
in cui Giacomo Milano fece l'ultimo pagamento delle tasse qual
successore di Baldassarre suo padre, benchè costui fosse morto fin
dal gennaio 1573; e però l'epoca probabile della sua visita alla
terra di S. Giorgio si riscontra abbastanza esattamente con quella
della dimora di fra Tommaso colà. Ma dobbiamo aggiungere ancora,
che moglie di questo Signore fu Isabella del Tufo, sorella di Gio.
Geronimo 4° Marchese di Lavello, sorella inoltre di Costanza che
sposò Geronimo del Tufo figlio di Fabrizio, e tutte e tre queste
persone erano nipoti di Mario del Tufo. Vedremo che questi Signori
del Tufo, e con essi Marc'Antonio creato Vescovo di Mileto
precisamente nel 1585, furono poi in istretti rapporti col
Campanella; è del tutto verosimile che tali rapporti abbiano avuto
principio appunto con l'orazione di S. Giorgio.
Veniamo alla dimora in Nicastro, quanto più passata sotto silenzio
tanto più interessante per la nostra narrazione. Verso la fine del
1585 o il principio del 1586 il Campanella fu assegnato al
convento dell'Annunziata di questa città, sempre nella qualità di
studente, ed ebbe ad assistere alle lezioni di un P.e di cognome
Fiorentino, verosimilmente il P.e Antonino de Fiorenza che fu poi
Provinciale di Calabria nel 1587-88, e forse uno degli antenati
del chiaro filosofo odierno prof. Francesco Fiorentino, che ha
avuto i suoi natali appunto ne' pressi di Nicastro; giacchè i
documenti dell'epoca mostrano abbastanza diffusi in quel
territorio i «de fiorensa», i quali mano mano si dissero in
seguito «Fiorentino». In Nicastro il Campanella ebbe a
condiscepolo fra Dionisio Ponzio della medesima città, e con lui
anche fra Gio. Battista Cortese di Pizzoni; vi conobbe egualmente
fra Pietro Ponzio germano di fra Dionisio, e con lui l'altro
germano Ferrante Ponzio; fin d'allora egli si strinse in molta
intimità con costoro, che troveremo poi tutti involti ne' processi
pe' fatti di Calabria come principali imputati, e ciò forse spiega
che nel Syntagma la dimora in Nicastro non sia stata menzionata.
Ne parlò intanto nel processo di eresia non solo il frate citato
più sopra ma anche fra Gio. Battista di Pizzoni, il quale ricordò
il Fiorentino lettore e fra Dionisio suo condiscepolo col
Campanella, aggiungendo una particolarità in questi termini, che
fra Tommaso era «contradicente ad ogni cosa et particolarmente
alli lettori sui, et un giorno contradicendo al detto Fiorentino
hebbi a dirgli, Campanella, Campanella, tu non farai buon fine»;
queste cose egli affermò avvenute «da quindici anni incirca».
Ugualmente fra Pietro Ponzio, nel medesimo processo, affermò che
l'amicizia di fra Dionisio col Campanella datava «da più di 14
anni» e si era sempre mantenuta viva: le quali testimonianze,
essendo della fine del 1599, ci menano al 1585 e 1586.
Appartenevano i Ponzii a buona famiglia di Nicastro, ed avevano
spiriti non meno bollenti di quello del Campanella; perduto il
padre in età molto giovane, due di essi nell'anno precedente si
erano ascritti all'ordine Domenicano, vestendone l'abito in
Catanzaro, l'altro, Ferrante, disponevasi appunto in quell'epoca a
recarsi in Napoli per attendere agli studii legali. Non è
arrischiato l'ammettere che fin d'allora tra il Campanella e
questi giovani si sieno manifestati desiderii e concetti di un
migliore avvenire pel paese: anche nel processo di congiura un
frate amico del Campanella affermò essergli stata fatta da fra
Tommaso la confidenza che «havea tridici anni ch'havea questi
pensieri nelo stomaco, et l'havea comunicato dal'hora con fra
Dionisio». - Più certo è che in Nicastro siasi ancora accresciuto
nel Campanella quell'atteggiamento battagliero e riottoso che
abbiamo già visto apparire in S. Giorgio, onde spingevasi a
dispute co' suoi maestri, i quali non potevano soddisfare agli
argomenti che egli adduceva contro le cose insegnate da loro.
Indubitatamente questo dovè procurargli molte avversioni, essendo
tutti i frati seguaci esclusivi delle dottrine Aristoteliche; e a
tale fatto, essenzialmente vero, furono di poi attribuite le più
gravi conseguenze dal Campanella medesimo e quindi da' suoi
biografi, essendosi ad esso ascritte tutte le sue sventure. né
pare dubbio che veramente in Nicastro il Campanella siasi
ingolfato nella lettura de' maggiori filosofi dell'antichità, e
che abbia quivi per la prima volta, nel calore de' diverbii, udito
nominare Bernardino Telesio, onde s'invogliò di leggerne le opere,
che potè avere solamente quando si recò a Cosenza. Ecco come egli
ci narra tali cose con maggiore larghezza nella prefazione del suo
volume scritto poco dopo, vale a dire la Philosophia sensibus
demonstrata. «Coloro a' quali comunicava queste mie opinioni
le riferivano ad altri maggiori, e però soffriva non poche
riprensioni, come colui che solo era contrario alle sentenze
de' grandi filosofi (secondochè dicevano), non davano ascolto alle
mie ragioni, ma stretti da esse prorompevano in parole
niente pacifiche verso di me. Queste cose io ebbi a patire circa
il 18° anno ed egualmente prima. Dopo ciò la verità si fece
più ardente e poteva meno tenersi ulteriormente dentro,
dicendosi che aveva un intelletto depravato e reprobo come l'aveva
un certo Bernardino Telesio Cosentino, onde avversava tutti i
filosofi e precisamente Aristotile: fui lieto oltremodo di avere
un compagno o duce, da potergli apporre i miei detti e riferirli
con una certa scusa, quasi profferiti da altri. Partito per
Cosenza, la preclarissima città de' Brettii nella Calabria
inferiore, denominata un tempo Brettia, chiesi il libro di
Telesio ad un certo illustre ed ottimo uomo suo seguace, il quale
volentieri me lo recò. Cominciai a percorrerlo con sommo studio, e
letto il primo capitolo, compresi ad un tempo interamente ogni
cosa che si conteneva negli altri, prima che li leggessi. Era per
fermo disposto verso que' principii, ed intesi egualmente tutto
ciò che da essi procedeva, dappoichè in lui tutto deriva da' suoi
principii, e non già ciò che segue è contrario a' principii
o non dipende da essi, come accade in Aristotile. E poichè
mentre ivi dimorava, il sommo Telesio venne a morte, e non mi fu
dato udire da lui le sue sentenze, né vederlo vivo ma morto e
portato in Chiesa, il cui volto scovrendo io ebbi ad
ammirare e moltissimi versi affissi per lui al suo tumolo,
recandomi ad Altomonte per ordine de' Superiori, stimai bene
esaminare là l'opera di questo filosofo» etc. Nel Syntagma queste
stesse cose si trovano registrate con la maggiore concisione,
leggendosi appena: «Poichè nel discutere pubblicamente in Cosenza,
non che privatamente co' miei frati, poco giungevano a
quietarmi le loro risposte; ma Telesio mi recò diletto,
tanto per la libertà del filosofare, quanto perché prendeva
a guida la natura delle cose, non i detti degli uomini. E però
avendo affissa un'Elegia a Telesio morto col quale vivente non mi
fu dato parlare, mi recai alla terra di Altomonte».
Adunque, dopo Nicastro, il Campanella andò in Cosenza. L'epoca di
quest'andata non ci è ben nota; ma assai probabilmente dovè
accadere verso l'agosto del 1588, per le ragioni che tra poco
diremo. - Uno de' primi biografi del Campanella, l'Eritreo, ci
lasciò scritto che l'occasione dell'andata a Cosenza fu una
disputa filosofica colà bandita da' Francescani, che il Campanella
vi fu mandato e vi riportò un grande trionfo. La cosa non sarebbe
punto strana, ed una prova se ne avrebbe in quella frase del
Syntagma, «poichè nel discutere pubblicamente in Cosenza non che
privatamente co' miei frati». Ma il fatto importante di tale
andata fu l'aversi procurato il libro del Telesio, che cominciò a
leggere senza finirne la lettura, e l'aver voluto vedere il
Telesio senza poterlo vedere che morto. Gravi biografi del
Campanella, come il Baldacchini e il D'Ancona, hanno interpetrato
la cosa nel senso che i frati non gli permisero di vedere il
Telesio, e fino ad un certo punto la parola adoperata dal
Campanella (non licuit) autorizzerebbe tale interpetrazione. Ma
per ritenere un divieto, bisognerebbe sconoscere da una parte la
disciplina rilassata od anzi la nessuna disciplina de' frati a
quell'epoca, e d'altra parte l'insofferenza e baldanza del
Campanella, il quale appunto allora era per darne una pruova
memorabile. Facciamo inoltre riflettere che il Campanella cominciò
a leggere ma non finì la lettura dell'opera del Telesio, e dopo la
morte di lui (che si conosce essere avvenuta nell'8bre 1588) partì
subito per Altomonte; la qual cosa viene accertata dal fatto che
vedremo affermato da lui medesimo, che cioè cominciò a scrivere la
sua Philosophia sensibus demonstrata in Altomonte dal 1° gennaio
1589 in poi, dopo di avere là compiuta la lettura de' libri
Telesiani, di molti altri libri antichi e del nuovo libro del
Marta contro il Telesio, al quale libro egli si diede a
rispondere. né la sua andata ad Altomonte «per ordine de'
superiori» si deve attribuire al fervore dimostrato pel Telesio,
ma invece ad un incidente gravissimo, che fra Tommaso tacque ma
che noi potremo dare in tutta la sua ampiezza avendolo nel
processo. Adunque non vediamo alcuno indizio ben fondato per
ammettere che il Campanella non abbia potuto veder Telesio
essendogli ciò vietato da' superiori. Vediamo invece due motivi
molto chiari e più che sufficienti: il primo, l'andata del
Campanella a Cosenza in un tempo assai vicino a quello in cui morì
il Telesio, col naturale desiderio di leggerne le opere prima di
fargli visita e parlare con lui; il secondo, la conosciutissima
condizione di fatuità in cui cadde il Telesio negli ultimi 18 mesi
della sua vita, circostanza della quale ci sorprende il vedere che
non si sieno ricordati i biografi del Campanella. Guardando anche
a qualche notizia che si ha dal processo intorno alla dimora del
Campanella in Cosenza, e mettendola in relazione con tutte le
altre, si confermano le cose suddette. Il Campanella ebbe a
compagno di stanza in quella città il suo carissimo amico fra
Pietro Presterà di Stilo, e costui nel processo affermò di averlo
visto in Cosenza «per due mesi»; così, tenendo presente che il
Telesio morì nell'ottobre, siamo indotti a ritenere l'agosto 1588
come data probabile dell'andata del Campanella a Cosenza. Altri
testimoni che parlano de' fatti di Cosenza (fra Agostino Cavallo,
fra Giuseppe Dattilo, fra Vincenzo d'Amico) si riportano
concordemente a «diece anni fa», e dicendo ciò nel 1600, accennano
all'anno 1590 come quello in cui il Campanella era in Cosenza, ma
vi sono tutte le ragioni per ritenere che que' frati alludevano,
ed anche approssimativamente, alla seconda venuta del Campanella a
Cosenza, di ritorno da Altomonte e sul punto di andarsene a
Napoli, mentre d'altra parte non v'è alcuna ragione per contestare
le date così precisamente affermate dal Campanella su tale
proposito.
Ecco ora i particolari della dimora in Altomonte, cioè dal
novembre 1588 in poi. Vediamoli dalle stesse parole del
Campanella, com'egli ce li lasciò scritti dapprima molto
diffusamente nella prefazione alla sua Philosophia sensibus
demonstrata. Si tratta di un momento molto importante della vita
del Campanella, e non deve ritenersi eccessivo il fermarvisi con
qualche larghezza; d'altronde avremo pur troppo a parlare di
persecutori, di carcerieri e perfino di aguzzini del Campanella, e
ci godrà sempre l'animo di poterci trattenere talvolta a parlare
di qualche suo amico e benefattore. - «Recandomi ad Altomonte per
ordine de' Superiori, stimai bene esaminare là l'opera di questo
filosofo (Telesio) prima di pubblicare l'opericciuola sul
modo d'investigare e le cose da me trovate. In tal guisa, avendo
potuto occuparmene, conobbi non essere stato Bernardino Telesio
depravato, bensì depravati affatto tutti gli altri, e giudicai che
quest'uomo dovesse anteporsi a tutti, come colui che desume la
verità dalle cose vedute col senso, non dalle chimere, e che
tratta le cose stesse, non le parole degli uomini, secondochè mi
fu manifesto. Accadde finalmente che venisse a me un certo
eccellente dottore di medicina, illustre filosofo, il quale
fuggiva gli errori de' Peripatetici, Gio. Francesco Branca di
Castrovillari, accompagnato coll'altro medico a nome Plinio
Rogliano della città di Rogiano, stimato più di molti altri per la
sottigliezza dell'ingegno, e discorressimo insieme de'
principii della filosofia e della verità delle cose; questi
riuscirono nostri amicissimi ed immensamente utili, e di
continuo venivano a discorrere insieme, e si penetrarono tanto
della verità di Bernardino Telesio, da predicarlo il solo
degno di lode tra' filosofi, e mi sollecitarono a dar fuori ciò
che mi era proposto. Costoro mi furono larghi di molti beneficii,
e mi portarono i libri de' Platonici e de' Peripatetici, di
Galeno, d'Ippocrate e d'altri, acciò la difesa di Telesio da noi
ideata fosse confermata da' detti de' più antichi. In quel tempo
comandava colà un certo invidioso, il quale non una volta, ma
invano, mi accusò di falsa dottrina, e di conversare
eccessivamente con persone estranee al chiostro, presso il molto
Rev.do P.e Pietro Ponzio da Nicastro, Maestro di Teologia ed
allora degnissimo Provinciale, come presso tutti gli altri
Superiori: giudichino pertanto qui la dottrina gli uomini
perspicaci, non già egli che era ignorantissimo. Ma le persone che
si riunivano con me erano buone e nobili, tra le quali il molto
illustre Muzio Campolongo, Barone di Acquaformosa, che mi
favoriva di moltissimi beneficii quasi mio malgrado, e mi
difendeva da tutti e dall'ira di quel maledetto uomo, e mi
avrebbe fatto altri favori se avessi voluto; a costui io debbo
moltissimo. Parimenti Paolo Gualtieri non ignobile giureconsulto,
che tornato da Napoli in patria mi fu carissimo, così per la
sua prestanza ed integrità, come per avermi sempre più
stretto a D. Luigi Brescia di Badolato, giureconsulto acutissimo,
non secondo ad alcuno nell'arte della memoria, unito a me di non
volgare amicizia fin dalla tenera età, la cui opera fu non solo
utile ma molto necessaria in cose di grande importanza ed in tempi
difficilissimi. Ma pel concorso di questi distinti uomini
l'invidioso imperversava. né dico ciò a caso, ma il Signore lo
conduca a salvazione.... Pervenne nelle mani di costoro un certo
libro di un saputo Peripatetico Jacopo Antonio Marta, che si
vantava dottore nell'uno e nell'altro dritto, in Teologia e
Filosofia ed era ignaro di qualunque verità, col titolo di
pugnaculum Aristotelis, e meglio avrebbe fatto se l'avesse
intitolato depravatio Aristotelis, dove per fermo, come vedremo,
proferisce tante scempiaggini e si mostra qua e là in
contraddizione con sè stesso, con Aristotile e con gli altri
principali peripatetici, avverso sempre al senso ed a' decreti
della natura. Adunque attesi a demolire le vane parole e le
calunnie di costui con gli altri contro il Telesio principe de'
filosofi, secondochè mi fu imposto da coloro dei quali feci
menzione.... E mentre il saputo si vanta di avervi lavorato per
sette anni contro Telesio, noi distruggemmo il suo Pugnaculum in
sette mesi, e svolgemmo la nostra dottrina, principiando dal 1.°
gennaio 1589 fino al mese di agosto dello stesso anno, al termine
dell'anno ventesimo di nostra età». Assai più concisamente le cose
medesime furono poi ripetute nel Syntagma in questi termini:
«Mi recai alla terra di Altomonte, dove percorsi i libri de'
Platonici e de' Medici, a me somministrati da ottimi uomini, ed a
consiglio del medico Gio. Francesco Branca di Castrovillari
cominciai a scrivere contro Giacomo Antonio Marta napoletano, che
avea dato fuori un libro contro Telesio, intitolato
Pugnaculum Aristotelis. In esso composi otto dispute... dandomi
libri ed animo i medici Branca e Plinio. Questo libro di polemica
fu stampato in Napoli presso Orazio Salviano nell'anno del
Signore 1590».
Riassumendo dunque i fatti del Campanella in Altomonte si ha: il
termine della sua lettura del libro del Telesio; la lettura di
molti altri libri di filosofi e medici, datigli da alcuni suoi
amici egualmente antiperipatetici che ivi conobbe o rivide:
l'eccitamento da parte di costoro perché scrivesse in difesa del
Telesio contro Giacomo Antonio Marta; la composizione in sette
mesi della sua Philosophia sensibus demonstrata; la presenza di un
superiore invidioso che l'accusò di falsa dottrina e di troppo
conversare con secolari; la difesa assunta da alcuni di costoro in
tempi difficilissimi e in cose d'alta importanza per lui. - Non
c'è neanche per un momento surta l'idea di dover parlare del
Telesio a' nostri lettori, massime dopo l'eccellente libro
pubblicato dal prof. Fiorentino. Quanto a Giacomo Antonio Marta,
ci limiteremo a dire che egli non era quell'ignorantissimo che il
Campanella dichiara, e lo dimostrano le molte sue opere
specialmente legali. Napoletano e non veronese come ha creduto il
Berti, poichè filosofo napoletano e giureconsulto egli s'intitola
spesso nel Pugnaculum Aristotelis ed anche altrove, si conosce che
nacque il 20 febbraio 1559 e andò peregrinando come lettore per
diverse parti d'Italia. In Napoli cominciò a scrivere libri di
filosofia nel 1578, e quindi passato a Roma vi scrisse il
Pugnaculum nel 1587; ritornato poi in Napoli vi cominciò la
carriera di lettore di dritto, e in tale qualità andò
successivamente a Benevento, a Roma, a Pisa, di nuovo a Roma, a
Padova, a Mantova, fino alla sua morte che accadde dopo il 1628.
Ma in Napoli fu lettore privato, non già pubblico come è stato
detto da taluni ed anche dal Fiorentino, poichè i lettori pubblici
di quell'epoca ci son noti benissimo e tra loro non figura il
Marta: non ebbe quindi a scrivere il suo Pugnaculum pel pubblico
studio, dove del resto mancò sempre lo spirito di collettività, e
già c'erano allora in filosofia, al tempo medesimo, qual lettore
ordinario Gio. Berardino Longo, Peripatetico, e qual lettore delle
Domeniche Latino Tancredi, partigiano delle dottrine del Telesio
come appunto il Marta ci fa sapere. - Degli amici poi del
Campanella ben poco possiamo dire. Sul Gualtieri possiamo dire che
egli era di Altomonte e che si fece più tardi conoscere per opere
legali abbastanza pregiate, una delle quali dedicata a D. Lelio
Orsini che dovrà figurare egualmente in questa narrazione. Sul
Brescia (non Brettio come il tipografo più volte fa dire al Berti)
possiamo soltanto affermare che tale cognome si trova con estrema
frequenza ne' documenti relativi a quella regione; un suo
epigramma, in lode del Campanella, si legge in fronte alla
Philosophia sensibus demonstrata, ed in esso si accenna
anche a Mario del Tufo, presso cui dimorava il Campanella in
Napoli quando l'opera si diede alle stampe. Su Muzio Campolongo
abbiamo varii documenti rinvenuti nell'Archivio di Stato: uno di
essi ci fa conoscere che la sua Baronia riferivasi al possesso
della giurisdizione delle cause criminali e miste del piccolo
paesello di Acquaformosa, in cui si contavano soli 79 fuochi per
la maggior parte costituiti da Albanesi; altri documenti ci fanno
conoscere che vi possedeva pure territorii feudali con bestiami,
che si riteneva cittadino di Altomonte ma abitava Cosenza, e che
era molto energico, anzi prepotente nel voler essere rispettato ed
ubbidito a ogni modo, sicchè dovè essere un braccio forte davvero
pel Campanella nelle angustie in cui il frate ebbe a ritrovarsi.
Quanto al medico Gio. Francesco Branca di Castrovillari il
Capialbi ce ne ha già dato particolari notizie biografiche.
Avrebbe avuto a quell'epoca press'a poco 32 anni, e la sua cultura
è attestata dalla sua biblioteca con manoscritti proprii che finì
per lasciare a' frati conventuali del suo paese; d'altronde merita
una speciale menzione, perché si trovò complicato anch'egli nella
famosa congiura, e dovè salvarsi con grosso riscatto, come fu
attestato dal medesimo Campanella. Quanto poi al medico Plinio
Rogliano di Rogiano abbiamo trovato che il nome di Plinio era
veramente il suo, e non già che era chiamato da' suoi con tal nome
per la sottigliezza del suo ingegno, siccome è parso al
Baldacchini interpetrando meno correttamente le parole del
Campanella. Aveva in quel tempo appena 24 anni, e gli fa grande
onore l'affermazione del Campanella, che per la sottigliezza del
suo ingegno era stimato superiore a molti; pare che possedesse
terreni in Altomonte mentre aveva stanza in Rogiano. né possiamo
trattenerci dal notare che non ne' chiostri, ma fuori di questi e
presso umili professionisti di piccole città, come anche presso un
Barone rurale, il Campanella trovava libri e consigli; e se
volessimo indagare cosa avrebbe trovato a' tempi nostri, dovremmo
certamente arrossire. Veniamo al P.e Provinciale Pietro Ponzio,
presso cui si cercava mettere il Campanella in mala voce. Egli era
zio de' Ponzii amici di fra Tommaso, e crediamo bene che con
l'opera loro fra Tommaso ne avesse acquistata la benevolenza: il
P.e Fiore ci lasciò scritto che fu Provinciale di Calabria negli
anni 1587 e 1588, ma la durata del suo ufficio si estese anche a
parte del 1589 quando gli successe P.e Silvestro d'Altomonte; e
vedremo che fu più tardi ucciso da alcuni frati per mandato di
taluno che aspirava al Provincialato e ne temeva la concorrenza,
la qual cosa fece nascere odii mortali tra i Ponzii e gl'imputati
dell'omicidio, né questi odii rimasero senza conseguenze pel
Campanella che era tanto amico de' Ponzii. Non sappiamo poi chi
sia stato quel superiore, il quale fece in Altomonte così aspra
guerra al Campanella: potè essere appunto quel P.e Silvestro
anzidetto che riuscì Provinciale, visto il continuo trovare Priori
de' conventi i frati nativi del paese: ma sappiamo solo che
compagno in Altomonte gli fu pure fra Gio. Battista di Pizzoni, il
quale nel processo depose che là il Campanella scriveva
quell'opera che poi stampò in Napoli. Ma fu veramente l'invidia la
cagione della guerra mossa al Campanella dal suo superiore? Fu la
dottrina antiperipatetica quella che costui chiamò falsa dottrina?
Come mai poterono appunto persone laiche, quali il Campolongo e i
due avvocati, difendere il Campanella dall'accusa di troppo
conversare con laici? Come mai sursero «tempi difficilissimi e
cose d'alta importanza» che il Campanella accenna senza
spiegare? Si verificò pur troppo un incidente importantissimo, che
il Campanella ebbe cura di nascondere costantemente; si verificò
fin dalla sua dimora in Cosenza, e per esso dovè partire da quella
città d'ordine de' superiori, per esso continuò ad essere
perseguitato in Altomonte, per esso, ritornato in Cosenza, si
decise ad andarsene a Napoli. Di tale incidente passiamo a
discorrere.
Narrò il Cyprianus, dietro una lettera diretta a Gio. Andrea
Schmidt da Carlo Caffa, il quale affermava di averlo saputo da un
Domenicano ottuagenario stato già condiscepolo del Campanella nel
convento di Cosenza, che il Campanella nella sua gioventù era di
tanto rozzo ingegno da movere a disprezzo e riso, ma che avendo
conosciuto un Rabbino Ebreo, ed essendo rimasto con lui per otto
giorni continui in uno studiolo, lontano dalle discipline e da'
compagni, con una Cabala, per pochi e brevissimi principii, potè
sorgere uomo sì grande ed ammirando. Tutti hanno qui scorta una
leggenda con una parte di vero ed una maggior parte di falso,
riferibile allo studio delle scienze occulte iniziato dal
Campanella per opera di questo Ebreo, ma possiamo dire che vi fu
qualche cosa di più, o che da allora in poi si accreditò quella
opinione la quale fece grande e poi misero il Campanella in mezzo
a' frati ed a' laici della sua Calabria, che cioè egli conversasse
con gli spiriti e che la sua scienza meravigliosa provenisse dal
diavolo. Il fatto accadde non per otto giorni ma per alcuni mesi,
non nella prima età ma nel periodo più inoltrato de' suoi studii,
in Cosenza ed Altomonte; né pare dubbio che sia stato il principio
recondito delle sventure del Campanella, il quale non ne parlò
mai, involgendo ogni cosa nel fatto delle avversioni procuratesi
col combattere Aristotile. Ma ecco quanto risulta da parecchie
testimonianze, alcune delle quali ben degne di fede, perocchè
l'incidente venne di poi agitato con molta larghezza nel processo
di eresia avuto in Napoli. - «Diece anni prima» del processo,
(naturalmente in termine approssimativo), peregrinando pel mondo
capitava in Cosenza un Ebreo a nome Abramo, giovane su' 30 anni,
alto della persona, pienotto, di poca barba, viso pallido, occhi
azzurri, in fama di conoscitore di scienze occulte, possessore di
spiriti familiari, indovino del passato, del presente e del
futuro, astrologo e negromante: giusta il costume antico e moderno
(come si vede pur oggi per coloro i quali son creduti capaci di
presagire in materia di lotto), molti in Cosenza si davano premura
di stringere con lui intime relazioni e l'invitavano
frequentemente a pranzo, sicchè egli viveva a spese de' suoi
ammiratori de' quali aveva un gran sèguito. Venne anche nel
convento di S. Domenico, vide il Campanella e si pose in relazione
con lui, volendone forse far soggetto delle sue divinazioni: fra
Tommaso se ne compiacque e fece amicizia con l'Ebreo, il quale gli
avrebbe nientemeno profetato che un giorno sarebbe divenuto
Monarca del mondo, e di ciò si parlava già pubblicamente in que'
luoghi! Aggiungeremo subito che tale profezia potrebbe parere
un'invenzione de' tempi del processo, per darsi una spiegazione
della congiura; ma si vedrà in sèguito essere stata senza dubbio
ripetuta pure qualche altra volta dal Campanella medesimo, il
quale credeva di avere avuto non solamente tre ma sette pianeti
ascendenti favorevoli. Oggi tutto ciò farebbe sorridere; ma
bisognerebbe ignorare che l'astrologia era allora la scienza
ricercata da' più forti ed audaci intelletti, e chi l'ignorasse
potrebbe trovarne nel D'Ancona eruditissimi cenni, che vanno
tenuti presenti per bene intendere i tempi e le cose delle quali
trattiamo. Il filosofo ad ogni modo si legò un po' troppo
all'Ebreo, trattava con lui nella città e nel convento, insieme
con altri laici ed anche da solo a solo, e tale sua condotta
increbbe molto a' superiori. Fu quindi mandato in Altomonte, ma là
fu pure seguito dall'Ebreo, né si astenne dal trattare con costui
per molti giorni; naturalmente ne dovè patire acerbe riprensioni e
gravi accuse, e nel ritornare di poi a Cosenza, si sparse
certamente la voce che, esortato dall'Ebreo, volesse deporre
l'abito di religioso ed andarsene con lui a Napoli. Il Priore del
convento fra Giuseppe Dattilo, avvertito di ciò da fra Domenico di
Polistina Reggente, chiamò il Campanella e lo riprese; egli
rispose che volea deporre l'abito perché non avea fatto
professione in età perfetta, ma poi se ne astenne, sibbene partì
da Cosenza per Napoli, e rimase incerto se partisse con licenza o
no; solo è certo che fu ritenuto da tutti essere partito in
compagnia dell'Ebreo, aggiungendosi che costui era stato «la ruina
del Campanella» e che di poi fu giustiziato, taluno diceva in
Napoli come spia del Turco, qualche altro diceva in Roma come
eretico. Queste cose si rilevarono nel processo, e vedremo che non
vi mancò nemmeno la testimonianza di fra Dionisio medesimo, niente
sospetta e del tutto spontanea, atta a far intendere se non i
particolari dell'incidente, per lo meno la sua gravità: poichè
avendo un frate già compagno del Campanella in Cosenza (fra
Vincenzo d'Amico) affermato che si era detto essere il Campanella
partito di Calabria con un certo Abramo, e che egli diceva di
partirsi a motivo delle persecuzioni del Provinciale M.° Pietro
Ponzio, fra Dionisio, interrogato senza alcuna prevenzione, si
affrettò a dichiarare, che trovandosi lui a quel tempo in Napoli
nel convento di S. Caterina a Formello, suo zio, il quale era
allora Provinciale di Calabria, gli scrisse che se voleva la sua
benedizione ed essere tenuto per nipote, non avesse pratica col
Campanella, il quale se n'era «fuggito di Calabria con un Ebreo di
cattivo nome» e questa fuga avea recato grave scandalo. Non è
dunque nemmeno esatto quanto il Campanella ci lasciò scritto
intorno all'atteggiamento del P.e Provinciale verso di lui; e si
comprende ora che si trovò davvero in tempi difficilissimi e in
cose di alta importanza, sicchè dovè riuscirgli non solo utile ma
estremamente necessaria la difesa, di un uomo energico qual'era il
Barone di Acquaformosa coadiuvato da amici attaccatissimi quali i
due avvocati, mentre la falsa dottrina non rifletteva i principii
Telesiani, sibbene i principii di fede, come il conversare con
laici non rifletteva laici comuni, sibbene un Ebreo il quale era
per soprappiù ritenuto negromante; né c'è bisogno di dire che a
questo fatto deve riferirsi ciò che l'ignoto condiscepolo del
Campanella, divenuto ottuagenario, raccontava a Carlo Caffa,
naturalmente secondo le sue deboli reminiscenze e le voci che
erano corse nel volgo de' frati in Cosenza. Al Berti è parso che
in un brano dell'Atheismus triumphatus il Campanella avesse
parlato di relazioni da lui avute con un astrologo, e bruscamente
rotte, avanti che entrasse nel carcere, ma in verità, sebbene la
dicitura di quel brano non sia punto chiara, è impossibile
leggervi il fatto accennato dal Berti, né poi mancano altri
documenti, pe' quali riesce manifesto che il fatto esposto
nell'Atheismus si verificò appunto nel carcere di Napoli, circa 15
anni dopo l'epoca della quale trattiamo. Si deve pertanto
conchiudere, che pure ammettendo essere state delle più semplici
le relazioni del Campanella coll'Ebreo, i suoi superiori, non
esclusi quelli che si ha ogni ragione di credere i meglio disposti
verso di lui, le appresero malissimo, e il Campanella si trovò per
esse spinto in una falsa posizione, che gli fu di gran pregiudizio
pel momento e per l'avvenire; d'altra parte si deve cominciare ad
intendere che per le speciali condizioni, nelle quali ebbe a
trovarsi, egli non fu in grado di parlare chiaramente e
manifestare tutta la verità nelle cose che riguardavano la persona
sua, e però bisogna andar cauti nell'accoglierne le affermazioni.
Ora vediamolo in Napoli.
II. L'epoca della venuta del Campanella a Napoli è stata dal
Berti, il più preciso de' suoi biografi, riportata all'anno 1591;
ma a noi sembra che debba con la maggiore probabilità riportarsi
alla fine del 1589. - Cominciamo, al solito, dal vedere ciò che si
legge nel Syntagma de libris propriis intorno alla sua venuta e a
ciò che egli fece in questa città. Parlando della sua Filosofia vi
si dice: «questo libro di polemica fu stampato in Napoli presso
Orazio Salviano nell'anno del Signore 1590, nel qual tempo
pure, in casa del Marchese di Lavello e col favore del figliuolo
Mario del Tufo, scrissi due commentarii, uno del Senso, un altro
della Investigazione delle cose, e composi molti discorsi ed
orazioni, per amici che andavano a prendere la laurea. A scrivere
questi libri del Senso delle cose mi spinse principalmente una
disputa fatta in un pubblico Congresso, ed oltracciò Gio. Battista
Della Porta, che avea scritto la Fisiognomia in cui si diceva non
potersi dar ragione della simpatia ed antipatia delle cose, mentre
esaminavamo insieme il suo libro già stampato..... Scrissi
in sèguito un certo esordio di Nuova Metafisica, nel quale
stabiliva come principii metafisici la necessità, il fato,
l'armonia. Parimenti la Filosofia Pitagorica con un Carme
Lucreziano, invogliato molto della lettura di Ocello Lucano e de'
detti de' Platonici. Ma nell'anno del Signore 1592 me ne
andai a Roma fuggendo gli emuli accusatori che dicevano: come sa
di lettere costui mentre non le ha mai imparate?» Bisogna
aggiungere che negli ultimi versi della prefazione alla
Philosophia sensibus demonstrata, edita l'anno 1591, licenziandosi
da' lettori dice: «Aspettate presto, Dio permettendo, un nostro
commentario Dell'investigazione delle cose ed un altro Del senso
delle cose». Al Berti è parso che il Campanella sia caduto in
errore nel trattato De libris propriis, avendo detto che la sua
Filosofia sia stata pubblicata l'anno 1590, e non nel 1591 come ne
fa fede il frontespizio: ma veramente il Campanella affermò essere
stata la sua opera «stampata» nel 1590, la qual cosa non
contraddice all'essere stata pubblicata nel 1591. E considerando
che molto tempo s'impiegava allora per la stampa di un'opera,
massime in Napoli, come pure che il Campanella ebbe a comporre
ancora diverse opere nella stessa epoca; considerando d'altra
parte che egli dovè partire piuttosto in fretta da Cosenza nel suo
ritorno da Altomonte, come pure che dovè poi andarsene da Napoli
in un periodo non inoltrato del 1591, secondochè dimostreremo con
documenti; si converrà che la data da noi stabilita della sua
venuta a Napoli, cioè la fine del 1589, sia la più plausibile. Se
guardiamo pertanto alle informazioni che ne dà il processo del
1599, troviamo da due deposizioni accennato veramente il 1591 come
l'anno in cui egli era in Napoli «in casa di Mario del Tufo»: ma
anche qui le deposizioni riflettono piuttosto l'ultimo periodo
della dimora del Campanella in Napoli. Una deposizione poi di fra
Dionisio Ponzio dice, che «la fuga» del Campanella da Calabria
avvenne dopo il Capitolo celebrato in Roma, nel quale fu eletto il
Generale che a quel tempo (nel 1600) presedeva all'Ordine; ora si
sa che Generale a quel tempo era fra Ippolito M.a Beccarla di
Mondovì e che costui fu eletto il 20 maggio del 1588, come risulta
dal libro del Quétif ed Echard e meglio anche dall'iscrizione
funeraria apposta alla sua tomba, ben conosciuta dagli amatori
delle cose napoletane nella Chiesa di S. Domenico di Napoli.
Fu narrato dall'Eritreo che appena giunto il Campanella in Napoli,
nel passare innanzi al monistero di S. Maria la nuova appartenente
a' Francescani, veduta gran turba andare e venire e saputo che vi
si faceva una disputa, essendo libero ad ognuno il prendervi parte
volle provarvisi, e seppe vincere e fu portato in trionfo a casa
da' frati dell'ordine suo. Non abbiamo veramente alcun'altra
notizia speciale intorno a questa avventura del Campanella, ma
dobbiamo dire che non ne rimaniamo punto sorpresi: forse ad essa
alluse egli medesimo, quando nel suo Dialogo politico contro i
Luterani e Calvinisti prese le mosse da una disputa fatta
sull'argomento in S. Maria la nuova di Napoli, alla quale erano
intervenuti due degl'interlocutori, né sarà sfuggito che nel brano
del Syntagma riportato più sopra egli parla pure di una «disputa
fatta in un pubblico Congresso», dalla quale fu spinto a scrivere
sul Senso delle cose. Nel libro poi del Marta, combattuto dal
Campanella, si trovano citate diverse dispute filosofiche col nome
de' disputanti e le rispettive opinioni, le quali il Fiorentino ha
rilevate con molta cura: ma noi, nell'Archivio di Stato, abbiamo
già da un pezzo trovato alcuni documenti, che dimostrano la
frequenza e varietà di tali dispute, presso a poco ne' tempi de'
quali trattiamo, con tutte le circostanze desiderabili. Le dispute
si facevano nelle Chiese, non ne' Chiostri come ha mostrato di
credere il Baldacchini, e per lo più nelle ore pomeridiane della
Domenica; non ancora erasi pervenuto al punto di rendere anche
materialmente la Chiesa estranea alla cultura. Annunziavano le
dispute grandi manifesti o come allora si dicevano cartoni,
affissi «per li luoghi pubblici et ordinarii di questa fidelissima
città», sia a stampa sia manoscritti, e ce ne rimangono dell'una e
dell'altra maniera, col loro dorso tuttora impiastricciato delle
sostanze adoperate per farli attaccare alle mura; essi recavano,
col nome di chi sosteneva la disputa, una dedica, un fervorino,
l'elenco delle proposizioni o capi da disputarsi, e l'indicazione
del luogo, del giorno e dell'ora. Quelli che abbiamo veduti
talvolta hanno il nome di un preside, che poi certifica essere
state le proposizioni sostenute «con sodisfattione et
approbatione»; talvolta sono accompagnati dal certificato di
un mastro d'atti, che espone le circostanze della disputa, i nomi
delle persone che hanno argomentato e di quelle tra le più
notevoli che sono semplicemente intervenute, inoltre l'esito
finale, «che tutti hanno detto esserne state bene difese et
disputate le sudette Conclusioni con darne infinite lode al detto
Dottore» etc. Era un modo onorevole di farsi conoscere in
qualsivoglia ramo dello scibile: difatti abbiamo cartoni di
dispute in filosofia, in medicina, in materia legale, sostenute da
studenti, da Dottori, Accademici Partenii, Accademici Costanti,
Dottorati in Napoli che volevano essere ammessi a leggere e
disputare secondo i Capitoli della Scuola di Salerno,
coll'indicazione della sede della disputa, nella Chiesa del
Collegio del Gesù, nella Chiesa di S. Giovanni maggiore, nella
Chiesa di S. Giovanni a Carbonara. E dev'essere notato che
in filosofia disputavano non soltanto i frati, ma principalmente i
medici, tra' quali era celebratissimo campione di dispute a quel
tempo il medico Latino Tancredi di Camerota, o Latino Camerotano,
che poi prestò anche i suoi consigli medici al Campanella, come
vedremo a suo luogo: perocchè la facoltà di filosofia era fusa in
quella di medicina, e con le letture di filosofia più basse e poi
più elevate i medici cominciavano e poi chiudevano la loro
carriera, così nell'insegnamento pubblico come nel privato. In
verità i frati, almeno in Napoli, si sforzarono sempre di
soppiantare i medici nelle letture di filosofia nel pubblico
studio, ma per lunghissimo tempo non vi ebbero fortuna, malgrado
il favore de' Vicerè bigotti; basta dire che scorso perfino un
altro secolo, il Cappellano maggiore ancora scriveva al Vicerè
doversi le letture di filosofia tenere da' medici e non da' frati,
poichè gli studenti non andavano a udire i frati. Bisogna quindi
guardarsi pure dal credere che le controversie filosofiche si
agitassero solamente tra' frati, e si può pertanto conchiudere non
esser punto difficile che il Campanella, appena venuto in Napoli,
si sia trovato a far parte di una disputa filosofica in una
Chiesa. Ciò che ci pare piuttosto difficile si è che egli sia poi
andato ad abitare il convento di S. Domenico.
Le circostanze che menarono il Campanella a Napoli, la sua così
detta «fuga dal convento di Cosenza» coll'indignazione dei
superiori, parrebbero un grave argomento per escludere che egli
fosse andato ad abitare il convento di S. Domenico; ma per verità
l'argomento non è grave, attesochè il sistema de' tempi era
rappresentato da una singolare alternativa di debolezza e di
violenza grandissima, ed i frati specialmente Domenicani vivevano
più che in libertà, in licenza sconfinata. Invece più grave
argomento è quello della difficoltà che i Domenicani calabresi
avventizii incontravano ad avere una stanza ne' conventi di
Napoli. Esistevano nella città non meno di 9 grandi conventi di
detta Religione, quattro ordinarî e cinque riformati, ma i così
detti «fuochi» di Domenicani nella città e nei borghi si elevavano
a non meno di 16, con 682 «anime», la più alta cifra dopo quella
de' Francescani e de' Benedettini: veramente, oltre i frati del
Regno e gli spagnuoli, si trovavano fra loro anche parecchi
lombardi come del resto parecchi del Regno si trovavano ne'
conventi di Lombardia, essendovi relazioni molto frequenti fra le
due regioni dominate dalla stessa potenza spagnuola; pertanto i
frati calabresi, venendo in Napoli, non potevano avere facile
accesso in questi conventi, al punto che dovè più tardi pensarsi a
fabbricarne uno espressamente per loro. È noto infatti che fu
perciò fabbricato nel 1606 il convento di S. Maria della salute,
detto poi di S. Domenico de' calabresi o di S. Domenico Soriano
nella piazza fuori porta Regale (oggi piazza Dante) per opera di
fra Tommaso Vesti Domenicano calabrese reduce da Algieri, co'
danari ricevuti da Sara Ruffo di Misuraca sua compagna di
schiavitù nello stesso posto. È verosimile dunque che il
Campanella abbia dovuto fin dal suo arrivo rimanere fuori
convento, e forse fin d'allora divenire ospite de' Signori del
Tufo, co' quali abbiamo già notata la conoscenza probabilmente
avvenuta a' tempi della sua dimora in S. Giorgio. - Non si
creda pertanto che con ciò il Campanella cadesse in grave colpa,
allontanandosi dall'austerità della vita religiosa e dagli
obblighi della regola di S. Domenico: in Napoli, tra' Domenicani
di que' tempi, non v'era né austerità né regola, e se mai, in
conferma di quanto diciamo, non si volessero accettare i racconti
e i giudizî delle cronache napoletane, si dovranno certamente
accettare le relazioni e i giudizî del Nunzio Aldobrandini, che si
rilevano dal suo Carteggio esistente nell'Archivio di Firenze.
Egli fin da' primi mesi della sua venuta in Napoli, nel 1592,
scriveva a Roma contro la vita licenziosa de' frati in generale e
dimandava poteri per rimediarvi; ma pe' Domenicani in ispecie non
cessò mai di fare le più alte lagnanze. Si sforzò anche troppo
d'introdurre la vita più austera de' Riformati in S. Domenico, ed
ottenuti gli ordini del Papa, nel 1595, fece sloggiarne tutti
coloro che l'abitavano ed introdurvi 60 frati Riformati presi dal
convento della Sanità: ma ebbe a vedere, otto giorni dopo, i frati
scacciati venire armati di pistole, coltelli e bastoni, e
coll'aiuto di quelli di S. Pietro Martire prendere d'assalto il
convento, scacciarne i nuovi abitatori, introdurvi munizioni per 6
mesi, fortificarsi, elevar trincee alle porte, guarnire di sassi
le finestre, suonare le campane a martello, eccitando il popolo e
parte della nobiltà in loro favore, destando forte commozione nel
Vicerè; e durarono così tre buoni mesi in aperta ribellione, da'
primi di aprile a' 22 di giugno, quando aprirono finalmente le
porte vincendo la partita in barba al Nunzio ed allo stesso Papa.
Il Papa concedeva che mandassero due de' loro in Roma per esporre
le proprie ragioni, ma esigeva che frattanto facessero
l'ubbidienza ed uscissero dal convento di S. Domenico cedendo il
posto a' frati che stavano ne' conventi di S. Severo, di Gesù e
Maria, di S. Caterina a formello, con l'avvertenza di farvi
entrare «quelli che fossero lombardi» probabilmente credendo di
disinteressare così il popolo napoletano nella quistione: ma i
frati di S. Domenico non ne vollero far nulla, ed il Vicerè ebbe
timore di accordare il braccio secolare per costringerli
all'ubbidienza verso il Papa. Abbondano poi i casi particolari di
Domenicani inquisiti e processati durante tutto il periodo della
Nunziatura dell'Aldobrandini, e fino al termine del suo ufficio
egli se ne lagnò spesso: così scrivendo al Card.l S. Giorgio
diceva, «voglio che sappia che non è Religione in questo Regno più
relassata di questa, et che si sentino maggiori enormità et
d'ogni sorta» (e qui registrava una lunga filza di queste
enormità), come pure scrivendo al Padre Generale de' Domenicani
diceva, «si sanno i molti delitti gravi che seguono nella
Religione senza che pur ci si pensi». Il Campanella dunque non
avrebbe nulla guadagnato se fosse rimasto tra siffatti frati:
eppure ebbe poi perfino a risentire indirettamente il danno de'
dissensi e de' tumulti frateschi, avvenuti quando egli era da un
pezzo già partito da Napoli; poichè, come abbiamo avuta occasione
di accennare più sopra, trovavasi in questa città fra Dionisio
Ponzio, il quale non era uomo da stare in disparte fra quelle
baruffe, e gli odii che n'ebbe a riportare ricaddero anche
sull'amico suo. Venuto a stare nel convento di S. Caterina a
formello, egli passò in seguito appunto a quello di S. Pietro
Martire come «studente formale»: un fra Marco da Marcianise, del
quale avremo ad occuparci più tardi anche troppo, ed un fra
Ambrogio di Napoli, che fu poi del piccol numero di frati lettori
pubblici di filosofia (1613-23) e in sèguito Vescovo di Tropea,
fecero sì che gli studenti non napoletani fossero privati di voce
attiva, ed ecco sdegnati questi studenti mandare un loro
procuratore a Roma presso Innocenzo IX, e il procuratore prescelto
fu appunto fra Dionisio, che dovè scrivere memoriali e suppliche
contro fra Marco. A tempo de' tumulti poi egli trovavasi in Roma,
per provocare il processo contro i frati calabresi che avevano
ucciso suo zio il Provinciale Pietro Ponzio: fra Marco di
Marcianise, era appunto Superiore dei frati della Sanità che si è
detto sopra avere occupato il convento di S. Domenico, e fra
Dionisio, prendendo le parti de' frati di S. Domenico, agì e
trattò contro i Riformati e contro fra Marco. È superfluo dire
quanto odio ne nascesse, e fra Marco fu appunto il Commissario che
istituì poi i processi in Calabria nel 1599.
Ma dunque, da principio o più tardi, il Campanella venuto in
Napoli se ne andò a dimorare nella casa de' Signori del Tufo
Marchesi di Lavello, e poichè essi furono lungamente protettori ed
amici di fra Tommaso, al punto che taluni si trovarono poi
nominati nella faccenda della congiura, ed uno ne fu carcerato
contemporaneamente, un altro consecutivamente, è giusto darne
notizia con qualche larghezza. Figuravano questi Signori tra le
famiglie primarie nella nobiltà: vantavano la loro origine da uno
de' primi Normanni venuti con Guglielmo Ferrabuc, Ercole Monoboij,
che poi prese il suo cognome dalla terra del Tufo nella Provincia
di Principato Ultra, avuta con altri doni in premio del suo
valore; vantavano un Roberto del Tufo Signore di Montefredano
presso Avellino, registrato nell'elenco de' Baroni che seguirono
Goffredo di Buglione alla conquista di Terra Santa. A' tempi de'
quali trattiamo, abitavano nella contrada che oggi si dice di S.
M.a di Costantinopoli, nelle case appartenute già a' Castriota
Scanderbeg, e poi divise fra loro e i Signori Marciani, cui faceva
sèguito il palazzo del Reggente David, divenuto poi più tardi, nel
1610, la Chiesa ed il Monastero di S. Giovanniello; il palazzo de'
del Tufo era quello oggi segnato col n.° 102, provisto, come gli
altri contigui, di un giardino che avea per parapetto il muro
della città durato fino a' giorni nostri. Quivi il Campanella
trovò agio e conforto, e ben può dirsi questo il solo luogo di cui
potè ricordarsi con piena soddisfazione durante tutta la sua vita.
Ecco gl'individui di casa del Tufo che principalmente
c'interessano per la nostra narrazione.
1.° Gio. Geronimo del Tufo, che era 2° Marchese di Lavello: già
capitano di cavalli nella guerra del Tronto, poi Governatore e
Commissario generale in entrambe le Calabrie, Reggente della
Vicaria, Membro del supremo Consiglio Collaterale; padre di
Giovanni, avuto da Isabella di Guevara sua 1.a moglie (già morto
nel tempo del quale trattiamo) e di Mario, avuto da Antonia Carafa
della Spina sua 2.a moglie, che sposò il 1547 e che gli diede pure
molti altri figliuoli. Egli rappresentava la casa al tempo in cui
il Campanella venne a Napoli: ed era molto innanzi negli anni e
morì nel 1591.
2.° Mario del Tufo, secondogenito di Gio. Geronimo predetto:
coll'aver tolto in moglie Fulvia Persona era divenuto Barone di
Matina in terra d'Otranto; più tardi comprò anche Minervino e
qualche altro feudo, onde s'intitolò anche Barone di Minervino; ed
ebbe dalla sua Fulvia Ascanio e diversi altri figliuoli. Egli
propriamente ospitava il Campanella, come fu specificato in una
deposizione che si ebbe nel processo di eresia dibattuto in
Napoli, mentre nel Syntagma è accennato confusamente là dove si
parla di alcune opere scritte «in casa del Marchese di Lavello, e
col favore del figliuolo Mario del Tufo». Vedremo che a lui il
Campanella dedicò la sua filosofia, con lui rimase sempre in
corrispondenza dirigendogli pure altre opere scritte altrove più
tardi, ed egli propriamente si trovò poi nominato qual complice
nella congiura.
3.° Gio. Geronimo del Tufo, che fu 4° Marchese di Lavello, e
Signore di Montemilone, nipote di Mario predetto, figlio di
Giovanni del Tufo 3° Marchese di Lavello e di Caterina Caracciolo
sorella del Duca d'Airola: costui fu Doganiere della Dogana di
Puglia e poi scrivano di razione, ma molto più tardi; aveva già
nel 1588 sposato Beatrice di Sangro figlia di Fabrizio Duca di
Vietri. Di questo Fabrizio di Sangro avremo ancora a parlare
ulteriormente, giacchè egli pure fu creduto aderente alla
congiura, come il Marchese Gio. Geronimo, che vedremo anche
carcerato più tardi, sempre perché amico e protettore del
Campanella. E si avverta che costui propriamente era il Marchese
di Lavello di cui si faceva parola a' tempi della congiura,
essendo successo all'avo nel 1591, come si scorge da' Registri
delle Significatorie de' Relevii, che mostrano quella a lui
spedita il 18 9bre di detto anno.
4.° Francesco o Ciccio del Tufo 5° Marchese di Lavello, figlio di
Gio. Geronimo: al tempo nel quale ci troviamo era giovanetto;
successe al padre nel 1607, come si scorge parimenti da' Registri
delle Significatorie de' Relevii, che mostrano quella a lui
spedita il 28 9bre di tale anno. Avendo sposata Costanza Pappacoda
figlia del Marchese di Capurso, ne ebbe Giovanni 6° Marchese di
Lavello; ma la sua salute si alterò presto, e finì per essere
dichiarato inabile ad amministrare, mentre la sua moglie se ne
viveva ritirata nel monastero di Regina coeli «more nobilium» (14
genn.° 1629). Lo vedremo menzionato in qualcuna delle lettere e
delle opere del Campanella, implicato anche in una circostanza
della vita del filosofo non priva d'interesse, onde tutte le date
suddette, da noi laboriosamente raccolte, non debbono punto
credersi un vano lusso di erudizione.
5.° Geronimo del Tufo. Era figlio di Fabrizio del Tufo e Porzia
Muscettola, e sposò Costanza del Tufo sorella di Gio. Geronimo
sopranotato; non deve quindi confondersi con Gio. Geronimo.
Fabrizio suo padre discendeva da Paolo secondogenito di Giovanni
Signore di Lavello (non ancora era sorto il Marchesato), e tenne
l'ufficio di Governatore della provincia di Bari nel 1587-88, poi
della provincia di Calabria ultra con lettere patenti di Capitano
a guerra nel 1595-96. Vedremo Geronimo in carriera di Capitano di
città precisamente nelle Calabrie, e non solo nominato, ma
carcerato qual complice della congiura.
6.° Marcantonio del Tufo Vescovo di Mileto. Era figlio di Alfonso
del ramo de' Baroni di Frignano maggiore, e di Aurelia del Tufo
sorella di Fabrizio predetto, zio quindi di Geronimo del Tufo per
parte di madre. Fu creato Vescovo di S. Marco il 5 aprile 1585, e
poi passò a Mileto, in Calabria, il 21 8bre dello stesso anno:
morì nel 1606. Al Campanella non dovè riuscir difficile far la
conoscenza di questo Vescovo, che nella Narrazione pubblicata dal
Capialbi chiamò suo «patrono». Egli era superlativamente
battagliero nelle quistioni giurisdizionali, e naturalmente anche
per tale motivo si trovò nominato nella congiura.
Questi Signori del Tufo, come generalmente tutti i Signori di un
tempo, senza essere persone distinte per cultura aveano tuttavia
in molto pregio i buoni studii. Nella dedica della sua Filosofia a
Mario del Tufo il Campanella ci lasciò scritta questa circostanza
degna di menzione, che Bernardino Telesio fu «devotissimo» di
Mario e dell'inclito padre di lui; attestò inoltre l'ingegno
fecondo del Marchese Gio. Geronimo nella filosofia e nella poesia.
Non può quindi far meraviglia l'ottima accoglienza incontrata
presso costoro dal Campanella, il quale aveva già scritto in
difesa del Telesio con un ardore e una baldanza giovanile
notevolissima, imprendeva allora a compiere o a comporre altre
opere filosofiche, e palesava la sua dottrina già matura nelle
dispute pubbliche e private. Per altro abbiamo motivo di ritenere
che in casa Del Tufo egli avesse l'ufficio di precettore di
qualche figliuolo di Mario, oltrechè del giovanetto Francesco
futuro Marchese. Mario era già sposo da un pezzo e più volte padre
in questo tempo: attendeva alla coltivazione delle difese di
Montemilone e di altri territorii; si portava frequentemente fuori
Napoli, anche per vegliare alla sua razza di cavalli, i quali
avremo occasione di vedere che molto spesso si godeva il Gran Duca
di Toscana. Nel corso di questa narrazione c'imbatteremo in un
caso in cui il Campanella erroneamente si dolse di «un Marchese
discepolo ingrato», che fu senza dubbio Francesco del Tufo figlio
di Gio. Geronimo, e tutto induce a far credere che appunto in
questo tempo l'abbia avuto a discepolo.
Frattanto, per l'estesa parentela de' Del Tufo, il Campanella
venne a procurarsi ben presto la conoscenza anche di altri nobili
molto reputati. Abbiamo già avuta occasione di menzionare Fabrizio
di Sangro Duca di Vietri: non pare dubbio che egualmente in questo
tempo egli abbia conosciuto D. Lelio Orsini fratello di Ferdinando
Duca di Gravina, il quale D. Lelio divenne amico e protettore del
Campanella non meno de' Signori Del Tufo suoi parenti. Questa
parentela era abbastanza stretta, poichè lo zio di D. Lelio a nome
Flaminio Orsini, Signore di Solofra e Sorbo e Conte di Muro, avea
sposato Lucrezia del Tufo, e l'altro zio a nome Ostilio Orsini, il
quale fu poi Signore di Pomarico e Montescaglioso, sposò in
seconde nozze Diana del Tufo, entrambe figlie di Paolo del Tufo
fratello del vecchio Marchese di Lavello Gio. Geronimo, e lo
stesso D. Lelio sposò Beatrice Orsini figliuola del detto zio
Flaminio e Lucrezia del Tufo. Avremo campo di discorrere
partitamente di ciascun di questi Signori: ma per ora interessa
piuttosto di fermarci sopra un'altra conoscenza non meno
importante fatta in questo tempo dal Campanella, vogliamo dire
quella del celebre Gio. Battista Della Porta, che influì
abbastanza sull'animo del filosofo, ispirandogli anche l'opera De
Sensu rerum et Magia; nella quale occasione ci conviene dir
qualche cosa egualmente del fratello di lui Gio. Vincenzo Della
Porta, giacchè tutto induce a far ritenere che il Campanella abbia
conosciuto anche costui, e che costui abbia avuta la sua parte
d'influenza sul Campanella. Profitteremo qui di diverse notizie
rilevate da qualche scrittore meno consultato ed anche da scritti
rimasti finoggi inediti, massime intorno a Gio. Vincenzo, poichè
intorno a Gio. Battista abbiamo oramai una monografia del prof.
Fiorentino che ci dispensa dall'occuparcene a lungo.
Erano tre i fratelli Della Porta, di antico e distinto lignaggio e
di cultura ed erudizione maravigliose, Gio. Vincenzo, Gio.
Battista e Gio. Ferrante; parrebbe che un altro loro fratello a
nome Francesco, primogenito, fosse morto giovanotto. Figli di
Nard'Antonio, dal 1541 Regio Scrivano degli atti delle cause
civili della Vicaria, creati tutt'insieme, unitamente al padre ed
agli zii Francesco, Bartolomeo e Gonnisalvo, familiari e domestici
del Re di Spagna nel 1548, abitavano alla piazza della Carità, in
quella casa posta a sinistra della Chiesa, dove da lungo tempo
oramai si vede un albergo. Tutti e tre i fratelli erano
amantissimi di lettere, e forse perché Pitagorici pregiavano
grandemente la musica, fino ad aver tenuto a lungo in casa loro
Filippo di Monte, a que' tempi celebrato scrittore di musica; ma
gli amici notavano maliziosamente che nessuno di loro avea potuto
mai acquistare una buona intonazione nel canto. La loro casa fu
sempre il luogo di ritrovo dei letterati napoletani e forestieri,
e mano mano che ciascun fratello v'istituì qualche collezione, può
dirsi che dall'intera Italia, come dalla Francia, dalla Spagna,
dal Belgio, dalla Germania, dalla Polonia, non venivano uomini
culti che non si dessero premura di visitare Pozzuoli e di essere
ricevuti in casa Della Porta, non solo per le collezioni che vi si
ammiravano, ma principalmente per l'erudizione che vi si
apprendeva; giacchè possedevano una Biblioteca molto ricca, e non
per semplice lusso, non essendovi volume che non avessero
percorso, ritenendone ogni parte con una prontezza che facea
stordire, sicchè erano gli arbitri di ogni quistione erudita. Gio.
Ferrante non visse a lungo: tra le cose curiose, che lasciò, vi fu
una notevole collezione di cristalli antichi, che passò in altre
mani, giacchè in fondo i Della Porta non erano molto ricchi, e
nelle curiosità, ne' libri e nelle ricerche, spendevano
moltissimo. Gio. Vincenzo, primo de' fratelli, additato per la sua
magrezza, era scrivano di mandamento, di una integrità del tutto
eccezionale a que' tempi, aborrendo da' così detti «guanti e
paraguanti», parole che esprimevano in modo civile un basso
profitto: infaticabile nello studio, dottissimo nelle lettere
greche e latine, nella filosofia e matematica, nella botanica,
alchimia e medicina, era passionato cultore in ispecie
dell'antiquaria e dell'astrologia. Nell'antiquaria aveva
sceltissime collezioni di marmi e di medaglie, ed a questo titolo
teneva corrispondenza principalmente con Fulvio Orsini di Roma,
avea continue richieste di pareri e consigli, e riceveva
frequentissime visite dagli amatori, segnatamente dal Reggente
Marthos di Gorostiola che se ne dilettava moltissimo.
Nell'astrologia era stato discepolo di Giovanni da Bagnolo,
pregiava assai Matteo de Solizio, ed era amicissimo di Gio. Paolo
Vernalione che lo visitava frequentemente: la sua riputazione in
tal genere di cose era colossale, molto superiore a quella del
fratello Gio. Battista, avendo composte infinite natività di
uomini illustri, e fatte predizioni che formavano la meraviglia
universale; il Principe di Stigliano, Vincenzo Luigi Carafa, che
lo stimava e lo ricercava sempre, onorandolo pure con molti
donativi, conservava nella sua Biblioteca un grosso volume delle
natività da lui scritte. Del rimanente era uomo modestissimo
quanto religiosissimo, e motteggiava suo fratello Gio. Battista,
perché era così facile a comporre libri e a stamparli. Egli
scrisse sulle antichità di Pozzuoli e vicinanze, e si vuole che di
questo scritto si sia servito Scipione Mazzella nella composizione
del libro suo: scrisse pure Commentarii sopra l'Almagesto e il
Quadripartito di Tolomeo che non si sa qual sorte abbiano avuta,
un libro De emendatione temporum che essendosi trovato conforme a
quanto avea detto lo Scaligero fu da lui disfatto, un altro libro
della Emendazione del Calendario che non fu finito in tempo per
essere inviato a Roma e quindi fu condannato alla stessa sorte.
Morì nel 1606. - È del tutto verosimile che il Campanella abbia
frequentato le conversazioni di Gio. Vincenzo, non meno che quelle
di Gio. Battista, e con Gio. Vincenzo siasi più direttamente
inteso circa l'astrologia pratica, le predizioni, le compilazioni
delle genesi e natività allora tanto ricercate, e tanto dal
Campanella amate. Oramai le lettere sue scoperte dal Berti ci
hanno insegnato che perfino nel carcere di Napoli, e poi in quello
del S.to Officio di Roma, il Campanella siasi occupato di genesi e
natività, e i documenti da noi scoperti mostreranno che ne era
richiesto perfino nel periodo della sua pazzia; né sarà mai
approfondito abbastanza siffatto suo gusto, che fu tanta cagione
delle sue sventure. Forse anche presso Gio. Vincenzo egli conobbe
il Marthos Gorostiola, dal quale poi affermò essere stato eccitato
a scrivere intorno alla Monarchia spagnuola, come pure Gio.
Paolo Vernalione, col quale vedremo che conferì poco prima del
tempo della congiura.
Quanto a Gio. Battista Della Porta, tutti sanno che egli si spinse
assai più in alto. Studiò presso Gio. Antonio Pisano medico e
filosofo riputatissimo, e gli si mostrò grato dedicando una delle
sue opere al figliuolo di lui: fu ricercatore infaticabile, e
all'amore per le buone lettere e per la drammaturgia unì la
cultura della matematica, della fisica, dell'alchimia, di
tutte le scienze naturali; fu anche vaghissimo della medicina, ed
amante oltremodo della magia, dell'astrologia, delle scienze
divinatorie in genere, ma combattendo la magia demoniaca e
fondando la così detta da lui magia naturale. Tutti sanno che per
lo meno contribuì potentemente all'invenzione del cannocchiale e
della camera oscura, notando anche varii fenomeni fisici di alta
importanza, che investigò e raccolse da ogni lato, percorrendo
anche tutta l'Italia, la Francia, la Spagna, ma sempre con una
tendenza verso il maraviglioso e lo strano, che veramente fa gran
torto a lui e gran pena a chi si fa a leggere i suoi numerosi
libri. Eppure è indubitato che precisamente per questo richiamò
sulla persona sua l'attenzione e la stima universale de'
contemporanei, rimanendone pregiudicata quella de' posteri. Così
il Card.l Luigi d'Este lo volle presso di sè per qualche tempo; il
Gran Duca di Toscana gli mandò il suo medico Punta per averne
secreti; il Duca di Mantova Vincenzo Gonzaga si trattenne un pezzo
in Napoli e ne frequentò sempre la casa; infine Rodolfo II
Imperatore (nel 1604) gli scrisse e gli mandò il suo cappellano
Cristiano Harmio per sollecitarlo che gli spedisse qualche suo
discepolo pratico dell'arte. Ed egli allora, dopo di avere
pubblicate tante opere ed avendone pure altre fra mano, si decise
ancora a scrivere quel libro della Taumatologia etc. rimasto
incompiuto e inedito, ora esistente in Montpellier, nel
quale, in grazia certamente dell'Imperatore, diè prova di una
grande smania pe' segreti comunque mostruosi, mentre già da molti
anni se ne era abbastanza corretto. Ci asteniamo dal parlare delle
sue opere, della sua Accademia de' Segreti, della sua
partecipazione all'Accademia de' Lincei di Roma. Appena
menzioneremo che egli ebbe un processo di S.to Ufficio,
procuratogli certamente dall'astrologia giudiziaria ed esercizio
de' pronostici: un documento autentico capitato nelle nostre mani
ci rivela essere state fatte per lui le «ripetizioni» de'
testimoni avanti il 1580, reggendo il S.to Officio in Napoli
Mons.r Carlo Baldini Arcivescovo di Sorrento, e trovandosi Maestro
d'atti Francesco Joele; il processo quindi è di data diversa dalla
proibizione di stampare, che gli venne inflitta nel 1592, che durò
fino al 1598, ma che pure impedì consecutivamente la pubblicazione
della Taumatologia e della Chiromanzia.
Il Campanella, giovane ed infiammato scrittore di una nuova
filosofia che accennava ad essere sperimentale, oltracciò venuto
da Calabria con la mente già eccitata verso la magia e le arti
divinatorie, non poteva non frequentare la casa de' Della Porta e
non avervi lieta accoglienza. Verosimilmente le arti divinatorie e
i pronostici furono il soggetto di molte conversazioni, trovandosi
il Campanella sotto l'impressione dell'altissimo pronostico
fattogli dall'Ebreo; ma a noi è pervenuto solamente il ricordo
della conversazione (non disputa pubblica) avuta con Gio. Battista
intorno al non potersi dar ragione della simpatia ed antipatia
delle cose, come Gio. Battista aveva scritto nella Fisognomia,
«mentre esaminavano insieme il libro già stampato», la quale
conversazione, oltre a una disputa pubblica avuta altrove
precedentemente, diede occasione al Campanella di scrivere l'opera
De sensu rerum; in quest'opera c'è talvolta il ricordo di qualche
altro discorso passato tra lui e Gio. Battista, come p. es. a
proposito delle formazioni dendritiche dell'argento. Ebbe inoltre
il Campanella a profittare egli pure de' consigli e de' rimedii,
che Gio. Battista dispensava ed amministrava personalmente a
coloro i quali andavano a consultarlo; ne diremo or ora qualche
cosa. Presso i Della Porta anche dovè conoscere Giulio Cortese,
Colantonio Stigliola, Gio. Paolo Vernalione. Sicuramente conobbe
il Cortese in questa sua prima venuta in Napoli, poichè lo vedremo
da lui posto come interlocutore nel suo Dialogo contro i Luterani
che scrisse in Roma nel 1595; ma lo vedremo del pari citato
insieme allo Stigliola e al Vernalione a proposito di un discorso
passato tra loro intorno alla vicina fine del mondo, allorchè
venne per la prima volta in Napoli poco avanti la congiura; avremo
quindi campo di parlare di tutti costoro a tempo e luogo più
opportuni.
Dicemmo che il Campanella ebbe a profittare de' consigli e rimedii
di Gio. Battista Della Porta. Egli medesimo infatti, nella sua
opera Medicinalium, ci lasciò scritto che guarì subito da una
infiammazione di occhio mediante un collirio meraviglioso che il
Della Porta usava, e che gl'instillò con le sue mani in presenza
di molte persone. Veramente potè forse questo accadere nella sua
seconda venuta in Napoli; ma senza dubbio nella sua prima venuta
gli accadde di soffrire una doppia sciatica, che lo tenne per più
mesi a letto «essendo giovane di 23 anni», come ci lasciò scritto
nella medesima opera; la quale notizia della sua età non deve
indurre in un errore di data, riferendo la cosa all'anno 1591
anzichè all'anno 1590, perché avremo altre volte occasione di
vedere essere stato il Campanella solito di fare i suoi còmputi
calcolando anche la cifra dell'anno da cui il còmputo cominciava.
Egli intraprese la cura de' bagni e delle stufe di Pozzuoli e di
Agnano, naturalmente nell'està del 1590, e se ne trovò bene; ma la
malattia non l'abbandonò del tutto che due anni dopo, succedendole
una terzana. E deve essere notata la cagione che assegnò alla
comparsa della malattia, alla sua durata, al suo miglioramento:
aveva fatta, egli scrisse, una lunga e forte cavalcata, beveva col
ghiaccio e desinava lautamente presso un nobile uomo; cessate
tutte queste comodità, dimagrato nelle successive peregrinazioni,
si avviò a guarire. Da ciò si vede l'ottimo trattamento che godeva
presso Mario del Tufo, e la ben diversa vita che ebbe a menare in
sèguito. - Ma egli pure, quantunque si riconoscesse «poco erudito
ne' medicinali», curò dal letargo il P.e M.° Mattia Aquario, e
tale cura deve riferirsi egualmente al tempo della sua prima
venuta in Napoli. Abbiamo infatti rinvenuto nell'Arch. di Stato,
che questo Mattia Aquario, Domenicano, era pubblico lettore di
Metafisica, successo a Colanello Pacca il 12 marzo 1588, e morì
poi nel 1592, succedendogli il 20 giugno di detto anno D. Jacobo
Marotta. Da ciò già si rileva che il Campanella non mancava di
frequentare il convento di S. Domenico, e ne avremo ancora altre
prove in sèguito. Naturalmente ebbe così occasione di conoscere il
P.e Fra Serafino da Nocera (Serafino Rinaldi), il quale era
allora, o fu poco dopo, Reggente lo studio de' frati di quel
convento e divenne grande amico del Campanella, suo instancabile
fautore negli anni delle sventure. Entrato in Religione nel 1586,
già vi godeva moltissima stima, e al tempo de' tumulti de' frati
di S. Domenico, benchè si fosse tenuto lontano ritirandosi fra'
Certosini nel convento di S. Martino, fu ritenuto dal Nunzio qual
promotore principale della ribellione; fu quindi per ordine di lui
carcerato più tardi, e tenuto sotto processo per parecchi anni: ma
giunto a liberarsi, divenne presto superiore di S. Domenico, in
sèguito anche Provinciale, non che lettore di S. Tommaso nello
studio pubblico, e infine chiuse la sua carriera coll'Episcopato.
Vedremo a tempo e luogo i beneficii grandissimi e l'assistenza
paterna che quest'uomo benemerito prodigò al Campanella.
Dobbiamo ora dir qualche cosa delle opere composte dal Campanella
durante la sua permanenza in Napoli, e gioverà anzi cominciare ad
occuparci del Catalogo delle sue opere: bisogna una volta
sforzarsi di avere questo catalogo nelle migliori condizioni
possibili, quantunque esso riesca malagevole a farsi perché tra le
sventure sofferte dall'autore diverse sue opere furono composte e
ricomposte anche con diversi titoli successivamente; è
indispensabile conoscere con esattezza tra quali circostanze
ciascun'opera fu composta o ricomposta, mentre le fortunose
circostanze della vita dell'autore doverono certamente influire di
molto sopra le idee in esse sviluppate. Senza curarci delle cose
minori, delle versificazioni dell'adolescenza, de' sunti delle
lezioni compilati su' banchi della scuola etc. abbiamo finquì per
ordine di data le opere seguenti. In primo luogo il trattato De
investigatione rerum: esso fu composto certamente prima della
Filosofia, come appunto si rileva dalla prefazione di quest'opera,
fonte incomparabilmente preferibile a quello del Syntagma, che fu
redatto quarant'anni dopo e in modo tale da dover offrire di
necessità molte inesattezze; si può tutt'al più dire che in Napoli
vi fu posta l'ultima mano. Con ogni probabilità il trattato fu
scritto in Nicastro, dove il Campanella si emancipò totalmente
dalle dottrine Aristoteliche, il 1586-87, prima dell'andata a
Cosenza, dove egli rimase ben poco tempo per avere agio di
scriverlo. Esso costava di due libri, come risulta da varii
documenti; risulta poi dal Syntagma che vi si contemplavano nove
generi di cose sensibili, con le quali si poteva giungere a
ragionare e vi si dimostrava la definizione esser fine non
principio di scienza. Vedremo più in là come e dove andò perduto
insieme ad altri trattati, e dove si dovrebbe ancora trovare.
Segue la Philosophia sensibus demonstrata, composta in Altomonte
in 7 mesi, dal 1° gennaio all'agosto 1589, stampata in Napoli
durante il 1590, pubblicata il 1591, dedicata a Mario del Tufo, il
quale sostenne forse le spese della stampa, come traspare dalla
dedica. I molti errori tipografici incorsi «propter absentiam
auctoris» e in parte corretti nell'ultima pagina dell'opera, si
spiegano con la malattia sofferta e con l'andata a Pozzuoli ed
Agnano. Segue l'opera De sensitiva rerum facultate, o De sensu
rerum, composta dopo la disputa pubblica e la conversazione col
Porta già dette. Essa era già composta quando si stampava la
prefazione della Filosofia, come si legge appunto in termine di
questa prefazione; può dirsi quindi scritta nell'inverno del 1590.
E fu scritta in latino, come risulta da ciò che se ne dice
nell'opera stessa rifatta più tardi in italiano e successivamente
tradotta, dopochè andò perduta insieme col trattato «De
investigatione» e con altre opere. Verosimilmente ebbe dapprima
per titolo «De sensitiva rerum facultate», e così la troveremo
difatti ancora nominata in un documento del tempo in cui l'autore
passò a Firenze; ma ben presto egli dovè nella sua mente
sostituirgli il titolo «De sensu rerum» che adottò in sèguito, e
così difatti si trova già annunziata nella prefazione della
Filosofia. Vedremo come e dove l'autore l'abbia rifatta, e
metteremo in vista parecchie cose appartenenti agli anni
posteriori a quelli de' quali ci stiamo occupando: ma si sa che il
Campanella aveva una memoria tale, da essere in grado di tornare a
scrivere un'opera perduta, anche dopo varii anni, pressochè con le
medesime parole con le quali l'aveva dapprima scritta;
c'imbatteremo poi in qualche esempio notevole del suo sistema di
serbare fedelmente le cose come già stavano quando ebbe a rivedere
e compiere qualche sua opera, e generalmente anche quando ebbe a
tradurla dall'italiano in latino per darla alle stampe. Non
dubitiamo quindi di affermare che questa prima composizione
dell'opera De sensu rerum sia stata essenzialmente quella medesima
che oggi possediamo ricomposta. E dobbiamo notare che l'influenza
del Della Porta riesce evidente in essa anche così ricomposta come
ci è pervenuta, vedendovisi abbondare lo strano e il maraviglioso
ad esuberanza; ma pure, in ispecie nel 4° libro che rappresenta la
Magia, dove naturalmente il nome del Della Porta figura più volte,
il Campanella comincia col fargli l'appunto che ha trattato quella
scienza «solo historicamente senza rendere causa», e soggiunge che
«lo studio d'Imperato può esser base in parte di retrovarla».
D'onde si vede che egli voleva la Magìa fondata sulle nozioni
positive della storia naturale, e dava la più grande importanza al
celebre Museo, che Ferrante Imperato teneva in sua casa, presso
l'attuale palazzo delle Poste già de' Duchi di Gravina, e che egli
avea dovuto visitare come del resto lo visitavano tutte le persone
non ignoranti che venivano a Napoli. Succede all'opera De sensu
rerum il Carme Lucreziano De Philosophia Pithagoreorum,
ispiratogli dalla lettura di Ocello Lucano e de' detti di Platone:
intorno ad esso sappiamo che non era di poco rilievo, poichè
costava di tre libri; così difatti trovasi registrato ne'
documenti sopra citati, vale a dire negli elenchi delle opere del
Campanella da lui medesimo formati ed annessi ad alcune sue
lettere e ad un memoriale al Papa. Viene infine l'Esordio di una
Nuova Metafisica co' tre principii della necessità, fato ed
armonia, che riteniamo avere avuto propriamente per titolo De
rerum universitate; giacchè di un'opera appunto con questo titolo
vedremo fatta menzione nel documento già citato del tempo in cui
il Campanella passò a Firenze, e poi ancora in tutti gli altri
elenchi delle sue opere che diè fuori durante la sua prigionia di
Napoli, senza che nel Syntagma apparisca mai. L'opera in Napoli fu
solamente iniziata, e però ci è sembrato doverla porre in ultimo
luogo; vedremo che nel tempo dell'andata a Firenze (1592)
trovavasi tuttora incompiuta, ed era stimata l'opera maggiore che
egli avesse tra mano; negli elenchi sopra mentovati dicesi
composta di due libri, la qual cosa non implicherebbe che fosse
stata condotta a termine. Ben si vede che il Campanella in Napoli
spese gran parte del suo tempo nel comporre opere; e vogliamo
tener conto anche della notizia dataci dal Syntagma, che compose
«molti discorsi ed orazioni per amici che andavano a prendere la
laurea», solo per dire che realmente dal «Liber juramentorum»
rimastoci nell'Arch. di Stato si rileva essersi dalla fine del
1589 al principio del 1591 laureati parecchi amici suoi ed anche
un suo parente. Si laurearono Fulvio Vua de Marulla, Paolo
Campanella, Gio. Paolo Carnevale, tutti di Stilo, e Ferrante
Ponzio di Nicastro, leggisti: per alcuni di costoro, fra gli
altri, il Campanella verosimilmente prestò l'opera sua, e pur
troppo vedremo tutti costoro figurare più o meno nel processo
della congiura, insieme con taluni altri come Giulio Contestabile
e Tiberio Carnevale, che dalle «Matricole» si rileva essersi
trovati del pari in Napoli studenti.
Ci rimane a dire di un ultimo incidente avvenuto al Campanella in
Napoli, del tutto ignorato finora e frattanto importantissimo,
vale a dire un processo non lieve d'Inquisizione, che lo strappò
a' suoi ospiti ed a' suoi amici, e lo fece andare suo malgrado a
Roma.
Egli frequentava il convento di S. Domenico, dove trovavasi allora
lo studio pubblico ed inoltre una biblioteca molto accreditata.
Nello studio i frati non avevano alcuna ingerenza: essi davano in
fitto o come allora dicevasi «in alloghiero», ricevendone 50
ducati l'anno, tre sale a pian terreno su' due lati del cortile
che serve di atrio alla Chiesa, ancor'oggi visibili ma convertite
in Oratorii, eccetto l'ultima nella quale aveva già insegnato S.
Tommaso: e sappiamo dal Lasena (Dell'antico Ginnasio napoletano,
Rom. 1641 pag. 3), che delle due poste di rimpetto alla porta
della Chiesa, la prima era addetta alle letture del dritto
canonico, e poi lo fu anche a quelle del greco, la seconda era
addetta alle letture del dritto civile, l'ultima posta in fondo
del cortile era addetta alle letture della filosofia e medicina, e
però dicevasi la sala degli Artisti (artium et medicinae
doctorum). A questo si limitava il «generale studio di Napoli», là
trasportato dall'antico posto delle scuole detto originariamente
«lo scogliuso» divenuto poi il monastero di Donna Romita presso la
Chiesa di S. Andrea: dell'antico posto si mantenea veramente
sempre vivo il ricordo con una processione nella vigilia del
Santo, prescritta puntualmente ogni anno per un editto del
Cappellano maggiore, che ordinava e comandava «alli magnifici
lettori et studenti di l'una et l'altra professione secondo
l'antiqua et laudabile consuetudine di congregarsi in li studii di
sandomenico, et dallà partirne con devotione et silentio
processionalmente, con intorcie et candele in mano, et recto
tramite visitare la detta ecclesia de Santo Andrea et pregare
Iddio per la salute et felice stato di sua Santità come di S. M.tà
Cattolica et extirpatione d'heretici». Alla quale consuetudine,
nella stessa circostanza, più anticamente aggiungevasi l'altra
dell'uccisione di un maiale per darne un pezzo a ciascuno delli
magnifici lettori! Il Campanella, autore di un libro di filosofia,
dovè con ogni probabilità tenersi in relazione con la maggior
parte de' lettori segnatamente di filosofia, che appunto nell'anno
1590-91 erano: 1.° il medico Gio. Berardino Longo per la lettura
della mattina, con d.ti 300 l'anno oltre gli straordinarii; 2.° il
medico Gio. Geronimo Provenzale, che fu poi Vescovo ed Archiatro
di Clemente VIII (giacchè Napoli ed anche le Provincie napoletane
fornivano allora molto spesso gli Archiatri Pontificii) per la
lettura della sera con d.ti 80 l'anno; 3.° il medico Francesco
Ant.° Vivolo per le posteriora et topica con d.ti 60, successo al
Sarnese parimente medico e maestro di Giordano Bruno; 4.° il P.e
fra Mattia Aquario per la metafisica con d.ti 80, successo da poco
tempo al medico Colanello Pacca. Abbiamo veduto che il Campanella
curò questo P.e Aquario, sicchè almeno con costui ebbe certamente
stretta relazione; d'altronde doveva invogliarlo a mostrarsi nello
studio la presenza in esso de' parecchi amici suoi di Stilo, che
abbiamo avuto più sopra occasione di nominare. Ma indubitatamente,
essendo occupato a comporre le sue diverse opere, egli ebbe a
frequentare la Biblioteca di S. Domenico, e tutto mena a far
ritenere essergli là precisamente toccata quell'avventura che
andiamo a narrare. La Biblioteca trovavasi nel corridoio che
guarda il gran chiostro, presso la cella abitata già da S. Tommaso
d'Aquino, dove in questo momento risiede l'Accademia Pontaniana:
vi si accedeva non solo dal lato del cortile in cui era posto lo
studio, ma anche da un ingresso più diretto aperto verso la via di
S. Sebastiano, presso il locale che ancor'oggi è adibito ad uso di
Farmacia. Entrando da questa parte e percorrendo il lato
settentrionale del gran chiostro, si passava sulle antiche carceri
del S.to Officio, carceri del tempo in cui attendevano al S.to
Officio i frati di S. Domenico con un Inquisitore speciale del
loro Ordine: se ne veggono ancora a fior di terra le piccole
finestre, ed esse servivano di argomento a' sostenitori di un
tribunale speciale di S.to Officio diverso da' tribunali
Diocesani, quando la città di Napoli affermava di non averlo mai
avuto. In quel gran chiostro, se deve credersi al Poggio
Bracciolini seguìto dal Gravina e dal Paramo, nel 1447 il celebre
Lorenzo Valla, condannato a morte dal S.to Officio e poi
risparmiato nella vita, dovè fare una pubblica abiura e soffrire
niente meno che la frusta. Giungendo alla Biblioteca, nel piccolo
vestibolo innanzi alla porta di essa vedevasi e vedesi ancor'oggi
sul muro di destra una lapide, che reca tutto un Breve di Pio V,
nel quale è decretata la scomunica maggiore a coloro i quali senza
licenza del Papa o almeno del P.e M.° Generale tolgano ed
estraggano libri «dalla Libraria seu Biblioteca». È probabilissimo
che appunto in quel posto, nell'attendere l'ora dell'apertura
della Biblioteca, leggendosi quel Breve e rilevandosi la pena
della scomunica, con quel suo modo burlesco che vedremo ancora da
lui usato altre volte, il Campanella abbia detto, «com'è questa
scomunica? si mangia?» Certo è che queste parole furono da lui
profferite «parlando di extrahere libri dalla libraria di S.
Domenico sotto pena di scomunica», e nei giorni seguenti «in S.
Domenico fu preso carcerato e condotto nelle carceri di Mons.r
Nunzio». Nel processo di eresia che fu più tardi dibattuto in
Napoli, pe' fatti del 1599, tutto ciò venne deposto da un fra
Francesco Merlino, il quale avea conosciuto il Campanella fin dal
primo anno che entrò nel sodalizio di S. Domenico in Placanica,
era suo familiare, e nel tempo al quale siamo pervenuti trovavasi
studente in S. Domenico. Egli, parlando nel 1600, disse che ciò
accadde «nove anni prima», vale a dire nel 1591, quando il
Campanella «era a Napoli in casa di Mario del Tufo»; la stessa
data trovasi poi registrata dal Card.l di S.ta Severina in una sua
lettera, nella quale rammenta le risultanze del processo che ne
seguì, cioè la condanna avuta dal Campanella in Roma. Soggiunse
fra Francesco che si disse la carcerazione essere avvenuta perché
il Campanella «avea spiriti sopra», ma poi si trovò che era stato
carcerato per quelle parole profferite intorno alla scomunica
nelle circostanze suddette; ed interrogato affermò di avere udito
che il Campanella aveva avuto pratica con un certo Abramo, e che
molti volevano che quanto sapeva lo sapeva non per suo studio ma
per arte diabolica, io però, egli disse, «non credo questo, perché
ho conosciuto che ha bello ingegno ed ha studiato assai». Abbiamo
voluto specificatamente riportare tutte queste circostanze, per
mostrare che il fatto non venne deposto da qualcuno poco bene
affetto verso il Campanella.
Vi fu dunque un processo, primo per tempo, motivato dall'avere
emesso proposizioni ereticali in dispregio della scomunica e dal
possedere spiriti familiari: la prima accusa, molto grave, fu
sempre taciuta dal Campanella; invece la seconda, piuttosto
ridevole ma non già a que' tempi, fu da lui ricordata in parecchie
occasioni, e una volta anche con la circostanza che per essa venne
«citatus in judicium». Questa circostanza della chiamata in
giudizio è rimasta poco avvertita da' suoi biografi, i quali hanno
ritenuto che l'accusa, limitata al possedere spiriti, fosse
rimasta vaga, non propriamente articolata con un processo in piena
regola. Del resto il Campanella medesimo ricinse di nubi questo
suo processo e ne fece perdere le tracce: basta infatti ricordare
le parole del Syntagma, «Nell'anno 1592 (e qui o la memoria non
l'assiste bene, o più veramente egli ebbe premura di saltare
sull'infausto 1591) me n'andai a Roma fuggendo gli emuli
accusatori che dicevano, come sa di lettere costui mentre non le
ha mai imparate?» Vedremo che pure in sèguito, perfino co' suoi
amici intimi, quando veniva interrogato su' travagli patiti dal
S.to Officio, egli avea cura di confondere questo processo con un
altro fattogli più tardi e finito con un'assolutoria, negando
addirittura di avere avuta una condanna, mentre si sapeva che era
stato condannato una volta all'abiura. - Un denso velo fu sempre
disteso su questo processo. Alla carcerazione avvenuta entro il
convento di S. Domenico deve riferirsi senza dubbio ciò che
scrisse l'Agente di Toscana in Napoli Giulio Battaglino in quella
lettera del 1599 trovata e pubblicata da Francesco Palermo, là
dove lo disse «ricoverato da una furia di birri, eccitatili contra
per conto che avea scritto in difesa del Tilesio»; e vedremo più
in là un'altra lettera dello stesso Battaglino da noi trovata, più
vicina al tempo di cui qui trattiamo, dove lo disse chiaramente
carcerato per causa di religione, menzionando la sola accusa
«facilmente superata» dell'avere spiriti familiari, e mostrandosi
male informato dello svolgimento vero del processo. La qual cosa
non deve far maraviglia. Secondo lo stile de' processi
ecclesiastici in materia di fede, guardavasi il più rigoroso
silenzio su tutto, ed anche a ciascun testimone era ingiunto il
silenzio su quanto avea deposto, sebbene poi il testimone non
sempre badasse a mantenerlo: d'altra parte la semplice
carcerazione per causa di fede rendeva il carcerato notatus
infamia, e però gli amici suoi aveano premura di attenuare o di
nascondere il vero. Ma nel convento di S. Domenico, se dapprima si
parlò dell'accusa di «avere spiriti sopra», ciò che mostra tale
opinione molto diffusa, più tardi, verosimilmente per le
rivelazioni di qualche testimone chiamato a deporre, si giunse a
conoscere un po' meglio ogni cosa e si ebbe cura di tenerla
celata. Forse fra Serafino da Nocera cominciò dal rendere questo
primo servigio al Campanella; forse anche il Battaglino medesimo,
in tale circostanza, volle esser pietoso verso il povero filosofo.
Nulla possiamo dire de' particolari di questo processo. Anche pel
fatto dell'avere spiriti, si deve ritenere fino a un certo punto
ciò che il Campanella scrisse poi allo Scioppio, che cioè si era
discolpato rispondendo aver lui consumato olio più che gli
accusatori vino etc. etc.; potè questa essere la sostanza, non la
forma della sua risposta. Ma se non conosciamo i particolari del
processo, ne conosciamo tuttavia la specie, la sede ed anche
l'esito, le imputazioni fatte, il tribunale che giudicò, la
condanna che ne seguì; e ciò può bastare alla nostra narrazione.
Gioverà intanto dir qualche cosa del tribunale, della Corte, delle
carceri del Nunzio, della maniera di condurvi i processi e di
trattare i carcerati, secondo le notizie raccolte da qualche
processo che abbiamo potuto vedere, e specialmente dal Carteggio
del Nunzio Aldobrandini, che abbiamo avuto cura di percorrere in
tutti i suoi molti volumi esistenti nell'Arch. di Firenze. Queste
notizie serviranno a chiarire le cose del Campanella tanto nel
processo attuale quanto ne' processi posteriori, e non poche
circostanze di diversi travagli da lui patiti; né si credano un
lusso di erudizione, mentre invece il non averle rilevate ha fatto
cadere i biografi del Campanella in diverse e non lievi
inesattezze. Alla giurisdizione propriamente del Nunzio
appartenevano i processi di qualche importanza contro i frati; ma
in materia di fede non mancavano di occuparsene ancora, quando
glie ne capitava l'occasione, da una parte il Vicario
Arcivescovile che menava innanzi il servizio del tribunale
Diocesano, e d'altra parte il Commissario della S.ta Inquisizione
universale, che Roma non cessò mai di tenere in Napoli malgrado
l'opposizione vivissima più volte manifestata dalla città, e che
in quel tempo era Monsignor Carlo Baldini di Nocera, Arcivescovo
di Sorrento ed insieme, dal 1567 in poi, lettore di jus canonico
nel pubblico studio. Appartenevano egualmente alla giurisdizione
del Nunzio e davano moltissimo da fare, oltre le materie di fede,
anche i costumi, e non solo quelli de' frati ma altresì quelli de'
numerosi Cavalieri Gerosolimitani che si chiamavano parimente
frati; poco di poi, per uno speciale ordine del Papa, furono
assegnate al Nunzio anche le cause de' clerici in relazioni co'
fuorusciti, de' clerici, come oggi si direbbe, manutengoli de'
briganti, e che allora si dicevano clerici in «negoziazioni
illecite»; a tutto ciò si aggiungevano le non poche cause relative
all'esazione de' parecchi redditi spettanti alla Camera
Apostolica, essendo il Nunzio anche Collettore degli spogli de'
Vescovi, preti e clerici beneficiati, che venivano a morire.
Non mancavano poi, di tempo in tempo, cause di ogni genere
concernenti clerici di ogni maniera, regolari e secolari, che il
Papa per ragioni speciali commetteva al Nunzio. La sua Corte si
componeva di un Auditore, di un Avvocato fiscale, di un Fiscale,
di un Mastro d'atti, con 4 altri Notari o Scrivani a costui
sottoposti oltre parecchi Cursori, e finalmente di un computista:
aveva quindi un tribunale completo secondo l'usanza di quell'età,
e i membri di esso dipendevano tutti dall'autorità del Card.l
Camerlengo, eccetto l'Auditore, che al pari del Segretario della
Nunziatura era persona di fiducia del Nunzio; la misura del lavoro
di questo tribunale può valutarsi dal fatto, che in quel tempo la
sua Mastrodattia, la quale assegnavasi al maggiore offerente,
rendeva tanto da poter dare, oltre il mantenimento proprio e de' 4
Notari, un'entrata alla Camera Apostolica di duc.ti 600 l'anno,
ben presto elevati a duc.ti 700 senza peso di cambio, pur non
essendovi tasse stabilite ma «certe usanze». Aveva inoltre il
Nunzio una «famiglia armata», vale a dire alcuni birri in abito di
clerici, con ferraiolo nero sulle spalle e armati di un piccolo
schioppo, onde il popolino, come abbiamo rilevato da qualche
processo venutoci tra mano, soleva chiamarli «le scoppettelle del
Nunzio», chiamando anche le scoppettelle del Vicario i birri della
Corte Arcivescovile. Le carceri stavano a pian terreno del palazzo
del Nunzio, che a' tempi de' quali trattiamo era quello medesimo
destinato a tale uso fino a' giorni nostri presso la piazza della
Carità, comprato nel 1585 da Mons.r Rosino Vescovo d'Amalfi sotto
il Pontificato di Sisto V, di poi restaurato ed ampliato col
danaro proveniente da quella parte della gabella del grano a
rotolo, che si pagava in duc.ti 4,000 alla Curia, come
restituzione di ciò che indebitamente si contribuiva da' clerici,
godendo costoro l'esenzione da ogni tassa.
Aggiungiamo che queste carceri non potevano contenere più di 15
persone, ed erano anche mal sicure; laonde molto spesso il Nunzio
era obbligato a chiedere al Vicerè, che volesse far tenere
carcerati «in nome del Nunzio di S. S.tà» gl'imputati di maggior
polso, ed erano ordinariamente prescelte in tale circostanza le
carceri del Castel nuovo, come si rileva diverse volte dal
Carteggio del Nunzio Aldobrandini. Aggiungiamo che il carceriere
di que' tempi era un laico coniugato a nome Tommaso Manat, mentre
in qualche altro processo, posteriore di diversi anni, abbiamo
trovato per guardiano delle carceri del Nunzio un frate
Domenicano. Nelle dette carceri dunque, una parte delle quali avea
piccole finestre aperte nel vicolo pur oggi denominato del Nunzio,
mentre un'altra parte dicevasi «segreta» e non avea finestre, dovè
essere rinchiuso il Campanella, e il suo carceriere dovè essere
appunto Tommaso Manat: il Nunzio poi, al cospetto del quale dovè
comparire, fu Mons.r Germanico Malaspina Vescovo di Sansevero,
entrato in ufficio appunto il 17 maggio 1591, cui successe Mons.r
Astorgio Sampietro il 22 febbraio 1592, e poco dopo
l'Aldobrandini, l'8 aprile 1592, onde nel Carteggio di costui, che
conservasi in Firenze, non c'è notizia di questa prima sventura
del Campanella. - Come da tutti i tribunali ecclesiastici, così
anche dal tribunale del Nunzio dovea mandarsi a Roma una copia del
processo, mano mano che se ne compivano le diverse parti: e in
materia di fede, per poco che la causa avesse qualche importanza,
la Sacra Congregazione Cardinalizia del S.to Officio in Roma se ne
ingeriva minutamente; faceva compilare dal proprio Fiscale il
Sommario del processo e poi gli Articoli o capi di accusa su'
quali si dovea procedere agli esami ripetitivi de' testimoni,
intimava nuove diligenze e nuovi esami informativi, da ultimo, con
o senza un voto spedito dal tribunale a richiesta di essa,
statuiva sotto il nome del Papa le sentenze da pronunziarsi. Così
nella conclusione della causa il tribunale locale era quasi una
comparsa, e nel pronunziare la sentenza dichiarava di farlo «visti
e considerati i meriti della causa ed in vigore delle lettere
venute da Roma» sotto la tale data.
Ma spessissimo pure la Sacra Congregazione richiamava a sè la
causa, ed allora, compiuta la prima parte del processo, il
prigioniero era inviato alle carceri del S.to Officio di Roma,
dopo che n'era stato già inviato il processo: del resto anche la
Nunziatura con lo stesso metodo si sbrigava volentieri de' suoi
prigioni, per evitare l'ingombro delle carceri insufficienti al
bisogno. Una feluca privata soleva fare questo commercio di
trasporto mediante un compenso di sei scudi per capo, ma quando
c'erano prigioni di polso da dover mandare, vi s'impiegava una
così detta fregata armata col compenso di scudi dieci per capo: ed
a quel tempo il padrone della feluca, la quale conoscevasi anche
col nome di barca del S.to Officio, era un Vincenzo Sguella ossia
Sgueglia, essendo venuto più tardi in campo quel Geronimo della
Briola ossia de Labriola, che Francesco Palermo ci fece conoscere
con un documento da lui pubblicato. Si trovano con molta frequenza
per ciascun anno gli esempî di siffatti invii, sì da parte del
Nunzio come da parte del Vicario Arcivescovile e di Mons.r
Baldini, e può ritenersi per certo che pel Campanella le cose non
andarono diversamente. Formato il processo e mandatolo a Roma,
egli dovè essere consegnato in catene a Vincenzo Sgueglia sulla
feluca del S.to Officio, ed in tale condizione ben trista dovè
fare il suo viaggio all'alma città. Ad ogni modo non vi andò di
certo spontaneamente, fuggendo gli emuli accusatori, come nel
Syntagma fu scritto.
III. Le vicende del Campanella in questa sua prima andata a Roma
non ci son note ne' loro particolari; ma possiamo dire con
certezza che il suo processo si chiuse con una condanna all'abiura
de vehementi (int. de vehementi haeresis suspicione), che ciò
accadde nel 1591, e che dopo di essere rimasto quasi un altro anno
in Roma, verosimilmente con la relegazione in uno de' conventi del
suo Ordine secondo la giurisprudenza del tempo, egli finì per
andarsene in Toscana. Possiamo aggiungere che dovè essere
giudicato trovandosi Commissario generale del S.to Officio fra
Vincenzo da Montesanto, Piceno, al quale, fatto poi Vescovo
aprutino di Teramo nel 23 ottobre 1592, successe fra Alberto
Tragagliolo da Firenzuola che ci darà molto da dire più tardi. Non
potremmo affermare che in questo primo processo il Campanella
abbia avuto il tormento, come era solito a verificarsi quando si
finiva coll'abiura de vehementi: egli non ne fece mai parola, ma
veramente non fece mai parola chiara ed aperta del processo
medesimo, appunto perché finito così male; una volta sola non potè
non ricordare la sua posizione passata di veementemente sospetto
senza dir altro, e vedremo che l'essere stato «sette volte
tormentato», giusta le sue ripetute affermazioni, deve riferirsi
interamente al processo ultimo fattogli in Napoli. È certissimo
intanto che quella condanna gli sia stata inflitta, e non è
arrischiato il ritenere che gli sia stata inflitta per le
proposizioni ereticali in dispregio della scomunica: lo attestano
da un lato due lettere del Nunzio esistenti nel suo Carteggio, da
un altro lato la lettera del Card.l di S.ta Severina sopra
menzionata. In una delle due lettere del Nunzio diretta al Card.l
di S.ta Severina si legge, «scuopro che altra volta quel fra
Tommaso è stato fatto costà abiurare»; nell'altra diretta al
Card.l S. Giorgio si legge, «per haver abiurato altra volta
com'egli stesso dice, vorrà forse in questo dar che fare di
nuovo»: nella lettera poi del Card.l di S.ta Severina, diretta
appunto a fra Alberto Tragagliolo da Firenzuola, fatto Vescovo di
Termoli e deputato giudice del Campanella in Napoli unitamente con
altri, si legge, «essendo V. Sig.ria molto ben pratica delle cose
del Santo Officio, et anco informato delle altre cause conosciute
in questa Santa Inquisitione contra il Campanella, ove abiurò come
sospetto vehementemente di heresia l'anno 1591, non le dirò
altro»; le quali parole, provenienti da chi teneva a que' tempi il
suggello delle cose dell'Inquisizione, affermano esplicitamente il
fatto e la data di esso. Queste testimonianze ci dispensano dal
recarne altre minori, le quali risulterebbero da deposizioni
d'individui esaminati nel processo di Napoli del 1599 (p. es. una
deposizione di fra Dionisio Ponzio), tanto maggiormente che esse
sono appena l'eco di voci più o meno fondate e non recano una
precisa determinazione di data: menzioneremo solo la testimonianza
del Campanella medesimo, il quale, nella Difesa che ebbe a
scrivere in tale occasione, disse che di eresia «non fu mai
confesso o convinto, comunque sia stato veementemente sospetto».
Tale fu l'esito ben grave del primo processo fatto al Campanella,
processo che, ripetiamo, è rimasto finora sconosciuto a' suoi
biografi. Il Berti è giunto fino a dire, che essendosi portato in
Roma «non fu allora chiamato davanti al S.to Uffizio e questo non
tenne conto delle accuse che erano state mosse contro di lui da
Napoli»; ma la cosa andò in modo affatto diverso, e la posizione
del Campanella a fronte del S.to Officio rimase grandemente
pregiudicata.
Nulla sappiamo intorno al luogo in cui il Campanella ebbe a
prendere stanza in Roma, dopo di essere uscito dal carcere. Il
Berti afferma che alloggiò nel convento di S.ta Sabina, e la cosa
è probabile: afferma inoltre che scrisse e presentò il suo scritto
a' Commissarii del S.to Officio, esponendo una riforma universale
ne' costumi e nelle abitudini del clero sul migliore andamento
della Chiesa; ma temiamo che possa esservi qui una confusione di
due tempi diversi. Bisogna considerare che egli aveva pur allora
abiurato, e in tale condizione il voler discorrere di riforme
necessarie alle persone ecclesiastiche sarebbe stata
un'esorbitanza; d'altronde il S.to Officio allora appunto, nel
1592, esaminava e poi faceva mettere all'indice, al 1° indice
emanato sotto gli auspicii di Clemente VIII, tre libri del
Telesio, e il Campanella, Telesiano conosciuto, aveva ancora
qualche cosa a temere da questo lato. Ma certamente egli scrisse
alcune opere, benchè nel Syntagma non si trovi alcuna notizia di
opere composte in tal tempo, ed invece si trovi immediatamente
registrata la partenza di lui per la Toscana. Come vedremo tra
poco, tutto induce a far ritenere che egli abbia potuto partire
per la Toscana soltanto verso la fine dell'està del 1592,
naturalmente dopo che ottenne di essere sciolto dall'obbligo della
permanenza nel convento assegnatogli: così, avendo dimorato in
questo convento press'a poco un anno, riuscirebbe impossibile
ammettere che non vi abbia scritto nulla, mentre è notissimo che
egli non sapeva rimanere inoperoso. E poichè in un documento
riferibile al tempo del suo arrivo in Firenze (la lettera di
Baccio Valori del 15 8bre 1592 pubblicata dal D'Ancona) troviamo
fatta menzione di alcune opere le quali certamente sappiamo non
essere state composte in Napoli, bisogna di necessità ammettere
ch'esse siano state composte in Roma. Ecco dunque il sèguito del
Catalogo delle opere del Campanella già iniziato precedentemente
(ved. pag. 39-40). Durante la prima permanenza in Roma, vale a
dire dalla fine del 1591 a buona parte del 1592, si ebbero; Un
Carme Della filosofia di Empedocle; un trattato De insomniis,
l'unico di questo gruppo che il Campanella abbia registrato negli
elenchi delle opere proprie più volte citati, dicendolo costituito
da un sol libro; un trattato De sphera Aristarchi; il sèguito
dell'opera De rerum universitate, ma non al di là de' due primi
libri; inoltre un primo libro di Phisiologia. Quest'opera col
titolo di «Fisiologia» non si rinviene citata tra quelle delle
quali parlò Baccio Valori, sibbene insieme con quelle delle quali
nel Syntagma si vede deplorata la perdita avvenuta in Bologna,
poco dopo l'escursione fatta a Firenze; è dichiarata «un libro
compiuto..... con dispute contro tutte le sètte, al quale doveano
seguire 19 altri libri già meditati», onde non pare che possa
dirsi sicuramente l'opera medesima «De rerum universitate» con
altro titolo, e la composizione di essa deve sempre riferirsi al
tempo della permanenza in Roma.
Aggiungiamo che durante questa permanenza in Roma, il Campanella
dovè anche stringersi in intima relazione con D. Lelio Orsini, il
quale ritiratosi allora appunto in Roma ospitava in sua casa il
filosofo Telesiano Abate Antonio Persio. Il Campanella medesimo ci
ricordò questa circostanza, facendoci trovare registrato nel
Syntagma che quando fu a Padova, mandò un libro ad Antonio Persio
abitante in Roma presso Lelio Orsini; e non è dubbio che nel 1592
D. Lelio si sia già trovato in Roma, bastando citare una lettera a
lui diretta dal Nunzio Aldobrandini, in data del 1° maggio 1592 da
Napoli, la quale fa parte del Carteggio di esso Nunzio esistente
in Firenze. Abbiamo già avuta occasione di nominare questo D.
Lelio, parente de' Signori del Tufo, ed abbiamo detto che egli
divenne non meno de' Signori Del Tufo amico e patrono del
Campanella. Infatti da una parte D. Lelio spinse talora il
filosofo a scrivere, fornendogli qualche argomento, d'altra parte
lo protesse ne' suoi travagli patiti in Roma e vi ebbe continua
corrispondenza, come risultò dalle deposizioni di più testimoni
che furono poi esaminati nel processo del 1599, tanto che vedremo
pure D. Lelio largamente nominato tra coloro i quali avrebbero
aiutata l'insurrezione di Calabria disegnata dal Campanella.
Sicuramente egli ebbe cura del Campanella ne' travagli di questo
primo processo: forse per opera di lui fra Tommaso ottenne di
poter partire da Roma ed andare a Firenze, dove già erano state
avviate pratiche per fargli avere una cattedra di filosofia in
Pisa; così ci pare giunto il tempo di dare notizie più minute
intorno a questo D. Lelio spesso citato dal Campanella, e
nell'opera De sensu rerum citato due volte. - Discendeva D. Lelio
dalla nobilissima casa Orsini di Roma, ma apparteneva al ramo de'
Duchi di Gravina trapiantato nel Regno. Era secondogenito di
Antonio Orsini, Duca di Gravina, e di Felicia Sanseverino, sorella
del Principe di Bisignano Nicola Berardino Sanseverino: non ebbe
titoli, e neanche feudi per lunghissimo tempo; né ebbe figliuoli
con la sua Signora Beatrice. Risedeva, naturalmente, nel Regno, e
molti documenti dell'Archivio di Napoli, come anche di quelli di
Firenze e di Urbino, ce lo mostrano talora in Gravina, più spesso
in Barletta, da ultimo in Basilicata, ordinariamente per affari
relativi ad industrie agricole; in Basilicata ebbe interessi,
dopochè la sua sorella Maria, sposa a D. Giovanni D'Avalos, nel
1596 lo fece erede degli erbaggi di Pomarico e Montescaglioso,
terre appartenute temporaneamente allo zio Ostilio, e così, molto
tardi, fu detto Barone di Pomarico e Montescaglioso. In qualche
documento più antico trovasi dichiarato «clerico e cameriere
segreto di S. S.tà», in qualche altro «Domicello Romano»; ma non
manca nemmeno qualche documento in cui è dichiarato «cittadino
napoletano nato in Napoli»; quivi si conciliò molta stima qual
cavaliere savio e facoltoso, e fu anche Eletto del Seggio di Nido.
Era molto attaccato al suo zio Principe di Bisignano, che dovrà
figurare egualmente in questa nostra narrazione: vedremo che con
ogni probabilità, durante le traversìe del Principe strettamente
carcerato allora nel Castello di Gaeta, dopo un ordine
rigorosissimo che niuno de' parenti potesse avvicinarlo, D. Lelio
si ritirò provvisoriamente a Roma, essendo stato in Napoli sino
alla fine del 1591; ma ne tornò nel 10bre 1594, e scorso un altro
anno, dopo la morte dell'unico figlio del Principe, egli si
ritenne successore di costui in pheudalibus, essendo già
trapassato fin dal 1583 il Duca di Gravina suo fratello, onde ebbe
a trovarsi in gravissima lite con altri pretendenti. Così egli
dimorava in Roma nel 1592, e stava in ottima relazione con la
Curia e col Papa, il quale, essendo stato invocato dal Gran Duca
di Toscana arbitro nelle quistioni surte tra lui e suo fratello D.
Pietro, nel 1593 delegò D. Lelio a questa non lieve missione: ed
ecco perché ci è sembrato del tutto naturale che egli abbia avuta
qualche influenza nel far concedere al Campanella di poter partire
da Roma, forse anche raccomandandolo in Toscana per la cattedra. -
Non è arrischiato il ritenere che la dimora di Antonio Persio
presso D. Lelio Orsini in Roma abbia contribuito a recar favore al
Campanella. Il Persio è oramai abbastanza conosciuto segnatamente
per opera del Fiorentino. Abate e dottore, nativo di Matera in
Basilicata, figlio di Altobello o Adoberto buono scultore di que'
tempi rimanendone tuttavia alcuni lavori nella Cattedrale di
Matera, fu discepolo del Telesio e Telesiano accanito, avendone
sostenuti i principii con dispute in più luoghi, raccolti e
pubblicati diversi opuscoli, assunte le difese in ispecie contro
Francesco Patrizzi. Fu a Venezia e prese poi stanza in Roma;
l'elenco delle sue opere rimaste inedite può leggersi in una
lettera di Giovanni Bartolini Bolognese riportata dall'Odescalchi
nelle Memorie de' Lincei, essendo stato il Persio uno de' primi
ascritti a quell'insigne Accademia; il Fiorentino ne ha fatto
conoscere qualcuna che se ne trova ancora. Fu costante amico del
Campanella; sappiamo da documenti che si tenne in continua
corrispondenza con lui anche in gravissimi momenti della prigionia
sofferta dal filosofo in Napoli, ed egli medesimo un anno prima
della sua morte, il 1611, gli mandò da Roma l'opera di
Ticho-Brahe. Naturalmente il Persio dovè ricordare sovente a D.
Lelio Orsini il povero Campanella e sollecitarne con vigore i
buoni ufficii.
Da Roma dunque il Campanella se ne andò a Firenze. Nel Syntagma
questa sua gita si trova registrata con pochissime parole: «andai
a Firenze, né però incontrai miglior sorte, e dedicai il libro De
sensu rerum al Gran Duca Ferdinando primo». Ma già da un pezzo era
stata pubblicata dal Fabroni una lettera del Campanella che
spargeva sufficiente luce su questa gita: in sèguito, mercè le
indicazioni del Baldacchini per notizie avutene dal Trucchi,
Francesco Palermo ne rinvenne e pubblicò un'altra, e il D'Ancona 4
altre di diversa provenienza, tutte esistenti nell'Archivio
Mediceo; ancora il Berti ne ha pubblicata non ha guari un'altra
del Campanella al Galilei, raccolta nella Bibl. naz. di Firenze e
contenente qualche altra notizia intorno al fatto che dobbiamo
narrare; infine noi medesimi, del pari nell'Archivio Mediceo, ne
abbiamo rinvenuta un'altra dell'Agente di Toscana in Napoli che
oggi pubblichiamo, ed oramai si può dire che la gita del
Campanella a Firenze sia chiarita appieno nella sua data, nel suo
scopo, nel suo risultamento, in tutte le sue fasi. Il Campanella
era stato proposto al Gran Duca e si era mostrato con lui
desideroso di dedicarsi al suo servizio; si trattava di dargli una
lettura di filosofia nello studio di Pisa, e il documento da noi
trovato mostra che la proposta era stata fatta già da un pezzo,
sin dal 1591, durante la dimora di lui in Napoli. Forse l'aveva
proposto Mario del Tufo, giacchè le nostre ricerche nell'Archivio
Mediceo ci hanno rivelato una stretta corrispondenza col Gran Duca
da parte di questo Signore, che avendo una buona razza di cavalli
in Minervino (o, come allora si diceva, Mondorvino) ne faceva
continui regali al Gran Duca, il quale mostrava di pregiarli
grandemente, e si disobbligava regalandogli quasi sempre marzolini
e due volte anche «due schiavi sani e belli». Il Gran Duca avea
sin dal 1591 dimandato informazioni sul Campanella al suo Agente
in Napoli, Giulio Battaglino, napoletano e prete, stato già al suo
servizio in Roma quando il Gran Duca era Cardinale ed egli
emigrato, come ci risulta dal suo Carteggio e da quello del
Residente Veneto: noi avremo a parlare ancora in sèguito del
Battaglino e de' suoi dispacci intorno al Campanella, e quindi è
tutt'altro che inutile avere notizie precise delle sue condizioni.
Al Battaglino giunse l'incarico d'informarsi del Campanella mentre
costui trovavasi già carcerato in Napoli, e rispose «che per
trovarsi lui prigione per causa di religione, né haveva potuto
trattar seco né conveniva intrigarsi in tal genere di imbarazzi».
Ma in sèguito, forse dopo nuove sollecitazioni, in data del 14
7bre 1592 ne diede migliori informazioni, dicendo che fra Tommaso
aveva facilmente superato il travaglio in cui era stato posto per
invidia; che l'indomani sarebbe partito per Roma a procurare il
gastigo del calunniatore; che era uno de' più rari ingegni, come
poteva giudicarsi dagli scritti che egli aveva visti e dalla voce
che ne correva, e di qua gli era nata l'accusa che avesse alcuno
spirito familiare; con lo scudo di alcun principe se ne poteva
sperare gran cose. Ben si vede che egli rispondeva nel modo più
favorevole, ma non si mostrava bene informato del vero andamento
de' travagli del Campanella; né abbiamo mancato d'indicarne a suo
tempo tutte le possibili ragioni.
Giungeva intanto il Campanella a Firenze, verosimilmente dopo le
novelle commendatizie avute da D. Lelio Orsini. Egli vi si dovè
trovare per lo meno verso la fine di 7bre 1592, rilevandosi da'
documenti illustrativi di questo periodo che il 2 8bre di tale
anno era stato già dall'Usimbardi introdotto presso il Gran Duca,
il quale l'accolse molto bene, gli consigliò di lasciare i frati
che perseguitavano i virtuosi e gli diede anche un po' di danaro:
al tempo medesimo ordinò all'Usimbardi di scrivere a Baccio
Valori, che facesse vedere la Biblioteca Palatina al Campanella e
con tale occasione ne conoscerebbe il merito, come anche al
Generale de' Domenicani, che si compiacesse dar licenza al
Campanella di poter assumere il servizio al quale intendeva
chiamarlo e di poter dare alle stampe i suoi lavori; in tal guisa
egli mostrava il suo buon animo e veniva a procurarsi intorno a
lui informazioni novelle. Durante l'udienza il Campanella dovè
offrire al Gran Duca la dedica del suo libro che fu poi intitolato
De sensu rerum, e che allora avea per titolo De sensitiva rerum
facultate, dedica che vedremo poi come e perché non ebbe effetto.
La lettera a Baccio Valori fu presentata dal Campanella medesimo
il 13 8bre, ed il 15 egli rispose all'Usimbardi aver visto il
Campanella, «giovane di senno maturo, e di varia dottrina e
recondita come si trae da' suoi dotti ragionamenti, non meno che
dall'opera per lui stampata con titolo de philosophia sensibus
demonstrata, dov'è seme dell'altra ch'egli dedica a S. A. de
sensitiva rerum facultate»; ma notò, che «procurandosi oggi in
Roma per alcuni proibire la Filosofia del Telesio con colore che
la pregiudichi alla Teologia scolastica fondata in Aristotile da
lui così riprovato, corre qualche risico conseguente ancor esso, e
per ventura il più terribile per eccellenza de' suoi concetti, che
veramente sono e alti e nuovi». Aggiunse che avea saputo da lui
avere scritto del dogma di Pitagora e così pure di Empedocle in
versi eroici, aver fatto un trattato De insomniis e un altro De
sphera Aristarchi, avere per le mani un'opera maggiore De rerum
universitate, «un'intera filosofia da sè, al quale studio potrà
rimettersi a primavera, che arà stampato quello a Venezia per dove
parte domattina». Da ultimo fece conoscere che il Campanella avea
veduta la Libreria a sua soddisfazione, ed anche discusso a lungo
con due letterati sopra varie materie ben ardue, riuscendo a far
«maravigliare, se non credere a modo suo» poichè stimava ben poco
Aristotile. - Come si vede, nello splendido elogio non mancavano
macchie di tinta molto oscura, d'onde emergeva che sarebbe stato
meglio per lo meno non aver fretta a legarsi con questo giovane,
il quale sprezzava troppo Aristotile, oltrechè poteva trovarsi
compromesso con Roma essendo Telesiano: e resti chiarito che non
solo da quegl'infelici frati di Calabria, ma anche da questo pezzo
grosso di Toscana, dove pure si era menato tanto scalpore pel
Platonismo, il Campanella venne avversato, e furbescamente
avversato, per le sue dottrine antiaristoteliche. Essendo stato
sempre sagacissimo, dai discorsi tenuti il Campanella dovè capire
la posizione e decidersi ad andar via senza ritardo; tanto più che
conosceva pure essersi scritto al P.e Generale, e naturalmente
aveva da attendersi poco di bene da quest'altra parte. Non
lasceremo di dire che i due letterati, co' quali il Campanella
ebbe a discorrere nella Biblioteca in presenza del Valori, furono
con ogni probabilità Ferrante de' Rossi e il P.e Medici, da lui
ricordati tanti anni dopo nella lettera che pubblicò il Fabroni:
il P.e Medici specialmente dovè essere quel Teologo fiorentino col
quale egli disputò intorno alle anime de' bruti ed alla vita
futura di esse, avendo il fiorentino sostenuto che quelle anime
nella fine del mondo sarebbero risuscitate ed avrebbero avuto
premio o pena, secondochè il Campanella medesimo ci lasciò scritto
nella nuova composizione che ebbe a fare della sua opera De sensu
rerum.
Nella stessa data del 15 ottobre il Campanella scriveva una
lettera al Gran Duca ed un'altra all'Usimbardi. Verso il Gran Duca
si mostrò consapevole di non essere stato «accettato per servitore
di subito», si augurò che lo sarebbe in sèguito, lo ringraziò dei
favori ricevuti, espresse il suo stupore per la magnifica Libreria
veduta, annunziò che se ne andava a Padova, come ne avea
manifestato il disegno, e che là sarebbe rimasto pronto ad ogni
menomo cenno di S. A. Verso l'Usimbardi si mostrò grato ed
obbligato, si augurò che lo appoggerebbe ancora in sèguito presso
il Gran Duca, ripetè il suo stupore per la Libreria di S. A.,
annunziò che sarebbe partito l'indomani o al più l'altro domani.
Adunque il 16 o 17 8bre il Campanella mosse da Firenze per Padova,
ma si fermò in Bologna, dove ricominciarono i suoi malanni.
Aggiungiamo intanto che venne poi la risposta del P.e Generale al
Gran Duca, in data del 13 9bre ed in termini punto rassicuranti,
ciò che non può far meraviglia oggi che abbiamo posti in luce i
fatti avvenuti al Campanella in Napoli e in Roma. «Alquanto
differente relazione tengo io del Padre Fra Tomaso Campanella, di
quella è stata fatta a V. A. S. per quanto posso comprendere dalla
sua amorevolissima scrittami. Con tutto ciò volendosi lei servire
dell'opera sua, acciò non resti defraudato del suo buon desiderio,
io farò prova del valore e sufficienza sua, e trovandolo atto per
servire un tanto Principe qual è V. A. S., gli comandarò ubbidisca
a' suoi cenni, che mi sarà sempre singolar favore si degni
prevalersi della mia religione, come io indegno capo di essa
desidero tanto servirla. Farò insieme rivedere quell'opere che
egli ha preparato per dare alla stampa, come comanda il sacro
Concilio di Trento e gli ordini della Religione, ed essendo
trovate tali che meritino uscire in luce, molto volontieri gli
comandarò che le faccia stampare e che serva V. A. S. in tutto e
per tutto» etc. Tale fu la risposta del P.e Generale, fra Ippolito
M.a Beccaria, di cui abbiamo già avuta occasione di dare qualche
cenno altrove. Sollecito della distinzione che ridondava in
beneficio dell'Ordine, premuroso di mostrarsi ossequente al Gran
Duca, egli trovavasi in imbarazzo: non voleva dire che il
Campanella fosse stato veementemente sospetto di eresia, ma non
poteva non tenerne conto: con ogni probabilità si preoccupava
anche di qualche altra possibile eresia nelle opere che il
Campanella intendeva di stampare, e quindi vedeva indispensabile
farle esaminare scrupolosamente. Possiamo con ciò spiegarci pure
molto bene quanto accadeva in sèguito.
Come abbiamo detto, andando a Padova il Campanella si fermò in
Bologna: non sappiamo quanto tempo vi sia rimasto, ma
verosimilmente vi rimase ben poco, ed ecco ciò che nel Syntagma si
legge essergli avvenuto. «Mentre stava in Bologna mi furono
portati via di soppiatto tutti i sopradetti libri e certe Poesie
latine non dispregevoli, come pure il primo libro della Fisiologia
composto di dispute contro tutte le sette, al quale doveano far
sèguito altri 19 libri già meditati». E più oltre: «di poi tutti i
libri perduti in Bologna li trovai (a Roma) nel S.to Offizio, ove
interrogato li difesi, né pertanto li richiesi, essendo sul punto
di rifarli migliori». Ecco una prima perdita completa delle opere
sin allora scritte dal Campanella, all'infuori della Philosophia
sensibus demonstrata già data alle stampe, e rifacendone l'elenco
abbiamo: 1° l'opera De investigatione rerum; 2° quella De
sensitiva rerum facultate o De sensu rerum; 3° il Carme De
Philosophia Pithagoreorum; 4° il Carme De Philosophia Empedoclis;
5° il trattato De insomniis; 6° il trattato De Sphera Aristarchi;
7° i due primi libri De rerum universitate o De Metaphysica; 8° il
primo libro della Physiologia, come il Campanella si compiacque
denominare la Filosofia naturale. Facciamo avvertire che quando il
Campanella ricompose l'opera De sensu rerum, definì un furto la
perdita di questa sua opera con le altre, e l'attribuì a «falsi
frati»; notiamo inoltre che potrebbero un giorno tutte queste
opere tornare alla luce del sole, poichè dovrebbero tuttora
trovarsi nell'Archivio del S.to Officio, e sarebbe ad ogni modo
curioso il vedere se e quali modificazioni successive di sostanza
sieno state dall'autore introdotte nell'opera che ebbe speciale
premura di ricomporre, vogliamo dire nell'opera De sensu rerum. -
Non è difficile frattanto interpetrare come abbiano dovuto
veramente passare le cose in Bologna. Mettendo il fatto in
riscontro con la lettera del P.e Generale al Gran Duca, sembra ben
chiaro questo, che il P.e Generale si attendeva dal Campanella
l'invio de' manoscritti per la revisione, la quale egli non poteva
ignorare esser necessaria; il Campanella non se ne dovè curare, e
il P.e Generale, nell'impegno di compiacere il Gran Duca con la
maggior sollecitudine, comandò che i manoscritti fossero presi ed
inviati immediatamente al S.to Officio. Vedremo pure che il
Campanella trovò poi il P.e Generale in Padova nel suo arrivo in
quella città, mentre la lettera di lui al Gran Duca fu spedita da
Milano: si potrebbe quindi affermare che il P.e Generale medesimo
sia andato a Padova per affrettare la presa de' manoscritti, e che
il Campanella, conosciuta questa circostanza in Bologna, vi si sia
trattenuto, ma il P.e Generale ebbe facilmente modo di colpirlo
anche in Bologna, ed egli, cessato il motivo di trattenervisi e
naturalmente disgustato, se ne partì in fretta, sicchè nello
stesso mese di 9bre dovè trovarsi in Padova. Ad ogni modo i frati
di Bologna, che certamente non avevano alcun motivo di portargli
odio, furono falsi verso di lui sol perché presero i manoscritti a
sua insaputa, ma la loro condotta non fu spontanea, e lo dimostra
l'invio che ne fecero al S.to Officio. D'altro lato nulla
autorizza veramente a credere che egli abbia in Bologna trattato
di avere una cattedra, secondochè il Berti ha creduto di vedere.
Ecco ora il Campanella in Padova, verosimilmente nel 9bre 1592, e
certamente nel convento di S. Agostino, come egli medesimo ricordò
poi nella sua lettera al Galilei che è stata pubblicata dal Berti.
Poniamo qui la notizia che si fece assegnare nello studio di
Padova come spagnuolo, e non come calabrese: egli rammentò più
tardi tale circostanza, allorchè si trovò carcerato in Napoli fra
le mani degli spagnuoli, e l'addusse in prova della sua devozione
alla Spagna. Questa «assegnazione nello studio» conduce
naturalmente a credere che si tratti della iscrizione nell'Albo
della nazione spagnuola come si usava da coloro i quali
accorrevano allo studio pubblico mantenuto con tanto lustro dal
Governo Veneto; essi aveano cura di dare il loro nome alla Nazione
rispettiva. Se non che l'assegnazione è veramente un termine
fratesco sinonimo di destinazione, trovandosi anche non di rado
denominato Studio tra' frati quel convento o parte di convento in
cui si raccoglievano i frati studenti; e i Domenicani, almeno a
quei tempi, si dicevano «studenti formali» persino varii anni dopo
di essere stati ordinati sacerdoti; ne incontreremo qualche
esempio tra' frati calabresi che figureranno più tardi ne'
processi della congiura ed eresia del Campanella. Tuttavia non ci
ripugna menomamente ritenere che il Campanella si sia iscritto
nell'Albo degli spagnuoli, conoscendosi che mediante una piccola
moneta da pagarsi nell'atto dell'iscrizione si venivano ad
acquistare alcuni vantaggi, diversi secondo gli statuti e i
diritti consuetudinarii appartenenti alle diverse Nazioni, e che
s'iscrivevano nell'Albo, con la menzione delle rispettive qualità
e della moneta pagata, non solo gli studenti, ma anche i
visitatori dello Studio, che si trattenevano qualche tempo in
Padova non propriamente per seguire i corsi delle lezioni. Come si
vede, la cosa è ben diversa dall'«iscrizione nelle matricole dello
Studio di Padova»: e dobbiamo dire che in una delle nostre
escursioni in quella città abbiamo avuto cura di ricercare
nell'Archivio dello Studio se vi fosse rimasta traccia del
Campanella; ma degli Atti delle Nazioni non abbiamo trovato che
sei volumi della Nazione alemanna, due della Nazione polacca, uno
solo della Nazione ultramarina e contenente appena la serie e gli
scudi de' consiglieri, sindaci, esattori ed altri officiali della
Nazione.
Pertanto fin da' primi giorni della dimora in Padova, il
Campanella si trovò involto in un brutto processo, che non
intendiamo come sia stato confuso con gli altri venuti in sèguito.
«Quasi tre giorni» dopo il suo arrivo, secondochè egli scrisse in
una delle sue lettere, trovandosi il P.e Generale nel convento di
Padova, accadde di notte uno di que' fatti scandalosi, proprii di
giovani scostumati ed immorali, come ve n'erano tanto spesso tra'
frati di quel tempo: il P.e Generale patì una violenza che non
occorre specificare; il Campanella, di recente venuto, ne fu
incolpato da certi suoi compagni, e si noti che egli dormiva con
un altro in un letto comune, la qual cosa era allora ammessa per
l'abbondanza degli ospiti nei conventi, come ne vedremo più oltre
esempi diversi. Tanto per la data, quanto pel genere
d'imputazione, il Campanella fu chiamato in giudizio insieme con
altri frati. Questo risulta dalle sue stesse lettere, e risulta
del pari essersi difeso adducendo, che l'altro compagno il quale
dormiva con lui avrebbe dovuto rispondere egualmente della
imputazione, e poi egli non avea la vista buona e non avrebbe
potuto facilmente accedere presso il P.e Generale. «Ma l'iniquità,
egli dice, non cercava il delitto, bensì cercava di farmi
delinquente»; e ciò indurrebbe a credere che dovè rimanere
carcerato e maltrattato per qualche tempo. Giunse tuttavia a
riacquistare la libertà, naturalmente per insufficienza d'indizii,
o per avere «purgato gl'indizii» con qualche tormento; ma rimase
la memoria di questo processo, e forse ad esso mette capo
l'affermazione del Parrino e del Giannone, che il Campanella era
stato già prima carcerato anche «per la sua vita poco esemplare e
pe' suoi difformi costumi».
Venuto in libertà, probabilmente con la clausola di dover essere
pronto a rispondere novis supervenientibus inditiis giusta la
procedura del tempo, egli ricominciò a scrivere ed anche ad
insegnare e a disputare. Le notizie di ciò che egli scrisse in
Padova trovansi al solito nel Syntagma, bensì in molto disordine,
vedendosi stranamente intralciato il ricordo di ciò che scrisse in
Padova e di ciò che scrisse in Roma allorchè ebbe a fermarsi per
la 2.a volta in questa città; ecco quanto se ne può cavare di più
sicuro, e preghiamo di tenerlo presente poichè costituisce il
sèguito del Catalogo delle opere del Campanella. «Niente
sconfortato da queste perdite (le perdite fatte in Bologna)
cominciai di poi in Padova ad instaurare la Filosofia di
Empedocle, e scrissi una nuova Fisiologia secondo i proprii
principii indirizzandola a Lelio Orsini. Similmente, per ordine
dello stesso Orsini, un Apologetico dell'origine delle vene de'
nervi e delle arterie e della pulsazione, per commentario del
Telesio sul tema, che l'Animal universo etc., contro Andrea Chioco
medico Veronese che avea scritto contro Telesio, e mandai questo
opuscolo ad Antonio Persio Telesiano, dimorante in Roma presso
Lelio Orsini. Dettai anche una nuova Rettorica ad alcuni nobili
scolari Veneti. Di poi tradotto a Roma perdei tutti questi libri».
Fermandoci a questo punto per ora, notiamo che il Campanella
cominciò dal rifare non l'opera «De sensu rerum», ma il suo lavoro
sulla Filosofia d'Empedocle che avea già scritto altra volta in
versi latini; inoltre scrisse una Fisiologia, che probabilmente fu
un trattato destinato a servire per dettare lezioni; né deve
sfuggire la dedica fattane a D. Lelio, e la composizione
dell'Apologetico per ordine dello stesso D. Lelio, ciò che mostra
una corrispondenza continua con lui, come non deve sfuggire la
scrittura della Rettorica per uso accertato di un privato
insegnamento. Aggiungeremo poi qualche notizia intorno a
quell'Andrea Chiocco medico Veronese, contro cui ebbe a scrivere
l'Apologetico per Telesio. Il Chiocco, o Chioco, è ben noto a'
cultori della letteratura medica, come medico, filosofo, poeta,
naturalista, istorico: l'opera nella quale parlò de' polsi, e
rimbeccò il Telesio, fu quella intitolata «Quaestionum
philosophicarum et medicarum libri tres, Veron. 1593», ed essa è
divenuta estremamente rara come la più gran parte delle opere sue.
Qualche altra notizia più intima intorno a lui ci è accaduto di
trovare nell'Archivio di Urbino oggi trasportato a Firenze,
essendovi stata occasione di parlare del Chiocco quando il Duca di
Urbino, nel 1600, commise al suo Agente di Roma di cercargli un
medico: il Card.l di Verona propose in primo luogo il Chiocco, e
lo disse molto giovane (avrebbe nel 1593 avuto circa 29 anni), non
molto agiato, ma molto dotto, con buon fondamento di lettere
greche e di filosofia; era dunque una persona distinta, ed è
superfluo dire che non fu prescelto. - Continuando la notizia
delle opere composte dal Campanella in Padova, per quanto possiamo
decifrarla dal Syntagma, ecco un altro brano di questo libro che
ne compie la serie. «Dippiù, richiestone scrissi in lingua volgare
una Consultazione, se convenga alla Repubblica Veneta permettere
che gli Oratori degli altri Principi parlino nella propria lingua
in Senato, e la diedi ad Angelo Correo Patrizio Veneto. Avea pure
scritto un Commentario sulla Monarchia de' Cristiani, tale da non
avermene a dolere, dove mostrava con quali arti la potenza
Cristiana crebbe e crescerà, con quali suole decrescere, con quali
sia da recuperarsi, politicamente parlando, ed istituiva un
parallelo tra il Regno e i Re degli Ebrei, e il Regno i Re e
gl'Imperatori de' Cristiani. Parimente scrissi al Pontefice Sul
Reggimento della Chiesa, con quali modi, non soggetti alla
contraddizione dei Principi, il Pontefice massimo mediante le sole
armi ecclesiastiche può di tutto il mondo fare un solo ovile sotto
un solo Pastore, i quali ultimi libri diedi a Lelio Orsini e Mario
Tufo, ma l'autografo lo rubarono in Calabria amici infedeli».
Queste furono le numerose opere composte in Padova, cioè a dire
durante tutto il 1593 e buona parte del 1594, in mezzo a molte
angustie come vedremo tra poco. Indubitatamente il Campanella in
tale periodo diè buona prova di quella grandissima operosità, che
si può dire essere stata sempre la sua gloria maggiore, e si può
dire anche essere stata la salvezza sua: non avrebbe potuto
reggere a tanti colpi avversi, ma l'occupazione continua glie li
fece sentire meno vivamente, e forse impedì che ne rimanesse
schiacciato. Una sola osservazione intanto vogliamo fare sulle
opere anzidette, ed essa è che le due ultime, quelle Della
Monarchia de' Cristiani e Del Regime della Chiesa, entrambe di
ordine politico-religioso, trovandosi in coda all'elenco debbono
rannodarsi all'ultimo periodo della permanenza del Campanella in
Padova, al periodo de' nuovi e gravi travagli che vi soffrì; e
bisogna tener conto di questa circostanza, per intendere non tanto
lo spirito, quanto la misura delle dottrine che vi si fece a
sostenere.
Con ogni probabilità il Campanella, non ostante il suo privato
insegnamento, dovea menare in Padova una vita molto misera, e
sospettiamo che i frequenti invii di opere a D. Lelio Orsini e a
Mario del Tufo, tra gli altri significati, aveano anche quello di
un certo modo di chiedere sussidii usato ed abusato in ogni tempo
da' letterati poveri; oltracciò il processo già sofferto dovea
farlo tenere sotto una sorveglianza speciale ed anche puntigliosa,
come si argomenta dal vederlo continuamente oppresso da
imputazioni diverse, talune insulse e talune serie, piene di grave
pericolo sempre. Così ci spieghiamo in pari tempo una sua nuova e
curiosa pratica presso il Gran Duca di Toscana, per sollecitare la
concessione della cattedra, mentre l'opera De sensu rerum con la
dedica già fatta non avea potuto più stamparsi, e le informazioni
ulteriori del P.e Generale non avrebbero potuto riuscire
altrimenti che pessime: era un tentativo disperato, che solo uno
stringente bisogno poteva suggerire. Ad ogni modo il tentativo fu
fatto con una lettera al Gran Duca in data del 13 agosto 1593, che
è quella pubblicata dal Palermo. Il Campanella vi dice essergli
stata proposta in Padova una lezione di Metafisica da alcuni
gentiluomini, ma egli si riteneva impegnato con S. A., cui
rammenta la parola data, e dichiara non poter mai immaginare che
S. A. abbia mutato parere, «non essendo proprio di Signori». Si
mostra per altro informato di ciò che accadde negli ultimi giorni
della sua dimora in Firenze: «mi si scrive che alcuni, gonfi di
quella vana sorte che suole apportar la ipocrisia, abbian proposto
a V. A., per la mutazione che avverrà da le nuove mie dottrine,
che non doveva ricevermi, e questo il medesimo dì che io mi partii
da lei» (allusione evidente a Baccio Valori, che avea scritto
appunto in tal senso e in tale data con molta ipocrisia). Del
resto afferma che saprebbe anche meglio degli altri dettare le
dottrine Aristoteliche (la qual cosa conferma quanto fosse
stringente il suo bisogno), e supplica che faccia scrivere se egli
debba avere quella lezione o aspettare ancora. - Non è dubbio che
S. A. gli abbia scritto o fatto scrivere in suo nome evasivamente;
tale risposta dovè essere portata al Campanella nel convento di S.
Agostino dal Galilei lettore in Padova, come si può argomentare
da' ricordi che poi ne fece il Campanella medesimo al Galilei ed
anche a Ferdinando più tardi, quali si leggono nelle lettere
pubblicate dal Berti e dal Fabroni. Aggiungiamo che per colmo di
dolore il Campanella, 4 anni dopo, potè forse conoscere che ad
insegnare in Pisa era chiamato quel dot.r Marta, contro cui egli
avea fatto le prime armi combattendo Aristotile; bensì era
chiamato ad insegnare jus Cesareo, non già filosofia.
Vennero intanto successivamente istituiti in Padova nuovi processi
contro il Campanella, e per verità non sapremmo affermare che al
tempo in cui mandò la lettera al Gran Duca non ne avesse già avuto
ancora un altro dopo quello relativo all'insulto gravissimo patito
dal P.e Generale: poichè conosciamo molti capi di accusa a' quali
fu chiamato a rispondere, e certamente ve ne furono anche altri,
mentre egli sempre costumò non propalarli o non specificarli
appieno; ma non conosciamo in che modo que' capi di accusa sieno
stati aggruppati per aversi i «cinque processi», che nella lettera
allo Scioppio pubblicata dallo Struvio chiaramente affermò avere
avuti. A quanto pare, due nuovi processi egli dovè avere in
Padova, venendo poi l'ultimo, assai più grave dell'altro, compiuto
in Roma, con la giunta di ulteriori capi di accusa sorti in
sèguito, e dell'esame delle opinioni sospette consegnate nel libro
De sensu rerum; ciò nel corso del 1593 e 1594, poichè vedremo da
un documento irrecusabile trovarsi nella fine del 1595 già
esaurito in Roma l'ultimo processo sorto in Padova, ed esaurito
anzi da qualche tempo. - Meditando sulla lettera allo Scioppio
pubblicata dallo Struvio, la quale offre in modo più ordinato i
capi di accusa, ed aggiungendovi ciò che si rileva dalla lettera
al Papa, apparirebbe plausibile il dire che in uno di questi nuovi
processi (3° per data) gli siano state fatte due imputazioni, aver
composto il libro De tribus impostoribus, ed essere seguace delle
dottrine di Democrito; nell'altro poi (4° per data) dovè
rispondere ancora a due imputazioni, divenute non si sa quante per
via, professare dottrine eretiche, e non aver denunziato un
giudaizzante col quale avea disputato de Fide; né occorre dire che
l'ultimo suo processo (il 5°) fu quello sostenuto in Napoli, con
le accuse di tentata ribellione ed eresia.
Alle imputazioni dell'avere scritto il libro De tribus
impostoribus, e dell'essere seguace delle dottrine di Democrito,
il Campanella potè rispondere, che aveva appunto scritto contro
Democrito e che il libro attribuitogli era stato già stampato 30
anni prima che egli nascesse. Vede ognuno quanto sarebbe
importante possedere gli atti di tale processo, mentre a tutt'oggi
nulla è stato posto ancora in sodo circa il libro in quistione, e
si dubita perfino che esso sia mai esistito. Con la sua immensa
erudizione il Campanella potea fare meglio di chicchessia la
storia di questo libro: per lo meno egli dovè fornire tutte le
particolarità dell'edizione, che ci lasciò appena accennata e ci
riesce affatto ignota. Noi siamo convinti che dandosi agli eruditi
l'accesso all'Archivio del S.to Officio, la Chiesa medesima vi
guadagnerebbe da tutti i lati, e vorremmo avere tanta autorità da
meritarci credito: per lo meno non si vedrebbero più malamente
confuse l'Inquisizione di Spagna e quella di Roma, che
funzionarono con una misura ben diversa, e senza dubbio si
modificherebbe radicalmente l'opinione tanto sparsa de'
procedimenti iniqui usati dall'Inquisizione Romana. Nel caso
presente, si vedrebbe anche come il Campanella abbia avuto tutto
l'agio di difendersi e guadagnarsi l'assoluzione.
Più malagevole dovè riuscire il discolparsi del non aver rivelato
il giudaizzante col quale avea disputato de Fide, e di essersi
reso colpevole di eretica pravità come allora si diceva. La
denunzia era di obbligo assoluto, e la mancanza di essa nelle
circostanze indicate bastava a far nascere il sospetto di eresia.
Forse il Campanella potè dapprima addurre essersi l'opponente
dichiarato vinto nella disputa, e quindi a lui rimanere il merito
di averlo convertito; ma ciò non lo disobbligava dal farne parola
al S.to Officio, e d'altronde il giudaizzante dovè mostrarsi
pervicace: né diciamo ciò a caso, ma dopo la matura considerazione
di quanto il Campanella ne lasciò scritto, e dopo il fatto di un
giudaizzante da noi rinvenuto nelle scritture di questo periodo,
da potersi riferire appunto a' travagli del Campanella. Cominciamo
dal notare che questi travagli avuti pel giudaizzante son citati
dal Campanella non solo nella lettera al Papa, dove son posti in
primo luogo (mentre nella lettera allo Scioppio pubblicata dallo
Struvio mancano affatto), ma son citati anche nella Narrazione
pubblicata dal Capialbi, dove figurano quasi come i soli travagli
avuti dal S.to Officio, prima de' travagli di Napoli. Le parole
testuali della lettera sono, «primo ex dicto unius Judaizantis
molestatus»; quelle della Narrazione (pag. 52) sono, «fu
travagliato.... nel S. Officio perché non rivelò un fugitivo
hebraizante con cui esso Campanella disputò de Fide in Padova, e
quello fu poi carcerato a Verona». La parola «fuggitivo» nella
terminologia del S.to Officio significa uno che è scappato dal
carcere od anche si è sottratto alla forza mandata a catturarlo,
ciò che bastava a costituirlo in una certa convinzione della colpa
appostagli; invece nella terminologia fratesca significa un frate
che ha abbandonato l'ordine monastico, e nella terminologia de'
disputanti significa uno che usa un ripiego per cessare dalla
disputa sentendosi vinto; non ci pare dubbio che in uno di questi
due ultimi sensi la parola «fuggitivo» abbia dovuto essere
adoperata dal Campanella. Questo frate dunque, mostratosi
ebraizzante nella disputa avuta col Campanella in Padova, fu poi
carcerato in Verona, e pel detto di lui solo il Campanella venne
travagliato. Ora ricercando le scritture di questo periodo noi
abbiamo trovato il ricordo di un frate Antonio da Verona
coll'abito di cappuccino, il quale per avere sostenuto che Cristo
non avea redento il genere umano, come eretico pervicace finì per
essere bruciato vivo in Campo di Fiori il 26 7bre 1599, dopo di
essere stato varii anni nelle carceri del S.to Officio. Veggano i
discreti se non sia plausibile mettere questo fatto in rapporto
con le cose del Campanella, e metterlo nel modo da noi tenuto.
Merita intanto di essere considerata l'importanza di questo
processo pel povero Campanella, e ciò che andiamo a dire valga
anche pel successivo ed ultimo processo di Napoli. L'essere stato
già una volta condannato ad abiurare come veementemente sospetto
di eresia lo costituiva nella terribile condizione di «relapso», e
qualora fosse stata provata in tutta regola la sua colpa, il
destino suo non poteva esser dubbio: per la nota massima della
giurisprudenza del S.to Officio «lapso non relapso parcitur», egli
avrebbe dovuto essere degradato e consegnato alla Curia secolare,
con la solita raccomandazione rutinaria di punirlo senza pericolo
di morte e senza effusione di sangue e mutilazione di membra,
della quale raccomandazione era bene inteso che la Curia secolare
non tenesse conto, o ne tenesse conto adoperando un genere di
supplizio tale da non recare né effusione di sangue né mutilazione
di membra. Così il condannato era bruciato vivo, quando si
mostrava impenitente, od era invece prima appiccato vicino al
fuoco e poi bruciato, quando era penitente, giusta la massima che
tale ultimo supplizio «et humanius est, et viam desperationis
claudit, et ad poenitentiam provocat». né si pensi che trattandosi
di un'eresia diversa dalla precedente, non fosse il caso vero del
relapso: l'essere ricaduto nell'identica eresia costituiva uno de'
casi, e propriamente de' casi estremi del relapso, ne' quali non
doveva neanche accordarsi la difesa, e il colpevole era «sine ulla
penitus audientia brachio saeculari tradendus, ultimo supplicio
feriendus». Ma i casi del relapso erano varii, c'era perfino
quello di aver fatto semplicemente qualche favore ad un eretico
dopo di avere già una volta abiurato; e la conseguenza era sempre
la stessa, consegna al braccio secolare per l'amministrazione
dell'ultimo supplizio, previa la degradazione quando trattavasi di
un ecclesiastico. Solo si voleva che il colpevole fosse «legitime
convictus»; e parrebbe che il Campanella abbia avuto ricorso pure
a quest'àncora di salvezza sostenendo l'insufficienza del teste
unico, secondo la massima generalmente valevole in S.to Officio
«vox unius vox nullius», come si può fino ad un certo punto
argomentare da quelle sue parole che implicano anche una discolpa,
«ex dicto unius Judaizantis molestatus».
Dopo tutto ciò risulterà senza dubbio naturalissimo che il
Campanella, nell'ultimo periodo della sua dimora in Padova, e
verosimilmente durante la sua prigionia, non si sia tanto occupato
di filosofia quanto di politica e di religione, procurandosi buoni
pezzi di appoggio per la tempesta che minacciava sommergerlo. Così
nacque l'opera della Monarchia de' Cristiani, e subito dopo anche
l'altra Del Regime della Chiesa indirizzata al Pontefice, sfoggio
di dottrine ultra-teocratiche e di fervore religioso; e ci pare
che debba tenersi conto delle circostanze nelle quali furono
scritte queste opere, semprechè si voglia portare sopra di esse un
equanime giudizio. Vedremo pure in sèguito il nostro filosofo, in
determinati momenti molto critici della sua vita, assumere un
atteggiamento che per lo meno deve dirsi di esagerazione, una
volta anche verso i Principi, un'altra volta di nuovo verso il
Papa; ed egualmente di questo ci pare che debba tenersi conto. né
diremo già che in fondo egli non credesse alla teocrazia come
sistema di governo, che non amasse l'estirpazione perfino violenta
delle sètte religiose per vedere almeno tutta la parte civile
dell'umanità stretta in un fascio solo, che non ritenesse la
religione fortemente disciplinata indispensabile anche come
strumento di civiltà; ma ci periteremmo assaissimo di affermare
che nel fondo dell'animo suo egli volesse davvero la teocrazia
rappresentata dal Papa e da' Cardinali, la religione rappresentata
da tutto il complesso delle dottrine cattoliche etc.; tutti sanno
che uomini non volgari, e di eccellente odorato, dalle medesime
sue opere politico-religiose trassero già il convincimento che
esse esprimessero ben altro di quello che facevano le mostre di
esprimere. Ma non possiamo né dobbiamo entrare in simili
discussioni, e solo vogliamo giustificare il nostro proposito di
crederci nello strettissimo dovere di far sempre rilevare in quali
condizioni le sue diverse opere furono scritte; segnatamente poi
per quella Del Regime della Chiesa notiamo anche in anticipazione,
che mentre chiaramente trovasi registrato nel Syntagma essere
stata scritta in Padova senza che apparisca alcun motivo per
dubitarne, il filosofo medesimo, nella Difesa che presentò ad
occasione del 5° processo di eresia avuto in Napoli, la annunziò
siccome scritta in Stilo ne' tempi immediatamente anteriori a
quelli di tale processo, naturalmente pe' nuovi bisogni di
quest'altra sua gravissima causa. Aggiungiamo inoltre che egli
ebbe una cura speciale della conservazione di entrambe queste
opere, Monarchia e Regime, facendone l'invio a D. Lelio Orsini e a
Mario del Tufo, sicchè non ebbe a perderle con le altre al momento
in cui fu tradotto a Roma, e ciò naturalmente perché doveano
servirgli allo scopo suddetto. né vogliamo tacere che non ci
apparisce realmente derivata da queste opere, ossia dalle dottrine
consegnate in queste opere, la persecuzione continua sofferta dal
Campanella in Padova, come lascerebbe sospettare una proposizione
emessa dal Naudeo tanti anni dopo: il Naudeo, amicissimo del
filosofo, e durante la vita e dopo la morte di lui fu solito
d'ingarbugliare il ricordo delle cause, per le quali egli era
stato perseguitato; d'altra parte il Governo Veneto era solito di
perseguitare esso medesimo e di non lasciare impuniti i fautori
della supremazia Papale.
IV. Eccoci ora al trasferimento del Campanella da Padova a Roma.
Abbiamo già accennato che questo dovè accadere verso la fine del
1594, poichè il processo iniziato in Padova, certamente assai
grave ed aggravatosi sempre più per via, era già esaurito in Roma
prima della fine del 1595; e ci parrebbe superfluo dire che egli
dovè essere tradotto a Roma qual prigioniero, se non ci obbligasse
a dichiararlo il fatto che i biografi hanno tutti ammesso
un'andata spontanea da Padova a Roma. Il Berti è stato il solo ad
avvedersi che l'andata del Campanella a Roma segna il tempo di un
suo processo da tutti sconosciuto; se non che egli lo crede il 1°
processo, avvenuto non più tardi del 1595 o 96, ed ammette sempre
un'andata spontanea del filosofo a Roma, «o fosse irrequietezza
sua, o timore di molestia per parte de' frati od anche de'
magistrati per causa delle dottrine teocratiche, e più
probabilmente per dare ragione di sè al S. Uffizio». Ma sebbene il
filosofo non abbia mai parlato molto chiaramente delle sue maniere
di andare a Roma, ed anche ad occasione del suo primo
trasferimento da Napoli ci abbia fatto leggere nel Syntagma «Romam
perrexi», questa volta ci fa leggere il trasferimento da Padova
con le parole «Romam perductus»: il D'Ancona, nel recarle in
italiano, ha adoperata la frase «portandomi a Roma», ma noi vi
abbiamo scorto un senso passivo e non attivo, ed abbiamo perciò
adoperata la frase «tradotto a Roma». D'altronde bisogna tener
presenti le circostanze di tale andata a Roma, la perdita che vi
fece di diverse opere scritte in Padova (la Filosofia di
Empedocle, la nuova Fisiologia, l'Apologetico del Telesio contro
il Chiocco e la Rettorica, le sole opere che, o in originale o in
copia, esistevano presso di lui) e il rinvenimento nel S.to
Officio di tutte le altre opere che avea già precedentemente
perdute in Bologna (ved. qui pag. 62): questo ci pare che indichi
senz'altro essere stato il Campanella strappato bruscamente dal
luogo della sua dimora in Padova, poi tradotto a Roma e consegnato
nelle carceri del S.to Officio, dove ebbe anche a trovarsi in
presenza delle opere toltegli in Bologna, e a doverne rispondere.
Le principali imputazioni, dalle quali dovè difendersi, furono
certamente sempre il non aver denunziato l'ebraizzante e l'essersi
reso colpevole di eretica pravità. Ma a queste se ne aggiunsero
ancora altre, alcune delle quali vennero senza dubbio messe
innanzi nel tempo in cui il processo si svolgeva in Padova: esse
furono, l'aver composto un empio Sonetto contro Cristo, l'aver
manifestato eresie in Calabria, come risultava dalla deposizione
di un suo conterraneo accusato egualmente di eresia nel tribunale
del Vescovo di Squillace, l'essere stato trovato in possesso di un
libro di Geomanzia senza il debito permesso, l'avere enunciate
proposizioni censurabili nell'opera De sensu rerum toltagli in
Bologna. La 1a e 2a di tali imputazioni aggiunte trovansi
registrate nella lettera al Papa ed a' Cardinali pubblicata dal
Centofanti, ma vedremo anche nel 5° processo sostenuto in Napoli
la deposizione di un suo intimo amico (fra Dionisio Ponzio), nella
quale è detto che il Campanella medesimo gli aveva parlato di un
Sonetto bruttissimo contro Cristo, e glie lo aveva anche recitato,
per lo quale era stato innocentemente inquisito in Roma. La 3a
imputazione, quella di essere stato trovato in possesso di un
libro di Geomanzia, ciò che ci sembra aver dovuto accadere in
Padova nel momento della cattura, trovasi registrata nella
Informazione pubblicata dal Capialbi. L'ultima, quella delle
opinioni censurabili emesse nell'opera De sensu rerum, trovasi
registrata con varie particolarità nell'opera medesima rifatta
dall'autore in italiano più tardi e poi pubblicata in latino nel
1620, come anche nella Difesa dell'opera premessa alla 2a edizione
di Parigi 1637: in quest'ultimo documento è detto che la risposta
agli argomenti degl'Inquisitori fu data nel 1598, e son citati gli
Atti del 1598, ma abbiamo ragione di credere che vi sia incorso un
errore di data, dovendosi leggere 1595, tanto più che a pochi
versi di distanza si ha un altro errore di data manifestissimo,
trovandosi detto che la 1a edizione dell'opera fu fatta nel 1617,
mentre si sa che fu fatta nel 1620. - Non conosciamo la serie
degli argomenti addotti dal Campanella contro ciascuna
imputazione, ma non ci manca per taluna di esse qualche indizio e
per le altre qualche notizia positiva, che il Campanella medesimo
ha avuto cura di fornire. Abbiamo già detto che per la faccenda
dell'ebraizzante ci sarebbe qualche indizio dell'essersi il
Campanella difeso adducendo che si trattava di un teste unico; ma
doverono esservi ancora altri argomenti che non conosciamo. Quanto
al Sonetto, egli giunse a dimostrare che apparteneva all'Aretino;
quanto all'eresia che si pretendeva aver manifestata in Calabria,
lo stesso denunziante si ritrattò, confessando avere inventato il
fatto per salvarsi da' pericoli che correva; quanto al libro di
Geomanzia, affermò che gli fu preso mentre intendeva portarlo
all'Inquisitore per la licenza; quanto alle proposizioni
censurabili emesse nell'opera De sensu rerum, ecco in quali
termini il Campanella ce ne lasciò il ricordo nell'opera rifatta,
e poi anche nella Difesa di essa allegata all'edizione di Parigi.
Nell'opera (ms. napoletano) al lib. 2.° cap. 32 scrisse:
«L'argomento che mi fece l'Inquisitione contra, et poi restò da me
sodisfatto fu questo. Che sequirebbe, che pure i Vermi, et le
bestie di questa beata mente fossero informati, et capaci di
beatitudine humana; io risposi che non sequita, poichè veggiamo
tanti pidocchi et vermi generarsi nella testa dell'huomo, et tanti
altri vermi dentro il ventre, et in varii membri et visceri, ne
per questo tali bestiole hanno la mente rationale dell'huomo, ma
solo il senso breve, et corto dell'altre Belve, cossì dentro al
mondo senza quell'anima beata ma non (int. con) sensi partiali, et
questa risposta per contrario e certo essempio provata non hanno
potuto impugnare gli contradittori». Nella Difesa poi del libro,
allegata all'edizione fattane in Parigi nel 1637 (pag. 90) la cosa
medesima è espressa ne' seguenti termini; ne diamo tradotto il
brano relativo. «Esaminando i Padri i 4 libri nostri manoscritti
De sensu rerum non apposero nulla contro il senso naturale delle
cose, né che abbia ammesso l'anima del mondo assistente con
Agostino, Basilio, il Niceno, il Ficino, e Platone, ma solamente
questo: se c'è un'anima del mondo, essa di conseguenza è
beatificabile o beata, e però lo sono anche le anime de' bruti e
tutte le parti del mondo. Risposi, come si vede negli Atti
dell'anno 1598 (ciò che narrai pure nel mio libro De Sensu rerum
stampato nell'anno 1617) che se si ammetta un'anima del mondo
assistente e reggente con intelligenza beata, che può essere una
delle Dominazioni, non per questo le anime de' bruti e le cose
naturali senzienti sarebbero del pari beatificabili, poichè non
sono della sostanza e derivazioni di quell'anima partecipanti del
comune senso naturale; come non vi sarebbero né potenze né
appetito delle cose, se non per partecipazione innata delle
primalità. Poichè così pure i vermi nati nel ventre e i pidocchi
nati nel capo dell'uomo non sono razionali a causa dell'anima
razionale dell'uomo, ma solo sensuali a causa del loro partecipare
del comune senso, nascendo similmente dalle fecce dell'uomo e da'
cadaveri; né conoscono l'anima dell'uomo, come neanche noi
conosciamo l'anima del mondo pel senso ma dopo lunghi sillogismi.
La risposta medesima dànno S. Gregorio Niceno e S. Agostino sopra
citati, che accordano al mondo una virtù razionale quasi anima,
poichè ammettono in ciascun ente un'anima propria, emanante o da
Dio, come nell'uomo, o dagli elementi, come ne' bruti, nelle
piante ecc., o dalla luce sensuale comune a tutti secondochè si è
detto nella serie 3a e 4a; ed avendo così risposto, pregai i
Governatori del S.to Officio che mi legassero o con ragioni o con
precetto, se non dovessi tenere tale opinione; e non vollero, ma
concessero la facoltà di tenerla, e i Sig.ri Cardinali Ascolano,
Santorio e Sarnano, dottissimi Inquisitori, dissero che io
combatteva bene con questa opinione contro gli Atei e in difesa
de' Padri».
Così il Campanella giunse a liberarsi da questo processo che
poteva riuscirgli fatale, segnatamente per la 1.a e 2.a
imputazione, per le quali non conosciamo veramente il suo sistema
di difesa, mentre per esse non c'era altro esito possibile che o
la liberazione o l'estremo supplizio. Vedremo che quando poi se ne
andò in Calabria, parlando col suo amico fra Dionisio del Sonetto
malamente attribuitogli, disse che il denunziante era stato
condannato alla galera in vita: ma questo riesce poco credibile,
poichè uno de' lati deboli del S.to Officio era il non dar
travagli a' testimoni o denunzianti, quando le colpe da essi poste
innanzi si trovassero insussistenti, e ciò per non intiepidire nel
pubblico l'accorrere al suo tribunale; bisognava che vi fosse
indizio d'insigne mala fede per deciderlo a colpire i testimoni
falsi, ed allora li colpiva con vigore secondo il suo costume. Ad
un altro amico (fra Domenico Petrolo) egli disse che era stato
rilasciato ac si non fuisset captus: questo ci riesce veramente
credibile, ma nemmeno al punto da non ammettere che sia stato
obbligato a rimanere in un convento determinato, e propriamente in
quello di S.ta Sabina come se n'ha qualche indizio; il foro
ecclesiastico, egualmente che il laico, non soleva facilmente
abbandonare del tutto chi avea dato motivo di far trattare qualche
sua causa, ma lo voleva sotto la mano per qualche tempo. Da ultimo
dobbiamo ricordare che parlandosi delle opere presegli in Bologna
e trovate presso il S.to Officio, nel Syntagma si legge che non le
richiese, essendo sul punto di rifarle migliori: e dobbiamo dire
che questo non si comprende agevolmente, poichè quelle opere si
trovavano come allegate ad un processo, e in simili condizioni il
riaverle non era consentito.
Certo è che molto dovè costare al Campanella il liberarsi da
questo processo, e vi fu bisogno di potenti raccomandazioni. Anche
per esso, e principalmente per esso, dovè trovare un potente aiuto
in D. Lelio Orsini, il quale, come abbiamo già detto, era in
buonissimi termini con la Curia Romana e con lo stesso Papa. Un
altro aiuto valevolissimo dovè trovare nel Commissario generale
del S.to Officio fra Alberto Tragagliolo, che secondo l'uso
attendeva alla redazione degli Atti, e poi, sedendo pro Tribunali,
emetteva la sentenza data dalla Sacra Congregazione Cardinalizia,
alla quale era devoluta la trattazione della causa e la sua
decisione: avremo tra poco a parlare di una lettera del Campanella
al Tragagliolo, nella quale si vede che il filosofo rimase in
corrispondenza col degno frate, e si trova menzionata «la
misericordiosa giustizia» di lui, «il grand'obbligo» che il
filosofo gli ha, «l'ufficio di pietosa madre» che avea fatto,
l'essersi «promesso di conformarsi al senno di lui», il volere «da
lui dipendere meritamente»; le quali espressioni verso il
Tragagliolo, e l'interesse da costui spiegato di poi anche in
Napoli verso il Campanella, mostrano che il Commissario del S.to
Officio dovè sentire una grande simpatia pel povero prigioniero,
così giovane, così dotto e così disgraziato. Forse egli conobbe le
opere della Monarchia de' Cristiani e Del Regime della Chiesa, che
certamente non furono presentate in giudizio e non è difficile
intenderne le ragioni: così anche conobbe forse il Compendio di
Fisiologia e i Discorsi politici, in particolare quelli a'
Principi d'Italia, che al pari di talune poesie vedremo essere
stati composti nel carcere. Infine il Campanella potè avere
l'aiuto anche di personaggi altissimi, dell'Arciduca Massimiliano
e dell'Imperatore, i quali scrissero in favore di lui e di Gio.
Battista Clario egualmente carcerato, pel cui mezzo egli fece
pervenire all'Imperatore una copia de' suoi Discorsi a' Principi
d'Italia: questo fatto venne da lui affermato nelle Difese che
scrisse ad occasione del processo della congiura avuto in Napoli,
né v'è ragione di dubitarne. Ed ecco dove mette capo una certa
relazione del Campanella con gli Arciduchi e con l'Imperatore,
onde vedremo che egli si rivolse anche a costoro durante il lungo
martirio di Napoli. Nello stesso documento è detto avere inoltre
inviato all'Arciduca Massimiliano il Dialogo contro i Luterani; ma
tale invio potè verificarsi dopo l'uscita dal carcere, giacchè il
Dialogo non fu composto prima, e ben si vede che il Campanella
ebbe cura di farsi conoscere dall'Arciduca anche posteriormente.
Questo intanto ci conduce a parlare delle opere composte dal
Campanella in Roma, de' suoi compagni di carcere, delle poesie che
quivi dettò. Nel Syntagma, a proposito de' libri perduti in
Padova, si legge: «In Roma dunque dettai di nuovo un piccolo
Compendio di Fisiologia, né di esso mi avea dato mai più alcun
pensiero, ma l'anno 1611 Tobia Adami l'ebbe da non so chi in
Padova e lo pubblicò sotto il titolo di Prodromo di tutta la
filosofia del Campanella. Inoltre cominciai un Compendio di
Fisiologia, sperando di risarcire la perdita di un grosso volume;
ed in esso proponeva le opinioni di tutti gli antichi e le
comparava con le nostre, il quale libro mandai poi a Mario Tufo.
Al medesimo Mario scrissi un trattato Della prestanza dell'arte
cavalleresca». Poi, venendosi a parlare non più per incidente
delle opere scritte in Roma, si legge ancora: «In Roma avea
parimente scritto in versi toscani Sul modo di sapere e su cose
fisiologiche, e perdei l'uno e l'altro libro in Napoli; scrissi
anche in Roma una Poetica secondo i proprii principii, la quale
diedi a Cinzio Albobrandini Card.l S. Giorgio, e trovasi nelle
mani di molti, benchè uno spagnuolo l'abbia tradotta nella lingua
sua e vi abbia apposto il suo nome: la qual cosa, allorchè ebbi a
vederla in Napoli nel Regio Castello, l'anno 1618, mi mosse ad un
riso veramente grandissimo; ma dovunque i nostri esemplari
testificano contro il plagiario, e lo stesso ladro, allo scopo di
covrire un po' meglio il furto, in fine si scusa perché,
quantunque sia spagnuolo, sovente cita poeti italiani come
l'Ariosto, il Tasso, il Guarini. Scrissi pure in Roma un Dialogo
in lingua volgare, del modo di convincere gli eretici del nostro
tempo e tutti i settarii insorgenti contro la Chiesa Romana, buono
per qualunque mediocre ingegno, e alla sola prima disputa; lo
diedi prima a Michele Bonello Card.le Alessandrino e ad Antonio
Persio, ed anche a te non così per tempo io lo concessi, o
amicissimo Naudeo, comunque non perché abbi a darlo in luce,
mentre da lunga pezza oramai avea trasfuso questo dialogo nella
Lettera anti-Luterana a' filosofi e principi oltramontani per
instaurare la religione. Inoltre egualmente trovandomi in Roma,
diedi agli amici Orazioni, parecchi Discorsi politici, molte
Poesie toscane e latine anche da diffondersi col nome loro. Qui
pure cominciai a comporre Versi toscani con metro latino, come si
veggono nelle nostre Cantiche, e l'Arte metrica della lingua
volgare in tutto simile alla latina, con regole sicure onde poter
conoscere ed osservare la quantità di ciascuna sillaba, e diedi
questa a Gio. Battista Clario medico dell'Arciduca Carlo in Roma e
a due giovani Ascolani».
Tale è la serie delle opere composte in Roma nella fine del 1594,
nel 1595, 1596 e quasi tutto il 1597, nuovo gruppo che viene ad
aggiungersi a quelli delle opere precedenti e ad ingrossare di
molto il Catalogo: ma gioverebbe conoscere quali di esse siano
state scritte nel carcere e quali fuori, come pure con quale
ordine di successione; e il Syntagma non ci dà lumi sufficienti
per conoscerlo, che anzi ci apparisce sempre più un'esposizione
non solo disordinata ma anche assai oscura in qualche punto di
molta importanza. Trovando registrato in primo luogo il piccolo
Compendio di Fisiologia, che venne pubblicato poi dall'Adami in
Frankfort nel 1617 col titolo di Prodromus Philosophiae
instaurandae, si sarebbe autorizzati a classificarlo prima di ogni
altra opera di questo gruppo; tuttavia, guardando bene al
Syntagma, si rileva che esso trovasi registrato in primo luogo per
incidente. D'altro lato abbiamo nella Bibl. Magliabechiana (XII,
5) un Codice intitolato Compendium Ph.iae (sic) Campanellae ad
Paulum Attilium, Romae 1595, e, come il prof.r Fiorentino ha fatto
notare, esso corrisponde esattamente al Prodromus; possediamo
quindi una data certa, la quale autorizza ad ammettere che la
detta opera abbia dovuto essere composta nel carcere, ma non
necessariamente in primo luogo. E bisogna aggiungere che non manca
un fortissimo indizio, da noi trovato in un'opera appartenente ad
un compagno di carcere del Campanella di cui si discorrerà tra
poco, per lo quale si è autorizzati a dire che questo libro fu «il
secondo» tra' libri da lui composti nel carcere; né abbiamo
bisogno di far notare, che avendo esso la data certa del 1595, e
non essendo stato il primo tra' libri composti in Roma, si può
tanto meglio affermare che il trasferimento del Campanella alle
carceri di questa città sia avvenuto nella fine del 1594.
Ciò posto, deve dirsi che in tale periodo egli abbia «cominciato»
a scrivere l'altro Compendio di Fisiologia, diverso da quello ora
contemplato, in risarcimento di un grosso volume perduto che
comparava le opinioni degli antichi alle proprie, la quale
circostanza autorizzerebbe a dire che egli avesse avuta
l'intenzione di risarcire la perdita del libro di Fisiologia
sottrattogli a Bologna, composto di «dispute contro tutte le
sètte» o veramente del libro De Rerum universitate (confr. pag. 53
in nota). Di certo ne venne fuori l'inizio di ciò che fu poi detto
l'«Epilogo» o «Epilogo magno di Filosofia», essendo state le
dispute contro le sètte riserbate per un'appendice che fu composta
più tardi col titolo di Quistioni; e vedremo che l'opera fu
cominciata e poi proseguita in italiano, la quale novità, imitata
in sèguito per lungo tempo, merita di essere additata. Ma il
lavoro fu presto interrotto per comporre il Compendium
Phisiologiae in latino, verosimilmente anche questa volta per
dettarne lezioni, e forse a quel Paolo Attilio, che potè essere
uno de' due giovani Ascolani sopra menzionati. Seguì poi, con ogni
probabilità egualmente nel carcere, la composizione così del
trattato della Prestanza dell'arte cavalleresca, come de' Versi
toscani sul modo di sapere o su cose fisiologiche, primi tentativi
delle poesie filosofiche alle quali il Campanella attese di poi,
alcuni anni più tardi: ma dobbiamo assolutamente rimandare
all'ultimo luogo la composizione della Poetica, al periodo in cui
il Campanella già stava fuori carcere, e si agitava presso il
Card.l S. Giorgio per poter tornare in Calabria, cioè nel 1596,
come egli stesso dice in un'altra opera analoga; dobbiamo inoltre
rimandare egualmente al periodo in cui già stava fuori carcere, ma
a' primi tempi di questo periodo, la composizione del Dialogo del
modo di convincere gli eretici, pel quale vedremo esservi una data
e una dimora certa, lo scorcio del 1595 nel convento di S.ta
Sabina. Invece gl'importanti Discorsi politici, che il Syntagma
non specifica e che sappiamo essere stati inviati all'Arciduca
Massimiliano e all'Imperatore, come anche molte Poesie italiane e
latine, i Versi toscani con metro latino, e l'Arte metrica
corrispondente che fu donata al Clario, si debbono assegnare al
periodo trascorso nel carcere, visto che ne fu fatto dono al
Clario il quale fu compagno di carcere del Campanella, come diremo
tra poco.
Tutto considerato, bisogna riconoscere che il Campanella in Roma,
lavorando assai più nel carcere che fuori, abbia atteso
massimamente a procurarsi distrazioni, dapprima con la filosofia e
di poi con la poesia; che abbia posto da parte gli sfoggi di
teocrazia e di fervore religioso, mentre non gli era stato
possibile utilizzare la Monarchia de' Cristiani e il Regime della
Chiesa, ripigliando di poi il fervore pel cattolicismo nel suo
Dialogo, quando gli fu necessario conciliarsi la benevolenza della
Curia, per essere liberato dall'obbligo di risedere nel convento
di S.ta Sabina e di non allontanarsi da Roma; che invece abbia
posto mano alla politica e ad una specie notevole di politica ne'
suoi Discorsi, quando gli fu necessario conciliarsi la benevolenza
de' potenti del Nord ed averne lettere commendatizie. - Ci corre
intanto l'obbligo di fermarci ancora un poco su questi Discorsi
politici composti in Roma. Essi sarebbero i seguenti, e il titolo
li qualifica abbastanza: Discorsi a' Principi d'Italia che per
bene loro e del cristianesimo non debbono contradire alla
Monarchia di Spagna ma favorirla, e come dal sospetto di quella si
ponno guardare nel Papato e per quella contra infedeli, con modi
veri e mirabili; ad essi venne forse aggiunto pure l'altro assai
più brutto, che conservasi ms. nella Biblioteca naz. di Parigi e
che 7 anni dopo, se non siamo male informati, venne tradotto in
latino e dato alle stampe dal Mylius, Discorso circa il modo col
quale i Paesi Bassi, volgarmente di Fiandra, si possino ridurre
sotto l'obbedienza del Re Cattolico. Possiamo dire con certezza
che i «Discorsi a' Principi d'Italia» non doverono essere scritti
in quella forma che ce n'è rimasta: il Campanella ebbe in sèguito
a ritoccarli ed anche ad accrescerli notevolmente, come si rileva
dalla maniera che tenne nel farne menzione in varie circostanze,
ed oltracciò dalle opere che vi si veggono citate e che furono
certamente composte più tardi; così ne avremo ancora a parlare nel
corso di questa narrazione, e ci riserbiamo di dirne qualche cosa
di più a miglior tempo. Ma avendo qui riferite le parole del
Syntagma che ad essi alludono, vogliamo richiamare l'attenzione
sul fatto singolare, che mentre nel Syntagma si trova registrato
sempre il titolo di ogni più umile lavoro, non si trovano invece i
titoli de' detti Discorsi e specialmente di quelli a' Principi,
che per moltissimi anni, insieme co' Discorsi sulla Monarchia di
Spagna dei quali avremo a parlare più in là, furono tra le più
stimate opere del Campanella, tanto che se ne trovano ancora molto
sparse le copie manoscritte. Siamo nondimeno in grado di spiegarci
il fatto, considerando che al Syntagma fu posto mano dal
Campanella e dal Naudeo il 1631 in Roma, quando il filosofo godeva
la protezione di Papa Urbano VIII, nemicissimo degli spagnuoli ed
affettato protettore del Campanella principalmente per fare una
dimostrazione di dispetto agli spagnuoli, da' quali il Campanella
era stato tenuto tanti anni in carcere e da' quali era in ultima
analisi fuggito. La comparsa nel Syntagma di quel titolo de'
Discorsi a' Principi, che abbiamo sopra riportato, sarebbe stata
una dissonanza enorme coi tempi, co' luoghi, con le circostanze,
ciò che non avveniva pe' Discorsi sulla Monarchia di Spagna, dal
quale semplice titolo non traspariva se se ne fosse detto bene o
male. Dobbiamo poi anche notare, che nell'Informazione pubblicata
dal Capialbi lo stesso Campanella fa intendere di avere scritti i
Discorsi a' Principi in Padova, «mosso dall'opposizion che li
facean li Venetiani»: ma forse, così dicendo, ebbe allora in animo
di mascherare il ricordo delle peripezie di Roma; e poichè nel
Syntagma non si trovano menzionati Discorsi politici composti in
Padova, ma se ne trova invece fatta menzione al tempo della dimora
in Roma, mentre d'altra parte qui veramente si offrì una buona
occasione per comporli, noi ci siamo attenuti alla notizia
comunque vaga del Syntagma, accettando quella dell'Informazione
nel senso di stabilire, che i Discorsi a' Principi furono scritti
prima di quelli sulla Monarchia di Spagna e in un periodo che del
resto sarebbe circoscitto tra il 1593 e il 1595.
Ci faremo ora a vedere i compagni di carcere del Campanella, e le
Poesie da lui composte nel carcere per quanto sarà possibile
rinvenirne le tracce. Sicuramente fu con lui carcerato Gio.
Battista Clario, che nel Syntagma è detto medico dell'Arciduca
Carlo; verosimilmente lo furono anche i due giovani Ascolani, de'
quali si ha notizia contemporaneamente al Clario, e forse uno di
loro ha potuto essere il Paolo Attilio cui venne indirizzato il
Compendio di Fisiologia. Non diremo essere stato compagno di
carcere anche Giordano Bruno, comunque sia noto che nel tempo
medesimo egli penava nel carcere dell'Inquisizione: tutto induce a
credere che la sorte del Bruno fosse stata già definita, ed
essendo destinato all'estremo supplizio, e dovendo esser tenuto in
un carcere più sicuro giusta le regole del S.to Officio, egli si
trovava forse nelle carceri di Tor di Nona, come ci è accaduto di
rilevare per taluno colpito da gravissime imputazioni, la cui
storia si legge nella Raccolta di scritture di S.to Officio
esistente nel Trinity-College di Dublino. Ma con ogni probabilità,
negli ultimi mesi della sua dimora nel carcere, il Campanella vide
entrarvi anche un dotto napoletano, Colantonio Stigliola, che
senza dubbio avea già conosciuto presso Gio. Battista Della Porta:
ci è infatti venuto tra mano un processo di S.to Officio sinora
ignoto contro lo Stigliola, dal quale apparisce che costui
trovavasi già carcerato in Roma nel luglio 1595 e rimase carcerato
fin dopo l'aprile 1596. Avremo più in là occasione di parlare
dello Stigliola e di questo suo processo; per ora basti averlo
menzionato quale probabile compagno di carcere del Campanella,
importandoci molto di dire invece qualche cosa del Clario compagno
di carcere certo. Le nostre ricerche intorno a costui ci menano a
ritenere che egli sia stato appunto quel Gio. Battista Clario, di
cui si hanno alcuni Dialoghi editi nel 1608, dove trovasi
qualificato Protomedico della Stiria, mentre nel Syntagma è detto
medico dell'Arciduca Carlo. Egli parrebbe Forlivese di origine,
giacchè si ha pure un Francesco Clario appunto di Forlì, che nel
1585 diè alle stampe un Panegirico sull'umanità dell'Arciduca
Carlo, dal quale era tenuto a studiare in Padova: ad ogni modo
gioverà fermarci un poco su' Dialoghi di Gio. Battista Clario. Fin
dalla Dedica di questi Dialoghi trovasi ricordato che essi vennero
composti in Roma essendo l'autore molto giovane, ed è notevole che
i tre primi hanno per interlocutori un Panfilo ed un Armenio
entrambi carcerati. Panfilo vi si rileva giovane di forti studii,
colmo di tutti i beni tanto da esserne invidiato, ed allora
carcerato da tre anni per un solo e falso calunniatore, dolente di
trovarsi in quelle «strane prigioni», accorato della mala opinione
che da molti si sarebbe avuta di lui; Armenio vi si rileva già
«altre volte trovatosi in simili conflitti», consolatore di
Panfilo invitandolo a tener presente tra le altre cose, la bontà
di quelli che dovranno giudicarlo; senza essere visionarii, ci
pare di poter dire fin d'ora che si tratti qui delle prigioni di
S.to Officio, le quali appunto compromettevano assai la
riputazione, del Clario scoraggiato, del Campanella avvezzo a quel
trattamento e fiducioso in fra Alberto Tragagliolo. Ancora
Panfilo, molto erudito, disputa in filosofia mostrandosi più
sovente peripatetico, ed Armenio, tanto più erudito,
abbondantissimo in citazioni, parla anche di astrologia e menziona
S. Bernardo, S. Gio. Crisostomo, Lattanzio, e «il secondo libro
de' principii delle cose da lui composto in quella prigione in
lingua latina»; non ci par dubbio che si alluda qui abbastanza
chiaramente al secondo Compendio di Fisiologia, a quello composto
in lingua latina dopo che n'era stato già cominciato un altro
(scritto invece in italiano), al Compendio che tanti anni dopo fu
pubblicato dall'Adami col titolo di Prodromus; ed ecco perché
abbiamo detto più sopra aversi fortissimo indizio che prima sia
stato cominciato il Compendio in italiano che divenne poi
«l'Epilogo di Filosofia», e sempre nel carcere di Roma. Oltre a
tutto ciò, nel Dialogo 7° del Clario, un altro interlocutore dice
di avere avuto il giorno innanzi una disputa con un Telesiano, e
fa sapere che il Telesio vuole estirpare la filosofia di
Aristotile e difendere quella di Parmenide e Melisso, che la sua
dottrina particolarmente nel Regno di Napoli è stata accettata,
accresciuta, ampliata, «frà gl'altri da Tommaso Campanella, huomo
in vero nato a tutte le scienze, il quale e con la voce e con gli
scritti ha procurato di darle riputatione grandissima».
Dobbiamo poi aggiungere ancora un'altra circostanza tratta da
altro fonte, che crediamo doversi riferire al Clario. Vedremo che
durante l'ultimo processo patito dal Campanella, uno de' più cari
amici suoi è carcerato egualmente (fra Pietro Presterà di Stilo)
ebbe a dire di aver saputo dallo stesso Campanella che un
astronomo «delle parti di Germania», carcerato con lui nella S.ta
Inquisizione, gli aveva presagito la Monarchia del mondo, perocchè
aveva sette pianeti ascendenti favorevoli: senza entrare ne'
particolari della notizia, che saranno chiariti a miglior tempo,
diciamo qui che l'astrologo in parola dovè essere appunto il
Clario, sapendosi che era medico, e quindi, secondo il gusto del
tempo, facile cultore di astrologia, oltrechè medico di Corte
nella Stiria. Così il germe inoculato al Campanella in Cosenza ed
Altomonte veniva scaldato nel carcere di Roma, e lo si vide poi
sbocciare in Calabria, terminando nel più disastroso fra'
processi: certamente il Campanella e il Clario, verosimilmente
anche lo Stigliola, si eccitavano al pensiero dell'avvicinarsi di
tempi nuovi, e questo si vede ogni giorno nelle persone carcerate;
i tempi nuovi pertanto aveano pel filosofo un'altissima
significazione. - Ma avendo il Campanella in questo tempo scritte
anche molte Poesie, cerchiamo di rintracciare se tra quelle che
finora conosciamo ve ne sia qualcuna da potersi riferire al
periodo in esame. Noi crediamo doverci sempre d'ora in poi
diligentemente occupare di tale ricerca ad ogni distinto periodo
della vita del filosofo; poichè senza dubbio le poesie, composte
quasi sempre a sfogo dell'animo in un circolo ristretto di persone
intime, possono far conoscere le condizioni vere del Campanella
anche ne' diversi tempi, assai meglio di ogni altra maniera di
documenti, nei quali egli non fu sempre in grado di esprimere la
pretta verità, ma sovente dovè piegarsi alle necessità del suo
miserrimo stato. Pur troppo anche le poesie, prima di essere
pubblicate, furono vagliate diligentemente, e parecchie fra esse
mostrano tracce di mutilazioni evidentemente fatte per togliere di
mezzo ciò che poteva compromettere l'autore, senza contare che
alcune, di data posteriore, appariscono scritte espressamente per
metterlo sott'altra luce: ma vi è rimasto sempre qualche cosa che
lo mostra qual'era, e poi abbiamo oggi la fortuna di poter
pubblicare non meno di 67 altre poesie inedite, eliminate nella
«Scelta» che se ne fece non solamente perché erano di scarso
valore letterario, ma anche perché contenevano cose le quali
importava lasciar sepolte, ond'è che siamo in grado di trarne
molto lume per la nostra narrazione. Naturalmente noi spigoleremo
fin d'ora anche nelle dette poesie, intorno alle quali basti qui
dichiarare che si trovarono in un manoscritto emerso nel processo
di Napoli il 1602, manoscritto appartenente ad un altro caro amico
del Campanella ed egualmente carcerato (fra Pietro Ponzio, germano
di fra Dionisio), che ne fece raccolta fino al 2 agosto 1601,
divulgandole anche sotto mano per Napoli a gloria dell'amico suo.
Non abbiamo ad occuparci di poesie latine, poichè di esse non è
pervenuta alcuna fino a noi, e quanto a poesie italiane con metro
latino, le sole tre che ci rimangono non possono dirsi di questo
periodo, siccome è chiaro anche dalle note che l'autore medesimo
vi appose; ma in quelle con metro comune crediamo che ve ne sia
taluna appartenente al periodo in esame. Così il Sonetto
intitolato «Al carcere» ci sembra chiaro doversi riferire al
carcere di Roma, non già a quello di Napoli come da tutti è stato
creduto: si badi infatti alla 2a strofa di esso e alla chiusa:
«Come và al centro ogni cosa pisante
. . . . . . . . . . . . . .
Così di gran scienza ogn'un amante
che audace passa dalla morta gora
al mar del vero di cui s'innamora
nel nostro hospitio al fin ferma le piante.
. . . . . . . . . . . . . .
che qui non val saper, favor ne pieta
io ti sò dir; del resto tutto tremo,
ch'è rocca sacra à tirannia secreta».
Una gran scienza, con la quale si passa dalla morta gora al mar
del vero, sarebbe rimpicciolita di troppo riferendola alla
politica, e se la tirannia spagnuola aveva una caratteristica,
questa può dirsi il non essere segreta, ma chiara e brutalmente
professata: trattasi dunque piuttosto del carcere di S.to Officio,
e la nota apposta al Sonetto aiuta anche ad intenderlo; poichè
dicendo essa semplicemente «è chiaro», eccita a considerare di
quale specie di carcere si tratti, mentre non era stato creduto
conveniente qualificarlo. Aggiungiamo che con quel Sonetto
l'autore si rivolge a qualcuno, commentandogli il carcere in cui
si trova; e chi sa che non glie l'ispirò lo Stigliola, quando vi
giunse egli pure! Ma ecco un altro Sonetto che fa parte
degl'inediti, e che mostra indubbiamente come le Poesie, quando
parlano del carcere, non riflettano soltanto il carcere di Napoli:
esso riguarda «un che morse nel S.to offitio in Roma»:
«Anima, ch'hor lasciasti il carcer tetro
di questo mondo, d'Italia, e di Roma,
del Santo Offitio, e della mortal soma,
vattene al ciel, che noi ti verrem dietro»
Qui il dubbio non è più possibile; questo povero carcerato moriva
in Roma e non in Napoli, moriva nel S.to Officio in presenza del
poeta e d'altri compagni di carcere. Deve dunque il Sonetto
riferirsi al periodo del carcere di Roma, sebbene sia stato
raccolto in Napoli; quivi esso fu raccolto per comunicazioni di
reminiscenza, al pari dell'altro sopra menzionato. Richiamiamo poi
anche l'attenzione sulla chiusa del Sonetto. In essa si parla
«Dell'aspettata nova redentione»
con tutto quello che segue; e ben si vede che già nel carcere di
Roma fervevano le speranze, le quali poi menarono al carcere di
Calabria e di Napoli; né il Sonetto ci sembra di un valore
letterario troppo deficiente, in paragone di molti altri i quali
furono pubblicati, sicchè l'essere rimasto fra gl'inediti deve
naturalmente attribuirsi a motivi di convenienza politica e
giudiziaria. Vi sarebbe inoltre, sempre fra gl'inediti, un Sonetto
indirizzato «All'Accademia d'Avviati di Roma»: non riescendo punto
verosimile che tra il 1600 e il 1601, nelle carceri di Napoli,
l'autore abbia avuto motivo di pensare ad un'Accademia romana,
conviene riportare tale Sonetto al periodo della dimora in Roma,
bensì della dimora fuori carcere. Lo stesso diciamo, ma con minore
asseveranza, circa quell'altro indirizzato «Alli defensori della
Philosophia greca», che al pari del precedente è improntato ad
alti e nobili sensi. Non è dubbio poi che alla dimora in Roma, e
all'ultimo tratto di tale dimora, debba riferirsi il Sonetto «A
Cesare D'Este» etc.: esso ci offre anche una data certa, atta a
far conoscere sino a che tempo il Campanella continuò a dimorare
in Roma: poichè quivi fu scritto, mentre gli spiriti erano
eccitati dalla spedizione pel possesso di Ferrara che Papa
Clemente intraprese contro Cesare D'Este. Ne riparleremo a suo
luogo.
Uscito in libertà, il Campanella prese stanza nel convento di S.ta
Sabina, e tutto induce a far ritenere che sia stata quella una
stanza obbligatoria. Ivi compose il Dialogo o Discorso politico
contra i Luterani, e Calvinisti, della vera Religione e del Lume
Naturale Deformatori, come reca la copia ms. esistente nella Bibl.
naz. di Parigi (Ital. n. nuov. 106), copia che si ha tutta la
ragione di credere quella medesima destinata dal filosofo al
Card.le Alessandrino: un'altra copia se ne ha in Roma nella
Casanatense (XX, V, 28), ma molto scorretta, e di essa si servì il
prof. Fiorentino per darci un sunto ed un profondo esame del
Dialogo. La data precisa della composizione del libro deve dirsi
lo scorcio dell'anno 1595; ciò risulta dalla data della lettera
autografa del Campanella a fra Alberto Tragagliolo, annessa alla
copia esistente in Parigi. Questa lettera fu già pubblicata dal
D'Ancona, ma con varie inesattezze introdottevi da colui che la
trascrisse, e particolarmente nella data, che fu detta «21 1Obre
1599» mentre pure si conosceva molto bene che in tal tempo il
povero Campanella si trovava non nella quiete del convento di S.ta
Sabina, ma nel colmo de' terrori del Castel nuovo di Napoli; noi
la ripubblichiamo tra' nostri Documenti, avendola diligentemente
ricopiata in Parigi. Da essa si vede che il Tragagliolo, con sua
lettera, avea consigliato il Campanella di dedicare il Discorso al
Card.le Alessandrino, protettore dell'Ordine Domenicano, cui aveva
già presentato e raccomandato il filosofo; e costui supplica il
Tragagliolo di volere lui medesimo presentare quel suo «primo
Discorso», e farlo «raccomandato in quel bisogno che sa». Tale
bisogno verosimilmente era la liberazione dall'obbligo di risedere
in S.ta Sabina e la facoltà di poter tornare in Calabria, ciò che
appunto induce ad ammettere un'uscita dal carcere già da alcuni
mesi, in caso contrario l'istanza sarebbe riuscita impossibile:
pertanto, malgrado il fervore cattolico spiegato nel Discorso in
ammenda del suo passato, il Campanella non vide soddisfatto il suo
desiderio e dovè aspettare ancora non meno di due altri anni. Nel
Syntagma è detto che il Discorso o Dialogo fu dato pure ad Antonio
Persio, e molto più tardi egualmente al Naudeo: inoltre nella
Difesa scritta pel processo di Napoli, poi anche nella Lettera
latina del 1607 al Papa pubblicata dal Centofanti, come pure nella
copia medesima del Dialogo esistente nella Casanatense, è
affermato che ne fu fatto invio del pari all'Arciduca
Massimiliano; nella Difesa suddetta è affermato ancora che ne
esisteva una copia presso Mario del Tufo. Non lasceremo poi di
parlare di questo Dialogo, senza dire che vi figurano da
interlocutori Gio. Geronimo del Tufo Marchese di Lavello, Giulio
Cortese e Jacopo di Gaeta. Geronimo comincia dal dire di avere
assistito a una disputa singolare in S.a Maria la nova, non di
quelle solite tra i «nostri filosofi» e i peripatetici, ma a
dirittura religiosa, sostenuta da M.° Tommaso da Capua con altri;
espone quindi la nuova credenza, e Giacomo si fa a combatterla con
la ragione, Giulio con la Bibbia; come ha notato il prof.
Fiorentino, l'autore si nasconde sotto la persona di Giacomo, e si
attiene sempre alla politica anzichè alla Teologia. Da parte
nostra dobbiamo notare nel Campanella siffatta reminiscenza di
Napoli e degli amici lasciati in questa città; essa mostra che la
sua mente e le sue aspirazioni erano rivolte al dolce nido. Non
abbiamo bisogno di dire chi fosse Gio. Geronimo Marchese di
Lavello; quanto a Giulio Cortese, avremo ancora occasione di
parlare di lui più in là, e quanto a Giacomo di Gaeta, gli
scrittori di cose patrie ci dicono che egli era Cosentino,
dimorante in Napoli, giurisperito, filosofo Telesiano ed oltracciò
poeta; anche il Campanella lo fa intendere allorchè lo cita nel
suo Sonetto al Telesio:
«Il buon Gaieta la gran donna adorna
con diafane vesti risplendenti,
onde a bellezza natural ritorna»
Aggiungiamo qui che oltre al Dialogo, il Campanella compose forse
in S.ta Sabina anche l'Apologia pro Telesio e l'Apologia pro
philosophis magnae Graeciae ad S.m Officium: difficilmente si
potrebbe assegnare un tempo migliore a queste due Apologie, che si
trovano menzionate in più documenti di alcuni anni dopo, senza che
il Syntagma ci dia qualche lume intorno ad esse. Ma si tratta di
una semplice supposizione e non vi si può insister troppo.
Certamente poi vi compose la Poetica, che abbiamo già avuta
occasione di dire scritta nel 1596 per testimonianza lasciatane
dal Campanella medesimo: con ogni probabilità, quando ebbe provato
che era andato a vuoto il tentativo fatto col Dialogo presso il
Card.le Alessandrino, il Campanella dovè sentire vivamente la
necessità di guadagnarsi la protezione di altri Cardinali, e
massime quella del potente Segretario di Stato di Clemente VIII,
il Card.l S. Giorgio, che si era già fatto notare per la
protezione accordata all'infelice Torquato Tasso, e che si poteva
sperare singolarmente benevolo dopo la presentazione di una
Poetica. né può non recare meraviglia tanta operosità nel carcere
e tanto abbandono fuori carcere; laonde bene a ragione il
Campanella medesimo ebbe poi un giorno a dire, che senza le
protratte carcerazioni egli non avrebbe mai composto un sì gran
numero di opere.
La più gran parte del lungo tempo trascorso dal Campanella in
Roma, dopo il carcere, si può dire che sia stata essenzialmente
impiegata nel cercare protezioni presso varii Cardinali ed alti
personaggi. Questo dimostrano le notizie inserte nel Syntagma e
più ancora ne' varii documenti emersi coll'ultimo processo avuto
più tardi pe' fatti di Calabria. Dal Syntagma apparisce che diede
al Card.l S. Giorgio la sua Poetica, ma dalla Difesa scritta pel
suo processo di Napoli, di poi egualmente da varie sue lettere del
1606 pubblicate dal Centofanti, apparisce aver dato allo stesso
Card.l S. Giorgio anche la sua Monarchia de' Cristiani: sappiamo
intanto che non vi guadagnò nulla; in un'attiva corrispondenza,
che questo Cardinale ebbe a tenere col Nunzio intorno al
Campanella pe' fatti di Calabria e pe' processi che ne seguirono,
non troveremo il menomo indizio che il Cardinale siasi mai
ricordato di aver conosciuto il filosofo. Ma giunse ad introdursi
anche presso il Card.l Del Monte e il Card.l Farnese; e dalla
Difesa scritta pel processo di Napoli apparisce, che presso
quest'ultimo Cardinale egli protesse i frati napoletani di S.
Domenico i quali aveano tumultuato, in opposizione a fra Marco da
Marcianise agente de' Riformati, il quale si trovò poi Commissario
della sua causa in Calabria; dovè quindi certamente in tale
occasione rivedersi in Roma con fra Dionisio Ponzio, il quale
sappiamo esservi stato lui pure in questo tempo ed avere agito
nello stesso senso. Infine giunse a guadagnarsi la grazia
dell'Ambasciatore di Spagna in Roma, che era il Duca di Sessa D.
Antonio de Cardona coll'enorme trattamento di 8 mila ducati l'anno
posti a carico del Regno di Napoli: dalla Difesa più volte
menzionata apparisce che costui gli avrebbe prodigati molti
favori; conviene per altro avvertire che le asserzioni di questo
genere poterono esser messe innanzi pe' bisogni della causa. - Ma
un fatto degno di essere ricordato fu questo, che già cominciavano
a mostrarsi in Roma, nei colloquii privati, le preoccupazioni per
la vicina fine del mondo, la quale si credeva potersi verificare
col termine del secolo; e il Campanella vi partecipava, nel senso
che dovessero accadere mutazioni prima che il mondo finisse. In
una Dichiarazione importantissima da lui scritta al momento del
suo arresto in Calabria, e da noi trovata nell'Archivio di Spagna
in Simancas, leggesi il seguente brano: «Che habbino d'esser
mutatione nel mondo io mi ricordo haver parlato col Cardinal de
Monte, mentre se preparava la guerra de ferrara, et che la chiesa
dovesse gir avante, et con un filosofo Spagnolo zoppo che sta in
Roma ne me recorda il nome, che fa professione d'arte devinatoria,
et con il Theologo del Cardinal farnese» etc.. Il Campanella
dunque, già sotto l'impressione di un presagio di Monarchia, si
occupava delle prossime mutazioni, per le quali, naturalmente,
poteva tanto più accarezzare il concetto degli alti destini cui si
credeva chiamato: e con questi pensieri in mente, si sforzava di
ottenere la facoltà di poter partire per Napoli e restituirsi in
Calabria.
La partenza del Campanella per Napoli non si può ritenere accaduta
verso la fine del 1598, come è sembrato al Berti, sapendosi con
certezza dalla Narrazione pubblicata dal Capialbi, che alla fine
di luglio di tale anno egli era già arrivato in Calabria dopo di
aver passato qualche tempo in Napoli. Sicuramente egli rimase nel
convento di S.ta Sabina durante l'anno 1596, come si rileva dalla
deposizione di un testimone, che fa parte dell'ultimo processo pe'
fatti di Calabria; trovavasi poi tuttora in Roma quando si
preparava la spedizione di Ferrara, vale a dire a' primi di 9bre
1597, come risulta dal brano della Dichiarazione pocanzi
riportato. Tutti sanno che la spedizione di Ferrara, iniziata con
la scomunica di D. Cesare D'Este cugino dell'ultimo Alfonso morto
senza prole il 28 8bre 1597, sotto il pretesto che egli non fosse
stato legittimato da Alfonso I suo padre, venne febbrilmente
preparata a' primi di 9bre 1597: fu perfino richiamato
dall'Ungheria Gio. Francesco Aldobrandini mandatovi dal Papa a
combattere i turchi, ciò che contribuì a far giudicare tanto più
severamente quella spoliazione, per la quale si ebbe l'assenso
della Francia dopo l'assoluzione data a Errico IV. Il Carteggio
dell'Aldobrandini Nunzio in Napoli fornisce esso pure alcune
notizie intorno a' preparativi, tra le altre quella delle vive
istanze Pontificie per avere il cav. Domenico Fontana, che era già
«ingegniero della Regia Corte» in Napoli fin dal 1594, e che in
tale condizione si occupava allora appunto de' disegni del Molo
nuovo e della bella via di S. Lucia, e qualche anno dopo ebbe ad
occuparsi dell'edificazione del nuovo Palazzo Reale: egualmente il
Carteggio del Residente Veneto in Napoli fornisce altre notizie, e
fra esse quella della cerimonia compita nell'Arcivescovado, ove i
Canonici in circolo assisterono alla lettura della scomunica
inflitta a D. Cesare con una candela bruna in mano, che poi
gettarono a terra quando la lettura fu finita. Si consideri
l'eccitamento degli animi in Roma. Come suole accadere, molti
eruttarono poesie, e come suole del pari accadere ne' brutti
argomenti, le poesie riuscirono orribili. Anche il Carteggio
suddetto del Nunzio mostra allegato alle Lettere da Roma di
quell'anno un cattivo Sonetto intorno a D. Cesare d'Este e alla
resa di Ferrara: il Campanella volle egli pure far udire il suo
canto, e diè fuora il Sonetto «a Cesare d'Este che ritenea Ferrara
contro al Papa», Sonetto che abbiamo già avuto occasione di
menzionare e che comincia col verso
«Tu, chi t'opponi alla promessa eterna».
Fu senza dubbio uno de' Sonetti peggio riusciti, con una chiusa
affatto banale; ma forse, vellicando le orecchie della Curia,
produsse ciò che altri lavori di polso non aveano prodotto, e
agevolò il compimento de' desiderii del poeta. La data da
doverglisi assegnare è quella de' primi giorni di 9bre 1597, e
poco dopo bisogna ritenere che il Campanella abbia potuto ottenere
di partire da Roma; in caso contrario riuscirebbe impossibile
intendere un altro brano della Dichiarazione sua, che avremo a
riportare fra breve.
Il secondo soggiorno del Campanella in Napoli si estese certamente
all'inverno e alla primavera dell'anno 1598, e fin oltre la metà
di luglio di tale anno. La sua salute lasciava qualche cosa a
desiderare, e tutto induce a far ritenere che egli sia tornato
nella casa ospitale del Marchese di Lavello presso Mario del Tufo.
Il Syntagma ci dice solamente questo, «nell'anno 1598 terminai in
Napoli un Epilogo di Fisiologia ed un'Etica», la qual cosa
basterebbe a mostrare che il filosofo non potè trovarsi in Napoli
assolutamente di passaggio. Si ricordi che in Roma egli aveva
cominciato un nuovo «Compendio di Fisiologia» sperando di
risarcire la perdita di un grosso volume, e che l'aveva poi
mandato a Mario del Tufo (ved. pag. 77): certamente fu questo
compendio appena cominciato che egli terminò, aggiungendovi
l'Etica; ma vedremo che più tardi vi aggiunse pure la Politica,
l'Economica e la Città del Sole, e ne risultò l'opera scritta in
italiano col titolo «Epilogo magno di quello che della Natura
delle cose ha filosofato e disputato fra T. Campanella» quale
conservasi nella Casanatense (XX, V, 28) e nella Magliabechiana
(VIII, 6), divenuta poi in latino Philosophiae realis
epilogisticae partes quatuor etc. Noi seguiremo passo passo la
composizione di quest'opera importante: ci basterà qui dire che
essa fu cominciata in Roma assai probabilmente nella fine del
1594, continuata in Napoli sicuramente nel 1.° semestre del 1598
fino alla sua 2.a parte, l'Etica; e che sia stata cominciata fuori
Napoli si rileva dalle prime parole del Proemio, «perché teco
menar la vita non posso Signore» etc., il quale Signore è naturale
ammettere che sia stato Mario del Tufo. Verosimilmente il
Campanella ebbe in animo anche di rifare l'opera De sensu rerum, e
per questo motivo commise al medico suo conterraneo Tiberio
Carnevale di rilevare dal S.to Officio quali fossero le
proposizioni trovate censurabili nel Telesio; ma vedremo a suo
tempo che da diversi indizii apparisce avervi in realtà posto mano
più tardi, e però al Catalogo delle opere del filosofo per l'anno
1598 1.° semestre passato in Napoli si deve aggiungere solamente
la continuazione dell'Epilogo magno di Filosofia in italiano. -
Non sembra poi dubbio, che durante questo periodo di tempo il
Campanella abbia atteso ancora all'insegnamento secondo il suo
costume, e più che a Francesco del Tufo, questa volta egli dovè
dare un corso di lezioni a persone importanti in materie di ordine
molto elevato. Nella sua opera Del senso delle cose, al libro 1.°
cap. 13 si legge: «nelli 4 libri che hò fatto d'Astronomia contra
Aristotile, Telesio, Tolomeo, e Copernico, hò fatto vedere questo
al discepolo cortese» (nell'ediz. latina «... diligenter hoc
Cortesio discipulo indicavi»). Vedremo che i libri di Astronomia
furono almeno in parte composti nel 1603, e che l'opera Del senso
delle cose, così come la possediamo, fu rifatta in italiano nel
1605; volendo quindi determinare il tempo, ed anche la specie di
lezioni date al Cortese, è naturalissimo ammettere un insegnamento
nel periodo di cui ci stiamo occupando, con ogni probabilità in
astronomia, essendo poi stata alla memoria del Cortese dedicata
l'opera che trattava della materia insegnatagli. né ci ripugna il
credere che questo Cortese sia stato veramente Giulio Cortese, del
quale vedremo tra poco le opinioni astrologiche scambiate col
Campanella: egli era già vecchissimo, ed in questo stesso anno
morì, ma allora anche i vecchi non si vergognavano di farsi
uditori per apprendere ciò che desideravano di apprendere. Un
altro discepolo poi, riferibile egualmente a questo periodo, è
emerso dalle Lettere del Campanella pubblicate dal Berti; vogliamo
dire il Marchese Spinola, padre dello Spinola che trovavasi
Cardinale verso il 1630. Chi era questo Marchese? Due Cardinali
Spinola si aveano verso il 1630: Agostino, figlio del celebre
capitano Ambrogio e di Giovanna Basadonna, e Gio. Domenico, figlio
di Gio. Maria e di Pelina Lercaro, per quanto si può cavare dal
Deza, poiché né il Ciacconio, né il Guarnacci, né il Palazzi, né
il Cardella offrono la genealogia di quest'ultimo Cardinale. Ma
Gio. Maria non era Marchese, né facea vita in Napoli: non rimane
quindi che Ambrogio del q.m Filippo, Marchese di Venafro dopo la
morte del padre avvenuta in marzo 1584, e poi, coll'ammissione di
Venafro al R.° Demanio pel decreto del 28 marzo 1586, rimasto
Marchese di Sesto e Signore di Roccapipirozzi. Egli aveva 29 anni
nel tempo di cui trattiamo, e intorno a lui e al fratello
Federico, come intorno alle quattro sorelle, Lelia, Placidia,
Maria e Maddalena, non mancano notizie nell'Archivio di Stato: dal
Capaccio, nel Forastiero, fu poi registrato tra le nobili famiglie
genovesi «state abitanti in Napoli», e si conosce che non prima
del 1602, per un invito del fratello, si destarono in lui gli
spiriti marziali, onde assoldati 9,000 uomini a sue spese
s'improvvisò generale e riuscì tanto maravigliosamente nelle
Fiandre. Il Campanella, nella sua prima venuta in Napoli, era
troppo poco noto per avere un discepolo di questo rango: apparisce
più probabile che l'abbia avuto nel 1598, e forse per lo stesso
corso di astronomia.
Come pel periodo precedente, così anche per questo, varie altre
notizie ci sono fornite da' documenti emersi coll'ultimo processo
pei fatti di Calabria, segnatamente dalla Dichiarazione scritta al
momento dell'arresto, e dalla Difesa scritta durante il processo.
Nella Dichiarazione si legge il seguente brano, che tratta sempre
delle mutazioni aspettate per la vicina fine del mondo:
«ragionando con diversi Astrologi, in particulare con Giulio
Cortese napolitano, con Col'Antonio Stigliola gran mathematico, et
con Gio. Paulo Vernaleone, che stavano in Napoli hor son tre anni,
ho inteso da loro che ci doveva esser mutatione di Stato». E più
oltre: «el Prencipe de Bisignano, vedendolo io che desiderava
questo, quelli giorni avante haveamo parlato con Giulio Cortese,
et però le disse sta allegro che li Astrologi aspettano mutatione,
et la mutatione fa per li huomini mal contenti». Come si vede, il
Campanella parla qui di cose avvenute «hor son tre anni», e poichè
la sua Dichiarazione fu scritta nella prima metà del 7bre 1599,
strettamente dovremmo riportarci al cadere del 1596: ma essendo
questo impossibile, conviene riportarci alla fine del 1597,
tenendo conto delle cifre rappresentanti gli anni e non del
periodo di tempo effettivamente trascorso, ciò che si trova da lui
usato pure qualche altra volta; e così abbiamo detto doversi
ammettere che gli sia stato concesso di poter partire da Roma poco
dopo il 9bre 1597, in caso contrario sarebbe riuscito impossibile
intendere quanto egli ebbe ad affermare nella sua Dichiarazione.
Adunque, non appena giunto in Napoli, il Campanella ripigliò il
tema delle aspettate mutazioni, consultando persone ritenute molto
competenti in siffatta materia. Abbiamo già avuta occasione di
nominare Gio. Paolo Vernalione, a proposito di Gio. Vincenzo Della
Porta suo stretto amico: di lui sappiamo solamente che era stato
maestro di matematiche di molto grido, ed al tempo di cui
trattiamo viveva abitualmente fuori Napoli, coltivando le arti
divinatorie nelle quali aveva acquistato grandissima riputazione.
Giulio Cortese, che pure abbiamo trovato interlocutore nel Dialogo
contro gli eretici, era prete e Teologo napoletano, tra gli
Accademici Svegliati detto l'Attonito: di lui si hanno stampate
alcune «Rime» con «varii opuscoli» (1588 e 1591), una «Oratione
alle potenze italiane per lo soccorso della Lega germana contra il
turco» (1593), e un libro «De Deo et Mundo sive de Catholica
philosophia» (1595), essendo rimasto inedito, secondo il Toppi, un
Poema intitolato «il Guiscardo», ed anche un trattatello in cui si
mostrava che i principii della filosofia del Telesio erano molto
conformi a quanto dicono le Sacre Lettere; la sua morte credesi
dal Minieri-Riccio avvenuta nel 1593, ma deve riportarsi a più
tardi, come si rileva pure dalla notizia che il Campanella ne dà,
e del resto il Chioccarello di poco posteriore, nella parte ms.
della sua opera «De viris illustribus» che si conserva nella Bibl.
nazionale, vantandolo anche come astrologo lo dice morto appunto
nel 1598 e sepolto in S. Eligio. Quanto a Colantonio Stigliola
(latinamente Stelliola) che pure abbiamo già incontrato più sopra,
egli era di maggior levatura e merita una più larga menzione.
Nacque nel 1546 da Federico e da Giustina... certamente della
città di Nola, sia pure che abbia accidentalmente vista la luce in
Siderno come vuole il Macrì: si laureò medico in Salerno, ma
rinunziò ben presto all'esercizio della medicina, e l'occasione fu
il vedersi da un nobile posposto a un altro medico, il quale con
le sue prescrizioni secondava la vanità del cliente. Coltivò assai
la botanica, e le sue intime relazioni con Ferrante Imperato
diedero motivo alla diceria che stretto dal bisogno, la quale
circostanza era vera pur troppo, avesse venduto per 100 ducati
all'Imperato l'opera della Storia naturale; ma sembra questa una
delle non rare maldicenze a danno dell'Imperato, il quale, nella
prefazione dell'opera che pubblicò il 1590, non mancò di citare lo
Stigliola, qualificandolo «professore di scienze recondite» ed
aggiungendo di aver comunicata con lui la maggior parte delle cose
che allora dava in luce. Si dedicò infatti allo studio non solo
della matematica, ma anche dell'astronomia e della chimica, ed
amò, secondo i gusti del tempo, le cose astrologiche: esercitò
l'architettura e fu ingegnere pubblico; ma, sempre povero, fu
obbligato a dar lezioni per le case de' nobili come pure in casa
sua (di matematica e di chimica, o filosofia vulcanica, come
allora la chimica avea nome in Napoli), ed inoltre a tenere una
Stamperia, alla quale attese in sèguito il suo figliuolo Felice.
Abitava fuori porta Regale, quasi dirimpetto alla Chiesa di S. M.
della Salute divenuta poi S. Domenico Soriano e là teneva pure la
Stamperia, un poco più in su della Chiesa presente di S. Michele
che allora era tutt'altra cosa, sull'area dell'attuale piazza
Dante a quel tempo più angusta e addetta in gran parte a
cavallerizza. Non ci costa che sia mai stato lettore pubblico,
avendo avuto la lettura di matematica Francesco Chiaramonte fin
dall'anno in cui quella lettura fu istituita, cioè dal 1607, e
sappiamo che egli tenne l'ufficio d'ingegnere della città, non
della Corte, poichè solo temporaneamente collaborò con suo padre
Federico e suo fratello Modestino alla descrizione geografica del
Regno e al perfezionamento di quella mappa che fu poi intagliata
dal Cartari; egli si occupò invece dell'acqua stagnante, del porto
e delle mura della città, sebbene inutilmente, come narra in una
sua lettera al Principe Cesi, riportata dall'Odescalchi nelle
Memorie storiche de' Lincei, essendo stato ascritto a
quell'insigne Accademia. Di animo indipendente in filosofia,
Pitagorico per elezione, al pari di tutti i Pitagorici si sforzava
di seguire anche le abitudini del maestro: scrisse, com'è noto, un
libro sulla «teriaca» (1577), un libro sul «Telescopio over
Ispecillo celeste» (postumo, 1627), e i trattati dell'Enciclopedia
Pitagorea, de' quali non ci è rimasto che l'indice (pubb.to
ibidem): basterebbe per altro la sola sua lettera al Galilei, in
data del 1° giugno 1616, per farlo stimare ed amare. Abbiamo già
avuta occasione di dire che gli fu fatto un processo dal S.to
Officio, rimanendo carcerato in Roma nel 1595 e probabilmente in
compagnia del Campanella; morì l'11 aprile 1623.
Vi erano dunque come in Roma così in Napoli credenze di vicina
fine del mondo, aspettative di mutazioni, e non vi partecipavano
già i soli spiriti volgari ma le persone più dotte: il Campanella
vi partecipava anche troppo, ed egli medesimo ammise di aver
consolato, con l'annunzio di prossime mutazioni di Stato, il
Principe di Bisignano che era mal contento e mostravasi desideroso
di novità. Come mai il Principe di Bisignano si trovava in tali
condizioni? C'interessa molto il conoscerlo, perocchè vedremo
nominato anche lui, con D. Lelio Orsini e con varii altri Signori,
tra coloro i quali avrebbero aiutato il movimento insurrezionale
che il Campanella si fece a promuovere in Calabria; di tutti
costoro converrà rintracciare le condizioni per le quali poterono
essere nominati in una faccenda così grave, e poichè riesce
difficile trovarne notizia negli scrittori in materia nobiliare,
addetti a cantare solamente le glorie, bisogna rivolgersi agli
Archivii di Stato, a' Carteggi ufficiali, a' Carteggi de'
particolari, agli Avvisi del tempo, dovendo pure aver le date
precise de' fatti che c'interessano. Nicola Bernardino
Sanseverino, 5° ed ultimo Principe di Bisignano della 1a linea
Sanseverino, successo a suo padre Pietrantonio fin dal 1562, era
de' più potenti Signori del paese, possessore di un ingente
territorio o «Stato» come allora si diceva. Sposò a 20 anni
Isabella Feltria della Rovere sorella del Duca di Urbino che ne
aveva appena 11: il matrimonio non fu felice, già prima di
andarsene in Calabria gli sposi erano in disgusto tra loro, molti
ne incolpavano la sposa, e per giunta a 20 anni essa cominciò a
soffrire un'ulcerazione al naso e all'intero palato che l'afflisse
per tutta la vita, onde appena ne nacque un figliuolo cui fu
padrino il Gran Duca di Toscana; così nell'Arch. di Urbino e
nell'Arch. Mediceo abbiamo rinvenute molte notizie intorno al
Principe ed anche sue lettere in buon numero. Divenuto prodigo e
sregolato, egli si ricinse ben presto di una nuova Corte
riformando la sua casa e i suoi ufficiali, due volte se ne andò in
Toscana e in Lombardia anche di nascosto, si diede ad una vita
licenziosa, fece debiti e donazioni senza curarsi di chiedere
l'assenso Regio che era di obbligo pe' feudatarii, onde venne a
richiamare sopra di sè dapprima gli avvertimenti, di poi i rigori
de' diversi Vicerè che si successero nel Regno; l'Archivio di
Napoli ce ne offre già documenti nel 1574. Più volte si riunì con
la Principessa, ma sempre finì per allontanarsene ben presto, ed
una di queste volte, non senza voti clamorosi, pagati anche
abbastanza cari ed accompagnati da preghiere pubbliche, la
Principessa divenne gravida. Assicurata la successione il 21
aprile 1581, egli tornò e separarsi, ed ella ebbe voglia di
tornarsene a Pesaro; ma fu fermata per via, in Bari, mercè un
ordine Vicereale con comminatoria di D.i 100 mila, non potendosi
permettere che fosse educato fuori Regno un futuro Principe di
tanta forza; ed in Bari ebbe le cure di Giacomo Bonaventura di
Lacedonia, medico riputatissimo, che là esercitava l'arte e che
durante questa narrazione incontreremo ancora in Napoli presso il
letto di morte del Conte di Lemos, donde passò in Roma archiatro
di Clemente VIII. Ma riuscite inutili le cure, la Principessa
attese in Napoli a provare le acque della Zolfatara di Pozzuoli,
ansiosa di rimedii e segreti che le forniva anche il Gran Duca di
Toscana, il quale ne aveva molti e ne ritraeva molto credito
presso i Nobili napoletani, uccellata da' Gesuiti che seppero
profittare delle discordie coniugali e giunsero a carpirne la
ricchissima eredità, desolata infine per la morte dell'unico
figliuolo appena quattordicenne cui si era dato il titolo di Duca
di S. Marco, invogliata di finire i suoi giorni nel convento di S.
Sebastiano, ma rimasta sempre tra le unghie de' Gesuiti. Fin da'
primi anni delle discordie, D. Lelio Orsini, nipote di questi
Signori essendo figlio di Felicia Sanseverino sorella del
Principe, interpose i suoi buoni ufficii tra loro, bensì
inutilmente, come risulta da una sua lunga lettera autografa del
1580 al Duca di Urbino. Ma nel 1590 il Principe, d'ordine del
Vicerè, fu carcerato «per emendazione di vita», e gli fu assegnato
anche un Curatore ed amministratore de' beni feudali: durante la
prigionia avvenne la morte dell'unico suo figliuolo legittimo il
Duca di S. Marco, che soccombè al vaiuolo il 27 9bre 1595, e si
videro allora i parenti istituire una grossa lite di successione
a' beni feudali, quantunque il Principe e la Principessa fossero
ancora vivi. Essendo fin dal 1583 defunto il Duca di Gravina
Ferdinando, D. Lelio, che non aveva nemmeno eredi ma che andava
d'accordo con D.a Giulia Orsini sorella primogenita, pretendente
all'eredità appunto perché primogenita, sostenne doversi a lui
l'ufficio di Curatore del Principe, posto che al Principe dovea
rimanere assegnato un Curatore per la sua prodigalità. D'altra
parte il Conte della Saponara Ferrante Sanseverino, agnato
collaterale in 9° grado, presentavasi quale erede legittimo de'
Sanseverino, contrastando che a' beni feudali potessero succedere
le femine. D. Lelio ottenne dal tribunale di dover surrogare
Fabrizio di Sangro Duca di Vietri, il quale era stato assegnato
Curatore del Principe ed amministratore dello Stato di Bisignano;
e l'aveva già ottenuto nel principio del 1598, come si rileva da
un'altra sua lettera al Duca di Urbino. Questi fatti e queste date
hanno un'importanza notevolissima per bene intendere le voci che
furono sparse al tempo della congiura di Calabria. Ma occorre
ancora conoscere i particolari della prigionia del Principe di
Bisignano, che con molto rigore e senza processo fu protratta per
non meno di 8 anni. Nell'Archivio Mediceo si hanno due documenti
scritti da un Gio. Vincenzo Ruffolo, il quale citando tutte le
colpe ascritte al Principe, cerca di scusarlo affermando che sino
al 1585 egli avea donati soli D.i 25mila, compresi 10mila a donne
con le quali aveva avuti bastardi, e che dopo di essergli stato
assegnato un Curatore i debiti erano divenuti gravissimi: ma
nell'Archivio di Venezia si ha una breve notizia del Residente
Scaramelli, che afferma essere i debiti del Principe ascesi a D.i
700mila fino al tempo del Curatore, e da quel tempo in poi,
durante la prigionia, essere divenuti 1 milione e 600 mila. Ad
ogni modo, nel luglio 1590, tornando lui dalla Riccia con una sua
ganza e sèguito, nel passare per Gaeta venne ivi fermato e
rinchiuso in fortezza d'ordine del Vicerè Conte di Miranda: D.
Lelio continuò anche allora ad interessarsi di lui, e sappiamo che
verso la fine del 1591 pregò caldamente in favor suo la
Principessa che si riteneva causa della prigionia, e
verosimilmente si cooperò a far venire quelle lettere
commendatizie che si conosce essere state scritte dagli
Ambasciatori cattolici, da più Cardinali e poi anche dal Papa: ma
essendo stati emanati ordini rigorosi che niuno potesse trattare
col Principe, dovè desistere; e forse per tale ragione se ne andò
a Roma, dove rimase dal 1592 fino al 10bre 1594, quando per la
morte del Duca di S. Marco dovè tornare in Napoli e ingolfarsi
nella lite di successione. Di poi, in febbraio 1596, essendo state
accolte le istanze del Principe dal nuovo Vicerè Conte Olivares, e
avuto anche il consenso della Principessa, il Principe venne
tradotto in Napoli, dove fu rinchiuso nel Castel nuovo, con ordine
che potessero vederlo i soli parenti e il Duca di Termoli, il
quale era ostile all'unione de' coniugi discordi: quivi egli
rimase fino all'agosto 1598, uscendone dopo di aver fatto un
simulacro di pacificazione ed anche una transazione con la
Principessa, coll'obbligo di tenere la sua casa a Chiaia in luogo
di carcere, e dietro una cauzione di D.i 20mila forniti appunto da
D. Lelio Orsini; tutto ciò del resto non lo trattenne dallo
scapparsene da Napoli verso la fine dello stesso mese, dopo di
aver fatto un testamento in favore del Re. Nel lungo periodo della
sua prigionia egli scrisse più volte al Gran Duca di Toscana, che
da altri fonti sappiamo averlo allora favorito con larghi
sussidii: questa corrispondenza, da noi rinvenuta, riesce molto
utile per determinare le date. Così nel 1° semestre del 1598 egli
trovavasi esasperato da circa 8 anni di prigionia, con disgrazie e
vessazioni d'ogni maniera, entro il forte di Castel nuovo: quivi
ebbe a visitarlo il Campanella, verosimilmente in compagnia di D.
Lelio Orsini; ed è naturalissimo che il Principe siesi allora
mostrato desideroso di mutazioni e che il Campanella l'abbia
consolato annunziandole vicine, forse anche con una effusione di
parole e di voti roventi da una parte e dall'altra. Vedremo poi
che quando egli stesso, il Campanella, fu rinchiuso nel Castel
nuovo, si consolò a sua volta e consolò i suoi compagni di
sventura, con una poesia nella quale si ricordava la dimora del
Principe nelle medesime carceri. né deve sfuggire che il
Campanella, fin da' principii del 1598, era già in grado di
conoscere la non lontana andata di D. Lelio Orsini in Calabria
quale amministratore e governatore dello Stato di Bisignano,
avendo così deciso il tribunale in favore di lui; se non che poi,
tergiversando sempre ed anche processando il Presidente De
Franchis coll'imputazione di aver manifestati i voti della Curia,
ciò che recava la pena di morte, il Governo Vicereale menò in
lungo l'ammissione di D. Lelio nell'ufficio, e l'accordò soltanto
dietro un ordine di Spagna provocato dal medesimo D. Lelio, che
dovè recarsi espressamente per questo a Madrid.
Ma finalmente il Campanella si decise a partire per la Calabria.
Nella Difesa, che ebbe a scrivere ad occasione dell'ultimo suo
processo, egli espose i motivi che lo spinsero a tale
determinazione: era ammalato (egli disse) di occhi e di ernia, da
più di dieci anni carcerato o infermo per sciatica, per tisi, per
paralisi, come era provato da' medici, cioè Latino Tancredi,
Michele Politi e Tiberio Carnevale, a consiglio de' quali, per
ristabilirsi in salute, era andato a dimorare in provincia d'onde
mancava da dodici anni. È certa qui una inesattezza di computo o
piuttosto un'esagerazione pe' bisogni della causa, poichè
l'assenza dalla provincia era durata un po' meno di nove anni e
non già dodici; parimente i dieci anni di travagli, più volte così
computati dal Campanella anche in altre occasioni, son dati in
cifra rotonda un po' maggiore della vera. Ma le sue infermità, nel
periodo di cui stiamo trattando, in grandissima parte dovevano
esser vere, facendolo argomentare così le notizie che ce ne sono
pervenute da altri fonti, come la speciale condizione di taluno
de' medici da lui citati, che rendeva impossibile ogni finzione.
Abbiamo infatti veduto che egli era stato realmente ammalato di
occhi e sofferente di sciatica fin dalla sua prima venuta in
Napoli, e quanto alla paralisi e alla tisi, non è impossibile che
in Padova e in Roma abbia sofferto qualche cosa di simile durante
le diverse prigionie: quanto all'ernia, sappiamo dalla sua opera
Medicinalium che egli stesso se la curò secondo il consiglio di
Arnaldo, ma essendo quinquagenario. Forse egli ne parlò nelle
Difese, insieme alla tisi, per cercare di eludere il solito
tormento della corda, poichè era ammesso non doversi gl'infermi di
tali malattie porre alla corda, comunque del resto si solessero
allora sostituirle altre maniere di tortura, in ispecie le
stanghette, secondochè risulta dalle opere di tutti i trattatisti
di quella età. Ma in ultima analisi le sue affermazioni non erano
del tutto senza fondamento, e, come dicevamo, anche la speciale
condizione di taluno de' medici da lui citati contribuisce a
rendere credibile che motivi di salute lo avessero spinto a
recarsi in Calabria. Alludiamo qui propriamente a Latino Tancredi,
poichè Tiberio Carnevale e Michele Politi potevano essere ritenuti
d'accordo col filosofo. Abbiamo già visto Tiberio Carnevale di
Stilo, concittadino e speciale amico del Campanella; egli era
d'altronde assai giovane a quel tempo, di appena 24 anni, e però
di poca autorità, quantunque il Campanella ne facesse gran conto
come si rileva dalla sua opera Medicinalium. Più autorevole era
Michele Politi, e difatti lo si vide nell'anno seguente chiamato
alla lettura di teorica della medicina, lasciata appunto da Latino
Tancredi promosso alla filosofia per morte di Gio. Berardino
Longo; ma era egli pure conterraneo del Campanella, forse di
Riaci, sicuramente della Diocesi di Squillace. Quanto al Tancredi,
lo abbiamo già visto da lungo tempo gran campione di dispute
filosofiche (ved. pag. 25), ed era poi andato anche innanzi nello
studio pubblico, giacchè dalla semplice lettura estraordinaria di
medicina delle Domeniche (1584) era passato da un pezzo alla
lettura di medicina ordinaria in surrogazione di Quinzio
Buongiovanni promosso (1589); godeva inoltre grande stima e
popolarità, tanto che nello studio giunse alla lettura di
filosofia vacata per morte di Gio. Berardino Longo (1599) e più
tardi alla dignità di Conte Palatino (1604), in società poi,
divenuto molto ricco, giunse ad essere Barone della Podaria, terra
presso Camerota; ma trovavasi contemporaneamente medico del Nunzio
Aldobrandini, come è attestato dal Nunzio medesimo, e in tale
qualità poteva essere interrogato anche confidenzialmente sulle
cose esposte, sicchè il Campanella dovea guardarsi dal citarlo a
caso. Tutto ciò per altro non escluderebbe che il Campanella si
fosse deciso tanto più volentieri ad andarsene in Calabria, in
quanto attendeva con fiducia vicine mutazioni; ma escluderebbe
l'asserzione del Parrino e del Giannone, che egli fosse stato da
Roma per condanna assegnato a Stilo. Bisogna considerare che
quando egli scrisse le Difese, era tuttora vivo e giudice suo
anche in detta causa fra Alberto Tragagliolo; non avrebbe quindi
potuto in alcun modo esprimere un fatto men che vero innanzi ad un
uomo minutamente informato di tutte le sue cose.
Adunque il Campanella liberamente partiva da Napoli, dopo di
avervi questa seconda volta dimorato poco più di 7 mesi, sapendosi
con certezza, come vedremo più sotto, essere la sua partenza
avvenuta nella 2a metà del luglio 1598. Gioverà frattanto non
seguirlo ancora nel suo viaggio, ma considerare un poco i fatti
che mano mano si svolsero in Napoli e che naturalmente ebbero
un'eco non lieve nelle Provincie; poichè avvenne un dissidio
clamoroso tra i Nobili e il Vicerè, onde poterono riuscirne sempre
più eccitate le speranze degl'insofferenti del giogo spagnuolo,
mentre parecchie altre gravi ragioni le tenevano eccitate di
molto.
Dal libro del Parrino emergono abbastanza bene le vivacissime
discordie surte in Napoli tra' Nobili e il Vicerè, ad occasione
del nuovo Banco privilegiato che s'intendeva istituire dal Saluzzo
di Genova coi favore Vicereale: ma non emergono le violenze e le
scellerate maniere di agire che tenne il Vicerè Conte Olivares, né
le agitazioni e li scoppi di odii privati che si verificarono tra'
Nobili durante quel trambusto; ce ne dànno pertanto notizia i
Carteggi massime del Residente di Venezia e in piccola parte anche
dell'Agente di Toscana, e da essi desumeremo ciò che ha maggiore
attinenza con la nostra narrazione. Fin dal luglio 1598, come
risulta dal Carteggio Veneto, cominciarono le preoccupazioni pel
disegno del Banco Saluzzo. «Trattavasi, dice l'Agente di Toscana
in una sua lettera dell'8 7bre, di erigere in questo Regno un
depositario, il quale solo havesse tutti i depositi de' dinari
vincolati, et il negotio era mal sentito quà
dall'universale, et giudicato molto dannoso alla libertà et
commercio pubblico»; onorevole maniera di giudicare il fatto, non
resa bene dal Parrino, che l'espose come una quistione di comodità
e di gelosia cittadina verso un forestiero qual'era il Saluzzo;
per un fatto simile a' tempi nostri sarebbero corsi fiumi di
eloquenza e d'inchiostro, ma allora si discusse un poco ne' Seggi
e si decise di mandare con gran segreto a Madrid Gio. Battista
Brancaccio fratello del Vescovo di Taranto, perché presentasse un
reclamo a nome della città. Ed appunto questo segreto mosse a
sdegno il Vicerè, e alla fine di agosto con brutti modi cominciò
dal far carcerare Matteo Acquaviva d'Aragona Principe di Caserta,
che fu preso mentre andava in carrozza, rinchiuso in Castello
dell'Ovo e tenuto in una stanza nuda e senza letto; egualmente
fece prendere D. Alfonso di Gennaro e rinchiuderlo in Vicaria
nella stanza de' condannati a morte; poco dopo anche, a' primi di
settembre, colse D. Ottavio Sanfelice e lo fece rinchiudere del
pari in Vicaria, e sempre perché costoro si erano mostrati più
operosi nel far decidere l'invio del Brancaccio a Madrid. Molti
Nobili allora si nascosero e fuggirono, e tra essi il Conte della
Rocca, il Marchese di Mottagioiosa, il Marchese Bonati: ma il
Marchese di Mottagioiosa, ricoverato in un monastero, essendosi
dopo qualche mese provato ad andare talvolta a casa di notte,
pedinato dalle spie fu preso egualmente e rinchiuso in
Castelnuovo. Intanto, fin dalla stessa 1.a settimana di settembre,
quattro Seggi di Nobili si erano immediatamente riuniti, e scelti
12 Deputati li aveano fatti presentare al Vicerè per annunziargli
che volevano mandare qualcuno a Madrid per querelarsi degli
aggravii fatti alla Nobiltà, ma il Vicerè volle prender tempo,
disse che lasciassero memoriale, e subito dopo guadagnò il Seggio
di Portanova e tentò guadagnare l'Eletto del Popolo. Nello stesso
mese di settembre i Nobili mandarono a Madrid D. Ottavio
Tuttavilla de' Conti di Sarno, cui si unì Dezio Rocco quale
inviato speciale del Principe di Caserta; ed ecco il Vicerè
nuovamente occupato a cercare ogni mezzo per fare sfregio a' suoi
oppositori. Trovavasi da tre anni rinchiuso in Castel S. Elmo un
tale di cognome Ricca, agiato popolare, perché sorpreso in casa di
una sorella del Tuttavilla, vedova e molto bella; il Vicerè lo
fece subito liberare. Ma peggio anche, la sera del 26 8bre, fece
da più di 60 birri circondare la casa di Fabrizio di Sangro Duca
di Vietri alla piazza di S. Domenico, e imprigionarlo con la più
grande sorpresa di tutti, dopo di avere concertato con un nemico
di lui Gio. Antonio Carbone già Marchese di Padula, mediante un
tal Cesare Russo-Romano, una più che turpe imputazione «de
attentato crimine pessimo passive»! È questo uno de' fatti che
hanno un certo interesse per la nostra narrazione, dappoichè
naturalmente il Duca ne divenne invelenito, e si disse che avrebbe
aiutata l'insurrezione di Calabria: dobbiamo quindi riferirne
qualche cosa, facendo conoscere un po' addentro la persona del
Duca e determinando le date precise de' travagli che soffrì; per
fortuna non ci mancano i documenti, avendo anche trovata
nell'Archivio di Urbino tutta una sua corrispondenza autografa dal
1594 al 1621, senza contare altre sue lettere esistenti
nell'Archivio Mediceo le quali sono posteriori al periodo di cui
stiamo trattando. Abbiamo avuta già occasione di menzionare
Fabrizio di Sangro Duca di Vietri, come suocero del Marchese di
Lavello e poi come Curatore del Principe di Bisignano: qui
dobbiamo dire che egli era già vecchio in questo tempo, di 64
anni, con uno stato di servizio de' più onorevoli e costituito in
un'alta dignità per l'ufficio che teneva. Secondogenito di
Ferrante di Sangro, avea servito come luogotenente di suo padre
nella guerra di Siena, poi come capo di una compagnia di 300 fanti
italiani sulle galere del Principe Doria, poi come luogotenente di
suo zio Geronimo, colonnello con mille fanti, trovatosi anche
all'espugnazione di S. Quintino, poi come Agente speciale presso
l'Ambasciatore Cattolico più volte in Roma: in sèguito, eletto
Papa Paolo IV Carafa suo parente, fu da costui indotto a prender
l'abito di clerico, inviato qual Nunzio a Venezia, designato anche
Cardinale; ma scoppiata la guerra tra il Papa e il Re di Spagna,
posto il Regno di Napoli in pericolo di cadere sotto le Sante
Chiavi, egli partì da Roma e si schierò tra gli oppositori del
Papa. Tale era la condotta del Nobile napoletano, che aveva una
mente ed un braccio da poter mettere in servizio del suo paese:
nessuna meraviglia che questa condotta oggi più che mai sia poco
conosciuta ed abbia pochi imitatori. Non avea pertanto deposto
ancora l'abito di chierico, e morto Paolo IV fu mandato a
sorvegliare il Conclave; servì anche il nuovo Papa Pio IV quale
inviato al Re di Spagna; ma dopo che vide perseguitati da lui i
Carafeschi, depose l'abito di clerico e se ne tornò a casa. Ebbe
quindi l'ufficio di Doganiere di Puglia già tenuto da suo padre
(1574); poi fu creato Duca della terra di Vietri, che si aveva
acquistata nel 1587, ed anche promosso all'ufficio di Scrivano di
razione (1596), ufficio che tenne con abilità ed integrità. La
colpa appostagli non fu creduta da alcuno, ma intanto egli rimase
in prigione non meno di 16 mesi, né fu liberato se non dopo la
venuta del successore del Conte Olivares ed anche 7 mesi dopo, l'8
febbraio 1600, avendo il suo medesimo difensore, Ottavio Stinca,
destramente prolungata la trattazione della causa, fino a che non
vide del tutto scomparse le influenze che l'avevano generata; e la
decisione della gran Corte della Vicaria non poteva riuscire più
onorevole pel Duca.
L'azione del Vicerè aveva intanto provocata una scissura in seno
alla Nobiltà. Durante lo stesso ottobre 1598 egli era riuscito ad
indurre gli Eletti della città a far mandare una lettera a Madrid,
nella quale, mentre si condolevano della morte del Re, chiedevano
che il Vicerè fosse confermato in ufficio per un altro triennio; e
giunsero fino ad apporvi una firma falsa di D. Lelio Orsini, che
era Eletto del Seggio di Nido ma che era poco prima già partito
per Madrid allo scopo di difendere la sua nomina di Curatore ed
Amministratore di Bisignano avversata dal Vicerè. Il Marchese di
Padula, Pompeo Seripando, ed Ottavio di Capua, mandavano essi pure
lettere a S. M.ta in favore dell'Olivares, ed a questi dissensi di
ordine amministrativo vennero ben presto a mescersi gli odî
privati. Tra gli avvenimenti di quest'ultimo genere vi furono tre
archibugiate tirate il 28 dicembre a Scipione Orsini Conte di
Pacentro, che ne rimase ucciso, ed un'archibugiata tirata al Conte
di Montemiletto amico del Pacentro, rimanendone ucciso il cavallo;
fu presto ritenuto da tutti che quelle archibugiate fossero
partite dal Marchese di S.to Lucido e sua comitiva, ed ecco un
altro fatto che c'interessa per la nostra narrazione, poichè
egualmente di questo Marchese di S.to Lucido, il quale era già
latitante e si teneva in campagna da fuoruscito con comitiva
armata, si disse più tardi che avrebbe aiutata l'insurrezione di
Calabria. - Non ci è riuscito veramente facile specificare con
esattezza chi sia stato il Marchese di S.to Lucido di cui qui si
tratta, mentre i libri delle famiglie nobili che noi conosciamo
non fanno parola di azioni delittuose, e d'altronde il semplice
titolo non determina l'individuo nella serie di coloro che ne sono
stati fregiati. Ma qualche indizio, rilevato dal Carteggio Veneto
e Toscano, e sufficientemente appoggiato anche da un ms. che si
conserva nella Bibl. nazionale di Napoli, ci ha fatto persuasi che
si tratti qui di Francesco Carafa, da parte del padre, Ottavio,
2.° Marchese di Anzi, e da parte della moglie, Giovannella Carafa,
Marchese di S.to Lucido. Il primo suo delitto sarebbe stato
nientemeno l'aver «fatto svenare alla presenza sua la Marchesa
d'Anzi sua propria madre» per causa di onore, l'altro sarebbe
stato l'aver fatto ammazzare il Conte di Pacentro, «perché havesse
ingiuriato la casa del Marchese et col congiungersi con la madre
et col vantarsene», la qual cosa teneva «commossa et quasi divisa
la città». Infatti, non appena seguito il triste avvenimento, il
primogenito del Conte di Pacentro, D. Ottavio Orsini, e insieme
con lui il Marchese di Brienza, uscirono in campagna con cavalli,
ma non giunsero ad incontrarsi col S.to Lucido, e il giovane Conte
di Pacentro, nel luglio 1600, finì per far correre cartelli di
sfida. Il S.to Lucido, che negò sempre la sua colpabilità, fu
citato a comparire, e non essendo comparso venne dichiarato
forgiudicato; spese molto, si avviò alla rovina della sua fortuna,
e giunse a scansare allora gli effetti della forgiudica e a
liberarsi più tardi da ogni travaglio. Ma tenne lungamente la
campagna, si rifugiò anche per qualche tempo a Roma menandovi
splendida vita, né venne in mano della giustizia che nell'agosto
del 1600: uscì poi dal Castel nuovo con D.ti 30 mila di cauzione e
fu abilitato a risedere in Vico, ma quivi, nell'ottobre dello
stesso anno, fece udire che gli erano state tirate fucilate nella
camera da letto attribuendole al Pacentro; ricominciarono quindi i
dissidii ed egli tornò in prigione, dove fu stipulata la pace sub
verbo Regio col Pacentro nel settembre 1601, e sebbene dopo la
pace gli fosse stato accordato di tenere la casa loco carceris con
la stessa cauzione di d.ti 30 mila, egli non uscì veramente di
prigione co' detti obblighi che il 30 marzo 1602. D'altra parte il
Conte di Pacentro, perché avea fatto correre i cartelli di sfida,
e più ancora perché si voleva obbligarlo a far la pace, fu
perseguitato e dovè ricoverarsi in una Chiesa, ma pure venne preso
e chiuso in Castel nuovo nella data medesima di agosto 1600; poco
dopo fu liberato con cauzione ed abilitato a stare in Pacentro,
dove se ne andò nel settembre in compagnia di Carlo Capeco
intrigato egualmente nell'affare del duello. Seguiti poi i reclami
del S.to Lucido per le fucilate che diceva tirate nella sua
camera, fu il Conte ricercato dalla giustizia in Pacentro e non vi
fu trovato; ed eccolo di nuovo perseguitato e catturato, di poi
liberato 8 giorni dopo fatta la pace, l'11 settembre 1601.
Per conchiudere intorno a' dissidii tra' Nobili e il Vicerè,
aggiungiamo che la calma cominciò a vedersi sol quando si seppe
essere stato deciso il richiamo del Conte Olivares e l'invio del
Conte di Lemos. Egli medesimo, l'Olivares, in febbraio 1599
annunziò tale decisione, e non è esatto quanto dice il Parrino,
che il Lemos fosse giunto all'improvviso: contemporaneamente il
Consiglio Collaterale risolve che il Principe di Caserta e gli
altri prigioni fossero abilitati a tenere la casa loco carceris,
con la cauzione di d.ti mille ciascuno. Possiamo ora raggiungere
il Campanella, che imbarcatosi in una feluca è già in vista delle
spiagge calabresi.
CAP. II.
RITORNO DEL CAMPANELLA IN CALABRIA E SUA CONGIURA.
(1598-1599).
I. Non è dubbio che il Campanella sia arrivato in Calabria verso
la fine di luglio 1598, e che la sua prima tappa sia stata il
convento dell'Annunziata di Nicastro. In ciò si accordano diverse
deposizioni che si ebbero più tardi nel processo consecutivo di
eresia, e le notizie che si leggono nella Narrazione pubblicata
dal Capialbi. Questa Narrazione, indubitatamente scritta dal
Campanella medesimo, ci potrà d'ora innanzi servire di testo,
almeno fino a che non giungeremo ad un periodo pel quale vi siano
documenti d'importanza anche maggiore: ma profittando delle
notizie in essa consegnate, non mancheremo mai di farne rigoroso
riscontro con quelle provenienti da altri fonti, e massime con
quelle appunto che il processo consecutivo fornì in numero
ragguardevole. Ecco ciò che vi si legge intorno al presente
momento della vita di fra Tommaso. «Nell'anno 1598 F. Thomaso
Campanella tornò in Calabria, donde era stato assente X anni parte
in Padova, parte in Roma, parte in Napoli, e nel fin di luglio
sbarcò in Nicastro dove era priore nel suo convento F. Dionisio
Pontio e la città si trovava interdetta per causa di giuridittione
dal Vescovo, per esser fuggito in Roma. Et esso F. Thomaso a'
preghi de' cittadini, e per lettera di M. Antonio del Tufo Vescovo
di Milito suo antico protettore s'adoprò a metter pace tra il
Vescovo e la città. Il che non succedendo per la malvagità di
alcuni scomunicati, esso pigliò le parti del vicario del Vescovo,
e fece eligger F. Dionisio Pontio per ambasciator al Vescovo et al
S. Papa Clemente 8.°, che si trovavano a Ferrara. Il che
dispiacque assai a D. Luigi Xarava avvocato fiscale scomunicato
tre anni avanti dal Vescovo di Milito; e perseverante, e
mantenitor delle brighe, desioso, che tutti fossero interdetti, e
scomunicati come lui per sua discolpa appresso il Re, et pur ci
era scomunicato il Principe dello Sciglio el governator del Pizzo,
et altri baroni, et officiali».
Ci siamo già spiegati precedentemente sulla vera durata
dell'assenza dalla Calabria, che altrove il Campanella affermò di
dodici anni e qui afferma di dieci, ma che in realtà deve dirsi un
po' meno di nove anni. Abbiamo pure detto che diverse deposizioni
consegnate nel processo di eresia pe' fatti di Calabria attestano
egualmente l'arrivo essere accaduto alla fine di luglio dell'anno
1598, e la prima fermata essere stata quella di Nicastro; ma
dobbiamo aggiungere che in esse domina generalmente la credenza,
che il Campanella fosse venuto in Calabria non appena liberato da'
travagli patiti in Roma, e trovasi anche affermato che nel
convento di Nicastro, essendo priore fra Dionisio, aveva stanza
del pari il germano di lui fra Pietro Ponzio, ed inoltre fra Gio.
Battista di Pizzoni in qualità di lettore. Così il Campanella ebbe
a trovarsi immediatamente in compagnia di questi suoi intimi
amici, i quali più o meno si avevano acquistato riputazione nella
provincia; ed ecco la condizione loro secondo le notizie sparse
nel processo, che siamo obbligati a citare quasi sempre per
documentare quanto affermiamo.
Fra Dionisio, che pel suo spirito si era distinto anche in Napoli
al tempo in cui là dimorava in qualità di studente, tanto più si
era poi distinto in Calabria, avendo progredito negli studii, e
principalmente essendo riuscito un oratore valentissimo; lasciava
solo qualche cosa a desiderare circa costumi. Di natura impetuosa,
irrequieta, ciarliera e vendicativa, già era stato una volta
condannato per aver tagliata la faccia ad un frate, e in genere di
lascivia se ne raccontava qualche brutto caso, avendo anche
l'abitudine di parlarne troppo e nel senso il più laido. Ma come
oratore, ad un facile eloquio accoppiava una quantità di risorse,
e possedeva l'arte di commuovere potentemente l'uditorio; sapeva
lagrimare a tempo, ed una volta, predicando a monache, seppe anche
cadere in deliquio; né mancava di pungere i suoi avversarii
perfino dal pergamo più o meno velatamente. Una posizione sempre
più distinta si aveva acquistato tra' frati, ma in pari tempo si
aveva acquistato odii roventi, pe' processi da lui energicamente
provocati e sostenuti contro frati di fazione avversa, a' quali
era imputato l'assassinio di suo zio il P.e Pietro Ponzio, che
abbiamo già visto Provinciale pel 1587-88 e parte dell'89. Questo
incidente, non senza interesse per la nostra narrazione, merita di
essere conosciuto; e per fortuna, oltre i pochi cenni consegnati
nel processo più volte citato, ne abbiamo parecchie notizie nel
Carteggio del Nunzio Aldobrandini. Già mentre teneva l'ufficio di
Provinciale, per la severità con la quale avea cercato di
correggere i costumi orribili di un gran numero de' suoi frati, il
P.e Pietro Ponzio era stato minacciato nella vita, e un fra Paolo
Jannizzi della Grotteria sacerdote, che vedremo anche tra
gl'imputati della congiura e dell'eresia del Campanella, era stato
in agguato per ammazzarlo, sicchè ebbe a riportarne condanna di
tre anni di galera che scontò, e mentre egli stava ancora alla
catena il P.e Pietro fu ammazzato. Poniamo qui che fra Paolo
trovavasi carcerato in Napoli durante la prima dimora del
Campanella in questa città (1591), ed egli stesso narrò che vide
una volta passare per la via il Campanella, e lo chiamò per
pregarlo che volesse portare una sua lettera al P.e Rev.mo: tutto
ciò pertanto non gli chiuse la via agli ufficii in sèguito, e
stiamo per vedere che al tempo della congiura funzionava da priore
nel convento di S. Giorgio. Ma, come dicevamo, il P.e Pietro
Ponzio fu ammazzato, bensì per un'altra ragione ancora più
notevole, perché la fazione avversa ne temeva il ritorno
all'ufficio di Provinciale; e fra Dionisio perseguitò senza posa
gli assassini di suo zio, facendo rimontare la colpa
dell'assassinio fino al P.e Gio. Battista da Polistina, già
Provinciale nel 1591-92 e parte del 93. Era ritenuto uccisore un
fra Pietro di Catanzaro, che riuscì a fuggirsene a Costantinopoli
tra' turchi: un fra Filippo Mandile da Taverna fece scovrire ogni
cosa insieme con un fra Giacinto da Catanzaro, e fra Filippo venne
per opera del Polistina condannato a 10 anni di esilio dalla
provincia, ridotti poi per grazie successive a soli 2 anni; ma il
Polistina medesimo finì per essere catturato coll'opera diretta di
fra Dionisio, e rimase prigione 14 mesi in Roma, 15 in Calabria, 9
in Napoli. Egli si schermì efficacemente con le sue aderenze,
dimandando di essere giudicato ora in Roma, ora in Calabria, ora
in Napoli presso la Corte del Nunzio, dalla quale finalmente in
gennaio 1598 venne liberato «ex hactenus deductis», dietro una
relazione dell'Auditore sul processo ingarbugliato col passaggio
per troppe mani e troppi luoghi, la quale conchiudeva «deficerent
potius probationes quam jus». Fra Dionisio, che facendo comparire
negli Atti il fratello Ferrante aveva in realtà agito
personalmente per tale processo, e vi avea non solo assistito in
Calabria ma anche in Napoli ed in Roma, si era elevato di molto
insieme con la fazione avversa al Polistina; ma la liberazione di
costui, appunto nel 1598, cominciava a segnare un principio di
decadenza, e il Polistina relegato in un convento «loco carceris»,
coll'aiuto del P.e Giuseppe Dattilo da Cosenza ex-Provinciale lui
pure, già preparava le sue vendette, mentre fra Dionisio, sdegnato
per questa liberazione, mostravasi irrequieto anche più del
solito.
Quanto a fra Pietro Ponzio germano di fra Dionisio, senza smentire
il sangue caldo de' Ponzii, era d'indole più ritirata ed assai
meno inframmettente: avea progredito fino ad un certo punto negli
studii specialmente teologici, mostrando anche un grande trasporto
per le buone lettere, ed avea saputo mantenersi ne' buoni costumi,
ciò che non era comune a que' tempi. Così non si era fatto
distinguer troppo, e poteva dirsi che avesse piuttosto goduta la
prospera fortuna di fra Dionisio, come di poi ne patì l'avversa:
intanto pel suo amore alle lettere venne a stringersi sempre più
col Campanella, ammirandone con ardore il grande ingegno, e
vedremo che gli si mostrò sempre tenero amico.
Finalmente quanto a fra Gio. Battista di Pizzoni, egli si era
distinto molto più de' Ponzii negli studii, avendo coltivato non
solamente la Teologia ma anche la filosofia, oltrechè era assai
addentro nello studio della musica; ma in pari tempo si era
distinto fuor di misura ne' cattivi costumi. Sebbene il suo modo
di ragionare e di esprimersi non fosse punto brillante, e ne fa
fede ciò che di lui si legge nel processo, aveva tuttavia una
eccellente riputazione come lettore, non così come galantuomo. Noi
lo lasciammo nel convento di Altomonte, al tempo in cui vi
dimorava il Campanella: poco dopo d'ordine del P.e Pietro Ponzio
Provinciale ne fu scacciato perché vizioso, e dovè cercare un
ricovero nel convento di Rosarno per misericordia. Naturalmente si
aggregò alla fazione di fra Gio. Battista di Polistina, ed elevato
costui all'ufficio di Provinciale fu mandato Vicario a Cutro; ma
finì coll'esserne scacciato a furia di popolo per le sue
dissolutezze ed anche per diverse appropriazioni indebite, quindi
condannato «ad poenam gravioris culpae». Fu mandato di poi lettore
di logica a Briatico, ove ebbe tra' suoi scolari fra Pietro
Presterà di Stilo, che un giorno dovè difenderlo dagli altri
scolari i quali gli si ribellarono, e così pure fra Silvestro
Melitano di Lauriana, che gli rimase attaccato sempre e gli fu
buon compagno nelle cattive azioni; ma egualmente da Briatico dovè
fuggire, essendo stata per colpa di lui uccisa una donna da'
proprii fratelli, i quali divennero forbanditi e lo atterrirono
con minacce assiduamente. Non avea mancato nemmeno di continuare
nelle appropriazioni indebite, fra le quali ve ne fu una di certi
scritti di prediche e considerazioni sull'Apocalisse appartenenti
a fra Dionisio, che tolse dalle valigie di costui venuto di
passaggio a Briatico, e mandò poi a vendere per mezzo di fra
Silvestro di Lauriana; e fra Dionisio ne menò grande scalpore e lo
vituperò per tutta la provincia, ma essendo stato appunto in quel
tempo carcerato fra Gio. Battista di Polistina, egli seppe
destreggiarsi abilmente passando alla fazione di fra Dionisio ed
acquetandolo. Con siffatta evoluzione fu mandato lettore nello
studio generale di Cosenza (1597), di dove, l'anno seguente, venne
chiamato come Teologo del Vescovo di Nicotera, con cui visitò
tutto lo Stato del Duca di Nocera defunto, per soddisfare a'
gravami patiti da' vassalli, essendosene il Duca fatto scrupolo
nel suo testamento. Adempiuta questa commissione, era stato
assegnato al convento di Nicastro, dove era giunto appena da due
mesi e trovavasi afflitto da certi malanni per commerci impuri,
che ne attestavano la cattiva condotta. Il suo fra Silvestro di
Lauriana, rimasto ignorante ed affatto bestiale, l'aveva seguito
in Nicastro e l'assisteva con ogni cura; ma aveva anche relazioni
colpevoli con un nipote del Pizzoni, fra Fabio, laico o «terzino»
come allora si chiamavano questi frati non sacerdoti, e fra Gio.
Battista lo tollerava senza risentirsene; invece dovè risentirsene
fra Dionisio per lo scandalo che n'era sorto, onde poco tempo dopo
fra Gio. Battista finì per abbandonare il convento di Nicastro. Il
Campanella, verosimilmente ignaro di tutte queste lordure e del
rimanente avvezzo a considerare i frati quali erano in realtà,
vide in fra Gio. Battista un amico di vecchia data, divenuto anche
abbastanza culto; e non gli negò la sua stima, ed ebbe pur troppo
a pentirsene, essendogli riuscito un amico infedele. Si noti
intanto la mancanza di morale e di carattere in questo fra Gio.
Battista, che dovrà figurare di molto nella nostra narrazione, e
però ci ha costretti ad una non breve esposizione della sua vita.
Ma non meno degno di essere rilevato è il grave turbamento in cui
il Campanella trovò la città di Nicastro e tutta la Calabria, onde
non potè non averne una profonda impressione. Si era da qualche
tempo in un periodo acutissimo di lotte giurisdizionali, e quella
di Nicastro fu una delle più gravi: l'argomento merita di essere
ben ponderato, giacchè mentre da una parte il Campanella nella sua
Narrazione dichiara mantenitore delle brighe qualche ufficiale
Regio che ebbe a perseguitarlo, d'altra parte agli ufficiali Regii
quel concorde sviluppo di esorbitanze Episcopali parve il
principio di una vera e propria ribellione; e in ciò non solo il
Carteggio del Nunzio Aldobrandini, ma anche l'Archivio di Napoli e
perfino il Carteggio del Residente Veneto, ci offrono molte
notizie e documenti. Limitandoci per ora alla sola quistione di
Nicastro, ecco quanto possiamo dirne. Era Vescovo di Nicastro
Pietro Francesco Montorio nobile Romano, altero, risentito, tutto
imbevuto de' principii della supremazia ecclesiastica. Creato
Vescovo nel febbraio 1594, cominciò dall'affacciare pretensioni
pe' frutti del Vescovato già vacante e fece per questo mali
officii presso la Curia Romana contro il Nunzio; poi negò al Duca
di Ferolito, Conte di Nicastro, un dritto che costui possedeva di
«fidare nelle erbe della Chiesa di Nicastro ed anche venderle
agreste», e affacciò la strana pretensione che per tale
controversia venisse citato a comparire innanzi al tribunale del
Nunzio; poi avendo il Duca ottenuto un decreto favorevole del
Sacro Regio Consiglio, tribunale competente, ed essendo stato
mandato dalla R.a Audienza un Commissario per l'esecuzione del
decreto, egli maltrattò il Commissario e lo scomunicò con tutti
gli ufficiali della città, a capo de' quali era un Gio. Battista
Carpenzano, facendo pubblicare dal suo Vicario un interdetto. E
scrisse a Roma e fece da Roma scrivere al Nunzio che pativa
travagli indebiti, ed appunto nell'aprile 1598 si permise di
pubblicare una cedola venuta da Roma senza l'exequatur: allora il
Governo, che si guardava bene dal tollerare un fatto simile, lo
dichiarò licenziato dalla sua diocesi, e perché contumace pose
sotto sequestro le rendite del Vescovato; ma egli fece dal Vicario
scomunicare l'Auditor Gonzaga andato ad eseguire i detti ordini, e
con lui il Vice Conte Gio. Antonio Falconi. Di rimbalzo gli
ufficiali della città carcerarono parecchi gentiluomini aderenti
del Vescovo, e volendo un giorno que' della Corte del Duca trarre
agli arresti un cuoco del Vescovo che portava armi senza permesso,
videro intervenire il Vescovo medesimo, il quale li caricò di
contumelie, al punto che taluni trassero qualche colpo di
archibugio in aria per farlo tacere, ed egli allora si allontanò
dalla Diocesi. Ma al tempo medesimo i reggitori della città si
occuparono di provvedere perché l'interdetto fosse revocato, e
tenuto pubblico parlamento, si concluse di nominare fra Dionisio
Ponzio ed Innico de Franza procuratori della città, perché
potessero comparire a nome di essa in Reggio ed anche in Roma
bisognando, a fine di ottenere da' superiori ecclesiastici la
rivocazione dell'interdetto. Il pubblico istrumento di procura in
data 28 agosto 1598, firmato dal dot.r Ottavio Serra sindaco, e da
parecchi eletti di Nicastro, venne poi da fra Dionisio
originalmente presentato al tribunale dell'eresia quale attestato
di onore, e così abbiamo potuto averne piena conoscenza. - Che il
Campanella in tale occasione abbia prese le parti del Vicario del
Vescovo, riesce pienamente credibile, poichè in ultima analisi
egli era ecclesiastico; ma che abbia potuto influire sulla
elezione di fra Dionisio egli nuovo in Nicastro, e che l'invio di
fra Dionisio e del Franza abbia potuto dispiacere all'Avvocato
fiscale, si comprende poco. Avremo ad occuparci largamente anche
dell'Avvocato fiscale, e lo vedremo in realtà scomunicato dal
Vescovo di Mileto, ma vedremo pure in quel tempo, per varii fatti,
qualche Auditore egualmente scomunicato, qualche altro avvertito
di essere incorso nella scomunica, ed uno di loro è stato già
menzionato più sopra; tutto ciò rincresceva senza dubbio al
Vicerè, non al Re che stava troppo lontano ed occupato in altre
cure, ma in fin de' conti attestava negli ufficiali colpiti una
fedele esecuzione degli ordini ricevuti ed un lodevole adempimento
del proprio dovere. Così l'Avvocato fiscale non poteva dispiacersi
che le cose si avviassero alla quiete, né poteva ritenere per lui
necessaria una discolpa: d'altronde il Governo aveva trovata una
singolare maniera di rimediare agl'imbarazzi che
nell'amministrazione derivavano dalle scomuniche degli ufficiali;
mandava una «hortatoria» al Vescovo, e con ciò riteneva di aver
provveduto per l'assoluzione, dandosi anche l'aria di considerare
sospeso l'effetto delle scomuniche. Mettiamo qui che fra Dionisio
e il Franza, si recarono a Reggio e quindi a Ferrara, dove si
trovava Papa Clemente occupato a consolidarsi nel nuovo acquisto,
né tornarono a Nicastro che al principio dell'anno successivo.
Durante questo tempo l'affare del Vescovo di Nicastro si trattava
nelle più alte sfere. Il Papa medesimo, nel settembre 1598, ne
scrisse direttamente al Re, il quale rispose con una breve lettera
molto dignitosa; il Residente Veneto per le sue vie coperte potè
aver copia di entrambe le lettere e trasmetterle a Venezia, e così
leggonsi nel suo Carteggio. Il Duca di Sessa Ambasciatore
spagnuolo in Roma ne trattò col Card.l S. Giorgio, e nel Carteggio
del Nunzio vi è la lista delle domande del Vescovo, tra le quali
figura quella che tutti coloro i quali l'avevano insultato fossero
gastigati, e tutti, ma principalmente il Carpenzano e il Falconi,
non potessero più esercitare ufficii in Nicastro e nelle altre
terre della Diocesi. Nell'ottobre furono concordati 10 capitoli,
che conosciamo egualmente per cura del Residente Veneto, tra'
quali primeggia la rivocazione del decreto del Sacro Regio
Consiglio favorevole al Duca di Ferolito; ma il Vicerè fece
difficoltà a rivocare il pronunziato solenne di un tribunale
supremo di appello, onde le cose si protrassero fino al marzo
dell'anno seguente. Ed allora l'interdetto fu tolto, ma non per
opera di fra Dionisio, ciò che trovasi attestato pure dalla
Narrazione. Vedremo poi che il Vicerè non attese nemmeno che
l'interdetto fosse tolto, per rivocare, da parte sua, il divieto
del ritorno del Vescovo nel Regno, ma costui non si mosse da Roma,
sicchè, sopravvenuta la congiura di Calabria, diè motivo a far
credere che egli pure vi partecipasse. E ciò basti pel momento
circa i conflitti co' Vescovi; avremo tra poco occasione di
parlare del conflitto col Vescovo di Mileto, per lo quale si trovò
scomunicato l'Avvocato fiscale Xarava, ed anche il Principe di
Scilla (corrottamente Sciglio) e il Governatore del Pizzo.
Proseguiamo ora a dire del Campanella, sempre con la scorta della
Narrazione. «Alli 15 d'agosto poi esso Campanella andò a Stilo sua
padria, dove il Vescovo di Milito era venuto a processar un
Arciprete di Stignano, et Campanella andò con lui fino a Jeraci e
dispiacque assai alli officiali scomunicati che havesse dato
consulta di canoni e ragioni al Vicario di Nicastro et al Vescovo
di Milito per aiuto delle giurdittioni. Di più tutte le città
principali oltre le discordie tra gli Ecclesiastici, e Regii,
erano divise in fattioni, e Stilo in particolare havea la fattione
de' Carnelevari et Contestabili, et capo dell'una in campagna era
Mauritio Rinaldis, et dell'altra M. Antonio Contestabile. Et in
Catanzaro erano due fattioni: a l'una favoriva lo Xarava a l'altra
D. Alfonso de Roxas governatore della provincia. Et tutti li
conventi erano pieni di banditi particolarmente della diocesi di
Milito, el Vescovo li dava de mangiare per zelo della
giurdittione, quando erano assediati da sbirri. E Xarava ponea
fama ch'il clero volesse ribellare».
Adunque alla metà di agosto 1598 il Campanella passò da Nicastro a
Stilo, ma forse ciò accadde qualche giorno più tardi, poichè si
hanno nel processo di eresia due deposizioni, che attestano essere
andato a Stilo dopo un mese dal suo arrivo in Nicastro. Il Pizzoni
ve l'accompagnò, rimanendovi anche lui per curarsi, come attestò
perfino il suo confidente Lauriana che lo servì; e vi rimase
qualche mese, poichè sappiamo esser venuto nell'ottobre a far
parte del convento fra Pietro Presterà di Stilo, e costui allora
lo medicò con le sue mani. Frattanto nel settembre, per
un'accidentale venuta del Vescovo di Mileto a Stignano, ebbe il
Campanella occasione di ossequiare questo Vescovo che era
Marc'Antonio del Tufo, e di andare con lui «in visita verso la
marina». Tale fatto trovasi nel processo attestato dal Pizzoni,
che depose ancora essere accaduto nel settembre. Il Campanella
naturalmente vi andò in qualità di Teologo, e giova ricordarsene,
poichè vedremo in sèguito il Governo Spagnuolo assai mal prevenuto
specialmente contro il Teologo del Vescovo di Mileto, mostrando
d'imputare a lui le risoluzioni violente che dal Vescovo spesso si
prendevano. Non apparisce e non è plausibile che quella visita sia
durata molto: ad ogni modo il Campanella nel suo ritorno si fermò
alquanto in Stignano presso suo padre, come attestò parimente il
Pizzoni, e poi si ridusse a Stilo né ebbe mai più altra stanza: lo
vedremo più tardi in varie escursioni, ma di breve durata, e pur
sempre assegnato o meglio dimenticato in Stilo. È certo poi che le
trattative di pace tra' Contestabili e Carnevali, registrate nella
Narrazione subito dopo la visita fatta col Vescovo di Mileto,
accaddero veramente non prima del maggio dell'anno successivo:
questo risulta dal processo ed anche da altri cenni sparsi nella
Narrazione medesima, sicchè non dobbiamo occuparcene per ora, e
possiamo invece approfondire un poco le cose del Vescovo di
Mileto, i conflitti giurisdizionali, le fazioni e inimicizie
cittadine, le discordie de' componenti la R.a Audienza, i banditi
in armi nella provincia. Lo stesso Campanella più volte affermò
che questo grave turbamento sociale, unito alla comparsa di
fenomeni meteorologici straordinarii, lo menò a credere tanto più
fermamente alla vicina fine del mondo e a predicarla, onde poi
alcuni presero animo a concertarsi per una ribellione: trattasi
dunque di una materia in relazioni strettissime col nostro
argomento, ed è necessario occuparcene di proposito; l'Archivio di
Stato in Napoli, parzialmente anche il Carteggio del Nunzio
Aldobrandini, ce ne forniscono molti documenti, e di essi bisogna
senz'altro profittare.
Il Vescovo di Mileto (latinamente Melito) si era già fatto
distinguere da un pezzo pel suo modo energico di procedere nelle
quistioni giurisdizionali, un po' più di tutti gli altri suoi
colleghi, che pur essi non mancavano di farle sorgere ogni momento
e trattarle con poca mansuetudine e nessuna misura. Egli non
trovavasi in conflitto per interessi personali come il Vescovo di
Nicastro, ma per principii profondamente sentiti, e quanto è
dubbio che il Campanella abbia potuto richiamare sopra di sè
l'attenzione degli ufficiali Regii pel conflitto del Vescovo di
Nicastro, altrettanto è sicuro che abbia dovuto esser notato pe'
conflitti del Vescovo di Mileto; perché con costui egli si trovava
in relazioni dirette, e da costui era stato scomunicato
quell'Avvocato fiscale Xarava al quale egli attribuì tutte le sue
sventure; solamente bisogna dire che abbia dovuto esser notato non
così presto come apparirebbe dalla sua Narrazione, ma quando già
si era fatto conoscere direttamente per altre cose. È pur troppo
vero che il Vescovo di Mileto avesse procurato che i banditi, i
quali si trovavano in asilo massime ne' conventi, fossero
alimentati semprechè i birri li assediavano per catturarli: questo
emerse poi anche dal processo del Campanella, e in realtà una
tenerezza pe' malviventi rifugiati ed assediati si verificava del
pari in altre Diocesi, con diversi modi singolari che non
mancheremo di vedere: il Governo riteneva che pe' delitti gravi,
«imperiosi, e di molto malo exemplo» come allora si diceva, non
dovesse riconoscersi il diritto di asilo ne' conventi e nelle
Chiese; ma i Vescovi rispondevano con le scomuniche a tutti coloro
i quali eseguivano gli ordini del Governo, e con una maggiore
protezione a' più tristi soggetti, onde si può immaginare quanti
scandali ne dovessero nascere. I Cavalieri Gerosolimitani molto
sparsi nel Regno, che col titolo di frati e col beneficio della
giurisdizione ecclesiastica spesso si vedevano commettere
prepotenze e delitti, scorrendo la campagna con comitive armate e
chiudendosi in qualche castello di casale isolato senza che il
Governo potesse raggiungerli, fornivano un altro grosso
contingente di conflitti: al tempo del quale trattiamo, un cav.re
fra Maurizio Telesio di Cosenza trovavasi nella condizione
anzidetta, e il Governo avea mandato contro di lui l'Auditore
Vincenzo di Lega, che era giunto a catturarlo e si occupava in
prendere la relativa informazione; e subito da «un preite a nome
del Rev.do Vescovo di Melito gli fu notificato in parola che lui
et li detentori di detto fra Mauritio erano incorsi in censure,
admonendoli a liberarlo». Ma il contingente maggiore era fornito
da' così detti «diaconi selvaggi» o «clerici coniugati», una
specialità fiorente nella Calabria, laici anche con mogli e figli,
a' quali i Vescovi concedevano di poter indossare un ferraiolo
nero, ed avendoli in tal guisa fatti clerici, pretendevano che
fossero esenti dalle contribuzioni fiscali e dal peso degli
alloggi, esenti anche dalla giurisdizione laica, o come allora si
diceva «temporale»: i comuni o «Università» reclamavano, ed
egualmente reclamavano i Baroni, nel vedersi sfuggire di mano i
contribuenti e dover gravare di pesi insoffribili gli altri
cittadini, come pure nel vedere invasi i dritti della
giurisdizione baronale: il Governo mandava hortatorie, ma coloro
che doveano consegnarle venivano scomunicati. Nel tempo di cui
trattiamo, un Marcantonio Capito, diacono selvaggio della Diocesi
di Mileto, avea bastonato un frate basiliano: la R.a Audienza
intervenne, e il Capito si rifugiò in una Chiesa; il Vescovo,
sempre per mantenere intatta la giurisdizione, non volle
permettere che fosse estratto dalla Chiesa, né volle curarsi che
fosse chiuso nelle carceri vescovili pel dovuto gastigo. In tale
occasione l'Avvocato fiscale D. Luise Xarava dovè entrare nella
Chiesa, prendere il Capito e farne consegna nelle carceri del
Castello del Pizzo; ma finì per essere scomunicato lui, il
governatore del Pizzo D. Fabrizio Poerio e il Principe di Scilla
signore del luogo. Le hortatorie non mancarono, ma il timore della
scomunica, che allora menava a conseguenze anche sociali non
indifferenti, rendeva perplessi coloro i quali doveano
presentarle: il Vicerè ebbe quindi a risentirsi con la R.a
Audienza perché erano state fatte presentare «per banno», vale a
dire coll'affissione, e la R.a Audienza ebbe a discolparsi negando
il fatto, che pare essere stato solamente un progetto. Intanto il
Vescovo, non rimasto pago alle scomuniche, nel febbraio 1598 mandò
al castello del Pizzo suo fratello Placido Del Tufo, il quale
sulla sua parola indusse il Castellano a far uscire il Capito dal
carcere, e metterlo in una stanza, ma poi nella notte, coll'aiuto
di due domestici del Vescovo e mediante una corda, lo fece fuggire
e andare a ricoverarsi nel palazzo Vescovile; laonde il Vicerè
ebbe ad ordinare l'arresto di Placido Del Tufo, il quale per lo
meno dovè nascondersi e molto più tardi poi fu graziato. Così tese
erano allora le relazioni tra il Governo e il Vescovo di Mileto.
Più tardi non avendo il Vescovo dato alcun gastigo al Capito, ed
avendolo anzi lasciato andar libero a Seminara, il Vicerè lo fece
carcerare di nuovo, ma i preti, armati di accette ed aiutati anche
da alcuni laici, lo liberarono a viva forza; questo accadde nel
tempo in cui fervevano i concerti per la ribellione, sicchè
appunto pel Capito avvenne quel «rumor di clerici di Seminara che
ruppero li carceri gridando viva il Papa», come è registrato in
altro luogo della Narrazione del Campanella (pag. 30), onde sembrò
che il Vescovo di Mileto partecipasse a' concerti e che «il clero
volesse ribellare».
Non molto dissimile era la condotta degli altri Vescovi della
Calabria: ne daremo alcuni cenni riferibili al periodo di cui
trattiamo ed anche a qualche anno successivo, ciò che servirà pure
a mostrare che essi continuarono sempre nella loro via, perfino
quando, scoverta la congiura, gli ufficiali Regii spiegarono una
influenza esorbitante. Il Nunzio medesimo scriveva a Roma che
alcuni Vescovi componevano con danaro ogni delitto de' clerici,
sia facendo pagare una somma alla Curia, sia facendo dare una
pingue elemosina a qualche luogo pio, onde presso gli ufficiali
Regii s'incontravano difficoltà ad ottenere la consegna de'
clerici prigioni. Ma specialmente i clerici selvaggi in tutta la
Calabria davano troppi motivi di scandali, mentre erano ovunque
aumentati al punto che il Vescovo di Mileto potè dire di averne
nella sua Diocesi molto meno degli altri, né poi venivano sempre
scelti tra le persone per bene: così l'Arcivescovo di S.ta
Severina ne aveva creati in numero infinito, ed aveva anche
introdotta un'altra classe col nome di «familiari», che non
vivevano a sue spese e che tuttavia esigeva fossero esenti dalle
tasse e dalla giurisdizione baronale e Regia, minacciando non solo
la scomunica ma anche il carcere a chi gli presentasse le
hortatorie; d'altra parte il Vescovo di Cariati li sceglieva
perfino tra gl'inquisiti e i contumaci della Gran Corte della
Vicaria, e s'intende che i reclami e i conflitti dovevano essere
senza fine. Non bastando i clerici selvaggi e i familiari, altri
Vescovi inventarono anche i «commissarii delle feste», laici
deputati a far osservare la santificazione delle feste, pe' quali
non solo esigevano le solite franchigie dalle tasse, dagli alloggi
e dal foro laico, ma anche il dritto di portare armi proibite,
concedendone essi la licenza: il Vescovo di Squillace ne avea
creati 37, e in maggior numero ancora ne avea creati l'Arcivescovo
di Reggio, il quale volle egualmente estese le franchigie a molte
donne che in S.ta Agata indossavano abiti frateschi, come pure
alle beghine o «bizoche» di Reggio, ed una volta, avendo i
gabelloti trasmesso a queste beghine col consenso esplicito del
Governo l'ordine di pagare le gabelle, fece venire da Roma ed
affiggere alle porte delle Chiese ed a' luoghi pubblici della
città un monitorio con le solite minacce, che citava que'
gabelloti a comparire fra un dato termine in Roma, innanzi
all'Auditorato della Camera Apostolica. Non poche altre
pretensioni ed ingerenze indebite essi spiegavano con modi sempre
nuovi in singoli casi. Il Vescovo di Nicotera costringeva con la
scomunica il Castellano del luogo a ricevere nelle carceri del
Castello clerici ed altri ecclesiastici prigioni in suo nome;
quello di catanzaro accoglieva in un monastero di pentite la
moglie di un uomo che con l'aiuto di essa aveva ammazzata la sua
1a moglie, ed esigeva dal Giudice, intervenuto per le debite
informazioni, un decreto liberatorio in favore di quella donna
senza neanche esaminarla. Il Vescovo di Squillace, dopo di avere
scomunicato il Capitano di Stilo, non solamente si faceva
consegnare dal Giudice un grosso malfattore a nome Colella Bua,
col solito pretesto che era clerico selvaggio, ma anche un
inquisito di stupro ed omicidio in persona di una parente, col
pretesto che esso era domestico di una monaca. Il Vescovo di
Gerace spediva monitorio al Capitano e al Giudice della città,
perché sotto pena di scomunica, in forza della Bolla In coena
Domini, consegnassero tra 18 ore un ladro di giumente e il
rispettivo processo già formato, col pretesto che 12 anni prima
era stato tonsurato (sebbene non avesse mai funzionato da
clerico), oltrechè gli era stata trovata sulla persona un'orazione
a S. Patrizio, la quale dovea vedersi se fosse superstiziosa e
spettante al S.to Officio, ed ebbe il ladro e lo mandò via
impunito; dippiù spediva un altro monitorio perché si rilasciasse
un contumace, e si lacerasse l'informazione presa contro un
inquisito del ratto di una donna, perché la carcerazione e
l'informazione erano state eseguite nel giovedì in albis, e nulla
di simile dovea farsi durante tutta la settimana dopo Pasqua. -
Può bene immaginarsi la condotta del Clero inferiore dietro
siffatti esempi. Lo stesso Nunzio scriveva a Roma: «molti si fanno
clerici per esimersi dalla giuriditione temporale, et per una
banda, circa negotii, fugir le gabelle delle robe et gli altri
carichi che si portono seco, et per altra in essi, come sottoposti
alla giurisditione ecclesiastica, far ciò che vogliono»: tali
erano veramente i motivi precipui del loro moltiplicarsi in modo
esorbitante, quali clerici secolari e regolari, e sotto le forme
più svariate ed anche più strane. Lasciando da parte gli esempi
della loro condotta individuale, appena ricorderemo la protezione
che comunemente accordavano a' malfattori, ricoverandoli nelle
loro case ed aiutandoli anche con le pratiche del loro ministero,
le violenze alle quali si spingevano in massa nelle loro bizze o
in quelle de' loro superiori. Qualche fatto di tal genere riesce
abbastanza curioso ed istruttivo. P. es. in Roggiano, gli
assoldati del Governo impegnano una zuffa co' banditi, li
stringono in una casa, sono sul punto di prenderli; ed ecco i
preti parenti de' banditi che vengono in quella casa col SS.mo
Sacramento, poco dopo ne riescono avendo affidato a' banditi le
mazze del pallio, e così conducono questi in una Chiesa sorridenti
sotto gli occhi degli assoldati del Governo genuflessi ed
umiliati. In Policastro alcuni clerici hanno una vertenza col
domestico del Capitano, e il domestico vien chiuso in prigione; ma
ecco i clerici, non contenti, con l'aiuto di altri laici rompono
le carceri, prendono e feriscono quell'uomo, quindi lo traducono
nella Chiesa dove lo schiaffeggiano e lo bastonano, mentre il
Capitano non osa penetrarvi. Cosa si proponevano segnatamente i
Vescovi con una condotta simile? Esercitare la prepotenza, niente
altro che la prepotenza, per lo meno secondo il gusto del tempo
tutto impregnato di prepotenza: e però non sapremmo menomamente
farne ad essi un addebito speciale, bensì non sapremmo non
riconoscere in essi le virtù e i vizii comuni, e non riconoscere
negli uomini del Governo, tra le prepotenze comuni anche a loro,
un po' di maggior cura, e laboriosissima cura, di avviare le cose
verso l'equità e la giustizia; sconoscer questo, o peggio
scambiare le parti, ci sembra una stranezza o una mistificazione.
Cosa faceva il Governo, cosa faceva Roma in questi conflitti? Roma
aveva in cima de' suoi pensieri non altro che «la superiorità
ecclesiastica»: nessun provvedimento troviamo da parte sua nemmeno
circa l'istituzione de' clerici selvaggi o coniugati evidentemente
ingiusta: le sue istruzioni al Nunzio circa i torti de' Vescovi
erano «et scusarli et difenderli sempre». Il Governo strepitava,
mandava hortatorie a' Vescovi ed ordini rigorosi a' suoi
ufficiali; ma la paura delle scomuniche, fino a quando l'abuso di
esse non ne scemò l'efficacia, tratteneva ognuno, e il Governo
medesimo in ultima analisi diveniva arrendevole e finiva poi
sempre per pentirsene, come si verificò p. es. nel fatto di
Marcantonio Capito. In conclusione né al Governo, né allo Xarava
che dipendeva dagli ordini del Governo, riusciva conveniente
mantener le brighe; e il Campanella in tutte queste brighe potè
scorgere i segni della vicina fine del mondo, ma dovè anche
scorgere che il Governo non era poi così forte come ne correva la
fama.
Passiamo a vedere le controversie ed inimicizie tra' privati, le
controversie tra' componenti la R.a Audienza, i banditi e
forgiudicati. In ogni tempo i municipii della Calabria e della più
gran parte del Regno, massime i più notevoli, erano stati
travagliati dalle fazioni per diverse cause; in generale pel
«possesso del reggimento» come allora si diceva, ossia per la
riuscita nelle elezioni municipali, talvolta per fatti
assolutamente privati, non esclusi quelli relativi agli amorazzi,
assai più sovente pel semplice gusto della prepotenza ed anche per
la necessità del soverchiare a fine di non essere soverchiati; da
ciò l'aggrupparsi, l'offendere, il menar le mani, il divenire
assassini e perfino predoni, anche quando si era già prima dato
prova di nobili istinti e di tutt'altro genere di vita. Egualmente
in questo si notava una recrudescenza, al tempo in cui il
Campanella tornava in Calabria e si riduceva a Stilo; la cosa è
provata da molti documenti che ne rimangono nell'Archivio di
Stato. Vedremo più in là le fazioni di Stilo: per ora vogliamo
dire che nella capitale e nella più considerevole città della
Calabria ultra, già capitale fino al 1592, in Catanzaro ed in
Reggio, fervevano le lotte in modo atroce, e romoreggiavano pure
in Cosenza, in Rogliano, in Cassano, principalmente in Rossano,
senza contare le terre minori. Anche qui citeremo i fatti del
1598-99 e di qualche altro anno successivo, per mostrare che il
calore di queste lotte non si estinse nemmeno con le peripezie
sofferte per la congiura. In Catanzaro si contrastavano da un
pezzo l'amministrazione municipale da un lato i Morano e d'altro
lato i Piterà aiutati dagli Spina, e questa lotta ebbe poi le sue
conseguenze nello sviluppo de' fatti della congiura, come non a
torto notò il Residente Veneto, sebbene vagamente, in una delle
relazioni inviate al suo Governo. Gio. Geronimo Morano, che
vedremo figurare nel modo più sinistro quando la congiura fu
scoverta, avea goduto lungamente i beneficii dell'amministrazione
municipale, traendone anche profitto col procedere nella qualità
di Sindaco, per parte della città, all'acquisto di una casa
appartenente a suo fratello Gio. Battista, destinata per residenza
del tribunale della R.a Audienza; il Vicerè non mancò di chiederne
spiegazioni, e furono fatti anche processi contro alcuni de'
Morano ed alcuni de' Piterà, per ridurli più facilmente alla pace
sotto cauzione, ma pur troppo senza successo; del resto non
potremmo in poche parole esporre le violenze dell'uno e dell'altro
gruppo di contendenti. Appunto nel 1598, l'elezione municipale in
Catanzaro era stata impossibile per le difficoltà e nullità poste
in campo da una delle fazioni, e dovè compiersi successivamente
«col braccio» ossia coll'intervento della R.a Audienza, che
incontrò pur essa talune difficoltà: per qualche tempo ancora le
elezioni non poterono farsi altrimenti, e gli Spina finirono poi
col venire a vie di fatto contro i Morano, e un Maurizio Spina
assaltò i figli di Gio. Geronimo e ne ferì uno nel braccio. In
Reggio il caso era anche più violento, ma per un fatto di onore
passato tra due primarie famiglie, i Del Fosso e i Serio, postisi
in armi coll'aiuto rispettivo dei Melissari e de' Monsolino, pe'
quali parteggiarono ancora variamente taluni de' Filocamo, de'
Laboccetta, de' Sagrignano, de' Baroni; da ciò il sorgere e
persistere di una quantità di banditi, l'intimazione di una grossa
sfida, l'uccisione di alcuni caporali incaricati della
carcerazione de' più riottosi, l'assassinio di fra Paolo Monsolino
cavaliere di Malta sugli scalini della Chiesa del Rosario, il
rifugio dei Melissari colpevoli in questa Chiesa, la loro
estrazione violenta da essa per parte degli ufficiali Regii, e i
soliti interminabili conflitti di giurisdizione coll'Arcivescovo,
onde l'Archivio di Stato e poi anche il Carteggio del Nunzio
forniscono del pari notizie moltissime. Sin dal 1596 Gaspare del
Fosso, figlio di Tommaso Sindaco de' nobili in Reggio, essendosi
vantato di aver goduta una Signora, a quanto sembra, de' Serii,
diè motivo all'inimicizia capitale tra le due famiglie e loro
parentele. Inutilmente fu nel 1597 mandato l'Auditore Riccardo per
la pacificazione; bisognò mandarvi nel 1598 l'Avvocato fiscale
Xarava, che catturò e pose sotto processo Gio. Paolo Melissari,
Geronimo Filocamo e Matteo Monsolino; non di meno, essendo liberi
Fabrizio del Fosso e Gio. Domenico e Geronimo Melissari fratelli
di Gio. Paolo, si preparò nel 1599 la sfida, con una grande
agitazione della città, sotto i capi Francesco Pesello e Domizio
Barone, sventata poi con la carcerazione di costoro; alcuni
omicidii seguirono tale carcerazione, e dovè essere inviato nel
1600 l'Auditore Barbuto per le debite inquisizioni, ma sempre
senza risultamento, sino a che non fu ucciso Paolo Monsolino ed
eseguita la cattura violenta de' Melissari uccisori. La lunga
durata di questa lotta, la partecipazione in essa d'individui
fatti venire dalla Sicilia, l'occupazione di più paesi vicini per
parte delle bande delle due fazioni, gli allarmi continui per le
offese che s'infliggevano, tennero veramente agitato il paese in
una zona ben più larga di quella di Reggio. Ricorderemo ancora,
perché da un certo lato connessa co' fatti della nostra
narrazione, la breve ma atroce lotta verificatasi in Cosenza tra
Maurizio Barracco e Ireneo Parisi, entrambi cavalieri di Malta
«potenti e di molto parentato»; il Barracco era anche persona
culta, come lo attestano le Commedie che di lui ci sono rimaste.
Appunto nel 1598, posero entrambi mano alla spada e non se ne sa
il motivo, ma intervennero subito alcuni cittadini, memori delle
gravi lotte tra' Parisi e i Cavalcanti che aveano già lungamente
travagliata la città, e li divisero; intervenne anche il Governo,
e potè avere nelle mani fra Maurizio Barracco ma non fra Ireneo
Parisi, che giunse a mettersi in campagna, e con un suo fratello
egualmente cavaliere, fra Pietro Antonio, diè principio alle
solite imprese. Non sappiamo in qual modo, ma sappiamo con
certezza che nel 1600 fra Maurizio Barracco era stato già ucciso,
e fu fatta grazia agli uccisori probabilmente sicarii, pe' meriti
acquistatisi da uno de' denunzianti della congiura. Infine
menzioneremo appena le lotte violentissime di Rogliano, che
fervevano appunto nel 1598 tra' Ricciulli e Lelio De Piro da una
parte, e Pietro Toscano, Giulio De Piro, Giovanni Stefano e Pietro
Arabia, e Desiderio Gio. Cotta dall'altra; dippiù quelle di
Cassano tra i Durabili, i Siena, i Paterini ed altri, nelle quali
allora si contavano già morti e feriti; da ultimo quelle di
Rossano tra i Toscano e gl'Interzato, divenute atroci per essere
stato Giulio Toscano ferito a morte da Scipione Interzato, e rese
in sèguito anche più gravi per l'uccisione di Fabrizio Toscano da
parte di fra Scipione Strambone, Gio. Vincenzo e Gio. Battista
Cito, uniti a fra Giuseppe, Scipione e Giulio Interzato. Di tutte
queste inimicizie si risentivano gravemente non solo le città, ma
anche le campagne, essendone una conseguenza delle più tristi
l'aumento de' banditi e non dell'infima classe: appunto nel 1598
il Vicerè riconosceva tale fatto, ed approvava che «saria de molto
proposito procurare de pacificare le inimicitie predette con
legarli de bona pleggeria»; ma questo precisamente non era così
facile, e potea far verificare anche le solite quistioni allorchè
si trattava, come spesso si trattava, di cavalieri di Malta. E
però, ad occasione delle inimicizie di Rossano, nello stesso anno
il Vicerè scriveva al Governatore di «non intromettersi nelle
paci».
Quanto alle lotte tra' componenti la R.a Audienza, ecco ciò che
possiamo dirne, con la scorta de' documenti da noi trovati. Era
Governatore della provincia di Calabria ultra D. Alonso De Roxas
de Anoya, che è stato detto pure De Roscias, De Roggias, De Rosas
e De Rojas, senza dubbio pel desiderio di riprodurre alla meglio
il suono ovvero la forma della chôla con cui scrivevasi il suo
cognome in castigliano; erano membri dell'Audienza, che egli
presedeva, gli Auditori Annibale David e Vincenzo Di Lega, i quali
principalmente figurano nelle cose del Campanella, ma anche
Antonio Santamaria, Gio. Lorenzo Martire, un Consaga, un Miranda,
i quali troviamo sparsamente nominati nelle scritture di quel
tempo; teneva l'Ufficio di Avvocato fiscale D. Luise Xarava, ed
aggiungiamo pure che funzionava da Segretario dell'Audienza
Guarino de Bernaudo, sostituto con pubblico istrumento a Camillo
Passalacqua che godeva la Segreteria di entrambe le provincie di
Calabria. D. Alonso de Roxas, sempre citato dal Campanella sotto
l'aspetto più favorevole, apparteneva alla prima nobiltà (vedremo
che la Viceregina Contessa di Lemos gli era parente), apparteneva
quindi al numero de' privilegiati che si facevano presto una
posizione. Nel 1594 lo troviamo provveduto dell'ufficio di
Capitano di Lanciano, con una condizione che basta essa sola a
faro intendere come agisse il Governo spagnuolo, vale a dire «non
obstante che non vaca, per ordine di sua Excellentia»; nel 1595 lo
troviamo Capitano di Cotrone. Ma nel 1598 dovè essere incaricato
interinalmente dell'ufficio di Governatore, Preside o Vicerè della
Calabria ultra, come allora anche si diceva magnificando ogni
cosa, in sostituzione di D. Francesco de Regina Carafa Conte di
Macchia; passato appunto in quell'anno dalla Calabria ultra a
governare la Calabria citra. Buona pasta d'uomo, amico del quieto
vivere e poco avveduto, non ismentì mai siffatte qualità in tutto
il tempo in cui rimase al governo della provincia, amareggiato
solamente dalle esorbitanze dell'avvocato fiscale Xarava, che egli
non poteva comportare, come non aveano egualmente potuto
comportarlo i suoi predecessori; del resto egli non dovea nemmeno
occuparsi della persecuzione de' banditi, essendo questa affidata
al Conte di Macchia che avea facoltà di attendervi in entrambe le
provincie di Calabria. D. Luise Xarava del Castillo, citato sempre
dal Campanella come un mostro, aveva qualità precisamente opposte
a quelle del De Roxas; molti documenti abbiamo trovati intorno a
lui nell'Archivio di Napoli, ma anche diverse sue lettere
autografe abbiamo trovate nell'Archivio di Firenze, essendosi lui
pure ingegnato di procurarsi le grazie del Gran Duca,
coll'offrirgli e fargli lungamente aspettare una tavola di diaspro
«una mesa de jaspe», trovata senza dubbio in Calabria ed ora forse
esistente tra quelle che si ammirano nel Palazzo Pitti. Granatese
di origine lo disse il Campanella nelle sue poesie, ma con ogni
probabilità per rilevarne «il moresco core»: ad ogni modo egli era
Avvocato fiscale in Calabria ultra già da alcuni anni, e molti
documenti ce lo mostrano soverchiatore e riottoso, non senza anche
una certa dose di avidità, ma al tempo medesimo operoso ed
energico, tanto che i Vicerè di quell'età non cessavano di dargli
commissioni scabrose nella provincia, sebbene dovessero poi quasi
sempre finire per dirigergli qualche rimprovero. Fin dal 1590, per
essere andato sopra una galeotta di D. Pietro De Leyva, generale
delle galere, senza la licenza del Governatore, egli si pose in
discordia con costui, e il Vicerè Conte di Miranda dovè
intervenire a biasimare l'uno e l'altro. Nel 1594 lo stesso Conte
di Miranda gli affidava «la visione delli conti delli sindici et
altri administratori del peculio dela università di Catanzaro» da
dieci anni in poi, e nel 1595 gli prorogò il termine assegnatogli
per tale commissione: naturalmente egli dovè così riuscire bene
accetto ad una e odioso a un'altra delle due fazioni che si
laceravano in Catanzaro. Il Vicerè Conte di Olivares, dal 1596 in
poi, gli affidò egualmente diverse missioni ed ebbe più volte a
mostrarsi dispiaciuto di lui pel suo carattere. I contrasti, i
diverbî, i soprusi da parte sua riescono abbastanza notevoli,
qualche volta rasentano perfino il comico, e gioverà averne
notizia, trattandosi di un individuo di tanto interesse per le
cose del Campanella. Nel marzo 1596 il Vicerè è costretto a
scrivere all'Audienza che faccia osservare all'Avvocato e al
Procuratore fiscale gli ordini che tengono: l'Avvocato maltrattava
il Procuratore, al punto che mentre costui se la passava con un
po' d'allegria in casa tra le persone di sua famiglia, essendo
l'ultima notte di carnevale, gli mandò un suo schiavo negro a
tirare molte sassate alla porta e alle finestre. Poco dopo, in
aprile, il Vicerè fa sapere all'Audienza di avere scritto
all'Avvocato, «da che il suo stile è di scomponersi con tutti li
officiali del tribunale» che tenga ogni buona corrispondenza col
Governatore e gli Auditori, avvertendo che essi debbono eseguire
il simile: infatti con sua lettera quasi contemporanea scrive
all'Avvocato, «semo stati informati che al spesso per l'ingiusti
termini di procedere che da voi si usano turbate la quiete di
questo tribunale discomponendovi tanto con il magnifico
governatore di quessa provintia quanto con li magnifici auditori,
non tenendo con essi la correspondentia che si ricerca et doveti,
volendo voi solo componer ogni cosa con extraordinaria authorità,
il che non possemo credere, che quando lo sapessimo di certo, non
mancariamo di fare contra di voi le debite provisioni che si
ricercano». Nella stessa data è costretto a scrivergli che non
faccia «tirare a costo del R.° fisco una piazza de algozino
ordinario, e cossi anco una piazza di 5 ducati il mese di soldato
di campagna da doi soi criati di casa»; e più tardi, in maggio,
dietro le istanze dell'Avvocato scrive al Governatore che gli
restituisca lo schiavo che si trova in suo potere, donde
apparirebbe che questo schiavo fosse il ministro delle prepotenze
dell'Avvocato. Verso lo stesso tempo vuol sapere dall'Avvocato
perché è partito dall'Audienza, malgrado l'ordine che nessuno
parta senza licenza scritta, e più tardi vuol sapere perché va
poche volte al tribunale; in sèguito lo minaccia perché non ha
eseguito gli ordini di tenere bona corrispondenza col Governatore,
e contemporaneamente inculca al Governatore che tenga bona
corrispondenza coll'Avvocato, altrimenti provvederà, notandogli
che una volta si è sdegnato con lui al punto di fargli minaccia di
volerlo carcerare; se non che è costretto a dimandare
all'Avvocato, come mai, dovendosi inviare un Commissario a
Policastro ed essendo stato scelto dal tribunale questo
Commissario, egli ne abbia poi inviato un altro. Intanto, mentre
gli si era ingiunto che non partisse dall'Audienza, accade un
brutto fatto in Cassano, e lo stesso Vicerè ve lo manda «malgrado
li precedenti ordini in contrario»; e negli anni seguenti lo manda
a Reggio pe' gravi trambusti suscitati dalle lotte tra i Melissari
e i Monsolino, ed egli carcera alcuni de' contendenti già
menzionati altrove, ma si trova che ha fatto bandi, abbreviato i
termini della forgiudica, promesso indulti, cose che nemmeno tutto
il tribunale dell'Audienza avea facoltà di fare senza un ordine
speciale, e quindi gli s'ingiunge di partire da Reggio e tornare
all'Audienza; non di meno egli non se ne cura, e si trova dippiù
che contro la volontà dell'Audienza ha fatto aprire le carceri,
estrarre un carcerato e consegnarlo allo Stratico di Messina che
lo reclamava, onde gli si ordina che lasci immediatamente Reggio e
torni all'Audienza. Abbiamo poi veduto come egli appunto venisse
mandato ad estrarre dalla Chiesa il diacono selvaggio Marcantonio
Capito, affrontando lo sdegno e la scomunica del terribile Vescovo
di Mileto; aggiungeremo che nel 1599 lo si trova mandato per un
altro affare scabroso a Tropea dove un dot.r Francesco Blanco
falso Commissario Regio con 34 soldati armati a modo di banditi
faceva le parti di un vero Commissario, ed egli giunge ad
arrestarne 21 col loro capo; di poi lo si trova colpito da
rimproveri, per essersi intromesso in un processo condotto dal
Capitano di S.ta Agata, arbitrandosi perfino di citare il Capitano
a comparire davanti a lui. Questa maniera di agire dello Xarava si
riscontra perfino negli anni posteriori, quando già il processo
della congiura era terminato ed egli era divenuto Consigliere; e
però deve dirsi che la prepotenza era nella natura sua, ma che
l'energia di cui si mostrava dotato faceva tollerare dal Governo i
suoi gravi difetti. Relativamente alla capacità, il Campanella,
nell'Informazione pubblicata dal Capialbi, lo dichiara un
ignorante in modo assoluto, «talmente che prese carcerato Gio.
Francesco Branca medico di Castrovillari, perché scrisse al
Campanella c'havea fatto un libro de adventu portentoso locustarum
in Italiam, pensandosi che locustae volesse in latino dir fuste di
Turchi». Forse, con la mente invasa dall'idea che ognuno tramasse
per la congiura, vide anche in questo caso un gergo, ma l'equivoco
sembra difficile, mentre non di rado venivano all'Audienza ordini
del Vicerè per «l'extirpatione de' brucholi»; piuttosto l'aver
solamente rilevata un'amicizia col Campanella lo decise per la
carcerazione del Branca, ma del rimanente poteva bene appartenere
a quella classe di spagnuoli che divoravano il Regno con l'aria di
sapientoni, e davano origine a quel titolo di dileggio tuttora
rimastovi de' «dottori della Salamanca». Certamente la qualità sua
più brutta era la prepotenza e la bramosia di valere più degli
altri: questa gli procurò l'avversione non solo di D. Alonso de
Roxas ma anche di tutti gli Auditori. Infatti verso la fine del
1598 si verificò questo caso singolare, che l'Audienza non permise
allo Xarava l'entrata nel tribunale ad esercitarvi il suo ufficio,
adducendo che egli trovavasi scomunicato dal Vescovo di Mileto, la
qual cosa era veramente accaduta già da qualche tempo: e il Vicerè
non approvò la condotta dell'Audienza, ed ordinò di non fare allo
Xarava un simile ostacolo, il quale si può comprendere solo
ammettendo che l'Audienza avesse voluto tener lontano quell'uomo
divenuto odioso per la sua prepotenza. Così la lotta tra'
componenti la R.a Audienza mantenevasi tra lo Xarava da una parte
e tutta l'Audienza dall'altra, e ad essa si appoggiavano anche le
inimicizie delle due fazioni di Catanzaro, dopochè lo Xarava avea
riveduto i conti dell'amministrazione municipale; né riesce
difficile intendere quanto in pari tempo l'andamento di tutta la
provincia dovesse risentirsi di un simile stato di cose.
Ci rimane a dire de' banditi e forgiudicati. Questa piaga già
antica, non curata mai efficacemente in tutto il Regno e massime
nella Calabria, presentava anch'essa una notevole recrudescenza,
principalmente per gli scoppi de' conflitti derivanti dalle
inimicizie private. Si era visto di molto peggio in passato, e si
ricordava p. es. la desolazione della città di Terranova, che non
si rialzò più mai dopo i conflitti de' banditi ingenerati dalle
inimicizie de' Marini co' Geronimi. Consalvo Marino, forgiudicato,
si era unito a Nino Martino de' Casali di Reggio (nome da doversi
tener presente per intendere un certo punto della Dichiarazione
del Campanella), e coll'adesione anche del nobile giovane Ferrante
Ruffo aveva assoldato fino a 300 banditi a piede e a cavallo,
aveva combattuto molto bene le milizie capitanate dal Conte di
Nicastro, era una prima volta penetrato nella città con uno
stratagemma, poi una seconda volta per sorpresa, mentre i
cittadini riuniti in Chiesa festeggiavano il SS. Sacramento, e vi
avea fatto uccidere barbaramente i suoi nemici; minacciò di
volervi tornare ancora una terza volta, e il Governatore non seppe
far di meglio che ordinare a tutti i cittadini di uscir fuori
dalla città e da' casali in un giorno che fu la Domenica delle
palme, e si sarebbe avuto questo spettacolo miserando, se nella
notte precedente uno de' medesimi seguaci di Consalvo non l'avesse
per carità di patria ucciso. Le inimicizie recavano sempre questa
grave conseguenza, l'aumento de' banditi, ed essendo divenute così
numerose nel tempo di cui trattiamo, i banditi erano numerosi
egualmente, non a grosse compagnie ma disseminati dovunque; del
resto e i conflitti giurisdizionali e le lotte tra' componenti la
R.a Audienza, col rilassamento degli ordini pubblici che n'era la
conseguenza inevitabile, facevano moltiplicare i delitti e con
essi i fuorusciti, che poi divenivano banditi e fuorgiudicati;
certo è che pure il Residente Veneto, con sua lettera del 9 giugno
1598, ebbe a partecipare al suo Governo questo aumento di
fuorusciti, e da tale testimonianza le affermazioni del Campanella
risultano indubitabilmente comprovate. La severità delle leggi,
spinta troppo facilmente a certi estremi dagli ordini Vicereali,
contribuiva essa pure all'aumento de' banditi. Purchè il delitto
fosse tale da recare la pena di morte, e la categoria di questi
delitti era allora larghissima, dietro una dispensa Vicereale
dalla procedura ordinaria i delinquenti venivano con un bando
citati a comparire sotto pena di forgiudica, essendo alle volte
abbreviati i termini della comparsa a un punto, che questa
diveniva perfino materialmente impossibile; rimasta quindi la
citazione senza effetto, i delinquenti risultavano colpiti dalla
forgiudica, cioè costituiti fuori ogni adito al giudizio, donde il
nome di banditi e forgiudicati. Vedremo più opportunamente qualche
altra particolarità di siffatta procedura, con tutte le sue
terribili conseguenze, allorchè tratteremo del processo per la
congiura del Campanella: qui dobbiamo dire che già da un pezzo
erano state date al Governatore Conte di Macchia le solite facoltà
straordinarie per la estirpazione de' fuorusciti, che basta
leggere per capire come le popolazioni dovessero sentirsi
malmenate più da' Commissionati contro i banditi che dai banditi
medesimi, e quindi dovessero divenire favorevoli più che ostili a'
banditi; ma si stimò necessario anche, a' primi del 1599,
concedere straordinariamente alla R.a Audienza per mesi sei, e
prorogare di poi ogni tre mesi «il rigoroso rimedio de abbreviare
il termine dela forgiudicatione» contro coloro i quali
commettessero omicidii proditorii mediante archibugiate. Intanto
specialmente pel ricovero nelle case de' clerici, nelle Chiese e
ne' conventi, i banditi e in gran parte anche i forgiudicati
potevano eludere le persecuzioni con bastante successo: i clerici,
che si rendeano colpevoli di queste «negoziazioni illecite»,
trattando o ricoverando i banditi in casa loro, abbiamo visto che
cadevano sotto la giurisdizione del Nunzio, e costui era troppo
lontano e disponeva di pochi mezzi per poter colpire dovunque e
colpir giusto; i preti e i frati, che li ricoveravano nelle Chiese
e ne' conventi, guadagnavano la benemerenza de' Vescovi, e spesso
pure qualche cosa di più. Potremmo riferire molti aneddoti intorno
al prezzo che non di rado costava a' banditi un tale ricovero, e
segnatamente intorno alla demoralizzazione dei frati, che ne'
conventi in ispecie rurali spingevano, aiutavano, ed anche
personalmente intervenivano alle escursioni predatorie de' banditi
ricoverati: ci ripugna il fare questa cronaca, la quale suol
chiamarsi scandalosa, unicamente dacchè, o per malizia o per
eccessivo zelo del bene, è piaciuto attribuire alla massa degli
ecclesiastici d'ogni sorta e d'ogni grado una maniera di sentire e
di vivere essenzialmente diversa da quella de' laici, una
singolare ed impossibile immunità da' vizi del proprio tempo.
Abbiamo visto che il Vescovo di Mileto procurava che ne' conventi
si fornisse il vitto a' banditi ricoverati e assediati, e il
Governo naturalmente se ne doleva: del pari si doleva che p. es.
in Rossano contumaci e delinquenti «indifferentemente si serveno
di tutte le ecclesie di detta città, et non solo ci habitano loro,
ma ci conducono le moglie et altre donne, et armati di arme
prohibite passeggiano per avanti le porte di dette ecclesie»; si
doleva che p. es. in Reggio, essendosi alcuni banditi per causa di
omicidio «andati a salvare dentro una ecclesia di detta città, et
havendoli posto le guardie attorno, il Rev.do in Christo padre
Arcivescovo non le ha voluto permettere se non per quaranta passi
attorno detta ecclesia». Il Carteggio del Nunzio Aldobrandini,
testimone non sospetto delle imprese de' frati in connivenza co'
banditi, ci mostra che fin dal 1595 il Governo avea dirette calde
istanze a Roma perché si facessero disabitare i conventi in
campagna, dando di essi una lunga lista molto istruttiva. Ma se ne
scrisse e riscrisse inutilmente in quell'anno ed anche nel 1596,
né si venne ad una conclusione prima del 7bre 1599, al tempo in
cui la congiura fu scoverta: allora soltanto si mandò da Roma un
ordine a' Prelati di non permettere che i malviventi e i
fuorusciti dimorassero nelle Chiese e ne' conventi, al quale
ordine successe di poi un Breve in regola, che prescriveva potersi
concedere a' ministri laici, non ostante la Bolla di Gregorio XIV,
il fare l'estrazione de' banditi dalle Chiese ed altri luoghi pii,
e ciò pel tempo di sei mesi, da prorogarsi quando ve ne fosse il
bisogno. Ed ecco qualche Prelato muovere il dubbio, se i banditi
che stavano già ricoverati da un pezzo dovessero pure concedersi
a' ministri laici, e poi, scorsi i sei mesi e non venuta la
proroga, si videro i frati «accettare ne' conventi più che mai i
banditi e i delinquenti con grave scandolo»; onde il Nunzio,
ricordando continuamente gli scandali, chiedeva con istanza la
proroga, e si noti, non per la nequizia intrinseca della cosa, ma
perché si stava «in pericolo di qualche stravaganza de' ministri
Regii che li caccino violentemente». Ma si vide venire la proroga
soltanto dopo un altro anno, e una nuova proroga farsi aspettare
ancora otto mesi, e sempre non tutti i Prelati impegnati ad
occuparsene con serietà, e in ispecie il Vescovo di Mileto
dichiarato «fiacco a risolversi» da D.a Girolama Colonna zia del
Duca di Monteleone, che si lagnava dei banditi cresciuti a
dismisura nello Stato suo.
Per tutti i fatti sinora esposti, nell'arrivare in Calabria, il
Campanella dovea naturalmente giudicare il Governo assai meno
forte di quanto pareva da lontano: ma bisogna aggiungervi ancora
un avvenimento, che egli non credè di dover menzionare nella sua
Narrazione, e che è ricordato da varii documenti di quel tempo.
Vogliamo dire la comparsa del Bassà Cicala con la flotta turca nel
golfo di Squillace il 18 7bre del 1598, la sua discesa appunto al
capo di Stilo per fare acqua, con la devastazione di molte vigne,
fienili e case lungo un buon tratto della costa, e naturalmente
anche con la presa di persone di que' luoghi; il suo
allontanamento con poca molestia avuta dalle milizie del Principe
di Squillace, ciò che strombazzavasi sempre quale disfatta de'
turchi; il suo arrivo al seno, o, come allora dicevasi, «fossa» di
S. Giovanni, solito suo luogo di fermata presso il Capo
Spartivento, col ritirarsi delle poche galere di Napoli e di
Sicilia che là si trovavano; il desiderio da lui mostrato di
vedere la madre dimorante in Messina, e l'adempimento di questo
suo desiderio che il Vicerè di Sicilia si affrettò a soddisfare.
Già prima, nel maggio 1595, alcune galeotte di Biserta aveano
fatta imboscata sotto Stilo, vi aveano preso il capitano di una
terra di quelle marine, il capitano anche del battaglione (milizia
provinciale) ed altri individui, guadagnando 8 mila scudi di
riscatto: ora il Cicala vi scendeva egualmente e non v'era chi gli
facesse opposizione; poi, mentre avea danneggiati luoghi soggetti
a Spagna, otteneva ciò che voleva da' Proconsoli spagnuoli e
ravvicinavasi alla madre conosciuta qual fervente cristiana. Chi
era questo Cicala? Se ne sono dette di molte intorno a lui, ed è
tempo di parlarne con la scorta de' documenti, che per verità non
mancano così negli Archivii come nelle Biblioteche; egli fu poi
nominato, e largamente nominato, nella congiura di Calabria,
laonde merita tutta la nostra attenzione.
Tra i moltissimi genovesi stabiliti nell'Italia meridionale vi
erano parecchi di cognome Cicala, ed alcuni di loro esercitavano
l'industria del corsaro. Al tempo del quale trattiamo l'esercitava
ancora un Edoardo Cicala, in ottime relazioni col Vicerè di
Napoli, come risulta da più documenti che si leggono nell'Archivio
di Stato: né sarà inutile conoscere che aveano legni in corso
anche taluni nobili, come la Sig.ra Girolama Colonna citata più
sopra, e il Marchese del Cirò di casa Spinelli, divenuto più tardi
Principe di Tarsia; straordinariamente poi anche le Corti de'
Vicerè, segnatamente le Viceregine con altri nobili ed impiegati
di palazzo, armavano qualche legno contribuendo «per carata»,
allorchè v'era speranza di ricco bottino. Il Carteggio del
Residente Veneto ne dà parecchie notizie, poichè la Serenissima,
in pace co' turchi, non vedeva punto bene questi corsari di tutti
gli altri Stati Cristiani, che turbavano profondamente il
commercio, davano motivo ad abusi e recriminazioni senza fine,
aizzavano i turchi alle rappresaglie se mai ve ne fosse stato
bisogno; d'altronde in ultima analisi ne pagavano poi la pena le
infelici popolazioni, abbandonate senza tutela, non essendovi
forze sufficienti a guardarle da' corsari turchi, che erano
moltissimi ed audacissimi. Forse dietro i richiami del Governo
Veneto, il Re di tempo in tempo mandava ordini di proibizione dei
legni corsari, e ce ne rimane tuttora qualcuno, press'a poco di
questi tempi, nell'Archivio di Stato: ma gli ordini non venivano
eseguiti, riuscendo tanto comodo il poter dare una prova di zelo
contro i nemici del nome Cristiano e fare un'eccellente
speculazione industriale. Come risulta dalle Relazioni degli
Ambasciatori Veneti, il padre del Bassà Cicala era appunto un
genovese stabilitosi in Messina, che «andava come corsaro
depredando ogni luogo con una galeotta, con la quale fu fatto
prigione finalmente da' turchi col figliuolo, che per esser
giovinetto fu accettato in serraglio e con violenza fatto turco»;
e questo accadde nella terribile ripresa dell'isola di Gerbi
presso Tunisi, il 1560. Nessuna delle Relazioni Venete ne fornisce
il nome; ma documenti da noi rinvenuti nell'Archivio di Stato,
riferibili a un altro figliuolo suo del quale parleremo or ora, ci
fanno conoscere che dovea chiamarsi Visconte Cicala. Tra le tante
sue depredazioni vi era stata quella (se la memoria non ci
tradisce) di Castelnuovo alle bocche di Cattaro, sull'estremo
confine della Turchia, dove fece schiava la figlia di un Bey,
avvenente fanciulla, che educò al Cristianesimo dandole il nome di
Lucrezia, e tolse di poi in moglie avendone molti figli; un primo
a nome Filippo, un secondo a nome Scipione che divenne poi il
Bassà Cicala o Sinan Bassà, un terzo a nome Carlo, inoltre varie
figliuole, tuttora, al tempo di cui trattiamo, dimoranti in
Messina. Pe' meriti del padre, Filippo ebbe da Spagna una pensione
di D.i 1100, pagabili, al solito, dalle casse di Napoli benchè
fosse siciliano, e per tale motivo trovasi più volte nelle
scritture dell'Archivio di Stato con la designazione di «Filippo
Cicala del mag.co Visconte o «del q.m Visconte in Messina»;
possiamo aggiungere che appunto nel 1598 egli morì, lasciando un
figliuolo chiamato Visconte come l'avo. Carlo ottenne egualmente
da Spagna una pensione di duc.ti 500, come pure il titolo di Conte
Palatino dall'Imperatore, e il Bassà suo fratello si era impegnato
di fargli avere dal Sultano il Ducato di Nixia o dell'Arcipelago,
già goduto da Giovanni Miques ebreo portoghese favorito (la
signoria di Nixia e di 12 isole, Nasso, Andro, Paro, Antiparo etc.
etc. col pagamento di un tributo), onde l'avea fatto venire a
Costantinopoli sin dal 1594; ma vediamo la carriera appunto di
Scipione, che seppe giungere fra i turchi a' primi gradi
dell'Impero.
Aveva Scipione Cicala 16 anni, allorchè fu preso da' turchi
insieme col padre: costui per danaro potè riscattarsi, ma
Scipione, di bella indole, piacque al Padischah e fu trattenuto
nel serraglio. Non appena uscito dal serraglio andò alla guerra in
Persia, e vi compì fortunatissime imprese, per valore ed ardire
della persona, con inganni e stratagemmi, più che per giudizio e
prudenza: dopo la morte di Osman divise con Fehrad, che ne divenne
geloso, il comando dell'esercito contro i persiani. Sposò dapprima
una, e poi, morta questa, ancora un'altra figlia di Rusten Bassà,
la cui moglie era figlia del Sultano Suliman, molto influente col
Serraglio, e ne ebbe due figliuole ed un figliuolo a nome Corcut.
Fu Capudan nel 1581, lungamente governatore di Babilonia, poi di
Diarbech (1590), poi Beglierbey dell'Arcipelago e Capitano del
mare (1594), nel quale ufficio non godeva molta riputazione, non
essendovisi mai esercitato. Si trovava realmente in questo tempo
in Costantinopoli un capitano calabrese, che avea preso il nome di
Giafer ed era «il più intendente» nelle cose del mare, come ne fa
fede il Bailo Zane nella sua relazione; tuttavia il Cicala era
sempre ritenuto pieno di ardire e di risorse; d'altronde gli fu
posto a fianco quasi come guida e luogotenente, facendolo venire
di Barberia, Arnaut Memi corsaro famoso e già vecchio, il cui nome
vedremo figurare anche nella narrazione delle cose del Campanella.
Ed appunto nel d.to anno 1594, il Cicala, venuto nella fossa di S.
Giovanni con 95 galere, saccheggiò Reggio co' suoi casali, e poi
Vibona, Catona, Condeianni, S. Nicola, Ardore, la Motta Bovalina,
Cirò, Soverato, Montepavone, quattordici terre in tutto,
distruggendo non solo le immagini de' Santi, le campane, le
Chiese, le ossa di Mons.r Gaspare Ricciulli stimato Santo, le
torri di guardia, le superbe stalle che il Governo teneva in
Bovalina per le razze, ma ancora gli aranceti, gli oliveti, le
vigne, le moltissime piantagioni di gelsi che servivano
all'industria della seta tanto diffusa in quella regione. Era
stato mandato contro di lui Carlo Spinelli, che dovrà pure
figurare moltissimo nella nostra narrazione, e costui, senza forze
sufficienti, non seppe far altro che ordinare la ritirata anche
de' terrazzani ne' luoghi alpestri, lasciando al Cicala tutto
l'agio di devastare il paese a suo talento. Ma le necessità della
guerra lo fecero richiamare all'esercito, e nel 1596 fu l'eroe di
quella battaglia di Agria che lo innalzò all'apice della sua
gloria. Come è noto, l'Arciduca Massimiliano con Schvarzenberg e
Tauffenbach, col Principe di Transilvania e Palfy, a capo di un
grosso esercito composto di alemanni, ungheresi ed italiani,
sbaragliò i turchi in modo da penetrare fin nel loro campo, e il
Cicala, comandante della retroguardia, dovè avvertire il sultano
Mehemet III che si salvasse, come difatti si salvò fuggendo co'
suoi Spahi fino a Solnoc e Buda: ma poco dopo, calcolando che i
cristiani dovessero trovarsi occupati a svaligiare le tende, il
Cicala li sorprese e ne fece un macello, impadronendosi anche di
tutta l'artiglieria e del bagaglio; morirono così 40 capi
principali e tra essi i due Duchi di Holstein, morirono quasi
tutti gl'italiani co' Conti Pietro di Collalto e Giulio Cesare
Strasoldo, si salvò a stento l'Arciduca Massimiliano a Cassovia e
il Principe di Transilvania a Tokai. All'annunzio inaspettato di
sì gran vittoria, come scrisse il Bailo a Venezia, «il Sig.°r in
premio della virtù e valor del Cigala in quella fattione si cacciò
dal tulpante un pennacchio e glie lo diede, creandolo gran Visir;
la Sultana ne fu turbatissima» (la Sultana madre protettrice del
Visir Hibraim). Poco dopo fu reintegrato Hibraim, «Cigala fu
lasciato in Adrianopoli, il Sig.°r era malinconico»; ma il Cigala
fece dire da parte sua al Sig.°r, che «se voleva esser Re et
Imperatore, non doveva ascoltar la madre», e la Sultana in gran
collera lo fece relegare ad Erzerum, e lo minacciò anche di farlo
strangolare. Passò così tutto l'anno 1597, ma in aprile del 1598
«il Cigala fu dichiarato Capitano del mare, la Sultana madre del
Sig.°r minacciata di relegazione in Amasia o ritiro nel
serraglio». Quest'ufficio era molto desiderato dal Cicala, tanto
che lo si vide più tardi rifiutare il Visirato per rimanere nel
Capitanato del mare, sia perché vi godeva maggior riposo, avendo
già 54 anni di età passati in molti travagli, sia perché gli
fruttava un 40 mila zecchini l'anno, ed egli avea bisogno di
conciliarsi co' donativi il favore del Serraglio. I Baili Veneti
non lo vedevano bene, poichè non era punto affezionato a Venezia,
«dicendo, benchè nato in Messina, di discender da Genova, patria
naturalmente poco amica a questa Ser.ma Republica»; eppure il solo
suo amico fidato era il Capi-Agà, veneziano rinnegato, poichè
veneziani, genovesi, corsi, napoletani ed anche calabresi in buon
numero occupavano allora grossi ufficii nell'impero ottomano. I
Baili lo dichiararono sempre sprezzatore di chicchessia, arrogante
perfino col Sultano, bugiardo, ingannatore, avaro; tuttavia non
mancarono mai di riconoscere in lui certe grandi qualità, e non
lasciarono mai nulla intentato per renderselo propizio, come per
ispiarne ogni passo. Già nella condotta de' Veneti in
Costantinopoli, quale risulta dal Carteggio de' Baili, non si
saprebbe cosa ammirare di più, se la pieghevolezza e la pazienza,
o l'astuzia e l'impiego opportuno di tutti i mezzi atti
all'acquisto di buone intelligenze e buone informazioni; oltre i
zecchini, erano sempre distribuiti con giudizio rasi, velluti,
cristalli, orologi, e verso il Cicala Capitano del mare si usava
una larghezza anche maggiore. La Repubblica gli regalava 2 mila
zecchini ogni anno, perché, dicevasi, tenea sgombro il mare da'
pirati, e quando giungeva a Corfù e Zante, gli faceva dare non
solo il presente in moneta ma anche ciò che poteva piacergli in
vettovaglie fresche; un presente gli era del pari dato dalle navi
veneziane, dovunque egli ne incontrasse nelle sue escursioni, e la
Repubblica non ci trovava a ridire. In Costantinopoli poi, alla
sua partenza come al suo arrivo, visite, complimenti e regali. Si
compiaceva di pitture, e il Bailo gli manda miniature; altra volta
gli manda lastre di vetro, carte di cosmografia, libri di storia,
«per raddolcirne l'animo»; altra volta egli stesso chiede un
orologio da tavola, «di quelli che battono forte»; la moglie,
guastatosi un orologio, lo manda a casa del Bailo per farlo
accomodare, e il Bailo le compiace e ne fa sempre relazione a
Venezia. Ma «non legge prontamente franco (int. italiano), e si
«fa leggere le lettere da persone che l'intendono», e il Bailo per
le sue vie coperte giunge ad avere da queste persone copia delle
lettere a misura che arrivano dall'Italia e le trasmette a
Venezia; in tal guisa si hanno le copie delle lettere di Carlo suo
fratello e diverse piccanti informazioni circa l'affare del Ducato
di Nixia, che al Papa, alla Spagna, a' Vicerè di Napoli e di
Sicilia parve una bella occasione per avere in mezzo a' turchi un
uomo devoto a' cristiani, mentre al Bassà Cicala era parsa una
bella occasione per attirare il fratello e la vecchia madre alla
religione musulmana. Egualmente, dentro l'arsenale di
Costantinopoli e a bordo delle galere che uscivano nelle
escursioni annuali, sempre che poteva, il Bailo teneva qualche
uomo di sua fiducia, il quale in determinate circostanze ed al
ritorno dalle escursioni era interrogato in forma legale con
giuramento, e la copia dell'interrogatorio veniva trasmessa in
cifra, al pari di tutta l'enorme corrispondenza, a Venezia.
Come dicevamo, nell'estate del 1598 il Bassà Cicala fece la sua
escursione con la flotta venendo in Calabria al capo di Stilo. Il
Carteggio del Bailo da Costantinopoli c'informa che l'8 agosto era
partito con 47 galere munite di zappe e scale, aumentate poi a 50
e travagliate durante il viaggio dalla peste; la quale circostanza
forse eccitò tanto maggiormente nel Bassà il desiderio di rivedere
dopo tanti anni la vecchia madre. Il Carteggio del Residente in
Napoli c'informa, che giunto nel golfo di Squillace con 48 galere
e 7 galeotte, fece il 19 7bre sbarcare al capo di Stilo gli uomini
di tre sole galere, e che il 20 a tre ore di mattino ripartì
lasciando anche le tracce del suo passaggio nelle coste della
Roccella, Gerace, Condeianni e Bianco; quindi, non senza pericolo
pel forte vento, penetrò nella fossa di S. Giovanni, dove si
trovavano 6 galere di Sicilia e 6 di Napoli, le quali, tirati
alcuni colpi di cannone, cedendo al numero si ritirarono a
Messina. Il Duca di Maqueda Vicerè di Sicilia aveva già ordinato
in Messina che niuno uscisse dalla città, pena la forca, temendo
intelligenze co' turchi; in Reggio poi la guarnigione spagnuola,
poco prima rinforzata con 600 uomini, non fece che continui spari
di artiglieria, pretendendo che così il Cicala non sarebbe
sbarcato. Ed ecco come il Residente Veneto riferì al Ser.mo
Principe il sèguito dell'avvenimento: «dalla fossa di S. Giovanni
Cigala il 23 espedì un christiano a Messina con lettere sue al V.
Re e alla sua propria madre, dimandando di vederla, che si faccia
riscatto di schiavi et bazaro, come V. Ser.tà intenderà
distintamente dalle copie che saranno in queste: havendosi poi il
24 esseguito il mandar à Messina il figlio del Cigala con una
galea per ostaggio, et la madre à lui con la galea General di
Napoli, ciò è fino a Rigio, et di là con filuche fino all'armata,
dove si fermò poche ore et ritornò piena di lagrime et di
donativi, etiandio di qualche denaro non solo dal figliolo ma da
tutti i capi di galea, et di militia, che honororono nella persona
di lei il Bassà secondo l'usanza turca. Dicevasi che il giorno
sequente partiriano per levante 14 galee con infermi, et che il
Bassà col rimanente passava in Barbaria» etc.; (continua
annunziando che Reggio 13 volte arsa ed afflitta da' turchi
speravasi questa volta rimarrebbe illesa; dà quindi le copie delle
lettere sud.te «tradotte dal turchesco»). Così fin d'allora le
lettere scambiate in tale circostanza furono immediatamente note;
e basta dire che le troviamo perfino negli Avvisi ossia ne'
Giornali manoscritti del tempo; le troviamo pure stampate più
tardi nel Glorioso trionfo di Paolo Gualtieri, ma sfuggite a tutti
coloro i quali si sono occupati del Bassà Cicala a proposito del
Campanella. Ecco poi le ulteriori notizie circa il colloquio tra
il Bassà e la madre riferite dallo stesso Residente: «Il Cigala
donò alla madre 2 mila cechini (sic) et la richiese di ricordarsi
d'esser nata turca, ed a dargli come madre la benedittione del
Profeta, et ella costantemente negò di farlo dicendo ch'essendo
lui maledetto da Dio non poteva giovargli la benedittion di
alcun'altro, ben promettendogli di pregar la divina M.tà fino
all'ultimo sospiro della morte che à lui faccia quella gratia che
hà fatto ad essa di conoscer la vera fede di Giesù christo, nella
quale anch'essa con più ragione gli ricordava che lui era nato. Et
viene affermato in lettere di persone di molto conto, ch'egli non
lasciò nel spatio che furono insieme di accompagnar le lagrime
della madre con qualche tenerezza». Il Cicala non tardò a
partirsene senza fare altri danni in Calabria: ne fece bensì a
Malta, sbarcando con 2 mila uomini in Gozo, e poi se ne andò alla
Barberia, dove si trattenne costruendo un forte in Porto-farina;
quindi si ritirò a Costantinopoli.
Un avvenimento di questa natura non potè non fare una grande
impressione sul Campanella. Vedremo che tra' diversi presagi, sui
quali egli allora rivolgeva la sua attenzione, vi era quello del
medico ed astrologo M.° Antonio Arquato, che recava doversi
l'Impero ottomano dividere in due parti, una delle quali si
sarebbe convertita al Cristianesimo ed avrebbe combattuto l'altra:
forse nella visita del Cicala alla madre egli intravvide che il
presagio dovea verificarsi. All'opposto, come abbiamo detto, il
Cicala agiva nel senso di condurre il fratello e la madre
all'islamismo; né le sue azioni erano meglio giudicate presso i
musulmani. Sappiamo che il Muftì, divenutogli nemico, enumerava
diverse sue colpe; la principale fra queste era, che la prima
volta uscito fosse andato a prendere il fratello per condurlo a
Costantinopoli, ed andato in sèguito a visitare la madre ed
avutala sulla galera, non si fosse curato di «liberarla di
cristianità», per la qual cosa aveva offeso Dio e doveva
riportarne gastigo. Ad ogni modo poi il Campanella non poteva non
vedere in tutto ciò l'insigne debolezza del Governo, il quale non
era in grado di opporsi alle imprese del Cicala, lasciava che
devastasse il paese, e invece di combatterlo lo compiaceva nei
suoi desiderii. - Pertanto verificavasi ancora un altro
avvenimento degno del pari di essere ricordato. Il 30 7bre si
conosceva in Napoli che al Re di Spagna era stata aperta una
postema al petto, e se ne attendeva la prossima fine; l'8 8bre si
annunziava che era morto. Al temuto Filippo II succedeva un
Principe debole, e già, mentre ascendeva al trono, poco stimato:
il fatto non era di lieve importanza; gl'insofferenti del giogo
spagnuolo aveano motivo di rallegrarsi e di trarne i migliori
augurii.
Ma è tempo di vedere la vita del Campanella in Stilo, ciò che egli
vi diceva e faceva.
Il convento di S.ta Maria di Gesù, dove egli avea stanza, era un
piccolo convento, annesso ad una Chiesetta, e rappresentava appena
un Vicariato. Poteva contenere soltanto tre o quattro sacerdoti ed
un laico assistente: allorchè vi giunse il Campanella, avea
l'ufficio di Vicario fra Simone della Motta Placanica; i sudditi
poi variavano spesso. Oltre il Pizzoni e il Lauriana avventizii,
vi erano un fra Domenico di Riaci e un fra Domenico Petrolo di
Stignano, il quale ultimo era veramente assegnato a Cosenza ma
deputato a Stilo, e si rimaneva volentieri a casa sua in Stignano;
sappiamo per altro che dopo la venuta del Campanella dimorò nel
convento dal Natale al carnevale, per tutto l'inverno successivo e
poi di nuovo più tardi, ma anche allora temporaneamente. In
ottobre venne a starvi fra Pietro Presterà di Stilo, che vi dimorò
sempre, e nel Capitolo tenuto in maggio dell'anno successivo fu
creato Vicario del convento in luogo di fra Simone; poi vi venne
anche un fra Gio. Battista di Placanica, che vi rimase solo per
tre mesi, dal febbraio all'aprile. Il Campanella si strinse
specialmente a fra Pietro di Stilo sua vecchia conoscenza, e a fra
Domenico di Stignano proveniente dal luogo in cui dimorava la
propria famiglia. Fra Domenico era stato novizio in Lombardia ed
avea dimorato in Milano, mentre eravi pure un Padre Gonsales, che
incontreremo nel corso di questa narrazione: estremamente
impressionabile, ed anche manesco, avea bastonato alcuni frati ed
era stato punito per tale mancanza, ma non avea fatto parlare di
sè per altre cose. Quantunque già sacerdote e predicatore da due
anni, era tuttora «studente formale» com'egli medesimo dichiarò, e
seguì un corso di filosofia che il Campanella si fece a dettare in
Stilo: segnatamente per tale circostanza venne a trovarsi in una
certa intimità col Campanella, e quindi lo vedremo compagno di fra
Tommaso ne' suoi travagli, testimone importante ma non sempre
fedele, massimamente per la sua grande impressionabilità, rovina
della causa di fra Tommaso per vigliaccheria, come ebbe a dirlo
fra Pietro di Stilo. Quanto a fra Pietro, l'abbiamo già veduto
condiscepolo ed amico del Campanella fin dagli anni più teneri, e
dobbiamo aggiungere che fu con lui in familiarità sino a che vestì
l'abito di religioso; di poi non ebbe più occasione di vederlo,
eccettochè per circa due mesi in Cosenza nel 1588. Avea poco
progredito negli studii, ma erasi mantenuto ne' buoni costumi e si
distingueva tanto per l'ottimo cuore, quanto per una grande
prudenza e un senso pratico squisito, che lo faceva di rado
fallire nella giusta estimazione degli uomini e delle cose.
Riconoscente al Pizzoni già suo lettore, ossequente al Polistina
Provinciale, non aveva mai avuto simpatia per fra Dionisio,
massime perché lo sapea proclive a' risentimenti, ed abituato a'
discorsi più osceni: era stato anch'egli assegnato a Nicastro
mentre fra Dionisio vi tenea l'ufficio di Priore, ma non volle
andarvi e non si diè pace finchè non s'ebbe procurata un'altra
assegnazione. Fu pel Campanella un amico tenero, disinteressato,
costante; può dirsi essere stata quest'amicizia la cagione sola
delle atroci sciagure che patì, e non di meno la mantenne sempre
ed efficacemente; in somma vedremo in lui una simpatica e cara
figura tra molta bordaglia.
Le occupazioni del Campanella nel convento di Stilo furono le sue
solite; dar letture, specialmente di filosofia, e scrivere libri;
ma oltracciò egli adempiva assiduamente a' suoi doveri di buon
religioso, come fu poi attestato da frati non sospetti e da altre
persone di Stilo che ne furono interrogate. Cominciando da
quest'ultimo punto, dobbiamo dire assodato che recitava l'officio
quotidianamente, talvolta insieme con fra Pietro di Stilo e con
fra Domenico di Stignano; assisteva al coro, e solo si notava che
«stava astratto», celebrava la Messa e «tutti l'ascoltavano
volentieri» quantunque conoscessero che era stato inquisito dal
S.to Officio; avea ricevuto dal Provinciale la licenza di
predicare (ciò che conferma non trovarsi per penitenza a Stilo), e
dall'altare «stando sopra una seggia... predicava cattolicamente,
che tutto Stilo l'andava a udire, e diceva bellissime cose
predicando l'Evangelio de verbo ad verbum». In somma dimostrava
buona vita e «passava per uomo onesto», siccome del rimanente
nessuno pose mai in dubbio anche pe' tempi anteriori trascorsi in
Calabria, ne' quali, eccetto l'incidente dell'Ebreo, non si citò
alcuno scandalo da lui dato. Fra i tanti atroci accusatori venuti
a galla in sèguito, si trovò appena un solo individuo, il quale
pel tempo cui siamo pervenuti depose dietro una voce incerta che
egli, insieme con altri, avesse «fatto il crescite» con una certa
Giulia nella propria cella; fra Pietro di Stilo poi affermò
essersi detto che avea per innamorata una sorella di fra Domenico
di Stignano ed avea peccato con lei, e perciò costui eragli nemico
ed avea cercato di farlo ammazzare; ma senza alcun dubbio fra
Pietro pose innanzi questa frottola per tentare di far nascere un
argomento giuridico d'inimicizia, capace d'invalidare le gravi
deposizioni di fra Domenico a carico del Campanella. Bisogna a
tutto ciò aggiungere che il Campanella, col suo predicare, aveva
in mente pure di eccitare il popolo a costruire pel suo convento
una degna Chiesa, e giunse a scavarne le fondamenta. Nelle Difese,
che ebbe a scrivere ad occasione del suo processo, egli addusse
questo fatto in prova della sua pietà, e vedremo che vi alludeva
pure quando nel carcere mostravasi pazzo e sosteneva i tormenti,
gridando che avea fatto disegnare un convento in Stilo, un
convento di S.to Stefano con tre monaci, la qual cosa possiamo
bene intendere, dopochè il Capialbi ci ha fatto sapere che il
convento di S. Maria di Gesù era stato fabbricato abusivamente nel
territorio de' Certosini di S. Maria della Torre, e i Domenicani,
rimasti soccombenti in una lite, furono abilitati da' Certosini a
dimorarvi, ma riconoscendo il dominio loro e tenendo dipinte sulla
porta del convento le immagini de' protettori de' Certosini S.
Stefano e S. Brunone.
Quanto alle letture, occupazione da lui sempre amata, diede nella
propria cella letture di filosofia, e ne profittarono, oltre a fra
Domenico di Stignano pel tempo in cui dimorò nel convento, diversi
individui di Stilo, tra gli altri Giulio Contestabile e Fulvio Vua
assiduamente, e di tempo in tempo Gio. Gregorio Presinace, che
trovasi più spesso detto Prestinace, suo stretto amico, dippiù
alcuni giovani venuti da' paesi vicini, come i due fratelli Jacopo
e Ferrante Moretti di Terranova. Tutti costoro si trovarono di poi
involti nelle sventure del Campanella, e bisogna fin d'ora
attendere a ricordarne i nomi.
Quanto alle opere, abbiamo per questo periodo un garbuglio molto
difficile ad essere districato. La notizia delle opere scritte in
Stilo nella fine del 1598 e parte del 1599, può rilevarsi da
quattro fonti principali che per ordine di data sarebbero: le due
Difese composte durante il processo (1600-601), la Lettera latina
al Papa e Cardinali pubblicata dal Centofanti (1607), la
Narrazione ed Informazione pubblicate dal Capialbi (1620), infine
il Syntagma (redatto nel 1631 e pubblicato nel 1642); inoltre può
anche fornire un po' di luce qualche circostanza inserta in talune
delle opere medesime giunte sino a noi. Ma i fonti suddetti sono
discordanti, e la qualche circostanza inserta nelle opere potrebbe
rappresentare una interpolazione consecutiva; giacchè per
lunghissimo tempo il Campanella ebbe bisogno di dimostrare che in
Stilo era occupato a edificare, non a distruggere, in fatto di
Stato e di Chiesa, e forse taluna delle opere fu da lui assegnata
a questo periodo mentre non vi apparteneva. Diremo di un tratto
che per quanto possiamo giudicarne, in Stilo, nel periodo sopra
indicato, certamente egli compose una Tragedia secondo i principii
della sua poetica, intitolata Maria Regina di Scozia, ed ancora un
libro De Auxiliis contra Molinam pro Thomistis, aggiuntovi un
trattato De Episcopo; con ogni probabilità compose inoltre il
libro Della Monarchia di Spagna, e dippiù i Segnali della morte
del mondo, che poi furono rifatti più volte e dati sotto il titolo
di Articuli prophetales. La Tragedia nella 1.a Difesa si dice
conosciuta in Stilo ed anche dal Principe della Roccella, che
vedremo dapprima amico e più tardi persecutore del nostro
filosofo; nell'Informazione poi, e del pari nel Syntagma, si dice
esplicitamente composta in Stilo. Il libro De Auxiliis, col
trattato De Episcopo, non si trova registrato nelle Difese, e
questo dà un poco a pensare, ma lo si trova nella Lettera al Papa
e Cardinali, dove si dichiara che componevasi di 150 articoli; lo
si trova inoltre nell'Informazione, dove si aggiunge che fu
scritto ad istanza del Commissario del S.to Officio di Roma, cioè
del Tragagliolo, ed ancora nel Syntagma, dove è affermato, come
negli altri fonti anzidetti, che fu composto in Stilo; solamente
in entrambi questi due ultimi fonti non si dice nulla del trattato
De Episcopo. Finquì non c'è alcuna obbiezione da fare: bisogna
pertanto aggiungere che questi libri andarono poi perduti quando
il Campanella fu catturato, ne mai più si è avuta finoggi notizia
di essi. - Relativamente poi alla Monarchia di Spagna, di tanto
maggiore importanza pel Nostro argomento, essa si trova registrata
nelle Difese due volte, ma con un'aggiunta autografa, essendo
stata taciuta quando le Difese furono scritte, e si trova
registrata al sèguito del libro De Regimine ecclesiae, che è dato
siccome scritto in Stilo, mentre sappiamo da altri fonti essere
stato scritto in Padova, esserne stata mandata copia a Mario del
Tufo, ed esserne stato poi perduto l'originale in Calabria; questo
dà motivo di pensare che la Monarchia abbia potuto essere scritta
nel carcere medesimo, bensì durante il 2.° semestre del 1600 e 1.°
del 1601, pe' gravissimi bisogni della causa. D'altra parte la si
trova registrata anche nell'Informazione siccome scritta in Stilo,
con la particolarità che fu scritta ad istanza del Reggente
Marthos Gorostiola, Biscaino, protettore del filosofo; frattanto
nel Syntagma la si trova citata tra i libri composti nel carcere,
ma dopo le tre ultime parti della Filosofia reale, la qual cosa
non può assolutamente stare, giacchè vedremo in modo irrecusabile
che alle dette tre parti della Filosofia fu posto mano dopo
l'agosto 1601, mentre l'aggiunta della Monarchia nelle Difese era
stata già fatta nel giugno 1601. Ben si rileva che alle
affermazioni del Syntagma si può prestar fede assai meno che a
quelle di qualunque altro fonte, ed anzi, per le troppe
inesattezze che vi sono incorse, non si può prestar fede in modo
alcuno. Ma il garbuglio riesce pur sempre difficilmente
districabile, molto più perché nelle Difese dicesi la Monarchia
scritta «ad instantiam praetoris», termine vago, che potrebbe
indicare il Preside della provincia D. Alonso De Roxas ed anche il
Capitano di Stilo, mentre dopo tale espressione il Campanella si
dice «praetori hispano amicissimus, et gubernatoribus provintiae,
qui eum ad praedicandum rogavit semper»; intanto nelle copie
manoscritte della Monarchia, che tuttora esistono in buon numero,
alle volte si trova citato semplicemente un «Sig. D. Alonso» a
richiesta del quale il libro sarebbe stato scritto ed al quale
l'autore l'avrebbe indirizzato dalla sua «celletta», dove si
trovava uscito dall'infermità e da dieci anni di travagli, altre
volte invece si trova ampiamente citato il «sig.r Reggente Marthos
Gorostiola» nelle medesime circostanze, citato il «conventino di
Stilo», il «Monasterio di Santa Maria di Giesù», dal quale
l'autore avrebbe mandato il libro al Marthos, con la data iniziale
e finale della composizione «15 di Xbre» e «31 di Xbre 1598». Non
volendo intralciare ancora di più la narrazione nostra con
altrettali minute disquisizioni, ci limitiamo a dire che si può
ritenere essere stata la Monarchia di Spagna scritta veramente in
Stilo oltrechè inviata confidenzialmente a D. Alonso de Roxas, e
forse per covrire ciò che s'intendeva di fare («ad malum tegendum»
come nelle Difese il Campanella mostra di prevedere che si sarebbe
pensato circa le cose da lui scritte e dette in favore di Spagna);
esser stata poi rifatta nel carcere durante il 2.° semestre del
1600 e 1.° del 1601, dopochè se n'era perduta la prima
composizione in Calabria al momento della cattura, col confuso
indirizzo al Sig.r D. Alonso, dovendo l'autore guardarsi dal
mettere innanzi D. Alonso De Roxas, cui si era attribuita non la
connivenza, ma la tolleranza de' maneggi per la congiura; essere
stato da ultimo, con una interpolaziene posteriore, sempre pe'
bisogni della causa, volendo eliminare affatto la reminiscenza di
D. Alonso De Roxas e chiarire anche meglio le circostanze
convenienti, apposto il nome del Reggente Marthos Gorostiola con
tutte le particolarità suddette, e ciò dopochè il Marthos era
trapassato, mentre si conosce che morì alla fine di gennaio 1601.
Ma ciò che più c'importa si è il notare come per la Monarchia di
Spagna non si possa stabilire altra data che quella o della fine
del 1598, o del 2.° semestre del 1600, del tempo cioè nel quale o
si meditava la congiura, o si dovea dimostrare ad ogni costo che
non c'era stata congiura; e da ciò segue che precisamente nella
forma in cui essa è giunta fino a noi, non si possa ritenere
l'espressione certa degl'intimi convincimenti dell'autore, ma
piuttosto l'espressione delle necessità supreme che stringevano
l'autore da ogni lato. Sotto questo punto di luce, che ci sembra
tanto più contemplabile dietro la nozione vera della data del
libro, noi vorremmo che fosse considerata la Monarchia di Spagna
da coloro i quali attendono a ricercare le dottrine del
Campanella, non potendosi ammettere in alcun modo che essa sia
stata scritta dieci anni dopo la carcerazione, cioè nel 1609, come
è stato finoggi erroneamente ritenuto. Da ultimo, circa il libro
de' Segnali della morte del mondo, anch'esso d'importanza
grandissima per l'argomento nostro, lo si trova registrato nella
1.a Difesa sotto il titolo di Articuli prophetales (Doc. pag.
480), i quali Articuli si vedono poi costituire la 2.a Difesa; e
questo mostra che essi abbiano dovuto essere redatti appunto dopo
che era stata già scritta la 1.a Difesa, e redatti di seconda mano
dopo che se n'era perduta la prima composizione in Calabria per la
solita circostanza della cattura. Anche nelle copie degli Articuli
prophetales giunte fino a noi, e rimaste manoscritte, il titolo
dice «prout auctor prophetavit ac scripsit in anno 1599»; ma
vedremo a suo tempo che fu questa una 3.a composizione fatta
egualmente nel carcere, sibbene più tardi, il 1607, dopo che era
stata per l'autore perduta la 2.a composizione, rimasta allegata
nel processo, di dove oggi appena esce alla luce; intanto non farà
meraviglia che nel Syntagma si trovino citati gli Articuli
prophetales insieme con altri libri scritti in un tempo più
inoltrato del carcere, mentre veramente la 3.a composizione
fattane in tal tempo vedesi incomparabilmente più larga delle
anteriori, sulle quali d'altronde l'autore non potea più fare
alcuno assegnamento. Vi è poi anche un altro argomento atto a
dimostrare che il Campanella compose davvero in Calabria un libro
de' Segnali della morte del mondo, ed esso è che il povero padre
del filosofo, come emerge dal processo, nella sua ignoranza
manifestò ad una persona essere il figlio occupato in comporre «un
libro che non lo fece né Luca, né Giovanni, né nisiuno degli
apostoli» etc., e questo libro naturalmente non poteva essere
altro che il libro di cui stiamo trattando: del resto dobbiamo
pure fare avvertire, che per quanto si voglia ritenere prodigiosa
la potenza mentale del Campanella, apparisce pur sempre
impossibile che nelle più feroci strette del carcere, tra il 1600
e il 1.° semestre del 1601, con la sorveglianza assidua nella
quale era tenuto, co' duri tormenti a' quali si trovava
sottoposto, egli abbia potuto scrivere, oltre la 1.a Difesa, gli
Articuli prophetales e la Monarchia di Spagna, senza una
precedente composizione di questi libri fatta in Calabria. Con ciò
chiudiamo la lunga discussione, che non parrà eccessiva a chi
consideri l'importanza capitale dell'argomento.
II. Continuando il racconto della vita del Campanella giungiamo al
periodo dell'azione da lui spiegata in Calabria, che menò alle
pratiche definite di poi congiura o tentata ribellione. L'idea
della vicina fine del mondo, accertata dalle profezie, da' calcoli
astronomici, da' fenomeni meteorologici, dal turbamento ed anche
dallo scontento del paese, fu da lui efficacemente divulgata, con
la giunta de' grandi fatti che doveano precederla. Dapprima nelle
conversazioni, poi anche nella predicazione alla quale attendeva
nella Chiesa del convento, egli annunziò che per la vicina fine
del mondo dovevano esservi mutazioni e novità, e con ciò spinse
all'estremo limite l'agitazione di aspettativa in ogni ceto della
provincia; in sèguito, trattando con individui audaci e ben
disposti, persuase loro segretamente che era venuto il tempo della
santa repubblica universale da doversi godere prima della fine del
mondo, che bisognava mettersi in armi e raccogliere compagni per
proclamarla; essi con le armi, egli unitamente a' suoi frati con
la lingua, avrebbero contribuito al movimento, e vi sarebbero
nuove leggi, nuove costumanze, assai migliori delle precedenti,
naturalmente da lui meditate. Qui non più la sua Narrazione
soltanto, ma anche la Dichiarazione che scrisse nel momento in cui
fu catturato, le Difese presentate nel processo che ne seguì, le
diverse Lettere che scrisse più tardi in sua discolpa, l'Apologia
che annesse all'ultima composizione degli Articoli profetali,
dànno notizie in grande abbondanza; se non che queste debbono
essere sempre rigorosamente vagliate, riscontrandole con le
relative deposizioni de' suoi compagni di sventura, le quali,
d'altra parte, debbono essere vagliate egualmente con molto
rigore, poichè senza dubbio non tutte degne di fede.
Diremo d'un tratto esservi ogni motivo di ritenere, che l'idea
della vicina fine del mondo, nella maniera da lui concepita, sia
stata l'espressione de' suoi intimi convincimenti, non già un
trovato per raggiungere maliziosamente il suo scopo, in cui si
comprendeva un alto interesse pubblico, e al tempo medesimo un
interesse personale, il compimento degli alti destini a' quali si
credeva nato; bensì egli stimò conveniente trarre da tale idea un
sollecito partito, sembrandogli i tempi molto propizii, per
iscuotere il giogo spagnuolo e fondare il sistema di governo
politico-religioso, che aveva immaginato poter dare all'umanità un
assetto felice. Innanzi l'estremo anelito del mondo doveva godersi
il secolo d'oro, ma occorreva far qualche cosa per conseguirlo;
doveva godersi la santa repubblica antevista da' profeti, da'
filosofi, da' savii d'ogni genere, ma occorreva pure arditamente
conquistarla e difenderla. Di certo nell'ultimo periodo della sua
dimora in Roma, e ne' sette mesi che passò in Napoli, egli ebbe a
rivedere i tanti libri di profezia e di astrologia, che troviamo
da lui citati ne' suoi Articoli profetali, e che gli sarebbe stato
impossibile avere in Stilo. Così, oltre i libri de' Profeti e
dell'Apocalisse, avea rovistato i detti di S.ta Brigida, S.ta
Caterina, Dionisio Cartusiano, S. Serafino da Fermo, S. Vincenzo
Ferrer, Abate Gioacchino, fra Girolamo Savonarola, tutti in somma
quei pensieri di menti esaltate e però inferme, venerati e
sostenuti con uno strano abuso di così dette figure, che darebbero
argomento interessante per una storia, la quale narrasse almeno i
principali tra gli enormi danni da essi recati. Aggiuntevi le
considerazioni fatte da Lattanzio Firmiano, S. Ireneo, S.
Giustino, S. Berardino, Clemente Alessandrino, Tertulliano,
Vittorino, S. Sulpizio, Martino, Origene, ed inoltre i detti delle
Sibille, dei Filosofi, de' Poeti, compresi Dante e Petrarca, avea
trovato una colluvie di ragioni in sostegno della sua tesi,
ragioni che sarebbe inutile ripetere ed è poi facile rilevare
anche da que' ristretti Articoli profetali dati in sua difesa e
riportati ne' nostri Documenti. D'altronde nella sua casa medesima
seppe che la cugina Emilia, prima che egli tornasse in Calabria,
era stata tenuta per morta durante tre giorni, e poi ripigliata la
vita avea discorso delle cose e de' fatti di un altro secolo, con
grande stupore de' teologi, diretta nelle sue visioni da un
Cappuccino di Stilo che egli trovò già defunto; e chi sa quali
visioni e presagi avea dati fuori questa cugina convulsionaria e
catalettica intorno allo stesso Campanella, che ebbe a
dichiararsene stupefatto! In conclusione egli vide sempre più
chiaro l'avvicinarsi della morte del mondo, e con essa la
conversione delle nazioni, il secolo d'oro e la repubblica
cristiana universale che dovea godersi prima della fine del nostro
pianeta; vide inoltre che i frati di S. Domenico doveano predicare
e preparare questa repubblica e questo secolo d'oro, né riesce
difficile intendere che in ciò doveva essere a lui riserbata la
parte principale. Ma insieme co' libri di profezia egli avea
rovistato anche quelli di astronomia ed astrologia, segnatamente
quelli del Cardano, del Cipriano, dello Scaligero, dell'Arquato, e
rifatti anche varii calcoli, si era persuaso dell'avvicinamento
del sole alla terra per 10 mila miglia, della restrizione della
via del Zodiaco, dello spostamento degli apogei, delle figure e
perfino de' poli, in somma di una quantità di volute
dissorbitanze, e molta impressione gli avea fatta la comparsa di
una nuova stella avvenuta nel 1572, la coincidenza delle ecclissi
prevedute pel 1601, 1605, 1607, de' grandi sinodi o della
congiunzione magna determinata pel 24 10bre 1603. Cumulando tutte
queste cose con le profezie, egli era venuto sempre più nel
concetto che non solo le mutazioni dovessero dirsi immancabili, ma
anche assai vicine, instanti, e tali le ripetè in sèguito del pari
nelle sue Poesie, dove sono esposti alcuni profetali ed egualmente
la congiunzione magna con la data assegnatale: se non che egli poi
non attese il 1603 per le mutazioni prevedute, ma si diede a
volerle pel 1600 ed anche prima, la qual cosa merita di essere
notata.
Diversi fenomeni straordinarii, avvenuti nel tempo di cui stiamo
trattando e in una gran parte del 1599, gli sembrarono anche un
preludio delle mutazioni aspettate; ma con ogni probabilità gli
sembrarono al tempo stesso utili incidenti per mettersi in grado
di compiere la mutazione da lui concepita, profittando della grave
impressione avutane nel paese. Vi fu prima di tutto la terribile
inondazione del Tevere, oltre quella del Po, avvenuta nella
penultima settimana del 1598 e continuata tre giorni interi, dal
martedì al venerdì: questo immenso disastro della capitale del
mondo cattolico fu conosciuto in Calabria a' primi giorni del 1599
e vi fece grandissimo senso. Come è ricordato nella Narrazione,
fra Dionisio, tornando da Ferrara, si trovò in Roma nel tempo del
disastro, e giunto in Calabria raccontava qual testimone oculare
lo spaventoso avvenimento. Il Campanella predisse allora che vi
sarebbero terremoti, come ricordò nella Lettera scritta alcuni
anni dopo al Card.l Farnese, e realmente se ne verificarono
gravissimi in Calabria e Sicilia più tardi, con altri fenomeni che
spaventarono le moltitudini e che menzioneremo qui tutt'insieme
per non intralciare di troppo il nostro racconto. Vi fu dapprima
una enorme invasione di bruchi, e poi una pioggia torrenziale che
precisamente in Stilo, durante la settimana di Pasqua, recò danni
molto gravi, essendo anche parso a parecchi di vedere in aria una
scala nera con un cipresso in cima; in sèguito, da' 7 a' 10
giugno, si verificarono i terremoti, disastrosi specialmente per
Reggio e Messina, e poi, nel luglio, si vide «una cometa marziale
e mercuriale, vicina a terra, che scorrea da levante a ponente», e
il Campanella vaticinò «romori nella provincia e incursione armata
contro i Reggitori di essa», vaticinio molto significativo,
specialmente tenuto conto del tempo in cui fu fatto. Ma a tutti
questi fenomeni sovrastava la condizione torbidissima della
Calabria per le tante cause già esposte. Il Campanella non mancò
di ricordarla, dichiarando essergli sembrata egualmente un
preludio delle mutazioni: «le menti degli uomini colpite, le
escursioni de' turchi e de' fuorusciti (de' quali i conventi erano
pieni), i conflitti giurisdizionali, le scomuniche de' magistrati,
indicavano ragionevolmente che era per seguire l'universale
mutazione della terra». Le cose stavano veramente così, ed anche
circa le escursioni de' turchi, documenti del tempo ci dicono che
i corsari di Barberia, capitanati dal vecchio Amurat come in
sèguito si vedrà, discesero il Venerdì Santo presso la Roccella e
vi catturarono 40 persone. C'era poi ancora un altro fatto molto
più significativo che il Campanella espose nella sua
Dichiarazione: «conobbi con ogn'un che parlavo che tutti erano
disposti a mutatione, et per strada ogni villano sentiva
lamentarsi: per questo io più andava credendo questo havere da
essere». Indubitatamente tali circostanze favorevoli decisero il
Campanella ad osare, né si potrebbe dire che avesse osato con poca
prudenza. Vedremo infatti che dapprima si limitò ad annunziare le
mutazioni immancabili e vicine, senza che le autorità spagnuole se
ne offendessero, la qual cosa merita pure di essere notata; quindi
si pose a promuovere non senza destrezza i maneggi e i concerti
per attuare il movimento, confidando, come è solito ne'
cospiratori, che tutti vi avrebbero preso parte, e che con
l'esempio il movimento si sarebbe propagato.
Innanzi di scendere a' particolari, gioverà chiarire anche meglio
i concetti del Campanella in questo tempo, e l'influenza di essi
in Calabria. Naturalmente noi non li possiamo desumere che da
quanto egli ne scrisse, ma bisogna tener presente che egli ne
scrisse in un tempo in cui dovea salvarsi ad ogni costo; e però le
sue affermazioni vanno accolte fino ad un certo punto. Il lato
veramente caratteristico delle sue affermazioni era rappresentato
dal doversi avere un periodo di felicità prima della fine del
mondo. Egli non era uno di quegli ordinarii Avventisti, de' quali
non sono mai mancati gli esempi fino a' giorni nostri, Avventisti,
che predicando essere il mondo vicino a perire, hanno insegnato
doversi oramai pensare solamente all'anima: egli riteneva che
secondo la profezia naturale e divina, prima della fine del mondo
c'era da godere lungamente, e bisognava aspettarsi mutazioni che
avrebbero menato al secolo d'oro, il quale poi era anche più lungo
di quanto la parola stessa potea far supporre, né sarebbe avvenuto
in modo del tutto facile e piano. Doveano verificarsi irruzioni di
barbari; doveano i Maomettani dividersi sotto due Re, uno de'
quali avrebbe immediatamente abbracciata la fede cristiana e la
repubblica, come poi le avrebbero abbracciate tutti gli altri,
persuadendosi che la glorificazione di Dio era veramente questa
repubblica e non già il loro paradiso; doveano inoltre venire alla
fede anche gli Ebrei, i quali negano il Messia perché non videro
tanta gloria in Cristo. Doveano venire Gog e Magog ed esser vinti
da' Santi; dovea venire l'Anticristo che si sarebbe sforzato di
sovvertire la repubblica già iniziata, ma del rimanente costui non
avrebbe dato da fare che per soli due anni e mezzo o tre anni e
mezzo. E dovea il Re di Spagna soggiogare tutte le genti e
congregare tutti i Regni, facendo l'ufficio di Ciro, e il
Pontefice Romano vi avrebbe regnato costituendo l'unum ovile et
unus pastor, la qual cosa sarebbe riuscita utile ad entrambi, ed
anzi al Re più che al Pontefice. Intanto egli co' suoi calabresi,
armati e ritiratisi sulle montagne per difendersi da' nemici del
Re e del Papa, avrebbe dato un piccol saggio della gran repubblica
universale, né propriamente per acquistarsi uno Stato, ma per fare
al Papa ed al Re un Seminario di uomini illustri nelle lettere e
nelle armi da poter servire nelle missioni di pace e di guerra.
Tali sono le precise parole che leggonsi nelle sue Difese: ma
nessuno vorrà prendere sul serio che egli ritenesse davvero
dovervi essere il secolo d'oro propriamente col Pontefice Romano e
con un Ciro della tempra del Re Filippo III; questo garbuglio di
Papa, di Re, e di Seminario di uomini illustri in loro servigio
rasenta la canzonatura. Tutti, non esclusi coloro i quali si sono
rifiutati ad ammettere in lui disegni e pratiche di congiura,
hanno capito che egli avrebbe voluto istituire ciò che descrisse
in sèguito nella sua Città del Sole; e vedremo che molti cenni
intorno alla futura repubblica, emersi nel processo per bocca de'
suoi compagni di sventura, vi corrispondono esattamente. Senza
dubbio egli intendeva il secolo d'oro con un governo sacerdotale,
come l'intendeva anche Platone, vale a dire con un capo politico e
religioso ad un tempo; ma i principii che dovevano campeggiare nel
secolo d'oro, e nella sua repubblica destinata a farlo gustare,
erano ben diversi da quelli del Concilio di Trento e delle
Prammatiche spagnuole. Creda dunque chi vuole alla sua fede nella
Monarchia universale da doversi acquistare da Spagna, e nella
Monarchia cristiana da doversi reggere da Roma; noi ci
permetteremo sempre di dubitarne moltissimo, almeno pel periodo
che stiamo svolgendo e che fu appunto quello in cui egli scrisse
la Monarchia di Spagna. Certa solamente giudichiamo la sua fede
nella «profezia naturale e divina» quale egli l'espose ne'
documenti sopra indicati, e però non crediamo che in lui la
maschera del profeta abbia coverto il volto del cospiratore. Ci
mena a ritenerlo la sua devozione costante alla sapienza per
istinto divino e all'astrologia, come pure la qualità medesima
della sua impresa; giacchè, per quanto i più sublimi atti di
patriottismo risultino spesso una sublime follia, riescirebbe
incredibile la follia di voler liberare il suo paese, con mezzi
tanto limitati, da una potenza così sterminata come era a que'
tempi la spagnuola, senza la fede in eventi straordinarii più o
meno vicini, e in una grande missione alla quale per osservazioni
proprie e d'altrui si credeva chiamato. né riesce dubbio che egli
solo, animato da queste convinzioni, potè con acconci discorsi
ispirare a determinate persone il proponimento audace di liberarsi
dalla signoria spagnuola e costituirsi in repubblica. La notizia
pura e semplice della vicina fine del mondo, come già altre volte
era avvenuto dovunque, avrebbe tutt'al più ispirata a' calabresi
la donazione de' beni alla Chiesa per salvarsi l'anima; invece in
parecchi di loro, stati già in relazione col Campanella e dediti a
raccogliere compagni armati, si trovò non solo la notizia di
vicine mutazioni ma anche la notizia della «prossima apertura de'
sette sigilli», il proponimento della «fondazione di una
repubblica» con norme analoghe a quelle più tardi esposte nella
Città del Sole, e sempre sotto gli auspicii del Campanella, nuovo
profeta, nuovo legislatore, nuovo Messia, dottissimo in tutte le
scienze, capacissimo nella divinazione del futuro, inoltre
possessore di spiriti quantunque egli lo negasse costantemente.
Vediamo ora i particolari della sua azione. Nelle conversazioni
private, uno de' primi cui manifestò dovervi essere una repubblica
fu certamente fra Gio. Battista di Pizzoni. Costui fin dal 7bre
1598, come affermò il Campanella nella sua confessione in
tormentis, si preparava a difendere certe «conclusioni» nel
Capitolo da doversi tenere nel maggio 1599, e tra esse v'era una
de statu optimae reipublicae; il Campanella, richiesto di
consigli, parlò di questa repubblica, e disse che si dovea avere
prima della fine del mondo perché così era profetato. Un altro con
cui parlò di mutazioni e di futura repubblica fu fra Dionisio,
dopochè costui venne da Roma e narrò i particolari
dell'inondazione del Tevere, i quali doverono realmente destare
una sensazione profonda; ne parlò quindi certamente ad altri, e
poco dopo, lasciato ogni riserbo, ne fece il tema di una delle
solite prediche nella Chiesa del convento. Il giorno della
Purificazione di Maria, cioè il 2 febbraio (1599), il Campanella
per la prima volta predicò che dovevano esservi presto mutazioni,
naturalmente «nel Regno de Napoli, che fu sempre de revolutione,
et hebbe principio mezo et fine in brieve sotto diverse
fameglie... tanto più che parlando alli popoli li vedea lamentarsi
delli Ministri del Re de molte cose»; era stato sollecitato da
molti amici a dire il parer suo sulle novità che si aspettavano,
ed egli si prestò volentieri. Una seconda volta bene accertata
predicò sullo stesso tema, nella Settimana Santa, o meglio subito
dopo la Settimana Santa che da altri documenti sappiamo essersi in
detto anno celebrata dal 4 agli 11 aprile, questa volta
sicuramente a proposito delle pioggie torrenziali che
contristarono la città. Giusta la deposizione processuale di un
frate suo compagno, «predicando dall'altare sopra la seggia» egli
avrebbe più volte parlato delle profezie e delle mutazioni,
«benvero che nella predica non diceva che quelle profezie
parlassero di sè, ma lo diceva poi»: frattanto bisogna riconoscere
che non vi sono elementi per affermare che queste prediche fatte
più volte siano state fatte veramente spesso; e però il Campanella
nella sua Dichiarazione potè dire che giurava di non aver mai
pensato che le parole della sua predica avrebbero mossa tanta
gente. Invece vi sono parecchi elementi per dire, che diffusa
questa voce delle mutazioni secondo le profezie accertate dal
Campanella, molti si dirigevano a lui per conoscere la cosa più
addentro, e in questi colloquii privati egli parlava con maggior
libertà e si estendeva a ragionare più largamente del secolo
d'oro, esprimendo a tempo e luogo qualche suo pensiero intorno al
modo di prepararvisi e di contribuirvi. Tutto mena a far credere
che le prediche siano state poche e poco esplicite, avendole
principalmente destinate a far intendere che il mondo era sul
punto di «andare sottosopra». Ad una di esse, verosimilmente alla
2a suddetta, fu presente l'Auditore Annibale David, venuto a Stilo
per trattare la pace tra le famiglie de' Contestabili e de'
Carnevali, e bisognerebbe non conoscere cosa fosse un Auditore,
per ammettere che costui avrebbe potuto lasciar correre la predica
laddove questa gli fosse parsa criminosa. Solamente, giusta una
deposizione che può ritenersi attendibile, durante la predica egli
avrebbe una volta esclamato, «oh s'io potessi dire a modo mio»!
con che senza dubbio riusciva ad eccitare tanto maggiormente la
curiosità di coloro i quali più s'interessavano per le cose nuove.
Non fu dunque un predicatore entusiasta a modo p. es. di fra
Girolamo Savonarola; fu invece un cauto e circospetto agitatore,
il quale, senza creare propriamente un fermento, perocchè questo
già esisteva dovunque ed era più vivo in Calabria, col suo
prestigio non solo lo favorì, ma col minore strepito possibile lo
diresse ad uno scopo patriottico anzi umanitario. Tutti gli
dimandavano spiegazioni, massimamente i cittadini più animosi e
avversi alla signoria spagnuola, i fuorusciti tanto più avversi al
Governo per le loro speciali condizioni, i Signori e gli ufficiali
stessi del Governo. Il Capitano Francesco Plutino gli comunicò
certe profezie di un Abate Idruntino divulgate in Napoli, le quali
accennavano a mutazioni da dover accadere in Sicilia, in Toscana,
in Calabria, e gli dimandò l'avviso suo sopra di esse: il
Campanella, secondo ciò che scrisse nella sua Dichiarazione, gli
avrebbe semplicemente risposto che potevano esser vere, perché
altri astrologi e savii predicevano lo stesso; pertanto un
testimone non sospetto depose che il Capitano diceva con
ammirazione, «voi vedrete quello che è il Campanella». Infine lo
stesso Governatore della Provincia D. Alonso De Roxas si diresse a
lui «per lettera di curiosità» dimandandogli notizia delle
mutazioni che tutti si aspettavano; e il Campanella lo compiacque,
forse anche in tale occasione gli mandò il suo libro della
Monarchia di Spagna già scritto pel Marthos e posto da banda senza
avervi più pensato. Ad ogni modo il Campanella e il Governatore
rimasero in termini amichevoli: né veramente il Governatore
sospettò mai del filosofo; bensì vedremo che non mancò di
occuparsi della cattura dei frati, quando si giunse a fargliene
comprendere i disegni.
Tutto ciò mostra che il nome del Campanella risuonava in una sfera
larghissima; e la cosa merita di essere notata, poichè da lui
medesimo nelle sue Difese, e poi da molti altri fino a' giorni
nostri, è stato detto impossibile che un povero frate, da poco
tempo venuto in Calabria, avesse concepito un così audace
progetto, ed avuto tanto credito. Ma le sue stesse affermazioni in
altri documenti, al pari degli atti processuali, mostrano che il
suo credito era divenuto straordinario. Egli medesimo affermò, che
«tutta la gente» accorreva a lui per dimandargli della «fine del
mondo e della renovation del secolo» dopo che egli le avea
predicate, che inoltre «quando caminava per le ville e pe'
castelli, si vedeva innanzi stupefatto torme di uomini che
chiedevano rimedii per le proprie infermità e per quelle delle
pecore e de' buoi», ed egli li indicava, e «tutti ritornavano
lodando Dio». Nell'insieme del processo che ne seguì, da qualunque
lato, da' frati e da' laici, da' fautori e da' persecutori, da'
più alti e da' più umili, egli trovasi riconosciuto ed acclamato
sempre «dottissimo in tutte le scienze, grandemente dotto,
grand'omo», e il suo credito si rivela altissimo ed incontrastato.
A lui venivano «le migliara di persone»; e l'accorto e prudente
fra Pietro di Stilo, suo angelo tutelare, lo riprendeva pel tanto
conversare con laici: tutti chiamavano «beato» il povero padre
suo, e i nobili e Signori, particolarmente il Marchese d'Arena e
il Principe della Roccella, che dimoravano più d'appresso a Stilo,
lo vedevano volentieri e talvolta lo chiamavano nei loro castelli.
Non ci è noto di che discorressero; ma senza dubbio l'argomento
principale de' discorsi doveva essere la vicina fine del mondo,
con tutti i cataclismi e l'immancabile secolo d'oro che dovevano
precederla: e merita pure di essere ricordato un fatto da molti
deposto nel processo, che cioè egli aveva una forza di persuasiva
straordinaria, «perché quando parlava tirava ognuno a lui». Ma vi
era anche qualche motivo riposto, atto a spiegare il prestigio di
cui godeva, poichè l'ingegno, gli studii, i libri composti non
sarebbero stati sufficienti in Provincie nelle quali, bisogna
riconoscerlo, neanche oggi queste cose rappresentano i fondamenti
del credito. Vi era l'opinione che egli «avesse spiriti,
comandasse spiriti, disponesse di spiriti»: lo si diceva
pubblicamente in Calabria, e i più timorati pensavano che la sua
scienza era o del demonio o d'Iddio, ma la massa de' frati, de'
laici e di ogni ceto, riteneva con sicurezza che fosse del
demonio. Si era giunto perfino a scovrire dove avesse il suo
spirito familiare; l'avea nell'unghia. Così dicevasi a Stilo, e
forse se ne può trovar la ragione in un'abitudine del Campanella
di guardarsi le unghie, come più in là vedremo notato segnatamente
da' terrazzani di S. Caterina, nel convento Domenicano di S.
Nicola ove una volta si recò. Certo è che a cominciare da' frati
suoi più intimi amici, come fra Dionisio Ponzio, ed anche fra
Domenico Petrolo, ebbero, ognuno a sua volta, la curiosità di
chiedere direttamente al Campanella se fosse vero che avea
spiriti; tra le persone poi che trattarono con lui per la
congiura, taluno gli dimandò in generale de' diavoli e dell'arte
magica, qualche altro gli chiese uno spirito familiare per vincere
al giuoco, altri chiesero segreti per avere donne; ancora, a tempo
delle carcerazioni, taluno voleva che il Campanella «havesse fatto
tanto con gli diavoli che l'havessero cavato de prigione». Fra
Tommaso mostravasi quasi sempre infastidito di siffatte dimande, e
ne prendeva talvolta occasione per manifestare che egli non
credeva all'esistenza né de' diavoli né dell'inferno, ed anzi al
Petrolo una volta disse che in Roma, dove era conosciuto, si
riteneva che egli non credesse a queste cose; ma specialmente i
laici non ne rimanevano persuasi, e qualcuno anche si
scandalezzava che negasse i diavoli. Aggiungiamo che fra Dionisio
medesimo gli domandava confidenzialmente se in Roma fosse stato
mai condannato all'abiura, ed egli lo negava, ed adduceva quale
unico motivo de' suoi travagli l'essere stato erroneamente creduto
autore di un bruttissimo Sonetto contro Gesù Cristo: così non si
divulgò mai il fatto dell'abiura, e il suo credito rimase anche da
questa parte inalterato.
Siamo in maggio 1599. Avvennero allora due fatti interessanti per
la nostra narrazione; il Capitolo de' Domenicani in Catanzaro, la
trattativa di pacificazione delle famiglie de' Contestabili e de'
Carnevali di Stilo.
Il Capitolo de' Domenicani in Catanzaro fu preseduto da fra
Giuseppe Dattilo di Cosenza, essendo Definitore fra Gio. Battista
di Polistina, due nomi che dimostrano assolutamente in auge la
fazione avversa a quella di fra Dionisio Ponzio, e però avversa
agli amici di costui, tra gli altri al Pizzoni che avea disertato
il campo del Polistina, ed anche al Campanella antico amico di fra
Dionisio. Comunque i Capitoli fossero di breve durata (questo di
Catanzaro non durò più di quattro giorni), i più culti tra' frati
costumavano darvi un saggio della loro abilità sostenendo
«conclusioni», ossia facendo una disputa sopra alcune proposizioni
che annunziavano in precedenza. Il Pizzoni, andatovi a sostenere
le conclusioni che abbiamo già menzionate più sopra, si vide per
la sua mala vita condannato al carcere, dietro proposta del
Polistina che volle trarne vendetta. Per non esser preso se ne
fuggì immediatamente, senza cappello e senza cappa, con grande
scandalo della città, andando a rifugiarsi in un convento di
Zoccolanti; ma fu subito richiamato, mercè l'opera del Vescovo di
Catanzaro, perché sostenesse le conclusioni state già pubblicate,
e le sostenne con plauso alla presenza anche del Governatore De
Roxas e degli Auditori invitati ad intervenire alla disputa; di
poi, saldati i suoi conti, se ne andò al piccolo convento di
Pizzoni, dove era stato assegnato e dove più in là lo troveremo.
Quanto al Campanella, egli avrebbe certamente disputato in quel
Capitolo, ma non vi fu neanche chiamato; ed è certo che se ne
lagnò in sèguito con fra Paolo della Grotteria, dicendo che «li
litterati non erano premiati né exaltati secondo il dovere, et
anzi sbassati et tenuti sotto contra ogne giustitia, et che a tale
effecto non era esso stato chiamato al Capitolo di Catanzaro,
perché essendo litterato cercavano di tenerlo sepolto». Le cose
stavano realmente così, né c'è da farne le meraviglie: si è visto
sempre tra' frati esaltata anche più del dovere la dottrina di
qualcuno elevatosi un poco sul livello comune, poichè questo
accredita l'Ordine, ma si è vista ben di rado onorata la dottrina
nelle candidature agli ufficii; e del Campanella può dirsi con
certezza che tra' frati non aveva e non ebbe mai sèguito,
quantunque ne avesse tanto tra' laici. Più tardi, nelle Difese,
egli scrisse che non aveva mai ambìto i gradi de' quali era degno
nella Religione: ma il fatto è che nessuno pensò mai di dargli
gradi, che non fu nemmeno chiamato al Capitolo e che ne rimase
scontento. Quanto a fra Dionisio, egli non ebbe la conferma nel
Priorato, rimase puro e semplice lettore ed assegnato al convento
di Taverna; ma sdegnato ed inquieto andò vagando a lungo per la
provincia, innanzi di recarsi al luogo assegnatogli. Scorse due
settimane dalla celebrazione del Capitolo, si recò a Stilo presso
il Campanella, con nessun gusto di fra Pietro di Stilo, che
trovandosi in buoni termini col Polistina era stato creato Vicario
di quel convento. Fra Pietro riprendeva il Campanella per questa
sua amicizia con fra Dionisio, parendogli che quei di Stilo,
soliti a visitarlo e a fargli ossequio, se ne allontanavano
stomacati dall'udire fra Dionisio che parlava senza ritegno delle
più laide oscenità, delle quali si vantava per giunta. Circa dieci
giorni si trattenne fra Dionisio presso il Campanella: non
sappiamo di quali argomenti si occupassero i due frati ne' loro
colloquii, ma forse le tirate oscene di fra Dionisio servivano a
mascherare gli argomenti veri. Certo è soltanto che negli ultimi
giorni della sua dimora in Stilo, verso la fine di maggio, essendo
venuti, ad occasione della pace tra' Contestabili e i Carnevali,
da un lato Marcantonio Contestabile accompagnato da un Gio.
Tommaso Caccìa di Squillace e d'altro lato Maurizio de Rinaldis di
Guardavalle, tutti e tre fuorusciti, fra Dionisio si strinse in
amicizia specialmente con Maurizio e col Caccìa che non aveva mai
conosciuti. E dopo certi colloquii intimi, de' quali dovremo
occuparci più in là, fra Dionisio partì in cerca di amici, e con
essi se ne andò fino a Messina, senza che sia stato mai chiarito
lo scopo di tale viaggio. Ci basterà qui, intorno a' detti
colloquii, ricordare pel momento ciò che il Campanella ne disse
nella sua Narrazione. «Erano stati in convento di Stilo Mauritio
Rinaldi, e M. Antonio Contestabile per trattar la pace tra
Carnelevari et Contestabili; et Fra Dionisio sendo di passaggio
intervenne a questi trattati e strinse amicitia con Mauritio e
trattò di uscir in campagna e dimandavano il Campanella essi e
molti altri di quella cometa di Calabria et terremoti, et segnali
della rinnovatione, e li dimandavano se venia rovina alla
provincia come parea da ponente secondo il corso della cometa
(come proprio venne Carlo Spinello che la travagliò) che cosa
havevano da fare; e lui diceva mettersi sù le montagne con le armi
come fecero li Venetiani nelle lacune quando venne Attila, et li
Spagnoli in Asturia, quando intraro li Mori in Ispagna, e questo
dicea per modo di ragionamento e mischiava li segni del giudizio
universale col particolare della provincia, secondo s'usa, et
ognuno pensava a cose nove, e sparlavano in diverse guise». La
cometa fu vista veramente più tardi, in luglio, e d'altra parte il
Campanella e fra Dionisio aveano già discorso con Maurizio, in
casa di un sacerdote a nome Gio. Jacovo Sabinis, prima che
Maurizio venisse nel convento, come risulta da' particolari della
trattativa di pace; ad ogni modo le preoccupazioni vi erano, e ne
fu discusso in guisa, che da queste discussioni prese origine e
data quella serie di concerti e maneggi che diedero motivi
all'accusa di congiura. Più volte in sèguito il Campanella affermò
pure in sua discolpa, che fra Dionisio voleva uscire in campagna
per ammazzare coloro i quali avevano ammazzato suo zio; ma questo
fatto era già vecchio di alcuni anni, ed abbiamo veduto che vi
erano stati per esso lunghi processi in Calabria e in Napoli
menati innanzi da fra Dionisio; certamente costui, venuta la
«rinnovazione del secolo», avrebbe vendicata la morte di suo zio,
ma appunto questa rinnovazione bisognava innanzi tutto procurare
fondando la repubblica.
La trattativa di pacificazione delle due nobili e ricche famiglie
di Stilo, quella de' Contestabili e quella de' Carnevali, fu
commessa al Campanella dal medesimo Auditore David che non aveva
potuto riuscirvi: questo risulta dalla Dichiarazione che fu poi
scritta da fra Tommaso, e mostra la considerazione di cui godeva
non solo presso i cittadini di Stilo ma anche presso gli Agenti
del Governo. Documenti da noi rinvenuti, nell'Archivio di Stato e
nel Carteggio del Nunzio Aldobrandini, ci mettono in grado di far
conoscere gl'individui delle due famiglie e taluni particolari che
riflettono la loro inimicizia. La famiglia Contestabile
componevasi allora di Paolo padre, Porfida madre, Giulio,
Geronimo, Fabio e Marcantonio figli; Geronimo di Francesco avea
sposato Laudomia sorella di costoro. La famiglia de' Carnevali era
più sparpagliata: in una casa dimorava Prospero Carnevale col
fratello Gio. Francesco vecchio sacerdote, e col figlio Fabrizio
Arciprete; in un'altra casa dimorava Gio. Paolo altro figlio di
Prospero con la sua famigliuola; in una terza casa gli altri figli
di Prospero, Fabio e Tiberio (il medico, trasferitosi poi in
Napoli come abbiamo già visto). Causa dell'inimicizia il solito
gusto della prepotenza, col dominio segnatamente
nell'amministrazione della città. De' Contestabili il più giovane,
Marcantonio, era manesco e violento oltremodo: le scritture
dell'Archivio di Stato lo mostrano omicida già prima del 1595, il
Carteggio del Nunzio lo mostra fuoruscito per tentato omicidio in
persona di Gio. Paolo Carnevale, il processo di eresia del
Campanella ce lo mostra feritore dell'altro fuoruscito che soleva
accompagnarlo, il Caccìa, mediante colpo di archibugio; del resto
tutti i Contestabili si comportavano con alterigia e violenza,
come lo mostra un documento che non ammette replica, proveniente
dal governatore o capitano di Stilo. I Carnevali non avevano
qualcuno de' loro da opporre a Marcantonio Contestabile, ed
interessarono per questo un amico, Maurizio De Rinaldis di
Guardavalle a que' tempi casale di Stilo, parimente giovane,
nobile e fuoruscito per omicidio; costui naturalmente veniva
favorito in tutti i modi da' Carnevali e loro parenti, e così D.
Gio. Francesco e D. Fabrizio Carnevale si trovavano da Geronimo
Contestabile e Geronimo di Francesco accusati presso il Nunzio di
negoziazione illecita e ricetto di banditi, e il Nunzio li aveva
citati a comparire, e per tale motivo figurano nel suo Carteggio.
Con questi due gagliardi a fronte, Marcantonio e Maurizio,
sostenevasi l'inimicizia, e non occorre dire quanto il paese ne
fosse turbato: nel corso del processo del Campanella, essendo
accaduto di doverne parlare, Giulio Contestabile depose che
l'inimicizia esisteva tra Paolo suo padre e Prospero Carnevale, e
tra lui Giulio e Gio. Paolo Carnevale; ma ognuno intende che egli
volle attenuare le cose e porre nell'ombra il fuoruscito
Marcantonio. Secondo ciò che il Campanella scrisse nella sua
Dichiarazione, egli menò innanzi gli accordi fino a doversi
«ratificare la pleggeria della pace», e però ebbe ad intrattenersi
più volte con entrambe le parti e loro aderenti, e poi anche co'
fuorusciti che ne rappresentavano il braccio forte: ma è lecito
dubitare che avesse raggiunto tale risultamento, e che per
raggiungerlo vi fosse bisogno della presenza de' fuorusciti. Ad
ogni modo Marcantonio Contestabile, insieme al Caccìa, dimorò otto
giorni nel convento di S. M.a di Gesù, dove stava sicuro pel
dritto di asilo; i suoi parenti, e massime Giulio Contestabile e
Geronimo di Francesco, vi accedevano tanto più spesso, e molti
discorsi furono in tale circostanza scambiati col Campanella
intorno alle future mutazioni. Maurizio, secondochè poi disse il
Campanella, chiedeva di poter dimorare anche lui nel convento, ma
il Campanella non volle, forse perché temè qualche possibile scena
violenta tra lui e Marcantonio, e difatti essi rimasero sempre
separati; si trattenne quindi nella casa di D. Gio. Jacovo Sabinis
sacerdote, cognato di Gio. Paolo Carnevale, dove il Campanella lo
vide andandovi di sera insieme con fra Dionisio e Gio. Gregorio
Prestinace grande amico suo e compare di Maurizio; ma poi Maurizio
venne anch'egli di sera nel convento, in sèguito vi venne pure di
giorno, e naturalmente una gran parte de' colloquii cadde sulle
mutazioni e sul miglior modo di profittarne. I discorsi scambiati
su questo tema debbono essere minutamente riferiti e vagliati; ci
occorre intanto dire che la pace non si effettuò, la qual cosa non
può far meraviglia a chi consideri come si effettuavano allora le
paci. Per regola se ne occupava un Auditore a ciò delegato dalla
R.a Audienza, e le parti, dietro concessioni reciproche, finivano
per sottoscrivere un atto, dando la parola sub nomine Regio al
pacificatore e la fede vicendevolmente e personalmente tra loro,
con promessa ed obbligo sotto determinata «pena pecuniaria et
etiam corporale», di non dover più, dopo la data parola e fede,
mostrarsi nemici. Naturalmente a tutto ciò non prendevano parte i
fuorusciti, i quali si trovavano fuori la legge, ed avevano la
missione pura e semplice di fare un aggravio e difendere da un
aggravio, o per lo meno far paura mostrando la forza e potenza
della parte che li sosteneva in campagna. Laonde, nel caso
attuale, si capisce poco che Marcantonio e Maurizio fossero venuti
per «ratificare la pleggeria della pace»; si capisce un po' meglio
che Maurizio fosse venuto «per farsi vedere a Marc'Antonio
Contestabile, acciò li Contestabili sapessero che i Carnelevari
ancora hanno gente armata et non hanno paura», secondochè espose
egualmente il Campanella nella Dichiarazione medesima. Con
siffatta disposizione degli animi, con la presenza di persone
armate di tutto punto, come le descrissero di poi nel processo
diversi testimoni oculari, la pace non poteva effettuarsi; ma potè
effettuarsi una tregua, e certamente vi contribuirono non poco i
discorsi ed anche i progetti intorno alle mutazioni.
Consecutivamente, nel processo, Giulio Contestabile disse aver lui
rotta la trattativa, poichè avendone scritto a suo fratello
Geronimo il quale dimorava in Napoli, costui rispose che il
Campanella era stato inquisito di eresia e che perciò non voleva
si trattasse con simile persona, onde poi essendo stata da lui
divulgata la cosa, il Campanella gli divenne inimico capitale: ma
si ravvisa qui facilmente il solito ripiego della inimicizia
capitale, che si costumava mettere innanzi per invalidare le
deposizioni contrarie; Giulio, nel tempo di cui trattiamo, era e
rimase uno de' più fervidi seguaci del Campanella.
Si direbbe che il Campanella, in mezzo a quella balda gioventù, a
contatto di que' focosi e audaci fuorusciti, la cui esuberanza di
vita poteva esser diretta a uno scopo tanto migliore, non abbia
veduto più alcuno ostacolo all'attuazione de' suoi disegni: di
certo in pochi giorni egli si spinse incomparabilmente più di
quanto avea fatto sin allora, ma pur sempre con cautela e
circospezione. Sin allora, tra' discorsi generali intorno alle
mutazioni e alla santa repubblica che dovea godersi prima della
fine del mondo, egli aveva appena lasciato intravvedere in
privato, alle persone intime, che le profezie additavano
segnatamente lui stesso, che parevagli averlo Iddio «eletto
proprio a insegnare la verità et levare molti abusi grandi che
regnavano nella Chiesa», come disse a fra Domenico Petrolo e
separatamente anche al Pizzoni: ma a fra Pietro di Stilo sappiamo
che, presente l'altro amico Gio. Gregorio Prestinace col quale
confabulava in segreto spessissimo, egli due volte avea fatto
conoscere come godendo l'influsso di sette pianeti ascendenti
favorevoli si aspettava di essere Monarca del mondo; la quale
proposizione, tenendo conto del linguaggio fratesco, potrebbe
anche semplicemente significare che si aspettava di essere capo di
uno Stato. Inoltre si era lasciato sfuggire di bocca certi
principii meno ortodossi, che aveano scandalizzato qualcuno, ma
non già tutta quella massa di principii eretici, veri e supposti,
che emerse in sèguito e che si deve riferire ad un periodo
posteriore. Difatti, fra Francesco Merlino, al quale non vi è
ragione di negar fede, trovandosi priore in Placanica ed avendo
scambiate varie visite col Campanella, poteva affermare solamente
di avere udito dire da lui che nel mondo si vive a caso,
aggiungendo che molte cose furono dette dopo la carcerazione senza
sapersi come uscissero in campo. Fra Gio. Battista di Placanica,
al quale si può del pari aggiustar fede, avendo dimorato nel
convento di Stilo dal febbraio all'aprile dello stesso anno,
poteva affermare qualche cosa di più, ma non altro che questo: che
il Campanella parlava degli atti venerei in modo da far credere
che non costituissero veramente peccato, dicendo essere ogni
membro destinato a certe funzioni, e certi organi fatti appunto
per gli atti venerei; che paragonava la legge de' Turchi con
quella de' Cristiani e la lodava in certe cerimonie; che giudicava
inutili tanti Ordini religiosi, ritenendoli baie fatte per tener
quieti i popoli; che non credeva poter le Messe giovare alle anime
de' defunti quando il celebrante fosse in istato di peccato
mortale; che discorrendo una volta dell'inferno con alcuni suoi
discepoli avea detto «che inferno, che inferno!» Aggiungeva poi
che avendo il Campanella domandato a Mons.r di Squillace ed al
Provinciale la licenza di predicare in Monasterace, la licenza non
gli fu concessa, ed in tale occasione si era spinto a dire qualche
cosa in dileggio della scomunica. Forse anche dietro tale
circostanza accadde, che avendogli il povero padre suo
raccomandato di accettare una predicazione offertagli dalla città
di Stilo col compenso di 200 ducati (verosimilmente la
predicazione Quaresimale) per venire in aiuto alle sorelle che
erano «pezzenti», egli disse che «non voleva fare l'officio di
Cantanbanco»; per le quali parole rivelate da taluno di Stignano,
insieme col fatto dell'avere fra Tommaso divinato l'avvenire de'
suoi fratelli, e dell'essersi occupato a scrivere quel tale libro
che non l'avea scritto né Luca né Giovanni, il povero Geronimo fu
poi menato innanzi al S.to Officio in Napoli. Del resto non
bisogna nemmeno credere che il Campanella avesse sempre
manifestato con serietà proposizioni incriminabili, mentre,
comunque i suoi biografi ce l'abbiano descritto grave e
cogitabondo perché filosofo, è certo invece che soleva di continuo
burlare e motteggiare specialmente i frati, e la tendenza sua a
motteggiare, come al contraddire, era spesso il movente di
altrettali proposizioni. Talora il suo motteggio riuscì davvero
scandaloso; infatti più volte nell'incontrare alcuni frati di S.
Francesco della Scarpa (altro convento di Stilo) mentre andavano
nella loro Chiesa, alludendo a Gesù crocifisso egli si pose a
dire, «dove andate? andate ad adorare un appiccato!» «Cose
fratesche, cose ociose» le definiva fra Pietro di Stilo,
aggiungendo sul Campanella, «quando burlava con li frati... dico
che era malo», e a fra Pietro si può credere pienamente.
Ma ne' colloquii con Maurizio, con Marcantonio e Gio. Tommaso
Caccìa, co' parenti o aderenti di costoro e con gli amici suoi che
in questo tempo frequentavano pure la sua cella, egli si pose ad
eccitare vivamente ciascuno che volesse profittare delle
mutazioni, che volesse concorrere e trovare molti compagni i quali
concorressero a fondare la repubblica, indicando il modo,
disegnando il tempo e le alleanze, prevenendo e combattendo le
obbiezioni, manifestando alcune riforme civili ed anche religiose
che bisognava introdurre, atteggiandosi francamente a riformatore
e legislatore; e fra Dionisio si pose a secondarlo, bensì con
certi modi tutti suoi, e i più infiammati si posero a numerare le
forze e gli amici; di poi ciascuno più o meno, non escluso il
Campanella medesimo, si occupò veramente di procurare amici e di
prepararsi al gran giorno. Come fu rivelato ne' processi
consecutivi da Gio. Tommaso Caccìa, e del pari da fra Pietro di
Stilo e dal Petrolo (ciò che mostra la credibilità delle
rivelazioni del Caccìa), frequentavano la cella di fra Tommaso e
parlavano segretamente con lui, oltre Giulio Contestabile e
Geronimo di Francesco cognati, Gio. Gregorio Prestinace «amico e
familiare di notte e di giorno», Fulvio Vua, Tiberio Marullo;
inoltre Scipione Marullo figlio di Tiberio, D. Gio. Jacovo
Sabinis, Giulio Presterà, Francesco Vono, Fabrizio Campanella e
Paolo Campanella, i quali ultimi sappiamo che dimoravano in
Stignano. Erano le dette persone di Stilo, per la massima parte,
delle migliori famiglie della città e ne' migliori anni della loro
gioventù, come ci risulta da' documenti che per alcuni ci è
riuscito di trovare; a ragione quindi il Campanella nelle sue
Difese potè dire, che non si propose di servirsi soltanto di
fuorusciti, i quali del resto considerava meno come nemici del Re
che come uomini armati, menandoli nella retta via, ma «si propose
di servirsi ancora di uomini dabbene non fuorusciti come dal
processo è comprovato». A costoro si deve aggiungere un fra
Scipione Politi conventuale di S. Francesco, che poco prima o poco
dopo questo tempo rimanea sovente a pranzo col Campanella e
qualche volta rimase con lui anche di sera, come fu attestato da
fra Pietro di Stilo. Ma se tutti costoro ebbero colloquii intimi
col Campanella, per la più gran parte di essi, riuscita a sfuggire
alle ricerche del Governo, ce ne sono rimasti ignoti i
particolari, mentre il Campanella soleva sempre parlare a non più
di uno o due amici per volta: ed è facile intendere che
segnatamente i particolari de' colloquii in persona di Gio.
Gregorio Prestinace, amico sviscerato del Campanella e compare di
Maurizio, sarebbero riusciti importantissimi, come pure, ad un
grado minore ma sempre cospicuo, quelli in persona di Marcantonio
Contestabile; possediamo intanto quelli nelle persone di Giulio
Contestabile e Geronimo di Francesco, del Caccìa, di Maurizio, ed
essi valgono a farci capire gli altri che ci mancano. Eccoci
dunque a darne conto e senza parsimonia, anche a costo di doverci
ripetere quando avremo a narrare lo svolgimento de' processi;
giacchè possiamo desumere le notizie di tali colloquii, come di
tutto l'andamento della congiura, solo da ciò che ne' processi si
raccolse, e quindi siamo costretti a riferire le deposizioni ed
anche a discutere la credibilità di esse ogni volta; così le
ripetizioni riescono inevitabili e non può accadere altrimenti,
semprechè non si voglia un racconto della congiura meramente
fantastico o per lo meno non documentato.
I colloquii con Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco furono
esposti dal Campanella medesimo nella sua Dichiarazione, e
naturalmente riescono del tutto a carico di costoro, verso i quali
il Campanella era allora animato da fortissimo risentimento,
avendone avuto un orribile volta-faccia: ma apparirà evidente che
per fare e dire come questi due fecero e dissero, aveano dovuto
essere stati già eccitati dal Campanella, il quale del resto,
anche in altri casi analoghi, parrebbe che procedendo con molta
circospezione avesse talvolta eccitato gl'interlocutori a
pronunziarsi, senza che egli medesimo si fosse pronunziato troppo.
Giulio dunque si mostrava molto infiammato contro Spagna, ed un
giorno nella stanza del Campanella, presente il Petrolo, calpestò
ed ingiuriò l'immagine del Re Filippo dicendo «guarda a chi stamo
soggetti, al Re delli uccelli»; e si lagnava degli ufficiali Regii
e degli spagnuoli, che gli aveano posto il padre in prigione,
favorendo, secondo lui, i Carnevali; e diceva che più volte era
stato disposto ad andare in Turchia e che co' turchi si
aiuterebbe, e altre volte vantavasi di avere, nell'anno
precedente, concertato con alcuni soldati spagnuoli di ribellarsi
perché il Re non li pagava. Geronimo di Francesco poi mostravasi
non meno infiammato: si lagnava di aver dovuto spender molto delle
sue sostanze pe' lunghi travagli patiti, e diceva di avere
speranza solo nelle mutazioni che si aspettavano, avvertendo il
Campanella che non si esternasse con Giulio suo cognato perché era
amico infedele, ma che al tempo del negozio avrebbe fatto molto,
perché era astuto e sagace. L'uno e l'altro poi, quando il
Campanella diceva che sarebbero avvenute mutazioni, affermavano
che vi avrebbero avuto gran parte, e indicavano Marcantonio come
colui che aveva a sua disposizione molti banditi, ed amici e
parenti, la qual cosa il Campanella giudicava esser bene, poichè
succedendo una guerra si potea stare con chi vincesse. Ed una
volta che il Campanella diceva loro che la terra di Stilo non avea
bisogno di presidio, come era stato notato dal Principe di
Squillace, perché tutti i passi sono stretti, essi affermavano che
vi starebbero per liberarsi dal Governo spagnuolo, e numeravano i
molti amici di Marcantonio, il figlio di Nino Martino con molti
altri della piana (piana di Terranova), i Grassi con cinquanta
compagni, i molti parenti di Mesiano patria della madre de'
Contestabili. A queste rivelazioni potremmo aggiungere anche
un'altra tratta da deposizioni di altri individui, che cioè il Di
Francesco voleva dal Campanella uno spirito familiare per vincere
al giuoco; ma ci preme tener dietro alla faccenda della congiura.
I due cognati dunque avrebbero con Marcantonio, e con tutti que'
fuorusciti e parenti, liberato Stilo da Spagna, e poi? I colloquii
con altre persone, rivelati da chi non aveva un interesse diretto
a nascondere qualche cosa, rispondono a tale dimanda. - Veniamo a
Gio. Tommaso Caccìa. Con questo giovane bandito di Squillace, di
soli 25 anni ed abbastanza incolto quantunque clerico, dipendente
in tutto da Marcantonio Contestabile, i colloquii non furono molto
larghi, eppure forniscono qualche utile notizia: il peggio è che
essi risultano dalle deposizioni del Caccìa medesimo, e queste,
per abuso, furono fatte anche nel tribunale laico fra tormenti
atroci, e nel tribunale ecclesiastico fra gravi paure e seduzioni.
Egli seppe da Marcantonio che il Campanella era un grande uomo, e
presso di lui vide e conobbe Dionisio: trovatosi una volta solo
col Campanella, ebbe curiosità di dimandargli qualche cosa intorno
alla magia, ma il Campanella lo chiamò sciocco, perché credeva a'
diavoli e all'inferno. Frattanto, nel parlare con Marcantonio, il
Campanella diceva di voler fare nuove leggi, migliori di quelle
de' Cristiani, e che quando predicherebbe si sarebbe conosciuta la
verità, e volea perfino far mutare il modo di vestire solito, «et
volea che si portasse una giobba longa o sia veste» (qualche cosa
di ciò che fu poi scritto nella Città del Sole). E diceva che
presto doveano esservi mutazioni, sollevazioni e rivoluzioni,
perché così conosceva per scienza, astrologia e profezia, e perciò
beato chi si trovasse armato, ed ognuno dovea star pronto e
cercare di avere amici, che gli sarebbe stato utile assai. E una
volta Giulio Contestabile, dopo di avere parlato segretamente col
Campanella, dimandò al fratello Marcantonio: ebbene Marcantonio
che ne dici? sarà vero ciò che dice fra Tommaso? E Marcantonio:
troppo sarà vero e presto lo vedrai. Così egli poi, il Caccìa, si
diede a cercare qualche amico, e condusse al convento un altro
fuoruscito, Gio. Francesco d'Alessandria, e fece varii altri giri
presso il Pizzoni, presso Dionisio etc. come vedremo a suo tempo.
Passiamo a' colloquii avuti con Maurizio de Rinaldis, colloquii
d'interesse capitale, poichè, dopo il Campanella, egli fu il
soggetto più importante in questa faccenda, onde a ragione, nelle
lettere al suo Governo, il Residente di Venezia in Napoli lo
indicò qual «capo secolare della congiura». Appunto per tale
circostanza è necessario dare qualche notizia di più intorno alla
persona sua: per disgrazia i documenti ci fanno difetto in modo
straordinario; non di meno abbiamo tanto da poter mettere la sua
nobile figura nel posto che le compete. Giovane a 27 anni, sposo a
Giulia Vitale da cui avea avuta una figliuoletta a nome Costanza,
apparteneva ad una delle più nobili famiglie di Stilo, che
dimorava in Guardavalle, a que' tempi, come abbiamo già detto,
casale di Stilo. Tutti gli storici particolari di Calabria,
ripetendosi, parlano de' quattro fratelli de Rinaldis di Stilo,
Patrizio, Nicola, Francesco e Ludovico, cospicui nelle armi, che
furono dichiarati familiari da Carlo V pei meriti loro, ed
ottennero di portare nel loro stemma l'aquila nera imperiale: noi
ci siamo ritenuti in dovere di farne ricerca nell'Archivio di
Stato, ed abbiamo rinvenuto che Nicola e Francesco furono una
persona sola, e che vi fu invece un altro de Rinaldis premiato a
nome Antonello, verosimilmente fratello di costoro, tutti figli di
Tommaso de Rinaldis; i lettori potranno avere ogni cosa
sott'occhio, consultando i nostri documenti. Il Parrino disse
Maurizio «persona di non mediocri ricchezze», e vedremo il
Campanella, benchè inesattamente, attribuire la persecuzione e
morte di Maurizio al desiderio ingeneratosi nel fiscale della
causa di avere un feudo che Maurizio possedeva. Secondo le notizie
del Residente di Venezia che ne fece sempre in vita e in morte i
più grandi elogi, egli era stato uomo d'arme, e tale troviamo
veramente il costume di casa sua e de' pochi nobili di provincia
non degenerati; avrebbe allora con ogni probabilità servito nel
Battaglione a piedi della milizia provinciale. Del resto siamo per
vederne l'assennatezza, la preveggenza, l'attività, la forza
d'animo anche straordinaria, con la quale seppe esser superiore ad
ogni risentimento e sfidare torture inaudite, non disgiunta per
altro da un attaccamento tenace alla religione dei padri suoi,
attaccamento dichiarato al Campanella fin da principio, per lo
quale s'indusse poi a fare le più larghe rivelazioni a piè del
patibolo «senza alcuna condizione di salvarsi la vita». Il
Campanella dapprima sentì per lui la più viva simpatia, «per
haverlo visto cossì pronto et audace» come si legge nella sua
Dichiarazione; di poi lo proclamò «generoso», lo qualificò un
«eroe», avendo udito che nelle atrocissime torture non avea
rivelato nulla, come si legge nelle sue Poesie clandestine che
oggi abbiamo la fortuna di poter pubblicare; da ultimo l'infamò
con la più grande disinvoltura, avendo saputo che sotto il
patibolo avea fatto rivelazioni, come si legge nelle stesse
Poesie, nella Difesa, e in tutte le altre scritture analoghe date
fuori in sèguito. Vedremo queste cose ampiamente a tempo e luogo,
ma essendo finora conosciuta la sola parte ignominiosa attribuita
a Maurizio dal Campanella, dobbiamo notare che essa non fu punto
vera, premendoci di chiarire le qualità di Maurizio e al tempo
stesso la credibilità delle sue rivelazioni; poichè i colloquii da
lui avuti col Campanella, e tutti i fatti consecutivi, si desumono
essenzialmente dalle sue rivelazioni, le quali sono degne di fede
per loro medesime, più che per vederle appoggiate da quelle degli
altri inquisiti che gli erano stati sempre a fianco. Aggiungiamo
che Maurizio era fuoruscito dal novembre 1598, come fu deposto dal
suo cognato e compagno Gio. Battista Vitale, nobile anche lui ma
di un livello morale abbastanza inferiore: costui disse pure che
si erano allontanati da Guardavalle «per certe pugnalate», e che
queste pugnalate avessero prodotto omicidio lo attestò poi
dovunque il Campanella, specificando nella sua Narrazione essere
stati uccisi da Maurizio un suo cugino e una donna. Gio. Battista
Vitale eragli compagno, e solevano insieme alloggiare in Davoli
presso il sacerdote D. Marcantonio Pittella; ma questa volta,
nella venuta a Stilo, Maurizio fu accompagnato solamente da un suo
servitore a nome Tommaso Tirotta, il quale lo attestò nella sua
deposizione, poichè egli pure, egualmente che il Pittella, fu poi
inquisito per la congiura. - Come dicevamo, i colloquii del
Campanella con Maurizio si desumono essenzialmente dalle
rivelazioni di Maurizio, le quali furono di doppio ordine, le une
relative alla congiura fatte nel tribunale laico, le altre
relative all'eresia fatte a Delegati del S.to Officio; e poichè
possediamo le une e le altre, le prime veramente in brani, ma
bastevoli pel caso attuale, le seconde per intero, invitiamo i
lettori a percorrerle, facendo anche il confronto con ciò che il
Campanella espose nella sua Dichiarazione. In tale confronto si
noterà certamente la concordanza da più lati tra il Campanella e
Maurizio, malgrado il molto tempo e i terribili avvenimenti
interceduti; e questo ci sembra anche un argomento non lieve per
giudicare la veridicità di Maurizio egualmente nelle cose le quali
il Campanella, pei bisogni della sua difesa, o tacque o espose per
modo da mostrarne autore Maurizio.
In sostanza, sia pure che Maurizio abbia rivolto al Campanella le
solite dimande sulle mutazioni e su ciò che vi era da fare, il
Campanella, in presenza di fra Dionisio e del Prestinace, lodò che
egli stesse in arme e l'eccitò ad avere molti compagni, poichè in
tal guisa sarebbe divenuto grande, adducendo gli esempi del
Caldora, del Piccinino, del Fortebracci; stigmatizzò con argomenti
tratti dalla Bibbia la nuova numerazione fatta dal Governo (la
numerazione de' fuochi fatta nel 1596, rifatta nel 1598, contro la
quale Maurizio non era in grado di conoscere gli argomenti
Biblici); infine gli disse di voler fondare la repubblica,
dandogli animo a concorrervi con amici, ed egli si offrì.
Solamente obbiettò che senza danari non si potea far nulla, ma il
Campanella gli rispose che li avrebbe presi Marcantonio
Contestabile dal Castello di Arena; e gli fece anche intendere che
ne avea parlato ad uomini principali, tra gli altri a D. Lelio
Orsini, il quale dovea venire a governare lo Stato di Bisignano e
avrebbe aiutato l'impresa (supposizione del Campanella, se non
artificio). Dichiarò inoltre Maurizio che non sarebbe intervenuto
né avrebbe condotto gente, se non avesse vista già cominciata la
guerra (la guerra da cui avrebbero dovuto scaturire le mutazioni
di Stato); e il Campanella gli disse che avrebbe cominciato dal
far ribellare Catanzaro, e si convenne che fra Dionisio, presente
al colloquio, sarebbe andato a trovar gente in Catanzaro per fare
la ribellione, onde egli vi acconsentì. Poi un giorno, essendosi
visti alcuni legni turchi, fra Dionisio e il Campanella dissero
voler andare a trattare di quel negozio, facendo intendere a
Maurizio che bisognava cercare l'aiuto e il favore de' turchi, e
fra Dionisio, in compagnia del Petrolo ovvero senza tale
compagnia, mostrò di scendere alla marina per andarvi, sotto
pretesto che dovea riscattare un suo fratello preso da loro;
ond'egli più tardi, all'occasione della comparsa di Amurat Rays in
quelle marine, si decise ad andare lui stesso a trattare, senza
esservi stato propriamente mandato dal Campanella. D'altra parte
il Prestinace gli disse che nella repubblica si sarebbe vissuto in
comune, e il Campanella gli confermò questo, e gli disse pure che
la generazione dovea farsi dagli uomini buoni, cioè valorosi e
gagliardi (ciò che fu scritto poi nella Città del Sole); e il
medesimo Campanella disse che voleva aprire i sette sigilli, che
al tempo della guerra avrebbe fatto miracoli, che intendeva dar
libri in volgare e far bruciare i latini, forse alludendo a' libri
della fede, perché i latini imbrogliavano la gente, ed anche,
parlando de' turchi, ne disse bene, e parlando di Gesù lo disse un
grande uomo dabbene in guisa da far sospettare che non credesse
alla divinità di lui. Maurizio dichiarò che la religione doveva
esser messa da parte, e che non avrebbe mai consentito che se ne
fosse trattato; ma il Campanella gli spiegò che intendeva
solamente riformare gli abusi della religione. Intanto fra
Dionisio interloquiva anch'egli, ma sempre in un senso
irreligioso. Un giorno, e forse questa volta d'accordo col
Campanella, notò che il Papa e i Cardinali non rispettavano i
precetti ecclesiastici relativi al digiuno e all'astinenza dal
mangiar carne; un altro giorno parlò di un fatto osceno commesso
da un frate coll'ostia consacrata, e dell'annegamento di un
sacerdote avvenuto in Roma insieme con le ostie che era andato a
ritirare da una Chiesa durante l'inondazione del Tevere, volendo
inferirne che l'Eucaristia non avesse il valore attribuitole, non
essendosi verificato alcun miracolo in tali circostanze; un altro
giorno, avendo visto nella Chiesa del convento Maurizio
inginocchiato, gli disse all'orecchio che voleva gli uomini
appunto così, che sapessero fingere. - Dobbiamo aggiungere che
quando Maurizio trovava Giulio Contestabile presso il Campanella,
come accadeva quasi sempre, Giulio non dava a diveder nulla, e
Maurizio seppe dal Campanella la partecipazione di lui nella
congiura sol quando erano stati già da un pezzo carcerati: inoltre
che durante i colloquii fra Pietro di Stilo andava e veniva, ma
non vi prendeva alcuna parte.
Commentando un poco questi fatti, che rappresentano la base di
tutto ciò che accadde in sèguito, possiamo farci un concetto
abbastanza chiaro della congiura e de' suoi capi. Il Campanella si
rivela certamente il motore unico della macchina: nessuno sarebbe
stato in grado di esserlo al pari di lui; così tutti in massa,
congiurati, denunzianti, persecutori, giudici, inquisiti, non lo
posero mai in dubbio. Consigliere intimo del Campanella era forse
Gio. Gregorio Prestinace, rimasto assolutamente nell'ombra, perché
riuscito a nascondersi nel tempo delle persecuzioni: conoscitore
degli uomini e delle cose della provincia, egli dovè fornire al
Campanella le notizie delle quali aveva bisogno, e difatti le
rivelazioni processuali ce lo mostrano presente in tutti i
colloquii, consapevole anche de' particolari della repubblica da
doversi fondare; l'aver messo l'occhio su Maurizio, forse anche
l'averlo fatto venire a Stilo col pretesto che bisognava
controbilanciare l'influenza di Marcantonio Contestabile, dovè
essere opera sua. Maurizio poi era il capo di coloro che avrebbero
dovuto agire per l'insurrezione, ma prescelto dal Campanella,
esecutore de' progetti del Campanella, mentre Marcantonio, pur
sempre secondo i progetti del Campanella, avrebbe agito del pari
ma in un'altra direzione: egli già uomo d'armi, assennato ed
accorto, diede maggior consistenza a' progetti indicatigli, ne
avviò anche i preparativi con molta efficacia come vedremo in
sèguito, ma in somma accolse i progetti, non li creò; se si spinse
a pratiche co' turchi non concertate precedentemente, ne avea pure
avuto qualche cenno dal Campanella, e ad ogni modo queste sole sue
pratiche non basterebbero a costituirlo capo di una congiura nella
quale il Campanella si sarebbe trovato involto senza saperlo.
Quanto a' frati, fra Dionisio conosceva già i progetti del
Campanella, essendone verosimilmente il consigliere come vedremo
del pari in persona del Pizzoni, ma non faceva che secondarli ed
anche in modo tutto suo, rimescolando profondamente le coscienze
di coloro i quali egli voleva spingere ne' concerti per la
ribellione: non si potrebbe credere che egli ritenesse argomenti
serii contro la fede cristiana quelli che svolse a Maurizio, senza
far torto alla sua cultura che sappiamo essere stata non così
scarsa, ma si deve piuttosto dire che ritenesse indispensabile
scuotere in qualunque maniera la fede per destare gli animi e
renderli audaci; così vedremo poi sempre le dette scempiaggini
propalate da lui e da alcuni altri frati suoi adepti, ripetute con
storpiature ed aggiunte da altri adepti insulsi ed esaltati,
infine malamente attribuite al Campanella, il quale aveva senza
dubbio convinzioni poco cattoliche, ma non partecipava alle dette
scempiaggini, e voleva una religione anche come strumento di
regno. Quanto al Petrolo, egli pure conosceva i progetti del
Campanella e vi aveva aderito, come nel processo confessò, ma vi
partecipava debolmente, secondo la sua umile posizione: infine
quanto a fra Pietro di Stilo, egli li conosceva del pari e forse
più addentro degli altri; ma vi partecipava meno di tutti, per la
ragione che poco ci credeva, ed anzi quasi ne rideva, come vedremo
a suo tempo. né lasceremo questi apprezzamenti senza fare
avvertire che ciascuno di costoro mostrò in sèguito precisamente
la condotta notata da Maurizio quando ebbe occasione d'incontrarsi
con essi; la qual cosa aggiunge un peso sempre più grande alla
credibilità delle rivelazioni di Maurizio. - Adunque non solo
l'idea di un movimento insurrezionale per fondare la repubblica,
ma anche il modo di procedervi, erano suggeriti dal Campanella, il
quale in alcune circostanze apparve meno, perché seppe essere un
cospiratore abbastanza circospetto. Infatti talvolta condusse il
suo discorso in modo che la proposta d'insorgere venisse dal suo
interlocutore, e talvolta anche fece parlare ma non parlò; nella
faccenda dell'accordo col Turco invogliò soltanto ed anzi fece
invogliare Maurizio ad attendervi, senza esporre francamente il
suo concetto; ebbe perfino cura che qualche affiliato o qualche
gruppo di affiliati non conoscesse l'altro. Bisognava cominciare
dal far l'insurrezione in Catanzaro, poi, alla peggio, si
sarebbero ritirati su' monti segnatamente a Stilo, verso cui i
passi stretti rendeano difficile l'accedere delle milizie; il modo
di fornirsi di danaro era preveduto, ma bisognava far coincidere
il movimento con la venuta de' turchi, i quali avrebbero tenuto a
bada gli spagnuoli. Questa faccenda dell'accordo del Turco fu poi
sempre vivamente ripudiata dal Campanella, che disse l'accordo
avvenuto con sua meraviglia e disapprovazione: ma s'intende che la
cosa a que' tempi era tanto scandalosa da dover obbligare
assolutamente a ripudiarla, ed egli, che avea saputo mantenersi in
disparte da questo lato, potea lavarsene le mani con una certa
apparenza di verità; tuttavia dobbiamo ricordare che professava
dovere i turchi dividersi in due fazioni, l'una delle quali
avrebbe combattuta l'altra, che pochi mesi prima avea saputo il
Cicala andato in cerca di sua madre fervente cristiana e
separatosi da essa non senza lagrime, che infine nel libro della
Monarchia di Spagna aveva appunto insegnato come si potesse
profittare di qualche capitano turco stato già cristiano,
indicando il Cicala, l'Ochiali, lo Scanderbergo.
Presi i concerti suddetti, ognuno si pose all'opera. Maurizio
profittò dell'occasione per trattare l'accordo co' turchi, e si
recò sulle galere che erano veramente quelle di Amurat, chiedendo
di riscattare quattro persone di Guardavalle come ci dice un
frammento della Difesa di due imputati, mentre il Carteggio del
Residente Veneto ci dice che Amurat appunto a' primi di giugno
trovavasi sulle coste di Calabria, e il giorno 7 fece anche uno
sbarco alla Catona presso Reggio; quindi si occupò senza dubbio di
trovare amici, e disporli alla «fattione contro il Re».
Marcantonio si pose anch'egli a cercare amici, e vedremo che tornò
poi presso il Campanella col Caccìa ed un altro fuoruscito
affiliato. Fra Dionisio andò a trovare qualche altro frate, e con
lui e con un giovane che convertì per via si spinse fino a
Messina; quindi tornò presso il Campanella, accompagnato anche dal
Petrolo e da un terzo frate, che gli avea procurato l'acquisto di
un'altro giovanotto. In questo mentre avvennero i terribili
terremoti, già previsti e poi più volte ricordati dal Campanella,
onde specialmente in Reggio ed anche in Messina si ebbe grave
danno, essendo durati non meno di tre giorni e fino alla sera del
10 giugno. Il Campanella fu poco dopo chiamato dal Marchese
d'Arena e dovè andare presso di lui.
Verso il 20 giugno il Campanella ebbe questa chiamata dal Marchese
d'Arena, da non doversi confondere con un'altra chiamata
posteriore, della quale soltanto si ha il ricordo nella sua
Dichiarazione. Sappiamo che era allora Marchese d'Arena D.
Scipione Concublet de Bavaria (corrottamente «De Bavero»),
successo a D. Gio. Francesco suo padre e a D. Carlo suo fratello
primogenito, morti l'uno in gennaio l'altro in settembre dello
stesso anno 1582: egli viveva allora con la sua famiglia nel
Castello d'Arena, ma nella 2.a metà di giugno, trovandosi in giro
per que' paesi, era venuto a Monasterace, non lungi da Stilo, e
quivi era ospite di D.a Dianora Toraldo Signora della terra, come
la chiamò uno degli inquisiti che depose tale fatto nel processo.
Dagli scrittori in materia di nobiltà, e meglio anche da'
Cedolarii, conosciamo che Signore di Monasterace in quel tempo era
Giuseppe Galeota, figlio di Mario e di Eleonora Toraldo: costei,
figliuola di D. Gasparre Toraldo 5.° Signore di Badolato e sposa a
Mario Galeota, era rimasta vedova fin dal 1590; non a torto quindi
veniva considerata Signora di quella terra. Di là il Marchese fece
chiamare il Campanella volendo parlare con lui; e il Campanella si
recò in Monasterace, e vi si trattenne sei giorni. Quali argomenti
trattasse il Campanella col Marchese non ci è noto, ma non è
arrischiato l'ammettere che le vicine mutazioni da tutti aspettate
fossero l'oggetto precipuo dei colloquii, bene inteso rimanendo
nascosti i progetti del Campanella; poichè, quantunque il Marchese
fosse poi stato nominato qual complice, sappiamo invece che egli
doveva essere una delle vittime del movimento; ma interruppe i
colloquii fra Dionisio, venuto con la sua comitiva a Monasterace
in cerca del Campanella, che con quel sèguito fece ritorno a
Stilo.
Ecco pertanto il giro che fra Dionisio finiva di compiere in quel
momento. Licenziatosi in fretta dal Campanella e dagli altri
congregati in Stilo, egli si recò a Condeianni, dove era Vicario
del convento de' Domenicani fra Giuseppe Bitonto di S. Giorgio:
abboccatosi con costui partì l'indomani per Oppido, ove risedeva
in qualità di Viceconte il fratello Ferrante. Fra Giuseppe
Bitonto, nello stesso giorno in cui partiva da lui fra Dionisio,
si recava in S. Giorgio e quivi chiamava un suo cugino Cesare
Pisano e con lui raggiungeva immediatamente fra Dionisio in
Oppido: di là tutti e tre l'indomani si recarono insieme a Bagnara
e quindi a Messina. Questo Cesare Pisano, figlio di Fabio, era un
giovane di 24 anni, clerico, ma di costumi assai tristi: una volta
avea servito per testimone al Polistina in Napoli contro fra
Dionisio, quando si trattava la causa dell'omicidio di P.e Pietro
Ponzio, e però al vederselo davanti, fra Dionisio ne rimase
turbato; ma dietro assicurazioni del Bitonto presto s'acquetò.
Trattavasi di uno di quelli che poteano servire nell'impresa
disegnata, e non appena in viaggio, tra Oppido e Bagnara, fra
Dionisio si occupò subito di catechizzarlo col metodo da lui
prescelto, assistendolo pure fra Giuseppe Bitonto in tale ufficio:
cominciò a dire che non c'era Dio, non c'era altro Dio che la
natura, inezia la confessione, inezia il temere di far peccato,
fra Tommaso Campanella avrebbe fatte nuove leggi essendo quasi un
Messia; gli annunciò inoltre una fazione di grande importanza che
si volea fare, per la quale occorrevano uomini di valore ed alla
quale volea che avesse preso parte, giacchè sarebbe stata
l'esaltazione sua, ma per allora non gli spiegò di che si
trattasse. Giungendo a Bagnara e fermandovisi due giorni, fra
Dionisio che era stato invitato a predicare vi fece una delle sue
buone prediche sull'Evangelo, poichè, come diceva al Pisano,
«sapeva predicare l'uno e l'altro». A Messina si trattennero circa
sei giorni, dimorando i due frati nel convento de' Domenicani, e
Cesare Pisano all'osteria: ritornarono quindi per la stessa via di
Bagnara, e si ridussero, fra Dionisio ad Oppido presso il fratello
Ferrante, il Pisano a S. Giorgio, il Bitonto a Condeianni. Ma dopo
circa dieci giorni, fra Dionisio accompagnato da un fra Giuseppe
Jatrinoli e da un giovanotto a nome Giuseppe Grillo figlio
naturale di Gio. Alfonso, tornò a Condeianni; quivi si unì al
Bitonto ed anche al Pisano che vi era venuto da S. Giorgio, e
tutt'insieme si diressero a Stilo per vedervi il Campanella. In
questo secondo viaggio si fermarono prima alla Motta Placanica,
ove alloggiarono nel convento, l'indomani si recarono a Stignano,
e là furono a pranzo in casa di Gio. Alfonso Grillo che era di
Oppido ma dimorava a Stignano, coll'intervento di fra Domenico
Petrolo, di un D. Marco Petrolo e di Geronimo Campanella padre di
fra Tommaso, quindi passarono a Stilo menando con loro anche fra
Domenico: non trovarono là fra Tommaso, ed avendo saputo che era
in Monasterace vi si recarono immediatamente, rimanendo a Stilo il
solo Giuseppe Grillo; in Monasterace poi si fermarono appena tre
ore, e preso con loro il Campanella si ridussero tutti insieme a
Stilo. Vedremo fra poco quali furono i discorsi scambiati col
Campanella, ma per ora importa dire che nel pranzo di Stignano fra
Dionisio fece uno de' suoi maggiori sproloquii, evidentemente per
catechizzare Cesare Pisano e Giuseppe Grillo; e disse che non
c'era Dio né Trinità al modo che si crede, sibbene uno spirito che
governa e move il tutto, che Dio era la natura, che non c'erano
diavoli, né inferno, né purgatorio, né paradiso, che Cristo non
era vero figlio di Dio ma un semplice Nazareno, che il sacrificio
della Messa facevasi per bere, che nell'ostia non c'era Cristo e
potea rilevarsi dal fatto che la mangiano i vermi, che fra Tommaso
Campanella volea predicare e fare nuove leggi e nuovi statuti, ed
egli con lui, portando gli uomini alla libertà naturale. Gli altri
frati applaudivano e commentavano, e ne sembravano intesi del pari
i due Petrolo, i quali del resto andavano e venivano (come
probabilmente faceva anche Geronimo Campanella) per rendere
servigi agli ospiti, ma pure non mancavano d'interloquire; p. es.
fra Domenico Petrolo diceva al Pisano, «che ti credi, che ci sia
Dio Padre quel barbuto come si dipinge?», e tutti i frati
continuavano separatamente a dire qualche cosa dello stesso
genere. Così si sarebbe parlato contro la verginità di Maria,
contro i miracoli di Gesù ed anche de' Santi, contro le relazioni
tra Gesù e S. Giovanni, contro le prescrizioni della Chiesa,
contro l'istituzione monastica di ambo i sessi, contro l'autorità
e la moralità del Papa, de' Cardinali e de' Vescovi; fra Dionisio
vi avrebbe pure narrato il solito fatto osceno contro il
Sacramento dell'altare, aggiungendovi inoltre il fatto di un
Inglese che in Roma diè un pugno al Sacramento senza alcuna
conseguenza miracolosa, ma fu poi bruciato vivo d'ordine del Papa;
e si può dire che queste ultime proposizioni furono probabilmente
enunciate, mentre sulle altre rimane qualche dubbio. Con ciò si
sarebbe parlato ancora di progetti del Campanella in un modo
esageratissimo e scempiato; che egli era il vero legislatore e il
vero Messia, che con la sua predica e dottrina, e col valore de'
tanti che lo seguivano, avrebbe levato la fede di Cristo e si
sarebbe impadronito del mondo; ma infine segnatamente fra Dionisio
e il Bitonto gli comunicarono la risoluzione di ribellare il Regno
e sottrarlo al dominio del Re di Spagna, e che per questo effetto
aveano concerti con molti fuorusciti, ed anche con molti
gentiluomini e Signori, tra' quali il Marchese d'Arena ed altri.
Finalmente poi questi frati, compreso fra Domenico Petrolo,
conchiusero che bisognava far parlare il Pisano col Campanella. -
Come dicevamo, non trovarono il Campanella a Stilo ed andarono a
cercarlo a Monasterace. In questa traversata s'incontrarono con
Marcantonio Contestabile, Gio. Tommaso Caccìa ed un altro
fuoruscito abbastanza rinomato per molti delitti, Gio. Francesco
d'Alessandria, i quali si recavano del pari a Stilo presso il
Campanella, e continuarono la loro via, probabilmente dietro
l'assicurazione che fra Dionisio e compagni andavano a prenderlo e
tra poco sarebbero tornati con lui. Essi trovarono infatti il
Campanella a Monasterace, in casa della S.ra D.a Eleonora insieme
col Marchese d'Arena, e seppero che vi stava già da sei giorni. Il
Campanella prese subito licenza da questi Signori, e poco dopo,
accompagnato da tutta la comitiva venuta a rilevarlo, tornò a
Stilo. Durante il viaggio gli fu presentato il Pisano come uno
degli amici; stando a cavallo gli domandò se era prete di Messa, e
udito che era chierico, tenne qualche discorso con lui
dilucidandogli alcuni dubbi. Secondochè il Pisano potè capire e
riferire col suo limitato intelletto, il Campanella gli avrebbe
confermato che non ci era vita futura, dicendo che i corpi nostri
erano come quelli de' bruti e che le anime nostre si convertivano
in non essere; quanto poi all'essenza di Dio, gli avrebbe detto di
star contento a ciò che i frati gli aveano significato,
trattandosi di cose troppo elevate per la sua intelligenza; così
il Pisano rimase persuaso che quanto gli era stato detto da' frati
veniva approvato dal Campanella.
Prima di andar oltre riesce necessario chiarire un poco tutto
questo andirivieni. Vi sarebbero due maniere di spiegarlo; o che
fra Dionisio, con la sua tendenza a vagare e col bisogno di una
compagnia, tanto per soddisfare alla sua indole ciarliera quanto
per provvedere alla sua sicurezza personale, sia andato fino a
Messina per fare qualche acquisto associandosi a qualche compagno
di viaggio, e poi abbia fatto lo stesso nel volersi recare a
Stilo; ovvero, con l'impegno di trovare amici ed alleati per
l'impresa da doversi compiere, siasi rivolto al suo germano
Ferrante e ad altri individui di sua conoscenza, e tra essi a que'
frati, che potevano fare al caso suo e raggranellare anche
qualcuno, principalmente poi abbia adempito ad una missione
segreta in Messina, e sia venuto da ultimo presso il Campanella
per dar conto di questa missione e di tutti gli altri maneggi,
presentando i frati amici insieme co' primi saggi della loro
raccolta. Quando più tardi si dovè rendere ragione di questi
viaggi ne' tribunali, si disse appunto che fra Dionisio era andato
a Messina per comperar pepe, tostati e la Biblioteca Santa del
Sisto, come il Bitonto per comperar materassi; del viaggio
sussecutivo a Stilo non si rese ragione alcuna, e solo il Bitonto
accennò all'essere andato a Stilo per pregare il Campanella che
gli facesse avere l'incarico di qualche predicazione. Tutto ciò è
possibile, ma è possibile anche l'altra versione, specialmente se
si tengano presenti tutte le circostanze anteriori e posteriori: a
noi pare molto accettevole la seconda maniera di spiegare la cosa,
e giungiamo fino a credere che fra Dionisio abbia potuto andare in
Messina per far arrivare cautamente al Cicala qualche sua lettera,
giacchè un documento da noi trovato nell'Archivio di Spagna in
Simancas ci mostra che appunto in questo tempo da Messina e dalla
casa stessa del Cicala partivano le informazioni che costui
desiderava, e poi, alcuni anni dopo, si vide fra Dionisio scappato
dal carcere riparare appunto in casa del Cicala a Costantinopoli.
Il viaggio a Messina fu più tardi minutamente vagliato intorno
all'eresia e non intorno alla congiura: noi non vorremmo
menomamente sembrare più crudeli del crudelissimo Avvocato fiscale
che tanto aggravò la causa di questi disgraziati, e però ci
limitiamo ad enunciare la nostra idea e ad abbandonarla alla
meditazione de' lettori, ma ricordando che nel tempo in cui fra
Dionisio si recava a Messina, Maurizio non aveva ancora avuta
occasione di andar lui presso i turchi. Certamente poi da tutto
l'insieme de' fatti successivi, ed anche soltanto da' fatti che si
verificavano in quei giorni, si ha motivo di ritenere che i
suddetti viaggi si connettevano col lavoro per la congiura.
In Stilo non sappiamo veramente quali discorsi siano stati allora
fatti tra il Campanella e que' frati: sappiamo solo che l'indomani
parlarono a lungo tra loro senza l'intervento del Pisano e del
Grillo, e poi, rimanendosi fra Dionisio, ciascuno degli altri
prese la volta della sua dimora. Ma vi erano già arrivati anche
Marcantonio Contestabile col Caccìa e con Gio. Francesco
d'Alessandria, il quale era stato sollecitato propriamente dal
Caccìa. Nemmeno sappiamo i discorsi fatti col Contestabile; c'è
tuttavia ogni ragione di credere che costui abbia dovuto
egualmente render conto de' suoi maneggi e de' compagni che avea
trovati. Sappiamo solamente i discorsi fatti dal Campanella in
presenza del Caccìa e del D'Alessandria, secondochè li rivelò poi
il Caccìa nel processo della congiura, ma, come abbiamo già avuta
occasione di dire, alle rivelazioni del Caccìa non si può troppo
aggiustar fede, essendo state fatte fra tormenti atroci. Secondo
il Caccìa, nella sua cella insieme con fra Dionisio, il Campanella
manifestò loro la congiura e i preparativi che già si faceano:
ripetè che in quell'anno 1599 e 1600 dovevano esservi le grandi
mutazioni, affermò che ci erano molti altri congiurati per fare le
Provincie di Calabria repubblica, con l'aiuto anche del Turco e
d'altri Signori, manifestò che «Mauritio e un altro di Reggio di
Casaspano (sic) haveano fatto una gran quantità di forusciti», e
che lui, il Campanella, «voleva essere Monarca del mondo et dare
nova legge». In verità non apparisce credibile che quest'ultima
proposizione abbia potuto essere stata detta ad un uomo come il
Caccìa, e però tutta la rivelazione sua rimane infirmata: può
ammettersi solamente che Gio. Francesco d'Alessandria dovè essere
catechizzato nel senso delle prossime mutazioni e rivoluzioni, e
tutti doverono essere infervorati a star pronti e a cercare altri
compagni. Tre giorni durò la permanenza di questi fuorusciti nel
convento di Stilo: il Campanella e fra Dionisio rimasero soli, ma
per brevissimo tempo; giunse in fretta il Bitonto e fu necessario
che il Campanella, insieme con lui e fra Dionisio, si mettesse di
nuovo in viaggio. Passiamo a dire ciò che era accaduto.
Nel partire da Stilo, fra Giuseppe Bitonto e fra Giuseppe di
Jatrinoli furono accompagnati da Cesare Pisano fino alla Motta
Placanica; di là, separandosi dal Pisano, proseguirono fino a
Castelvetere e si fermarono nel convento del loro Ordine; e sia
per accidente, sia con premeditazione, videro un Felice Gagliardo
di Gerace che stava nelle carceri di Castelvetere e tennero con
lui un abboccamento. Questo Felice Gagliardo ci darà molto da dire
nel sèguito della nostra narrazione. Giovane a 22 anni, di molto
ingegno e di nessuna coscienza, temerario e peggio, avea preso
moglie in Condeianni ma dimorava in Gerace con un Pietro Veronese
suo patrigno, ed entrambi menavano pessima vita: nel Grande
Archivio abbiamo intorno a loro trovato un documento che mostra
come fin da due anni prima si dilettassero di grassazioni e di
furti. Vedremo più tardi che Felice, stando poi carcerato in
Napoli, continuava a tenere corrispondenza con una banda di
fuorusciti, alla quale non era estraneo il Veronese e della quale
facea parte un suo fratello a nome Lucio, che andò a finire ucciso
come bandito con taglia, e Felice medesimo, liberatosi da'
travagli per la congiura e l'eresia, andò poi a finire sul
patibolo per delitti comuni. Egli avea da due anni conosciuto il
Bitonto che era stato in Condeianni a predicare: in sèguito,
essendo sorta inimicizia tra lui e il proprio cognato a nome
Felice Regitano, gli avea tirato un colpo di fucile, per la qual
cosa si trovava in carcere. Secondo il Bitonto, il Gagliardo lo
chiamò per raccomandarsi che avesse pregato i suoi parenti in suo
favore, procurandogli la remissione da parte loro; ma ciò non
toglie che il Bitonto, a quanto pare, avesse fatto assegnamento
sopra di lui per la ribellione; di fatti gli avrebbe detto di
voler procurare l'accomodamento in Condeianni, e frattanto stesse
di buon animo, chè vedrebbe succedere cose le quali gli sarebbero
di grandissima utilità. Giunto a Condeianni, non mancò di trattare
co' parenti del Gagliardo, ma costoro si negarono affatto:
pertanto Cesare Pisano veniva carcerato, e il Bitonto dovè
occuparsi di lui. - Di ritorno dal viaggio fatto, Cesare Pisano si
era appropriata una giumenta del Principe della Roccella, che era
pure Marchese di Castelvetere, e però fu preso dagli ufficiali del
Principe e tratto alle carceri di Castelvetere: il Bitonto gli
avrebbe detto che andasse di buon animo, che troverebbe là Felice
Gagliardo amico suo; frattanto cercò subito che il Campanella e
fra Dionisio parlassero al Principe della Roccella in favore di
Cesare, e così ebbero a mettersi di nuovo in viaggio tutt'insieme
per tale scopo.
Era il 1° o il 2° giorno di luglio, quando il Campanella, fra
Dionisio e fra Giuseppe Bitonto, partiti da Stilo giungevano in
Castelvetere. Quivi dapprima visitarono Cesare Pisano nel carcere,
di poi così il Campanella come fra Dionisio si recarono presso il
Principe per supplicarlo che lo liberasse: e pare che il Principe
lo facesse sperare, tanto che circa venti giorni dopo, ritenendo
la cosa ben certa, fra Dionisio ne annunziava la liberazione ad un
altro frate che era zio di Cesare, fra Vincenzo Rodino di S.
Giorgio; ma veramente il Principe non ne fece nulla. Intorno poi
alle parole scambiate tra' frati e il prigioniero, secondo il
Bitonto gli si sarebbe detto solamente di star di buon animo;
secondo Felice Gagliardo si tenne un discorso lungo e segreto, ed
oltracciò, finito il discorso, Cesare che già si era stretto a lui
lo presentò al Campanella dicendo, «questo giovane è di Condeianni
e potrà servire et mover genti», e il Campanella e fra Dionisio
gli avrebbero entrambi detto di dar credito a quanto gli sarebbe
stato comunicato da Cesare. Avvertiamo una volta per sempre che le
asserzioni di Felice Gagliardo non si possono ritenere senza le
più grandi riserve: ma è verosimile che il Bitonto, nell'altro suo
abboccamento con lui, gli avesse parlato della ribellione, non
senza condire il discorso con le teoriche antireligiose giusta il
metodo di fra Dionisio, e che Cesare gli avesse continuato a
parlare sempre più efficacemente nello stesso senso; così il
Gagliardo potè essere presentato al Campanella e a fra Dionisio,
venendo scambiata tra loro qualche parola di complimento e forse
anche qualche allusione coverta alle imprese disegnate. Certo è
che fu questa la prima volta in cui Felice Gagliardo venne a
contatto col Campanella e con fra Dionisio, e per pochi istanti.
Certo è del pari che Cesare, infatuato pe' discorsi
precedentemente avuti con fra Dionisio e con gli altri frati, si
fece a catechizzare Felice Gagliardo, il quale non avea veramente
molto bisogno di essere catechizzato, e così pure gli altri che
stavano o vennero successivamente nello stesso carcere per
imputazioni diverse, durante i tre mesi e più che là fu rinchiuso.
Con l'eccitamento del neofito e con la storditaggine che gli era
propria, cominciò fin dalla prima sera a trattenersi con Felice
Gagliardo su' noti argomenti, esagerando quanto aveva imparato ed
aggiungendovi del suo. Non esisteva Trinità, l'ostia non conteneva
Cristo (dimostrandolo col solito fatto osceno, che attribuiva a sè
medesimo per vanteria ed anche al Bitonto), Cristo era un povero
pezzente sporco «zazzaruso», che si scelse per compagni dodici
altri pezzenti ed era in relazioni pessime con Giovanni; de'
miracoli di Cristo non si dovea creder nulla perché riferiti da'
suoi parenti ed amici; Lazzaro era risorto per via di erbe, e
Maria era una schiava nera d'Egitto concubina di Giuseppe, e però
nell'Officio si diceva «nigra sum»; nel morire le anime si
convertivano in ombre fugaci e spiriti aerei e i corpi in pietre,
non c'era inferno né paradiso né diavoli, cose inventate «ad
terrorem», le vigilie co' digiuni erano state inventate per far
morir presto, e poi le solite storie della mala vita de' Papi e
dei Cardinali, de' conventi etc. E poi, che il Messia Campanella
aveva armi e genti assai e denari, ed avrebbe conquistato più
Stati e Regni che non ne conquistarono gli Apostoli, perché «vis
unita fortior»; e presto vi sarebbero rivolture e Campanella
farebbe nuove leggi. Pare impossibile che questo sciagurato
ciarlasse tanto co' suoi compagni di carcere; ma egli medesimo
ebbe poi a dire che discorse così largamente di eresia con loro,
perché «credeva più facilmente indurli o confirmarli alla
ribellione temporale».. «per vedere si loro erano boni per la
ribellione». Avea dunque adottato pienamente il metodo di fra
Dionisio, e con questo metodo egli infervorava alle cose nuove,
oltre Felice Gagliardo, un Orazio Santa Croce di Gerace, un
Geronimo Conia di Castelvetere, un Camillo Adimari di Altomonte
paggio del Principe della Roccella, un Gio. Angelo Marrapodi di
S.ta Agata mastrodatti: e pare che meno quest'ultimo di età più
inoltrata e repugnante propriamente alle teoriche irreligiose, gli
altri, che aveano da' 19 a' 30 anni di età, consentissero più o
meno ma senza scoprirsi troppo; erano giovani e non de' più
pacifici, stavano in carcere e non vedevano l'ora di uscirne,
aveano quindi ragione di accogliere siffatte cose molto
volentieri. L'essere poi stati, all'infuori del Gagliardo, più o
meno discolpati dal medesimo Pisano negli ultimi momenti di sua
vita, come ci mostra un documento da noi rinvenuto nell'Archivio
dei Bianchi di giustizia, deve intendersi nel senso che essi,
all'infuori del Gagliardo, non si manifestarono esplicitamente con
lui; e per verità non avrebbero potuto manifestarsi, vedendolo
facile a ciarlare così leggermente di cose tanto delicate. Secondo
le rivelazioni che più tardi fecero contro di lui gl'individui
suddetti, e segnatamente il Gagliardo ed il Conia, egli avrebbe
loro esposta la congiura per filo e per segno, con molti
particolari di grande importanza: probabilmente costoro vi erano
stati già iniziati, ed anche poterono foggiare molte cose sulle
notizie che allora ne correvano; non di meno deve ritenersi per
certo che egli ne abbia parlato enfaticamente, dietro ciò che glie
ne aveano detto in ispecie fra Dionisio, fra Giuseppe Bitonto e
fra Giuseppe Jatrinoli. Pertanto è facile vedere che lo zelo del
Campanella in favore di Cesare non va spiegato unicamente co'
riguardi verso i suoi amici che glie lo raccomandarono; lo zelo
stesso di fra Dionisio per quest'uomo, di cui non aveva avuto
punto a lodarsi in passato, non va spiegato unicamente co'
riguardi verso il Bitonto; senza dubbio le premure pel Pisano
mettevano capo alla sua qualità di affiliato alla congiura.
Vediamo ora le ulteriori mosse del Campanella. È accertato che
egli si trattenne due soli giorni in Castelvetere, e che tornato a
Stilo, insieme con fra Dionisio, continuò d'accordo con costui a
sollecitare amici e far raccolta di fuorusciti. Più volte avea
scritto a fra Gio. Battista di Pizzoni, il quale ricoverava nel
suo convento un fuoruscito molto noto, a nome Claudio figlio di
Ferrante Crispo: oltracciò si trovava ricoverato nel convento di
Soriano un altro fuoruscito non meno noto, Giulio Soldaniero di
Borrello in compagnia di un suo servitore anche più agile di lui
nelle armi, a nome Valerio Bruno di Motta Filocastro, e il
Campanella pensò di far parlare egualmente a questo Soldaniero.
Fra Gio. Battista di Pizzoni risedeva appunto nel convento di
Pizzoni, paesello distante poche miglia da Soriano: il convento
era piccolo ed abbastanza isolato, e non conteneva più di due
sacerdoti e due o tre «terzini o terzi habitelli» come solevano
chiamarsi i frati inservienti; né occorre dire che in questa
specie di conventi non c'era ombra di regole monastiche. Fra Gio.
Battista vi aveva titolo di Vicario; con lui stava il suo fido fra
Silvestro di Lauriana, e tra' terzini stava fra Fabio Pizzoni
nipote di fra Gio. Battista, le cui relazioni con fra Silvestro
aveano già dato da dire anche troppo. Non erano mai mancati i
fuorusciti in quel convento, e il predecessore di fra Gio.
Battista, fra Ferrante da Soriano, avea passato pericolo di essere
precipitato dalle finestre per mano di quelli che si trovavano là
ricoverati: avendovi giurisdizione il Vescovo di Mileto, ed
obbligando costui, come già conosciamo, i superiori dei conventi a
ricoverare i fuorusciti sotto pena delle censure ecclesiastiche,
Claudio Crispo, giovane fuoruscito per omicidio, vi stava in piena
regola, e fra Gio. Battista mantenevasi con lui in buonissime
relazioni, anche perché, a quanto pare, gli serviva da braccio
forte verso i suoi nemici. Aveva poi fra Gio. Battista avuta
occasione di conoscere pure Giulio Soldaniero, ed ecco in che
modo. Giulio, anche lui di soli 22 anni, possidente, con moglie,
si era fatto capo di banditi, avendo ucciso due suoi cugini
Marcello e Pietro Soldaniero, oltre una donna, Vera la Rocca, per
ereditarne, come dicevasi, le sostanze; ma ne rimanea tuttora vivo
un altro, Eusebio Soldaniero, e costui si era fatto bandito
egualmente, per difendersi e per vendicare i suoi fratelli. Giulio
risedeva ordinariamente nel convento di Soriano, convento
magnifico, divenuto una delle maraviglie della Calabria,
possedendo un'immagine portatavi nientemeno che da S.a Caterina e
da M.a Maddalena: egli vi stava già da oltre otto mesi, avea quivi
passata la quaresima assistendo a tutte le prediche fatte in tal
tempo da fra Gio. Battista da Polistina (circostanza da
ricordarsi), e per voto alla Madonna dell'Idria, fatto un giorno
che gli toccò una ferita d'archibugio, si asteneva da' cibi di
grasso il martedì; con tutto ciò i Superiori del convento
affermavano esser lui uomo di mala vita, ma il Vescovo di Mileto
non volea che venisse espulso. Eusebio risedeva ordinariamente in
Serrata casale di Borrello; intanto un giorno corse voce che fosse
venuto nel convento di Pizzoni per trovarsi più vicino a Giulio ed
insidiarne la vita; Giulio scrisse allora una lettera minatoria a
fra Gio. Battista, il quale si affrettò a dissipare l'equivoco, si
diè premura di vederlo e rimase con lui in buoni termini. Potea
dunque servire per invitare Giulio a far parte della congiura; e
veramente come costui si fece poi a confidare al Priore di
Soriano, più volte lo sollecitò in questo senso; tuttavia parve
bene che gli si facesse udire anche la voce di fra Dionisio, e
così fu convenuto, quando, dietro le insistenze del Campanella,
dovendo anche aggiustare una faccenda d'interessi con un fra
Marcello Basile francescano, fra Gio. Battista si risolvè di
andare a Stilo.
Ma appunto in quel tempo, durante la prima settimana di luglio, il
Campanella, chiamato un'altra volta dal Marchese, dovè recarsi ad
Arena. Fra Gio. Battista di Pizzoni ve l'accompagnò, e così pure
fra Dionisio, unitamente a Marcantonio Contestabile, Gio. Tommaso
Caccìa e un altro fuoruscito, con molta probabilità Giovanni
Morabito, che per essere di Filogasi conoscevasi col nome di
Giovanni di Filogasi: vedremo infatti più tardi distintamente
nominato questo Giovanni di Filogasi come uno della compagnia.
Fece inoltre egualmente parte della compagnia questa volta il
fratello del Campanella Gio. Pietro, armato anch'egli, come i
fuorusciti predetti, di fucile e pistola (scoppetta e
scoppettuolo, quest'ultimo noverato tra le armi proibite). Il
Campanella fu alloggiato presso il Marchese in castello,
nell'altura di Arena; tutti gli altri si rimasero nella terra,
certamente in compagnia di Gio. Francesco d'Alessandria che soleva
stare in Arena. Ma l'indomani fra Gio. Battista di Pizzoni e fra
Dionisio se n'andarono alla volta di Soriano presso Giulio
Soldaniero; ed ecco due uomini, già inimicissimi, in sèguito
ravvicinati, ora stretti al punto da compiere insieme una missione
molto delicata: volle poi fra Dionisio addurre l'antica inimicizia
per mostrare che la cosa non fosse stata possibile, ma risulta da
fonti numerosi e indubitabili che egli andò veramente presso il
Soldaniero insieme con fra Gio. Battista, e la sua negativa
medesima mostra che quest'andata aveva uno scopo compromettente.
La missione presso Giulio Soldaniero, eseguita senza dubbio con
l'intesa del Campanella ne' primi giorni della sua dimora in
Arena, per la grande importanza che ebbe in sèguito merita di
essere conosciuta ne' suoi più minuti particolari. Giunti i due
frati a Soriano, Dionisio dimandò subito del Soldaniero, ed
immantinente ebbe luogo uno stretto colloquio. Fra Gio. Battista,
che sembra essersi allora limitato a promuovere la reciproca
conoscenza tra' due interlocutori, lasciando a fra Dionisio il
còmpito di trattare, l'indomani se ne partì per Pizzoni: fra
Dionisio poco dopo lo seguì senza che se ne sia mai conosciuto
bene il motivo, avendo taluno detto che temeva che fra Gio.
Battista conducesse il Campanella a Pizzoni, ed altri invece detto
che voleva appunto condurre il Campanella a Pizzoni; ma più
plausibile apparisce l'aver voluto far premura a fra Gio. Battista
che senza perdita di tempo conducesse Claudio Crispo presso il
Campanella. Certo è che nello stesso giorno poi fra Dionisio tornò
e ripigliò i colloquii col Soldaniero, rimanendo una volta anche a
pranzo con lui, e il giorno seguente tornò pure fra Gio. Battista
accompagnato da Claudio Crispo e diretto ad Arena, allo scopo,
come egli diceva, di procurarsi la protezione del Marchese per
riscuotere un legato. Fra Dionisio si fermò in Soriano tutto quel
giorno ed anche il giorno dopo, nel quale, essendo domenica, ad
istanza di alcuni cittadini e propriamente di un Rutilio di Pucci,
fece una predica e poi se ne andò egli pure ad Arena. Questo si
può raccapezzare da' racconti contradittorii ed anche iniqui
intorno a siffatta visita di fra Gio. Battista e fra Dionisio al
Soldaniero. Certo è che i colloquii con costui, segnatamente per
parte di fra Dionisio, continuarono in modo più o meno interrotto
dal giovedì alla domenica, e non è difficile intendere su quali
argomenti versassero. Fra Dionisio seguì il suo solito metodo di
catechizzare, accennando le profezie, magnificando la persona del
Campanella, esponendo i disegni della ribellione, ma sviluppando
al tempo medesimo principii irreligiosi: senza dubbio si può e si
deve usare molta riserva intorno alla misura di siffatti
colloquii, avendo di poi influito le più infami circostanze ad
estenderla oltre ogni limite come a suo tempo vedremo; ma intorno
alla natura loro non può muoversi dubbio veruno, essendo una
ripetizione di discorsi analoghi tenuti già in analoghe occasioni.
Fra le varie rivelazioni discordi e bugiarde, abbiamo quelle del
Priore e del Lettore di Soriano (fra Giuseppe d'Amico e fra
Vincenzo di Lungro) che per verità non possono menomamente
ritenersi disinteressate, ma ad ogni modo sono più serie di quelle
del Soldaniero e compagno, ed ecco ciò che risulta da esse. Fra
Dionisio avrebbe parlato della ribellione contro il Re, dicendo
pure che molti Signori erano dalla parte de' congiurati; avrebbe
inoltre esternato principii irreligiosi dando un pugno ad un
crocifisso dipinto nel dormitorio e dicendo che non bisognava
credergli, affermando che i Sacramenti erano stati istituiti per
ragione di Stato, che non si dovea credere ad un poco di farina
mista coll'acqua e poi cotta, che taluno (anzi egli stesso) avea
fatto dell'ostia quell'uso osceno tante volte accennato, che i
miracoli erano baie, ed il Campanella potea farli e li avrebbe
fatti al tempo della ribellione. Queste cose il Soldaniero
comunicò al Priore ed al Lettore di Soriano vari giorni dopo che
fra Dionisio era partito dal convento, ed anzi al Priore comunicò
dapprima le sole cose concernenti la ribellione e molto più tardi,
in agosto, comunicò pure le cose di eresia. né attribuì mai a fra
Gio. Battista, in quel tempo, l'aver detta alcuna cosa di eresia,
comunque avesse affermato che più volte egli era stato da lui
tentato per la ribellione; del rimanente disse al Lettore che il
Campanella, fra Dionisio, fra Gio. Battista, fra Silvestro di
Lauriana, fra Pietro di Stilo e fra Domenico di Stignano «erano
tutta una cosa insieme»; così per la prima volta troviamo fatta
menzione di questo gruppo, che con fra Giuseppe Bitonto, fra
Giuseppe Jatrinoli e fra Paolo della Gretteria rappresentò tutto
il gruppo de' frati promotori della ribellione. Non ci fermiamo
sopra altre circostanze della ribellione e dell'eresia, che il
Soldaniero manifestò più tardi, quando tradì nel modo più atroce i
congiurati, e che per tale motivo non possono tutte accogliersi
alla leggiera; probabilmente fra Dionisio disse molto più di
quanto il Soldaniero comunicò al Priore ed al Lettore, ma ciò che
ci risulta dalle rivelazioni di costoro basta per fare intendere,
che sollecitato dal Pizzoni, persuaso da fra Dionisio, sotto gli
auspicii del Campanella, il Soldaniero col suo Valerio Bruno per
lo meno era in via di entrare a far parte della congiura. Dobbiamo
poi notare un'altra circostanza importantissima, che fu rivelata
dal medesimo Priore fra Giuseppe d'Amico. Un giorno, nell'agosto,
gli fu mostrata dal Soldaniero una lettera scritta e sottoscritta
dal Campanella, il cui carattere egli conosceva molto bene, e
nella fine di essa si leggeva il seguente brano, «di quel tanto
che vi ha ragionato il Padre lettore fra Dionisio, del tutto mi
rimetto al mio locotenente fra Gio. Battista di Pizzone». Pur
troppo il Campanella si spinse fino a dar fuori sue lettere,
dirigendone non solo al Soldaniero ma anche a qualche altro
fuoruscito; e vedremo che questa diretta al Soldaniero fu portata
da fra Pietro di Stilo, come risulta da una spontanea deposizione
di fra Pietro medesimo, al quale è impossibile negar fede. Dopo
tutto ciò non farà meraviglia che nella Dichiarazione, e così pure
nella Difesa, il Campanella non abbia mai parlato di queste sue
relazioni col Soldaniero, ed invece abbia appena citato quest'uomo
nella Dichiarazione tra gli amici di Maurizio, ed abbia poi
ingarbugliato le cose di questo periodo nella Narrazione così come
segue: «Sapendo Fra Dionisio ch'il Polistena volea farlo uccidere
com'il zio per mezzo di Giulio Saldaneri, che stava ritirato in
convento di S. Domenico di Suriano per haver ucciso dui proprii
fratelli per la robba, però cercò guastar quella amicizia del
Polistena col Saldaneri per via di Mauritio Rinaldi amico di
Saldaneri, e volea uscir con loro in campagna risolutamente per
ammazzar il Polistena. Però con tutti parlava di mutatione di
secolo et del Regno». È facile rilevare che queste cose furono
scritte assolutamente pel bisogno di scolparsi, ma sono ben
lontane dalla verità.
Abbiamo veduto il Pizzoni con Claudio Crispo andare presso il
Campanella ad Arena. Fu questo evidentemente un altro acquisto per
la ribellione, e Claudio, nel processo consecutivo, confessò in
tortura di aver trovato ad Arena il Campanella, che nel castello
medesimo del Marchese, in una camera segreta, gli comunicò la
ribellione, aggiungendo pure nientemeno che erano in aiuto di essa
il Principe di Bisignano e D. Lelio Orsini, ed egli promise di
trovar gente, e parlò con Gio. Tommaso Caccìa e Giovanni Morabito;
sicuramente d'allora in poi il Crispo ed il Caccìa rimasero in
molto stretta relazione tra loro. Ma secondo la Dichiarazione del
Campanella, che fu poi confermata in un senso meno semplice dalla
sua confessione in tortura, egli venne pregato da fra Gio.
Battista di visitare Pizzoni e di parlare delle mutazioni al
Crispo; e così andò a Pizzoni e là, coll'occasione di un discorso
sulla fabbrica dell'Astrolabio, si fece a parlare delle mutazioni
e della convenienza di trovarsi pronti e di avere molti compagni.
Aggiunge ancora nella confessione, e poi nella Difesa, che fra
Gio. Battista avea premura che si parlasse al Crispo, perché
costui volea passare a nozze e conveniva distoglierlo da tale
idea, ad oggetto di mantenerselo disponibile come suo braccio
forte. Ma evidentemente questo fatto potea bene stare insieme con
l'altro, eppure deve notarsi che la faccenda delle nozze non si
pose innanzi fin da principio nella Dichiarazione, sibbene più
tardi, allorchè vi fu tempo di poter trovare qualche pretesto:
importa poi ben poco che il colloquio siasi tenuto in Arena o
invece in Pizzoni, rimanendo sempre indubitato che si sollecitò
Claudio Crispo a prender parte nelle mutazioni da dover accadere,
ed egli si offerse, vantandosi anche di avere amici per l'impresa;
in ciò si accordano tanto il Crispo quanto il Campanella. È
verosimile che in Arena sia stato cominciato isolatamente, ed in
Pizzoni poi sia stato proseguito con più largo uditorio, il
discorso delle mutazioni con le relative conseguenze: poichè
vedremo il convegno di Pizzoni avere avuta un'importanza assai più
grande, e il Campanella dovè in sèguito studiarsi di restringerne
le proporzioni, limitandolo al solo discorso per Claudio Crispo.
Dobbiamo ora notare un altro fatto che il Campanella affermò
avvenuto durante la sua permanenza in Arena, l'avere cioè saputo
per lettera di Giulio Contestabile che Maurizio era andato sulle
galere d'Amurat Rais. Nella Dichiarazione egli disse che questa
lettera era venuta a lui medesimo; nella confessione disse invece
che era venuta a fra Gio. Battista di Pizzoni e a Claudio Crispo.
La prima versione è certamente più probabile, come è più probabile
che la lettera gli sia stata diretta da Maurizio in persona. Con
questa lettera ci sembra chiaro che doveva essergli partecipata
non già l'andata sulle galere di Amurat, a lui certamente già
nota, ma la risposta di Costantinopoli, la notizia della sicura
venuta del Cicala in settembre e dell'adesione sua a' loro
progetti: una galera distaccata del medesimo Amurat, di quelle che
si dicevano «lingue» perché prendevano e davano informazioni sulle
coste, potè servire a tale scopo, sicchè Maurizio dovè recarvisi
di nuovo e conoscere l'esito della trattativa. I particolari poi
di ciò che si era convenuto furono da Maurizio spiegati al
Campanella più tardi, quando potè abboccarsi con lui: ne parleremo
dunque anche noi a suo tempo, e qui notiamo, che al punto cui
siamo pervenuti il Campanella potè esser certo che le trattative
col Turco erano state conchiuse. Aggiungiamo poi che la lettera la
quale annunziava le trattative conchiuse fu con ogni probabilità
recata da fra Pietro di Stilo, poichè troviamo fra Pietro venuto
allora in Arena, a quanto pare accompagnato da Fabrizio Campanella
parimente armato come Gio. Pietro Campanella: questa venuta di fra
Pietro, il quale «era un poco parente di Maurizio» come ebbe poi a
dire nel processo di eresia, dà motivo a credere che la lettera di
annunzio delle trattative conchiuse dovè essere stata scritta
dallo stesso Maurizio, e che fra Pietro, compreso della gravità di
essa, non volle affidarla ad altre mani. Così accadde pure che lo
stesso fra Pietro, dopo alcuni giorni, si fece latore di un'altra
lettera scritta dal Campanella a Giulio Soldaniero, e si recò in
sèguito a Davoli, appunto in quella terra in cui soleva risedere
Maurizio presso il sacerdote D. Marcantonio Pittella. Aggiungiamo
inoltre che poco dopo, in data del 25 luglio, Maurizio si fece a
scrivere al Crispo che egli era «l'istessa persona con fra
Tomase», per eccitarlo senza dubbio a seguirne i ragionamenti col
mettergli innanzi la propria partecipazione all'impresa. Del pari
in data del 25 luglio, da Davoli, Maurizio scrisse ad un Gio.
Francesco Ferraima «che venesse a trovarlo senza dire né dove va
né a chi va, e vada cautelatamente, e quando entra sia con
honestà, et che Donno Marco Antonio Pittella li darà nova dove me
ritrovo, et che entrii di notte, et che haveano da raggionare
negotio importantissimo, il quale non patisce dilatione, e
tardando sgarraremo (intend. sbaglieremo) negotio, che spero
arrivaremo hoggi, et che desiderando haver contento dele cose
ch'hà desiderate si ne venghi subito». Vedremo che queste lettere
furono disgraziatamente trovate ed inserte nel processo che ne
seguì: esse intanto mostrano che a quella data Maurizio, avuta
l'assicurazione della non lontana venuta dell'armata turca e del
poter procedere d'accordo con essa, si dava grandissima premura di
affrettare i preparativi, e dopo aver cercato d'infondere la
premura medesima nel Campanella e socii, cercava di eccitare
personalmente gli amici a lui noti ed anche di raccoglierne de'
nuovi. Le sue sollecitazioni non riuscirono inutili; ma già il
solo annunzio dell'accordo co' turchi avea destato in tutti un
gran movimento. Fra Gio. Battista, nella data medesima del 25
luglio, scriveva a un fra Pietro Musso da Monteleone una lettera,
nella quale «trattava di congregatione di forasciti et arme», come
già fra Dionisio gli avea pure scritto precedentemente in data del
10 giugno. E sembra che del pari al 25 luglio debba riferirsi una
lettera di Claudio Crispo a un Geronimo Camarda, nella quale «li
tratta della congiura et de la sicura vittoria nel mese di
settembre, nomina fra Gio. Battista, fra Dionisio et il
Campanella, saluta Donno Gio. Battista Cortese et Donno Gio.
Andrea Milano, advertendo pur vengano con V. S. conferme semo
stati a Filogasi con fra Gio. Battista de Pizzoni, et finisce
venga in effetto quel che noi speramo». Anche queste lettere
vedremo che caddero in mano degli ufficiali Regii e furono come le
precedenti inserte nel processo, dal quale ebbe a rilevarle il
Mastrodatti facendone il sunto che abbiamo fedelmente riportato: e
bisogna aggiungere inoltre ciò che il Campanella manifestò nella
sua confessione. Fra Gio. Battista e Claudio Crispo mandarono a
chiamare perfino Eusebio Soldaniero; a tale scopo fra Silvestro di
Lauriana si portò a Serrata, ma Eusebio non ci volle andare.
Evidentemente si riteneva che questa impresa dovesse segnare il
termine di tutti gli odii anche più implacabili, dovesse apportare
il bacio della pace generale, come del resto si è preteso sempre
in altrettali momenti; se non che Eusebio forse dubitò di qualche
tranello da parte d'individui i quali erano in istretta relazione
col suo nemico Giulio, e ad ogni modo non ne volle sapere. Intanto
fra Dionisio se n'era in tutta fretta andato a Nicastro, per
passare immediatamente a Taverna, dove era stato assegnato come
lettore fin dal maggio senza aver mai curato di recarvisi, e
quindi, messa in regola la sua posizione, ripigliare le sue
escursioni per raccogliere amici, segnatamente in Catanzaro, dove
era convenuto che avesse a spiegare la sua azione. Il Campanella
poi, non appena potè lasciare il Marchese, se ne andò a Pizzoni,
per infervorare gli amici già raccolti ed assicurarsi anche di
Giulio Soldaniero, il quale avrebbe dovuto egualmente là
convenire. Dobbiamo del resto rammentare che, oltre la
sollecitazione di Maurizio, raddoppiò il fervore del Campanella la
comparsa di quella tale cometa marziale e mercuriale, che appunto
in luglio fu vista correre presso la terra da ponente a levante, e
che egli interpretò per la venuta di gente dal di fuori contro i
Reggitori della Provincia.
Erano già quindici giorni da che il Campanella si trovava in
Arena, e di là potè finalmente recarsi in Pizzoni. Secondo fra
Gio. Battista ciò accadde il 25 luglio; ma dovrebb'essere accaduto
non così tardi, avendo lo stesso fra Gio. Battista dichiarato che
due giorni prima fra Dionisio, di passaggio per Pizzoni, si era
trattenuto un poco con lui, e sappiamo di certo per un documento
inserto nel processo, che fra Dionisio il giorno 21 era già in
Nicastro. O dunque il Campanella partì prima del 25, o fra
Dionisio non si fermò punto in Pizzoni: questa seconda ipotesi è
più probabile, giacchè da una parte fra Dionisio avea molta
fretta, e d'altra parte fra Gio. Battista dichiarò che in questa
sua fermata fra Dionisio gli avea tenuto discorsi di eresia, la
qual cosa, come vedremo in sèguito, non si può accettare senza
riserva. Il Campanella fu accompagnato a Pizzoni dagl'individui
medesimi che l'avevano prima accompagnato in Arena, con queste
poche varianti. Mancava fra Dionisio, già partito; vi era invece
fra Pietro di Stilo, e con lui probabilmente, come abbiamo detto,
Fabrizio Campanella armato. Quest'ultima circostanza risulterebbe
dalla deposizione di fra Gio. Battista, che confusamente parlò di
«parenti armati» i quali accompagnavano il Campanella in Arena;
oltracciò dal fatto, che lo stesso Fabrizio Campanella lo
accompagnò più tardi a Davoli presso Maurizio. E su tale proposito
bisogna notare che il Campanella, nella sua Dichiarazione, cercò
quasi di giustificare la compagnia di gente armata, col dire che
un Colella e un Giovannello di Gioia l'aspettavano per ammazzare
suo fratello che era con lui; la qual cosa in realtà non sarebbe
per que' tempi inverosimile. Fra Gio. Battista medesimo,
certamente insieme con Claudio Crispo, volle pur egli accompagnare
il Campanella, e difatti si portò ad Arena, non senza rivedere il
Soldaniero nel suo passaggio per Soriano; giunto quindi presso il
Campanella entrò a far parte della comitiva. Si ebbe così una
comitiva piuttosto numerosa, certamente più numerosa di quanto
poteva comportare il piccolo convento destinato ad accoglierla, e
però dovè fare una certa impressione; giacchè troviamo essersi
detto più tardi che v'era stato in Pizzoni un gran convegno di
congiurati e un gran banchetto, in cui si era stretto il fascio e
si erano spinti innanzi gli accordi. Giulio Soldaniero, il quale
avrebbe dovuto andarvi e non vi andò, giunse a dire che «se
ricolsero in Pizzoni più di trenta cinque capi» de' quali non
sapeva il nome, citando però tra coloro che conosceva Eusebio
Soldaniero nemico suo per comprometterlo; forse anche l'aver
creduto che vi si dovesse trovare Eusebio lo decise a non andarvi.
E poichè si riteneva aver proceduto di pari passo la trasgressione
nelle cose dello Stato e quella nelle cose della Chiesa, venne poi
facilmente accolta pure la voce che nel banchetto, tenutosi di
venerdì, si era mangiato carne e segnatamente si era mangiata la
porchetta. Fra Paolo della Grotteria, il quale da Vallelonga
convenne pure a Pizzoni ma vi giunse la sera sul tardi, depose che
la riunione accadde realmente di venerdì, e potè dare soltanto la
lista del desinare dell'indomani concepita in termini più che
magri, quali si leggono ne' documenti annessi a questa narrazione:
relativamente poi alle persone riunite, egli nominò, oltre il
Campanella, fra Gio. Battista di Pizzoni, fra Silvestro di
Lauriana che co' «due terzi habitelli faceva la cucina», fra
Pietro di Stilo, un giovanetto che chiamavano Gio. Pietro (Gio.
Pietro Campanella) «et con questo dui altri, uno basciotto et un
altro alto negro» (Fabrizio Campanella e Marcantonio
Contestabile); dippiù «v'erano dui figlioli di ferrante Chrispo,
c'era anco uno di Squillace chiamato Gio. thomase caccia che
diceano ch'era preite, c'era anco un altro giovane di Filogaso
chiamato Gioanne, et non mi recordo il cognome... tutti questi
sopra nominati stavano armati di scopette et scopettolo, eccetto
uno dilli figli di Chrispo». Troppo furono ingrandite in sèguito
le proporzioni di questo convegno: ma, tolte di mezzo le
esagerazioni, rimane sempre che i principali fuorusciti di quelle
parti facevano corona al Campanella e a fra Gio. Battista, meno
Gio. Francesco d'Alessandria che forse accompagnò fra Dionisio, e
Giulio Soldaniero che mancò all'appello. La riunione durò quattro
o cinque giorni secondo il Pizzoni, sette giorni secondo fra
Silvestro di Lauriana. Stando alle dichiarazioni di fra Paolo
della Grotteria, «il Campanella e fra Gio. Battista di Pizzoni
tutto il giorno parlavano con li banditi in secreto et a longo»;
ma certamente non v'erano altri estranei co' quali potessero
parlare. Stando alle dichiarazioni di fra Gio. Battista,
precisamente il 28 luglio, nel passeggiare con lui in Chiesa, il
Campanella gli avrebbe parlato in particolare delle sue previsioni
e profezie, de' futuri rumori, ribellioni e mutazioni di Stati,
dimandandogli se avesse aderenza con fuorusciti, ed invitandolo a
volergli dare costoro a sua devozione e collegarsi con lui: ma non
occorre far avvertire che tali discorsi erano passati tra loro
molto tempo prima. Inoltre avrebbe detto che gli pareva di essere
stato proprio eletto da Dio per insegnare la verità e levare molti
abusi grandi che regnavano nella Chiesa e massime ne' Prelati, che
i Sacramenti erano solo per ragione di Stato, che il canto usato
dalla Chiesa era una cosa frivola e pareva quasi che con esso si
burlasse Iddio: e poi che il Sacramento dell'altare era una
semplice commemorazione e tutti gli altri Sacramenti non erano
stati ordinati da Gesù, la Trinità era una chimera, e molte e
molte altre eresie, le quali del rimanente gli sarebbero state già
prima comunicate una per una da fra Dionisio Ponzio, allorchè, due
giorni innanzi, era passato per Pizzoni. Ma vedremo a suo tempo
quali e quante ragioni influissero a far parlare fra Gio. Battista
in tal modo, senza per altro escludere che il Campanella alle
volte esternasse tra gli amici da lui stimati più fidi (e fra Gio.
Battista era del numero) qualcuna delle sue intime credenze, non
che qualcuna delle riforme le quali avrebbe avuto in animo
d'introdurre: intorno a ciò ci riserbiamo di esporre più in là,
una volta per sempre, quanto ci risulterebbe più vero tra le tante
cose che gli vennero attribuite. Vediamo intanto ciò che sarebbe
avvenuto in Pizzoni secondo lo stesso Campanella: ecco come egli
ne fece il racconto nella sua Dichiarazione. «Me venne a visitare
(in Arena) fra Giovan Battista Cortese de Piczoni con Claudio
Crispo, et pregato ch'io andase a Piczoni che l'haveriano havuto
in favore grande, et cossì ci andai, mosso da paura che certi
nemici della casa mia, Colella e Giovanello de Gioia,
m'aspettavano per amazzare mio fratello che era con me, et do poi
in Piczoni ragionai con loro, et havendo visto che fra Gio.
Battista tenea un libro della fabrica dell'Astrolabia, et che
parlava de cose future, richiesto da loro disse della mutatione
che si aspettava secondo fra Gio. Battista havea detto a loro; et
Claudio vantandosi d'havere amici se fosse bisogno de fare guerra,
io le disse che sarebbe bene haverne assai, per che sempre giova,
et che li Principi et Re tengono conto di coloro i quali han più
amici, et sempre vi servirano, et cossì le disse quel che havea
detto a Mauritio, il qual'ancora era amico di Claudio, et conobbi
con ogn'un che parlavo, che tutti erano disposti a mutatione, et
per strada ogni Villano sentiva lamentarsi; per questo io più
andava credendo questo havere da essere». Quasi non occorre dire
che tali cose furono certamente dette non al solo Claudio Crispo,
ma anche a tutti gli altri là presenti, i quali il Campanella ebbe
cura di non nominare; né a tali cose soltanto dovè limitarsi il
discorso. Se si potesse accogliere pienamente quanto si fece poi a
deporre fra Gio. Battista, il Campanella già si vantava di avere
l'aiuto del Turco, essendosi negoziato col Bassà Cicala, e diceva
che in principio gli bastavano la lingua a persuadere i popoli e
le armi de' banditi, e poi avrebbe quelle di altri più potenti,
che voleva predicare contro la tirannide di Re Filippo e de' suoi
Principi, ed anche contro il Papa, i Cardinali e i Vescovi, che
prima si doveva ammazzare il Vicerè di Catanzaro e poi gli
ufficiali, ed allora alzar voce di ribellione e far repubblica.
Non si potrebbe menomamente affermare che tutto ciò sia stato
palesato a' convenuti in Pizzoni, ma è credibilissimo che qualche
cosa di simile sia stata annunziata. Intanto il Campanella pensò
pure ad assicurarsi del Soldaniero, e non avendolo visto, prese la
grave determinazione di scrivergli una lettera, la quale fu
consegnata da fra Pietro di Stilo, che si partì un giorno prima
degli altri da Pizzoni per recarsi a Davoli, e passò a tale scopo
per Soriano. Quando più tardi fu conosciuto l'iniquo volta-faccia
del Soldaniero, fra Pietro, ritenendo senza dubbio che la cosa
fosse stata già palesata, si diè premura di non nasconderla, e non
solo attestò di aver consegnata al Soldaniero questa lettera, ma
ancora di avergli detto per imbasciata che il Campanella «l'era
molto servitore et che desiderava molto di vederlo», lodandogli
grandemente fra Tommaso e pregandolo che volesse andare da lui;
parrebbe pure che il Soldaniero gli avesse detto di essergli stati
comunicati da fra Dionisio i progetti del Campanella con tutto il
corredo delle eresie, e che fra Pietro gli avesse raccomandato di
non palesar nulla di tali cose essendo fra Dionisio uno scapato.
Da parte sua il Soldaniero negò sempre di aver ricevuta una
lettera del Campanella, e ciò si spiega considerando che tale
fatto l'avrebbe dato a divedere complice nell'impresa: ma abbiamo
già avuta occasione di dire che il Priore di Soriano assicurò di
aver letto egli medesimo una lettera del Campanella mostratagli
dal Soldaniero, in fine della quale il Campanella diceva di
rimettersi al suo locotenente fra Gio. Battista; v'è quindi ogni
motivo di ritenere non solo che la lettera sia stata realmente
inviata, ma anche che con essa il Campanella, non avendo potuto di
persona trattare col Soldaniero, abbia accreditato fra Gio.
Battista presso di lui.
Come si vede, quando le cose stringevano, fra Pietro di Stilo non
rifuggì dall'impegnarsi personalmente nella faccenda della
congiura. Amava moltissimo il Campanella, di cui non cessava di
lodare la grande dottrina; si occupava pure di un matrimonio tra
un suo fratello e una sorella (cugina) di fra Tommaso «pur sua
parente», matrimonio che poi non ebbe effetto pe' dolorosi
incidenti sopravvenuti; oltracciò era «un poco parente di
Maurizio». Tali circostanze, emerse nel processo di eresia,
spiegano il suo impegno diretto in questo momento assai delicato
delle trattative: del resto possiamo dire che egli dubitò sempre
della serietà dell'impresa, e sovente si permise di scherzare
intorno ad essa: difatti, mentre ognuno se ne imprometteva onori e
grandezze, egli soleva dire tra i frati che avrebbero preso una
moglie per uno, e da parte sua moriva della voglia di prenderla,
delle quali proposizioni dovè poi render conto al S.to Officio.
Vedremo che il Campanella nella sua confessione in tortura,
rivelando coloro i quali doveano con lui predicare per la
repubblica, nominò il Pizzoni, il Petrolo, il Lauriana, fra
Dionisio, e soggiunse che fra Pietro di Stilo avea saputo la cosa
all'ultima ora, e nemmeno interamente, poichè non ispirava
fiducia, essendo un pazzo! Evidentemente il Campanella volle
nascondere qualche cosa, ma la definizione che diè del suo amico,
messa in raffronto con gli scherzi di lui intorno a' beneficii
della grande impresa, conferma che fra Pietro ci credeva poco, e
vi si trovò impigliato per compiacenza più che per convincimento.
Secondo le sue deposizioni, allorchè s'incontrarono in Arena, il
Campanella gli avrebbe parlato delle profezie, delle mutazioni
prossime e dell'esser bene per chi si trovasse armato, e presolo
per la mano gli avrebbe detto, «fra Pietro, è stato scritto contro
di me da quelli di Stilo al Nuntio et al Papa, ch'io ho amicitia
di banniti, per questo io me spagnio, (int. mi spavento) un poco».
Ma forse accadde appunto il contrario, e dovè fra Pietro
spaventarsi un poco ed avvertire ancora una volta il Campanella,
che qualcuno di Stilo avrebbe potuto rivelare la sua amicizia co'
banditi: circa poi le profezie e tutto il resto, fra Pietro dovea
aver conosciuto da lungo tempo ogni cosa, e forse anche per esse
egli ebbe tanto meno la forza di contraddire al Campanella, mentre
tutti vi credevano e a tutti una mutazione pareva inevitabile.
Così non poche furono le ragioni che l'indussero ad uscire dalla
sua riserva e farsi latore di lettere, le quali, se fossero cadute
nelle mani degli ufficiali Regii, l'avrebbero compromesso nel
peggior modo. Al momento cui siamo giunti, egli si recava a
Davoli, alla residenza abituale di Maurizio; non sappiamo cosa vi
andasse a fare, ma si può ben ritenere che andasse a consegnare a
Maurizio qualche lettera del Campanella.
III. Oramai il lavoro ferveva da tutti i lati, e non giunse ad
interromperlo nemmeno un avvenimento verificatosi in que' giorni
appunto, avvenimento che contribuì in modo gravissimo alla rovina
de' frati e di tutta l'impresa. Per commissione del P.e Generale
una Visita si dovea fare ne' conventi delle Calabrie, essendo
stato mandato qual Visitatore il P.e Marco da Marcianise, di cui
abbiamo già avuta occasione di dire qualche cosa nel parlare de'
tumulti di S. Domenico di Napoli. Fu questo il motivo per lo quale
fra Dionisio ebbe fretta di portarsi a Nicastro e quindi a
Taverna, volendo mettersi in regola e poi continuare la sua
propaganda. Egli si sentiva minacciato di una sostituzione nel
lettorato di Taverna e forse anche di qualche maggiore gastigo,
per la protratta noncuranza dell'assegnazione avuta dal Capitolo.
Ciò risulta da una sua lettera in data del 21 luglio da Nicastro,
diretta a fra Vincenzo Rodino di S. Giorgio, nella quale, mentre
gli annunzia la liberazione del Pisano per opera sua e del
Campanella, credendola in realtà avvenuta, dice ancora, «molte
altre cose passano che non le può sopportar penna»; partecipa
inoltre l'arrivo del Visitatore nella Provincia, e mostra di
credere che tale visita sia una conseguenza de' suoi memoriali al
Papa contro l'ex-Provinciale fra Giuseppe Dattilo, denominato nel
gergo fratesco il Cepolla; infine soggiunge che si sarebbe portato
l'indomani a Taverna lettore, «per non dar sodisfatione ad alcuni
che han cercato andarci». Evidentemente a quella data fra Dionisio
non conosceva ancora chi fosse il Visitatore, in caso opposto non
avrebbe mai potuto crederlo favorevole alla fazione sua. Ad ogni
modo andò al suo posto in Taverna; se non che quivi, coll'indole
sua irrequieta ed impetuosa, finì per aggravare moltissimo la sua
condizione. Facea parte di quel convento un giovane frate,
piccolo, rossetto (così ci viene descritto da più fonti), nativo
di Nizza del Monferrato, a nome fra Cornelio: il Campanella nelle
sue Difese lo disse lombardo, e nell'Informazione ci fece sapere
che non era nemmeno regolarmente professo, sibbene un intruso;
questa circostanza non potrebbe far maraviglia, visto il procedere
scompigliato di que' tempi, ed è superfluo poi ricordare che la
presenza de' napoletani e de' lombardi era allora un fatto
ordinario ne' conventi Domenicani delle due regioni. Fra Dionisio,
trovato questo frate alla mensa in un posto che invece spettava a
lui, lo fece levare di là bruscamente; in questo si accorda ciò
che disse il Campanella nell'Informazione e ciò che fu scritto
negli Articoli difensivi dati da fra Dionisio nel consecutivo
processo di eresia; ma quivi si aggiunse ancora, che innanzi a più
e diversi frati lo avea confuso dicendogli che non intendeva la
materia de censuris e la scomunica. Fra Cornelio vendicativo più
dello stesso fra Dionisio, ed inoltre ambizioso e maligno
all'eccesso, fu preso quale compagno dal Visitatore, dietro
consiglio de' Polistina, del Dattilo e di tutta la fazione avversa
a fra Dionisio: vedremo subito con quale spirito egli entrasse in
ufficio, e sarà noto una volta di più come gravissimi fatti
possano nascere dalle più lievi cause. Una rissa accaduta poco
tempo dopo, nella quale fra Dionisio venne a ferire un frate, diè
l'occasione alle prime avvisaglie. Questo è accennato anche dal
Campanella nell'Informazione; ma nel processo di eresia è narrato
in tutti i suoi particolari ed in un modo abbastanza comico dal
Barone di Cropani, il quale fu uno de' carcerati come complice
nella congiura, e disse di aver trattato con fra Dionisio
solamente per siffatto motivo. «Havendo fra Dionisio una cagnola
quale mangiò la piatanza ad un frate, quello frate venne in rissa
con fra Dionisio, di maniera che fra Dionisio bastoniò quel frate,
et per questo mi pregò andare dal Provintiale di Calabria che io
lo facesse venire da lui, che con una correggia in canna se li
voleva buttare alli piedi e dimandare l'assolutione de la
scomunica incorsa». Veramente fra Dionisio non era soltanto
incorso nella scomunica, sibbene, come ci fece sapere il
Campanella nella Dichiarazione e poi nell'Informazione, sempre con
qualche variante atta ad aiutare la sua causa, era stato dal
Visitatore condannato al confine in Celico, casale di Cosenza,
sotto pena della galera con la privazione del lettorato e
dell'abito per tre anni: ma anche prima di conoscere tale
condanna, egli si pose in giro, con la ragione o col pretesto di
trovare amici che lo facessero assolvere, e al tempo stesso col
proposito sempre più acuto di trovare amici per la ribellione.
Vedremo più in là i particolari di quest'altro periodo della sua
propaganda; per ora c'importa non lasciare troppo indietro il
Campanella.
Dopo quattro o cinque giorni o poco più di permanenza in Pizzoni,
il Campanella si ridusse a Stilo, e poi passò anche qualche giorno
in seno alla famiglia in Stignano. Intanto, come risulta da ciò
che scrisse nella sua Dichiarazione, Maurizio venne a Stilo, e non
avendolo trovato, perché egli era già andato a Stignano, gli
lasciò una lettera con la quale lo pregava di venire a trovarlo a
Davoli per cose d'importanza: dopo qualche esitazione egli vi
andò, accompagnato dal Petrolo e da Fabrizio Campanella, e trovato
presso il Pittella Maurizio, costui gli fece conoscere ciò che
avea trattato col Turco e gli mostrò anche una scrittura
turchesca, la quale il Campanella non seppe leggere. Fermandoci
dapprima su questa scrittura turchesca, dobbiamo dire che essa era
senza dubbio un salvacondotto, come risultò dalla confessione
medesima di Maurizio. Dobbiamo aggiungere che parecchi tra' più
vicini a Maurizio la qualificarono egualmente: così il suo
servitore Tommaso Tirotta dichiarò, che quando Maurizio mostrò al
Campanella in presenza d'altri «lo scritto che ebbe da' turchi»,
lo disse un salvacondotto, e che un Pietro Jacovo Garzia diceva,
«ora potremo andare sicuri che abbiamo il salvocondotto». Ma
questo si ebbe dopo che si era «trattato et concluso con Morat
Rays» della ribellione, come risultò dalle parole di Maurizio, e
meglio ancora dalle parole del Campanella nella Dichiarazione,
dove egli appunto espose ciò che Maurizio «havea capitulato con li
turchi», riferendolo per dichiarare che se n'era mostrato
dispiaciuto ed allarmato. Maurizio gli avrebbe detto che «esso
havea trattato con Amurat sopra le galere che venisse l'armata del
turco, che esso volea pigliare Catanzaro et la Provintia»: il
Campanella non l'avrebbe approvato affatto, per la semplice
ragione che i turchi erano nemici da non potervisi fidare e sempre
giuravano il falso; Maurizio rispose «ch'havea capitulato con li
turchi che non havessero assai a tener dominio in Calabria, ma
solum assistere nel mare per fare paura a chi lo contrastasse, et
che li turchi voleano solo il trafico in questo Regno et non
altro», e gli mostrò la carta turchesca, ma il Campanella
continuando a lamentarsi di lui avrebbe deciso di lasciare la sua
amicizia. Questo espose il Campanella; dal canto suo Maurizio
espose, che avendo comunicato ciò che avea trattato e concluso,
«tutti (meno il Pittella che rimase indifferente) mostrorno
haverne gran contento, et ne giubilorno, laudando et dicendo
ch'havea fatto assai di quello che loro desideravano», bensì
confermò aver fatto ogni cosa «da per se solo et non per conseglio
ne per ordine et consenso di detto fra Thomase». Passando oltre
per ora alla dispiacenza o al giubilo del Campanella, cominciamo
dal rilevare che vi furono patti abbastanza chiari: l'armata del
Turco avrebbe dovuto venire in Calabria (senza dubbio in un tempo
determinato e in un numero di galere determinato) per far paura
nel mare a chi contrastasse da questa via, facendo anche sbarchi
ed occupando temporaneamente terre di Calabria; Maurizio, lui
personalmente, avrebbe dovuto pigliare Catanzaro ed estendere la
sua azione a tutta la Provincia, obbligandosi ad accordare a'
turchi per l'avvenire vantaggi commerciali. Con ogni probabilità
vi furono anche altri patti, e per lo meno i patti precedenti, p.
es. quello dell'occupazione delle terre di Calabria da parte dei
turchi, doverono essere meglio determinati. Dal processo
consecutivo non emerse nulla intorno a ciò, ma bisogna ricordarsi
che noi possediamo solamente i brani del processo concernenti le
accuse contro gli ecclesiastici, e il Campanella, e tanto più il
Pittella, dietro la leale confessione di Maurizio risultarono
scagionati dall'accusa della convenzione col Turco. Questo non
vuol dire che veramente il Campanella non ne avesse dirette le
fila con molta astuzia, per mezzo di Maurizio dalla via di Amurat,
e forse anche per mezzo di fra Dionisio dalla via di Messina, ma
quest'ultima via rimase coperta, e l'altra riuscì tutta a carico
di Maurizio, ond'è che non conosciamo il fatto in tutta la sua
estensione. Nondimeno quel poco che ne conosciamo riesce di molta
importanza. Era capitolato che i turchi «non havessero assai a
tener dominio in Calabria», ma doveano dunque tenervi dominio,
benchè temporaneo e di breve durata: così non fu una invenzione
degli ufficiali Regii che si volea far occupare la Calabria da'
turchi, e le rivelazioni di taluni complici (Claudio Crispo,
Cesare Mileri), che dissero essersi convenuto di dare molte
fortezze e terre in mano de' turchi, non furono propriamente
effetto d'insinuazioni e di tormenti. E come potremmo credere che
il Campanella fosse stato davvero interamente estraneo alle
trattative e dispiaciuto per esse? Tutti i fatti precedenti e così
pure i sussecutivi ci autorizzano a credere l'opposto. Concediamo
pure che forse egli non avrebbe voluto l'occupazione turca,
comunque limitata e temporanea, e che tale patto convenuto da
Maurizio gli abbia recato sorpresa e dispiacere; ma è facile
comprendere che non si poteva fare in modo diverso, e se veramente
così avvenne per parte del Campanella, Maurizio, il quale rimane
sempre il capo responsabile dell'azione con le armi, dovè a sua
volta provare sorpresa e dispiacere, vedendo che volea farsi una
guerra con idee alquanto fantastiche e punto consentanee alla
realtà delle cose. Ad ogni modo non per questo il Campanella si
pose in disparte, e se si decise a lasciare l'amicizia di
Maurizio, tale sua decisione non ebbe effetto, come si rileva da
ciò che avvenne ulteriormente in Davoli.
Maurizio, preoccupandosi del buono andamento delle cose in
Catanzaro, ove era convenuto doversi fare lo sforzo principale
della ribellione, volle che alcuni di questa città si
costituissero centro de' congiurati, e desiderò che il Campanella
li persuadesse con la sua eloquenza, di cui egli faceva gran conto
avendola sperimentata sopra sè medesimo; e il Campanella non si
negò menomamente, e si ebbe in tal guisa, dopo i convegni di Stilo
e di Pizzoni, un terzo convegno parimente assai notato, quello di
Davoli. Sia d'accordo col Campanella, come Maurizio affermò nella
sua confessione, sia senza quest'accordo, come parrebbe dalla
Dichiarazione del Campanella, Maurizio chiamò a Davoli due
gentiluomini di Catanzaro assai maneschi, da lui giudicati «uomini
di valore», Gio. Tommaso di Franza e Gio. Paolo di Cordova, il
quale ultimo eragli anche parente per parte di madre; e li chiamò
scrivendogli di venire «sotto colore che voleano trattare la
natività loro», ciò che implicherebbe avergli accennato di dover
trattare col Campanella, il quale veramente s'intendeva di
oroscopi e di natività, ed essi non mancarono di venire,
accompagnati da un Orazio Rania. Questo accadde nella prima
settimana di agosto, conoscendosi con sicurezza che l'8 o il 9 di
agosto il Campanella si trovava tuttora in Davoli, nel convento
degli Agostiniani detto di S.a M.a del Trono: oggi ancora sono
visibili i ruderi di questo convento e della sua Chiesa, sopra un
colle a meno di un miglio dall'abitato; ed una statua di S.a Anna
con la data appunto del 1599, ritirata dagli avanzi della Chiesa,
è il più vivo ricordo del luogo e del tempo in cui avvenne una
delle scene più memorabili della congiura. Al momento dell'arrivo
di que' di Catanzaro fra Tommaso già vi era, e come abbiamo visto
sopra, in compagnia di fra Domenico Petrolo e di Fabrizio
Campanella; ma non risulta che costoro fossero presenti al
colloquio, ed anzi lo stesso Maurizio si tenne in disparte dopochè
fu esaurita l'esposizione delle solite cose generali de' prossimi
mutamenti e del dovere star pronti; ciò si rileva dalla
confessione sua, dalle deposizioni di Gio. Paolo e Gio. Tommaso ed
anche dalla Difesa del Campanella, il quale si servì di questo
fatto come di un argomento per sostenere che non vi era stato
convegno. La riunione ebbe luogo presso il convento, in un
castagneto, all'aperto, e come il Campanella scrisse nella sua
Dichiarazione, essi cominciarono dal dimandargli segreti per aver
donne che egli pose in burla (la solita maniera di considerare il
Campanella); di poi, pregato da Maurizio che avesse detto a que'
gentiluomini la faccenda delle mutazioni, egli le confermò, e
«tutti gli si offersero che volesse esser capo et predicare»
perché l'avrebbero seguitato; ma egli non volle e si partì per
disgusto, andandosene a S.ta Caterina, e dopo tre giorni a Stilo.
Non sarà inutile il dire che di poi, nel processo, tanto Gio.
Paolo di Cordova quanto Gio. Tommaso di Franza confessarono il
convegno avuto col Campanella, e lo confermò pure Tommaso Tirotta
servitore di Maurizio: solamente il Cordova aggravò piuttosto la
condizione di Orazio Rania che era già morto quando egli fece la
sua deposizione (secondo il metodo abituale dei giudicabili), e il
Franza nominò fra Dionisio come colui che gli avea già parlato
delle mutazioni da parte del Campanella; l'uno e l'altro poi
dissero che fra Dionisio veramente, più tardi in Catanzaro,
richiese la loro opera per la ribellione, essendosi nel convegno
discorso soltanto di un segreto che fra Dionisio avrebbe in
sèguito manifestato. Ma per quanto apparisca possibile che fra
Dionisio avesse già parlato col Franza, vedremo altrove che da
parte di costui c'erano forti ragioni per le quali egli dovea
sforzarsi di aggravare la mano su fra Dionisio in questo negozio,
ed oltracciò in entrambi ci era tutta la convenienza di mostrare
che le istanze per la ribellione erano state fatte più tardi.
Secondo il Tirotta, nello stesso giorno del convegno, dopo il
desinare, essi ripartirono. Ognuno intanto avrà notato trovarsi
dalle parole medesime del Campanella accertato che tutti gli si
offersero, facendogli premura che volesse esser capo con la
predicazione; sicchè rimane soltanto ad interpetrare se egli
veramente rifiutò ed anzi se poteva rifiutare, mentre tutto si
edificava sulla base delle sue profezie e vaticinii, e la sua
eloquenza era già da un pezzo impiegata a persuadere che dovea
fondarsi la repubblica.
Ma durante il soggiorno del Campanella in Davoli accadde pure un
fatto importantissimo, che ebbe le più gravi conseguenze. Appunto
l'8 o il 9 agosto, non si sa per quale motivo, capitò al convento
suddetto fra Domenico di Polistina, e seppe da fra Domenico
Petrolo che il Campanella trovavasi nel convento e l'avrebbe
veduto con piacere, che anzi desiderava di vederlo. Egli si
presentò al Campanella in Chiesa, e gli fece i suoi saluti e le
sue proteste di amicizia; ma il Campanella gli rispose che tra
loro due non poteva esservi amicizia, trovandosi l'uno amico di
fra Gio. Battista di Polistina e l'altro amico di fra Dionisio,
tra' quali correva inimicizia grandissima. Il Polistina
meravigliato di tale ricevimento si partì. Come mai il Campanella
potè mostrarsi tanto scortese, ed anche tanto imprudente, mentre
non ignorava la potenza e lo spirito d'intrigo de' Polistina?
Bisognerebbe dirlo venuto in una grande boria, per la fiducia
ispiratagli da' preparativi della sua impresa ottimamente avviati:
ma è verosimile pure che fosse infastidito dal vedersi ronzare
intorno un uomo di quella fatta, il quale probabilmente ne spiava
i passi ed osava dichiararglisi amico. Intanto il Polistina
montato a cavallo se ne partì in fretta, dirigendosi pel
castagneto che era presso il convento: ma «caminato 10 o 12 passi,
il garzone o sia vetturino gli disse, se andate per questa via voi
sete morto, perché mentre ragionavi con il Campanella in Chiesa,
li foresciti che erano alla porta hanno determinato di ammazzarvi
mentre che passaremo nelle castagne, et così pigliò altra strada
et andò a Suriano, dove trovò il Soldaniero nel convento, al quale
raccontò il caso». È possibile che i seguaci di Maurizio, p. es.
il Tirotta, Gio. Battista Vitale che sappiamo essere sempre stato
anche lui in Davoli, forse pure qualche altro, consapevoli delle
amicizie del Polistina e penetrati della poca opportunità della
sua presenza in quel luogo, avessero borbottato propositi
minacciosi verso di lui; è possibile pure che al vetturino non
fosse tornata molto comoda la risoluzione di battere la via del
castagneto, e avesse cercato di farla cambiare mettendo paura al
Polistina: certo è che il Polistina si diresse ad un luogo e ad un
uomo che facevano appunto per lui, avendo dovuto forse già
conoscere dal Priore di Soriano suo amico le cose passate tra
Dionisio e il Soldaniero, ed avendo dovuto sembrargli giunto
oramai il momento di farla finita, poichè non v'era più da andare
fiutando e si avea del resto già tanto in mano da poter perdere
Dionisio e il Campanella. Egli si presentò al Soldaniero come uomo
agitato ed afflitto per la paura avuta, e il Soldaniero, che avea
conosciuto pure fra Gio. Battista di Polistina nella Quaresima
passata, lo secondò dicendo che era stato già deciso che fra Gio.
Battista e i suoi aderenti dovessero essere ammazzati d'ordine del
Campanella ed altri complici, e quindi «non saria stato gran cosa»
che avessero ammazzato anche lui; oltracciò soggiunse che erano
stati fatti registri di eresie da doversi predicare al tempo della
ribellione, che Dionisio gli avea parlato contro i miracoli di
Cristo e de' Santi, che gli avea detto essere il significato delle
lettere I N R I, poste in fronte al crocifisso, non già quello
comunemente conosciuto ma quello di una pessima ingiuria in lingua
ebraica, che infine gli avea raccontato quel tale fatto osceno
commesso con l'ostia consacrata ed egli sospettava essere stato
quel fatto commesso precisamente da fra Dionisio. Così raccontò
poi le cose il Polistina, ed anche fra Cornelio che le seppe dal
Polistina. Forse il Soldaniero non ciarlò tanto, ed è possibile
pure che avesse accennato in confidenza quelle cose al Priore di
Soriano, come altrove si è detto, e non già al Polistina: ad ogni
modo vedremo più tardi che il Polistina e fra Cornelio su questa
base architettarono il processo di eresia, riducendo il
Soldaniero, con le buone o con le triste, non solo feroce
accusatore ma anche persecutore a mano armata di coloro i quali
avrebbero dovuto essergli compagni nella ribellione.
Indubitatamente col convegno di Davoli s'inaugurava un periodo di
sempre maggiore attività ne' preparativi della ribellione.
Maurizio continuò senza posa a sollecitare e a raccogliere
aderenti: questo viene accertato pure da un altro brano della
Dichiarazione del Campanella, il quale si lasciò andare sino a far
nomi, onde poi gli ufficiali Regii non ebbero veramente a sforzare
la loro immaginazione per convincersi che la congiura fosse una
cosa molto seria. «Mauritio, quando fummo in Davoli, disse che
volea far un giro, et trovar Gio. Battista Soldano, Giulio
Soldanere et Carlo Bravo, et trovare li foragiti di Reggio et li
Baroni et altri, et ch'esso poteva fare in dieci giorni ducento
huomini, et certi di casa dello Stocco in Cosenza, et entrar in
Catanzaro, et pigliar la città et tenerla, ma non disse quando
stava per farlo». Intorno ad alcuni de' fuorusciti qui indicati
abbiamo qualche notizia. Gio. Battista Soldano era un bandito di
Ricadi, casale di Tropea: e bisogna dire che Maurizio abbia
veramente fatto il giro che si proponeva e siasi recato fino a
Tropea, giacchè vedremo poi parecchi di quella città e casali, né
tutti fuorusciti, gravemente perseguitati per la congiura, come un
Tranfo, un Furci, un Loiacono, un Politi, un Jannello, un Barbèri.
Carlo Bravo era di Montesanto; insieme col fratello Fabrizio
scorreva la campagna, ed avevano entrambi acquistato fama pe'
molti delitti commessi. I fuorusciti di Reggio erano forse quelli
che in numero di 42 comandava Don Giuseppe di Capoa, tra' quali
stava pure il fratello di Felice Gagliardo, come risulta da
lettere che il Capoa da Reggio inviava al Gagliardo quando costui
pervenne carcerato in Napoli, e che, essendogli poi state
ritrovate, furono inserte nel processo di eresia insieme con altre
carte di pertinenza del S.to Officio. I Baroni erano parecchi:
quelli di Reggio si chiamavano Domizio, Paolo e Gio. Domenico, e
si trovavano implicati nelle prepotenze delle fazioni dei
Melissari e de' Monsolini, ma esercitavano anche violenze per
conto proprio. A miglior luogo avremo campo di far conoscere i
documenti che abbiamo rinvenuti intorno a tutti costoro. Quanto a
Giulio Soldaniero, ne sappiamo abbastanza dalle cose dette avanti;
e non può non riceversi qui una certa impressione dal vedere che
il Campanella, il quale avea fatto tanto per avere quest'uomo a
sè, lo mette poi esclusivamente a carico di Maurizio. E da notarsi
frattanto che Maurizio oramai si proponeva di entrare in Catanzaro
e pigliar la città; sicchè non attendeva più, per moversi, che
Catanzaro «si cominciasse a ribellare», come dapprima si era
protestato con fra Tommaso. Egli medesimo nella sua confessione
dichiarò essersi concluso «con fra Tomase et fra Dionisio, che
quando fra Dionisio havesse finito di trattare, et havere quelli
di Catanzaro, havesse avvisato, per che s'haveria pigliato
espediente ad effettuare detta rebellione, et entrare a Catanzaro,
et fra Tomase diceva, che si havea da gridare libertà, scassare le
carcere et ammazzare l'officiali». Vedremo difatti più in là che
fra Dionisio in Catanzaro trattava per far entrare incogniti e di
notte tre a quattrocento uomini armati; e comunque si fosse detto
che sarebbero entrati con lui e sarebbero rimasti sotto gli ordini
di alcuni di Catanzaro tra' quali Gio. Tommaso di Franza, tutto
mena a credere che avrebbero dovuto entrare, certamente in minor
numero, sotto gli ordini di Maurizio: dopochè Maurizio si era
obbligato co' turchi di pigliare Catanzaro, tanto meno poteva
confidare ad altri, massime poi a coloro i quali deposero tale
fatto, un'impresa così rilevante e a dirittura capitale. - Da
parte sua il Campanella continuò parimente ad infervorare i suoi
amici, come lo attestano fuori ogni dubbio due lettere scritte di
suo pugno a Claudio Crispo, le quali disgraziatamente vennero poi
a cadere in mano degli ufficiali Regii e furono inserte nel
processo. La prima, a quanto pare, venne affidata a fra Paolo
della Grotteria che non si curò di consegnarla: per negligenza del
Mastrodatti non ne conosciamo la data, ma da parecchie circostanze
si può bene desumere che dovè essere scritta a' primi di agosto,
probabilmente da Davoli, ed inviata a Stilo perché di là fosse
spedita a Pizzoni. Ecco il sunto che ne diede nel processo il
Mastrodatti: «Desiderava raggionare con l'amici et per questo
volea venire in Pizzoni, ma per che non li era stato scritto,
ch'erano venuti, me parse soverchio per buoni rispetti non venire
a trovarla, pur se dimani venerando (sic) venerò a stare con lei
tre hore et poi ritornerò, et l'huomo non deve mai mutare (senza
certo disegno) stanza, per che il mondo non pensi a male, però
spero a San Domenico che serà alli 5 esser con V. S. et avanti,
frà tanto anderà il P. Dionigio ad acconciare le cose sue in
Catanzaro, et poi visti ci revederemo, et infine dice, si V. S.
parla con li amici suoi, sia insieme col P. Gio. battista et
dicali in quella maniera l'ho insegnato a lui, mentre eravamo sul
ponte di legname qui». Sapendosi che il giorno di S. Domenico,
determinato nel giorno 5, viene a cadere in agosto, e che fra
Dionisio avea guastate le cose sue in Taverna e doveva accomodarle
in Catanzaro appunto a' primi di agosto, riesce chiaro che la
lettera dovè essere scritta precisamente poco avanti questo tempo.
La circostanza poi del «ponte di legname» indicherebbe che il
Campanella scriveva da Stilo, dove forse il Crispo l'aveva
accompagnato insieme con gli altri, al ritorno da Pizzoni, e si
era trattenuto a udire gli ultimi discorsi sul ponte dello
Stilaro, fiume che scorre sotto Stilo: ma non è arrischiato
l'ammettere, che per uno de' soliti artificii de' cospiratori,
egli mostrasse di scrivere da questa città. E come mai, avendo da
pochissimo tempo lasciato Pizzoni, sentiva già nuovamente il
bisogno di andarvi? Probabilmente voleva parlare ad amici non
intervenuti nel primo convegno, e però vedeva utile tenerne un
secondo; forse anche volea comunicar loro doversi oramai disporre
ad entrare in Catanzaro, ed ivi trovarsi pe' primi di settembre
(al tempo della venuta de' turchi); ma si preoccupava di ciò che
avrebbe potuto dirne il mondo, e difatti con la seconda lettera
pregò il Crispo di voler lui venire a trovarlo. Intanto anche
questa volta designava quasi suo luogotenente fra Gio. Battista,
come già prima avea fatto verso il Soldaniero. La seconda lettera,
che venne trovata sulla persona del Crispo, reca la data certa
dell'8 agosto, e sappiamo sicuramente che a questa data il
Campanella si trovava in Davoli, essendo allora appunto accaduto
il suo incontro col Polistina. In essa egli scrive al Crispo, «che
vogli venire con qualche amico, et particolarmente con Gio.
Francesco d'Alisandria». Da tutto ciò si può ben rilevare che il
Campanella non pensò mai veramente a tenersi in disparte, e
continuò ad agire in que' modi e limiti che la sua posizione gli
permetteva.
Lasciando Davoli, il Campanella si recava a S.ta Caterina e là
rimaneva, come egli medesimo assicurò, «tre dì a spasso». Dagli
atti del processo di eresia sappiamo che dimorò nel convento
Domenicano di S. Nicola esistente in quella terra, e che i frati
l'onorarono con banchetti, alcuno de' quali finì in un'orgia
immonda, se deve credersi alla deposizione di una vedovella molto
pudica e serva di Dio, ma altrettanto energumena contro fra
Tommaso e con ogni probabilità tratta in inganno. Del resto
un'orgia immonda tra' frati di quel tempo, dopo un desinare, non
era cosa straordinaria, e il processo medesimo ne ricorda
un'altra, comunque in proporzioni assai minori, avvenuta in
Nicastro durante il priorato di fra Dionisio: ma dobbiamo notare
che appunto in S.ta Caterina «diciano le genti che (il Campanella)
non guardava hom'in faccia ma sempre si guardava la unghia», onde
potè accreditarsi la voce che avesse il suo spirito familiare
proprio nell'unghia. Ciò mostra solamente ch'egli stava in un
contegno assai riservato: non sappiamo pertanto se nell'andare a
S.ta Caterina abbia avuto qualche scopo recondito, ma è probabile
che sia stato indotto a ripetervi le profezie sulle future
mutazioni, ed oltracciò abbia dovuto abboccarsi con altri
affiliati di quella terra, giacchè vedremo essere stati poi
forgiudicati per la ribellione anche Franc.° Paolo Santaguida ed
Antonio Merlino di S.ta Caterina. Ma finalmente se ne tornò a
Stilo, né mai più ebbe ad allontanarsene fino al momento in cui la
congiura fu scoperta. - Nell'occasione del suo ritorno a Stilo
ritornò del pari al convento fra Domenico Petrolo, il quale, senza
dubbio per la venuta del Visitatore in Calabria, avea dovuto
finalmente decidersi a lasciare la casa sua in Stignano e
ripigliare la vita claustrale troppo lungamente interrotta: era
stato in convento durante il maggio per alcune settimane, quando
si sciolse il Capitolo di Catanzaro, e vi si restituiva
nell'agosto, rimanendo sempre, d'allora in poi, a fianco del
Campanella, sicchè le sue rivelazioni destano pel periodo attuale
il più grande interesse. Una delle prime visite ricevute dal
Campanella in Stilo, come risulta anche dalla sua Dichiarazione,
fu quella di fra Dionisio che andava ad Oppido, ed era sempre
preoccupato del Visitatore; onde il Campanella gli avrebbe
suggerito di «tornare a conciare le cose sue». Siamo in grado di
poter dire che questa visita dovè accadere verso il 12 agosto,
poichè fra Dionisio fu in Oppido la vigilia dell'Ascensione, vale
a dire il 14 agosto, e vi rimase anche il 15; l'assicurò nel
processo di eresia fra Pietro Ponzio, il quale fu egualmente in
Oppido a quel tempo, dimorando presso l'altro fratello Ferrante,
il Viceconte, che trovavasi allora colpito da scomunica,
certamente per una delle solite baruffe giurisdizionali. Ben si
scorge intanto che fra Dionisio non avea poi troppa fretta di
«tornare a conciare le cose sue» come il Campanella disse di
avergli suggerito, e piuttosto tornava ad andare qua e là, senza
posa, con altri disegni. Siamo così ricondotti a parlare di lui e
delle sue escursioni.
Movendo da Taverna, dopo le bastonate date in rissa e la nomina di
fra Cornelio a Compagno del Visitatore, fra Dionisio era tornato a
Nicastro, e quivi si era associato ad un Cesare Mileri di quella
città, molto giovane, come lo dissero tutti coloro i quali ne
parlarono, forse di 17 anni, sebbene un documento da noi rinvenuto
nel Grande Archivio ce lo mostri di 27. Costui d'allora in poi
seguì fra Dionisio in tutte le sue escursioni, onde vedremo che fu
più tardi ritenuto complice, e resosi confesso fu atrocemente
giustiziato. Anche egli avea bisogno di un indulto, non sappiamo
per quale colpa, e fra Dionisio gli discorreva della tirannia del
Re, degli enormi pesi fiscali, del non avergli il Re voluto
mandare l'indulto, decidendolo così a volersi ribellare prendendo
parte nella giornata che si farebbe; poichè nel 1600 il Regno
dovea mutar padrone, e già con fra Tommaso e Maurizio aveano
concertato la ribellione mercè l'aiuto del Turco e una massa di
fuorusciti ed altra gente, e «il capo della congiura era D. Lelio
Ursino, il quale si volea impatronire di tutto il Regno». Queste
cose rivelò poi il Mileri, aggiungendovi le solite notizie
dell'andata di Maurizio sulle galere di Amurat, della venuta del
Turco promessa per settembre etc., le quali vennero forse da lui
riferite per suggestione. Certo è che egli sollecitò pure per tale
impresa un suo amico, Francesco Antonio delli Joy, e lo trovò già
impegnato da fra Dionisio: ma sebbene avesse accompagnato fra
Dionisio da per tutto, dapprima a Catanzaro, di poi a Stilo (come
assicurò anche fra Pietro di Stilo), quindi certamente ad Oppido,
e poi di nuovo a Catanzaro, a Girifalco, a Nicastro (come assicurò
egli medesimo), sebbene avesse visto diverse persone parlare
segretamente con fra Dionisio in tutti questi paesi, egli non
seppe dare alcun nome; tale circostanza, e così pure l'altra che
D. Lelio Orsini dovesse impadronirsi del Regno, attestano che fra
Dionisio non procedeva senza cautela, sempre per altro annunciando
frottole che potessero valere a dar animo, nel qual campo questa
volta si spinse davvero un po' troppo. Secondo il Campanella,
precisamente allorchè seppe la condanna pronunziata contro di lui
dal Visitatore, nella sua esasperazione egli non conobbe più
limiti, ed ogni arma gli parve buona purchè si raccogliesse presto
un gran numero di seguaci: ecco come trovasi esposto nella
Dichiarazione questo momento della propaganda di fra Dionisio.
«Havendosi visto condemnato in galera tre anni, privato
dell'havito et di lettorato, secondo che havea comunicato con
Mauritio cominciò in Catanzaro a predicare rebellione secondo la
prophetia mia, et per haver molti della sua parte predicò ch'in
quessa congiura ci era il Papa et Cardinal San Giorgi, il Vescovo
di Melito et de Nic.° (intend. ed il Vescovo di Nicastro), et don
lelio Ursino et li signori del tufo, et tutti quelli ch'esso
s'imaginò essere amici miei et suoi, et io giuro in verità che mai
non ho parlato di queste cose et me pensai che per mezzo nostro se
havessero a muovere». Vedremo tra poco la parte da doversi
attribuire al Campanella in tutto ciò: qui gioverà soltanto notare
che molto tempo dopo, nella Narrazione, egli disse semplicemente
che fra Dionisio «tornò a trattare d'uscir in campagna per
vendicarsi del Polistena, che per mezzo del Nizza pur lo
maltrattava, tanto più che ci erano altri monaci in campagna e lui
sparlava delle mutationi e signali del Campanella abusando le
parole per suo disegno»; questa differenza merita di essere
notata, poichè importa molto conoscere da chi veramente e per
quale motivo fosse nata la voce della partecipazione del Papa, del
Card.l S. Giorgio, di varii Vescovi e nobili alla congiura, ciò
che dal Campanella fu narrato diversamente in diverse circostanze.
Pertanto con le frottole suddette, la maggior parte delle quali a
dirittura di nuovo conio, fra Dionisio continuava la raccolta di
aderenti, e nel tempo medesimo mostrava un vivo desiderio di
assoluzione per l'affare di Taverna. Così dalle deposizioni del
Barone di Cropani, raccolte nel processo di eresia, sappiamo che
egli si portò a Catanzaro, in casa di un prete suo amico a nome D.
Geronimo Garzia, e là si rivolse appunto al Barone di Cropani, il
quale era Antonino Sersale, appartenente a famiglia che vantava
nobiltà di data antichissima ma d'influenza personale piuttosto
ristretta, già prima domiciliato in Nicastro, ove probabilmente
avea conosciuto fra Dionisio, e passato da qualche tempo ad
abitare in Catanzaro. Il Barone andò a parlare per lui al
Provinciale de' Domenicani, che era allora P.e Vincenzo della
Grotteria, ma costui si scusò dicendo di non potere far nulla,
poichè trovavasi nella Provincia il Visitatore, e gli suggerì
d'impegnare il Vescovo; si rivolse al Vescovo, che era Nicolò de
Horatiis da Bologna, e costui scrisse al Visitatore, il quale si
scusò dicendo che la parte era presente e volea giustizia; si
rivolse infine all'Auditore Vincenzo de Lega e lo pregò che
scrivesse lui al Visitatore, e il De Lega scrisse, ma pur sempre
inutilmente. E mentre si facevano tutte queste pratiche, dalle
deposizioni raccolte nel processo della congiura sappiamo che fra
Dionisio più volte parlò segnatamente con Gio. Tommaso di Franza,
e poi anche con costui e Gio. Paolo di Cordova, inoltre con
Giuseppe di Cumesi, Francesco Striveri, Tommaso Striveri, Nardo
Rampano, Mario Fiaccavento, Gio. Battista Sanseverino, dippiù con
Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia; non occorre ricordare che
il Franza ed il Cordova erano appunto i due chiamati al convegno
di Davoli; quanto al Lauro ed al Biblia, meritano essi pure una
menzione speciale, per la tristissima parte che rappresentarono in
sèguito. Fabio di Lauro era giovane a 20 anni, originario di
Amantea e già frate Cappuccino, Gio. Battista Biblia era mercante,
secondo il Campanella di origine Ebrea, ma nato e domiciliato in
Catanzaro, dove la sua parentela era molto estesa, e suo fratello
Marcantonio teneva l'ufficio di Credenziero della gabella della
seta. Fabio e Gio. Battista se ne stavano ricoverati per debiti
nel convento de' frati Zoccolanti o dell'Osservanza. Secondo
alcune testimonianze che si leggono ne' brani del processo della
congiura finoggi conosciuti, fra Dionisio non solo parlò più volte
con costoro, ma scrisse anche una lettera segnatamente al Biblia.
Secondo il Campanella (nell'Informazione), costoro medesimi
diedero a fra Dionisio una lista d'individui i quali volevano
uscire in campagna, e lo fecero parlare ora con l'uno ora con
l'altro, per poi farli comparire come testimoni; la qual cosa si
può bene ammettere, non escludendo che fra Dionisio avea modo di
conoscere anche altri senza l'aiuto di Lauro e Biblia, e rimanendo
sempre vero che con tutti costoro egli parlò della ribellione; ma
avendone questa volta parlato in un senso diverso dal solito,
importa vederlo più posatamente.
Non pare dubbio essersi questa volta fra Dionisio spinto fino a
dire che il Papa, dolente di tanta miseria e tirannia, volea
liberare il popolo rivendicando il Regno alla Chiesa cui
apparteneva, ma contentandosi che si costituisse in repubblica col
riconoscimento dell'alta Signoria ecclesiastica e pagamento di un
mediocre tributo; che per divine rivelazioni ed ispirazioni
sapevasi di certo dover questo accadere coll'aiuto di Dio; che
erano già pronte a moversi moltissime città e terre, d'accordo
anche col Turco, il quale avea promesso di venire in settembre per
impedire qualunque soccorso alle forze Regie dalla via del mare;
che molti predicatori, a capo de' quali il Campanella, avrebbero
fatta conoscere la verità, essendo stata già da loro preparata e
disposta ogni cosa per l'insurrezione; che vi era l'intesa di
diversi Vescovi ed anche di parecchi Nobili desiderosi di uscire
dalla servitù della Corona di Spagna; che era importante ed utile
il prender parte all'impresa, e bisognava far entrare incogniti e
di notte in Catanzaro tre a quattrocento uomini armati, i quali
sarebbero rimasti sotto gli ordini di alcuni Catanzaresi e in un
momento designato avrebbero servito per la rivolta. E nominava
città e terre impegnate nell'impresa, nominava individui aderenti
fuorusciti e non fuorusciti, nominava perfino i Vescovi ed i
Nobili che vi avrebbero partecipato. Così de' Vescovi fu nominato
in primo luogo quello di Mileto, Marcantonio del Tufo, che
sapevasi tanto battagliero nelle cose giurisdizionali, oltrechè in
ottime relazioni col Campanella ed accanito fautore de'
fuorusciti; dippiù il Vescovo di Nicastro, Pier Francesco
Montorio, che dopo quella lotta giurisdizionale così ardente, e
dopo l'accomodamento fatto col Governo fin dal marzo, trattenevasi
pur sempre in Roma senza sapersene il motivo, e dicevasi dover
venire incognito in Calabria al momento opportuno; furono infine
nominati ancora i Vescovi di Oppido e di Gerace e parimente quello
di Catanzaro, il quale ultimo, per essersi impegnato presso il
Visitatore in favore di fra Dionisio, si poteva far credere
impegnato nell'impresa che costui promoveva, se non che, mentre
era compreso tra' congiurati, per taluno di costoro era compreso
al tempo medesimo tra le autorità da doversi uccidere in Catanzaro
al primo momento della rivolta. Ma bisognerebbe essere di una
ingenuità colossale, per voler trovare tutte coerenti e sensate le
voci che si fanno circolare quando si prepara un'insurrezione. De'
Nobili poi fu nominato un numero ancora più grande. In primo
luogo, naturalmente, D. Lelio Orsini, il quale per verità era
stato nominato da un pezzo, come colui che avendo in passato
grandemente favorito il Campanella ne' travagli sofferti, essendo
pur sempre in corrispondenza epistolare con lui, e dovendo venire
a governare lo Stato di Bisignano, sarebbesi trovato non lontano
dal campo della rivolta e in condizioni da poterla favorire
ottimamente: si è visto che il Campanella medesimo avea già fatta
balenare questa speranza a Maurizio, forse ne parlò pure a fra
Gio. Battista di Pizzoni il quale non mancò di affermarlo nella
prima deposizione sua, e stando così le cose, probabilmente egli
dovè parlarne anche a fra Dionisio. Furono nominati ancora Mario
del Tufo e Geronimo del Tufo figlio di Fabrizio, amici notissimi
del Campanella e parenti del Vescovo di Mileto: in ispecie si
diede una grande importanza a Geronimo che risedeva nel castello
di Squillace, come ci mostra uno de' documenti rinvenuti in
Simancas, e dicevasi che avrebbe dato quel castello a' rivoltosi,
come di poi rivelò Gio. Paolo di Cordova. Non ci è riuscito finora
di trovare a qual titolo egli risedesse nel castello di Squillace;
abbiamo tuttavia trovato un documento che mostra essergli da non
molto tempo morto il padre Governatore appunto della provincia di
Calabria ultra, sicchè Geronimo anche per questo solo fatto avea
potuto conoscere ben da vicino gli uomini e le cose di quella
regione; ed abbiamo pure trovati due documenti di più anni dopo,
che ce lo mostrano Capitano di Tropea, sicchè può presumersi aver
tenuto egualmente nel 1599 l'ufficio di Capitano in Squillace,
ufficio ripigliato più tardi in Tropea quando per la persona sua
rimasero cancellati i ricordi della tentata ribellione. Fu
nominato inoltre il Duca di Vietri Fabrizio di Sangro, che abbiamo
visto congiunto per doppia parentela a' Signori Del Tufo,
conosciuto certamente dal Campanella, carcerato già dal Conte
Olivares ed in isperanza d'imminente liberazione per parte del
successore Conte di Lemos giunto in Napoli fin dal 16 luglio;
dippiù il Marchese di S.to Lucido Francesco Carafa, che abbiamo
visto fuoruscito in campagna ricercato dalla giustizia, e che
perdurava tuttora in questa condizione; infine il Principe di
Bisignano Nicola Bernardino Sanseverino, che abbiamo visto
lungamente carcerato non che privato dell'amministrazione de' suoi
beni, e che allora sapevasi fuggito da Napoli, ma disposto a
tornare e desideroso di andarsene agli Stati suoi in Calabria.
Sommando tutto, si dicevano partecipanti e fautori della congiura,
oltre il Papa e in suo nome il Card.l S. Giorgio, cinque Vescovi e
sei Nobili di famiglie primarie napoletane, senza contare i Nobili
di provincia, de' quali, al tempo cui siamo pervenuti, si
conosceva solamente il Barone di Cropani, come risulta dalla
confessione di Maurizio, mentre poi ne' processi se ne vide un
certo numero tra gl'inquisiti, a ragione od a torto. Questo fatto,
ritenuto da alcuni un grave argomento che la congiura fosse stata
ben grossa, tanto che il Campanella dovè avervi solamente una
piccola parte, ritenuto invece da altri un grave argomento che la
congiura non avesse mai esistito, sicchè tutto dovè essere
un'invenzione degli ufficiali Regii, può oramai ridursi al suo
giusto valore e merita bene di essere ponderato.
Certamente dall'esposizione minuta ed ordinata de' fatti si rileva
che il nome del Papa, sotto i cui auspicii avrebbe dovuto sorgere
la repubblica, e così pure i nomi de' Vescovi, furono messi
innanzi addirittura tardi, all'ultima ora, mentre per varii mesi
non se n'era parlato in tal guisa, ed anzi se n'era parlato in
dispregio. Si era detto che il Campanella avrebbe fatto nuove
leggi e tolti gli abusi nella Chiesa di Dio, gli abusi introdotti
appunto dal Papa, da' Cardinali e da' Vescovi, e si erano
enunciati principii niente ortodossi e del tutto ereticali che
avrebbero dovuto imperare nella repubblica. Non deposero mai
altrimenti coloro i quali figurarono sin da principio ne' convegni
col Campanella anche essendo stati a contatto di fra Dionisio
prima dell'andata sua a Catanzaro (p. es. il Caccìa, il Pisano,
Maurizio); nemmeno parlarono mai del Papa quale ispiratore del
movimento Gio. Tommaso di Franza, Gio. Paolo di Cordova e lo
stesso Cesare Mileri; appena il Franza dichiarò vagamente che si
diceva trattarsi «di un negotio di gran qualità e servitio di
Dio», la qual cosa neanche implicava propriamente gli auspicii del
Papa. Invece quelli di Catanzaro dell'ultima ora, sollecitati
esclusivamente da fra Dionisio, massime Biblia e Lauro, parlarono
tanto del Papa e de' Vescovi, da far credere che la mutazione di
Stato fosse voluta e promossa appunto dal Papa in servigio di Dio
e della Santa Chiesa. Sembrerebbe questo un artificio ideato da
costoro al momento in cui si rendevano denuncianti, per accrescere
l'importanza del fatto che svelavano al Governo Vicereale; ma
abbiamo la Dichiarazione del Campanella scritta in un momento in
cui i garbugli non si erano ancora tanto moltiplicati, ed essa
attesta egualmente la partecipazione del Papa e de' Vescovi essere
stata divulgata da fra Dionisio, sicchè intorno al fatto non può
elevarsi alcun dubbio; né deve sfuggire che ne risultano smentite
le affermazioni tardive del Campanella, espresse nelle lettere del
1606-07 al Card.l S. Giorgio, al Papa etc. che cioè la
partecipazione della Curia Romana, come la partecipazione de'
turchi, al pari delle eresie, furono invenzioni sue e de' frati
inquisiti per salvarsi. Relativamente alla partecipazione di que'
parecchi Nobili, per certo anche da questo lato fra Dionisio si
fece a parlare con la più grande disinvoltura, dando per fatto
sicuro il loro aiuto morale e materiale; ma il Campanella medesimo
avea dovuto dirne qualche cosa, e per lo meno avea dovuto
comunicare i discorsi fatti col maggior numero di loro intorno
alle prossime mutazioni, forse cercando d'illudere, forse
illudendosi egli pure sulla parte che avrebbero presa allorchè il
movimento si fosse mostrato serio e vigoroso. Ad ogni modo è pure
degno di nota che da principio si parlò solamente di D. Lelio
Orsini, e più tardi, assolutamente all'ultima ora, in Catanzaro e
da fra Dionisio, si parlò di tutti gli altri. - In fondo poi
questa miscela di elementi affatto eterogenei, resi anche più
eterogenei dalla partecipazione del Turco, quest'accordo del Papa
e del Turco che allora erano nemici davvero, e si facevano la
guerra sul mare preparandosi a farsela di nuovo anche in Ungheria,
quest'accordo de' Vescovi e de' Nobili che usurpavano a vicenda le
rispettive giurisdizioni, e si trovavano in lotte continue, questa
tolleranza del Papa, de' Vescovi e de' Nobili non solo pel Turco,
ma anche per una repubblica nella quale dovea viversi con
comunanza de' beni e perfino delle donne, tutte queste baie
avrebbero fatto sorridere ognuno se le menti non fossero state
eccitate al maggior segno; ma si sa che quando si aspettano
mutazioni, le dicerie più strane possono correre e trovar credito
senza ombra di difficoltà. Vedremo che il Vicerè, non appena seppe
queste cose, le disse «una grande stravaganza, un'invenzione de'
frati», e non si ingannò; tuttavia, abbondando sempre in tenerezza
verso la Curia Romana, non lasciò mai di tenere gli occhi bene
aperti sulle possibili mire ambiziose di essa. In quanto a'
Vescovi, potevano dar da pensare specialmente quello di Mileto,
che avea tollerato ed anche protetto un principio di ribellione in
Seminara con le grida di Viva il Papa, più ancora quello di
Nicastro, che malgrado gli accordi fatti non si era mosso da Roma
forse per qualche disegno occulto, e del resto, dipendendo tutti
dal Papa, bastava aver ritenuto la partecipazione del Papa per
ritenere la partecipazione di tutti loro; difatti veramente il
Vescovo di Nicastro teneva allora mano ad un intrigo nel Regno e
giunse fino a provvedere armi per esso, ma l'intrigo si riferiva
all'isola di Tremiti, non alla Calabria. Quanto a' Nobili, una
nozione più esatta della condizione di ciascuno de' nominati
bastava a fare eliminare per quasi tutti la possibilità della loro
partecipazione alla congiura. Difatti D. Lelio Orsini, benchè
avesse con la sua andata a Madrid ottenuta una risoluzione
favorevole intorno all'ufficio di curatore ed amministratore de'
beni di Bisignano assegnatogli dal R.° Consiglio, aspettava ancora
il placet Regio, e l'aspettò poi un bel pezzo, come si rileva da
una sua lettera che abbiamo rinvenuta nell'Archivio Mediceo:
curatore di Bisignano, dopo la carcerazione del Duca di Vietri,
era stato nominato Gio. Serio di Somma, il quale già trovavasi in
Calabria anche con commissione contro i fuorusciti. Il Principe di
Bisignano poteva ritornare in Napoli sicuro di non esservi
ulteriormente carcerato, poichè sin dal gennaio 1599 S. M.ta aveva
dato quest'ordine, ma tutte le sue pratiche dopo la fuga da Napoli
mostravano in lui ben altra intenzione che quella di ribellarsi;
difatti, dietro accordi col Duca di Sessa Ambasciatore spagnuolo a
Roma, il 13 agosto 1599 tornò nel Regno, ed in ottima intelligenza
col Vicerè andò ad abitare il suo palazzo a Chiaia. Il Duca di
Vietri non poteva esser liberato prima che fosse compiuta la sua
causa, la quale era appena cominciata; inutilmente, ad occasione
dell'entrata in Napoli del Vicerè Conte di Lemos, innanzi al suo
palazzo al largo di S. Domenico per tre giorni si era fatta gran
festa con una spettacolosa illuminazione, e due fontane di vino
aveano per tre ore ogni giorno rallegrato il popolino a sue spese;
la durata della causa si protrasse sino al febbraio del 1600, e
non prima di tale data potè uscire di carcere. Mario del Tufo per
lo meno non era così potente da recare aiuti considerevoli in una
faccenda come quella di ribellarsi al Re di Spagna; invece
Geronimo del Tufo, per la sua speciale posizione, poteva recare un
aiuto da non doversi disprezzare, e vedremo infatti che non appena
fu conosciuta dal Governo la voce della partecipazione di lui alla
congiura, fu subito carcerato. Infine anche il Marchese di S.to
Lucido, egualmente per la sua speciale condizione, confortata da
notevole ricchezza ed influenza, avrebbe potuto recare un aiuto da
doversi tanto meno disprezzare; ma appunto con costui il
Campanella non aveva mai avuta alcuna relazione, e come ci hanno
mostrato le nostre ricerche egli trovavasi allora rifugiato a Roma
ed attendeva solo a grandeggiare, sicchè la voce della sua
partecipazione alla congiura non avea davvero ombra di fondamento.
Non di meno, col mettere innanzi i nomi di quegli alti personaggi,
fra Dionisio potè dare un prestigio grandissimo alla congiura, e
col mettere innanzi i nomi de' Vescovi, del Card.l S. Giorgio e
del Papa, potè ad un tempo farle acquistare sempre maggiore
prestigio ed anche attenuare l'impressione destata dall'aiuto del
Turco e dalla professione di principii eterodossi, notizia che si
era abbastanza diffusa e che non avea potuto riuscire gradita a
moltissimi fra coloro i quali avrebbero forse preso parte alla
ribellione: d'altronde l'ora della venuta del Turco si avvicinava
né c'era più tempo da perdere, e questa circostanza, ancor più
dell'altra della sua esasperazione per la condanna avuta dal
Visitatore, ci apparisce un motivo plausibile dell'essere ricorso
a mezzi di eccitamento d'ogni genere, anche a mezzi del tutto
diversi da quelli che avea fin allora prescelti. Ed essi
fruttarono molto bene, giacchè fu raggranellato in Catanzaro un
numero di congiurati non indifferente, massime se si considera il
breve tempo impiegatovi, come ne' processi avremo occasione di
vedere. In conclusione dunque l'aver fatto figurare nella congiura
alti personaggi fu un tardo e industrioso ripiego di fra Dionisio:
vedremo poi che nella sua confessione in tormentis il Campanella
rivelò di aver detto, che dovendovi essere unum ovile et unus
pastor, egli ed altri avrebbero «predicato in favore di questa
repubblica profetizata in favore del Papa, et che il Papa li
avrebbe esaltati perché si voleano pigliare alcuna parte della
Provintia»; ma evidentemente fu questo anche da parte sua un tardo
ed industrioso ripiego, che pur troppo riuscì ad aggravare la
posizione sua, mentre né il Papa poteva proteggerlo come egli
sperava, né il Governo poteva udire il nome del Papa senza un
aggravamento de' suoi sospetti. Ma se non si ebbe una congiura
tanto grossa, se n'ebbe tuttavia una abbastanza seria; né deve
sfuggire, che pur quando si fecero figurare gli alti personaggi,
il Campanella non fu lasciato nell'ombra, ma invece fu sempre
tenuto nel posto principale. Vedremo che coloro i quali rivelarono
la congiura al Governo, non posero a capo di essa altri che lui,
con la grande scienza, con l'assistenza del diavolo, con l'intesa
de' Nobili, de' Vescovi, del Papa e del Turco, con le armi del
gran numero de' congiurati specialmente fuorusciti, e con la
lingua de' molti predicatori di varii ordini monastici; né
soltanto per queste rivelazioni, ma in verità per tutto ciò che
sappiamo del modo in cui la congiura si svolse, è chiarissimo che
il Campanella non vi prese una parte indiretta con le sue
profezie, bensì una parte direttissima con pratiche e maneggi
d'ogni sorta.
Ci rimane ora a narrare cosa abbia fatto e detto il Campanella in
quest'ultimo periodo, durante l'agosto 1599, mentre fra Dionisio
compiva il suo lavoro in Catanzaro, riassumere i concetti che
lasciò intendere circa la futura repubblica ed i principii che
avrebbero dovuto imperarvi, vedere fino a qual punto poteva
sperare in un felice successo dell'insurrezione.
Egli non si mosse mai più da Stilo, avendo a fianco fra Domenico
Petrolo come compagno abituale, e fra Pietro di Stilo come
Superiore del convento. Non pare dubbio che in questo tempo abbia
mantenute corrispondenze epistolari anche in cifra: vedremo che il
Petrolo, al quale, malgrado i suoi terrori e tentennamenti, non si
può negar fede, disse e sostenne sempre di aver avuto sott'occhi,
segnatamente nel tempo della fuga, lettere in cifra venute al
Campanella, che il Campanella medesimo gli affermò essere di fra
Gio. Battista di Pizzoni; ed aggiungiamo che pure i delatori della
congiura dissero aver viste cifre e segni nelle mani di fra
Dionisio, la qual cosa verrebbe indirettamente confermata da
quanto rivelava il Petrolo. né sappiamo di altre relazioni
personali di una certa intimità, acquistate dal Campanella in tale
periodo, oltre quelle già conosciute. Nelle passeggiate
l'accompagnava quasi sempre il Petrolo, il quale ebbe poi a
ricordare specialmente una contrada presso il convento denominata
Lanzari, dove il Campanella, che la ricorda pure nella sua
Dichiarazione, passeggiando gli avrebbe tenuto qualche discorso
confidenziale segnatamente intorno a principii religiosi. Nella
cella, come ebbe a dire lo stesso Petrolo e in parte pure qualche
altro, continuarono i colloquii massimamente col Prestinace ed
anche col Vua, inoltre co' due Marullo, con Giulio Contestabile e
il Di Francesco, Paolo e Fabrizio Campanella, Giulio Presterà,
Francesco Vono e fra Scipione Politi. Una volta con taluni di
costoro si fece una scampagnata sul monte Consilino, il monte di
Stilo lodato dal Campanella anche nelle sue Poesie, e non vi mancò
il discorso della montagna, come quello del Redentore: ma di esso
conosciamo appena qualche frase, la quale del rimanente basta a
mostrare che vi si svolsero le più rosee speranze in un lieto
avvenire; il monte fu chiamato «monte pingue e di libertà». E
senza dubbio a misura che le speranze crescevano, vedendo le cose
della congiura avviate tanto bene, con gl'individui sopra
nominati, e con altri anche, il Campanella fu all'ultim'ora un po'
meno guardingo, e di tratto in tratto enunciò alcuni principii
politici e religiosi, che ci fanno capire con bastante larghezza
quali idee fervessero nella sua mente: gli stessi aderenti suoi
furono allora più espansivi co' loro parenti ed amici, onde
accadde che solo durante la persecuzione venissero a galla molte
notizie del detto genere, le quali sembrarono di nuovo conio e
potrebbero tuttora credersi foggiate da' persecutori; ma vedremo
che non manca il modo di convincerci che tale opinione sarebbe
insostenibile, e che solamente può ammettersi la diffusione di una
parte di dette notizie per non avere gl'inquisitori serbato il
silenzio voluto dalle leggi. Vi furono per altro sempre cenni
staccati, ed anche semplici «motti» come li disse il Petrolo,
giacchè que' principii, in ispecie i religiosi, non riuscivano
nemmeno graditi a tutti gli aderenti: abbiamo infatti veduto che
quando il Campanella diede qualche barlume di riforma religiosa a
Maurizio, costui dichiarò che non vi avrebbe mai consentito; qui
dobbiamo aggiungere che p. es. Paolo Campanella, avendo una volta
udite certe proposizioni intorno alla Trinità ed all'Eucaristia,
dichiarò al fratello Fabrizio che avrebbe pagato 50 ducati per non
udire quelle proposizioni; da ciò si vede che gli uditori doverono
di tempo in tempo rimanere scandalizzati, ma sino a che durò il
fascino della parola del Campanella, nessuno ebbe ardire di fargli
opposizione. Del resto, se con gli amici e parenti spesso citati
fu più o meno esplicito secondo il rispettivo grado di
familiarità, con tutti gli altri fece appena intendere qualche
cosa a sbalzi, bensì sempre in modo da destare un notevole
entusiasmo, segnatamente dal lato politico, acquistandosi il
titolo di Messia, non che di futuro Monarca del mondo.
Invano dunque si cercherebbe un quadro autentico, pieno ed intero,
delle istituzioni politiche e religiose che il Campanella si
proponeva di attuare con la futura repubblica; ma adunando le
notizie sparse, ed ordinandole, si potrà avere un quadro
notevolissimo. Basterà dare dapprima uno sguardo a ciò che fecero
conoscere fra Pietro di Stilo e il Petrolo, i quali si trovarono
più strettamente uniti al Campanella appunto all'ultima ora, e
poi, per le convenienze della causa, a suggestione del medesimo
Campanella, non tacquero le eresie da lui enunciate; quindi nel
modo più sommario possibile, a fine di non incorrere in eccessive
ripetizioni, dare un cenno di ciò che vedremo raccolto dal Vescovo
di Squillace in un singolare processo, nel quale tra moltissimi
interrogati figurarono anche i parenti liberi di Giulio e
Marcantonio Contestabile, buona parte dei Carnevali, alcuni
parenti del Prestinace, di fra Pietro di Stilo ec., Giulio
Presterà e Francesco Vono con altri amici, conoscenti, estranei,
dietro una citazione larghissima; aggiungendovi anche le notizie
più degne di fede raccolte ne' processi principali, alcune delle
quali abbiamo già avuta occasione di narrare, e mettendo un po'
d'ordine in tutta questa farragine di cose, si avrà ciò che si
cerca, non senza un certo riscontro molto notevole, onde ne rimane
accresciuto il grado di credibilità. Naturalmente questa lunga
serie di detti e fatti del Campanella non appartiene tutta
all'ultimo periodo della congiura, ma, come abbiamo notato, vi
appartiene per la più gran parte, essendosi il Campanella reso
mano mano più esplicito; se non che oramai, al punto cui siamo
pervenuti, una precisione cronologica, mentre riesce impossibile,
riesce anche superflua, e senza mettere interamente da banda la
cronologia, conviene sforzarsi di avere innanzi agli occhi tutto
il complesso delle idee manifestate dal Campanella, onde farsene
un concetto ben chiaro e meno fallace.
Guardiamo dapprima separatamente ciò che si seppe dalle
rivelazioni di fra Pietro di Stilo e fra Domenico Petrolo. Secondo
fra Pietro di Stilo, come abbiamo avuta occasione di dire anche
altre volte, in presenza di lui e poi in presenza pure del
Prestinace, il Campanella manifestò che era in aspettativa di
divenire Monarca del mondo, avendoglielo presagito anche un
astrologo nelle carceri del S.to Officio. Inoltre diceva che il
Papa e il Re si accordavano a' latrocinii, che l'elezione del Papa
non potea ritenersi canonica essendo le voci corrotte e
riducendosi più voci ad una sola pel piatto che il Re donava a'
Cardinali, che i Cardinali erano tiranni e propensi alla lussuria
della peggiore specie; dippiù si burlava de' peccati della carne,
de' quali «parlava assai largo» non ammettendo neanche gran
differenza tra essi, e dicendo del peccato contro natura che era
«un dito più sopra o un dito più giù nell'inferno» (evidentemente
uno de' motteggi del Campanella). Si burlava del pari de' miracoli
dicendo che erano «un'elavatione di mente..., un'applicatione de
intentione di quello alla cui persona si faceva il miracolo», e
che a questo modo ognuno potea farne ed egli ancora ne avrebbe
fatti in prova della sua scienza e delle sue opere; infine avea
detto al Petrolo essere il sacrificio dell'altare preferibile a
quello della legge antica, tuttavia non esser vero, non
contenendosi nell'ostia il corpo di Cristo. Secondo il Petrolo,
era intenzione del Campanella mutare la provincia in repubblica,
servendosi di due mezzi, della lingua, e delle armi specialmente
de' banditi e del Turco, al quale avea mandato Maurizio de
Rinaldis; e per predicare la libertá facea gran capitale del
Pizzoni, di fra Dionisio, di fra Pietro e di lui ancora
(confessione a proprio danno che rende il Petrolo degno di fede,
benchè nelle cose di eresia, per insinuazione dello stesso
Campanella, avesse detto troppo e lasciato che gl'Inquisitori
caricassero le tinte). Dopo di avere discorso in pubblico delle
profezie, il Campanella privatamente gli diceva che quelle
profezie parlavano di lui, e che voleva predicare la libertá e
contro gli abusi della Chiesa; e che tutte le genti hanno avuto i
loro sacrifizii e il nostro era migliore di quello degli Ebrei, ma
pure avea certe superstizioni e precisamente quella che nell'ostia
ci fosse Iddio; che non c'erano miracoli, e ciò che dicevasi delle
resurrezioni dovea attribuirsi ad «asmi et occupationi di core»,
compresa la resurrezione di Lazzaro, la quale era stata una
finzione di Marta e Maddalena amiche di Cristo, avendo esse anche
preparate industriosamente le cose in modo da far sentire il
fetore del quatriduano; che la fornicazione non era quel peccato
che si diceva, potendosi ogni membro adoperare all'uso cui era
destinato; che non c'erano diavoli né inferno né paradiso, e se ne
burlava, dicendo, allorchè si parlava de' diavoli e dell'inferno,
«si pigliano là alla caldara della pece», ed allorchè si parlava
della gloria del cielo, «oh questo mondo è buono e bello»; infine
diceva che Iddio era la natura, ed all'ultima ora, parlandosi de'
fichi pe' quali potè peccare Adamo, disse che quelle erano baie.
Veniamo alle notizie più cospicue e più credibili, che si ebbero
dalle più diverse provenienze ne' processi principali, oltrechè
nel processo detto di Squillace. Ricordiamo che Maurizio seppe
doversi fondare una repubblica nella quale si vivrebbe in comune,
si farebbe la generazione da' soli valorosi, si brucerebbero i
libri latini di fede, si toglierebbero gli abusi della religione,
e il Caccìa seppe che si farebbe una legge migliore di quella de'
Cristiani e si muterebbero anche le vesti; aggiungiamo che Felice
Gagliardo seppe da Cesare Pisano (quindi per provenienza di fra
Dionisio), che si sarebbe usata una tabanella bianca, da scendere
fino alle ginocchia con maniche lunghe, e un berretto ligato a
modo di turbante, si sarebbero bruciati i libri (sic), composto un
nuovo statuto, liberate le monache e fatto il crescite. Queste
notizie del fare il crescite e dell'indossare nuova foggia di
abiti vennero confermate anche da diversi in Squillace,
segnatamente da Fabrizio Carnevale e da Gio. Jacovo Prestinace, ma
secondo una voce pubblica: e fu confermato egualmente da diversi
che il monte di Stilo dovesse dirsi monte pingue e di libertà.
Parecchi ne' processi principali affermarono che il Campanella
avesse detto non esistere Dio, Dio essere la natura etc., la
Trinità essere una chimera, viversi nel mondo a caso, non essere
l'anima immortale, non esistere né paradiso, né purgatorio, né
inferno, né demonii; ma nel processo di Squillace nulla venne in
luce intorno al negar Dio, bensì tutto il resto fu confermato; e
non sembra dubbio che le proposizioni del Campanella alludessero
ad un concetto di Dio, della Trinità, de' luoghi di premio e di
pena, degli angeli buoni e tristi, diverso da quello ricevuto,
senza aver mai negato tutto ciò, massime poi senza aver mai negato
Dio creatore e l'immortalità dell'anima, e che le proposizioni
anzidette sieno state diffuse da fra Dionisio per progetto e
quindi attribuite al Campanella, ovvero anche ripetute dal volgo,
nel quale già circolavano insieme con diverse altre ed attribuite
sempre al Campanella. Solamente intorno a Gesù, a' suoi miracoli,
all'ecclissi avvenuta nel tempo della sua morte, alla
resurrezione, le notizie raccolte in tutti i processi si
accordarono a confermare che egli non credesse alla divinità di
Gesù (secondochè avea già fatto per la prima volta tralucere a
Maurizio), e quindi non credesse nemmeno a tutto il resto compresa
la verginità di Maria. Così avrebbe detto che Gesù era stato capo
di setta, brav'uomo al pari di Mosè e di Maometto; che la
resurrezione di Lazzaro era stata concertata da Marta e Maddalena
e da Lazzaro medesimo, persone amiche di Gesù; che tutti gli altri
miracoli erano stati narrati dagli Apostoli, i quali aveano
scritta la Bibbia per introdurre la fede e poi ogni nazione
l'aveva alterata per conto suo, e pure il miracolo di Mosè nel mar
rosso era dovuto al flusso e riflusso del mare e che ognuno poteva
far miracoli ed egli pure ne avrebbe fatti; che l'ecclissi nel
tempo della morte di Gesù era stata accidentale e particolare, non
miracolosa ed universale; che nella faccenda della resurrezione o
poteva essere stato messo in croce un altro invece sua, o poteva
essere stato il corpo suo sottratto e nascosto secondo il costume
di varii legislatori. Del pari intorno a' Sacramenti, le notizie
raccolte in tutti i processi confermarono essere da lui ritenuti
istituzioni umane; segnatamente l'Eucaristia essere non altro che
una commemorazione di Gesù, ed il Battesimo non essere
indispensabile alla salvazione. È superfluo dire come considerasse
gli atti degli Apostoli, tutto l'organismo della Chiesa e i
precetti di essa, l'autorità del Papa, i Cardinali, i Prelati, la
scomunica, il precetto del non mangiare carne in determinati
giorni. Nel processo di Squillace vennero in luce diversi aneddoti
su questi particolari, e li vedremo a suo tempo; così pure diverse
cose che aveano recato scandalo, come il disgusto per le tante
fraterie, la tolleranza e talvolta l'ammirazione per qualche
cerimonia turca, la stima delle dottrine dei filosofi gentili alla
pari di quelle de' Santi Padri, il poco rispetto per le dottrine
di S. Tommaso e il nessun credito all'esserne stati gli scritti
lodati da Gesù Cristo, l'avversione alle preghiere con molti
paternostri, l'intolleranza per l'adorazione della croce «che era
un pezzo di legno» e così pure per l'adorazione delle immagini de'
Santi. Sotto quest'ultimo rispetto è assai notevole un fatto, che
mostra fino a qual punto il Campanella fosse divenuto temerario:
la Chiesa del convento accoglieva una Congregazione, la quale
intitolavasi del Rosario e adoperava un libro di preghiere con
certe invocazioni a Maria, a S. Domenico e ad altri Santi; il
Campanella non voleva che si dicessero, e di sua mano le cancellò
dal libro. Quale era dunque la specie di riforma che egli si
proponeva?
Manifestamente il Campanella si proponeva fondare uno Stato
secondo le norme che poi descrisse nel suo libro della Città del
Sole. Il Berti con altri lo ha intravveduto, e non pertanto ha
negato l'esistenza della congiura: noi lo riteniamo dimostrato,
dopochè ci è riuscito mettere in luce tante particolarità,
segnatamente con la scoperta de' processi di eresia; e crediamo
che ne rimanga sempre più raffermata l'esistenza di una congiura
promossa e diretta essenzialmente dal Campanella, congiura
necessaria per sottrarsi al dominio di Spagna, sia pure in date
circostanze di tempo e di opportunità. Un confronto di ciò che
sparsamente disse il Campanella, durante la congiura, con ciò che
scrisse più tardi nella Città del Sole e nelle Quistioni
sull'ottima repubblica, toglie ogni dubbio, rimanendo benissimo
chiarita la natura e la direzione dell'impresa, l'impossibilità di
una partecipazione qualunque del Papa, de' Vescovi e de' Nobili in
generale, e perfino la verità e la giusta misura de' concetti del
Campanella emersi da' processi fattigli; poichè ogni qual volta ci
sarà il riscontro, chi vorrà più dubitarne? In tal guisa il così
detto eterno ed insolubile problema della congiura può avere una
facile soluzione, più che non sia forse accaduto mai nella storia
delle congiure: può intendersi qualche concetto che a prima vista
apparisce strano, p. es. il dover essere Monarca e il voler
fondare la repubblica, l'ammettere la comunanza delle donne, il
non ritenere peccato la fornicazione etc; ed appunto può
determinarsi con esattezza il lato dei principii religiosi, su'
quali non meno occorrono chiarimenti, avendo troppe circostanze
influito ad ottenebrare la verità. Il confronto suddetto dà modo
di vedere chi realmente esagerò, chi parlò di propria iniziativa,
chi interpetrò male, e quindi comprendere la parte precisa che
ognuno rappresentò, così nella congiura, come ne' processi
consecutivi. Si rileverà senza dubbio che molte falsità furono
deposte, ma che in ultima analisi venne a scovrirsi meno di quanto
c'era realmente di sotto; ed apparirà chiaro che la Città del
Sole, benchè detta poetica, costituì allora, come costituì di poi,
il complesso delle idee riposte di fra Tommaso, sicchè c'è da
riflettere moltissimo prima di considerare il Campanella, quale
risulterebbe da parecchie altre opere sue, scritte in circostanze
che meritano di essere grandemente valutate.
Trattavasi dunque di attuare in politica una repubblica comunista
della forma più spinta, sino ad avere alcuni lati analoghi a
quelli sostenuti da certi seguaci del moderno nihilismo, e di
attuare in religione quel Cristianesimo razionale, che fino a'
giorni nostri ha continuato sempre ad apparire unica soluzione
accettabile, presso coloro i quali hanno voluto risolvere il
problema della destinazione e della coscienza umana in conformità
de' progressi del pensiero umano; ma tutto ciò con particolari
vedute nell'ordine spirituale e nel temporale, analogamente alle
idee del tempo e più ancora all'educazione del Campanella. Lo
studio degl'insegnamenti de' grandi filosofi, le ricerche assidue
intorno al Cristianesimo primitivo, le abitudini della vita
monastica, gli avevano fatto concepire la libertà in un modo ben
diverso da quello che oggi si professa, gli aveano fatto anche
accogliere certe pratiche religiose come p. es. l'adorazione
perpetua, ad imitazione delle quarantore dei Cattolici, la
confessione auricolare, spinta fino al punto di rivelare al Capo
dello Stato i falli uditi comunque senza far nomi. Al Capo dello
Stato era assegnata una sovranità reale ed effettiva, un'autorità
assoluta nel temporale e nello spirituale; a' cittadini rimaneva
una libertà, che era un imbrigliamento di qualunque moto e di
qualunque sospiro, dietro un'ingerenza governativa delle più
meticolose; perfino lo stomaco e gli organi sessuali erano
regolati dalla legge. Di eguaglianza, come oggi si vorrebbe,
neppure un'ombra; invece dato un grandissimo peso alla cultura e
alla dottrina. Il Capo dello Stato doveva aver fatto studii
colossali, pochi de' più savii partecipavano al potere, gl'incolti
non doveano che servire. Specialmente per quella singolare maniera
di libertà, se «la vita filosofica» ideata dal Campanella avesse
potuto per un momento istituirsi, ognuno senza dubbio avrebbe
finito per ribellarvisi, ed egli si sarebbe ben presto accorto che
un consorzio civile non si rinnovella sopra principii astratti e
senza sostrato nella realtà. Non c'è quindi a meravigliarsi che
taluni, come p. es. il Giannone tra parecchi altri, abbiano
profondamente sprezzato le vedute del Campanella; piuttosto c'è a
meravigliarsi che taluni moderni, i quali s'intitolano
democratici, abbiano menato vanto della repubblica Campanelliana
iscrivendo il Campanella nel loro Olimpo.
Ebbe intanto con questo suo disegno di repubblica un pensiero
altamente generoso per la provincia nativa ed anzi per l'intera
umanità; e all'opposto di ciò che avviene agli attuali
repubblicani, compromise onore e vita per esso, affrontando un
mare immenso di guai con tale audacia, che a parecchi tra' più
gravi scrittori il fatto è sembrato perfino impossibile, e questo,
mentre il paese veramente gemeva sotto la più efferata tirannide,
ma nessuno osava neanche immaginare una via qualunque di uscita.
Ecco ciò che costituisce la sua vera gloria; e non risultano
giustificate né le attenuazioni, né le meno benevole
interpetrazioni, che riescono ad impicciolire la sua grande
personalità civile, e a far disconoscere l'essenza vera della sua
vita. È stato detto che la sua vanità l'avesse spinto in questa
via: senza dubbio eravi in lui quell'orgoglio impaziente, naturale
negli uomini i quali hanno saputo da loro soli divenire uomini di
gran vaglia, ma non s'intende perché non abbia a dirsi essere
stato spinto da una nobile ambizione, mentre d'altra parte bisogna
anche riconoscergli la viva fede in eventi straordinarii e in una
missione altissima alla quale credevasi destinato. Sorretto da una
simile fede ed ambizione, egli seppe ispirare un vivo entusiasmo
in uomini come Maurizio de Rinaldis, Marcantonio Contestabile,
Prestinace, Vua, con una grossa mano di fuorusciti e di cittadini
d'ogni classe, oltrechè in un certo numero di frati, i quali non
rapresentarono punto la parte maggiore come erroneamente si è
creduto: molti di costoro, e frati e laici, non ci risultano
persone stimabili; ma né si può guardare tanto pel sottile ogni
qual volta si tratti di persone impegnate per una ribellione a
mano armata, né si può ritenere che gli elementi di stima fossero
allora quelli medesimi di oggidì. Piuttosto bisogna dire, e non
farà maraviglia, che i congiurati non abbiano avuta una mente
adeguata alla grandezza dell'impresa, come il Campanella dichiarò
con dolore più tardi, quando disse che «guastarono ogni suo
pensier grande»: non di meno i principali fra loro appariscono
sempre persone distinte e degne di considerazione. Non si potrebbe
p. es. non vedere in Maurizio un tipo di uomo animato dal più puro
sentimento di patriottismo e di libertà: egli nobile, egli ricco
di largo censo e di amata famiglia, avea troppo da perdere nella
futura repubblica comunista, e tuttavia non si curò di sapere qual
parte avrebbe rappresentato in essa; compreso unicamente dal
pensiero di sottrarre a Spagna e restituire a libertà la sua
provincia nativa, si limitò a discutere e trovare i mezzi pel
successo dell'insurrezione, accettando volenteroso la dittatura
del Campanella sotto il fascino dell'energia intelligente di lui,
soggiogato dalla potenza di quell'intelletto audacissimo, come
ebbe poi a confessare nel modo più ingenuo. Lo stesso fra Dionisio
Ponzio non si potrebbe non dire un tipo di cospiratore de' più
distinti: è lecito credere che la sua vanità e il suo spirito
vendicativo abbiano influito molto a farlo dedicare febbrilmente
al trionfo della futura repubblica, nella quale d'altronde la sua
cultura gli avrebbe fatto acquistare uno de' maggiori ufficii; ma
non rifuggì dal prendere nella congiura il posto più pericoloso,
agendo fin sotto gli occhi degli ufficiali Regii nella capitale
della provincia, e seppe di poi, ne' giorni tristi, comportarsi
indubitatamente meglio di tutti gli altri suoi compagni promotori
della ribellione, meglio del Campanella medesimo, come vedremo a
suo tempo. Nessuno vorrà credere che fra Dionisio si fosse spinto
tanto innanzi, solamente per uscire in campagna ad oggetto di
uccidere il Polistina, e che Maurizio avesse aderito a fra
Dionisio, solamente per secondarne tale proponimento: per lo meno
non era necessario mettere Catanzaro in moto e andare incontro a
così enorme responsabilità per uno scopo così meschino, e se il
Campanella, ne' giorni tristi, potè dir questa con tante altre
cose, bisogna pure penetrarsi della sua posizione, che l'obbligava
a parlare in tal guisa. Trattandosi di dover fondare una
repubblica, ed essendo certo che il disegno di questa repubblica
era calcata sulle norme che furono più tardi descritte nella Città
del Sole, evidentemente l'unico autore e promotore della congiura
dovè essere il Campanella. Ed al momento al quale siamo pervenuti
egli poteva esser lieto dell'opera sua. Maurizio, in Davoli, aveva
già assicurato che era in grado di riunire fra dieci giorni
duecento fuorusciti, i quali sarebbero entrati di nascosto in
Catanzaro per formare il nucleo dell'insurrezione, e parecchi
erano anche i cittadini di Catanzaro già ben disposti non solo da
fra Dionisio, ma principalmente da Gio. Tommaso di Franza e Gio.
Paolo di Cordova, senza contare il Barone di Cropani; inoltre
Marcantonio Contestabile avea già dovuto mettere in ordine la sua
banda destinata ad assaltare il castello di Arena, e questa banda
era molto notevole, come apparisce da' cenni che il Campanella ne
fornì, ponendoli in bocca a Giulio Contestabile; infine, sotto
l'influenza assidua del Campanella medesimo, un buon numero di
affiliati trovavasi in Stilo e luoghi circonvicini per una larga
zona. I turchi col Cicala doveano venire nella prima metà di
settembre, e la grande aspettativa delle mutazioni che si era in
tutti ingenerata, e il credito straordinario che il Campanella
godeva, sia come scienziato, sia come astrologo, sia come
possessore di spiriti, avrebbe anche fatto avere senza dubbio un
contingente non lieve, più di quanto si suole ordinariamente
sperare da' congiurati in altrettali occasioni. Non erano dunque
poche le forze preparate, e bisogna riconoscere che parecchie
ribellioni, in condizioni egualmente ponderose e gravi, furono
iniziate con forze assai minori: si sarebbero poi dovuti saldare i
conti con una potenza come la Spagna, ma appunto allora gli
sconvolgimenti generali che si aspettavano avrebbero dato un
soccorso incommensurabile. Così il Campanella poteva ritenere che
non sarebbe rimasta senza effetto la sua «voglia ardente a far la
gran semblea», poteva esser fiero di aver saputo «con senno e
pazienza tante genti vincere»: tutti aveano fede viva in tempi
migliori, e il banchetto sul monte di Stilo pose il suggello a
questa fede in coloro che vi presero parte, riuscendo
l'espressione della comune esultanza.
Ma si approssimavano invece anni di dolore con le più amare
disillusioni. Mentre il Campanella trovavasi tuttora in S.ta
Caterina e quindi il banchetto sul monte di Stilo non si era per
anco tenuto, la congiura veniva denunziata al Governo:
continuavano con fervore i preparativi da parte de' congiurati, e
il Governo con altrettanto fervore faceva i suoi preparativi per
averli tutti nelle mani.
CAP. III.
SCOPERTA DELLA CONGIURA E PROCESSI DI CALABRIA.
(dalla fine di agosto a tutto 10bre 1599).
I. Il 10 agosto 1599 Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia, che
abbiamo veduto ricoverati per debiti nel convento de' frati
Zoccolanti di Catanzaro e sollecitati da fra Dionisio a prender
parte alla congiura, ne facevano una formale denunzia al Vicerè
Conte di Lemos, innanzi all'Avvocato fiscale dell'Audienza di
Calabria ultra D. Luise Xarava. Per incarico di costui, essi
seguitavano a sorvegliare gli andamenti de' congiurati fingendosi
sempre accesi per la rivolta, ed intanto ponevano in iscritto ciò
che fino a quel momento aveano potuto raccogliere. Crediamo utile
dare qui letteralmente tradotto l'importante documento da noi
rinvenuto in Simancas, anche perché riscontrandone l'originale,
vengano i lettori a familiarizzarsi co' documenti scritti
nell'idioma spagnuolo.
«Relazione fedele e veridica a Sua Eccellenza circa la congiura e
ribellione che finora è stata tentata ed al presente si tenta
dagl'infrascritti, per quanto noi Fabio di Lauro e Gio. Battista
Biblia abbiamo potuto tener notizia e procurato sapere con ogni
diligenza, in servizio di Dio e del Re nostro signore. - Fra
Tommaso Campanella di Stilo, dell'ordine di S. Domenico, persona
che per tutto il mondo tiene il primato nelle scienze, che per
maraviglia di esse è stato molti anni carcerato nell'Inquisizione,
presupponendosi opera diabolica siccome al presente ci è stato
veramente certificato, con intelligenza di D. Lelio Orsini e del
Principe di Bisignano, del Duca di Vietri, del Vescovo di Nicastro
e di molti altri Vescovi del Regno, di Signori titolati e
Potentati, ed in particolare di Sua Santità e in nome suo del
Card.l S. Giorgio, del Turco; e fra Dionisio e fra Pietro Ponzio
di Nicastro, predicatori dell'ordine di S. Domenico, con copioso
numero di altri predicatori frati di diverse Religioni e di
persone principali di molte città e terre, con intelligenza di
molte corporazioni dell'una e dell'altra provincia, hanno tentato
e tentano quotidianamente di rivoltare ed ingannare i popoli
contro il Re nostro signore, pubblicandolo tiranno del mondo, e
con parole efficaci dànno ad intendere l'incomportabile malvagità
de' suoi Ministri, i quali vendono come all'asta pubblica il
sangue umano e la giustizia e tutto, usurpando con tirannia il
sudore de' poveri con tanti tributi e pagamenti e assassinii che
si veggono nel Regno di Napoli, Regno della Santa Chiesa occupato
tirannicamente, dicendo che tutti i Re di Spagna sono dannati per
avere usurpato gli Stati della Chiesa, sangue di Gesù Cristo, e
che già è venuto il tempo che nostro signore Iddio, mosso a pietà,
si compiace di togliere la sozzura (?) di tanta tirannia e
servitù, e ciò per opera del suo Vicario, il quale, condolendosi
della calamità de' popoli, ha risoluto porli nella pristina
libertà di repubblica, come era per l'innanzi, pur che vogliano
riconoscere per signora la Santa Chiesa, con darle soltanto il
libero consenso e un mediocre tributo, dicendo che non bisognava
spargere il sangue de' loro figli, padri e madri, in rovina de'
proprii averi, mentre sperano che aggiusterà loro ogni cosa
solamente col persuadere la verità e fare che ognuno si riconosca
a sè medesimo e al servizio di Dio nostro signore, il cui aiuto
dicono di tenere in ciò per divine rivelazioni ed ispirazioni,
stimolando la gente con promesse di lauti guiderdoni e con la
facilità del negozio, mentre tutte le città e terre delle dette
provincie sono divise e nella maggior parte disposte a versare il
sangue pel servizio di Dio e della Santa Chiesa e per la propria
libertà, aggiungendo il poco governo e poco talento de' governanti
che al presente si trovano nelle dette provincie, e questo dicono
essere permesso divino, che sembra gli abbia accecati, dando agli
animi di tutti fama immortale pe' secoli avvenire, come pure
mettendo innanzi il gran profitto da trarsene. - Nella detta
congiura sta Maurizio de Rinaldis di Guardavalle, persona nobile e
di grande intelligenza, e fuoruscito con comitiva di più di 2,000
persone di Stilo, casali e dintorni, il quale ha sobillato col
detto Campanella e tuttora va sobillando, e particolarmente in
Catanzaro Matteo Famareda, Orazio Rania ed altri suoi concertano
intimamente con lui. E perché nella detta congiura, la quale si
tratta già da un anno, vi è pure l'intervento del Turco, che ha
commesso ogni cosa al Cicala acciò esegua quanto i congiurati gli
saranno per chiedere, nel mese scorso il detto Maurizio, inviato
da' congiurati con una loro credenziale, s'imbarcò insieme con
alcuni compagni nelle galere di Morat Rais che lo portò a parlare
al Cicala, e di poi se ne tornarono alla marina di Stilo come è
fama pubblica. E il detto Cicala sta già pronto a sua richiesta
con 60 vele, che debbono servire ad andar costeggiando la Calabria
ed impedire qualunque soccorso da mare. - Nella medesima congiura
interviene Ferrante Moretto di Terranova della piana con un suo
germano ed infinita gente di suoi aderenti. Vi sono pure molti
della città di Reggio, S.ta Agata e Casali, e persone principali e
potenti, e particolarmente della città di Seminara. Ci è ancora la
maggior parte della città di Tropea, Mileto, Monteleone, Amantea,
Fiumefreddo e città di Cosenza, Cassano, Castrovillari e
Terranova-citra, Bisignano, Taverna, Cotrone, e la maggior parte
del Principato di Squillace, ma specialmente infiniti della città
di Nicastro, e molti di Rossano e Pietra Paola. Ci ha inoltre
della città di Catanzaro Mario Flaccavento, parente di fra
Dionisio e di Gio. Antonio Fabbrica con altri suoi compagni. Si
trovano ora nelle provincie due compagnie di cavalli di uomini
d'arme, che stanno a requisizione de' nemici. Vi sono ancora tutti
i fuorusciti delle altre provincie, con altro infinito numero de'
casali di Cosenza, e capipopolo di diversi luoghi. - La detta
congiura, stata già trattata da tanto tempo, al presente è
affrettata, e solo attendono la venuta del Principe di Bisignano,
il quale verrà incognito, e così pure del Vescovo di Nicastro e di
alcuni altri grandi personaggi. I congiurati, oltre che sperano
felice successo per la moltitudine de' congiuranti e loro potere
con guide del demonio che tratta col padre Campanella, sperano
giovarsi molto della lingua tra' popoli, nel senso di far loro
buone prediche, mentre concorrono molti predicatori di diverse
religioni i quali si hanno diviso i luoghi tra loro, e per mezzo
di essi si è quasi sempre trattato, e vanno promettendo grosse
remunerazioni in nome di Sua Santità. Si scrivono tra loro con
cifra di numeri e segni, i quali abbiamo visti in potere di fra
Dionisio, che credendo tenerci nel suo partito, per la grande
familiarità che da molti anni vi è stata tra lui e noi, ci ha
comunicato tutto, promettendoci grandi cose, e con grande
esagerazione ci facea premura in questo affare, nel quale non gli
abbiamo dato rifiuto, per scovrire da lui quanto c'è e darne
avviso a Sua Eccellenza, come abbiamo fatto in servizio di Sua
Maestà. Guadagnate le provincie di Calabria, sperano di
conquistare apertamente il resto del Regno, dicendo che la
Calabria è la chiave, in dove si trovano le fortezze, munizioni e
vettovaglie. - Tutte le dette cose per la maggior parte le abbiamo
udite dalla bocca propria di fra Dionisio Ponzio, che per tale
motivo va per diversi luoghi, e di Matteo Famareda, e vedutele per
evidenti segnali e lettere di fra Dionisio che ci hanno mostrato.
Speriamo d'ora innanzi tenere di ciò notizia più
particolareggiata, sebbene quanto facciamo si faccia tutto con
grandissimo pericolo di essere uccisi fin nelle nostre case; ma
per servizio di Dio, di Sua Maestà e di Vostra Eccellenza, noi non
ci curiamo di spargere il sangue e far notoria al mondo la nostra
piena fedeltà e seguire le orme degli avi. - Dat. in Catanzaro il
10 agosto 1599. - Io Fabio di Lauro dò l'infrascritta relazione di
mera volontà mia propria, e depongo come quassù in presenza
dell'Avvocato fiscale di questa provincia in nome di Sua Maestà,
sperando la sua grazia e guiderdone, mano propria. - Io Gio.
Battista Biblia dò l'infrascritta relazione di mia propria
volontà, e depongo come quassù in presenza del Sig. Avvocato
fiscale di questa Provincia in nome di Sua Maestà, sperando la sua
grazia e guiderdone, mano propria».
Successivamente, il 13 agosto, essi mandavano direttamente al
Vicerè un'altra relazione. Con questa dicevano che meglio
informati, poichè andavano ogni giorno cercando di sapere, avendo
parlato con alcuni congiurati principali, «credendo essi di
tenerli pe' loro più affezionati come avevano loro mostrato e
mostravano», aveano potuto toccar con mano che già tutta la
provincia era in ordine, che nella Città di Catanzaro vi erano
tra' congiurati più di 100 persone principali, «e tra gli altri la
Regia munizione stava in ordine per costoro»; che i corrieri e
messi andavano tra loro quasi sempre di notte, ed erano per la
maggior parte frati e clerici; che essi, i denunzianti, aveano
mandato corriere «per avere qualche loro lettera» ed inviarla a S.
E., come pure d'allora in poi avrebbero procurato «sapere tutti i
nomi de' congiurati». In fondo, come ben si vede, non avevano
ancora fatto altri progressi nelle scoverte alle quali
attendevano; frattanto magnificavano il «pericolo di essere
bruciati fin dentro le loro case» e dicevano che «per ore e
momenti stavano aspettando la morte»; assicuravano che i
congiurati aveano tra loro «persone grandi e molti di Corte», e
soggiungevano che se non si rimediava presto, correva «grandissimo
rischio di porsi in rivolta il mondo». Infine conchiudevano
rimettendosi alla grazia di S. M.tà e di S. E. da cui speravano
«competente rimunerazione di tale e tanto grande servigio». -
Vedremo che in sèguito, attendendo sempre «a scovrire la congiura
per ordine dell'Avvocato fiscale», giunsero realmente ad avere
«tre lettere» le quali trasmisero alle Autorità, come risulta dal
Carteggio Vicereale, e fecero pure qualche altra scoverta che
troveremo espressa nelle loro deposizioni.
La prima denunzia giunse in Napoli, per mezzo del fiscale, il 18
agosto, la seconda, direttamente, il 24 agosto, e in tale ultima
data il Vicerè ne trasmetteva copia a Madrid, dando conto de'
provvedimenti fatti e della impressione ricevuta: tutto ciò si
rileva dalla sua prima lettera scritta al Re su tale argomento.
Fin dal 18, all'arrivo della prima denunzia, egli spedì subito un
corriere all'Ambasciatore di Spagna in Roma D. Antonio de Cardona
Duca di Sessa, avvertendolo di ciò che accadeva «e scrivendogli
un'altra lettera da potersi mostrare a S. S.tà», nella quale
diceva che certi frati e clerici in Calabria facevano trattative
col Cicala, e che perciò supplicasse S. S.tà di «restar servita»
di permettergli che per l'investigazione di tal negozio potesse
prendere i frati e clerici che fossero colpevoli, ciò che S. S.tà
fece con molto piacere, richiedendo che li traducesse alla carcere
del Nunzio che teneva in Napoli, ma che se gli paresse altro, lo
lasciava nelle sue mani. Dippiù, quantunque ritenesse la cosa
senza fondamento, il Vicerè pensò ad inviare in Calabria una
persona capace d'investigare con ogni segretezza e carcerare i
frati nominati nella relazione, procurando di avere in poter suo
tutte le loro carte; e scelse Carlo Spinelli, di cui avea trovato
in Napoli molto buona relazione, e che oltre all'essere buon
soldato era anche molto prudente ed accorto, e perciò si era
servito di lui il Duca di Ossuna a tempo del tumulto della città
(il tumulto contro l'Eletto Starace), e lo avea fatto Reggente
della Vicaria, nella qual carica in pochi giorni avea presi i più
colpevoli tra' delinquenti; lo scelse anche perché gli sembrò che
sarebbe stato la persona la quale avrebbe potuto andare con minor
rumore, con voce che sarebbe andato a difendere la costa (a
difenderla dal Turco siccome avea fatto altra volta). Del resto,
egli diceva, «mi pare grande stravaganza mischiare il Papa e il
Card.l S. Giorgio col Turco; che se fosse stato col Re di Francia
o con qualche potentato d'Italia non mi sorprendeva, poichè,
secondo mi ha avvertito il Duca di Sessa, già altra volta si sono
tentati questi rumori da gente inquieta e di poca sostanza; e così
mi persuado che solamente da' frati sono uscite queste invenzioni,
chè d'uno di loro tengo relazione essere apparecchiato, per
credere di lui qualunque novità». Parevagli pure stravaganza ciò
che dicevano del Principe di Bisignano, del Duca di Vietri e di D.
Lelio Orsini: con tutto ciò, egli soggiungeva, «per non errare è
mestieri pensar sempre al peggio». Aveva quindi ordinato al
Fiscale di andare a S.ta Eufemia, ove dovea sbarcare Carlo
Spinelli, per farvi una certa informazione, perché nell'Audienza
non sospettassero a che fine egli là si recava, e di vedersi quivi
con lo Spinelli, il quale, informato bene del caso, avrebbe nelle
mani i frati e i più colpevoli, e glie ne darebbe avviso. Ripeteva
poi ancora una volta che egli credeva tutto esser cosa senza
fondamento, se non invenzione de' frati.
Il Vicerè D. Ferrante Ruiz de Castro Conte di Lemos era stato da
poco tempo inviato a Napoli, in sostituzione del Conte Olivares, e
vi era entrato appena il 16 luglio 1599, avendo avuta anche la
missione di Ambasciatore straordinario di obbedienza al Papa:
nella sua venuta avrebbe dovuto passare per Roma, ed invece con
una certa sorpresa della Curia Pontificia, che trovasi espressa in
una lettera al Nunzio, era «capitato a Napoli prima che a Roma».
Fu detto che nel suo passaggio per Genova un frate Francescano lo
avesse avvertito di tener d'occhio la Calabria, e che egli fece
subito diligenze e si venne così a scovrire la congiura: ma tutto
ciò non ci risulta esatto, e potrebbe stare soltanto che quel
frate, appartenente ad un Ordine solito a servire da spia agli
spagnuoli massime nelle cose di Levante, gli avesse parlato del
Campanella come di un uomo torbido, capace di qualunque novità;
questo potrebbe ritenersi adombrato nel periodo sopra riferito
della lettera del Vicerè, mentre poi veramente egli conobbe la
congiura solo per opera di Lauro e Biblia, e stentò molto a
ritenerla cosa seria malgrado le rivelazioni di costoro. Fu detto
pure, dal Parrino, che i due cittadini di Catanzaro, complici
della congiura, la rivelarono perché la Divina Provvidenza toccò
loro il cuore: ma ci risulta solamente certo che il loro cuore fu
tocco dalla speranza di un buon guiderdone, avendo formalmente
espresso questa speranza in entrambe le relazioni da loro scritte.
Fu detto infine dal Campanella, nella sua Narrazione, che Lauro e
Biblia si scovrirono avidi di mutazione con fra Dionisio, il quale
secondo i segni e profezie di lui commendò il disegno loro, e di
poi con la speranza di sollevarsi ed aggrandirsi parlarono allo
Xarava, il quale essendo scomunicato e malcontento, «per
scaricarsi appresso il Re la colpa della scomunica, e per
vendicarsi degli ecclesiastici e d'altri nemici suoi in Catanzaro,
disse falsamente a Lauro et a Biblia che questa era congiura di
ribellar il regno e com'esso sempre l'havea pensato, e che
c'intervenia il Vescovo di Milito, da cui era stato lui con tanti
Baroni et Ufficiali scomunicato, e tutta casa del Tufo, el Vescovo
di Nicastro che fece l'interditto, e che per effettuar questo F.
Dionisio era andato a Ferrara, e che il Papa consentia e però non
levava l'interditto, e che potean'esser altri Signori e s'informò
con quanti havea amicitia il Campanella el F. Dionisio, e
consertaro di metterli in processo, qual fece segretamente contra
Prelati e Baroni et amici del Campanella e nemici suoi e delli
prefati rivelanti; et ci posero anche D. Alonso de Roxas
Governator della provincia, parte perch'era suo nemico di Xarava,
parte perché non fossero obbligati a farlo consapevole di tal
processo, perché non haveria consentito a tanta falsità». Ma
questo si capisce facilmente essere un garbuglio, per far apparire
Biblia e Lauro promotori di un movimento e lo Xarava autore di
tutti i particolari della congiura; mentre invece, come abbiamo
già avuta occasione di vedere, il Campanella medesimo, nella
Dichiarazione che si decise a rilasciare appunto allo Xarava,
disse che fra Dionisio avea predicato in Catanzaro ribellione
secondo la profezia di lui, e per aver molti dalla sua parte avea
nominate tutte quelle persone a cominciare dal Papa. Adunque la
denunzia di Lauro e Biblia rivelò in tutto e per tutto le cose
esageratamente ed artificiosamente propalate da fra Dionisio in
Catanzaro: si può soltanto dire che le rivelò in un modo ancora
più esagerato ed artificioso, con una grande impudenza, per
accrescere il valore del servigio reso. né vi si vede poi accusato
di complicità D. Alonso de Roxas, che realmente sappiamo essere
stato, come ogni altro Governatore, in dissidio con lo Xarava; ma
lo si vede soltanto genericamente posto in cattiva luce, assieme
con altri ufficiali Regii, là dove è notato il poco governo e poco
talento de' governanti delle Calabrie. Che se egli non fu fatto
consapevole del processo, sappiamo non essere ciò accaduto per
astuzia dello Xarava e de' rivelanti, ma per gli ordini dati dal
Vicerè, il quale, a fine di mantenere il segreto, volle che
l'Audienza non potesse nemmeno sospettare di qualche cosa
all'arrivo dello Spinelli. Aggiungasi che nella denunzia non si
vede per anco nominato il Vescovo di Mileto e la casa Del Tufo,
degli individui di Catanzaro si trovano nominati appena Matteo
Famareda, Orazio Rania e Mario Flaccavento, e fino al 13 agosto
non erano stati ancora conosciuti altri nomi, mentre pure si
accertava essere più di 100 i congiurati in quella città; onde
deve dirsi non apparirvi alcuna traccia de' voluti nemici dello
Xarava e de' rivelanti, che sarebbero stati nominati con la
qualità di complici. In conclusione rimane solo che potè forse lo
Xarava essere l'estensore della denunzia ma non l'inventore della
congiura: potè essere l'estensore della denunzia, perocchè questa,
sebbene scritta in un modo abbastanza scempiato, risulta sempre in
una forma superiore a quella che avrebbero comportato le forze
intellettuali de' rivelanti, come si desume pure da qualche altro
documento scritto da uno di loro, che noi abbiamo rinvenuto
nell'Archivio di Napoli e che a suo tempo daremo. - Pertanto il
Vicerè mostrò un certo accorgimento nel non prestar fede a quella
miscela de' Nobili, del Papa e del Turco, tutti d'accordo in una
congiura, e nel crederla invece una invenzione di frati: ma la
grave responsabilità inerente al suo ufficio l'obbligava a
preoccuparsene senza ritardo, e naturalmente, trattandosi di
persone ecclesiastiche, egli si diresse innanzi tutto a Roma.
Occupava allora la sedia Apostolica Papa Clemente VIII (Ippolito
Aldobrandini), e secondo il costume del tempo, spinto all'eccesso
da questo Papa, brillava intorno a lui tutta la tribù degli
Aldobrandini. Sarebbe inutile e disgustoso darne l'elenco, ma
occorre alla nostra narrazione menzionarne almeno tre: 1.° Cinzio
Aldobrandini Cardinale di S. Giorgio, nipote del Papa essendo
figlio della sorella Giulia maritata ad Aurelio Personei, e per
ragioni facili ad intendersi decorato del cognome materno, creato
Cardinale insieme col cugino Pietro nel 1593, ma divenuto
Segretario di Stato fin dal 1592, in sostituzione del Vescovo di
Bertinoro; 2.° Pietro Card.le Aldobrandini, altro nipote del Papa
essendo figlio del fratello Pietro sposo a Flaminia Ferracci,
creato Cardinale a 21 anni, incaricato di alti affari e divenuto
anche Camerlengo, da non confondersi con un altro Cardinale
Aldobrandini (Silvestro), pronipote del Papa essendo figlio della
nipote Olimpia maritata a Gio. Francesco Aldobrandini, creato
Cardinale impubere, nel 1603; 3.° Jacopo Aldobrandini del ramo di
Brunetto Aldobrandini, ramo rimasto in Firenze, figlio di
Francesco e Clarice Ardinghelli, già Canonico di S. Lorenzo, poi
Referendario della Segnatura sotto Sisto V, poi governatore di
Fano etc., poi mandato Nunzio in Napoli nell'aprile 1593, e in
dicembre dello stesso anno creato Vescovo di Troia in sostituzione
di Monsignor Rebibba, non che assistente al soglio Pontificio.
Importa molto distinguere principalmente Cinzio, Pietro e Jacopo,
i quali si veggono talvolta confusi dagli scrittori delle cose del
Campanella: importa del pari avere qualche notizia delle
condizioni degli animi nelle Corti di Roma e di Napoli, mentre
s'inauguravano trattative le quali ebbero un lungo sèguito,
destando armeggi giurisdizionali tanto più delicati, in quanto
riflettevano un delitto di lesa Maestà. In generale i Vicerè
ostentavano sempre le migliori disposizioni verso Roma, e la Curia
Pontificia non soleva tralasciar nulla per avere i Vicerè ben
disposti, profittando molto di quella devozione che gli spagnuoli
non mancavano mai di mettere in gran mostra, pur quando non la
sentivano. Il Conte di Lemos, stato già nove mesi frate Zoccolante
in gioventù, succedendo nel governo a quello tempestoso
dell'Olivares, con la missione anche di Ambasciatore di obbedienza
del nuovo Re presso S. S.tà e col desiderio riposto di ottenere un
Vescovato ad un suo fratello per soprappiù illegittimo, fece
concepire alla Curia le più belle speranze nella persona sua. Come
scriveva il Cardinal S. Giorgio al Nunzio, anche prima di entrare
nel Regno si era affrettato ad inviare «una lettera piena di
obsequio et di humiltà, con la quale si essibisce di servire alle
cose di S. S.tà et di tenere ogni buona intelligenza co' suoi
Ministri». Dal canto suo, il Papa avea subito mandato non solo un
Breve di risposta al Conte, ma anche un Breve alla Contessa, alla
quale faceva la «spontanea gratia» dell'indulgenza plenaria il
primo giorno che si sarebbe confessata e comunicata nel territorio
del Regno, ed avrebbe pregato per la pace ed esaltazione della
Chiesa: ed aveva ordinato al Nunzio di presentarlo ed
«accompagnarlo con officio opportuno in voce, mostrandole
spetialmente che S. S.tà si promette ch'ella debba essere
instrumento efficace non pur di mantenere il marito così bene
affetto et così riverente verso S. S.tà et verso questa S.ta Sede
come si dichiara di voler essere, ma di accrescere la dispositione
et riverenza et di farne apparir gli effetti all'occasioni». La
grazia dell'indulgenza, naturalmente, venne impiegata il meglio
possibile, ma qualche volta nemmeno se ne vide il frutto, ed
allora si ricorse al Confessore del Vicerè, P.e Ferrante Mendozza
Gesuita, che ebbe sempre molta influenza sull'animo de' Lemos
padre e figlio. Il Nunzio, da parte sua, adempiva con premura
all'ufficio; non lasciava mai nulla intentato e spiegava
un'operosità instancabile, superiore a quanto comportasse l'età
sua che non era fresca, ed anche il suo carattere che era di uomo
svogliato e poco espansivo. Occupava così molto tempo «ne'
negotii», con un certo scapito dell'amministrazione della
giustizia e del buono andamento del Tribunale cui doveva
attendere, come si vide dolorosamente anche nella causa del
Campanella e socii. Non si potrebbe dirlo poco amante della
giustizia, che anzi il suo Carteggio ce lo rivela sovente
ammirabile, sia quando sollecita la Curia Pontificia a trovar modo
di far gastigare la vita scandalosissima de' frati e de' clerici,
e far perseguitare i malviventi ricoverati nelle Chiese e ne'
monasteri, sia quando resiste alle sollecitazioni di essa a
graziare delinquenti condannati dal Tribunale della Nunziatura e
ad imporre alle Chiese predicatori raccomandati: ma erano
moltissime le faccende che dovea trattare, e si sa che la prima
cura sua doveva essere la preeminenza ecclesiastica e la raccolta
delle ragguardevoli somme che dal Regno affluivano a Roma, sicchè
tutto il resto veniva in seconda linea; pure tutto il resto non
era poco, e alle faccende ordinarie se ne aggiungevano tante altre
straordinarie, non mancando nemmeno le commendatizie presso il
Vicerè per far avere impieghi! Frattanto nel tempo del quale
discorriamo non v'era ancora bisogno che egli si affannasse molto
a trovar favore e benevolenza nella Corte del Vicerè: si era in un
periodo di grandi tenerezze che durò tre buoni mesi, e parecchie
lettere del Card.l S. Giorgio attestano la letizia di Sua
Beatitudine per la buona inclinazione, per la pietà, per la
modestia del Vicerè, la premura di mostrargli che a Roma «non si
davano manco volentieri le sodisfattioni di quello che si
ricevevano».
In simili condizioni di cose il Vicerè si spinse a chiedere
licenza di far carcerare gli ecclesiastici incolpati per poi
procedere all'informazione, ed il Papa glie l'accordò
immediatamente: ma vi fu qualche circostanza degna di nota da
parte dell'uno ed anche dell'altro. Il Vicerè non disse che que'
frati e clerici promovevano una congiura, sibbene che «trattavano
col Cicala», o, come più chiaramente mostra la comunicazione
fattane dal Card.l S. Giorgio al Nunzio, che avevano «commesso
delitti gravissimi et atroci, et che per pigliar maggior vendetta
dei loro nemici si sono indotti à chiamar Amorat Rais
all'esterminio di certo luogo che possedono alla riva del mare»!
Il Papa concesse la facoltà di farli carcerare, con la condizione
di consegnarli poi nelle mani del Nunzio, o quando vi fosse timore
che potessero fuggire e si volessero custodire nelle carceri
Regie, di custodirli sempre come prigioni del Nunzio; ma aggiunse
pure a costui, che mandasse «con le genti che spedirà contra l'E.
S. coloro... un huomo suo, con l'intervento del quale si veda che
per quello che tocca alle persone ecclesiastiche si tiene il conto
che conviene della nostra giurisditione mentre non sono verificati
gli eccessi che si pretendono contra di loro». né apparisce avere
il Papa veramente aggiunto al Vicerè, come costui scrisse a
Madrid, che «se gli paresse altro, lo lasciava nelle sue mani»: fu
questa probabilmente una di quelle piccole vanterie alle quali
bisogna bene essere preparati, giacchè ne vedremo talvolta negli
ufficiali Regii e nello stesso Nunzio, rientrando nel gonfio e nel
vano che tanto piacevano a que' tempi. - La comunicazione di ciò
che a Roma si era deliberato fu scritta il 20 agosto, e pervenne
al Nunzio per mezzo dello stesso Vicerè; il Nunzio glie ne diede
notizia immediatamente, e disse che era pronto a far la sua parte
sempre che occorresse; il Vicerè se ne mostrò contentissimo, e
rispose che quando fosse tempo glie lo farebbe sapere. Ma
certamente non pensava punto a soddisfare i desiderii del Papa,
circa l'invio di una persona che rappresentasse il Nunzio con le
genti che avrebbe spedite in Calabria. Difatti non se ne curò
menomamente, né apparisce che la Curia se ne fosse risentita:
vedremo che molto più tardi poi il Vicerè evocò tale
provvedimento, ma per cercare di eludere l'obbligo di far
esaminare gl'incolpati in Napoli, ed invece farli esaminare in
Calabria da un Giudice secolare coll'intervento di un Commissario
Apostolico. Pel momento egli volea veder chiaro e senza testimoni
importuni, tanto più che parlavasi di complicità dello stesso
Papa: laonde, siccome si è detto, commise la faccenda solo allo
Spinelli e allo Xarava, escludendo perfino l'Audienza e quindi
anche il preside di essa D. Alonso de Roxas Governatore della
provincia.
Abbiamo già avuta occasione di far la conoscenza di D. Alonso de
Roxas e di D. Luise Xarava, ed abbiamo notato l'animo mite e
placido dell'uno, l'animo prepotente ed energico dell'altro,
l'antagonismo esistente fra loro: è quasi superfluo dire che
l'antagonismo si verificò anche pel fatto della congiura. Ma
c'importa per ora far la conoscenza di Carlo Spinelli, al quale
venne straordinariamente affidata la parte principale in questa
faccenda. I documenti abbondano intorno a costui, poichè egli era
veramente un personaggio reputato oltre ogni dire, con uno stato
di servizio ragguardevolissimo; e senza ricercare le carte
polverose degli Archivii, ogni napoletano, che s'interessa un poco
almeno allo svolgimento delle arti belle nella sua città, ha
potuto vederne le nobili sembianze in una statua armata e ritta,
messa tra due brutte statue sedenti di Ercole e Pallade, e
leggerne le molte azioni ricordate dall'epigrafe apposta al suo
mausoleo, entro la chiesa di S. Domenico nella Cappella di S.
Stefano, la 2.a a destra dell'altare maggiore. Appartenente alla
linea degli Spinelli Baroni di S. Giorgio la montagna e
Buonalbergo, nella provincia di Principato ultra, primogenito di
Pirro Giovanni Spinelli e di Lucrezia Caracciolo, non avendo avuto
figli con Maria Spinelli de' Principi di Tarsia, gli fu successore
il fratello Gio. Battista, che dopo la morte di lui fu creato
Principe di S. Giorgio. Come tutti i Nobili napoletani di alta
carriera, indossò la toga e cinse la spada: fu Reggente della
Vicaria sotto il Duca d'Ossuna, a' tempi del tumulto contro
l'Eletto Starace (1585), ed in tale occasione si distinse molto,
secondochè rilevasi da' documenti trovati in Simancas, mentre il
Parrino non ne dice nulla: ma già avanti questo tempo si era
distinto presso D. Giovanni D'Austria, dapprima in Granata contro
i Mori ribelli, poi alle isole Echinadi e in Tunisi contro i
turchi, quindi nella Francia e nel Belgio per tre anni, in sèguito
da Commissario in Calabria contro i fuorusciti durante il
Vicereato del Marchese di Mondejar, poi come colonnello a capo di
4000 fanti, insieme con Fra Vincenzo Carafa Prior d'Ungheria,
nella presa del Regno di Portogallo (1580), poi nel governo della
Germania inferiore sotto il Duca di Parma e Piacenza, trovandosi
all'espugnazione di Bonn, di Vachtendonq etc. etc. Nominato
Consigliere del Collaterale nel 22 febbraio 1590, fu nello stesso
anno delegato contro i fuorusciti in tutto il Regno e massime
negli Abruzzi infestati dal famoso Marco Sciarra, poi nel 1594 di
nuovo in Calabria contro i turchi condotti dal Cicala: ma in
queste due spedizioni non fu punto felice, e massime nella prima
dovè la sua salvezza allo stesso Sciarra, il quale, riconosciutolo
pel cavallo bianco che montava, ingiunse a' suoi che si
astenessero dal colpirlo, per usargli quella cortesia di cui non
di rado i briganti amano di far mostra. Il Campanella, nel suo
libro della Monarchia di Spagna, scoccò una frecciata a lui e a
tutti i capitani spagnuoli, dicendo che lo Spinelli riceveva
donativi dallo Sciarra e non lo volle morto, secondo il sistema di
tirare le cose in lungo a fine di rimanere lungamente con pingui
stipendii e piena autorità: quanto all'aver tirato le cose in
lungo, il fatto ci risulta vero, benchè sia nota l'intrinseca
difficoltà di tali imprese non mai smentita; ma quanto al non
avere lo Spinelli voluto morto Marco Sciarra, gli Storici dicono
precisamente l'opposto. Vero è che mentre egli mostravasi bravo ed
accorto, realmente «circumspetto» come s'intitolavano i
Consiglieri del Collaterale, non mancava di essere feroce ed avido
di guadagno per sè e per i suoi, come si vedeva spesso a
quell'età; né sarà inutile dire che, al tempo del quale ci
occupiamo, i molti debiti fatti dal padre suo e da lui medesimo lo
tenevano nelle strettezze, dalle quali non uscì neanche dopo la
spedizione di Calabria, poichè verso il 1603 dovè soffrire la
vendita di Buonalbergo in suo danno, né questa terra tornò alla
famiglia se non ricomprata dal fratello Gio. Battista nel 1612.
Abbiamo vedute le ragioni per le quali lo Spinelli fu prescelto
dal Vicerè. Come risulta da cenni sparsi, egli andò qual
Commissario, Luogotenente generale e Capitano a guerra nelle
Calabrie: il testo della Commissione e delle Istruzioni si
dovrebbe trovare nei Registri Curiae, dove, tra gli altri,
solevano notarsi tutti i documenti di questo genere: ma non c'è
riuscito di rinvenirlo, e con ogni probabilità se ne fece
l'annotamento ne' Reg.i Curiae Secretorum, come si soleva nelle
Commissioni di alta importanza. Non sappiamo con precisione quanta
milizia lo Spinelli abbia avuta a condurre con sè. Ma il
Campanella, nella sua Narrazione, ci lasciò scritto che vennero
con lui due compagnie di spagnuoli, e veramente nelle relazioni
dello Spinelli si trovano citati due capitani spagnuoli con le
rispettive compagnie, D. Antonio Manrrique e D. Diego de Ayala.
Pertanto un documento da noi rinvenuto nel Grande Archivio ci fa
conoscere il nome di alcuni ufficiali napoletani che andarono con
lo Spinelli, come persone di sua fiducia, e gli stipendii
rispettivi e la sollecitudine con la quale vennero nominati e
spediti. Questi furono, Mario Mirabella, Alfonso Dattolo e
Vespasiano Jovene, capitani, inoltre Vincenzo Severino, che
vedremo funzionare da segretario: lo stipendio dello Spinelli era
di D.i 300, quello de' capitani di D.i 40, quello del Segretario
di D.i 30 mensili, e il 23 agosto, un giorno innanzi che giungesse
in Napoli la 2.a relazione da Lauro e Biblia, dalla Scrivania di
razione era spedita la liberanza per un mensile anticipato a
ciascuno di loro, e il 26 agosto se ne faceva il pagamento ovvero
l'annotamento. Poichè a questa data dovevano essere già partiti,
leggendosi nella lettera Vicereale del 24 agosto intorno allo
Spinelli, che «lo ha inviato, e datogli istruzione di ciò che ha
da fare e il segreto che ha da guardare»; ed oltracciò vedremo che
una lettera Vicereale dello stesso giorno 24 allo Spinelli fu da
lui ricevuta in Calabria, dove egli sbarcò il 27. Aggiungiamo che
con lui dovè pure partire un Mastrodatti: e veramente così
costumavasi, facendosene la nomina nella Lettera di Commissione,
ed in una copia di lettera dello Xarava al Vicerè trovata a
Simancas lo si vede affermato, con l'occasione che questo
Mastrodatti morì poi in Calabria e bisognò prenderne un altro.
Ma mentre il Vicerè si studiava tanto di tenere la faccenda
segreta, accadeva in Catanzaro qualche cosa che la svelava: altri
Catanzaresi, il giorno 25, presentavano una nuova denunzia, e la
consegnavano all'Audienza. È questa la denunzia che, trovata
accidentalmente a' giorni nostri dal De Luca, fu depositata dal
Baldacchini nell'Archivio dell'Accademia Pontaniana, e
dall'Accademia trasmessa all'Archivio di Stato: pubblicata
dall'Accademia e dal Berti può leggersi riprodotta ne' Documenti
annessi a questa narrazione. In sostanza cinque cittadini
Catanzaresi, vale a dire due fratelli Striveri, un Mario
Flaccavento, un Gio. Battista Sanseverino e Gio. Tommaso di Franza
che abbiamo già veduto al convegno di Davoli, deponevano che fra
Dionisio era venuto a bella posta in Catanzaro per comunicar loro
i vaticinii del Campanella e la prossima ribellione «che
principierà innanti la metà di settembre», la partecipazione di
diversi Signori e del Papa che farebbe entrare le sue genti nel
Regno, la partecipazione de' principali cittadini di diverse
terre, di 200 frati e di 200 fuoriusciti i quali si andavano
riunendo e doveano dar principio alla rivolta, la partecipazione
dell'armata turchesca che dovea comparire «alli 6 di settembre
prossimo», infine la richiesta fatta loro da fra Dionisio di
«accettarlo con più di tre o quattrocento huomini armati li quali
li farà entrare incogniti e di notte» per rimanere nella loro
obbedienza, conchiudendo che essi, fedelissimi vassalli, lo aveano
«rebuttato» e se non fosse stato monaco lo avrebbero menato
carcerato, e però lo denunziavano agli ufficiali Regii e pregavano
che ne avessero dato avviso al Vicerè. La denunzia reca la data
del 25 agosto, ed apparisce consegnata dagli Striveri, in nome
loro ed in nome anche dei socii, agli Auditori Annibale David e
Vincenzo De Lega: la copia legale che se ne ha, munita di
suggello, è firmata da Guarino Bernaudo Segretario interino della
R.a Audienza. - Evidentemente tra' congiurati si era per lo meno
destato qualche sospetto che la congiura fosse stata scoverta: con
ogni probabilità le confabulazioni tra Lauro, Biblia e lo Xarava,
non poterono rimanere tanto nascoste da non trapelarne qualche
notizia, onde que' cinque sciagurati pensarono di salvarsi con un
atto di vigliaccheria, che del resto vedremo non aver avuto tanto
valore almeno per qualche tempo, poichè giudicato tardivo ed
incompleto. Naturalmente nella denunzia si parlò in modo
principale di fra Dionisio, e il Campanella fu appena nominato pe'
suoi vaticinii: ma ciò non deve far meraviglia, poichè in essa si
palesavano i fatti avvenuti in Catanzaro, dove il solo fra
Dionisio avea trattato, né poi conveniva a' denunzianti lo
estendersi nelle particolarità, specialmente ad un periodo tanto
inoltrato, per la ragione che sarebbero incorsi nella taccia di
aver molto trattato con fra Dionisio; così il Franza certamente
nascose di essere stato a Davoli presso il Campanella e Maurizio,
col Cordova e col Rania, la qual cosa pure egli medesimo rivelò in
sèguito, come trovasi registrato negli Atti esistenti in Firenze.
E per finirla su questo incidente aggiungiamo che il Campanella,
nell'Informazione e meglio ancora nella Narrazione, scrisse che
Gio. Tommaso di Franza pagò 200 tallaroni allo Xarava in Castel
dell'Ovo perché lo mettesse nel numero de' rivelanti: ma, come si
vede, il Franza si era fatto rivelante già molto prima, e quindi
parrebbe che se pagò realmente una somma, ciò abbia dovuto
accadere piuttosto in principio, per far accettare la sua
rivelazione; a meno che non l'abbia pagata quando, nel venire alla
spedizione della causa, facendosi una cerna de' rivelanti per
prenderli in benigna considerazione, fu quella denunzia fatta
passare per buona, mentre dapprima era stata qualificata tardiva
ed incompleta. Lasciando per altro siffatte interpetrazioni,
sempre molto arrischiate, notiamo esservi anche motivo di dire,
che con ogni probabilità il Campanella non conobbe l'esistenza di
quest'altra denunzia e l'andamento vero delle prime fasi del
processo; infatti egli disse ancora che lo Xarava, nella stessa
occasione, diede egualmente cartelle, in cui erano scritte le
rivelazioni da doversi fare, a Mario Flaccavento e a Tommaso
Striveri che non erano stati esaminati in Calabria»; or bene
quest'ultima circostanza, almeno per Tommaso Striveri, sappiamo
certamente essere inesatta, risultando il contrario del pari dagli
Atti esistenti in Firenze, mentre poi e l'uno e l'altro si trovano
già rivelanti con la denunzia in quistione.
È del tutto naturale l'ammettere che la denunzia sia stata subito
inviata al Vicerè, il quale ebbe poi a comunicarla allo Spinelli:
ma essendo la cosa passata per la via dell'Audienza, il segreto fu
svelato, e il motivo della venuta dello Spinelli fu presto capito.
Ne dovè quindi trapelare qualche cosa, e parrebbe che specialmente
D. Alonso il Governatore non si fosse creduto nel dovere di
mantenere il segreto, onde poi lo Spinelli ebbe a dolersi di lui
col Vicerè. Certamente, nello stesso giorno in cui la denunzia fu
consegnata, il Vescovo di Catanzaro seppe ogni cosa; ed essendo
amico di fra Dionisio, e tenero della Religione Domenicana che
vedeva compromessa, avvertì fra Dionisio il quale trovavasi
tuttavia in Catanzaro, eccitandolo a salvarsi. Costui prese allora
nel suo convento la prima giumenta che gli capitò sotto mano e
partì. Vedremo tra poco dove egli andò, pensando a tutt'altro che
ad una fuga pura e semplice; per ora vogliamo accertare che questo
accadde appunto il giorno 25, avendo da una parte, nel processo di
eresia, una lettera del Vescovo al Visitatore in tale data, che
copertamente accenna al fatto in quistione, e d'altra parte, nel
Carteggio del Vicerè, una lagnanza dello Spinelli contro il
Vescovo, che «fece fuggire fra Dionisio due giorni prima che egli
arrivasse». E dobbiamo anche rettificare quanto ne disse nella sua
Narrazione il Campanella, che si studiò di porre le cose sotto
altra luce a questo modo: «Bibbia e Lauro consultati dallo Xarava
avvisaro al F. Dionisio che si fuggisse perché venia Spinello
contro lui; e poi il medesimo Xarava fè intendere questo al
Vescovo di Catanzaro amico di F. Dionisio che lo facesse fuggire,
perché saria stata la ruina del clero se F. Dionisio era preso; et
il Vescovo che suspicò per le discordie, scomuniche et interdetti,
che ci fosse qualche trattato, pregò F. Dionisio benchè ripugnante
che fuggisse, e Bibbia e Lauro li donaro cavalcatura e commodità,
perché con la fuga di Dionisio si donasse colore alla congiura
arrivando Spinelli, e li dissero che pur facesse fuggire il
Campanella et avvisaro a Mauritio che fuggisse». Ma invece nel
Carteggio del Vicerè troviamo che lo Spinelli si lagnò di D.
Alonso de Roxas perché avea proceduto «inconsideratamente»; e se
si volesse ritenere che lo Spinelli non sia stato bene informato,
avremmo pur sempre di certo che «la cavalcatura» non venne donata
a Fra Dionisio da' rivelanti, ma venne da lui presa nel convento;
infatti nel processo di eresia che poi si fece, tra le molte cose
affermate intorno a fra Dionisio vi fu anche quella che avea
«robbato una giumenta del convento» per fuggirsene; l'affermò fra
Giuseppe d'Amico priore del convento di Soriano, e non apparisce
alcun motivo plausibile per non prestargli fede. Circa poi
all'avere i medesimi rivelanti detto a fra Dionisio che facesse
fuggire il Campanella, e all'avere avvertito Maurizio che
fuggisse, il Campanella medesimo nella sua Dichiarazione scritta,
rilasciata allo Xarava, espose il fatto in un modo ben diverso.
Fra Dionisio, avvertito dal Vescovo, lasciò Catanzaro e si diresse
al convento di Stilo, per far sapere al Campanella che la congiura
era scoperta e che lo Spinelli veniva contro di loro; ma non gli
propose di fuggire, sibbene, come rilevasi dalla Dichiarazione del
Campanella, lo sollecitò che volesse uscire in campagna, insieme
col Petrolo, con lui e Maurizio, e gli «pose fretta e paura»; gli
disse che il non volerlo fare «sarà la ruina sua», e gli «dimandò
lettera a Claudio Crispo» verosimilmente al medesimo scopo. Il
Campanella si rifiutò all'audace progetto, divisando piuttosto
scrivere all'Auditore David in sua discolpa e presentarsi a tal
fine in Catanzaro; ma non attuò nemmeno questo suo pensiero e si
ricoverò a Stignano. Dionisio se ne partì scontento, senza dubbio
in cerca di Maurizio, che forse non trovò così presto, poichè egli
era in giro a raccogliere i fuorusciti per la prossima
insurrezione: quindi andò sino a Belforte a prendere con sè Gio.
Tommaso Caccìa, ed insieme con costui lo vedremo poi andare a
Pizzoni presso fra Gio. Battista, evidentemente per avvertirlo del
pari e concertare anche con lui ciò che rimaneva a farsi. A
Stignano il Campanella non andò già presso suo padre, ma in casa
di un D. Marco Petrolo sacerdote: se non che dovè ben presto
trovare qualche altro ricovero e nascondersi, pur sempre in
Stignano, dietro un orribile voltafaccia da parte di D. Marco e
quasi al tempo stesso da parte di altri vigliacchi già suoi amici
di Stilo. Gli avvenimenti oramai s'incalzano, s'accavallano,
s'intralciano, ed è impossibile riferirli seguitamente: diciamo
qui appena, che divulgatasi la scoperta della congiura e saputasi
la venuta dello Spinelli, D. Marco denunziò il Campanella che era
venuto ad alloggiare in casa sua, e il clerico Giulio Contestabile
non solo lo denunziò, ma procurò una Commissione a Geronimo di
Francesco suo cognato per la persecuzione e la cattura di lui e
de' complici! Tutto ciò rilevasi dagli Atti esistenti in Firenze:
ne vedremo i particolari più in là, e per ora notiamo che la
denunzia di D. Marco vi si trova riferita con la data del 28, onde
si desumerebbe che tanto l'andata di fra Dionisio a Stilo, quanto
la ritirata del Campanella a Stignano, doverono effettuarsi
appunto in tale data; ma forse D. Marco, per mostrarsi più
sollecito, la segnò con un poco di anticipazione.
Lo Spinelli giungeva in Calabria prendendo terra il 27 agosto a S.
Eufemia; quivi dovè abboccarsi con lo Xarava, e il 28 era già in
Catanzaro. Da questa città teneva continuamente corrispondenza col
Vicerè, dandogli conto di ogni sua mossa e ricevendone gli ordini;
ma la prima delle sue lettere che ci sono rimaste, trasmessa in
copia a Madrid e così trovata in Simancas, reca la data del 30. Da
essa si rileva che avea già scritte altre lettere e ricevutane una
da Napoli del 24, e può desumersi che avea dovuto giungere in
Calabria il 27. Comincia egli per dolersi sempre più di D. Alonso
il Governatore, il quale «non contento di aver posto mano a
procedere in quel negozio tanto inconsideratamente» avea commessa
un'altra sbadataggine ancora più grossa. Nel mattino del 29 lo
Spinelli avea fatto carcerare qual seduttore e capo-popolo Orazio
Rania (che abbiamo visto in compagnia del Franza e del Cordova al
convegno di Davoli), e non essendogli sembrato opportuno il
prenderlo in poter suo, per dissimulare quanto poteva l'esser
venuto per la faccenda della congiura sino a che gli fosse
riuscito di assicurarsi di altri individui d'importanza, avvertì
ed ordinò a D. Alonso, presente l'Avvocato fiscale, che tenesse il
Rania con cautela; ed invece egli (che non dovè capire il motivo
gravissimo dell'arresto) non gli pose guardie, e lo lasciò
scappare tostochè lo Spinelli e il Fiscale si allontanarono; né si
curò di riferire questa faccenda della fuga sino a poco prima di
sera, mentre egli era fuggito sulle quattordici ore, e lo Spinelli
si affrettò a darne conto al Vicerè. Ma subito, tra due ore, gli
vennero a dire di aver trovato Orazio morto in una vigna, ed
avendolo portato entro la città, si vide che era stato soffocato,
non presentando alcuna ferita. S'iniziò allora un'informazione, e
con questa occasione di ricercare chi avesse ucciso il Rania, si
pose mano a prendere e carcerare i nominati e sospetti nella
congiura; e di fatti se ne presero alcuni, e si scrisse e si
provvide per quelli di fuora. Il giorno 30 lo Spinelli pensò anche
assicurare da ogni sospetto che poteva tenersi i castelli di
Gerace, S.ta Severina, Squillace, Nicastro, Monteleone, Oppido e
Scilla, e provvide per alcuni di essi col mandare coloro che avea
condotti seco come persone di sua fiducia, in qualità di
sopraintendenti delle marine di detti luoghi. Si preoccupava
inoltre de' Vescovi, venendogli nominati quelli di Mileto, di
Nicastro, di Gerace, e quello di Catanzaro che avea fatto fuggire
fra Dionisio due giorni prima che egli arrivasse; ed essendogli
stato riferito che altri due frati con lettere sopra questa
faccenda erano venuti al Vescovo di Catanzaro, e presupponendo che
non avrebbero potuto fare a meno di riportar lettere, comandava
che sei uomini stessero di guardia sulla loro via per prenderli.
Infine diceva che la congiura stava molto innanzi, e il Campanella
e il Ponzio la predicavano a tutti per indubitabile e di successo
felice e molto conforme alla loro intenzione, di tal che i
congiurati aveano gli animi assai sicuri e fiduciosi. - Queste
cose lo Spinelli scriveva al Vicerè. Con ogni probabilità i frati
a' quali egli alludeva erano fra Cornelio di Nizza e qualche suo
compagno di viaggio, forse fra Domenico di Polistina strettamente
collegatosi a lui da qualche tempo: infatti il processo istituito
poi dal Visitatore ci mostra che, giuntagli il 28 agosto la
lettera del Vescovo della quale più sopra si è parlato, egli mandò
il 29 fra Cornelio in Catanzaro presso il Vescovo; così lo
Spinelli, invece di frati complici della congiura, ebbe a trovare
frati che erano già pronti a secondarlo, e che sappiamo di sicuro
essersi recati spontaneamente presso di lui, dopo di aver veduto
il Vescovo, per concertarsi sul miglior modo di perseguitare i
congiurati. Quanto alla condotta di D. Alonso de Roxas, è
possibile che lo Xarava, il quale anche teneva corrispondenza
assidua col Vicerè, mosso dagli abituali rancori lo avesse
tacciato di connivenza; ma lo Spinelli non giunse a tanto, e solo
può dirsi che, o per naturale benignità, o piuttosto per ispirito
di contradizione allo Xarava, D. Alonso non avesse preso le cose
sul serio, e si fosse mostrato negligente. né risulta che il
Vicerè se ne fosse risentito: vedremo tra poco che solamente gli
ordinò di allontanarsi da Catanzaro, e di venirsene a Napoli
subito, mentre per verità non poteva che essere d'inciampo. Il
Campanella affermò di poi in più circostanze, che Spinelli e
Xarava avessero processato anche lui, e nella Narrazione disse,
che non lo carcerarono «perché era andato con una compagnia di
soldati al rumor di clerici di Seminara, che ruppero li carceri
gridando viva il Papa, et intendendo che volea Spinello con Xarava
carcerarlo, fuggìo di là in Napoli». Sappiamo pertanto con
certezza che l'affare di Seminara era accaduto verso la metà di
luglio, e quindi tutt'al più D. Alonso poteva essersi là recato
per prendere i colpevoli, come ne fu poi dato incarico più tardi
allo Spinelli: ma non risulta vero che gli si fosse fatto un
processo, e tanto meno che si fosse voluto carcerarlo, la qual
cosa già non sarebbe venuto in mente ad alcuno, essendo D. Alonso
parente della Viceregina (D.a Caterina de Roxas de Sandoval) come
trovasi notato dal Residente di Venezia. Vedremo anzi che fra
Cornelio si rivolse a lui per informarlo di quanto accadeva, e fu
da lui sollecitato perché carcerasse almeno il Pizzoni e il
Lauriana. Inoltre aggiungiamo che non cessò veramente dall'ufficio
di Governatore di Calabria ultra, e documenti rinvenuti negli
Archivii di Napoli e di Venezia ci mostrano che dopo la scoperta
della congiura fece atto di autorità verso il Segretario
dell'Audienza Guarino de Bernaudo o Bernardo, intimandogli di
lasciare il posto a Camillo Passalacqua, da cui con regolare
contratto, a que' tempi ammesso, il Bernaudo teneva il posto qual
sostituto; che nell'aprile 1600 ebbe a trattare un negozio
relativo alla nave veneta Lione e Ponte naufragata in Calabria,
che lasciò l'ufficio appunto verso questo tempo, essendo stata
data solamente in maggio 1600 la commissione di sindacato del suo
governo giusta le prescrizioni delle Prammatiche, ed essendo stato
nominato dopo il detto tempo qual suo successore un altro parente
della Viceregina, D. Pietro de Borgia, che avea tenuto lo stesso
ufficio nelle provincie riunite di Capitanata e Molise. Non
vogliamo poi lasciare la narrazione degli avvenimenti che si
verificarono al primo arrivo dello Spinelli in Calabria, senza
notare essersi malamente affermato dal Parrino e dal Giannone che
si trovò il cadavere di uno de' rei, fuggitivo dalle carceri,
affogato nel mare, e che tale circostanza rese pubblico il fatto,
onde i congiurati pensarono a salvarsi. Non vi fu affogamento nel
mare ma qualche cosa di peggio, e quanto all'avere i congiurati
pensato a salvarsi in sèguito di tale fatto, per verità anche lo
Spinelli scrisse al Vicerè che molti individui sospetti si erano
posti in sicuro dietro la fuga del Rania; ma evidentemente egli lo
fece per aggravare la mano su D. Alonso e sbrigarsi di lui, mentre
la sola carcerazione bastava a dar l'avviso, non potendo essa
tenersi celata davvero in una piccola città. D'altronde si vide
poi che la fuga medesima del Rania, e secondo gravi indizii anche
la sua morte, fu opera di congiurati, e quindi si hanno anche
troppe ragioni per ritenere che essi avevano molto prima pensato
a' casi loro, ma pure non tanto efficacemente da non lasciarsi
cogliere con bastante facilità.
Così non appena passato da S. Eufemia a Catanzaro, secondo la
commissione avuta, Carlo Spinelli cominciava a carcerare
gl'incolpati, ed insieme con lo Xarava e col Mastrodatti (poichè
non occorreva altro per costituire il tribunale) metteva mano a
fabbricare il processo, come allora si diceva. Di questo processo
i lettori potranno formarsi un'idea col dare uno sguardo allo
schema che ne abbiamo compilato, desumendone le notizie dalla
indicazione de' folii, notata ne' brani che se ne citano negli
Atti giudiziarii esistenti in Firenze. La sua intestazione fu,
«Contra fratrem Thomam Campanellam, fratrem Dionisium Pontium et
alios inquisitos de crimine tentatae rebellionis», poichè così
trovasi notata dal Mastrodatti, che estrasse la copia di una
deposizione in esso contenuta e la trasmise a' Giudici
dell'eresia. La data poi, in cui cominciò, parrebbe essere stata
quella del 31 agosto, poichè il Giannone, il quale ebbe
sott'occhio una copia del processo, ci lasciò scritto che le
deposizioni di Lauro e Biblia, le prime fra tutte, furono raccolte
a quella data: solamente si può notare che, all'opposto di quanto
egli affermò, le carcerazioni precederono l'audizione di Lauro e
Biblia, essendo cominciate il giorno 29 e continuate attivamente
il 30, colta l'occasione dell'assassinio del Rania. Con ogni
probabilità apriva il processo la Commissione Vicereale data allo
Spinelli, con la costituzione del tribunale, e la denunzia scritta
di Lauro e Biblia; poi cominciavano le deposizioni con quelle
fatte da costoro medesimi, e proseguivano con quelle di Francesco
Striveri, Tommaso Striveri e Gio. Tommaso di Franza, tre
soscrittori della 2.a denunzia, i quali, secondochè si rileva da
una lettera posteriore dello Spinelli, furono dapprima uditi «non
come principali né come testimoni», e più tardi, dietro ordine del
Vicerè, imprigionati come complici insieme con gli altri loro
compagni.
Il Vicerè dovè presto persuadersi che la congiura non era affatto
una cosa senza fondamento, e si diè con tutta fretta a prendere
misure di precauzione in Napoli, e a trasmettere ordini di rigore
in Calabria, rimanendosi tuttavia nell'amena costa di Posilipo, a
godervi insieme con la Viceregina i conviti e banchetti che i
Nobili offrivano loro successivamente in quelle ville, ed
affettando una calma che facea contrasto co' suoi provvedimenti.
In Napoli, da principio egli avea mostrato di preoccuparsi
soltanto delle prossime imprese de' turchi nel Regno, ed essendo
venute notizie che i turchi volessero depredare Lanciano negli
Abruzzi, ovvero Salerno più dappresso a Napoli, ad occasione delle
Fiere che vi si dovevano tenere nel settembre, si diè moto in
questo senso chiedendone l'avviso del Consiglio Collaterale; di
poi, essendosi in Consiglio espresso l'avviso che tali notizie non
potessero esser vere, mostrò di preoccuparsi di certe altre
notizie di peste già venute dall'Adriatico, e facendo una
singolare confusione, artificiosamente senza dubbio, tra la città
di Fiume in Dalmazia e una terra denominata Fiume nella Marca
d'Ancona (terra che non esisteva), contemplando anzi propriamente
la borgata di Fiumicino, esistente sulla spiaggia Romana dal lato
del Tirreno, diede in quest'altro senso ordini che fecero
maravigliare la città, e che erano evidentemente diretti a
tutelare il Regno da una mossa qualunque per parte di Roma, sia
dalla via della Campania, sia dalla via degli Abruzzi, circostanza
degna di essere rilevata. Emanò un Bando, che colpiva di pena di
morte non solo chi desse pratica a' legni di quella provenienza,
ma ancora accogliesse le persone che venendo da quelle parti
cercassero di entrare nel Regno (28 agosto); mandò Commissarii a'
passi di Sangermano, di Fondi, di Tagliacozzo; sospese le Fiere di
Lanciano, di Salerno e di Nocera; propose perfino di sospendere
anche il procaccio di Roma e di nominare gentiluomini quali
deputati e custodi delle porte di Napoli! Ma poco dopo, convintosi
che non avrebbe tardato a divulgarsi lo stato vero delle cose,
rassicuratosi pel buono andamento della repressione, penetratosi
pure delle difficoltà che sarebbero sorte con Roma in un momento
in cui dovea rinnovarsi l'investitura del Regno, revocò il Bando
(6 7bre), e così pure ogni altro ordine fin allora dato per la
peste dello Stato Ecclesiastico. In Calabria poi spedì
immediatamente ordine di far giustizia con celerità e severità su
quelli che si erano avuti e si avrebbero nelle mani; e i documenti
ci mostrano pure che intervenne con uno zelo assiduo ed abbastanza
spinto ne' singoli casi, di tal che non sarebbe esatto
l'attribuire soltanto allo Xarava e allo Spinelli le crudeltà
commesse. Non appena gli capitò la 2.a denunzia de' cinque
Catanzaresi, la ritenne poco seria ed ordinò che i denunzianti
fossero imprigionati, ciò che lo Spinelli e lo Xarava non aveano
ancora fatto. Inoltre, richiamando in Napoli D. Alonso de Roxas (4
7bre) «perché Carlo Spinelli potesse far meglio e più liberamente
quello di cui era stato incaricato», ordinò allo Spinelli che se i
Vescovi fossero colpevoli e cercassero di fuggire, li detenesse
col dovuto rispetto ed avvertisse lui per la posta; egli ne
avrebbe dato conto al Papa, potendogli già allora dire che
mettevano in ballo lui e il Card.l S. Giorgio, e riteneva per
certo che S. S.tà o gli rimetterebbe i Vescovi (altra piccola
vanteria), o darebbe loro un gastigo esemplare trovandosi
colpevoli. Avea del resto ordinato allo Spinelli di raccogliere
tutto ciò che si deponeva contro i Nobili, i Vescovi ed il Papa,
ma di notarlo a parte, senza inserirlo nel processo. Questo ci
sembra copertamente accennato in una lettera dello Spinelli, il
quale rammenta e ripete al Vicerè l'ordine avuto in cifra, e
naturalmente a noi è riuscito impossibile interpetrarlo: ma se ne
ha pure indizio in altre lettere, dove riferendosi qualche cosa
concernente un Nobile od un Vescovo, come vedremo in sèguito, si
avverte di «non averlo posto in iscritto»; e così risulterebbe
verificato ciò che il Campanella affermò nella sua Narrazione,
parlando del processo che lo Xarava «fece segretamente contra
Prelati e Baroni, et amici del Campanella e nemici suoi» etc.
Lo Spinelli dal canto suo, assistito dallo Xarava, non avea molto
bisogno di questi eccitamenti. Già fin da quando si trovò morto il
Rania, egli vide che «restava con ciò confermata la macchina di
questo trattato»; ma glie la confermavano sempre più le nuove
rivelazioni che giorno per giorno si avevano a voce ed anche in
iscritto, onde non solo si rassodava l'esistenza della congiura,
ma anche si scopriva una cosa fin allora ignorata dal Governo,
l'esistenza dell'eresia. Certamente dell'eresia gli cominciò a
parlare fra Cornelio, poichè si trovano ripetute dallo Spinelli al
Vicerè le parole stesse che vedremo da fra Cornelio scritte a
Roma, avere cioè il Campanella diffuso eresie in Stilo, suoi
casali e luoghi convicini; ma quasi al tempo medesimo ne ebbe
notizia anche da altre vie. Cade qui opportunamente il parlare
delle denunzie che da Stignano e da Stilo gli giunsero appunto in
questi giorni. La corsa di fra Dionisio a Stilo, la quasi fuga del
Campanella a Stignano, lo sbarco dello Spinelli in Calabria,
doverono svelare lo stato delle cose anche in que' paesi, ed ecco,
dopo le scellerate defezioni di Catanzaro, quelle ancora più
scellerate di Stilo e suoi casali. Il Campanella avea potuto
rimanere tutt'al più un sol giorno in casa di D. Marco Petrolo a
Stignano, quando costui si spinse a scrivere al Vescovo di
Squillace una lettera con la quale lo denunziava, perché gli avea
detto «che era per predicare et promulgare nova legge in tutti
questi populi, et esso l'avisa acciò siano castigati li tristi et
scelerati Heresiarci et malfattori»; con queste parole ne fece un
sunto il Mastrodatti. Ma non contento di ciò, da prete d'ingegno
sottile, scritta la lettera in presenza di un Tiberio di Lamberti
e consegnatala a costui perché la recasse al suo destino, D. Marco
lo mandò prima a parlare con Carlo Spinelli; certamente egli dovè
pensare che in tal modo, conservando interi i dritti dell'altare,
si sarebbe mostrato tenerissimo anche de' diritti del trono, e
difatti presso lo Spinelli trovavasi lo Xarava, e la lettera non
giunse al Vescovo, sibbene fu ricevuta dallo Xarava ed inserta nel
processo. Di poi il medesimo Lamberti, che dalle scritture del
Grande Archivio sappiamo essere stato un avvocato di Stignano, fu
più tardi chiamato a dar conto della cosa, e dovè palesare che il
Campanella era stato in alloggio a Stignano presso D. Marco, e D.
Marco fu tratto in prigione egualmente. Ma in Stilo si fece anche
peggio. Il clerico Giulio Contestabile, non appena ebbe visto che
il Campanella si era «assentato» a Stignano, diede in iscritto
capi di accusa contro di lui, denunziando le sue prediche contro
la fede e il Re, e parecchie persone che gli aveano dato ricetto,
ed oltre tutto questo procurò dal Barone di Bagnara D. Carlo
Ruffo, che avea ricevuto Commissione dallo Spinelli contro
gl'incolpati, una Commissione di seconda mano per Geronimo di
Francesco suo cognato a fine di perseguitare il Campanella e
complici. E la Commissione fu subito accordata, ma il Campanella
era stato preso quando essa giunse, onde il Di Francesco dovè
limitarsi a carcerarne i parenti; e vedremo che il Campanella ne
ebbe l'animo esulcerato, ne mosse vive lagnanze e diè sfogo al suo
risentimento in tutti i modi, non esclusi i modi censurabili. Lo
Spinelli, avuta la denunzia e saputo che il Campanella stava in
que' luoghi, mandò subito l'Auditore Di Lega per prenderlo,
siccome persona di maggior confidenza e che poteva farlo con
minore scandalo, colorando la sua gita colà con un'altra causa; ma
l'Auditore se ne tornò, non avendo potuto conchiuder nulla, perché
il Campanella si era allontanato e nascosto. Allora, tanto per
guardare que' luoghi, ne' quali potea scendere il Cicala e fare
gran danno pe' molti congiurati che doveano trovarvisi, quanto per
avere nelle mani il Campanella ed anche Maurizio, «venendogli
affermato che non erano ancora partiti di là e stavano nascosti»,
lo Spinelli mandò ordine al capitano D. Antonio Manrrique, che con
la sua compagnia andasse di guarnigione a Stilo e a Guardavalle
patria di Maurizio; e fece partire un'altra compagnia del
Battaglione per Stignano che credea patria del Campanella,
provvedendo anche per altri luoghi dove si sospettava che quelli
potessero tener pratiche ed occupando ogni passo per farli
prendere tutti ad un tempo. Il 5 settembre l'Auditore Di Lega era
già tornato e i detti provvedimenti erano stati già presi; di tal
che la data della denunzia del Contestabile deve riportarsi agli
ultimi giorni di agosto od a' primi di settembre, e nel detto
tempo que' posti per lo meno si andavano guarnendo di milizie, ed
ogni via di scampo si andava chiudendo pe' miseri perseguitati.
Intanto il numero de' carcerati cresceva, e poichè non c'era luogo
in Catanzaro ove tenerli, non stimando conveniente tenerli nelle
carceri ordinarie sibbene in luoghi segreti e separati gli uni
dagli altri, lo Spinelli si determinò di stabilirsi nel castello
di Squillace. Il 5 settembre vi si era già stabilito, e di là ne
diede notizia al Vicerè, riferendogli la maggior parte delle cose
dette sopra; così, all'infuori di pochi atti iniziali compiti in
Catanzaro, il processo si svolse veramente nel castello di
Squillace e molto più tardi in Gerace, col corredo di que'
terribili tormenti, che per lungo tempo si ricordarono in quelle
desolate provincie. Gli ordini del Vicerè aveano dovuto essere
così insistenti, che già lo Spinelli, appena cinque o sei giorni
dopo l'istituzione del processo sentiva il bisogno di giustificare
che i carcerati «non erano stati tormentati fino allora, per
essersi atteso ed attendersi alla cattura di quanti si sapevano
dalle rivelazioni de' denunzianti, perché col tardare si correva
pericolo di non averli più nelle mani». Nel medesimo castello di
Squillace egli fece trarre in arresto Geronimo del Tufo che là
risedeva ed era stato nominato da' rivelanti, a' quali, secondo le
notizie avute, fra Dionisio avea detto che era de' congiurati ed
avea promesso di consegnare il castello, oltre all'essersi
prodotti pure altri indizii di avere intimamente comunicato e
trattato con Maurizio, trovandosi anche stretto parente del
Vescovo di Mileto. Era stato pure preso con gli altri il Barone di
Cropani per aver detto certe parole sospette (non sappiamo quali),
avendo trattato e confabulato con fra Dionisio; il quale avea
fatto sapere che portava al detto Barone una lettera di un capo
principale de' congiurati, e colui che ciò deponeva l'avea veduta.
Gli altri carcerati di basso grado erano piccoli borghesi di
Catanzaro, per quanto si può desumere da' primi scritti in una
nota che lo Spinelli trasmise più tardi, vale a dire un
Pietrantonio di Bergamo, un Nardo Rampano, uno Scipione Nania, un
Nardo Curcio, un Marcello Salerno etc.; ma si stimava soltanto
degna di annunzio la recentissima cattura di due frati (quella del
Pizzoni e del Lauriana, che tra non guari vedremo dove e come e da
chi eseguita), e la fuga del Maestro Giurato di Cropani, che per
alcune sue parole era stato già carcerato in Cropani dallo Xarava,
ed anche prima dell'arrivo dello Spinelli era riuscito ad evadere.
Nel riferire al Vicerè tutte queste cose, come anche l'andata e il
ritorno dell'Auditore Di Lega a Stilo, e l'invio del Capitano
Manrrique e della compagnia del Battaglione a que' luoghi, lo
Spinelli continuava sempre a partecipare i risultamenti delle
investigazioni. E scriveva essersi trovato che il Campanella e fra
Dionisio con altri frati andavano seducendo i popoli, «dicendo che
tenevano ordine da chi potea mandarli per questo» e ciò non senza
frutto, poichè già aveano molti seguaci, come di ogni cosa si
andava prendendo informazione, «coll'avvertenza di registrare a
parte ciò che S. E. aveva ordinato»; inoltre che que' due
predicavano pubblicamente, in riunioni e conversazioni, alcune
cose contro la fede, seminando e persuadendo eresie «in Stilo,
suoi casali e luoghi convicini». Ma si fermava ancora sulle
notizie concernenti i Nobili ed i Vescovi, e faceva sapere essersi
deposto che il Vescovo di Nicastro e il Principe di Bisignano
doveano venire incogniti in quelle parti, e notava che quel
Vescovo teneva in Calabria tutta la sua casa e i suoi domestici,
avendoli da un pezzo inviati da Roma ed essendo rimasto con un
solo domestico; poteva quindi esser vero ciò che deponevasi, che
avesse a venire di nascosto secondo il convenuto, onde sembravagli
doverne avvertire S. E. perché potesse comandare di far diligenza
in Roma e sapere se si trovasse là, giacchè, non essendovi,
riuscirebbe accertata la deposizione. Aggiungeva di avere ordinato
nelle marine che si tenesse molta oculatezza ne' luoghi d'imbarco,
che nessuno potesse partire e imbarcarsi fuorchè ne' luoghi a ciò
destinati, che si riconoscessero dagli ufficiali coloro i quali
partivano; inoltre di aver posto in mare una feluca con persona di
fiducia ed esperienza, perché non potesse passare barca senza
essere visitata né salvarsi alcuno de' colpevoli, mentre poi si
disponeva ad emanare contro gli assenti le provvidenze necessarie,
e a far pronta e severa giustizia contro i colpevoli, come S. E.
ordinava e un così grave delitto richiedeva, «essendo tanti coloro
che se n'erano macchiati». - In tutto ciò è notevole specialmente
la prevenzione dello Spinelli contro i Nobili ed i Vescovi; eppure
contro i Nobili, od almeno contro i Nobili di ordine più elevato,
non si avevano che dicerie vaghe anche troppo, e solamente contro
i Vescovi poteva invocarsi il loro contegno sufficientemente
ostile, ma tuttavia di una data non fresca ed anteriore di molto
alla venuta del Campanella in Calabria. Gli faceva molta
impressione il contegno del Vescovo di Catanzaro che avea
consigliato fra Dionisio a fuggire, comunque potesse pensarsi che
l'avesse fatto per riguardo alla condizione ecclesiastica di lui;
così pure il contegno del Vescovo di Mileto che si era permesso di
dire alcune parole rimasteci ignote, ma probabilmente allusive a
soddisfazione pe' non lievi imbarazzi in cui il Governo si
trovava, e certamente era questo il meno che dovesse aspettarsi da
lui tanto uggioso verso il potere civile; infine anche il contegno
del Vescovo di Nicastro, che si teneva tuttora lontano dalla sua
residenza, dopo di avervi già da un pezzo mandati i suoi
familiari, quasi fosse consapevole di prossimi tumulti. E il
Vicerè finiva per accogliere del pari molto facilmente le
prevenzioni contro i Vescovi, e prendeva le sue misure, oltre al
suggerire lui medesimo misure di rigore contro gl'incolpati
assenti.
Anche prima di avere maggiori indizii contro i Vescovi, l'8
settembre il Vicerè scriveva al suo Agente in Roma D. Alonso
Manrrique, che trattava gli affari del Regno stando a lato
dell'Ambasciatore, perché facesse sapere al Papa che il
Campanella, fra Dionisio e fra Pietro Ponzio (questo povero fra
Pietro era stato nominato da' primi rivelanti e continuava ad
essere nominato senza la menoma colpa), si occupavano di far
sollevare la Calabria facendo intendere al popolo «che tenevano
ordine da chi potea mandarli per questo», come lo Spinelli aveva
scritto; che alle persone di maggior levatura dicevano partecipare
alla congiura alcuni Signori principali del Regno, ed aversi il
favore di S. S.tà offerto per mezzo dell'Ill.mo Card.l S. Giorgio,
ed incorniciando pure questa menzogna dicevano essere tra'
congiurati il Papa, il Turco, il Card.l S. Giorgio, ed il Papa
averli subito ad aiutare ed altre mille stravaganze; che inoltre i
frati andavano seminando alcune eresie nelle conversazioni e
sermoni che facevano, e che alcuni Vescovi, secondo le
dichiarazioni prese, risultavano colpevoli, e se la colpa fosse
tale da obbligare a metterli in prigione, lo si farebbe col
rispetto dovuto, dandone subito conto a S. S.tà etc. Non sappiamo
precisamente qual viso la Curia Pontificia avesse fatto ad una
simile comunicazione, ma probabilmente prese tempo a deliberare,
confidando che le dicerie si sarebbero poi trovate false. Intanto
il Vicerè si preoccupava del non essere stati catturati i tre
frati e Maurizio de Rinaldis, ed inviava ordine allo Spinelli che
facesse Bando, col quale a chi consegnasse Maurizio vivo si
darebbe il perdono per lui e per un altro purchè non fosse uno de'
tre frati, e a chi lo consegnasse morto si darebbe indulto per la
sola persona sua; ed egualmente si darebbe indulto a chiunque
consegnasse fra Tommaso Campanella, fra Pietro Ponzio e fra
Dionisio di Nicastro; egli riteneva questo un buon mezzo per
prenderli, «segun la poca amistad que se guardan acà en general
unos à otros» (osservazione che oggi ancora e sempre
dovrebb'essere profondamente meditata da ogni napoletano). Inoltre
preveniva tutta la costa, da Napoli alla Calabria, trasmettendo i
connotati de' frati e del gentiluomo, perché si visitassero tutte
le feluche in arrivo ne' porti; ed in Napoli teneva posta guardia
nel mare, perché non vi si passasse senza toccare la città (onde
si vede il suo pensiero, che quando i congiurati fossero riusciti
a mettersi in mare si sarebbero diretti a Roma, la quale dovea
essere per lui il centro del movimento, malgrado lo dissimulasse
con ogni cura). Queste cose egli comunicava a Madrid, significando
che quantunque tale congiura presentasse tanto poco fondamento,
«era stata misericordia di Dio l'averla scoverta a tempo ed averla
potuto prevenire, siccome lo avea fatto». Vedremo che mentre i
suoi ordini così efficaci giungevano in Calabria, il Campanella
era stato già preso, e quanto a Maurizio, lo Spinelli, mostrandosi
poco propenso ad indultar complici, dopo di aver preparati molti
mezzi e molti concerti, finiva per emanare un Bando assai più
terribile.
E qui, prima d'inoltrarci nel racconto di queste catture, importa
conoscere chi si prestò a dar la caccia agl'incolpati, e chi venne
in aiuto del Governo nella feroce repressione della congiura non
che nella difesa delle coste dal Turco. Solevasi allora «dare una
Commissione» ad individui, che per guadagno si prestavano ovvero
anche spontaneamente si offrivano a perseguitare i ricercati dalla
giustizia, munendoli di lettere patenti, con licenza di scorrere
la campagna a capo di una comitiva armata e con ordine a tutti di
favorirne le mosse: erano questi i così detti «Commissionati» o
«Commissarii di campagna», i quali talvolta, abusando della loro
autorità, finivano per essere ricercati dalla giustizia essi
medesimi. Solevasi inoltre adoperare i fuorusciti, che assumevano
gli stessi incarichi e si dicevano «Guidati», venendo muniti di un
guidatico o salvacondotto, dietro una promessa ed ordinariamente
dietro una convenzione scritta od «albarano», in cui era ben
determinato il servizio che doveano prestare, per poi ottenere
l'indulto o assoluzione dei loro delitti. Nella repressione della
congiura vi furono gli uni e gli altri. De' Guidati conosciamo
appena qualcuno, come Giulio Soldaniero unitamente con Valerio
Bruno, de' quali avremo a parlare lungamente in sèguito; ma
l'Audienza ne trovò parecchi dopo il ritorno dello Spinelli dalla
Calabria, fra gli altri un Carlo Logoteta, come a suo tempo
vedremo. De' Commissionati conosciamo più d'uno e d'ogni risma,
da' semplici così detti gentiluomini, quali un Gio. Battista
Carlino e uno Scipione Silvestro, fino a' Nobili più o meno
distinti, quali un Gio. Geronimo Morano fratello del Barone di
Gagliato, ed anche D. Carlo Ruffo Barone di Bagnara, che era
parente dello Spinelli ed ebbe poi per questi suoi servigi il
titolo di Duca, divenendo il capo-stipite de' Duchi di Bagnara;
quest'ultimo facevasi chiamare piuttosto «locotenente di Carlo
Spinelli», ma siffatta parola più pomposa non esprimeva altro che
una commissione avuta, e in qualche documento egli è detto né più
né meno che «Commissionato». Vi furono d'altra parte diversi
Nobili già titolati e di prim'ordine, che si distinsero
specialmente per l'operosità spiegata contro l'attesa incursione
dell'armata turca, e taluno di loro anche contro le persone de'
fuggitivi, come il Principe della Roccella, il Principe di Scilla,
il Principe di Scalèa, che erano pure tutti parenti dello
Spinelli. Non sarà inutile qualche cenno intorno a costoro. - Il
Principe di Scalèa era Francesco Spinelli, nipote di Carlo che
avea sposato D.a Maria Spinelli, figliuolo di Gio. Battista e di
Caterina Pignatelli. Capitano di una compagnia di gente d'arme,
che trovavasi di guarnigione appunto in Calabria, era perciò
stipendiato dalla R.a Corte come allora si diceva: lo vedremo
assistere di persona nelle mosse che si fecero lungo la costa a
fronte dell'armata turca, con cavalli e fanti dello Stato suo,
oltre quelli della sua compagnia, avendo del resto sempre agito in
tal modo, al pari di tutti gli altri Nobili che possedevano Stati
in quelle provincie, tanto che si conosce averne poi miseramente
incontrata la morte nell'anno successivo. Il Principe di Scilla
(spagnolescamente Sciglio) era Vincenzo Ruffo, parente di Carlo
Spinelli poichè figlio di Marcello e Giovanna Benavides de
Alarcon, il quale Marcello era secondogenito di Paolo Ruffo 6.°
Conte di Sinopoli e Caterina Spinelli figlia di Carlo 1.° Conte di
Seminara: egli era divenuto Principe nel 1591, sposando la sua
cugina Maria Ruffo Contessa di Nicotera e Principessa di Scilla,
figlia di Fabrizio, che fu il 1.° Principe di Scilla. Abbiamo già
avuta occasione di dire che in questo momento trovavasi
scomunicato dal Vescovo di Mileto: egli teneva sempre 600 de' suoi
vassalli pronti ad opporsi al Turco ove il bisogno lo richiedesse;
vedremo che naturalmente in questa occasione non mancò di
presentarsi con la maggiore premura e n'ebbe i più caldi elogi. -
Il Principe della Roccella era Fabrizio Carafa, nipote di Carlo
Spinelli, perché figlio di Girolamo Marchese di Castelvetere e di
Livia Spinelli: s'intitolava 4.° Conte della Grotteria, 3.°
Marchese di Castelvetere e 1.° Principe della Roccella, avendo
avuto quest'ultimo titolo nel 1594, nel quale anno co' suoi
vassalli si difese strenuamente contro il Cicala nel forte di
Castelvetere. Questa volta il suo zelo non si spiegò contro il
Turco, ma contro il Campanella, verso il quale avea pure già
mostrato benevolenza, ammirandone qualche lavoro e fra gli altri
la tragedia intitolata Maria Regina di Scozia: vedremo infatti,
che accompagnò veramente lo Spinelli nelle mosse contro il Turco
ma senza gente armata, e si distinse invece promovendo la cattura
del Campanella, denunziando i rapporti di lui col Pisano e poi
venendosene a Napoli con lo Spinelli, su quelle medesime galere
che portavano il filosofo e tutti gli altri imputati in catene.
L'Aldimari, che scrisse non meno di tre volumi in folio sulla
famiglia Carafa, ce ne diè l'effigie, che lo rivela gaudente ed
utilitario, e ci lasciò scritto come fosse tutto occupato
nell'ingrandimento della sua casa; difatti la pose di poi in
isfoggio e splendore anche in Napoli, dove fabbricò quel palazzo
che tuttora si vede nella strada Trinità maggiore allora detta
strada di Nido, sulle antiche case di D. Andrea Matteo d'Acquaviva
Principe di Caserta, ed in sèguito il figliuolo Carlo, Vescovo di
Aversa e Nunzio in Germania, vi fabbricò pure il palazzo tanto
celebrato sulla riva del mare. - Veniamo al Barone di Bagnara D.
Carlo Ruffo, figlio di Jacovo e di D.a Ippolita Spinelli, della
linea di Esaù e Nicola Antonio Ruffo, successo a suo padre fin dal
3 marzo 1582. Era anch'egli parente di Carlo Spinelli per via
della madre; apparteneva ad una famiglia di nobiltà notevole, ma
non godeva una posizione finanziaria molto brillante. Teneva
l'ufficio di Vice-Duca nello Stato del Duca di Monteleone Ettore
Pignatelli, e si faceva raccomandare dalla Corte di Roma per mezzo
del Nunzio, come era frequente e tristo vezzo di quella Corte,
perché il Vicerè gli favorisse qualche impiego; d'altra parte il
Vicerè ebbe una volta ad ordinare un'Informazione contro di lui
specialmente per contrabbandi ed anche per aggravii e delitti;
questo ci risulta da documenti che abbiamo rinvenuti nel Carteggio
del Nunzio e nell'Archivio di Stato. Naturalmente non mancò di
cogliere l'occasione che gli si offriva, per inaugurare il sistema
d'ingrandirsi sulle sciagure del proprio paese; e vedremo che
Carlo Spinelli cercò di favorirlo per ogni verso, anche con la
menzogna, ed egli segnatamente verso i frati si mostrò un aguzzino
de' più petulanti. - Ci rimane a dire di Gio. Geronimo Morano, che
già abbiamo avuta occasione di nominare a proposito delle fazioni
di Catanzaro. Era costui di nobile famiglia residente in Catanzaro
ma proveniente da Stilo, donde emigrò il suo avo dello stesso nome
Gio. Geronimo, come abbiamo rilevato da ricerche fatte nel Grande
Archivio; ed appunto nel territorio di Stilo la sua famiglia
possedeva un gran feudo detto Burgli russi o Burgorusso sulla
marina tra Stilo e Guardavalle, ereditato per via di donne da
Francesca Connestavolo ossia Contestabile di Stilo, oltre la
Baronia di Gagliato già del Principe di Squillace, acquistata da
Carlo Alfonso Morano e da costui ceduta al fratello Gio. Geronimo
seniore nel 1543. Gio. Geronimo iuniore, di cui qui trattiamo, era
secondogenito di Gio. Antonio, e quindi fratello di Gio. Battista
Barone di Gagliato, il quale era morto nel 1594, lasciando una
figliuola a nome Camilla e la vedova Anna Sances nata di Loise
Sances fratello del Marchese di Grottola; né si creda questo un
vano lusso di erudizione, mentre invece il Campanella medesimo ha
rese indispensabili tali noiose ricerche, coll'aver messo innanzi,
nella sua Narrazione, la parentela del Morano co' Sances, la
figlia unica del Barone di Gagliato, il progetto di matrimonio di
essa con un figlio del Morano ed anche il desiderio di un certo
feudo, per ispiegare la persecuzione ed anzi la morte data a
Maurizio de Rinaldis. Adunque la famiglia Morano era molto ricca,
e lo stesso Gio. Geronimo trovavasi in buone condizioni, poichè
oltre la così detta vita-milizia, cioè l'assegno di secondogenito,
egli possedeva beni fideicommissati rimastigli dall'avo, ma si era
già fatto notare per una colpevole avidità in beneficio della
famiglia; se n'ha la prova in un documento rinvenuto nel Grande
Archivio, dal quale si rileva che il Vicerè si era visto
nell'obbligo di domandar conto alla R.a Audienza di Catanzaro del
prezzo esorbitante pagato per una casa del Barone di Gagliato, che
Gio. Geronimo, essendo Sindaco della città, aveva acquistato in
nome di essa per provvedere di residenza il tribunale. Conoscitore
de' luoghi e delle persone di Stilo e suoi casali, vedremo che
egli si pose a perseguitare i principali incolpati, e cavalcando
giorno e notte ebbe il tristo merito di raggiungerli con molta
soddisfazione dello Spinelli e del Vicerè.
Ma un aiuto ancor più rilevante trovò il Governo nel Visitatore
fra Marco di Marcianise e nel compagno di lui fra Cornelio di
Nizza, i quali istituirono contemporaneamente con lo Spinelli e
Xarava una gravissima Inquisizione, com'era nel loro dritto ed
anche nel loro dovere, se non che la istituirono con una
compiacenza estrema verso gli ufficiali Regii e co' più iniqui
maneggi suggeriti dagli odii frateschi, ciechi ed interessati,
segnatamente contro fra Dionisio e di rimbalzo contro il
Campanella. Abbracciando le cose di eresia ed anche le cose della
congiura, essi formarono un processo terribile, e spinsero la
compiacenza al punto da tollerarvi l'ingerenza illecita degli
ufficiali Regii e da comunicar loro ogni cosa; basta dire che
rilasciarono perfino una copia legale de' primi e più gravi atti
di un processo d'Inquisizione, i quali per tal modo giunsero al
Vicerè in Napoli, e da costui furono mandati al Re in Ispagna,
dove ancora oggi possono leggersi tra le carte conservate in
Simancas. Naturalmente riuscirono così favorite fuor di misura le
investigazioni governative, agevolate le catture de' frati
ritenuti colpevoli, ribadite le atroci accuse: laonde bene a
ragione lo Spinelli ebbe a lodarsene grandemente, per quanto ebbe
a lamentarsene il Campanella, che da questo lato può dirsi davvero
non essersi lamentato abbastanza. Difatti, scagliandosi contro fra
Cornelio, nell'Informazione egli disse che il Visitatore era
«huomo buono ma ingannato... che stava tanquam idolum et pastor»;
ma se è certo che lasciò fare anche troppo a fra Cornelio, è certo
egualmente che non perciò si astenne dalle violenze, dalle
improntitudini e dagl'inganni, servendo «per niente con zelo» come
disse il medesimo Campanella nella Narrazione, ma «non sine
scientia». - C'incombe qui il debito di parlare del processo
formato da costoro, mettendo da parte per ora quello formato dallo
Spinelli e Xarava; poichè entrambi i processi furono iniziati
appena con un giorno d'intervallo, e menati innanzi
parallelamente, ond'è che bisogna dar conto di entrambi al tempo
medesimo.
II. Nel dover parlare del processo ecclesiastico di
Calabria, conviene cominciare dagli antecedenti di esso che si
tennero segreti, per poi passare ad esporne gli Atti quali furono
distesi, commentandoli con ciò che venne a sapersene in sèguito.
Negli antecedenti, come è facile capire, figurano i due Polistina
legati a fra Cornelio, concordi nell'odio contro fra Dionisio e
gli amici suoi: de' due Polistina figura veramente molto più fra
Domenico, ma solo perché egli era il Procuratore di fra Gio.
Battista, e fra Gio. Battista, avendo avuto quel lungo processo
per l'assassinio del Provinciale P.e Pietro Ponzio, non poteva
agire che copertamente; del resto troveremo anche lui abbastanza
in mostra qualche volta. I procedimenti di costoro si rilevano non
solo da quanto dissero poi in Napoli gl'infelici carcerati
sottratti a' terrori di Calabria, ma anche da' Sommarii autentici
di tutto il processo di eresia, compilati più tardi in Roma ed
egualmente in Napoli, dove si trovano registrati i sunti delle
lettere che fin dalla metà di agosto fra Cornelio scriveva al
Generale dell'Ordine e poi al Card.l di S.ta Severina sommo
Inquisitore in Roma, come pure i sunti delle dichiarazioni da lui
fatte in sèguito al Vescovo di Termoli in Napoli, e delle
deposizioni fatte in Roma quando il S.to Officio volle
interrogarlo sul modo in cui era stato condotto il processo; ed
ecco i particolari di questo importante momento. - Ricordiamo che
fra Domenico di Polistina verso l'8 o il 9 agosto avea avuto un
incontro col Campanella in Davoli, e di là, minacciato da'
fuorusciti che si trovavano nel convento, s'era portato subito a
Soriano presso il Soldaniero, il quale, secondo lui, impietosito
per la paura a cui lo vedeva in preda, gli raccontò i maneggi di
fra Dionisio, le eresie che costui professava e la ribellione che
promoveva sotto gli auspicii del Campanella. Il Polistina si recò
allora immediatamente presso fra Cornelio, che si trovava col
Visitatore in Catanzaro, e gli raccontò ogni cosa. Senza perdita
di tempo, il 14 agosto, fra Cornelio scrisse al Generale, vale a
dire al P.e Ippolito Beccaria, di aver saputo «da un certo nobile»
le eresie del Campanella, il quale si era fatto capo de' banditi
in Stilo e diceva le cose de' Cristiani esser baie, che nel mese
allora scorso, stando in compagnia di certi banditi, aveva indotto
uno di loro a compiere un lurido fatto in dispregio dell'ostia
consacrata, che diceva poter risuscitare morti, pigliar città, far
comparire diavoli, che volea predicare nuova legge e già
distribuiva le città e le signorie a que' suoi banditi, che due
mesi prima avea mandato due di loro presso il Gran Turco per
chiedere aiuto, e che parecchi erano complici in quel trattato, in
ispecie fra Dionisio. Con altre lettere consecutive scrisse di
aver udito che il Campanella predicava la libertà mescolando le
cose della fede, e diceva che la vera fede non era stata ancora
intesa, e sarebbe stata in breve predicata da lui, che infine
tutta la città di Stilo era imbevuta de' suoi dogmi. Ma quando
alcuni mesi dopo venne in Roma interrogato su ciò che avea
scritto, confessò che fra Domenico da Polistina fu il primo a
dargli notizia delle eresie del Campanella, narrando le escursioni
fatte da quel frate a Davoli, poi a Soriano, e da ultimo a
Catanzaro «tra il 10 e il 14 agosto»; confessò inoltre che alla
data in cui scrisse la sua prima lettera, non avea veramente visto
ancora quel nobile, il quale era Giulio Soldaniero, ma era stato
assicurato da fra Domenico che di certo gli avrebbe parlato e gli
avrebbe detto maggiori cose. E nel doversi recare a Roma, parlando
in Napoli col Vescovo di Termoli, gli avea pure manifestato che il
primo a rivelargli la faccenda della ribellione era stato un
giovane a 20 anni, per nome Fabio di Lauro: onde apparisce che
egli dovè mettersi in relazione co' denunzianti della congiura,
senza dubbio per mezzo del medesimo Polistina e dietro un
colloquio con lo Xarava. Aggiungasi che scrisse pure al Card.l di
S.ta Severina diverse lettere, per una delle quali è conosciuta la
data del 2 settembre, ed in esse affermò che il Campanella
sprezzava il crocifisso ed aborriva i sacramenti, che prometteva
nuova legge e nuovo Stato, che Stilo, Stignano, Monasterace,
Pizzoni, Arena etc. etc. erano «infette delle opinioni di questo
scellerato» e che nella sua venuta a Roma egli avrebbe potuto dare
a voce altre informazioni; ma poi in Roma non seppe dir nulla
oltre ciò che il processo recava, e in somma confessò di aver
tratto i capi di accusa che servirono di base al processo da
quanto gli dissero in parte il Polistina, in parte il Soldaniero e
poi il Vescovo di Catanzaro, e perfino i rivelanti e gli ufficiali
Regii; laonde non fece rimanere soddisfatto il S.to Officio, che
anzi lo lasciò persuaso di avere affermato solo per sua
immaginazione che tanti paesi fossero infetti di eresia, come
lasciò persuasi i Giudici di Napoli di avere presupposto molte
cose per «animosità». Adunque è ufficialmente assicurato che
nell'istituire il processo campeggiò l'odio, e che le notizie de'
fatti criminosi provennero da' Polistina, dal Soldaniero, dal
Lauro, dallo Xarava, dal Vescovo di Catanzaro; massime dal
Soldaniero, che è detto «un certo nobile» rimanendone nascosta la
vera condizione.
Ma ciò non è tutto. Per istituire il processo occorreva a questi
frati almeno un rivelante, e l'unico rivelante possibile appariva
il Soldaniero, mentre il Polistina e gli altri frati della loro
fazione erano troppo notoriamente nemici di fra Dionisio, e
quindi, secondo la giurisprudenza del S.to Officio, non potevano
testificare contro di lui, o meglio, testificando, le loro
affermazioni non avrebbero avuta alcuna efficacia. Importava
dunque poter disporre del Soldaniero; ma costui, sebbene rivelante
de' frati congiurati a fra Domenico da Polistina, e poi anche a
fra Gio. Battista da Polistina come egli medesimo affermò in
sèguito, non voleva aderire a rappresentare questa parte
pubblicamente, sicchè fu necessario di obbligarvelo. Come venne
poi affermato nel processo da varii carcerati, a tempo delle loro
difese, e come ripetè pure il Campanella nella sua Narrazione, fra
Cornelio e fra Domenico da Polistina con molti soldati e birri
circondarono il convento di Soriano e posero al Soldaniero
l'alternativa, o di rivelare contro fra Dionisio e il Campanella,
o di lasciarsi consegnare alla Corte dalla quale non poteva
mancare di essere appiccato pe' suoi delitti: che anzi egli
medesimo avrebbe confidato a qualcuno tali cose per iscusarsi,
allorchè venne nelle carceri di Napoli ad istanza de' Giudici
dell'eresia, aggiungendo che fra Cornelio fu in quella manovra
assistito da Gio. Francesco Alemanno fiscale della Corte di
Monteleone con 40 persone armate (onde comincia fin d'ora ad
apparire l'azione di D. Carlo Ruffo), e i due frati da Polistina
col Priore del convento lo persuasero a farsi rivelante, e fra
Cornelio gli ottenne una promessa d'indulto da Carlo Spinelli
coll'obbligo di perseguitare e consegnare i complici; avrebbe pure
detto altre volte che l'indulto gli era costato tre mila ducati e
la perdita dell'anima, e che i suddetti frati l'avevano ridotto in
mano del diavolo. Forse egli, che veramente per quanto ne sappiamo
ci risulta assai sollecitato ma non del tutto deciso a prender
parte alla congiura, penò ben poco a resistere alle insistenze di
fra Cornelio; forse pure, deciso da Maurizio negli ultimi tempi a
partecipare alla congiura, e poi vedutala scoperta, richiese egli
medesimo l'indulto, sborsando per esso danari e più ancora
sciupandone nella persecuzione de' fuorusciti, ma non tanto quanto
esageratamente affermò, siccome suole accadere allorchè si parla
di danaro perduto; sicuramente poi egli rivelò più di quel che
sapeva e si prestò a dire tutto ciò che fra Cornelio avea raccolto
dalle tante diverse vie e perfino dagli ufficiali Regii, onde in
sèguito si mostrò di poco buona memoria su quanto avea rivelato, e
si potè realmente sentire oppresso da' rimorsi. Ma vera o finta
che sia stata quella manovra di fra Cornelio, certo è che costui
richiese ed ottenne un guidatico, che equivaleva ad una promessa
d'indulto non solo per Giulio Soldaniero ma anche pel servitore e
compagno di lui Valerio Bruno: questo si rileva dalla copia
legalizzata dell'indulto, che fu poi presentata da fra Dionisio
nelle sue difese, e che giova conoscere anche per intendere
appieno la procedura in corso relativamente agl'indulti, la qual
cosa riuscirà a chiarire qualche altro punto oscuro nel sèguito di
questa narrazione. Con una maniera di scrivere che non fa onore al
Severino Segretario di Carlo Spinelli, vi si dice: a «dì 3 de 9bre
1599 nel pizzo, per quanto li mesi passati frà cornelio del monte
secretario del padre visitatore... scrisse a noi alcune lettere
dicendone che dovessimo guidare à Giulio Soldaniero et valerio
Bruno che haverebbeno fatto alcuni servitij nella materia della
sedutione de popoli ch'haveano incominciato à fare fra Thomase
Campanella de stilo fra Dionisio ponso de necastro et mauritio de
Rinaldis de guarda valle avisandoci de più detto fra cornelio che
il detto Giulio et valerio come pratthichi del paese haveriano
fatto assai onde ngi parse guidarli per alcuni giorni nelli quali
ngi portorno carcerati... etc. et havendono continuato al servitio
non sparagnando cosa che da noi li è stata commessa, per li quali
servitii ngi habbiamo fatta provisione de indultu sincome con la
presente li induldamo et per induldati li dichiaramo et agratiamo
de tutti li lloro delitti per la potestà che tenemo..» etc..
Furono dunque costoro, per opera di fra Cornelio, dapprima guidati
e più tardi indultati da Carlo Spinelli. Fra Marco e fra Cornelio,
nella qualità d'Inquisitori non avrebbero potuto farlo: avrebbero
potuto soltanto nominare Commissionati dopo di avere richiesto ed
ottenuto l'aiuto del braccio secolare; e difatti il Visitatore ne
nominò alcuni; come un Carlo di Paola amico di Gio. Tommaso
Caccìa, e un Ottavio Gagliardo Castellano di Monteleone, che
vedremo or ora nell'esercizio del loro mestiere. Pertanto, non
appena ingaggiato un testimone opportuno, fra Cornelio pose
rapidamente mano al processo, e di questo andiamo oramai a dar
conto, esponendone gli atti così come furono compilati, ma
accompagnandoli co' debiti commenti.
Il processo che diremo ecclesiastico, perché fatto da
ecclesiastici, e concernente non la sola eresia ma anche la
congiura, cominciò con la data del 1.° settembre 1599. Gli si
diede il titolo «Inquisitionis acta contra Patres Fratres Thomam
Campanellam, Dionisium de Neocastro, Jo. Baptistam de Pizzone et
alios Inquisitos, Squillacensis» (intend. Squillacensis
dioecesis), con la sottoscrizione «Marcianese Visitatore, Nizza».
Percorrendo questo processo, il Visitatore fra Marco di Marcianise
vi si trova sempre come protagonista, ma si rileva dalle prime
carte fino alle ultime, ed anche da ciò che seguì, ogni cosa
essere stata manipolata da fra Cornelio di Nizza, nella qualità
espressa in più modi, di Socio della Visita, Segretario, Scriba e
cancellario, Notario, talvolta anche coll'aureola di «dottore
dell'una e dell'altra legge». Nell'esordio, in nome di Dio e della
Beata Vergine, il Visitatore dice che per voce pubblica, non di
malevoli ma d'individui degni di fede più illustri e religiosi, i
suddetti frati hanno macchinato contro la Maestà Divina ed umana;
enumera 36 capi di eresia e di ribellione che, il Campanella come
settario, e gli altri come capi principali, fautori e complici,
affermavano, comunicavano tra loro ed erano anche preparati a far
credere agli altri; enuncia la deliberazione di procedere tanto
per proprio ufficio, quanto per richiesta di D. Alonso il
Governatore, di Carlo Spinelli Cavaliere e Consigliere di Stato,
di tutti gli Ufficiali del Re e del molto Illustre e Rev.do
Vescovo di Catanzaro. Come si vede, fu adottata la maniera di
procedere per pubblica voce e fama, mentre c'era un accusatore (il
Polistina) o almeno un denunziante (il Soldaniero), e sarebbe
stato più conforme a verità l'adottare altra maniera di procedere,
ricevendo da uno di costoro una scritta o una deposizione in
presenza di testimoni e servendosi di essa come base secondo la
giurisprudenza. Continua il Visitatore dicendo che, per prendere e
tenere in carcere i colpevoli, ha mandato nel medesimo giorno fra
Cornelio a Catanzaro a fine di implorare l'aiuto del braccio
Regio, ottenuto il quale assai volentieri dal Governatore e dallo
Spinelli, ha rilasciato le lettere di cattura procedendo senza
ritardo in una causa così grave, fino a che non sia provveduto
meglio dal Papa e dal S.to Officio; delle lettere di cattura
riporta poi anche la formola. In sèguito sono allegate solamente
due lettere originali, una del Vescovo di Catanzaro e l'altra di
D. Alonso di Roxas. Nella prima, del 25 agosto, il Vescovo dice
che si è trattato un negozio di molta importanza, il quale laddove
seguisse, recherebbe «gran danno e disriputatione» alla Religione
Domenicana, che egli «ha remediato quanto ha potuto», ma vorrebbe
che il Visitatore o qualche suo fidato venisse a Catanzaro per
potergli liberamente parlare; e il Visitatore aggiunge che,
arrivata questa lettera il 28, egli nel giorno seguente mandò fra
Cornelio rivestito di tutta la sua autorità; ma, come ben si vede,
in questa lettera, nella quale pare che copertamente si accenni
all'aver fatto fuggire fra Dionisio, non è punto espressa la
richiesta di procedere contro i frati, che anzi trasparisce un
pensiero del tutto diverso. Nella seconda lettera, di
difficilissima lezione, che è di D. Alonso il Governatore, si ha
una risposta a fra Cornelio del 2 settembre, in cui D. Alonso
chiaramente dice di aver «ricevuta la relazione del negozio» dalla
Paternità sua, e spera che la Paternità sua abbia subito nelle
mani qualcuno de' pretesi rei, e almeno fra Gio. Battista di
Pizzone e il suo compagno (vale a dire il Lauriana): laonde
nemmeno si trova qui la richiesta di procedere da parte di D.
Alonso, il quale, per sua disgrazia, era sempre l'ultimo a sapere
ciò che accadeva, ed anche questa volta, invece di dirlo lui al
Visitatore, lo seppe da fra Cornelio. Infine si ha la Commissione
data dal Visitatore il 3 settembre a Carlo di Paola di carcerare i
frati suddetti, comandando a' Superiori di non fare ostacolo sotto
pena della scomunica ed anche della galera per 10 anni; poi la
presentazione fatta al Visitatore il 4 settembre da D. Carlo
Ruffo, nel castello di Monteleone, de' due frati carcerati da
Carlo di Paola, con la preghiera del Visitatore a D. Carlo di
tenerli nelle carceri Ducali a nome del Papa e del Generale; da
ultimo la formola del precetto adottato per gli esami da
istituirsi. Dopo questi atti iniziali vengono i processi verbali
delle deposizioni, cominciando da quelle del Pizzoni, del
Soldaniero e del Lauriana.
Ecco pertanto in che modo furono presi il Pizzoni ed il Lauriana.
Essi dimoravano nel loro convento di Pizzoni, e nella notte del
venerdì 3 settembre, due ore innanzi l'alba, Carlo di Paola ed una
mano di soldati con le micce accese giunsero sotto il convento.
Poco prima di costoro, nella medesima notte, era quivi giunto
anche fra Dionisio accompagnato da Gio. Tommaso Caccìa,
sicuramente per abboccarsi col Pizzoni come già più sopra si è
detto. Secondo il Pizzoni, egli e il Lauriana pensavano che
potessero essere ricercati dalla giustizia per una sella, o una
giumenta di un tale, che «tenevano presa» nel convento; ma poichè
avea già parlato con fra Dionisio, avea dovuto capire
perfettamente di che si trattasse, e infatti, secondo il Lauriana,
avendo lui dimandato cosa pensasse della venuta di quella gente
armata, il Pizzoni rispose, «sta a vedere che saremo presi per le
cose del Campanella». Gio. Tommaso Caccìa cominciò a dire «olà,
che gente sete, state largo», e quelli di sotto risposero che
erano gente del Battaglione e che venivano da Squillace o andavano
a Squillace; allora fra Dionisio e il Lauriana si diedero a sonare
le campane all'arme, accorsero i terrazzani di Pizzoni, e seppero
dagli armati che volevano riposarsi un poco e udir la Messa, per
poi proseguire il loro viaggio; fu quindi aperto il convento, e
saputosi che Carlo di Paola comandava quella gente, Gio. Tommaso
Caccìa che lo conosceva gli andò incontro per riceverlo. Fra
Dionisio, non appena intese che era gente di Monteleone, si
travestì da secolare e profittando della folla, che verosimilmente
avea fatta raccogliere a bella posta, se ne andò via senza essere
conosciuto; il Pizzoni disse la Messa, può immaginarsi con quale
animo, e Carlo di Paola con la sua gente l'udì; finita la Messa,
fu presentata la Commissione del Visitatore, ed entrambi i frati
furono condotti a Monteleone.
Nello stesso giorno 4 settembre, dopo che D. Carlo Ruffo ebbe
presentato i due carcerati al Visitatore e gli ebbe da lui
ricevuti in consegna, il Visitatore e fra Cornelio cominciarono ad
esaminare il Pizzoni; ed ecco i risultamenti dell'esame, che non
possiamo dispensarci dal riferire con una certa larghezza
quantunque assai ci pesi l'entrare in molte particolarità, giacchè
sopra di esso e degli altri seguenti si fondò quel famoso
processo, che durò più anni e diè materia a 4 volumi di scritture.
Interrogato sul modo e sul motivo presumibile della sua cattura,
il Pizzoni ne espose le principali circostanze, ma tacque la
presenza di fra Dionisio nel convento, e subito dichiarò essersi
immaginato che dovesse venire interrogato «come testimone» sulle
cose del Campanella e fra Dionisio, i quali erano stati in Pizzoni
nel luglio scorso; di poi, dietro analoghe interrogazioni, esposte
le relazioni precedenti avute con loro, li qualificò «uomini
tristi», affermando che in Pizzoni il Campanella gli avea detto di
volerlo «far homo», poichè aveva profezie di gran rumori e
ribellioni le quali profezie erano per lui, che bisognava trovarsi
armati, che si collegasse a lui ed avendo aderenze con fuorusciti
glie li mettesse a sua devozione; ma egli rifiutò ogni sua
proposta, e il Campanella sdegnato disse che giustamente fra Gio.
Battista (di Polistina) glie l'aveva dichiarato un traditore.
Soggiunse che il Campanella avea detto pure sembrargli che Iddio
l'avesse proprio eletto ad insegnare la verità e togliere gli
abusi della Chiesa, che i Sacramenti erano per ragione di Stato,
che il canto in Chiesa era cosa frivola. Ma gl'Inquisitori non si
contentarono di queste poche rivelazioni, e sebbene egli
accennasse a voler dire qualche altra cosa, decisero di riporlo in
carcere per atterrirlo: ed egli «atterrito» pregò di voler
parlare, ed espose una quantità di eresie dettegli dal Campanella
circa l'Eucaristia, i Sacramenti in generale, il crocifisso, la
verginità di Maria, gli atti carnali, la verità de' detti degli
Apostoli, i miracoli, i demonii, il Papa, la Trinità, eresie che
affermò avere udite dalla bocca del Campanella, in piccola parte
in Stilo e poi in Pizzoni; dietro interrogazioni aggiunse che pure
fra Dionisio gli avea già prima palesate le medesime opinioni
dicendo che le teneva per vere, che gli aveva inoltre raccontato
il fatto osceno di un tale verso l'ostia consacrata, ed egli, il
Pizzoni, sospettò che quel tale fosse stato fra Tommaso! Dietro
altre interrogazioni rivelò che in Stilo il Campanella gli avea
detto essere Maurizio stato sulle galere di Amurat, e fra Dionisio
gli avea parlato degli albarani fatti tra loro; che entrambi
volevano far la repubblica con l'aiuto di molti potentati, e
dapprima con la lingua e con le armi de' fuorusciti, come
Maurizio, il D'Alessandria, il Cosentino, i figli di Jacobo grasso
e Giulio Soldaniero, il quale «dovea sapere il tutto di questo
fatto che gli fu pienamente narrato et comunicato dal Pontio»; che
avevano aderenti in Stilo, in Catanzaro e in Davoli, e il favore
di D. Lelio Orsini, del Bassà Cicala e perfino de' Veneziani,
pensando lui che in Padova, dove il Campanella era stato, si avea
fatto amici Veneziani e glie l'avea comunicato! Aggiunse che il
Barone di Cropani era pure fautore come gli avea detto fra
Dionisio, che si doveva ammazzare il Governatore e gli Ufficiali e
poi gridar repubblica, che tra' frati erano complici il Petrolo,
il Bitonto, il Jatrinoli e fra Paolo della Grotteria, e dietro
interrogazione dichiarò di aver parlato non per timore del carcere
ma spontaneamente! - Come ben si scorge, il Pizzoni rivelò tutto
ed anche qualche cosa di più, solo pensando a salvare la sua
persona e non avvedendosi che in tal modo la comprometteva
maggiormente. Vedremo che, secondo il carattere suo versipelle,
egli pensò poi di far credere a fra Tommaso aver parlato
dell'eresia per sottrarsi alla furia secolare, e non aver parlato
propriamente di ribellione, o almeno di quella ribellione che si
diceva; ma il fatto è che parlò dell'una e dell'altra cosa
ampiamente, senza far figurare il Papa nella congiura sol perché
non sapeva che fra Dionisio avesse propagata una simile frottola
in Catanzaro, e si può ben credere che questo non dovè
dispiacere agl'Inquisitori. Vedremo pure che egli in ultima
analisi non smentì mai queste sue deposizioni, pur troppo ostili
al Campanella più che a fra Dionisio, ma solo si dolse che fra
Cornelio avea scritto nel processo verbale frati «complici» mentre
si era parlato di frati «familiari» del Campanella, ed oltracciò
avea scritto essersi da lui deposto che il Soldaniero conosceva
tutto, omettendo di leggerlo prima della sottoscrizione per non
incontrare una smentita: giunse veramente a dare per sospetto
tanto fra Cornelio quanto il Visitatore, e disse falso tutto il
processo per le male arti usate nel far deporre dagl'inquisiti e
per le estorsioni fatte, ma ciò a fine d'invalidare le cose emerse
in sèguito contro di lui, senza ritrattare quelle da lui deposte
contro gli altri. Certamente più cose recano maraviglia in quel
processo verbale, ma sopratutto il trovarvi da lui dichiarato di
aver deposto non per timore del carcere bensì spontaneamente,
mentre pure, come vi si legge, durante l'esame fu ordinata la
riconduzione dell'inquisito nel carcere «ad terrorem» ed egli
pregò che si continuasse l'esame «terrore ductus», la qual cosa
non era neanche conforme alla procedura ecclesiastica. Ma ben
altro venne a sapersi in sèguito, e non dal solo Pizzoni, sibbene
anche da parecchi altri suoi compagni di sventura, e giova
parlarne una volta per sempre, poichè fu quello un metodo tenuto
con tutti gli altri frati via via che vennero presi ed
interrogati. Si esaminò con una lista di notizie tra mano
(evidentemente la lista de' capi di accusa crescente a misura che
si raccoglievano anche le deposizioni) «rinfrescando la memoria»
di colui che era esaminato; s'insinuò doversi «dare qualche
satisfatione a' Giudici secolari, e che poi passata quella furia
sarebbero tutti andati in Roma al S.to Officio e là si saria
accomodata ogni cosa»; si volle che fosse deposto il più gran
numero di eresie, dicendo che si farebbe cosa grata al Generale, e
che in tal modo ne succederebbe la remissione al S.to Officio; si
promise una sollecita scarcerazione se le deposizioni
corrispondessero a quanto si pretendeva, e nel caso contrario si
fecero minacce di consegna a' Giudici secolari; si permise a D.
Carlo Ruffo, il quale spaventava ed ingannava i carcerati con
false notizie, che assistesse agli esami d'Inquisizione, mentre la
procedura ecclesiastica, fondata tutta sul più stretto segreto,
non consentiva la presenza di estranei, salvo due testimoni in
qualche caso, da doversi notare nel processo verbale. Fin da
principio la deposizione del Pizzoni fu fatta servire di norma
agli altri, leggendola loro in privato, e si annunziò falsamente
che il Pizzoni era stato scarcerato dopo di aver deposto in quella
guisa, e si progredì nelle minacce e maltrattamenti, nello
scrivere in un modo e leggere in un altro, non facendo mai
processi verbali delle sedute cominciate e non proseguite, come
talora accadde anche ripetutamente per un solo interrogato,
tacendo sempre i molteplici incidenti sorti per le resistenze
degli esaminati ad attestare quelle cose che personalmente ad essi
non costavano. Ma intorno a ciò occorrerà tenere un conto speciale
de' fatti in ciascun caso.
Dopo il Pizzoni, nel giorno seguente, fu esaminato il Soldaniero.
A tale scopo il Visitatore, «essendogli stato rivelato potersi da
un certo Giulio Soldaniero dimorante nel convento di Soriano avere
una fida testimonianza in questa faccenda», commise a fra Cornelio
di recarsi a Soriano per riceverla; e fra Cornelio vi si recò
immediatamente, e dispose che il Priore e il Lettore del convento
fossero presenti all'esame quali testimoni. Il Soldaniero disse
aver lui mandato a Monteleone, non potendovi andare personalmente,
ad avvertire che volea comunicare qualche cosa; essersi in luglio
presentato a lui fra Dionisio da parte del Campanella che stava in
Arena ed egli non conosceva, per dirgli «hora sete homo» (sempre
la medesima storia con le medesime parole); che facendo quanto
diceva il Campanella sarebbe stato poco a divenire lui Principe e
fra Dionisio Cardinale; che il Campanella aveva inviato lettere al
Gran Turco con le galere di Amurat, volendogli «dare questo Regno
in mano», perché gli mandasse aiuto per mare mentre egli avrebbe
fatta la ribellione; che voleva adoperare due mezzi, cioè la
lingua e le armi. Aggiunse che il Campanella aveva molte opinioni
terribili, e venendo a specificarle disse che volea predicare la
libertà e contro la tirannide del Re Filippo, degli Ufficiali e
dei Numeratori, che Cristo non era Dio, che le lettere I N R I
significavano una pessima ingiuria, che fra Dionisio
comunicandogli queste cose diè un pugno ad un crocifisso dipinto
sul muro del dormitorio; che il Campanella e fra Dionisio
professavano i Sacramenti essere per ragione di Stato e il
Sacramento dell'altare essere una bagattella, che fra Dionisio
avea commesso un fatto osceno contro l'ostia consacrata portandola
«per sei ad otto giorni» in certe parti vergognose del corpo, che
gli raccontò avere un inglese in Roma dato un pugno al Sacramento;
e poi che il Campanella credeva non esservi Dio, non esservi né
paradiso né inferno né diavoli, non esservi miracoli, e che fra
Dionisio assicurava «veri miracoli poter fare solo il Campanella e
non altri» e ne avrebbe fatti al tempo della predicazione,
oltracciò essere invulnerabile. Del rimanente dichiarò di non aver
mai veduto il Campanella, di essere stato dissuaso da fra Dionisio
intorno all'astinenza dal mangiar carne nei giorni pe' quali avea
fatto voto e ne' giorni proibiti dalla Chiesa, di aver udito tutte
le cose suddette anche da fra Gio. Battista di Pizzoni venuto
egualmente a parlargli da parte del Campanella, di averle udite
del pari da fra Pietro di Stilo venuto a sollecitarlo perché si
recasse presso il Campanella, ed a pregarlo che almeno non volesse
palesar nulla di questo fatto, di aver saputo da fra Dionisio e
fra Gio. Battista che la setta si faceva in Stilo e che si
preparavano prediche in scriptis e si davano a' complici.
Sviluppando la faccenda della ribellione, dichiarò di aver saputo
da' suddetti due frati che si era deciso di liberare il Regno
dalla tirannide del Re Filippo e «darlo al turco sotto tributo»
riducendo la provincia in repubblica, che il Turco avrebbe fornito
aiuto per mare ed a tale scopo aveano mandato presso il Cicala un
gentiluomo e ne aveano ricevuto polizini: dietro interrogazioni
aggiunse che non gli aveano parlato dell'aiuto de' Veneziani, ma
del favore di sette Principi, nominandogli solamente Lelio Orsini
che dovea venire a governare lo Stato di Bisignano e potea dare
più di mille soldati; che di particolari gli aveano nominato Gio.
Tommaso Caccìa, Marcantonio Contestabile, Giovanni di Filogasi,
Gio. Battista Cosentino, Eusebio Soldaniero ed altri, essendo
stati più di 35 capi allorchè si riunirono in Pizzoni, e de' frati
che doveano predicare, oltre il Campanella, fra Dionisio e fra
Gio. Battista, gli aveano nominato fra Pietro di Stilo, fra Paolo
della Grotteria e fra Silvestro di Lauriana. Infine dichiarò che
gli aveano detto doversi cominciare dal far ribellare Catanzaro
ammazzando il Governatore, il Vescovo e gli Ufficiali, di poi si
sarebbe ribellato Stilo e i luoghi vicini: dietro interrogazione
disse che non sapeva dove si trovavano il Campanella e fra
Dionisio, ma che gli avevano detto essere stati carcerati il
Pizzoni e il Lauriana, e conchiuse aver rivelato tutto ciò per
solo riguardo alla fede, pel servizio di Sua M.tà e per
l'estirpazione dell'eresia. - Tale fu la deposizione del
Soldaniero, e riescono senza dubbio sorprendenti le parole con le
quali venne conchiusa, mentre vi erano state promesse di un
guidatico e di un indulto già convenute appena qualche giorno
innanzi; del resto si comprende che essa fu composta in famiglia,
mettendo in carta quanto si era precedentemente deciso che egli
dovesse rivelare, massime riguardo al Campanella e agli altri
frati, perché riguardo a fra Dionisio, senza dubbio costui dovè
dirgli una gran parte delle cose che il Soldaniero affermò,
essendosi sempre comportato in questa guisa nel far proseliti per
la ribellione prima della sua andata a Catanzaro: intorno alle
cose dette da fra Dionisio dovè radunarsi tutto ciò che si era
potuto conoscere da altri fonti, specialmente su' particolari
della ribellione, che non potevano mai essere stati comunicati con
larghezza al Soldaniero, e tanto meno in un primo colloquio, ond'è
che si veggono rivelati così goffamente; ma anche una notevole
quantità di eresie dovè essere aggiunta, e però in sèguito si vide
il Soldaniero molto impacciato innanzi a' Giudici, ricordando
abbastanza male ciò che avea rivelato. Pertanto, oltre il gran
disordine di redazione e la trivialissima dicitura con circostanze
scioccamente esagerate, vi si nota la molta cura di non far
apparire il Soldaniero complice o socius criminis: da parte di lui
si trova nominato tra' ribelli Eusebio Soldaniero, che sappiamo
suo capitale nemico e rifiutatosi ad intervenire a' colloquii per
la ribellione, e non nominato Maurizio de Rinaldis, che sappiamo
suo conoscente ed amico e adoperatosi perché egli aderisse alla
ribellione; oltracciò vi si trova taciuta la circostanza della
lettera inviatagli dal Campanella per mezzo di fra Pietro di Stilo
e da lui non rifiutata, ciò che conoscevasi pure dal Priore del
convento il quale assisteva alla deposizione, tanto che egli
stesso lo rivelò in sèguito, allorchè fu chiamato in Napoli per
essere udito in questa causa. In somma tutto fu concertato per
guisa da far risultare il Soldaniero un testimone inoppugnabile,
quantunque nei casi di lesa Maestà, come in quelli di eresia, i
socii nel delitto fossero testimoni pienamente validi.
Il 6 settembre si venne all'esame del Lauriana in Monteleone. Come
già il Pizzoni, egli fu interrogato dal Visitatore e da fra
Cornelio sul modo e sul motivo presumibile della sua cattura; ed
espose tutte le circostanze, non esclusa quella della presenza di
fra Dionisio e del Caccìa giunti in convento poco tempo prima, e
del travestimento e della fuga di fra Dionisio non appena
riconosciuta la qualità della gente armata (con che già la
condizione del Pizzoni rimanea vulnerata); inoltre dichiarò subito
che il Pizzoni medesimo gli avea detto, «sta a vedere che saremo
presi per le cose del Campanella». Dietro interrogazioni, venne ad
esporre le sue relazioni antecedenti col Campanella e fra
Dionisio, li dichiarò del pari «homini tristi» da che vennero a
Pizzoni nel luglio scorso (sempre secondo la solita dicitura), ed
espose le relazioni avute col Pizzoni che qualificò uomo da bene.
Dipoi rivelò che stando il Campanella in Pizzoni con fra Gio.
Battista e fra Dionisio, nel dopo pranzo, disse una quantità di
eresie: non esservi Dio ma alla natura aver noi messo nome Dio,
non esservi né paradiso né inferno né diavoli, i Sacramenti essere
per ragione di Stato; e poi contro il Sacramento dell'Eucaristia,
contro i miracoli e che il Campanella «avea fatti e volea fare
miracoli», contro la verità de' detti degli Apostoli, contro la
proibizione degli atti carnali, e che il Campanella volea fare
nuova legge. Dietro altre interrogazioni soggiunse che egli non
aderì mai a queste cose, che forse fra Dionisio aderiva poichè una
volta, presente il Campanella, gli avea detto qualche parola in
dispregio dell'ostia, ed anche non essere peccato ciò che rimane
occulto! Ma interrogato se il Pizzoni aderiva, disse di non
saperne niente, e qui cominciarono le minacce degl'Inquisitori:
gli fu intimato di dire la verità sotto la pena della galera
accresciuta di altri sei anni, e frattanto che ritornasse in
carcere; ed egli, ripensandoci alquanto, pregò che continuassero
l'esame. Dichiarò allora che il Pizzoni aderiva, poichè lo aveva
esortato a credere in quelle cose, aggiungendo che non aveva mai
udito il Campanella e fra Dionisio predicarle in pubblico, bensì
aveva udito esprimere da loro il voto che venisse presto quel
giorno in cui potessero predicarle pubblicamente, e che sospettava
trovarsi pure fra Pietro di Stilo tra' settarii «per essere
intrinseco del Campanella»! Interrogato poi sulla congiura disse
che stando il Campanella in camera con fra Dionisio, il Pizzoni,
lui, e «mastro Gio. Pietro di Stilo fratello del Campanella» parlò
delle rivoluzioni di Stati e di tre gran terremoti da dover
accadere in un giorno nel 1600, del voler essere apparecchiato a
ribellar la provincia e farla repubblica, dell'aiuto de'
fuorusciti per opera di Maurizio e dell'aiuto del Turco dalla via
di mare, onde «si pigliarebbe Reggio et poi a poco a poco le altre
terre»; e dietro successive interrogazioni aggiunse di sapere che
Maurizio avea trattato col Turco, che non avea notizie di altri
potentati salvo il Turco, né di altri Principi e particolari
«salvo il Maurizio e il fratello del Campanella, e de' frati fra
Domenico di Stignano e fra Pietro di Stilo, perché attendeva
allhora a far la cucina per loro». Infine, dietro apposita
interrogazione, disse di aver rivelato liberamente, e di non aver
«deviato né per carcere né per cosa nessuna». - Anche qui è
sorprendente la conchiusione di non aver avuto paura del carcere,
dopo tutto ciò che è registrato nel processo verbale. Ma non
occorre fermarci troppo su questo esame, in cui si vede chiaro lo
stampo degli altri esami precedenti. Solo accade di notarvi che
nella faccenda della ribellione, parlando de' congiurati non
claustrali, il Lauriana tacque i nomi del Crispo, del Morabito,
del Caccìa, del Contestabile, di quanti altri avea dovuto vedere
in Pizzoni nel tempo al quale il suo esame si riferiva, essendosi
limitato a nominare appena il fratello del Campanella e Maurizio
de Rinaldis: ma si può ritenere che que' nomi non furono da lui
pronunziati perché non gli vennero suggeriti, riuscendo difficile
potergli accordare un certo grado di accorgimento, quando non
mostrò neanche quello di tacere la presenza di fra Dionisio nel
convento allorchè si era proceduto alla cattura sua e del Pizzoni.
Tutto ciò che depose dovè essergli suggerito, poichè realmente
egli era così dappoco, da non potersi ammettere che gli fossero
stati fatti tanti discorsi e tante confidenze; conoscendo egli
medesimo il suo valore, si era facilmente adattato a' più umili
servigi presso il Pizzoni e a «fare la cucina», sicchè potè forse
prestare qualche opera materiale ed anche udire qualche cosa alla
sfuggita, ma non più di questo. E vedremo ad esuberanza più tardi
che in fondo non sapea nulla, e fu prima lusingato e poi
intimidito dagl'Inquisitori, non escluso D. Carlo Ruffo, il quale
presenziò del pari l'esame di lui; onde accadde che in sèguito si
mostrò tentennante e vario nel peggior modo, non ricordando più
una parola sola di ciò che gli si era fatto deporre; e tra
l'incubo del rimorso e il terrore del poter essere incriminato
qual falso testimone, finì per accumularne tante, che lo stesso
Pizzoni, il quale avea procurato di servirsene per appoggio nelle
cose sue, dovè dichiararlo testimone falso e contribuire a
renderlo il ludibrio di tutti i compagni di carcere.
Così menavasi innanzi il processo ecclesiastico, e pur troppo il
metodo non fu mai cambiato per tutto il tempo in cui esso si
svolse nella Calabria: invano si cercò di apprestarvi qualche
rimedio, e continuò sempre, anzi in modo anche più grave,
l'impiego delle minacce e maltrattamenti non che delle lusinghe e
false promesse, l'uso di non scrivere ne' processi verbali se non
quello che piaceva a' Giudici, l'intervento degli Ufficiali Regii
nelle sedute del tribunale, e poi la comunicazione scritta, a loro
richiesta, delle cose che vi si raccoglievano, fino a quando la
causa non venne tratta a Napoli e commessa a Giudici molto più
degni. Da' precedenti è manifesto che non si creavano accuse
essenzialmente false, e questo c'interessa molto che rimanga ben
fermato: non si creavano accuse essenzialmente false, poichè è
indubitato che le cose le quali si raccoglievano, così dal lato
religioso come dal lato politico, erano state nella loro massima
parte ventilate tra gl'inquisiti; ma è indubitato del pari che si
esageravano nel peggior modo, si accumulavano interamente sul capo
di ciascuno inquisito senza distinzioni, e sopratutto con le arti
più inique si facevano testimoniare anche da coloro i quali ne
sapevano poco o nulla, per ribadirle in guisa da chiudere ogni via
di scampo agl'incolpati. E già con le sole tre deposizioni finora
esposte si era pervenuto a risultamenti della più grande
importanza, ed è certo che più tardi lo Xarava ottenne di vederle
e di averne copia. Si trovano infatti nel processo segni ed
appunti marginali sulle cose della ribellione vergati da una mano
differente da quella solita a far lo stesso sulle cose di eresia,
e non è per nulla arrischiato l'ammettere che que' segni ed
appunti sieno stati vergati dallo Xarava: inoltre si trova ancora
in Simancas la copia di queste deposizioni tutte intere, estratta,
collazionata e firmata da fra Cornelio per ordine del Visitatore
in data del 12 settembre, con la speciosa clausola «praevia
protestatione in forma et citra poenam sanguinis et ad evitandum
poenas irregularitatis», mentre le prescrizioni categoriche della
procedura ecclesiastica lo vietavano assolutamente. - Possiamo
frattanto ritornare allo Spinelli e allo Xarava, e vedere i
progressi che costoro fecero nella persecuzione e cattura
degl'incolpati, come pure nella compilazione del processo al quale
attendevano.
La più importante cattura di que' giorni fu quella del Campanella
in compagnia di fra Domenico Petrolo, avvenuta nella sera del 6
settembre; dopo di essa va registrata quella di Claudio Crispo,
avvenuta l'8 settembre. La cattura del Campanella merita
naturalmente di essere narrata in tutti i suoi più minuti
particolari, e ce li forniscono assai bene sopratutto le
deposizioni che il Petrolo fece in più volte nel tribunale per
l'eresia ed anche nel tribunale per la congiura, poichè nel
processo di eresia si trovano fortunatamente anche le deposizioni
da lui fatte intorno alla congiura, trasmesse in copia da un
tribunale all'altro; del resto il Campanella medesimo ne scrisse
parecchie circostanze nella sua Dichiarazione e poi nelle sue
Difese, nelle sue Poesie e da ultimo nella sua Narrazione, e
questa volta le notizie di entrambi i fonti concordano ne' punti
essenziali. Lasciammo il Campanella, verso il 27 agosto,
allontanatosi da Stilo dietro l'avviso e la sollecitazione di fra
Dionisio, ridottosi a Stignano e là denunziato dall'ospite suo D.
Marco Petrolo, denunziato anche dal suo amico e discepolo Giulio
Contestabile, e nascostosi in qualche altra casa pur sempre a
Stignano. Maurizio, con ogni probabilità avvertito del pari da fra
Dionisio, corse pur egli a Stilo per abboccarsi con lui, e non
trovandolo, gli scrisse due volte di tornare a Stilo «chè esso lo
salvava»; ma il Campanella si rifiutò egualmente di unirsi con
lui, mentre il padre suo piangendo diceva volerlo «meglio morto
che uscito in campagna», e si ricoverò sulla collina presso
Stignano in un convento di Francescani detto di S. Maria di Titi.
Maurizio corse ancora su quel convento, e il Campanella, che stava
col Petrolo a pranzo, se ne fuggì, e fu seguito da Maurizio per
sette miglia senza farsi raggiungere, sino a che, presso la
Roccella, trovò un contadino a nome Antonio Mesuraca, il quale,
avendo qualche obbligazione verso il padre di lui, lo accolse
insieme col Petrolo con promessa di trovar loro un imbarco, li
tenne seco tre giorni, ma poi li tradì. Questo ci lasciò scritto
il Campanella, ma fra Domenico Petrolo aggiunse molte altre
particolarità. Secondo il Petrolo, essendo in Stilo, ed avendo
udito da fra Dionisio le voci che correvano contro di lui, il
Campanella gli disse, «fra Dominico, si come quando io sono stato
a piacere tu mi sei stato bono amico et hai imparato da me, mi par
ragionevole che ancora m'habbi da seguire in questi travagli et
non abbandonarme, ma esserme fidele amico», e così fuggirono
insieme. Maurizio allora in più lettere invitò il Campanella a
tornare a Stilo, dicendogli che andasse a tre ore di notte ed
escludesse ogni altro dalla sua compagnia eccetto fra Dionisio, ma
egli, il Petrolo, dissuase il Campanella dal farlo, perché non si
accreditasse sempre più la voce de' suoi disegni di ribellione, e
poi una persona venne da Stilo e disse che fra Pietro l'avvertiva
di stare all'erta dubitando di Maurizio: arrivava intanto a
Stignano gente armata, e il Petrolo, travestitosi da ortolano, e
munito di una zappa, racconciando i canali lungo la via per non
essere riconosciuto, si diresse verso S. Maria di Titi, e il
Campanella lo raggiunse, e ricoveratisi nel convento mandarono un
frate ad informarsi dello stato delle cose; il frate tornò dicendo
che in Stignano non c'era gente, ma in Stilo c'era, e mentre
pranzavano, nella sera seguente, venne un corriere spedito da fra
Pietro di Stilo che li avvertiva di fuggire perché Maurizio li
voleva ammazzare. Giunse infatti Maurizio, e non trovandoli, li
seguitò per più di dodici miglia a fine di ammazzarli ed
indultarsi (!); essi fuggirono verso la Motta Placanica, ma per
via il Campanella mutò parere e disse che era meglio andare verso
la Roccella, e così facendo, nella notte, incontrarono Gio.
Antonio Mesuraca amico di fra Tommaso, il quale li condusse fuori
la terra in una casa in campagna, e là rimasero tutto il sabato,
la domenica e il lunedì, e nella sera di tale giorno furono tratti
in arresto. Guardando le date, si ha che la fuga da Stilo dovè
accadere tra il 27 e il 28 agosto, quella da Stignano il 2
settembre, quella da S. Maria di Titi la sera del 3, la permanenza
presso la Roccella il 4, il 5 e 6 settembre; ma ecco ancora alcune
notizie su' fatti di questi ultimi tre giorni, come le rivelò il
Petrolo. Non appena giunti nella casa di Mesuraca, costui fece
travestire anche il Campanella da secolare, ed almeno per qualche
tempo i due fuggiaschi si tennero insieme nascosti nella paglia al
di fuori della casa; quivi il Campanella avrebbe detto al Petrolo
che si era trattato l'aiuto del Turco e c'era un albarano avuto da
Maurizio, che da 13 anni tenea sullo stomaco que' pensieri di
ribellione insieme con fra Dionisio, che costui era stato da lui
mandato alla piana (piana di Terranova) per tenere in ordine le
genti e i fuorusciti di quel posto, ed avendo alcune scritture in
cifra, e domandato dal Petrolo cosa significassero, avrebbe detto
che quelle erano lettere del Pizzoni scritte in un modo inteso
solo tra loro; ma è evidente che siffatti discorsi rappresentavano
per lo meno la continuazione di discorsi anteriori e non
trattavano già quegli argomenti per la prima volta, come si
proponeva di far credere il Petrolo quando li rivelò. Inoltre
allora appunto, nel mangiare alcuni fichi, il Petrolo avrebbe
dimandato al Campanella se quelle erano le frutta per le quali
peccò Adamo, e il Campanella avrebbe risposto con uno scherzo e
detto che quelle erano baie. Ancora il Campanella avrebbe parlato
al Mesuraca dell'aver mandato Maurizio al Turco, dell'aspettativa
in cui si era delle galere del Turco, dell'aver lui procurato che
queste venissero, e dimandatogli se venivano ed avuto per risposta
che ne venivano trenta, avrebbe detto, «queste vengono per me, per
che Mauritio hà parlato ali turchi, però trovati modo di
mettermivi di sopra che vi farò grand'homo»; la qual cosa non ci
pare affatto inverosimile, giacchè, pur non essendo vero che
Maurizio fosse stato mandato proprio da lui, importava in quel
momento il farlo credere per dare animo a tutti e tenere il
Mesuraca in fede. Ma come il tempo passava, gli animi si
abbattevano e il Mesuraca faceva i suoi conti. Il Petrolo pregò il
Mesuraca che volesse porlo in disparte dal Campanella, non avendo
il coraggio di andarsene per la quantità di gente armata che era
sparsa in quella regione e che al vedere la sua corona l'avrebbe
preso in iscambio del Campanella; d'altra parte il Campanella,
essendo solo col Petrolo, lo pregò che volesse radergli la corona,
ma il Petrolo si rifiutò, ed egli fattosi malinconico diceva, «Dio
te lo perdoni, che non me lasciasti pigliare da Turchi questi
giorni passati, quando vennero sotto la torre di Badolato»,
mostrandosi persuaso che non l'avrebbero fatto schiavo perché
amico di Maurizio. Infine la sera del 6 settembre, venne uno
stuolo di armati, e i due miseri traditi, aspramente legati,
furono condotti a Castelvetere. Dalle notizie che fornisce il
Carteggio del Vicerè si ha che il Mesuraca avea rivelata la
faccenda al Principe della Roccella, e costui gli avea promesso un
buon guiderdone. Dalle notizie che forniscono gli Atti giudiziarii
esistenti in Firenze si ha che, al momento della cattura, il
Campanella disse, «io vengo volentieri, et dirò quanto si voleva
fare et dimostrarò con che ragione si voleva fare», aggiungendo al
Mesuraca che «fussero raccomandati li parenti suoi, per che esso
andava a morire in potere della Giustitia»; ma il Petrolo a sua
volta disse, «ammazzatime, non me levati vivo». Dolevasi pure
molto il Campanella de' Contestabili di Stilo, dicendo che essi
l'aveano fatto carcerare: da parte sua il Mesuraca si scusava
dicendo che avea dovuto agire a quel modo, per timore del Principe
di cui era vassallo, e soggiungeva al Campanella che subito
sarebbe morto «e che venea per questo Xarava el Baron della
Bagnara el Baron di Gagliato con più di 200 persone, li quali
venuti li dissero che dovea morire e che F. G. Battista di Pizzoni
havea detto tante heresie con la ribellione».
Ma come mai il Campanella si era mostrato così restio ai consigli
di fra Dionisio e poi agl'inviti ripetuti di Maurizio, e si era
spinto ad una fuga disordinata innanzi a costui? La cosa più
naturale è certamente il ritenere che ognuno avesse agito secondo
gli dettavano le proprie qualità dell'animo. Fra Dionisio,
coraggioso e bollente, dovè pensare che il meglio possibile fosse
il cadere da forti sul campo, e cominciò in tal guisa a spiegare
quella sua condotta, che vedremo ammirevole nella fortuna avversa.
Maurizio, coraggiosissimo ma prudente, dovè scorgere impossibile
anche l'uscita in campagna quando si era già raccolto un così gran
numero di milizie, e d'altra parte era già cominciata a
manifestarsi la demoralizzazione de' congiurati; non ignorante
delle arti di guerra, dovè giudicare non impossibile uno scampo,
malgrado la presenza di tanti nemici, e difatti mostrò bene di
saperlo trovare fino a che si trattò di schermirsi da loro, e
vedremo che ebbe a soccombere solo per gli elementi avversi; dovè
quindi realmente avere in animo di salvare il Campanella, salvarlo
malgrado la renitenza di lui, onde fece quella corsa, prova del
suo coraggio, da Guardavalle a Stilo e poi a Stignano e poi sulla
via di Placanica, mentre quei posti già venivano occupati dalle
milizie. Ma non si può menomamente ammettere che egli avesse avuto
in animo di uccidere il Campanella e il Petrolo per indultarsi;
tale concetto è respinto da quanto sappiamo della vita di Maurizio
e delle condizioni stesse occorrenti per avere un indulto. Abbiamo
visto che l'indulto bisognava pattuirlo coll'autorità mercè una
convenzione od almeno una promessa antecedente, ed era lecito a
Maurizio, uno de' capi, compromesso quanto il Campanella e forse
più, sperare un indulto, e sperarlo senza patti espressi ed al
momento al quale si era giunti? E se lo avesse sperato, gli
sarebbe convenuto di esigere che il Campanella si fosse recato
presso di lui egli solo e non già insieme col Petrolo, mentre così
avrebbe potuto presentare due compromessi invece di uno? né poi si
capisce perché avrebbe dovuto ucciderli, mentre si sa che
acquistavasi maggior merito presentando vivi quelli che erano
fortemente ricercati dalla giustizia. Fra Pietro di Stilo,
tenerissimo del Campanella e trepidante per lui, potè per un
momento pensare che le calde insistenze di Maurizio nascondessero
un agguato a fine d'indultarsi, tanto più che avea sotto gli occhi
esempi di perfidia incredibile, capaci anche troppo di far
vacillare la sua ordinaria avvedutezza e serenità di giudizio.
D'altra parte il Petrolo, timidissimo ed avvilito fuor di misura,
come lo rivelano le parole che pronunziò quando fu catturato e poi
quelle che gli vedremo pronunziare quando si trovò al cospetto
degl'Inquisitori, potè scorgere un grave pericolo nell'unirsi a
Maurizio e in sèguito un pericolo ancora più grave nel possibile
risentimento di Maurizio per aver consigliato di non unirsi con
lui. Ma non si può facilmente sostenere che tanto da parte del
Petrolo, quanto da parte del Campanella, fosse stato accolto il
pensiero di fra Pietro di Stilo, e che la loro fuga innanzi a
Maurizio fosse stata motivata dalla credenza che costui volesse
ucciderli a fine d'indultarsi, mentre veramente un tale motivo
della persecuzione di Maurizio fu da loro addotto abbastanza tardi
e per convenienza della loro causa. Infatti il Petrolo da
principio disse che Maurizio voleva ucciderlo perché egli avea
dissuaso il Campanella dal recarsi presso di lui, la qual cosa
evidentemente non avea potuto nemmeno giungere all'orecchio di
Maurizio: il Campanella poi da principio, nella Dichiarazione che
scrisse ne' primi giorni della sua prigionia, parlò della
persecuzione di Maurizio nel senso che costui volea salvarlo ed
egli si rifiutò di associarvisi essendone disgustato; più tardi,
nella Difesa, scrisse che Maurizio voleva ucciderlo perché temeva
che egli rivelasse l'accordo da lui preso col Turco, e perché era
sdegnato dell'aver fatto salvare Giulio Contestabile da' furori di
lui; assai più tardi, scorsi già parecchi anni, nella Narrazione,
scrisse che Maurizio voleva ucciderlo ed indultarsi. A noi sembra
che il Campanella, potentissimo in cognizioni ed in astuzie, dovè
credere più pericoloso per lui il trovarsi armato di un fucile in
campagna, che armato di sottigliezze nel foro, quantunque non
ignorasse che nel foro avrebbe incontrato manigoldi piuttosto che
giudici; dovè quindi sembrargli suo primo bisogno distaccarsi
appunto da fra Dionisio e da Maurizio, che aveano rappresentato
una parte attiva più appariscente, e dopo ciò tentare ancora uno
scampo in mare presso il Turco mediante una persona che avea
motivo di ritenere fidata, quale il Mesuraca, mentre in terra
vedeva perfino taluni de' più accesi nella faccenda della congiura
voltargli brutalmente le spalle ed agire a suo danno.
Proseguiamo intanto la narrazione de' fatti del Campanella dopo la
sua cattura. Abbiamo visto che molti accorsero quando fu preso, in
particolare i più grossi Commissionati, il Morano ed il Ruffo co'
loro armigeri, e può intendersene facilmente il motivo: ognuno
volea farsi bello di questa cattura, la quale in realtà fu
eseguita dagli armigeri del Principe della Roccella, onde a costui
venne poi attribuita, quantunque egli non avesse fatto altro che
spedire i suoi bravi e promettere in nome del Re un buon
guiderdone al Mesuraca che gli diè l'avviso, non risultando che
siasi recato egli medesimo sopra luogo, siccome da taluni Storici
fu detto. Così quel gran numero di armati servì solo ad
accompagnare il Campanella e il Petrolo fino a Castelvetere; ma
doverono forse esser pure condotti con costoro tredici altri
individui catturati in quelle vicinanze, che lo Spinelli, nel
riferire in fretta al Vicerè l'importante avvenimento, annunziò
essere stati trovati in compagnia de' due frati vestiti da
secolari, i quali volevano imbarcarsi ed andare in cerca delle
galere toscane o di qualche legno inglese o dirigersi in Turchia,
mentre sappiamo da parecchie testimonianze che veramente i due
frati erano stati essi soli in mano del Mesuraca. Quegli aguzzini
contristavano per via l'animo del Campanella, annunziandogli che
dovea morire e manifestandogli che il Pizzoni avea rivelato grandi
cose di eresia e di ribellione (ciò che realmente era noto a D.
Carlo Ruffo stato presente agl'interrogatorii); inoltre
s'ingegnavano di sapere da lui i complici, e raccolsero infatti
diversi nomi, segnatamente quello di Mario del Tufo, che uno di
loro affermò essere stato pronunziato dal Campanella in tale
occasione; ma il Campanella ebbe poi a negarlo assolutamente,
spiegando la cosa col dire, che avea manifestato doversi Mario del
Tufo, e tutti coloro che erano amici suoi, guardare di non esser
presi, perché li sarebbero andati carcerando. E in questo mentre,
riflettendo alla condotta del Pizzoni, egli «pensò subito che
questa fu arte del Pizzoni per fuggir la furia secolare, et
avvisò... a F. Domenico di Stignano ch'era seco carcerato, che pur
dicesse heresie»: così ci fece sapere egli medesimo nella sua
Narrazione, e vedremo infatti che fra Domenico finì per rivelarlo,
senza per altro scagionare il Campanella come eretico; solo non
può accettarsi che egli avesse pur allora artificiosamente
manifestato essersi «più presto negotiato con Turchi e non col
Papa, ma per hereticare, e che però Mauritio era andato sopra le
galere di Amurat Rais» etc. e che «così piacque poi allo Xarava
che ci entrassero i Turchi» e lo fece deporre a' primi rivelanti.
Di questi rivelanti abbiamo la denunzia autentica scritta fin dal
13 agosto, nella quale aveano già parlato de' turchi e dell'andata
di Maurizio; rimane quindi vero solamente che piacque alle
Autorità il raccogliere, bene o male, che egli non tenesse
intelligenze col Papa, essendo stato trovato in via di fuggirsene
in tutt'altra direzione che in quella di Roma; vedremo infatti che
così scrisse lo Spinelli al Vicerè, il quale lo accettò
immediatamente, senza dubbio perché riusciva soddisfacentissimo il
non aversi ad occupare di un soggetto così scabroso qual'era il
Papa, e il poter mettere sempre più in luce soggetti tanto odiosi
quali erano i turchi. - Venne poi, qualche giorno dopo, nelle
prigioni di Castelvetere anche lo Xarava, non accorso col Morano e
col Ruffo al momento della cattura, come potrebbe credersi
leggendo la Narrazione, ma inviato subito dallo Spinelli «perché
procurasse di aver chiarimenti dalla bocca di lui sulla congiura
della quale era imputato, prima che egli trattasse con alcuno», ed
anche «perché venisse sicuro» da Castelvetere a Squillace, come
rilevasi dal Carteggio Vicereale. Probabilmente lo Xarava si
comportò col Campanella in un modo affatto diverso da quello usato
dal Morano e dal Ruffo, dandogli buone parole, condolendosi e
lusingandolo, per mantenerlo ben disposto a largheggiare in una
«Dichiarazione che volle fare di sua mano» innanzi a lui. La
scrisse difatti molto larga e con qualche condiscendenza, siccome
si rileva specialmente verso la fine di essa, là dove si trovano
due periodi, in uno de' quali sono registrati certi nomi di
fuorusciti, e in un altro, più chiaramente aggiunto, è registrato
il nome del Rania, di cui egli non si era ricordato prima e da
ultimo si ricordò dietro suggerimento dello Xarava: siffatta
circostanza, e poi il suo silenzio costante su questa
Dichiarazione scritta, e il suo odio mortale verso lo Xarava
manifestato sempre con gli epiteti più atroci in prosa ed anche in
versi, ci menano a credere non aver lui mai più potuto rammentare
senza vivissimo sdegno che, sebbene maestro in astuzie, si fosse
lasciato trarre in inganno da quest'uomo di «volpino pelo», mentre
solamente più tardi, dopo ottenuta la Dichiarazione, lo Xarava
dovè scovrirsi nel senso di sostenere che questi frati avessero a
morire jure belli, inconsulto Pontifice.
La Dichiarazione del Campanella merita di essere ben ponderata.
Abbiamo già dovuto riportare sparsamente, durante tutta questa
narrazione, le notizie che vi si contengono, ma non possiamo
dispensarci dal darne qui uno schizzo, per vederla nel suo
complesso e farvi qualche commento. In essa, accennati i suoi
studii di profezia, i prossimi mutamenti da lui aspettati «nel
Regno de Napoli che fu sempre de revolutione», i pareri analoghi
anche di varii uomini insigni napoletani e stranieri, le cose
prodigiose apparse in quell'anno, la sua predica intorno a questi
fatti, la pace tentata tra' Contestabili e i Carnevali, il
Campanella rivela diffusamente i desiderii d'indipendenza dal
Governo spagnuolo che gli manifestarono Geronimo di Francesco e
Giulio Contestabile, l'odio di Giulio verso gli Ufficiali
spagnuoli, l'oltraggio da lui fatto ad un'immagine del Re Filippo
in presenza anche del Petrolo, la fiducia di lui in Marcantonio e
ne' numerosi amici e parenti e perfino ne' turchi. Poi cita altri
individui di Stilo co' quali ha parlato della prossima mutazione,
e dice che col Pizzoni e fra Dionisio ne parlavano sovente, ed
essi mostravano di gradirla. In sèguito viene a Maurizio e
racconta che costui lo interrogò sulle mutazioni, mostrandosene
lieto, e aggiungendo che se così fosse stato avrebbero avuto molti
amici, e che egli, il Campanella, gli disse che chi tiene molti
amici può diventar grande, adducendo molti esempi di uomini
divenuti grandi ed animandolo al bene. Poi parla dell'andata ad
Arena ed a Pizzoni, dove vide il Crispo, e dice che discorrendosi
delle mutazioni, costui si vantò di avere amici se vi fosse
bisogno di far guerra, ed egli approvò che ne avesse molti. Ma da
una lettera di Giulio Contestabile seppe che Maurizio era andato
sulle galere di Amurat, e recatosi quindi a Davoli presso il
Pittella, seppe da Maurizio che realmente vi era stato ed avea
trattato che venisse l'armata turca, giacchè volea pigliare
Catanzaro e la provincia, ed avea «capitolato» che i turchi non
avrebbero dovuto tenere dominio a lungo ma solo assistere nel
mare, contentandosi poi del traffico nel Regno, e gli mostrò una
scrittura in lingua turchesca, ed egli si lamentò di quest'atto,
facendogli notare che i turchi non osservano fede, e volea rompere
ogni relazione con lui. Vide allora il Franza, il Cordova ed un
altro, chiamati da Maurizio a Davoli, e pregato di parlare delle
mutazioni non potè non confermarle; fu anche invitato a volere
esser capo e predicare, ma si negò e si partì per disgusto.
Intanto fra Dionisio, perseguitato dal Visitatore, andò a
Catanzaro a predicare ribellione secondo la profezia di lui, e per
avere molti aderenti disse che nella congiura c'era il Papa, il
Card.l S. Giorgio, il Vescovo di Mileto etc. D. Lelio Orsini, i
Signori del Tufo e tutti coloro che s'immaginò essere amici di lui
e suoi; ma egli giura di non aver mai parlato di tali cose, né
pensato che per mezzo di loro frati si avessero a muovere. Poi fra
Dionisio andò a sollecitarlo perché uscisse in campagna, ma egli
non volle e riparò a Stignano; in sèguito Maurizio gli mandò a
dire di ritornare perché l'avrebbe salvato, ma egli pure si
rifiutò andandosene a S. Maria di Titi, e Maurizio cercò di
raggiungerlo ed egli fuggì, dandosi nelle mani di Mesuraca, il
quale promise di salvarlo in mare, lo nutrì per tre giorni e poi
lo consegnò alla giustizia. Infine, ricordando che del pari in
Roma e in Napoli si prevedevano mutazioni, dice voler rendere
conto a S. M.tà di quello che Dio manda al mondo per il bene
comune, che egli guarda alla salute comune e per essa vuole
morire. Dichiara che a fra Dionisio spetta dire il resto, avendo
lui trattato il negozio con fatti, mentre egli, il Campanella,
l'ha trattato solo con parole. In sèguito aggiunge varii nomi di
fuorusciti co' quali Maurizio diceva voler pigliare Catanzaro, e
manifesta che l'altra persona, la quale venne col Franza e col
Cordova in Davoli, era il Rania, ricordandolo dietro le parole
dello Xarava. - Come ben si vede, in questa Dichiarazione la
congiura non è menomamente negata, che anzi è esposta in tutti i
suoi più minuti particolari, e perfino chiarita in quel suo lato
che riusciva ancora oscuro e confuso alle Autorità, vale a dire la
partecipazione del Papa, dei Vescovi e de' Nobili, insieme co'
turchi; soltanto essa è attribuita ad altri, e il Campanella vi
figura appena come colui che vi ha dato innocentemente occasione,
col parlare delle profezie e de' presagi di mutazioni prossime, ed
un poco anche col consigliare a trovarsi armati e in buon numero
coloro i quali vi si mostravano propensi. Era il meno che egli
potesse dichiarare sul conto proprio, e bisogna riconoscere che,
quantunque avesse scritto in un momento di suprema angoscia, seppe
dichiararlo con la solita abilità ed anche con molta unzione,
mostrandosi quasi indifferente alle mutazioni, le quali sarebbero
avvenute come Dio avrebbe voluto; né fuor di proposito egli
giurava di non aver mai predicato ribellione, e parlato di tali
cose, e pensato che per mezzo di loro frati avessero a muoversi,
riferendosi a' maneggi fatti in Catanzaro, e alla partecipazione
del Papa, de' Vescovi e de' Nobili. Intanto nominava parecchi,
anche troppi, i quali avrebbero dovuto rispondere della congiura.
In primo luogo nominava i Contestabili col Di Francesco, e massime
Giulio, citandone detti e fatti assai gravi, ciò che si spiega col
suo vivissimo risentimento verso di loro; inoltre il Pizzoni ed
anche il Crispo, citando appena il nome del primo ed aggravando la
mano sul secondo, ciò che si spiega coll'essergli noto che il
Pizzoni avea già deposto in materia di eresia e di ribellione,
senza per altro sospettare che avesse deposto tanto; sopra tutti
poi nominava fra Dionisio e Maurizio, citandone azioni gravissime
e tali da renderli i soli veramente responsabili di tutto, ciò che
può spiegarsi unicamente coll'ammettere che egli credeva essersi
costoro già posti in salvo, mentre sapeva che Maurizio vi avea
pensato da alcuni giorni. Rimaneva alle Autorità il decifrare come
potessero trovarsi insieme i Contestabili e Maurizio inimici,
senza un certo tratto di unione, e se il Campanella potesse
veramente ritenersi estraneo a questi maneggi: disgraziatamente la
cosa riusciva molto facile ad intendersi, ed anzi era già
conosciuta molto bene a quell'ora; né occorre far notare che dopo
siffatta Dichiarazione ci volle in sèguito molta disinvoltura da
parte del Campanella, per dire che la congiura era stata
un'invenzione dello Xarava, de' denunzianti e del Governo!
Certamente egli non potè trovarsi contento di aver rilasciata
quella Dichiarazione. Quando ebbe a vedere fra Dionisio e Maurizio
in carcere, dovè rimanerne confuso, e si conosce che più tardi,
anche per conto suo, cercò d'impugnare il contenuto della
Dichiarazione, ma, naturalmente, invano. All'opposto lo Xarava
dovè rimanerne soddisfattissimo; e si può argomentarlo dal fatto
che, invogliato dalla felice riuscita della sua pratica, corse
immediatamente a far lo stesso col Pizzoni.
A questo tempo, verso l'11 settembre, si deve con tutta
probabilità riferire l'andata dello Xarava a Monteleone, per avere
anche dal Pizzoni una Dichiarazione scritta, e dare un'occhiata al
processo che il Visitatore e fra Cornelio aveano iniziato: ciò può
desumersi dalla data della copia degli Atti di tale processo a lui
rilasciata, che è il 12 settembre, e dalla data del trasporto da
lui fatto del Campanella e del Petrolo da Castelvetere a
Squillace, che una relazione dello Spinelli ci mostra essere
avvenuto il 14 settembre. Tenendo presenti queste date, si può
calcolare che verso l'11 settembre lo Xarava, ottenuta la
Dichiarazione scritta dal Campanella, ne andò a chiedere un'altra
al Pizzoni; e in tale circostanza vide il processo ecclesiastico e
vi fece al margine que' segni e quegli appunti di cui si è parlato
altrove, e scorgendo che le tre prime deposizioni avevano
un'importanza grandissima, se ne fece subito estrarre la copia.
Quanto alla Dichiarazione scritta dal Pizzoni, ne conosciamo
l'esistenza ed anche il contenuto dagli Atti che si conservano
nell'Archivio di Firenze, con quest'altro particolare, che ad essa
andava unito un «Alfabeto in cifra del Pizzoni col Campanella».
Nella Dichiarazione, secondo il sunto fattone dal Mastrodatti, il
Pizzoni scrisse che «fra Tomase Campanella, et fra Dionisio Ponsio
havendosi scoverto di volere introdurre nove leggi, et nuovo modo
di vivere, introducendo la libertà con il favore di alcune
profetie, et delli Cieli, per Astrologia, andavano procurando
amicitia di banniti per dar principio à tal impresa, et havendolo
ripreso di queste male prattiche, pensieri, et false profetie, che
non sono cose di riuscire, loro risposero che era codardo, e da
poco, et che loro non sono tanto impotenti quanto esso fra Gio.
Battista si crede, per che adesso li bastano questi pochi banniti
à dar principio à tal impresa, et che dopoi alcuni mesi scorsa la
nova haveriano havuto soccorso da Venetiani, et da Turchi, et
altri Principi, et particolare da D. Lelio Ursino, il quale diceva
esser andato à Sua Maestà in spagna, per ottenere, di venire
protettore, et poi soccedere nel Principato di Bisignano et
ottenere di tenere Compagnia di gente armata, sotto pretesto di
guardare il Stato, ma poi dato principio a tale rivoltare, li darà
in suo favore la gente predetta armata, et il Stato ancora, et che
lui tiene nelle sue terre un fra Gregorio di Nicastro che và
explorando le genti sotto habito di Merciaro, et venditore di
figure». In somma il Pizzoni non scrisse diversamente da quanto
avea deposto innanzi al Visitatore e a fra Cornelio riguardo alla
congiura, ed anzi rivelò qualche cosa di meno, aumentando solo
l'importanza della parte che avrebbe dovuto rappresentare D. Lelio
Orsini: se non che scrisse tutto di suo pugno, in modo da non
poter più poi sostenere che talune cose fossero state falsamente
aggiunte, siccome fece per la deposizione redatta da fra Cornelio;
e sappiamo che lo Xarava questa volta ebbe cura di corredarla di
una fede del Mastrodatti e della testimonianza di due persone, che
certificarono la Dichiarazione essere stata scritta dal Pizzoni in
presenza dello Xarava, e da lui consegnata al medesimo. Ma
l'Alfabeto in cifra fu scritto veramente dal Pizzoni e comunicato
in parte dallo Xarava a fra Cornelio, il quale poi l'allegò nel
processo suo senza citarne il fonte, ovvero fu inventato da fra
Cornelio e comunicato da lui allo Xarava, il quale senza citarne
del pari il fonte, lo pose a capo della Dichiarazione del Pizzoni?
Questo rimane dubbio; bensì non vedendo fatta alcuna parola
dell'Alfabeto nella Dichiarazione scritta, e sapendo che il
Pizzoni lo negò sempre in sèguito, bisogna piuttosto dire che fra
Cornelio, nella sua nequizia, dovè sbizzarrirsi ad inventarlo
dietro il cenno dato da' primi rivelanti e poi fatto confermare
dal Petrolo innanzi a lui qualche giorno dopo. Si può intanto
vederlo tra' documenti che pubblichiamo, ridotto alle firme del
Campanella e del Pizzoni, così come fra Cornelio l'allegò nel
processo suo.
Non prima del 14 settembre il Campanella fu tradotto dalle carceri
di Castelvetere a quelle di Squillace; ma non avea per anco
lasciato le carceri di Castelvetere, che vi accadeva un fatto
importante, del quale dobbiamo ancora dar conto. Ricordiamo che là
si trovavano rinchiusi Felice Gagliardo, Orazio Santacroce,
Geronimo Conia, Gio. Angelo Marrapodi, Camillo Adimari, ed inoltre
Cesare Pisano, il quale vi era stato visitato dal Campanella con
fra Dionisio e fra Giuseppe Bitonto ne' primi giorni di luglio, ed
era stato anche da lui raccomandato al Principe della Roccella;
ricordiamo che Cesare Pisano fin d'allora cercò sempre d'indurre o
di raffermare nella ribellione tutti costoro (giacchè taluni, come
il Gagliardo ed il Conia, sembra certo che vi fossero stati già
iniziati dal Bitonto e dal Jatrinoli), magnificando i disegni del
Campanella e predicando eresie in quantità. Non appena seppero che
il Campanella ed il Petrolo venivano rinchiusi in quelle medesime
carceri e che la congiura era stata scoperta, con tutti i
particolari che se ne andavano diffondendo, que' cinque
scellerati, per farsi merito e provvedere alla loro salvezza,
pregarono il Castellano di rappresentare al Principe della
Roccella che Cesare Pisano, fin da quando venne carcerato, si era
sempre sforzato d'indurli a prender parte a questa congiura, ed
oltracciò denunziarono lo stesso Pisano al Vescovo di Gerace per
le eresie che andava loro persuadendo; né trovarono difficile il
giustificarsi per non aver rivelato prima di allora, adducendo che
ritennero lungamente essere il Pisano un matto, ma poi, udita la
carcerazione del Campanella, doverono ritenere queste cose per
vere e quindi subito le rivelarono. Ciò risulta tanto dagli Atti
esistenti in Firenze, quanto dal processo ecclesiastico. Il
Principe della Roccella, ricordatosi che fra Tommaso gli avea
raccomandato il Pisano, scrisse una lettera a Carlo Spinelli,
avvisandolo dell'intercessione del Campanella per Pisano, al quale
avea parlato della congiura e naturalmente dovè partecipare ancora
quanto gli era stato rivelato da' cinque prigionieri; ed accadde
che costoro, al contrario di quanto si aspettavano, finirono
dietro questa lettera per venire, unitamente col Pisano, sotto la
giurisdizione dello Spinelli e Xarava, rimanendo a lungo, in
qualità di presunti complici, carcerati ed anche straziati, come
rilevasi dalle loro deposizioni e confessioni in tortura riferite
negli Atti esistenti in Firenze. D'altro lato il Vescovo di
Gerace, secondo lo stile del S.to Officio, non tardò un solo
momento ad occuparsi della denunzia, inviando qual suo Delegato
l'Abate Curiale de Curiali per prendere Informazione del fatto
nelle carceri di Castelvetere: questa Informazione, composta degli
esami di tutti e cinque i denunzianti, trovasi integralmente
inserta nel 1.° volume del processo ecclesiastico ed è in data del
13 settembre, non mancando nemmeno nel suo esordio la notizia, in
verità molto confusamente e scioccamente espressa, del trovarsi
allora «preso del pari, fermamente carcerato e detenuto in detto
castello, fra Tommaso Campanella». Non staremo a ripetere le
eresie, in gran parte goffe, che si rivelarono in quella
circostanza, tanto più che ne abbiamo dato qualche cenno a suo
tempo, nel narrare la carcerazione del Pisano e i varii discorsi
da lui tenuti nel carcere, e dovremo parlarne ancora a proposito
degli ulteriori esami a' quali fu sottoposto nell'uno e nell'altro
tribunale, dove ogni volta le ripetè; d'altronde un saggio de'
principali esami dell'Informazione trovasi anche ne' Documenti che
pubblichiamo. C'importa soltanto notare che in ispecie Felice
Gagliardo depose avere il Pisano affermato che tutte quelle eresie
gli erano state insegnate da fra Tommaso Campanella, dal Bitonto
ed altri monaci, ed il resto de' denunzianti depose, insieme col
Gagliardo, che il Messia Campanella, con armi, danari e gente
molta, doveva assaltare il Regno, pigliare Stati e far nuove
leggi.
Per tal modo le condizioni giuridiche del Campanella divenivano
rapidamente assai tristi: gli Atti del processo ecclesiastico, la
Dichiarazione scritta del Pizzoni, e quasi contemporaneamente le
deposizioni unanimi de' compagni di carcere del Pisano,
confutavano del tutto la Dichiarazione sua in quanto all'esser lui
rimasto estraneo a' maneggi di congiura; del resto essa era stata
già confutata in precedenza, e molto più seriamente, da alcune
lettere trovate sulla persona di Claudio Crispo catturato appena
qualche giorno dopo di lui. - Propriamente l'8 settembre il Crispo
fu catturato da Gio. Geronimo Morano; non sappiamo né dove né
come, ma sappiamo che al momento della cattura tentò di lacerare
due lettere, e che il Morano se ne impossessò. Questo risulta da
una relazione dello Spinelli al Vicerè trovata in Simancas, come
pure dalle notizie riportate negli Atti esistenti in Firenze. Le
lettere erano quelle delle quali abbiamo già tenuto conto parlando
delle trattative di congiura, l'una di Maurizio, in data del 25
luglio, che diceva al Crispo essere lui, Maurizio, «l'istessa
persona con fra Tomase», e l'altra del Campanella medesimo, in
data degli 8 agosto, che gli diceva di «venire con qualche amico
et particolarmente con Gio. Francesco d'Alisandria». Vedremo tra
poco che un'altra lettera del Campanella al Crispo fu trovata in
potere di fra Paolo della Grotteria quando costui fu preso, ed
essa era ancor più compromettente; onde si scorge che la non
partecipazione alla congiura, dichiarata dal Campanella, veniva
giorno per giorno smentita anche da documenti autentici. Il Crispo
fu tratto direttamente alle carceri di Squillace, e le lettere
furono inserte nel processo.
Ma è necessario tornare al Visitatore e a fra Cornelio. Essi
avevano proseguito a far carcerare frati, dando lettere di cattura
a D. Carlo Ruffo ed agli altri Commissionati. Fin dal mese
antecedente fra Cornelio avea fatta una perquisizione delle carte
e corrispondenze epistolari di tutti que' frati che si sapeva
essere conoscenti ed amici di fra Dionisio e del Campanella; in
sèguito di tale perquisizione fu preso fra Vincenzo Rodino di S.
Giorgio, Vicario di Tropea e zio di Cesare Pisano, essendosi
trovata presso di lui una lettera di fra Dionisio del 21 luglio,
con la quale gli raccomandava un frate, annunziandogli pure la
presenza del Visitatore nella provincia e la liberazione di Cesare
già avvenuta, come egli credeva, dietro le raccomandazioni sue e
del Campanella; inoltre fu preso anche fra Alessandro di S.
Giorgio lettore di Tropea, senza che risultino veramente chiari i
motivi della sua cattura. Questi due frati vennero esaminati dopo
il Pizzoni e il Lauriana, l'8 settembre; ma le loro relazioni con
fra Dionisio, e più ancora col Campanella, erano tanto lontane,
che appena poterono dar conto della opinione che essi ne avevano,
e fu deliberato di non procedere oltre negli esami, «acciò non
venissero a conoscere il modo d'interrogare in quella causa»; il
giorno dopo furono quindi rilasciati entrambi, non senza però
l'obbligo di presentarsi ad ogni richiesta, dando una idonea
cauzione da prestarsi nelle mani del Vice-Duca di Monteleone,
ossia D. Carlo Ruffo. Il Campanella disse poi, nella sua Difesa,
che fra Cornelio ricevè per la liberazione di questi due frati D.i
cento; è possibile che questa somma abbia rappresentata la
cauzione, la quale forse non venne mai più restituita. - Ma furono
presi ancora altri frati di molto maggiore importanza, i cui nomi
erano stati profferti da' primi esaminati o da' primi rivelanti,
cioè a dire fra Pietro di Stilo, fra Paolo della Grotteria, fra
Pietro Ponzio, fra Giuseppe Bitonto; il solo fra Giuseppe
Jatrinoli non fu preso, forse neanche cercato, e gli stessi
Giudici che vennero dopo ne ignorarono sempre il motivo. Prima di
tutti, fra Pietro di Stilo, come egli medesimo raccontò, fu preso
il 7 settembre nel suo convento; lo stesso Carlo di Paola, che
prese il Pizzoni e il Lauriana, unitamente con un Donato Antonio
Mottola carcerò fra Pietro, come risulta dagli Atti esistenti in
Firenze; e fra Pietro narrò pure di essere stato condotto dapprima
alla Motta, poi alla Roccella e a Castelvetere, quindi a
Monteleone, da ultimo a Squillace. Giunse a Squillace qualche
giorno prima del Campanella; vedremo infatti che fu quivi
esaminato dal Visitatore e fra Cornelio il giorno 13, poco prima
che vi giungesse il Campanella col Petrolo, e venne rinchiuso
nelle carceri dette «il Carbone», delle quali si fa parola anche
in qualche documento esistente nel Grande Archivio. Non conosciamo
propriamente perché fu condotto da Monteleone a Squillace; ma
forse dovè esservi un ordine dello Spinelli in questo senso sia
per tenere tutti i frati, ed anzi tutti gli ecclesiastici, meglio
custoditi, sia per tenerli tutti riuniti e pronti ad essere
inviati a Napoli, secondochè il Vicerè avea comandato. Quanto a
fra Paolo della Grotteria, egli fu preso un po' più tardi nel suo
convento di Grotteria da Ottavio Gagliardo, con questa
particolarità importantissima, che sulla sua persona fu trovata
una lettera del Campanella a Claudio Crispo, ed inoltre un
libercolo manoscritto di segreti e «più cose di forfanterie, e tra
le altre ci era per andare invisibile, et un altro capitolo per
sciogliere l'huomeni e donne ligate», come pure per non confessare
alla corda. La lettera del Campanella parrebbe che fosse appunto
quella scritta a' primi di agosto, nella quale egli diceva che
avrebbe desiderato parlare con gli amici e che per questo avrebbe
voluto recarsi a Pizzoni, ma perché non gli era stato scritto che
quelli erano venuti, se ne asteneva, e vi si sarebbe recato
l'indomani laddove avesse saputo che fossero venuti, non
convenendo mutare stanza senza certo disegno perché il mondo non
pensi a male etc. (se n'è parlato a pag. 203-204): era una lettera
che destava legittimi sospetti, e verosimilmente fra Paolo, cui si
era dato l'incarico di recarla da Stilo a Pizzoni, non si curò o
non potè aver modo di farla capitare al suo destino e non provvide
nemmeno a farla scomparire; essa fu data allo Xarava ed inserta
nel processo della congiura. Il libercolo manoscritto, contenendo
cose superstiziose, fu mandato a D. Carlo Ruffo e da costui
passato a fra Cornelio, il quale l'allegò al processo di eresia;
fu molto notato in sèguito da taluni il trovarvisi un segreto per
non confessare alla corda, ma non c'era da farne molto caso,
mentre rappresenta una piccola parte di molte altre goffaggini, e
la corda doveva allora temersi da chiunque, non dai soli frati né
per la sola causa della congiura. Veniamo a fra Pietro Ponzio.
Egli fu preso in Oppido, insieme col fratello Ferrante che
sappiamo in ufficio di Vice-Conte o governatore di Oppido, per
mano di Scipione e Marcello Silvestro e Pietro Paolo Salerno
mandati da D. Carlo Ruffo, il quale poi gli disse essere stato
catturato perché fratello di fra Dionisio; e veramente egli non
aveva altre colpe che questa parentela ed un'affettuosa amicizia
pel Campanella, ed intanto era stato fin da principio denunziato
come uno de' tre frati che menavano innanzi la congiura. Inoltre
fu preso anche fra Giuseppe Bitonto, e costui in circostanze degne
di nota. Fuggito dal convento di Condeianni dove avea l'ufficio di
Vicario, e portatosi in una vigna di Gio. Tommaso Campo suo zio,
nelle vicinanze di S. Giorgio, egli si era nascosto in un
pagliaio, vestito da secolare, fattasi radere la corona e crescere
la barba, ed armatosi di fucile e di pugnale. Ottavio Gagliardo,
con Muzio Barone e Gio. Domenico Rodino, lo presero in quel
pagliaio, «armato di scoppettuolo di tre palmi et un pugnale, et a
tempo lo volsero pigliare, volse rancare il pugnale», come si
legge negli Atti esistenti in Firenze. Vedremo più in là i
particolari anche degli abiti così del Bitonto, come del
Campanella e del Petrolo, che furono i tre frati fin qui presi in
veste secolare; vedremo dippiù essere stati presi pure alcuni
altri frati, né soltanto Domenicani, ma questi furono di
secondaria importanza, in numero anche più ristretto, e presi più
tardi, sicchè non occorre parlarne in questo momento.
Ecco ora il sèguito delle deposizioni che il Visitatore e fra
Cornelio raccolsero da taluni de' suddetti frati, giacchè non
poterono esaminarli tutti. - Il 14 settembre, recatisi a
Squillace, interrogarono dapprima fra Pietro di Stilo. Fra Pietro
disse essere stato avvertito da molti secolari che avrebbe
sofferto grandi travagli per causa del Campanella, ma non aver
voluto fuggire perché sentivasi netto in coscienza, e dopo di
avere esposte le sue antiche relazioni col Campanella, quanto
all'opinione che ne avea, rispose di tenerlo «in alcune cose per
bono et in alcune cose sceleratissimo» per quello che avea
«sentito dire». Ma qui si mossero a sdegno gli Inquisitori:
volevano che fra Pietro dichiarasse di aver udito dalla bocca del
Campanella le cose che doveva esporre (senza ancora sapere quali
esse fossero), e in fretta e furia ordinarono che venisse
rinchiuso in un carcere criminale «più strettamente e più
duramente». Si seppe in sèguito, quando egli venne in Napoli, che
fu tenuto dieci giorni in una «fossa» o «trapasso» come allora si
diceva, e di là fu fatto poi risalire di sopra «al Carbone»; si
seppe pure che fin da' giorni precedenti, mentre era nella carcere
della Motta e poi di Monteleone, gli erano state fatte minacce e
lusinghe da D. Carlo Ruffo e dal Castellano Ottavio Gagliardo,
come pure da fra Cornelio e dal Visitatore, il quale «pareva che
dependesse da fra Cornelio», e segnatamente a Squillace costui lo
facea condurre innanzi a' Giudici secolari e diceva loro «ve lo
consegno per tre ore, fate di lui quel che vi piace», e poi lo
lusingavano con la promessa di una immediata liberazione se avesse
rivelato ciò che volevano, e gli assicuravano che il Pizzoni era
stato già liberato perché avea parlato, e gli consigliavano di
confessarsi perché l'indomani avrebbe avuto la ruota, e il
Visitatore lo eccitava a deporre liberamente cose di S.to Officio
perché a questo modo si poteva avere la remissione al foro
ecclesiastico. Fu quindi più volte richiamato ed inutilmente
interrogato tra le lusinghe e le minacce, senza che se ne fosse
redatto il processo verbale. Ma come mai fra Pietro potè
qualificare così prontamente il Campanella «in alcune cose
sceleratissimo»? Passiamo sopra alla parola, che potè essere
adoperata da fra Cornelio invece di qualche altra meno grave che
fra Pietro ebbe a pronunziare; quanto alla sostanza, si venne poi
a conoscere che nelle carceri di Monteleone egli ebbe modo di
sapere qualche cosa dal Pizzoni, il quale gli dovè certamente dire
di aver rivelato molte cose di eresia, giusta le sollecitazioni
del Visitatore, per poter uscire dalle mani de' giudici secolari;
egli dunque si metteva parimente in siffatta via (ma vedremo con
quanta discrezione), se non che non poteva dichiarare di aver
udito cose di eresia dalla bocca del Campanella, senza incorrere
nella responsabilità di non averle rivelate alle Autorità
competenti, tanto più che trovavasi Vicario del convento in cui il
Campanella avea stanza. Ad ogni modo fra Pietro, il meno acceso,
il più quieto tra tutti, seppe dare egli solo un certo esempio di
fortezza, della quale si può intendere la misura considerando il
terrore e la demoralizzazione generale: fino all'ultimo fra
Cornelio ebbe a dirgli, «tu solo non puoi portare il carro, et si
tu solo sarai pertinace, tu solo morirai», ed egli seppe resistere
a tante pressioni.
Nel giorno medesimo gl'Inquisitori interrogarono fra Domenico
Petrolo, e costui, secondo la natura sua, si mostrò in tutt'altro
modo. Non appena giunto al cospetto del Visitatore egli si gittò a
terra e disse, «Padre, non son degno di esser chiamato figlio tuo,
ho peccato verso Dio, chiedo misericordia, poichè ho offeso Dio
gravemente»; pure, dopo di aver dichiarato come era stato preso
col Campanella in abito secolare, essendo fuggito insieme da Stilo
perché fra Tommaso fidava molto in lui, non volle spiegare il
motivo per lo quale il Campanella era fuggito; disse solo che la
Corte era contro di lui e che fra Dionisio glie l'avea avvertito,
ma negò di saperne il motivo. Ed allora gl'Inquisitori ordinarono,
con la solita formola, che fosse ricondotto in carcere e custodito
«più strettamente e più duramente»; ma egli li pregò che
ripigliassero il suo esame, e subito ne venne fuori una
deposizione la quale certamente conteneva un po' più di quello che
egli poteva sapere. Affermò che la Corte era contro il Campanella,
perché costui «era mal christiano et havea opinioni terribili et
tentava rebellione». E poi enumerò le opinioni terribili: diceva
parergli essere stato eletto da Dio per predicare la verità e
togliere gli abusi della Chiesa di Dio, essere i Sacramenti per
ragione di Stato, non trovarsi il corpo di Cristo nell'ostia
consacrata, non doversi adorare il crocifisso, esser lecito il
coito, non esser veri i miracoli di Cristo, come l'ecclissi al
tempo della passione non che la resurrezione di Lazzaro, saper lui
fare miracoli e volerli fare in conferma della propria dottrina
quando predicherebbe; inoltre non esservi paradiso né inferno,
essere l'autorità del Papa usurpata, non esservi Dio e la natura
aver avuto il nome di Dio, non esservi Trinità, non doversi
osservare il precetto dell'astinenza dal mangiar carne ne' giorni
proibiti. Disse di aver udite tali cose dalla bocca del
Campanella, che ne parlava ancor più liberamente quando si trovava
in compagnia sua, di fra Pietro e di fra Dionisio, e spesso ne
parlava pure in presenza de' secolari, tra' quali i più intrinseci
erano Tiberio e Scipione Marullo, Fulvio Vua, Gio. Gregorio
Prestinace, Giulio Contestabile, Geronimo di Francesco, Giulio
Presterà, Francesco Vono, Fabrizio e Paolo Campanella, inoltre fra
Scipione Politi Conventuale. Affermò ancora di ritenere che fra
Dionisio credesse a quelle opinioni per certe parole dette in
dispregio dell'ostia, e di sospettare ancora di fra Pietro di
Stilo, perché una volta gli avea detto esser bene che ciascun
frate pigliasse moglie, e lui sentirsi morire se non prendeva
moglie. Quanto al Pizzoni, lo conosceva per amico intrinseco del
Campanella, e sapeva che si scrivevano lettere in cifra le quali
egli avea vedute, inoltre una volta que' due andarono insieme ad
Arena, e per tutto ciò lo riteneva aderente alle opinioni del
Campanella. Infine interrogato intorno alla mutazione di Stato che
il Campanella procurava nella provincia, palesò la predica fatta
da fra Tommaso intorno alle mutazioni da dover accadere nel 1600,
e le profezie alle quali si appoggiava, e il disegno di mutare la
provincia in repubblica servendosi della lingua e delle armi de'
banditi e del Turco; aggiunse che non volea predicar solo, ma
anche con altri, facendo gran capitale del Pizzoni, di fra
Dionisio, di fra Pietro di Stilo, ed ancora di lui fra Domenico
Petrolo! Aggiunse inoltre che avea mandato presso Morat Rais
Maurizio, il quale avea trattato la venuta dell'armata ed avuti
per questo albarani del Turco, siccome seppe allorchè stavano con
fra Tommaso presso il Mesuraca; che fra Dionisio trattava di far
ribellare Catanzaro e il Campanella Stilo con altri luoghi, e che
non erano a sua conoscenza altri fuorusciti aderenti eccetto
Maurizio, mentre de' frati sapeva che erano pure molto amici del
Campanella fra Paolo della Grotteria, fra Giuseppe Jatrinoli e fra
Giuseppe Bitonto. Al solito, ebbe in ultimo a dichiarare di non
aver deposto per timore del carcere «ma per zelo della fede e di
Dio». - Fu questa la deposizione del Petrolo, la quale abbiamo
voluto riportare con una certa larghezza, perché associata alle
precedenti del Pizzoni, del Soldaniero e del Lauriana, consolidò
la base del processo ecclesiastico. Certamente è notevole la
specchiata concordanza di tutte queste deposizioni; ma se da ciò
si può inferire che la massa delle cose deposte dovè esser vera,
si può anche inferire che vi dovè essere un solo suggeritore per
tutti i deponenti. E qui si vede in modo non dubbio l'efficacia
del suggeritore, poichè il Petrolo, avvilito, si lasciò condurre
fino a nominare sè medesimo tra coloro i quali doveano predicare
la libertà. Senza dubbio, specialmente dal lato dell'eresia, egli
disse più di quanto conosceva: si seppe in sèguito che mentre era
per rientrare in carcere dietro l'ordine dato dagl'Inquisitori,
fra Cornelio lo ritirò da parte e gli lesse l'esame del Pizzoni,
come pure che erano presenti al suo interrogatorio il Provinciale,
l'Avvocato fiscale e il Capitano di campagna, e che non si scrisse
precisamente così come egli rispose alle interrogazioni. Ma pur
troppo l'esame da lui sottoscritto potè poi essere spiegato meglio
in qualche punto, non già disdetto, anche perché in questo caso
s'incorreva nell'imputazione di falsa testimonianza; e per tal
modo rimaneva ognuno illaqueato senza via d'uscita. Del rimanente
il Petrolo si fece sempre a negare la sua partecipazione
all'eresia, dicendo, «in altro son grandissimo peccatore, ma
contro la fede non ho peccato»; e in che dunque egli era
peccatore, e per quale peccato egli chiedeva spontaneamente
perdono agl'Inquisitori fin dal principio del suo esame? Tolta di
mezzo la faccenda dell'eresia, non rimane altro che la faccenda
della congiura.
Dopo il 14 settembre gl'Inquisitori sospesero le loro operazioni e
non interrogarono il Campanella. Ignoriamo il motivo di questo
fatto: forse volevano avere in precedenza la deposizione di fra
Pietro di Stilo e sperarono di averla da un giorno all'altro, ma
inutilmente; forse lo Spinelli, malgrado la buona corrispondenza
degl'Inquisitori, ottenuta la Dichiarazione scritta dal
Campanella, temè che questa potesse da un esame verbale riuscire
invalidata in qualche punto, e vedremo che si diè invece ad
insistere presso il Vicerè perché si venisse con lui a tortura
senza perdita di tempo. Intanto il 17 settembre il Card.l di S.ta
Severina inviava una lettera importantissima a fra Cornelio, con
la quale, comunicandogli una deliberazione presa dalla
Congregazione del S.to Officio dietro le lettere di lui intorno
alle cose di Calabria, gli annunziava di avere scritto, per ordine
di Sua Beatitudine, al Governatore della provincia ed a' Vescovi
di Catanzaro e di Squillace, che procurassero con ogni diligenza
la cattura del Campanella, di fra Dionisio ed altri suoi complici
(s'ignorava in Roma a quel tempo trovarsi il Campanella già
carcerato), con questa aggiunta, «et seguendo la carceratione del
Campanella, la Santità Sua hà ordinato, che si faccia condurre in
Napoli sicuramente in mano di Monsignor Nuntio, che poi appresso
si deliberarà della persona sua». Gli significava inoltre che
mandasse la copia delle informazioni prese circa le eresie, e che
occorrendo di dover prendere altre informazioni lo facesse
unitamente co' Vescovi de' luoghi ne' quali si aveva ad esaminare,
con ogni «secretezza e diligenza»: Questa lettera insieme con due
altre (sicuramente le lettere pe' due Vescovi) non giunse che il 2
ottobre a fra Cornelio, la cui residenza non era ben nota in Roma;
con ogni probabilità giunse anche prima quella pel Governatore, e
così lo Spinelli e fra Cornelio doverono conoscere la
deliberazione di Roma avanti il 2 ottobre, restandone naturalmente
ben poco contenti. Senza dubbio in Roma, dove si sapevano appieno
gli odii feroci e le azioni delittuose de' frati Domenicani,
massimamente di Calabria, non si era punto sicuri che tutto
procedesse in regola, e si voleva una migliore guarentigia
dell'onesto andamento delle Informazioni. Grande era difatti la
cura che in ciò metteva il S.to Officio, almeno in Italia, dove le
cose non procedevano come p. es. in Ispagna: possono ritenere il
contrario soltanto coloro i quali non hanno alcuna conoscenza
degli Atti di questo tribunale, che vuol'essere giudicato col
confronto de' procedimenti de' tribunali laici in analoghe
condizioni, vale a dire nel trattare de' delitti di lesa Maestà,
mentre il concetto del S.to Officio era quello di trattare de'
delitti di lesa Maestà Divina. Le lettere medesime scritte da fra
Cornelio al P.e Generale e al Card.l di S.ta Severina doverono per
la loro virulenza contribuire a mettere in sospetto la Sacra
Congregazione; ed anche circa la faccenda della congiura si vide
il Papa, mediante il Card.l Segretario di Stato Cinzio
Aldobrandini, come già fin da principio (20 agosto), del pari e
sempre più in sèguito (26 settembre), esigere che la causa dei
frati e clerici imputati si facesse «per rispetti gravi più tosto
in Napoli» con l'intervento del Nunzio, ricevendoli il Nunzio
«come prigioni suoi». Ebbe dunque allora il Campanella un qualche
aiuto dal S.to Officio e dalla Curia Romana: se non che fra
Cornelio, solleticato pure dalla speranza d'ingrandirsi sulle
miserie dei frati, non lasciò così facilmente la preda, ed attese
al miglior modo di servirsi della licenza rimastagli di procedere
ad altre Informazioni unitamente co' Vescovi. Non potè più
interrogare il Campanella, il quale perciò non ebbe a trovarsi
innanzi a Giudici se non quando venne condotto in Napoli; potè
bensi travagliare ancora gli altri frati e perfino taluni clerici,
aggravando sempre più le condizioni del Campanella e di fra
Dionisio; ma dovè passare un po' di tempo, durante il quale vi fu
una tregua nel processo ecclesiastico.
III. Facciamoci intanto a vedere le mosse ulteriori dello
Spinelli. Conosciuta la cattura di fra Tommaso, con una sua lunga
lettera in data 8 settembre egli annunciava al Vicerè di aver
avuto già questo «capo principale della sedizione e un altro
compagno suo della sua fazione e setta», oltre all'essersi
assicurato subito della maggior parte di quelli che fra Dionisio
avea nominati e i due primi rivelanti aveano atteso a scovrire per
ordine dell'Avvocato fiscale; né era chiusa per anco la sua
relazione, che poteva annunziare di più la consegna allora allora
fattagli da Gio. Geronimo Morano di Claudio Crispo, in cui potere
si erano trovate due lettere «che verificavano le altre tre avute
da' primi rivelanti», con la speranza che gli confesserebbe molte
cose essendo amico e compagno di Maurizio. Diceva essersi avuto
fra Tommaso «per mezzo e diligenza» del Principe della Roccella
«suo nipote» e di un vassallo di lui, al quale era stato promesso,
secondochè pure avea promesso il detto Principe, il guiderdone per
un servizio tanto segnalato. Ed essendosi raccolto che il
Campanella non cercava di fuggirsene a Roma, mostravasi persuaso
che nella congiura non c'era la volontà del Papa «come egli e fra
Dionisio andavano pubblicando»; tuttavia affermava che se la
congiura non fosse stata scoverta ed impedita in tempo, era per
succederne molto danno. Mostrava anche di ritenere che S. E.
avrebbe comandato di assicurarsi della persona di Mario del Tufo
nominato dal Campanella, sebbene egli, lo Spinelli, non l'avesse
«posto in iscritto», mentre pure gli veniva nominato da altra
parte; e faceva inoltre notare che fra Dionisio aveva nominato a'
rivelanti anche il Marchese di S.to Lucido, di cui Maurizio
avrebbe avuto tre lettere. Quanto poi a' Vescovi non gli era
riuscito di sapere nulla più di ciò che fra Dionisio aveva
comunicato a' due rivelanti, eccetto alcune parole che il Vescovo
di Mileto si era lasciato dire e che l'Avvocato fiscale avea già
riferite a S. E. «non per anco poste in iscritto», ma da porsi
«con molta brevità e in quella maniera» che S. E. avea ordinato
(d'onde si vede che lo Xarava tenea del pari corrispondenza col
Vicerè, e ne' punti più scabrosi procedevasi con grande riserva,
prendendo parte il Vicerè medesimo alla formazione del processo);
riferiva pure il braccio datogli dal Visitatore, e rivelava il
merito di D. Carlo Ruffo suo «parente», che avea preso due frati
della stessa setta (il Pizzoni e il Lauriana), e che aveva atteso
ed attendeva a quel negozio con tanta diligenza ed accuratezza da
sperare di raggiungere per mezzo suo buona parte dell'effetto di
questo servizio, e per dargli più animo supplicava S. E. che
restasse servita di scrivere tanto a lui quanto al Principe suo
nipote, riconoscendo loro i servizii prestati (così questa volta
egli cominciava senza ritardo a giustificare la qualità
attribuitagli, in suos munificus). Faceva inoltre conoscere di
aver inviato l'Avvocato fiscale per tradurre il Campanella da
Castelvetere, e per assicurarsi, cammin facendo, de' parenti di
lui e degli altri de' quali udirebbe il nome, avendo cominciato a
dirli, «prima che se ne penta» (ciò che mostra lo Spinelli
malizioso per lo meno quanto lo Xarava). Aggiungeva di aver fatto
già trarre in arresto i denunzianti tardivi di Catanzaro e
partecipava le buone speranze di avere nelle mani Maurizio e tutti
gli altri, pe' molti provvedimenti e le molte intelligenze prese,
manifestando che non si farebbe a promettere indulti, se non in
caso di grande necessità e di segnalato servizio, quando non si
potesse fare diversamente; ed offrendosi a dimandarli altri che
non fossero inquisiti di tal delitto, per presentare quelli che lo
fossero, lo concederebbe più facilmente «a fine di non indultare
complici» (veggasi dunque se Maurizio poteva sperare un indulto).
E dubitando che, dietro la cattura del Campanella, procurerebbero
di mettersi in salvo molti che non si sapevano, «e potrebb'essere
anche dei Vescovi stati nominati», avea posto nel mare di ponente
due feluche, le quali scorrendo per quelle marine impedissero la
fuga dei colpevoli (d'onde si vede che egli eccettuava appena il
Papa, ma avrebbe voluto nelle sue mani tanto i Nobili che i
Vescovi). Infine mandava a S. E. la lista di coloro che erano
stati carcerati fino a quel momento. La lista comprendeva 34
persone d'ogni ceto; Nobili distinti, come il Barone di Cropani e
Geronimo del Tufo; altri Nobili e particolari quasi tutti
Catanzaresi, tra' quali due catturati in abito di pellegrini,
quattro su' cinque denunzianti tardivi, compreso il Franza e con
lui pure il Cordova, inoltre i due Moretti di Terranova (già
studenti del Campanella) e Claudio Crispo fuoruscito; finalmente
frati, il Pizzoni e il Lauriana carcerati in Monteleone, il
Campanella e il Petrolo a quella data tuttora in Castelvetere.
Evidentemente in circa dieci giorni si era fatto molto.
In sèguito, il 13 settembre, tradotto il Campanella col Petrolo a
Squillace, ed avuta conoscenza della sua Dichiarazione scritta,
egli cercò subito di sapere qualche altra cosa da lui; ma non vi
riuscì, ed anzi ebbe a sentirsi negare che avesse nominato Mario
del Tufo quale aderente alla congiura. Mandò allora al Vicerè, in
data del 14, un'altra sua lettera, unendovi una copia della
Dichiarazione del Campanella, e in pari tempo una 2.a copia
dell'Informazione presa dal Visitatore e da fra Cornelio, per la
quale risultava non solo comprovata la congiura, ma anche posta in
luce la eresia; né si rimase dal profittare di quest'ultima
circostanza, per tentare di far accrescere l'ingerenza del Governo
contro i frati, che già erano quasi tutti in suo potere. Difatti,
nella sua lettera, dopo di avere informato il Vicerè dell'arrivo
del Campanella a Squillace, e dell'intento che avea di seminare e
introdurre eresie, provato coll'Informazione presa dal Visitatore,
«mercè il cui aiuto e buona corrispondenza si erano carcerati e si
andavano carcerando gli altri frati compagni ed intrinseci del
Campanella» (vale a dire fra Pietro di Stilo, fra Paolo della
Grotteria, fra Pietro Ponzio), egli subito esprimeva la sua
opinione, che contro di loro «sarebbe molto necessario potersi qui
procedere a tortura, perché senza di essa non si potrà chiarire né
provare il danno che il detto Campanella ha prodotto nelle genti
di queste parti, persuadendo ed insegnando loro cose ed opinioni
tanto abominevoli, secondo che egli credeva e cercava d'insinuare;
e stando in quel concetto in cui i popoli lo tenevano, con tanto
grande applauso e sèguito, si può per questo credere che abbia
fatto qualche danno con la sua falsa dottrina, avendo in sì poco
tempo ridotto tanti a sua devozione». Sottometteva quindi a S. E.,
che «si potrebbe procurare il braccio di Sua Santità o
Inquisizione, per procedere qui come alcuni anni dietro si è fatto
in Reggio e S.ta Agata, dove, essendo stata scoverta una certa
setta di eresia, s'inviò il Dottor Panza, il quale coll'intervento
di un Commissario Apostolico procedè all'estirpazione e gastigo
degli eretici». Poi annunziava le altre catture fatte e le
ulteriori notizie raccolte anche co' tormenti cominciati a darsi,
i provvedimenti adottati in particolare contro Maurizio fuggiasco
e qualche altro provvedimento da potersi adottare, ed oltracciò la
comparsa de' primi legni turchi e poi di tutta l'armata nemica. -
Le cose, come ben si vede, s'intralciano sempre più, in modo da
non poterle narrare che partitamente, e serbando per quanto si può
l'ordine dato ad esse dallo Spinelli nel riferirle.
Abbiamo visto che già agli 8 settembre vi erano 34 carcerati, e,
fra essi, quattro su' cinque denunzianti tardivi; in sèguito fu
preso anche l'altro. Francesco Striveri e Gio. Tommaso di Franza
furono i primi ad essere catturati e vennero tradotti a Squillace
con gli altri; Mario Flaccavento fu preso in Catanzaro, e così
pure Gio. Battista Sanseverino, che stava già confinato in casa
con pleggeria d'ordine dell'Audienza per altra causa; infine fu
preso ancora Gio. Tommaso Striveri che si era nascosto, ma fu
preso più tardi, dopo Gio. Paolo di Cordova, e può ritenersi per
certo che tutti costoro furono tradotti del pari a Squillace. Come
si legge nella relazione mandata dallo Spinelli il 14, fin allora
si era assicurato degl'individui sospetti e nominati «così da fra
Dionisio come dal Campanella», e tra essi aveva avuti quattro
fuorusciti di quelli che andavano in compagnia loro e trattavano
coi detti frati di far la massa di gente», a uno de' quali,
trovato con lettere del Campanella, si era data la corda nella
notte passata ed avea confessato. Questo tale si capisce
facilmente che era Claudio Crispo; gli altri, come è manifesto
dalla qualità indicata di accompagnatori de' frati, ed anche
dall'ordine con cui si trovano nominati ne' folii del processo,
dovevano essere: Cesare Mileri, che non sappiamo da chi fosse
stato preso, Cesare Pisano, che non era veramente fuoruscito ma
già colpito da cattura per reato comune, e che dovè perciò passare
dalle carceri del Principe della Roccella a quelle del Governo,
infine Gio. Tommaso Caccìa, che sappiamo essere stato preso da
Giulio Soldaniero, il quale inaugurò con lui l'adempimento
dell'obbligo assunto di presentare i congiurati per meritarsi
l'indulto. Dippiù, come annunziava del pari lo Spinelli, erano
stati carcerati tutti i parenti e gli amici stretti di Maurizio,
perché, col timore della dimostrazione che si facea, si potesse
avere qualche lume intorno a lui e prenderlo; si era per altro
ricorso anche a' provvedimenti straordinarii di citarlo a
comparire col termine di quattro giorni, entro i quali non
presentandosi sarebbe stato dichiarato forgiudicato, traditore e
ribelle a S. M.tà, e si sarebbe proceduto alla confisca de' beni,
mentre al tempo stesso si era pubblicato Bando, che niuno gli
desse ricetto ed aiuto, e tenendone notizia si dovesse farne
rivelazione, imponendosi pena di morte naturale e confisca di beni
a' contravventori. Per finirla intorno a' provvedimenti riputati
opportuni, bisogna pure aggiungere che lo Spinelli faceva
conoscere al Vicerè, avere D. Carlo Ruffo «scoverto da un frate
carcerato nel Castello di Monteleone» che D. Lelio Orsini aveva
inviato e teneva nella provincia di Basilicata un fra Gregorio di
Nicastro, della stessa Religione e del partito e pratica del
Campanella, che andava facendo l'ufficio medesimo dell'adunar
gente in quella provincia, e per averlo nelle mani proponeva una
Commissione contro fuorusciti al detto D. Carlo. Ma ricordiamo che
il fatto si trova affermato nella Dichiarazione scritta dal
Pizzoni, sicchè non fu scoverto da D. Carlo; è chiaro quindi che
lo Spinelli voleva ad ogni modo, questa volta anche con la
menzogna, procurare al suo parente un ufficio non di lieve
importanza; e per quanto sappiamo il Vicerè non ne fece nulla,
anche perché, come riferì il Residente di Venezia, avrebbe voluto
dare una larga Commissione al proprio figliuolo D. Francesco de
Castro.
Intanto il processo contro i laici già presi menavasi innanzi con
la massima alacrità. Dicemmo che si ebbero dapprima, il 31 agosto,
le deposizioni di Lauro e Biblia. Come è facile intendere, essi
confermarono quanto aveano attestato nella denunzia, ma vi
aggiunsero qualche altra notizia raccolta posteriormente. - Fabio
di Lauro espose le cose dettegli da fra Dionisio, la riuscita
dell'affare a motivo delle rivoluzioni e mutazioni previste dal
Campanella pel 1600, onde tenevano castelli e fortezze a loro
divozione, e i capi aveano dato al Campanella l'incarico di
persuadere i popoli; e che il Campanella teneva tutte le lettere
de' congiurati maggiori, e fra Dionisio mostrò la cifra con la
quale si scriveano, come pure una lettera firmata da Maurizio e
dal Campanella, con la quale gli dicevano di recarsi subito a
Davoli, ove in fatti fra Dionisio si recò insieme con Cesare
Mileri, come seppe dal vetturino che ricondusse i cavalli. Che
inoltre Orazio Rania, fattosi intimo di lui e di Biblia, comunicò
loro essere andato a Davoli col Franza e col Cordova per
concertare la ribellione e poi a Stilo presso il Campanella, e che
a' «5 del presente mese di agosto» Matteo Famareda, amico
particolare di Maurizio e che l'avea tenuto in casa sua molti
giorni, gli avea detto che Maurizio e il Campanella voleano
riformare il mondo, e che Maurizio era andato sulle galere di
Amurat Rais. - Gio. Battista Biblia espose egualmente le cose
dette da fra Dionisio, i preparativi degli animi delle genti alla
sollevazione affidati al Campanella e ad altri predicatori; dippiù
le cose raccontategli dal Rania, l'andata di lui col Franza e col
Cordova presso il Campanella per parlare di detto negozio, la
precedente andata di Maurizio al Cicala sopra le galere di Amurat
Rais, il salvacondotto ottenuto dal Cicala per Maurizio e il
Campanella, la promessa di venire da quelle parti con 60 vele;
infine ciò che fra Dionisio gli aveva ultimamente detto, l'andata
di Francescantonio dell'Ioy con altri di Squillace, insieme con
Maurizio, presso il Campanella. - L'uno e l'altro poi indicarono
sempre fra Dionisio come colui che promulgava i pronostici e gli
eccitamenti del Campanella, sollecitava a prendere le armi contro
il Re per far la provincia repubblica, dava per certo il concorso
di Signori e genti principali, e concludeva doversi in un giorno
di settembre gridare libertà, perché sarebbero entrati in
Catanzaro 200 fuorusciti, i quali avrebbero ammazzato gli
Ufficiali del Re, scassinate le carceri, liberati i prigioni,
armatili della munizione della Corte etc. etc. Sicuramente essi
deposero molte altre cose, poichè a noi è pervenuto soltanto ciò
che riusciva a carico del Campanella, di fra Dionisio e delle
persone ecclesiastiche, circostanza che non si deve mai
dimenticare, così per queste come per tutte le altre deposizioni.
Sappiamo infatti, dal Carteggio Vicereale, che essi aveano
raccolte e consegnate «tre lettere», sulle quali senza dubbio
diedero spiegazioni; queste lettere doveano provenire da Maurizio,
e il Campanella nella sua Narrazione non mancò di ricordarle,
riducendole a due. Ma in fondo ben si vede che, all'infuori delle
importanti notizie sul convegno di Davoli, le quali spargevano
luce anche sull'uccisione del Rania, questi due rivelanti non
aggiunsero molte cose, e scemarono enormemente le notizie
esageratissime rivelate con la denunzia: basta dire che
affermarono appena 200 uomini dover entrare in Catanzaro, mentre
dapprima aveano rivelato che Maurizio ne comandava 2,000, né
fecero più alcun cenno del Papa e de' Vescovi. Quest'ultima
variante è molto notevole. Essa può spiegarsi con ciò che disse il
Campanella nella Narrazione e poi nell'Informazione, che cioè «non
poteano far verisimile il primo processo contro il Papa e i
Prelati» (o, più propriamente, la prima dichiarazione contro il
Papa e i Prelati), e che a' denunzianti lo Xarava «faceva mutare
ogni giorno l'esamina a suo gusto»; ma può spiegarsi anche con ciò
che trovasi accennato nel Carteggio Vicereale, che cioè tra le
istruzioni date vi era quella di «notare a parte» o «non porre in
scritto» nel processo quanto concerneva il Papa, i Vescovi e i
Nobili napoletani di alto bordo.
Seguirono le deposizioni de' denunzianti tardivi, de' quali
parrebbe essere stati esaminati soltanto Francesco Striveri e Gio.
Tommaso di Franza, e dopo qualche giorno anche Gio. Tommaso
Striveri. Tutti costoro, al pari di Lauro e Biblia, deposero di
aver conosciuto per mezzo di fra Dionisio la sapienza, i
pronostici e l'influenza del Campanella, e i progetti di lui e di
Maurizio, come pure di essere stati sollecitati da fra Dionisio a
prendervi parte; ma ciascuno aggiunse qualche cosa di più. -
Francesco Striveri affermò che fra Dionisio gli avea mostrata una
lista di Catanzaresi di valore, formata da Maurizio e dal
Campanella e «ne nominò molti» (ma evidentemente il Campanella era
qui messo innanzi a torto); inoltre affermò di aver saputo dal
Franza l'andata di costui col Cordova e col Rania a Davoli, per
vedere Maurizio e il Campanella; il quale disse loro volergli
confidare un negozio di molta qualità ed importanza, e che avrebbe
poi mandato fra Dionisio a chiarire ogni cosa, si fermò a
ragionare a lungo col Rania, come fece anche Maurizio, e poi disse
che Iddio li avea mandati là, dovendo confidargli un gran negozio
come avrebbe loro manifestato fra Dionisio. Evidentemente costui
si era messo d'accordo col Franza, il quale avea capito di non
poter più nascondere l'andata a Davoli, dopo di averlo
assolutamente taciuto nella denunzia; e ben si vede che
raccontando le cose a quel modo, tutto si rovesciava sul Rania, il
quale era morto, e si cercava mostrare che a Davoli non si era
parlato di ribellione, essendo stato questo discorso riservato a
fra Dionisio; ma chi vorrà credere che il Campanella, mentre
faceva perfino intervenire Iddio nell'andata di quelle tre persone
a Davoli, poichè dovea confidar loro un grave negozio, si
rimetteva poi a farlo conoscere per mezzo di fra Dionisio? - Gio.
Tommaso di Franza espose molto minutamente i particolari
dell'andata a Davoli, ed importa anche a noi conoscerli bene,
essendo stato questo uno dei principali argomenti su cui si fondò
l'accusa contro il Campanella. Egli disse avergli fra Dionisio
fatto sapere che il Campanella lo supplicava di dare ascolto a
quanto mandava pregando e di rispondere maturamente, trattandosi
di un negozio molto grande che dapprima gli sembrerebbe un poco
agro, ed egli rispose «che si era cosa honorata e da farsi,
l'haveria fatta»: ed allora fra Dionisio cominciò a parlare delle
future guerre e romori del 1600, che il Campanella avea previsto
per astrologia, aggiungendo questa volta le previsioni fatte nello
stesso senso dal Marchese di Vigliena, «homo sapiente in le
scientie sopranaturali». Egli quindi si recò a Davoli col Cordova
e col Rania, e trovò nel monastero, presso Maurizio, il
Campanella; il quale gli prese la mano e gli dimandò come se la
passasse con le inimicizie di Catanzaro, ed egli rispose che stava
travagliatissimo. «E fra Tomase cominciò ad essagerare, e dire:
queste inimicitie forriano finite, si dal principio si fosse posto
mano all'armi, et non se havesse proceso con la penna; e li
domandò ancora che faceva il Governatore de la Provintia, et
s'attendeva come l'altri ministri del Re à mal trattare li Popoli,
et havendoli risposto, che per tutto era un paese, detto fra
Tomase disse, queste cose dureranno molto poco, per che lo hò
conosciuto per via d'Astrologia, e revelatione, che presto hanno
da essere in questo Regno revolutioni infinite, e guerre, et circa
di questo Io vi voglio comunicare un negotio di molta qualità et
molto utile che pare che Iddio vi habbia portato cquà, perché per
quando vi serà rivelato lo possiate fare, et da cquà à poco tempo
per fra Dionisio vi mandarò a confidare il secreto dal quale
cavarete grand'utile, e Mauritio de Rinaldo diceva ad esso
deponente che volessero attendere alle parole del Padre fra
Tomase, per che era negotio di gran qualità et servitio di Dio; et
dopò fra Tomase si pigliò Oratio Rania et raggionaro più di due
hore strettamente, e tra lo raggionare lo fra Tomase più volte
abbracciò lo detto Oratio, mostrandoli grande amorevolezza, et à
tempo si licentiaro, fra Tomase, et Mauritio l'incaricò molto, che
facessero quello, che frà Dionisio l'havria detto». Fu questa la
deposizione del Franza, ed abbiamo già manifestato il nostro
giudizio sopra di essa, giudicando quella di Francesco Striveri.
Venne in sèguito la deposizione di Gio. Paolo di Cordova, e dopo
di essa quella di Gio. Tommaso Striveri, il quale non si era
potuto carcerare così presto. Il Cordova fu preso col suo fratello
Muzio, e la sua deposizione non riuscì dissimile dalle precedenti.
Egli disse che era andato a Davoli presso Maurizio, il quale gli
era parente dal lato di sua madre: quivi il Campanella se lo
chiamò da parte insieme col Franza, e cominciò a dire: «Iddio v'ha
portati cquà perché intendiati da me un negotio ch'importa molto»,
ed esposte le previsioni sue pel 1600, e detto che «molti savii
antichi hanno desiderato veder quest'anno», conchiuse che avrebbe
loro mandato in Catanzaro fra Dionisio, il quale gli avrebbe
dichiarato ogni cosa. Aggiunse inoltre il Cordova che dopo un 15
giorni (vale a dire il 23 agosto, circostanza probabilmente
falsata) recatisi presso fra Dionisio, costui «li raccontò la
congiura, dicendoli, che in detta congiura c'interveneva ancora lo
Prencipe di Bisignano, lo Marchese di S.to Lucito, Geronimo dello
Tufo, che havea promesso dare lo Castello di Squillace in potere
delli congiurati, et che lo Turco, et altri potentati haveriano
aggiutato, et che quando li parlò fra Tomase Campanella né esso
deposante disse niente à lo Mauritio né lo Mauritio ne trattò con
esso». Nemmeno qui ripeteremo il nostro giudizio su tale racconto:
solo faremo avvertire che non vi si trova più citato il Rania, e
ne vedremo tra poco la ragione; faremo avvertire inoltre, che
costoro son tutti unanimi nell'affermare la profonda convinzione
del Campanella intorno a' futuri mutamenti, e l'energica azione
sua perché se ne traesse profitto. Intanto lo Spinelli e lo Xarava
sottoposero il Cordova alla tortura, e così il Cordova fu il primo
ad inaugurare la serie de' tormentati; ciò si desume da' medesimi
Atti che si conservano in Firenze, e sino ad un certo punto anche
dalla lettera dello Spinelli in data dei 14. né finirono qui le
miserie del Cordova. Tra le altre cose ebbe a domandarglisi conto
anche dell'uccisione del Rania: ma questo accadde un po' più
tardi, quando, come si legge nella lettera dello Spinelli, si ebbe
la testimonianza di una persona andata da parte di due imputati ad
avvertire il Rania che fuggisse, con la circostanza poi
verificatasi che il Rania si trovò morto non lungi da una
possessione di costoro; e senza dubbio, in Catanzaro, solamente il
Cordova ed il Franza potevano avere interesse di far tacere per
sempre il Rania, che già avea parlato anche troppo col Biblia, ma
probabilmente i due imputati furono i fratelli Cordova, Gio. Paolo
e Muzio. Per Gio. Paolo c'è sicuramente in processo la deposizione
di un Agazio Cormasio, il quale attestò di avere udito che Gio.
Paolo, «dubitandosi che Oratio non l'havesse scoverto, procurò di
farlo fuggire et ammazzare». A lui dunque si deve riferire ciò che
lo Spinelli diceva, cioè che egli, prima della deposizione di
questo testimone, avea avuta la corda pel negozio principale e non
era stato confesso, e col detto del testimone e con altri
ammennicoli che si andavano accumulando gli si tornerebbe a
ripeterla. Così il Cordova nel negozio principale non era stato
confesso, vale a dire che col tormento non avea dichiarato nulla
di quanto gli s'imputava, ma avea persistito nella sua
deposizione, secondochè ci risulta dagli Atti che si conservano in
Firenze. Bisogna pure aggiungere che la corda gli fu data senza
parsimonia, poichè da una deposizione del Di Francesco fatta più
tardi in Napoli, nel tribunale per l'eresia, risulterebbe che gli
fu data per non meno di sette ore: ma l'Avvocato che lo difese la
disse di cinque ore, sebbene fosse stato scritto solamente di
un'ora e mezzo, e ci fece pure sapere che il fratello Muzio fu
egualmente «tormentato senza causa con cinque ore di corda et
acqua» vale a dire acqua fredda sul corpo già prima sospeso e da
sospendersi di nuovo alla corda.
Quanto a Gio. Tommaso Striveri, costui depose che il 22 agosto,
essendo andato insieme col suo fratello Francesco e col Franza al
monastero de' Domenicani per udir la Messa, trovarono là un monaco
che gli cominciò a lodare grandemente il Campanella, e poi si pose
a parlare in disparte dapprima col Franza e poco dopo con
Francesco suo fratello; il quale in sèguito gli disse che quel
monaco (fra Dionisio) gli avea parlato delle predizioni e profezie
del Campanella, della prossima ribellione in tutti i suoi
particolari; del trattato col Turco, e di tutti coloro che
v'intervenivano, mostrando una lista di que' di Catanzaro.
Evidentemente Gio. Tommaso si era messo d'accordo col fratello
Gio. Francesco, e deponeva in tal guisa, per dar forza alla
deposizione di lui e tirare indietro la persona propria: come mai,
per una semplice notizia avuta dal fratello, egli si era
compiaciuto di sottoscrivere la denunzia, la quale rivelava una
sollecitazione diretta, e poi avea finito per nascondersi e
sottrarsi ad ogni ricerca? - Dobbiamo qui notare che i documenti
finoggi conosciuti ci dànno notizia delle deposizioni de' tre soli
denunzianti tardivi soprannominati, e non mostrano punto che
alcuno di loro sia stato sottoposto a tortura: si potrebbe dire
che fossero stati tutti risparmiati, sapendosi da un lato che lo
Spinelli gli avea perfino da principio lasciati liberi, e d'altro
lato che non erano stati neanche tutti esaminati in Calabria
secondochè affermò il Campanella nella sua Narrazione. Ma il
Capialbi, in una nota a questo punto della Narrazione, asserì, che
il Franza, il Flaccavento e Tommaso Striveri, ebbero la tortura;
forse lo rilevò dalla Difesa del Cordova rimastaci ancora ignota,
e se così accadde, bisogna riconoscere che, giuridicamente
parlando, pel Franza e Gio. Tommaso Striveri la tortura sarebbe
stata di piena regola.
È probabile che dopo queste sieno venute le deposizioni di Giulio
Soldaniero, e quindi le altre di testimoni di minore importanza,
secondochè si può argomentare dall'ordine di successione del
numero de' folii processuali. Comunque sia, le deposizioni del
Soldaniero si fanno notare per una grandissima parsimonia, mentre
furono così abbondanti in Soriano alla presenza di fra Cornelio, e
vedremo che tornarono ad essere abbondanti più tardi in Gerace,
innanzi allo stesso fra Cornelio ed altri, di tal che si direbbe
aver avuta solamente questo frate la virtù di svegliarne i
ricordi. Egli non depose altro se non l'avere udito pubblicamente
in Soriano, che Gio. Tommaso Caccìa con Francesco d'Alessandria,
Marcantonio Contestabile, Giovanni di Filogasi, Claudio Crispo, il
Campanella, fra Dionisio, fra Pietro di Stilo ed altri che non
ricordava, verso la metà di luglio (i calabresi dicevano e dicono
ancora «giugnetto») in numero di oltre 25 si erano riuniti nel
convento di Pizzoni per concertare tra loro il modo di effettuare
la rivolta. Il Mastrodatti non mancò di ricordare che, al momento
di deporre, egli era «guidato» dal Sig. Carlo Spinelli.
Ma più grande importanza si annetteva dallo Spinelli alle
confessioni di uno de' fuorusciti, «in potere del quale si erano
trovate alcune lettere del Campanella concernenti la causa che
trattavano», senza dubbio Claudio Crispo. Costui dovè essere quasi
contemporaneamente esaminato e tormentato, poichè dalla relazione
dello Spinelli risulta esserglisi data la corda nella notte del
13, vale a dire non appena lo Xarava ritornò a Squillace,
traducendo seco il Campanella e il Petrolo. Fu allora, con gli
Atti concernenti questi prigioni più importanti, cominciato il 2°
volume del processo di Calabria, siccome mostrano le citazioni de'
folii processuali: da' numeri d'ordine de' folii si vede che
s'inserirono in questo volume dapprima gli Atti concernenti il
Campanella, la sua cattura, la sua Dichiarazione etc., poi gli
Atti concernenti il Crispo e così in sèguito quelli degli altri
incolpati maggiori, il Mileri, il Gagliardo e compagni, il Pisani,
il Caccìa, fino a fra Dionisio, a Maurizio e Gio. Battista Vitale
presi assai più tardi; e il sèguito del 1° volume fu riserbato
agl'incolpati minori, alle semplici testimonianze, alle rimanenti
denunzie ed altri documenti che si ebbero mano mano. La
deposizione e confessione del Crispo si trovano accennate negli
Atti conservati in Firenze e nella lettera dello Spinelli più
volte citata. Egli dovea rispondere innanzi tutto del significato
delle due lettere trovate sulla sua persona al momento in cui fu
preso, l'una di Maurizio, l'altra del Campanella (ved. pag. 284),
alle quali vennero in sèguito ad aggiungersene due altre, la prima
scrittagli egualmente da fra Tommaso e trovata sulla persona di
fra Paolo della Grotteria, e di essa abbiamo pure già parlato più
sopra (ved. pag. 286), la seconda scritta da lui medesimo a
Geronimo Camarda, della quale abbiamo parimente parlato altrove,
ma ci occorre ricordare che vi si diceva della congiura e della
sicura vittoria nel mese di settembre, nominando fra Gio.
Battista, fra Dionisio e il Campanella, salutando D. Gio. Battista
Cortese e D. Gio. Andrea Milano, e conchiudendo «venghi in effetto
quel che noi speramo». Il Crispo non potè non accettare che le due
prime lettere erano state a lui dirette, come non potè negare che
l'ultima lettera era stata scritta da lui e che il fra Gio.
Battista in essa nominato era appunto il Pizzoni; non sappiamo poi
ciò che disse intorno alla lettera scrittagli da fra Tommaso e non
pervenuta al suo destino essendo rimasta presso fra Paolo, come
del pari non sappiamo altro della deposizione da lui fatta, ma
parrebbe che avesse affacciato scuse giudicate inverosimili, onde
si venne immediatamente al «remedium juris et facti» come allora
si diceva, cioè alla tortura. Gli Atti conservati in Firenze ci
fanno sapere che nella tortura confessò di essere andato col
Pizzoni a trovare il Campanella in Arena, presso il Marchese di
Arena, e ritiratisi in una camera il Campanella gli comunicò la
ribellione, ed egli promise di trovar gente, come infatti parlò al
Caccìa e a Giovanni Morabito, e che questi erano i compagni a'
quali il Campanella alludeva nella sua lettera; inoltre che per
quanto si ricordava, allorchè il Campanella e il Pizzoni
trattarono di detta ribellione c'era presente anche Marcantonio
Contestabile, il quale partecipava alla congiura e venne poi anche
a Pizzoni col Caccìa allorchè il Campanella vi si recò, e si parlò
della congiura e il Campanella sollecitò «che si fosse presto
posta in esecutione», e disse che Gio. Francesco d'Alessandria e
Gio. Paolo Carnevale vi prendevano parte e che «in aggiuto di
detta ribellione ci era il Prencipe di Bisignano et D. Lelio
Ursino». Inoltre che il Campanella disse «come havea mandato
Mauritio in Torchia à trattare con il Turco per far venire
l'armata nel mese di settembre per che li voleva dare molte
fortellezze in mano», e che Maurizio avea parlato a Cicala e che
costui sarebbe venuto o avrebbe mandato l'armata, e per concludere
questo fatto erano due volte venute le galere di Amurat. Non si
ebbe dunque dal Crispo una deposizione sufficiente, e si ebbe
invece una confessione in tortura molto larga. Lo Spinelli, nella
sua lettera, narrando questa confessione non entrò in molti
particolari; si limitò a riprodurre il modo in cui si era
concepita la rivolta (il solito modo), aggiungendo che l'imputato
era «convinto di essere stato sulle galere di Amurat»; ma ciò non
risulta punto dal processo, e sembra che lo Spinelli abbia voluto
fare impressione sull'animo del Vicerè, e suggellarvi la gravezza
della congiura, dando per fatto oramai inconcusso la richiesta
dell'aiuto del Turco. Intanto ci è pur troppo motivo di ritenere,
che una parte delle cose confessate dal Crispo sia stata suggerita
con le notizie degl'interrogatorii avuti da' frati Inquisitori, e
ripetuta da quell'infelice per l'atrocità de' tormenti. Difatti
egli avea potuto veramente conoscere perfino in Arena, prima che
in Pizzoni, l'andata di Maurizio presso il Turco, ma non è
facilmente credibile che avesse conosciuto essere stato Maurizio
propriamente inviato dal Campanella a dirittura in Turchia, con la
deliberazione di dare molte fortezze nelle mani del Turco; tanto
meno poi è credibile che avesse udito propriamente dalla bocca del
Campanella l'aiuto all'impresa da parte del Principe di Bisignano
e di D. Lelio Orsini; e così può spiegarsi che in punto di morte
«strillava al cielo» disdicendo le cose dette, come vedremo a suo
tempo. Non conosciamo con particolarità in che modo gli sia stata
amministrata la tortura, ma il Campanella, nella sua Difesa, a
proposito di lui parlò di «horrenda tormenta non scripta», ciò che
riesce pienamente credibile: ad ogni modo, oltre i documenti
autentici da lui non negati, ci fu anche la confessione in
tortura, laonde la sua sorte potea dirsi decisa. E qui non sarà
inutile far notare che un sì pronto ricorso alla tortura, ed anche
alla tortura più atroce, era pienamente ammesso trattandosi di
delitti di lesa Maestà: ne' delitti comuni bisognava prima
esaurire il processo informativo co' mezzi ordinarii, quindi
mettere l'imputato «alla larga» (barbaramente dicevasi «reus debet
poni ad largam») dandogli una copia degl'indizii raccolti contro
di lui, e dopo tutto ciò potevasi venire alla tortura; ma ne'
delitti di lesa Maestà era dovunque riconosciuto che la tortura
potesse darsi durante il processo informativo, co' più lievi
indizii e adoperando tormenti non nuovi ma atroci. Da quest'ultimo
lato nel processo presente noi troviamo quasi sempre menzionata
soltanto la corda, perché essa era, come dicevasi, la «regina
tormentorum» e serviva di base a moltissime altre sevizie; difatti
per alcuni imputati, anche di minor conto del Crispo, sappiamo che
la durata di amministrazione della corda «non si misurò
coll'ampollina», ma si prolungò per più e più ore, e che alla
corda si unirono i ceppi a' piedi con la sospensione di grossi
pesi, il bastone tra' piedi per mantenere gli arti inferiori
allontanati l'uno dall'altro, l'aspersione di acqua fredda sul
corpo nell'intermezzo della corda, ed inoltre la flagellazione
durante la sospensione alla corda; né mancò qualche maniera di
tormento del tutto eccezionale, come l'essere trascinato alla coda
del cavallo per le strade della città, e poi anche in Napoli il
così detto polledro, la così detta veglia, come vedremo per
ciascun caso.
Dopo il Crispo venne la volta di Cesare Mileri; ma lo Spinelli non
potè più attendere al processo, pel fatto importantissimo
dell'arrivo dell'armata turca, preceduta da due legni di quella
nazione che a modo di esploratori erano già da quattro giorni
comparsi alla marina di Stilo. Lo Spinelli diè subito notizia al
Vicerè della comparsa di questi legni e delle loro mosse, ma
conosciuto l'arrivo dell'armata fu costretto a recarsi sul posto.
E noi lo seguiremo nella sua escursione. Aggiungeremo soltanto che
ne' giorni de' quali abbiamo trattato, essendo stati presi tutti i
parenti e gl'intrinseci di Maurizio, dovè esser preso tra gli
altri Tommaso Tirotta suo servitore, e dovè raccogliersene
immediatamente la deposizione, che fu inserta nel volume 1° del
processo, come quella di un ordinario testimone. Gli Atti
esistenti in Firenze ne danno alcuni particolari. Egli depose che
conosceva il Campanella e fra Dionisio, vedutisi con Maurizio in
Stilo e in Davoli, che in Stilo il Campanella si vedeva con
Maurizio nelle case di D. Gio. Jacovo Sabinis, Gio. Paolo
Carnevale, Ottavio Sabinis, e in Davoli in casa di D. Marcantonio
Pittella; narrò inoltre il convegno di Davoli nel castagneto
presso il monastero di S.ta Maria del Trono con tutte le persone
che v'intervennero, e che parlarono quattro o cinque ore, notando
che in quella circostanza Maurizio mostrò al Campanella e a que'
di Catanzaro una carta avuta da' turchi, la quale dicevano essere
un salvacondotto, e un Pietro Jacovo Garzia disse che si poteva
oramai andar sicuri perché si aveva il salvacondotto. Ma bisogna
sempre tener presente che a noi è pervenuta soltanto la parte
delle rivelazioni concernente le persone ecclesiastiche, e che
quindi vi poterono essere, intorno a Maurizio ed al resto de'
laici, molte altre rivelazioni le quali ci rimangono tuttora
ignote.
Veniamo all'incidente dell'armata turca, che ben si comprende
quanto riuscisse ad aggravare nella mente de' Giudici la
colpabilità degl'imputati. Fin dal «venerdì 10 settembre due legni
turchi vennero alla marina di S.ta Caterina e Guardavalle, dove le
altre due volte aveano toccato quando Maurizio de Rinaldis salì
sulle galere di Amurat Rais; non fecero essi questa volta altro
che parlarsi, venendo l'uno dalla direzione del capo delle Colonne
e l'altro dal capo di Bianco, e subito che giunsero alla marina di
Guardavalle dove si riunirono, quello del capo delle Colonne tornò
per la stessa via, e l'altro prese la via dell'alto mare
ritornando nella seconda notte al luogo medesimo, dove fece fuoco
dando segnale alla terra, poichè sperava di là qualche avviso».
Nel riferire l'avvenimento, il 14 settembre, lo Spinelli
manifestava la sua fondata supposizione che ciò fosse pel concerto
che aveano fatto, «essendogli, allora che stava scrivendo,
sopraggiunto dal Principe della Roccella suo nipote l'avviso
dell'arrivo dell'armata in quelle parti». Oltre questa
comunicazione del Principe della Roccella, ve ne fu un'altra del
Marchese di Sorito, che dalle scritture esistenti nel Grande
Archivio sappiamo essere allora D. Andrea Arduino, creato Marchese
nel 1598: lo Spinelli l'annunziò al Vicerè con molto mistero e non
ne sappiamo nulla, ma questo appunto c'induce a credere che si
riferisse a quanto accadeva in terra ferma, e con ogni probabilità
a fatti e detti del Vescovo di Mileto, nella cui diocesi era
compreso, se non andiamo errati, il paesello detto Sorito, oggi
distrutto dalla malaria. Ecco intanto le particolarità dell'arrivo
dell'armata, le ulteriori sue mosse e le mosse dello Spinelli: le
conosciamo da una lettera posteriore di costui (17 settembre) e da
una relazione del Capitano Diego de Ayala che trovavasi di
guarnigione a Reggio con la sua compagnia (16 settembre). L'armata
comparve nella marina di Stilo il 13 settembre a 22 ore, e lo
Spinelli, non appena avutane la nuova, lasciando i carcerati allo
Xarava con buona guardia nel castello di Squillace, alla stessa
ora del 14 mosse lungo la costa ed andò poi a fermarsi in
Castelvetere; egli condusse con sè la Compagnia di cavalleggieri
di D. Cesare d'Avalos, ridotta a 60 uomini, attesochè 28 di essi
erano rimasti infermi nel presidio di Rende in Calabria citra, ed
inoltre la Compagnia del Principe di Sulmona, per accudire a
portar soccorso dove gli sembrasse necessario. Il 15, alla torre
di Stilo sulla marina, ebbe a sapere che l'armata era comparsa il
13 a 20 miglia dalla costa, e che da essa si erano distaccate
quattro galere ed erano venute verso terra, e di poi aveano posta
in mare una barchetta facendo molti segnali, ciò che avea dato a
capire a tutti che erano venute pel fatto della congiura; e non
trovando alcuna corrispondenza, giacchè la più gran parte de'
congiurati era stata presa e gli altri erano fuggiaschi,
particolarmente per le guardie state messe in tutta la costa, si
erano ritirate; l'armata nella notte del 15 avea salpato pel capo
di Bianco, di dove si erano tornate ancora a mandare le dette
quattro galere, le quali aveano fatti i medesimi segnali,
confermando che erano venute per la detta causa e mostrando che
facevano le ricerche medesime delle due galeotte apparse il
venerdì 10; ed infine, non avendo potuto ricevere segnali da terra
né prendere alcuno, le dette quattro galere erano andate ad unirsi
alle altre che stavano aspettando al capo del Bianco, prendendo
poi subito la direzione di Ragusa. Queste cose scriveva lo
Spinelli al Vicerè, e senza dubbio la preoccupazione di un
concerto tra l'armata e la costa avea potuto fargli travedere
molte cose, ma anche soltanto l'essersi l'armata diretta dapprima
alla marina di Stilo riusciva pur sempre assai notevole, benchè
non fosse cosa nuova; ed egli non mancò di farne costare
legalmente le mosse e i segnali, procurando dichiarazioni e
deposizioni, che fin d'allora potè annunziare al Vicerè e che
tutto induce a credere essere state quelle di Gio. Antonio
Mesuraca, Paris Manfrè, Gio. Vittorio Nicosia e Vittorio Giacco,
inserte poi nel 1.° volume del processo. Faceva contemporaneamente
sapere che si andava tuttavia prendendo molta gente, e che oltre
quelli de' quali avea mandata la lista ne' giorni passati, teneva
presi altri 25 individui (sicchè in data del 17 c'erano già 59
carcerati). Infine diceva volersi rimanere in Castelvetere,
essendo quel luogo sulla marina ove il più delle volte l'armata
solea venire a far acqua, e lontano da Stilo otto miglia, mentre
per la costa di Reggio si era provveduto in maniera che, oltre a
quanto avea ordinato a D. Diego de Ayala, vi avrebbe atteso anche
il Principe di Scilla suo parente, il quale sarebbe stato un
soccorso molto buono.
L'armata pertanto, giusta la sua abitudine, il 14 settembre andava
a dar fondo alla fossa di S. Giovanni; D. Diego de Ayala ne
inviava subito avviso al Vicerè, e il 16 poi gli riferiva
l'accaduto. Entrò nella fossa con 26 galere Reali, rimorchiando
due navi Ragusee che avea prese all'uscita del canale e che
andavano in levante con passaporto, e accordò riscatto di quattro
mila ducati alla più grande restituendola come l'avea presa. Il
15, nel mattino, si spiccarono da essa due galere di fanale, con
disegno di fare una ricognizione della muraglia di Reggio e
mandare qualche spia a terra; venendo presso la muraglia, furono
dal Castello tirati quattro colpi con un cannone ed un altro pezzo
di rinforzo che là si aveva, e i colpi giunsero in molta vicinanza
di esse, onde si posero bene al largo e si diressero verso la
Madonna di Piedigrotta di Messina, dove, essendo al sicuro dalle
galere di Spagna, presero una piccola nave carica di grano che
stava in ormeggio, salvandosi a terra tutta la sua ciurma. Con
questa preda tornarono all'armata, e subito, a 22 ore, giunsero
altre quattro galere di più, essendo al numero di trenta;
conchiusero poi anche il riscatto di questa nave, dandola per due
mila ducati (così la Spagna proteggeva i suoi sudditi da' quali
pure traeva somme incredibili). Ma due prigioni cristiani
fuggirono dall'armata e palesarono a D. Diego molte cose. Uno di
loro, molto esperto, disse che con l'armata erano venuti il
Cicala, suo figlio ed Arnaut Memi, e che portavano cento pezzi co'
loro carretti per menarli a terra, e molte scale ed altri arnesi,
e che avevano in mente di prender Lipari o un luogo presso Cotrone
denominato l'Isola, sebbene non si fosse tenuto consiglio fin
dall'uscita da Costantinopoli; che si erano staccate da
quell'armata nove galere, giacchè erano 39, con ordine di andare
in cerca di quelle di Toscana per prenderle. L'altro prigione
disse che l'armata non aspettava più il riscatto di quelle navi
per uscire dalla fossa di S. Giovanni: ma non per questo il
D'Ayala si teneva sicuro che non vi fosse il disegno di venire a
Reggio, e diceva che sebbene fosse tanto scaduto e male andato per
malattia, avea in questa occasione ricuperato tanto animo da poter
attendere di persona a ciò che occorreva per la difesa di quella
terra, in modo che s'imprometteva felice successo. Aggiungeva che
nella marina si erano presi assai buoni provvedimenti, tanto da
aver riuniti 400 cavalli con quelli della Compagnia del Principe
di Scalèa, i quali scorrevano la terra giorno e notte con molta
vigilanza, e c'erano 200 fanti, buona gente, in imboscata, acciò i
turchi non si addentrassero nella terra fino a' poderi ed a'
casali, perché era impossibile impedire la loro discesa a terra
per fare acqua, avendola a un palmo dal mare in tutta quella
marina, ed usando tenere le prode rivolte a terra e trarre
continuamente cannonate. Aggiungeva ancora che il più gran numero
di turchi spiccati a terra era stato di 500, e che gli dicevano
tutti gl'individui di combattimento poter essere tremila e
seicento, le quali cose egli andava a comunicare a Carlo Spinelli.
- Certamente tutte le notizie date da que' prigioni Cristiani non
potevano esser prese sul serio, tanto più che non una volta i
Turchi si erano serviti di questo mezzo, per dare false
indicazioni: il disegno d'impossessarsi di Lipari, ovvero
dell'Isola, due punti opposti, era una indicazione per lo meno
estremamente vaga, e sarebbe riuscito del tutto strano che lo
scopo della spedizione fosse a conoscenza di chiunque si trovava a
bordo; rimaneva quindi meno soggetta ad inganni soltanto la
notizia palpabile e non indifferente del trovarsi sulla flotta
molta artiglieria da campo e un buon numero di uomini destinati a
combattere. Ma un'altra relazione di D. Diego de Ayala, dello
stesso giorno, veniva a dar conto di una scaramuccia che si era
avuta a terra tra 500 turchi e una truppa di soldati spagnuoli,
tanto contesa da esservi stato bisogno di molti colpi di cannone
delle galere per favorire la gente che si era partita da esse,
onde si ebbero quattro turchi morti e molti feriti, un solo degli
spagnuoli, e secondo la resistenza che loro si fece, D. Diego
riteneva che si sarebbero tenute poche scaramucce. Egli faceva
pure sapere che il Principe di Scilla era allora allora giunto in
quel luogo con 600 uomini di soccorso tra fanti e cavalli, essendo
tanto servitore di S. M.tà che in tutti gli anni in cui veniva
l'armata egli dava soccorso alle terre senza recar loro spese,
perché arrivava in una giornata da Scilla a Reggio, e comunque si
trovasse in Sinopoli allorchè tenne avviso dell'armata, venne con
grande diligenza; si profondeva quindi in elogi verso di lui. Da
ultimo diceva che si era sempre più accertato, per mezzo di un
altro cristiano allora venuto e fuggito dalle galere, esser vera
la notizia già trasmessa a S. E. che l'armata portava cento
cannoni co' carretti per menarli a terra, con scale e macchine, e
di tutto andava a dare avviso a Carlo Spinelli.
Da parte sua lo Spinelli quattro giorni dopo, il 20 settembre,
compiva le notizie dell'armata e ne significava le ulteriori mosse
e la definitiva partenza. Le 30 galere, apparse il 13 al capo di
Stilo, dalla costa di Bianco se n'andarono il 15 alla fossa di S.
Giovanni, e furono allora viste da Reggio: i Sindaci gli diedero
avviso che sull'annottare del 15 due feluche furono viste venire
da Messina o da qualche luogo circonvicino ed unirsi con l'armata,
senza sapersi da chi e per che causa erano state inviate (forse
erano le solite corrispondenze che venivano al Cicala dalla sua
casa paterna in Messina). La detta armata era stata sempre nella
fossa, senza aver preso terra in nessun'altra parte; ed essendo i
turchi usciti a far acqua, gli spagnuoli si pararono loro dinanzi,
li maltrattarono facendoli ritirare, e presero un rinnegato, il
quale confessò che il Cicala trasportava cento pezzi di
artiglieria di ruota, tutti falconetti e con tutta la munizione di
guerra, che gli esami e dichiarazioni di molti congiurati stati
già presi confermavano doversi ripartire in que' castelli i quali
essi doveano prendere e tenere. Secondo gli ordini dati alle torri
e guardie della marina, a mezzanotte del 18 trasmisero avviso e ne
fecero segnali per tutta la costa, che l'armata era partita dalla
fossa e veniva verso la parte sua; per tale motivo egli montò a
cavallo co' Principi di Scalèa e di Roccella suoi nipoti e si recò
alla marina, dove avea fatto scendere sessanta cavalleggieri di D.
Cesare d'Avalos e la Compagnia di Sulmona armata alla leggiera, e
mettendoli in imboscata dietro certe siepi, stando al fiume Alaro
dove molte volte l'armata era stata solita di far acqua, comparve
la detta armata che veniva a terra, e come giunse proprio al
fiume, tenendo vento favorevole, fece trinchetto e si spinse verso
l'alto mare. Così egli uscì con tutta la cavalleria alla spiaggia,
seguendola fino al capo di Stilo, e vedendo che tanto più avea
presa la rotta di levante e mostrava di ritirarsi, ordinò a' 60
cavalleggieri di D. Cesare e alla Compagnia di Sulmona che
andassero seguendola fino alla costa di Squillace, attesochè nella
costa di Catanzaro, in Cutri, stava la Compagnia di Bisignano; ed
oltracciò fece munire l'Isola co' soldati del Battaglione, che se
per caso all'annottare chinasse al capo delle colonne, si trovasse
gente da farle opposizione. Ma a suo parere, essendo stato a
guardarla da una rupe fino alle 24 ore, egli considerò che si era
ritirata in tutto e per tutto, giacchè la via da essa presa era
quella di Cefalonia; e quando poi facesse cambiamento di rotta,
egli teneva già i provvedimenti e dati gli ordini necessarii.
Per finirla intorno a quest'incidente dell'armata turca,
aggiungiamo essere in sèguito pervenuto al Viceré avviso da Corfù,
che il giorno 21 l'armata trovavasi di ritorno in Turchia a 30
miglia da quell'isola, e poi ancora un nuovo avviso che il 24 se
ne trovava a 6 miglia, ed avendo là riscosso il donativo solito a
darlesi si era diretta a Costantinopoli, dicendogli pure che il
Cicala stava molto confuso del poco effetto avuto in Calabria e
dell'essere stato trattato tanto male nella fossa di S. Giovanni.
- Ma lasciando da parte questa pretesa confusione per una
scaramuccia cui la vanità spagnuola dava tanta importanza, gioverà
piuttosto cercare d'intendere come mai il Cicala avesse
abbandonata così presto la partita in Calabria. Forse egli potè
dapprima sospettare qualche inganno, non vedendo dalla costa
alcuna corrispondenza a' segnali fatti quando giunse alla marina
di Stilo; ma con la venuta delle due feluche alla fossa di S.
Giovanni dovè conoscere il vero stato delle cose, la congiura
scoverta, i congiurati presi o fuggiaschi, tutta la costa guernita
di milizie, come ebbe pure a sperimentare con la scaramuccia
avvenuta; ed allora dovè riflettere che l'opera sua sarebbe stata
oramai non soltanto inutile ma dannosa, non potendo riuscire che
ad una strage massimamente degl'infelici già presi. Il Campanella,
nella sua Narrazione, dichiarando falsissima la venuta de' turchi
d'accordo co' congiurati, mentre nella Dichiarazione avea pur
troppo manifestato il contrario, scrisse che «ogni anno solean
venir a far preda con l'armata e quell'anno non vennero, o non
sbarcaro, come doveano s'era vero; e fu miracolo divino, perché
haveano ordinato in Squillaci di strangular tutti li carcerati se
li Turchi sbarcavano in terra». Non sappiamo veramente che
quest'ordine vi sia stato, ma siamo inclinati a crederlo;
solamente, senza fare intervenire il miracolo divino, ci pare che
si possa bene ammettere la previdenza del Cicala. E vogliamo anche
rettificare qui ciò che fu scritto dal Sagredo, il quale, oltre
all'aver riferito inesattamente le trattative fatte da' congiurati
co' turchi e la feroce repressione della congiura secondo le voci
erronee che ne corsero a quel tempo, lasciandosi benanche
trasportare da una certa antipatia verso il Cicala perché nemico
di Venezia, asserì che costui «sotto pretesto d'haver trovato ben
munite le marine negò l'appoggio a' ribelli... e fu al suo ritorno
a Costantinopoli di ciò aggravato». Le nostre ricerche
nell'Archivio Veneto ci hanno invece fatto vedere che la Porta non
seppe nulla della congiura e dell'appoggio che il Cicala avrebbe
dovuto darle, onde non gli si ebbe a movere alcun rimprovero per
la sua condotta verso i congiurati calabresi; ma che veramente
egli non avea recata «nessuna sodisfattione con la sua uscita di
quest'anno», onde si sparse la voce che gli sarebbe stato tolto
l'ufficio di Capitano del mare, la qual cosa poi non si verificò.
Ma è tempo oramai di vedere l'atteggiamento del Vicerè dietro le
relazioni successivamente avute. Non appena gli fu partecipato che
il Campanella era prigione, con la circostanza che nella sua fuga
non avea presa la via di Roma, egli ne mandò subito la notizia a
Madrid, insieme con la lettera dello Spinelli e la lista
degl'individui catturati fino a quel momento. Compiaciuto che tra
costoro vi fosse il Campanella «principale promotore di quella
rivolta», con un compagno suo e dippiù con due altri frati dello
stesso ordine, diceva essere stata gran fortuna l'aver preso il
«capo di quella macchinazione» il quale l'avrebbe fatta conoscere
interamente; e mostravasi egli pure persuaso, che dalla via nella
quale si era messo il Campanella con la sua compagnia si scorgeva
«quanto grande vigliaccheria era stata il mettere il Papa in quel
ballo», poichè se ci avesse avuta qualche cosa, sarebbe andato a
Roma e non già in Turchia, dove gli dicevano che si era diretto.
Ma non ci è noto che avesse adottato il consiglio dello Spinelli
di far carcerare in Napoli Mario del Tufo e di richiedere a Roma
il Marchese di S.to Lucido; abbiamo invece ogni motivo di ritenere
che non se ne fosse curato, giacchè per lo meno il Residente
Veneto non avrebbe mancato di darne notizia. In sèguito, avendogli
lo Spinelli mandato copia della Dichiarazione di fra Tommaso, col
parere che si venisse subito a tortura ne' frati in Calabria,
siccome altra volta si era fatto in materia di eresia, il Vicerè
ne scrisse subito al Duca di Sessa e a D. Alonso Manrrique e
partecipò tutto, comprese la copia della Dichiarazione del
Campanella e la lettera dello Spinelli, a Madrid. Ordinò di
procurare da S. S.tà che rimettesse a lui il gastigo de' frati di
Calabria, «i quali non solo erano traditori, sibbene anche i
maggiori eretici che si fossero mai visti»; e bisogna dire che
egli si lusingasse troppo di avere ammaliata la Curia Pontificia
con le sue proteste di devozione e di tenerezza, per poterle
dirigere una dimanda simile. Inviando poi la Dichiarazione del
Campanella a Madrid, mostrava di credere aversi proprio per quella
a vedere come, nel modo che teneva, rivelasse con parole equivoche
di essere eretico! E aggiungeva che «gli dicevano esser cosa
orrenda le eresie le quali gli si provavano in un'Informazione
presa coll'intervento del Visitatore del suo ordine», e che
«grazie a Dio era stato impedito a tempo». Infine esprimeva il suo
parere che il Cicala per questa volta se ne tornerebbe con la gola
al posto suo, senza essere signore di Calabria come si pensava, se
pure non cercasse d'investire qualche terra marittima, ciò che
intendeva poter recare poco danno secondochè Carlo Spinelli gli
avea scritto. Contemporaneamente, mercè un'altra lettera della
stessa data, si faceva a raccomandare Lauro e Biblia, i quali
continuavano a reclamare la ricompensa, e, come ci mostra il
Carteggio Veneto, qualche settimana dopo si ricoverarono in
Napoli. Egli avea loro assicurato che S. M.tà avrebbe data una
ricompensa corrispondente al servizio fatto, ed essi allora gli
scrivevano di supplicare S. M.tà che deliberasse di dar loro la
ricompensa, giacchè per suo Real servizio aveano rinnegato i loro
parenti ed amici, e si vedevano nella impossibilità di vivere in
quella terra; e così egli supplicava S. M.tà dicendo che per certo
meritavano una ricompensa, ma aggiungendo che avrebbe cercato di
sapere da loro cosa pretendessero e ne avrebbe dato conto (ottimo
modo per pigliar tempo e mostrarsi zelante così con quegli
scellerati come con S. M.tà). Ancora, allorchè gli giunsero le
lettere del Capitano De Ayala e dello stesso Spinelli sull'arrivo
e sulle mosse dell'armata turca, le inviava senz'altro a Madrid; e
supplicava S. M.tà di ordinare che si scrivesse al Principe di
Scilla, che aveva atteso subito a soccorrere co' 600 uomini di
fanteria e cavalleria, e così pure al Principe di Scalèa,
riconoscendo il loro ben servito in quella occasione. E
finalmente, con un'altra sua lettera, inviava la relazione dello
Spinelli intorno alla partenza dell'armata turca, con una seconda
relazione della quale parleremo tra poco, notando come al nemico
fosse accaduto il rovescio de' disegni che avea concepiti, mentre
si restituiva a casa sua con tanto poca riputazione, ed
aggiungendo di avere pur allora avuto avviso da Corfù che il 21
settembre il Cicala era comparso con la sua armata a 30 miglia da
quell'isola in ritorno alle sue coste. Partecipava inoltre che S.
S.tà gli avea concesso di «poter dare la corda a' frati e clerici
catturati per quella rivoluzione, con l'intervento del Nunzio», e
però egli avea subito spedito un corriere a Carlo Spinelli, perché
li mandasse a Napoli con persona prudente e di confidenza. - Ben
si vede come fin d'allora fosse stato dato ordine che i prigioni
ecclesiastici venissero spediti a Napoli; ma per loro disgrazia
l'ordine non potè essere eseguito così presto, poichè, come
vedremo, non si credè opportuno servirsi della via di terra e dovè
aspettarsi che le galere fossero disponibili per servirsi della
via di mare: quanto poi alla licenza avuta dal Papa di dar la
corda a quegli ecclesiastici, bisogna in siffatte parole
riconoscere un'altra di quelle piccole vanterie delle quali gli
spagnuoli si dilettavano molto. La lettera del Card.l S. Giorgio
al Nunzio, la quale tratta dell'incidente, mostra che il Vicerè,
adottando precisamente il parere dello Spinelli, avea dimandato
che s'inviasse un Commissario per conto della Chiesa al luogo in
cui gli ecclesiastici prigioni erano custoditi, perché
intervenisse «agli essamini et à tutti gli atti» che si farebbero,
e per rendere meno ingrata la domanda avea detto che quel
Commissario poteva essere spedito dal Nunzio e rappresentare il
Nunzio: ma S. S.tà avea fatto sentire all'Agente di S. E. che i
prigioni ecclesiastici doveano condursi a Napoli, essendo parso
che per rispetti gravi la causa si facesse piuttosto in Napoli con
la presenza del Nunzio addirittura; e comandava al Nunzio di
ricevere i prigioni, quando verrebbero a Napoli, come prigioni
suoi, e di attendere alla causa con tutta la diligenza necessaria,
mentre d'altro lato i Ministri del S.to Officio interverrebbero
nella parte dell'esame concernente l'eresia. La stessa lettera ci
mostra pure che il Vicerè, al tempo medesimo, si era doluto con S.
S.tà del Vescovo di Mileto perché proteggeva i fuorusciti e si
comportava poco bene con parole e con fatti; inoltre avea
dimandata l'assoluzione dalla scomunica che quel Vescovo avea
lanciata contro il Principe di Scilla ed altri (vale a dire D.
Fabrizio Poerio e D. Luise Xarava), essendo stato restituito alla
Chiesa quel Marcantonio Capito che avea dato occasione alla
scomunica, ed il Papa comandava al Nunzio di far venire il Vescovo
in Napoli, prendere informazioni e riferire, poichè intendeva
soddisfare S. E. su questi due punti.
Avendo il Vicerè mandate non poche lettere e relazioni a Madrid,
potrebbe credersi che di là fossero venuti a quest'ora ordini e
provvedimenti: nulla di tutto ciò; appena nel mese successivo
venne una lettera di S. M.tà in risposta a quante ne erano state
fin allora mandate, e però non accade dovercene pel momento
occupare. Frattanto in Napoli si erano già cominciate a divulgare
le notizie di Calabria; il Vicerè medesimo, smesso il segreto, ne
avea discorso con gli Agenti degli altri Stati accreditati presso
la sua persona, come sappiamo da' Carteggi dell'Agente di Toscana
e del Residente di Venezia. Abbiamo già avuta occasione di parlare
di Giulio Battaglino Agente di Toscana, napoletano e prete,
attaccatissimo al Gran Duca per servitù di vecchia data.
Egli trovavasi in cordiali relazioni col Vicerè e con la
Viceregina, avendoli accompagnati nella loro venuta da Spagna,
dove si era temporaneamente ma inutilmente portato dietro ordine
del Gran Duca, per cercare di ottenergli dal nuovo Sovrano Filippo
III un miglioramento di titolo per parte de' Ministri Regii, che
gli davano semplicemente l'Eccellenza: specialmente era ben visto
dalla Viceregina, per la quale, già da che stava in Ispagna, avea
fatto venire dal Gran Duca una delle solite cassette degli olii ed
un quadretto, né cessò mai più dal far venire e vetri e bambocci
di Lucca, e poi cappelli di paglia, e poi un fucile, poichè la
Viceregina si dilettava pure di caccia, e tra le ville, che
insieme col Vicerè onorava, c'era anche quella del Battaglino
posta sull'alto di Posilipo. Basterà dire che potè scrivere al
Gran Duca: «queste Ecc.ze mi amano et mi tengono in assai buona
opinione, confidano loro negotii, et mi ammette la Sig.ra Contessa
particolarmente padrona del marito (scritto in cifra) a'
trattenimenti del giocar seco alla primiera»; inoltre, «la Sig.ra
Vice Reina mi chiama come creato di casa etiandio mentre la stà a
letto». Con una simile qualità egli nelle sue lettere riesce molto
esatto, ma è più che sobrio ed aggiunge poco o nulla alle cose che
conosciamo mediante il Carteggio Vicereale; con la qualità di
prete poi egli dà prova perfino di lepidezza, quando fa
intravvedere che il Campanella sarà bruciato vivo come eretico. Il
21 settembre egli ebbe dal Vicerè «pieno ragguaglio delle cose di
Calabria», e non mancò di far venire dal Gran Duca lettere di
congratulazione per la «scoverta et insieme oppressa congiura».
Quanto al Residente di Venezia, occupava allora tale ufficio Gio.
Carlo Scaramelli, venuto in Napoli nel luglio 1597, già vecchio in
diplomazia avendo funzionato da Segretario pure in Costantinopoli,
e quindi da lungo tempo consapevole de' malanni e delle miserie
de' calabresi, de' quali in Costantinopoli si trovava una colonia.
Assai più diffuso del Battaglino, nelle sue lettere egli scriveva
quanto poteva raccogliere da ogni parte, e quindi scriveva anche
parecchie frottole le quali dovevano allora aver corso nella
città, ciò che ha pure il suo lato importante. Così rilevasi che
fin dalla 2a settimana di settembre già era penetrata in Napoli la
notizia della scoperta della congiura, la quale riferivasi a
Catanzaro, promossa dal Campanella, in relazione col Turco che
avrebbe dovuto occupare Stilo! Ma il 21 settembre veramente il
Vicerè gli comunicò varii particolari, in ispecie quelli relativi
alle mosse dell'armata turca, ed egli non mancò mai d'innestare
alle notizie autentiche quelle di piazza, come l'essere stato il
Campanella preso in abito militare etc. etc. Noi non intendiamo
qui fermarci sulle lettere del Residente per ismentire le voci
inesatte che vi si trovano raccolte: ci basterà avervi notato il
curioso miscuglio delle notizie di piazza e delle notizie di
Corte, miscuglio che si vedrà continuato anche in sèguito, nello
svolgimento de' processi e nelle rassegne delle esecuzioni. Ma
dobbiamo per ora far avvertire questo fatto, che sebbene, da buon
veneziano, dovesse essere inclinato a ritenere la Spagna maestra
di artificii ed inganni anche ferocissimi, così all'estero come
all'interno, egli non pose mai in dubbio la congiura, né allora né
in sèguito; solamente più tardi raccolse anche l'opinione
manifestata da molti, che coloro i quali aveano da principio
maneggiato tale negozio, l'avessero aggrandito in voce per
aggrandire loro stessi in effetti, ciò che è avvenuto realmente
sempre in ogni negozio di questo genere e non vale ad infermarne
l'essenza. Aggiungiamo che le date e le notizie medesime, con
poche varianti, si riscontrano anche negli Avvisi del tempo, che i
lettori potranno consultare tra' nostri Documenti; vogliamo
soltanto notarvi, che al pari delle lettere del Residente Veneto,
essi diedero anche i nomi di taluni congiurati perfino di secondo
rango. Oltre fra Dionisio Ponzio e Maurizio de Rinaldis, le
lettere del Residente fecero conoscere Claudio Crispo di Pizzoni e
Cesare Mileri di Nicastro; e gli Avvisi fecero conoscere il Barone
di Cropani e Muzio Susanna di Catanzaro. Ma ci conviene tornare
oramai a Carlo Spinelli, allo Xarava e agl'infelici prigioni
calabresi.
Stava ancora lo Spinelli in Castelvetere, quando furono presi in
Stilo e condotti a lui Giulio Contestabile ed un altro (certamente
Geronimo di Francesco); immediatamente, il 28 settembre, egli ne
fece relazione al Vicerè. In questa seconda relazione, scritta da
Castelvetere, rammentava che per altre cause avea inviato in
alloggiamento a Stilo la Compagnia di D. Antonio Manrrique, e
faceva sapere di aver data a costui una nota di alcune persone che
con dissimulazione e tempo avrebbe dovuto catturare,
particolarmente un Giulio Contestabile clerico ne' quattr'ordini
sacri, intorno al quale diceva: «mi sarei recato fino a
Costantinopoli per prenderlo, se avessi saputo di certo che là si
fosse trovato» (onde si vede che alle così dette spagnolate
partecipavano già molto bene anche i napoletani), «essendo questo
clerico uno de' più vigliacchi e de' principali nella congiura,
così come fra Tommaso Campanella, per quello che tengo provato
contro di lui, come pure per avere questo vigliacco preso il
ritratto del Re Nostro Signore e postolo sotto i suoi piedi,
dicendogli mille ingiurie come sta provato». Ora D. Antonio avea
colto ad un tempo costui ed anche l'altro parimente congiurato, e
trovandosi il Contestabile clerico e soggetto del Vescovo di
Squillace, egli aspettava l'ordine di S. E., per sapere cosa
avesse a fare di lui, e se S. E. comandasse d'inviarlo insieme co'
frati, perché così avrebbe eseguito; e frattanto faceva sapere che
avrebbe tradotto que' prigioni a Squillace con gli altri,
recandosi là tra giorni. Aggiungeva che in conformità degli ordini
avuti per far prendere i clerici di Seminara, colpevoli di
resistenza alla giustizia e di ripresa di carcerati dalle mani di
essa, avea provveduto in guisa che, essendo presi, li
consegnerebbe in nome di S. E. al Vescovo di Mileto; e a tale
proposito diceva, «questi clerici vanno armati di ogni specie
d'armi, e sempre stanno nelle Chiese con altri fuorusciti
favorendosi vicendevolmente, ciò che questi Vescovi permettono, e
temo che la maggior parte delle vigliaccherie che si fanno sieno
imputabili a' clerici, propriamente perché non vengono gastigati e
sono di esempio agli altri». - Ma come mai era avvenuto un simile
cambiamento verso il Contestabile e il Di Francesco? Il Campanella
non ne parlò nella sua Narrazione, tuttavia ne abbiamo notizie
sufficienti negli Atti giudiziarii che si conservano in Firenze, e
non ne manca qualche cenno anche nel processo di eresia. Sappiamo
che dopo la denunzia del Contestabile e la richiesta di una
Commissione al Di Francesco contro il Campanella e complici, la
Commissione fu accordata: entrambi si diedero alla ricerca
degl'incolpati, e come assai più tardi ebbe a dire fra Pietro di
Stilo nel processo di eresia, entrambi cercarono di far pigliare
Gio. Geronimo Prestinace morto o vivo; quanto poi al Campanella,
come ci mostrano gli Atti di Firenze, essendo stato lui già preso,
ne furono dal Di Francesco carcerati i parenti. Abbiamo visto che
il Campanella si mostrò esasperato contro di loro fin dal momento
della sua cattura, e che nello scrivere la sua Dichiarazione calcò
la mano particolarmente sul Contestabile e il Di Francesco,
esponendo fra le altre cose l'oltraggio fatto da Giulio al
ritratto del Re; ma in sèguito, e forse nel sapere che il suo
vecchio padre e il suo fratello Gio. Pietro erano venuti nelle
stesse carceri di Squillace per mano di que' ribaldi, egli diede
contro il Contestabile una formale denunzia o «capi in scriptis»
come allora si diceva; ed anche il Petrolo diede una Dichiarazione
scritta nello stesso senso, che trovasi integralmente inserta
nella Difesa del Contestabile, e che poi in Napoli disse di avere
scritta ad istigazione del Campanella. Si trattava sempre
dell'oltraggio fatto dal Contestabile al ritratto del Re Filippo
nella camera di fra Tommaso, e non vi fu nemmeno una completa
uniformità nella esposizione delle circostanze occorse da parte di
entrambi i rivelanti, senza dubbio perché non ebbero agio di
ridursele bene a memoria tra loro. Ad ogni modo ne risultò la
cattura di lui e del Di Francesco, mentre non si era per anco
compita l'informazione commessa all'Auditore Di Lega su i capi che
il Contestabile avea dato contro il Campanella, e condotti
dapprima a Castelvetere, tra il 22 e il 23 settembre, vennero
anch'essi nelle carceri di Squillace al sèguito di Carlo Spinelli.
A Squillace intanto lo Xarava non era rimasto inoperoso. Tutto
induce a ritenere aver lui, anche da solo, atteso a continuare
gl'interrogatorii e le torture: poichè dalla numerazione de' folii
del volume 2.° del processo veniamo a conoscere che, dopo Claudio
Crispo, furono successivamente esaminati Cesare Mileri e diversi
testimoni, il Gagliardo, il Conia, il Marrapodi, l'Adimari, e poi
il Pisano, e vedremo che in una relazione dello stesso Xarava, del
28 settembre, è citata una deposizione del Pisano, la quale,
trovandosi integralmente riportata in copia nel processo d'eresia,
mostra essere stata fatta il 24 settembre alla presenza del solo
Xarava; oltracciò anche nella relazione predetta è annunziata
l'esecuzione capitale di due disgraziati avvenuta il 27, ed è
scusato il ritardo nella spedizione de' rimanenti con l'assenza
dello Spinelli e con la malattia e morte del Mastrodatti, onde si
era mandato a chiamare un altro che lo sostituisse. Calcolando
tutte queste circostanze e tenendo presenti le date, bisogna
conchiudere che lo Xarava abbia agito egli solo, mentre lo
Spinelli era occupato a guardare le mosse dell'armata turca, e che
poi, menati a termine gli Atti, lo Spinelli sia intervenuto nella
spedizione, ossia nella pronunzia della condanna di coloro pe'
quali non rimaneva a far altro. Ecco ora i risultamenti degli
esami per ciascuno de' soprannominati, giusta i cenni che se ne
hanno negli Atti conservati in Firenze.
Cesare Mileri depose essergli stato detto da fra Dionisio che avea
concertato con fra Tommaso e Maurizio una congiura per ribellare
il Regno, che per questo aveano l'aiuto del Turco, che intendevano
d'impadronirsi di molte terre, che «il capo di detta congiura era
D. Lelio Ursino il quale si voleva impatronire di tutto il Regno»,
che a tale effetto aveano concertato di fare una massa di
fuorusciti ed altre genti, ed in ogni terra tenevano molti
congiurati «preparati pel momento in cui giungesse l'armata del
Turco»; che fra Tommaso diceva dovere questo Regno nel 1600 mutare
padrone e dovervi essere gran rivolture, che egli si offerse di
stare in ordine con altri congiurati e di trovare altri compagni;
che dopo andò a vedere Francesco Antonio Dell'Ioy amico suo e gli
comunicò la congiura, e costui gli disse che stava in ordine
poichè fra Dionisio già glie l'avea comunicata, e parimente Gio.
Francesco di Nuzzi gli disse lo stesso. Aggiunse che tanto fra
Dionisio quanto il Dell'Ioy dicevano essere in quel concerto molti
fuorusciti ed altra gente di qualità di quella provincia, ed egli
lo sapeva, perché da giugno in poi, sino a che fra Dionisio si
pose in fuga, egli l'accompagnò in alcune terre, in Catanzaro, in
Girifalco, in Nicastro ed altre, nelle quali fra Dionisio parlava
segretamente con diverse persone e poi gli diceva che quelle
persone dovevano prender parte alla rivolta. Aggiunse ancora
essergli stato detto da fra Dionisio, che egli medesimo e il
Campanella avevano mandato in Turchia a trattare col Turco acciò
fosse venuto in soccorso «volendogli dare molte fortellezze e
terre in potere», e che a tale effetto nel mese di giugno era
venuto Amurat Rais con le galere per conchiudere la ribellione, e
su quelle galere era andato Maurizio de Rinaldis ed avea conchiuso
che l'armata fosse venuta in settembre; che egli, il Mileri, con
quelli da lui nominati «e tutti gli altri che erano concorsi»,
aveano concertato che alla venuta dell'armata turchesca sarebbero
entrati nelle terre, avrebbero ammazzato tutti gli Ufficiali e
coloro i quali ricusavano di aderire, e avrebbero dato aiuto
all'armata turchesca «acciò fusse entrata dentro dette provintie
et impatronitasi delle terre con fortellezze». Infine, interrogato
sulla causa della ribellione, depose che «fra dionisio, quando li
cominciò à ragionare di questa rebellione, li disse, che il Rè era
uno tiranno et mandava tanti alloggiamenti, et li facea pagare
pagamenti fiscali et non l'havea voluto mandare l'indulto, e li
tenea cossì oppressati, e perciò li persuase si fusse rebellato
perché saria vissuto liberamente et senza tanti travagli, et esso
deposante si contentò ribellarsi per vivere liberamente senza
essere soggetto alla Corte, et aspettava la giornata che si havea
da fare». Fu questa la deposizione del Mileri, ed essa mostra che
questo giovane senza esperienza, il quale certamente non era stato
fatto consapevole di molte particolarità sulla congiura, dovè non
solo perdersi di animo, ma anche concepire grandi speranze di
potersi salvare prestandosi alle più estese rivelazioni. Dopo che
ebbe deposto, gli fu amministrata la tortura, durante la quale
confermò ogni cosa, ma rettificò ciò che concerneva Gio. Francesco
Nuzzi, dicendo che non era intervenuto nel trattato. È lecito
credere che non dovè sottostare ad una grossa tortura, poichè
evidentemente avea rivelato anche troppe cose, e in quanto a sè
medesimo avea confessato nel più ampio modo: la tortura dovè
essergli amministrata, come allora si diceva, «ad tollendam omnem
maculam et ad afficiendos complices», e riesce senza dubbio
notevolissimo che in essa egli ebbe piuttosto a diminuire le
rivelazioni fatte. Circa poi il merito di queste rivelazioni, non
può non colpire che mentre aveva accompagnato fra Dionisio per
diverse terre e vistolo confabulare con parecchi, non fosse giunto
a conoscere il nome di alcuno, neppure delle persone di Nicastro
sua città natale, oltrechè, impegnatosi a trovar socii, in tanto
tempo non avesse saputo trovare che il solo Dell'Ioy; e frattanto
diceva essersi «concertato con tutti gli altri che erano concorsi»
e con costoro dover fare la rivolta ed aiutare l'armata turca, per
darle le terre e le fortezze, come ripeteva più volte. Si può
facilmente qui vedere la sollecitazione dello Xarava, che con ogni
probabilità dovè perfidamente lusingare l'ingenuo cospiratore, e
co' suoi interrogatorii suggerirgli quanto volle che egli
deponesse. Il Mileri avea ben potuto conoscere che c'era un
progetto di rivolta e decidersi a prendervi parte; forse avea
potuto anche udire da fra Dionisio le mutazioni previste dal
Campanella, poniamo anche doversi avere l'aiuto del Turco, e
perfino dover essere D. Lelio Orsini il futuro padrone del Regno,
perocchè fra Dionisio si era già posto in via di dirne d'ogni
specie per eccitare gli animi: ma difficilmente avea potuto sapere
più di questo, onde si spiega il fatto che a suo tempo vedremo,
dell'avere cioè anche lui, quando veniva barbaramente giustiziato,
con altissime grida smentite le cose dette. Intanto rileviamo che
egli era «confesso», e quindi spacciato.
Dopo di lui venne la volta del Gagliardo e compagni, i quali
intendevano sempre di rappresentare la parte di rivelanti,
esponendo le cose dette loro da Cesare Pisano, mentre il tribunale
pretendeva che fossero complici. Ma parrebbe che gli esami di
costoro fossero stati fatti in Castelvetere, e poi ripetuti anche
con la tortura in Gerace: quest'ultima circostanza è sicura, come
vedremo più oltre; la prima trovasi attestata dal Gagliardo
medesimo, ma in una sua confessione posteriore di varii anni,
avutasi quando, per altri delitti, stava per essere giustiziato.
Felice Gagliardo fece un'amplissima deposizione. Narrò che già
prima della venuta di Cesare nelle carceri, fra Giuseppe Bitonto
avea detto che tratterebbe le cose di lui in Condeianni, e
frattanto stesse di buon animo «che vederà succedere cose che li
saranno di grandissima utilità». Narrò poi la visita fatta al
Pisano dal Campanella, da fra Dionisio e dal Bitonto, nelle
carceri di Castelvetere verso il 1° luglio, con ragionamenti
segreti e la presentazione che il Pisano fece di lui al
Campanella, siccome uomo che potea «servire et movere genti», e le
parole dettegli da fra Tommaso, «dati credito a quello che vi dirà
et raggionerà Cesare, per che quanto ve dirà depende da me» (le
quali proposizioni servirono pur esse in sèguito come gravissimo
capo di accusa contro il Campanella); inoltre narrò le parole
dettegli da fra Dionisio, «attendetivi à disbrigare, perché fra
Gioseppo vicario de Condeianne vi procurarà la remessione delle
parti, et come sareti fore, raggionaremo di meglio garbo, fra
tanto Cesare Pisano vi raggionarà a luongo, datili credito»! Narrò
di avere udito da detto Cesare e da' frati che erano venuti ad
oggetto di trattare col Principe della Roccella per fare liberar
Cesare, il quale di poi comunicò così a lui come al Marrapodi e al
Conia, che il Bitonto in S. Giorgio gli avea detto essere
Campanella il primo uomo del mondo, ed essere andato molto tempo
in giro trattando con molti potenti e particolarmente col Turco
mediante lettere, «per far sollevare questo Regno, et levarlo
dalla suggezione di Rè di Spagna et metterlo in libertà, et che
per tale effetto havea uniti li fuorusciti dell'una et l'altra
provintia di Calabria al numero di 800, et che pensavano un giorno
di questo mese di Settembre fare detta sollevatione, et che
volesse esso Cesare entrare in detta congiura, et che convocasse
quanti amici et parenti potesse, al che esso Cesare s'offerse».
Aggiunse di aver udito parimente da Cesare che alla congiura
partecipava il Vice-Conte di Oppido fratello di fra Dionisio, e
che stando in Oppido in compagnia di detti frati e del Vice-Conte,
il Campanella scrisse una lettera e la mandò per lui a' fratelli
Moretti, i quali vennero allora in Oppido e si riunirono in
segreto soli, e presero concerti per la rivolta. Aggiunse pure di
avere udito dallo stesso Cesare che «il Campanella havea stabilito
alli congiurati nova sorte di vestiti, cioè una tabanella bianca
fino alle ginocchie con maniche lunghe, et un coppolicchio
(intend. berrettino) ligato à modo di turbante di Turcho, et che
havea da mutare linguaggio, et che voleano uccidere tutti li
Preiti, et Monaci che non voleano adherire, et che voleano
brusciare tutti li libri et fare nuovo statuto, et che voleano
liberare tutte le Monache dalli monasterij, et voleano fare il
crescite etc. e gridare à tempo del sollevamento, viva la libertà
et mora Rè di Spagna, et che voleano tagliare à pezzi lo
Governatore, et auditori et tutti quelli che non erano della loro
parte, et così fare voleano à Stilo et altre terre, et uccidere
tutti li Signori della Provincia, quali chiamavano tiranni, et nel
Castello di Stilo s'havea da gridare, viva la libertà, et mora il
Rè, et volevano fare Stilo Repubblica et chiamare il detto
Castello Mons pinguis, et che fra Tomase si havea da chiamare il
Messia venturo, come già detto Cesare lo chiamava, et fatta detta
sollevatione, haveano d'andare per ogni terra li predicatori à
predicare la libertà, et che saria venuta l'armata del Turco à
darli aggiuto». - Per verità non si può non riconoscere che
avessero dovuto realmente esservi stati discorsi molto spinti non
solo sulla congiura ma anche su' disegni delle riforme le quali si
sarebbero attuate nella futura repubblica, sia tra il Bitonto e il
Pisano, sia, come è pure assai credibile, tra il Bitonto e lo
stesso Gagliardo prima della carcerazione di costui: lo mostrano
le notizie perfino su' nuovi abiti da doversi indossare, alludendo
senza dubbio a' cittadini del nuovo Stato, e su' libri da doversi
bruciare, alludendo senza dubbio a' libri latini in materia di
fede e di pratiche religiose; le quali notizie furono anche
accertate da fonti abbastanza sicuri, ma venendo in processo molto
tempo dopo e senza alcun rapporto con la deposizione del
Gagliardo. Si direbbe pure che sempre nuove notizie avessero
dovuto di tempo in tempo giungere a' detenuti nelle carceri di
Castelvetere, poichè essi sapevano perfino il tempo della venuta
dell'armata turca, la quale notizia non poteva conoscersi ancora
allorchè furono rinchiusi nel carcere: ma qui probabilmente influì
la voce che già se n'era diffusa, ovvero anche la studiata maniera
d'interrogare dello Xarava facilmente compresa dal Gagliardo, il
quale per certo non era uomo da farsi scrupolo per le menzogne.
Quanto poi all'essersi i Moretti concertati col Campanella, con
gli altri frati e con Ferrante Ponzio in Oppido, dietro una
lettera scritta loro da fra Tommaso e portata da Cesare Pisano, è
possibile che costui l'abbia detto tra' compagni di carcere, per
vantare l'opera sua ed anche per accrescere l'importanza della
congiura con nomi di persone molto riputate; ma da nessun'altra
parte emerse mai alcun cenno di una escursione del Campanella in
Oppido, e del resto vedremo che il Pisano medesimo sul punto di
morte si disdisse esplicitamente intorno a' Moretti.
Seguì l'esame di Geronimo Conia. Egli fece una deposizione non
dissimile da quella del Gagliardo, dicendo ancora di avere udito
da Cesare Pisano, che gli piacevano i pensieri del Campanella
comunicatigli da fra Dionisio, che più volte avea condotto Eusebio
Soldaniero a Stilo presso il Campanella, che costui e fra Dionisio
aveano trattato co' Vescovi di Mileto e di Oppido i quali gli
offersero aiuto, e il Vescovo di Mileto avea favorito i fuorusciti
della sua diocesi per tenerli ad ogni sua richiesta o devozione,
ed aveva anche scritto al Vescovo di Gerace ed al Principe della
Roccella per far liberare Cesare. Aggiunse che Cesare era andato
col Campanella, con fra Dionisio, col Bitonto e col Jatrinoli,
alla Grotteria presso fra Paolo, e quivi mandato a chiamare Notar
Domenico Spasari, il Campanella e fra Paolo cercarono persuaderlo
di consentire alla congiura, come uomo potente che egli era,
perché confidavano potersi la Grotteria guardare con cento uomini;
ma lo Spasari disse di non poter dare altro aiuto che di danaro, e
fra Paolo disse che se ne sarebbe poi parlato, e il Campanella
disse che non v'era bisogno di danaro ma si contentava di ciò che
avrebbe trattato con fra Paolo. Aggiunse infine, sempre a detto di
Cesare, che di questa congiura si era cominciato a parlare fin da
quaresima scorsa, al tempo in cui il Campanella leggeva filosofia
a' fratelli Moretti, ma nel maggio propriamente si era cominciata
ad ordire. - Tale fu la deposizione del Conia. Essa non ci dà,
come quella del Gagliardo, indizii d'intelligenze anteriori tra il
Conia ed i frati, ma pure vi si può notare la rivelazione delle
intelligenze corse tra il Campanella ed alcuni Vescovi, ciò che
mostrerebbe perfino avere fra Dionisio già messo innanzi i Vescovi
prima della sua andata a Catanzaro; in fondo poi essa riusciva ad
aggravare di molto le condizioni di fra Paolo, ed esprimeva sempre
le vanterie di Cesare Pisano, il quale in realtà parrebbe che
avesse voluto mostrare ai suoi compagni di carcere non esservi
alcuno più di lui informato delle cose della congiura.
Successivamente si ebbero le deposizioni di Gio. Angelo Marrapodi,
di Orazio Santacroce e Camillo Adimari. Costoro, come si espresse
il Mastrodatti nelle scritture che possediamo, deposero nel modo
medesimo del Gagliardo: solamente il Marrapodi aggiunse di non
aver voluto condiscendere, e di aver avuto dal Pisano la
raccomandazione che almeno non dicesse nulla; l'Adimari, dal canto
suo, aggiunse che non l'aveano rivelato prima perché non gli
diedero credito, e quando udirono essere stato carcerato il
Campanella, tennero quelle cose per vere e le rivelarono al
Principe. Tutto per verità induce a credere che costoro, compreso
il Conia, non avessero condisceso in modo formale alle premure del
Pisano, il quale, come vedremo a suo tempo, sul punto di morire li
scusò interamente, nominandoli ad uno ad uno e tralasciando solo
il nome del Gagliardo.
Veniamo all'esame di Cesare Pisano. Intorno a costui sappiamo che
fece la sua deposizione, ebbe il tormento, ratificò la confessione
fatta in tormento e nello stesso giorno fu sottoposto a un nuovo
esame che porta la data di Squillace 24 settembre: abbiamo dunque
una data certa che ristabilisce la cronologia precisa del nostro
racconto. Nella deposizione il Pisano cercò di vendicarsi del
Gagliardo. Disse che non conosceva il Campanella né fra Dionisio,
ma solo il Bitonto, il quale gli era cugino; che col Bitonto erano
venuti alle carceri di Castelvetere due altri frati, uno de' quali
seppe dal Gagliardo essere il Campanella, e vide que' frati e il
Gagliardo parlare un pezzo segretamente, e quindi Felice gli disse
che aveano parlato di negromanzia lodandogli il Campanella come un
grande uomo. Negò il fatto della congiura, ma attestò che il
Gagliardo, dopo di aver conferito co' frati disse, «questi Monaci
parlano di gran cose, non per Dio posso credere che loro ne
possano uscire». Fu allora posto alla corda, malgrado la sua
qualità di clerico; e la corda dovè essere terribile, o dovè
fargli un terribile effetto, poichè in essa rivelò tutta la
congiura. Narrò che nel maggio scorso era andato a Bagnara e
Messina col Bitonto e fra Dionisio, e che il Bitonto, prima
d'imbarcarsi gli disse, «stà di buon animo, che voglio che te
trovi ad una fattione che volimo fare, che sarà l'esaltatione
tua», aggiungendo che era cosa di grande importanza, che vi
bisognavano uomini di valore e che al ritorno glie la
dichiarerebbe; come infatti, al ritorno, incontrati i detti frati
con fra Giuseppe Jatrinoli e il bastardo di Alfonso Grillo di
Oppido, gli dissero di andare con loro a Stilo per vedere il
Campanella, ed avendo la sera pranzato in Stignano, quivi fra
Dionisio e il Bitonto gli comunicarono che col Campanella
avrebbero presa risoluzione di ribellare il Regno e sottrarlo al
dominio del Re di Spagna, avendo con loro molti fuorusciti e molti
gentiluomini e Signori, tra' quali nominarono il Marchese di
Arena. Giunti a Monasterace dove trovavasi il Marchese, fra
Dionisio e il Bitonto parlarono un pezzo segretamente col
Campanella, ed insieme si recarono presso il Marchese, quindi i
tre frati col resto della compagnia se n'andarono a Stilo: nel
convento di Stilo trovarono parecchi fuorusciti, e l'indomani i
frati negoziarono a lungo col Campanella, e di poi costui, nel
licenziarsi dal Bitonto e dal Jatrinoli, poichè fra Dionisio
rimase con lui, disse che andassero con cautela e segretezza.
Aggiunse che, incontrato un gentiluomo di casa Prestinace, i detti
frati Bitonto e Jatrinoli parlarono strettamente con costui, e poi
gli comunicarono essere anche costui de' congiurati. Aggiunse che
il Bitonto gli disse inoltre avere fra Dionisio predicato in
Terranova, ed avere quivi concertata la ribellione col proprio
fratello, e con altri. - Questo sunto della confessione del Pisano
certamente non è completo: sappiamo infatti dalla sua
«esculpatione» in punto di morte, che disdisse quanto avea detto
«alla corda che ebbe in Squillace» circa Orazio Santacroce e il
fratello di lui, come pure circa Geronimo Conia; ciò serva una
volta di più a fare avvertire che ci rimane sempre a conoscere non
poco intorno a' laici involti in questa causa. Pertanto la
confessione fu da lui ratificata, come per regola si dovea sempre
fare scorse 24 ore. E nello stesso giorno si volle interrogarlo
sulla nuova legge che il Campanella intendeva di pubblicare, e qui
il Mastrodatti che fece il Riassunto degl'indizii scrive di
omettere le eresie nefandissime e detestabilissime dette dal
Pisano «propter earum turpitudinem»: ma avendo la copia del
processo verbale, che fu poi in Napoli trasmessa al tribunale per
l'eresia, possiamo dare un piccolo saggio almeno dei tratti
principali, massime in rapporto alle cose del nuovo Stato da
fondarsi ed alla partecipazione de' voluti complici. Disse dunque
che a Stignano, in casa del Grillo, oltre i frati suddetti era
venuto anche fra Domenico Petrolo, e si era parlato del Campanella
affermando che «era lo primo homo del mondo, et il vero
legislatore et vero Messia che havea da reducere li huomini alla
libertà naturale con la vera raggione, poi che Christo con dudici
poveri huomini s'haveano impatronito del mondo, et esso campanella
voleva monstrare come era tutto falso, et che con la sua predica
et dottrina, et con il valore de tanti che lo sequitavano con le
arme haveria levato la fede de cristo, et impatronitosi esso del
mondo dicendo che il Papa, et l'Ecclesia non erano vere, ma era
autorità usurpata, et che se l'haveano pigliata per dominar' il
mondo, et che li monasterii di monaci et moneche l'haveano fatti
acciò non se creassero homini, et che il Papa et Cardinali,
Arcevescovi, et altri prelati erano tutti tirandi et sodomiti, et
che Cristo era un pover'homo, et che s'havea pigliato per apostuli
dudici peczienti, et che li miraculi che havea fatto tanto Cristo,
quanto li santi non era vero, ma erano stati scritti dalli detti
apostuli soi parenti, et che li miraculi fatti da san' Francesco
de paula non erano miraculi, ma che l'havea fatti in virtù
dell'herbe perche era girugico; et che non era vera la santiss.a
Trinità, mà che era un solo Idio, et che la madonna santiss.a era
moglie di san'Gioseppe, et che non nce era inferno, ne purgatorio,
ne diavoli, ne angeli, et che l'anime tanto di turchi, quanto di
Cristiani quando passavano da questa vita tutte andavano à Dio». E
qui una serie di goffe ed immonde scempiaggini contro gli
Apostoli, contro i Sacramenti, in ispecie contro il sacrificio
della Messa, e poi «che il campanella era il vero messia che havea
da redurre il mondo in libertà et levarlo da tirannia della setta
che steva, et che ogniuno potria essere signore che s'haveriano
spartuto bonamente tutte le cose tra loro in comune se goderiano
li signore (forse si godevano li Signori) alli quali chiamavano
tiranni del mondo, et che Dio non fece ecceptione di nullo, et
tutte le robbe le creò per servitio de tutti, le quali cose
havendo inteso esso deposante, si bene non le credeva in tutto,
concorreva con lloro che li dicevano; questo è pensiero deli
litterati, et predicaturi di farlo conoscere al mondo, che delli
populi non voleano altro eccetto le arme, et cossì esso deposante
nce concorreva de buon'animo à detta rebellione». Dietro altre
interrogazioni disse che ciò era accaduto in giugno, dieci o
dodici giorni prima della sua carcerazione, che nelle carceri di
Castelvetere avea comunicato tutte queste cose a Felice Gagliardo,
il quale «li respose che esso le sapeva più prima, poi che nce
l'haveano detto li predetti fra Gioseppe bitonti et frà Gioseppe
Jatrinoli che ad altri esso deponente non l'hà detto, mà tutti li
predetti monaci erano di detta openione che alla loro persuasione
esso deposante nci concorreva più per la libertà della rebellione
che per altro». - È inutile ora fermarsi sul valore di queste
rivelazioni del Pisano: si dissero poi molte cose almeno per
attenuarle, ma vedremo che sul punto di morte egli le smentì
appena in piccola parte e ne aggiunse alcune altre, affermando di
averle omesse «ad instigatione et prighiere di fra Thomase
Campanella» quando erano carcerati «in la città di Squillaci».
Intanto egli era confesso sull'accusa di aver consentito alla
ribellione, e quindi non doveva aspettarsi che una condanna
capitale: ma occorreva ancora fare una confronta tra lui ed altri
che si trovavano in Gerace, e quindi fu riserbato ad ulteriori
esami ed ulteriori strazii in quella città.
Dopo il Pisano potè forse essere esaminato qualche altro testimone
di nessuna importanza, come un Domenico Messina, ed ancora
Giuseppe Grillo, il quale fece del pari una deposizione
insignificante; poichè disse solo aver conosciuto fra Dionisio in
Oppido, quando vi andò a vedere suo fratello Ferrante, e poi
averlo accompagnato, due giorni dopo, a Condeianni, di dove,
unitamente col Bitonto, col Jatrinoli e col Pisano, venne ad
alloggiare per una sera in una casa di Gio. Alfonso suo padre, e
l'indomani se ne partirono e non li vide più. Ma per certo le
confronte del Pisano con altri, e gl'importanti esami di Gio.
Tommaso Caccìa, che dalla numerazione de' folii del processo
risultano al sèguito di quelli finora narrati, non si fecero in
Squillace: lo attestò più tardi in Napoli, nel tribunale per
l'eresia, fra Domenico Petrolo, il quale disse che il Caccìa «in
Squillaci non fù essaminato... et in hieraci hebbe la corda»; ciò
che del resto si spiega con l'incidente della mancanza del
Mastrodatti, e con l'ordine dello Spinelli che si cominciasse a
far giustizia e che il tribunale si trasferisse a Gerace. Vi fu
dunque una temporanea sospensione dello svolgimento del processo,
durante la quale si ebbe l'esecuzione di Claudio Crispo e Cesare
Mileri, che conosciamo mercè una relazione dello Xarava, ed ancora
la tanto aspettata cattura di fra Dionisio, di Maurizio, di Gio.
Battista Vitale ed un altro, che conosciamo mercè una lettera di
Gio. Geronimo Morano; questi due documenti, da noi rinvenuti in
Simancas, ci pongono in grado di esporre i fatti anzidetti in
tutti i loro particolari. - Lo Xarava, ottenuta dal Pisano quella
deposizione infarcita di eresia, ebbe cura d'inviarne copia al
Vicerè per trarre profitto di tale circostanza, come già altra
volta lo Spinelli avea fatto: esagerando ogni cosa fuor di misura,
egli voleva indurre il Vicerè ad ottenere senz'altro da Roma la
licenza di proseguire in Calabria il processo contro gli
ecclesiastici, ed è notevole l'accanimento che in tale occasione
mostrava contro il Campanella. «Tra gli altri, egli scriveva, che
hanno confessato il trattato e congiura di ribellarsi contro il Re
nostro Signore, uno che si chiama Cesare Pisano, gentiluomo della
terra di S. Giorgio, ha deposto le eresie che V. E. potrà
comandare di vedere con la copia del capitolo della sua
confessione che va con questa; il quale capitolo mi è sembrato
d'inviare a V. E. perché possa considerare il danno che questo
maledetto eresiarca del Campanella deve aver fatto in queste
provincie, avendo contaminata la maggior parte della gente di esse
con la sua abominevole e falsa dottrina, che secondo confidava di
trarre ad esecuzione il suo dannato intento, come già avea
concertato con la venuta dell'armata, è segno certo che tenea
molti a sua devozione i quali seguivano la sua falsa setta, perché
essendo uomo di tanto pellegrina intelligenza, siccome mostra, non
può immaginarsi che si mettesse a tentare un'impresa tanto ardua
senza sufficiente fondamento di aiuto, e tale da potergli
assicurare il successo che si prometteva e dava ad intendere a
tutti; e per potere scovrire queste cose e sradicare e gastigare
coloro che sono incorsi in simili errori contro Dio e S. M.tà, non
potendosi farlo interamente senza il braccio di S. S.tà, per
esservi in mezzo tanti ecclesiastici che sono gli autori da' quali
si debbono sapere gli altri, potrà V. E. comandare che si prenda
l'espediente che meglio le sembrerà convenire». Ma S. E. avea
preso l'espediente, fin da che lo Spinelli glie ne avea scritto
altra volta, e non avea potuto ottenere da Roma quanto si
desiderava.
Il 27 settembre si fecero le prime esecuzioni capitali in persona
di Claudio Crispo e Cesare Mileri, e per dare l'esempio in più
largo teatro, si fecero in Catanzaro. La relazione medesima dello
Xarava, scritta il giorno dopo, ne dà le notizie autentiche, e
solamente tace i nomi de' giustiziati: ma oltrechè non ci
sarebbero altri cui poter riferire quelle esecuzioni, i nomi
suddetti emergono anche da testimonianze raccolte nel processo di
eresia; d'altronde li cita con tutta esattezza una lettera del
Residente Veneto, la quale fornisce anche particolari molto
precisi comunque incompiuti, mentre due lettere dell'Agente di
Toscana accennano il fatto senza nomi e senza troppi particolari.
«Si è cominciato, scriveva lo Xarava il 28, a far giustizia di
questi carcerati con la dimostrazione che il delitto richiede,
essendosi ieri mandato a eseguire quella di due in Catanzaro:
furono condannati ad essere arrotati, tanagliati e strozzati in
mezzo alla piazza, e ad esser quivi appiccati per un piede, a dopo
24 ore a essere fatti in quarti e poste le loro teste in una
gabbia sopra la porta principale della città col titolo de' loro
nomi e del delitto, inoltre ad avere diroccate le loro case e
confiscati i loro beni». Tutte queste circostanze ed in ispecie le
ultime sono degne di nota. Il Campanella, nell'Informazione,
scrisse che «nullo fu condannato per ribello veramente, non
confiscandosi beni, né spianandosi le case loro», ma pur troppo
non fu così: scrisse inoltre, nella Narrazione, che «dui morti in
Catanzaro da Xarava si ritrattaro» e da questo lato, senza parlare
della contradizione coll'altro asserto, dobbiamo dire che vi fu
realmente qualche cosa di simile, difatti più tardi in Napoli, nel
processo dì eresia, il Barone di Cropani e il Di Francesco
attestarono che que' disgraziati, con altissime grida, dicevano
aver confessato la ribellione per forza di tormento e persuasione
dello Xarava. Noi abbiamo a suo tempo fatto osservare che ciascuno
di loro avea dovuto confessare più cose che non gli costavano,
l'uno pe' tormenti, l'altro per le persuasioni dell'interrogante,
e però potea bene spiegarsi una loro consecutiva ritrattazione,
bensì parziale: ma del resto l'orribile strazio che si fece di
loro dovè farli gridare pur troppo, e forse dire di non sentirsi
colpevoli di ribellione, non potendo nemmeno capacitarsi che un
disegno delittuoso si dovesse punire come un delitto consumato.
Intanto essi morivano entrambi nel modo più atroce, mentre c'era
anche una sensibile differenza nel grado della loro colpa. Il
Crispo lasciava un fratello giovanetto ed il padre, Ferrante; il
Mileri lasciava due sorelle fanciulle senza alcuno appoggio, e
nell'Archivio di Stato abbiamo rinvenuto un documento che ne
attesta la misera fine.
IV. Compiute le due prime esecuzioni, il tribunale venne
trasferito a Gerace, dove lo Spinelli avea determinato di far
residenza per ragioni che tra poco ci saranno chiare, ingiungendo
allo Xarava che vi si recasse. Il giorno 29 lo Xarava partì per
quella città «con tutti i carcerati», tra' quali Cesare Pisano che
dovea confrontarsi con altri detenuti appunto in Gerace; ma quivi
occorse pure aspettare l'arrivo di un altro Mastrodatti capace di
servire all'ufficio, che lo Xarava avea mandato a chiamare. Vi fu
dunque un trasporto di tutti i carcerati, durante il quale i frati
poterono vedersi ma non mettersi in relazione tra loro, e si ebbe
in sèguito dal Petrolo, nel tribunale per l'eresia, la notizia di
un fatto del Campanella avvenuto in tale occasione. Solevano i
prigioni tradursi a coppie, «ligati a mano a mano con una corda»
formando una catena: una squadra di armati li accompagnava, e il
capo di squadra era allora uno spagnuolo. Costui marciando a
cavallo dovè dirigere al Campanella qualche parola discorrendogli
di morte: il Campanella filosoficamente gli disse che non v'era
morte, ma mutazione di essere; il Petrolo, che veniva dietro di
lui, udì quelle parole e poi le ripetè, confessando di non saper
bene «come lui l'accomodasse».
Scorsi pochi giorni, venne la notizia che fra Dionisio, Maurizio e
Gio. Battista Vitale, erano stati presi: il 30 settembre Gio.
Geronimo Morano, con una sua lettera da Monopoli, l'annunziava al
Vicerè in Napoli e naturalmente anche allo Spinelli in Calabria.
Il Morano scriveva che partitosi di Cosenza in traccia di Maurizio
e del cognato di lui con due altri compagni, caminando giorno e
notte e tenendo sempre nuove fresche, avea preso fra Dionisio in
Monopoli; poi, continuando sempre sulla traccia di Maurizio, avea
preso in Nardò un Gio. Ludovico Todesco, ed avea quivi saputo che
Maurizio si era imbarcato a Brindisi sopra una Marsigliana
comandata da Francesco Maresca per recarsi a Venezia; avendolo
seguìto per terra ed avendo saputo che la Marsigliana dovea
caricare olio a Monopoli, erasi quivi diretto ed avea trovata la
nave ancorata a due miglia dalla città, non permettendo il mare
procelloso né che la nave si potesse avvicinare, né che la gente
potesse montare a bordo. Il 30, calmatosi il mare, il Governatore
di Nardò Agostino di Guardisciola ed il Giudice Stefano Garonfalo,
con due feluche, si spinsero verso la Marsigliana, presero
Maurizio e il Vitale e li consegnarono al Morano. Costui, il
giorno dopo, traduceva tutti que' prigioni in Calabria a Carlo
Spinelli. Dandone l'annunzio al Vicerè, egli scrivea: «riceva V.
E. l'animo con che l'ho servito, et non haria sparagnato la vita
per condurre infine questo servigio, come farò in ogni altra
occasione del servitio di sua Maestà et di V. E.». - Adunque
Maurizio avea saputo sfuggire a' suoi persecutori, traversando
nientemeno che le provincie di Basilicata, Bari e terra d'Otranto,
in compagnia di fra Dionisio, Gio. Battista Vitale e un Gio.
Ludovico Todesco, il quale ultimo vedesi soltanto qui nominato, e
mostra bene esserci rimasto ignoto un certo numero di congiurati
anche d'importanza; se il braccio del Governo, aiutato anche dalla
fortuna di mare, finì per raggiungerlo, ciò non toglie nulla alla
destrezza che egli seppe mostrare. D'altra parte tutto ciò
conferma abbastanza aver lui veramente avuto in animo di salvare
il Campanella, quando si diede a corrergli dietro fin oltre
Stignano; poichè se si fosse proposto di guadagnare l'indulto col
sacrificio di un complice, potea bene sacrificare fra Dionisio,
che agli occhi del Governo avea quasi lo stesso valore del
Campanella. Si vede pertanto come erri il Giannone nell'affermare
che «alcuni spensierati furono presi senza contrasto, fra' quali
fu Maurizio di Rinaldo»; non saprebbe dirsi per quale fatalità la
nobile figura di Maurizio abbia dovuto rimanere falsata da tutti i
lati. Conosciamo poi che fra Dionisio era vestito da secolare,
avendo fin dalla notte del 3 settembre, nel fuggire da Pizzoni,
deposta la tonaca fratesca; ma gli Atti conservati in Firenze
fanno sapere di più, che avea preso il nome di D. Pietro Antonio
Grasso e si era munito di una fede di sanità della città di Lecce;
quest'ultima circostanza mostrerebbe che i fuggiaschi avessero
dovuto percorrere tutta la terra d'Otranto per trovare un imbarco.
Aggiungiamo che i principali armigeri di Gio. Geronimo Morano,
nella persecuzione e cattura di que' fuggiaschi, doverono essere
Aurelio Biase e Giuseppe Pascalone, giacchè essi vennero poi a
deporre col Morano segnatamente sulla cattura di fra Dionisio.
Aggiungiamo ancora un altro fatto avvenuto a fra Dionisio nel suo
arrivo in Calabria, siccome egli medesimo ebbe poi a narrarlo in
Napoli nel tribunale per l'eresia: mentre veniva tradotto a
Gerace, passando per Cosenza, il Governatore, che era in quel
tempo D. Francesco de Regina Conte di Macchia, ebbe curiosità di
vederlo e di dimandargli se era della setta del Campanella e se
credeva che la fornicazione fosse peccato, giacchè il Campanella
riteneva che non lo fosse; ed egli si fece a smentire così
l'esistenza della setta, come la credenza falsamente attribuita al
Campanella.
Il Vicerè, con sue lettere del 4 e dell'8 ottobre, inviò subito a
Madrid la relazione del Morano e quella dello Xarava. - Nel
partecipare la notizia dell'importante cattura di Maurizio e
compagni «capi della congiura di Calabria», fece anche conoscere
come fin dal 28 settembre era stato da lui ordinato allo Spinelli
che, dopo giustiziati quattro de' più colpevoli, inviasse tutti
gli altri in Napoli a buon ricapito, avendo voluto che fossero
quivi tradotti a fine d'investigar bene le loro colpe e quivi
gastigarli; e però nel giorno precedente avea scritto che,
vagliata bene la causa di Maurizio de Rinaldis, facesse giustizia
anche di lui, ed inviasse in Napoli gli altri con tutti i
rimanenti incolpati. - Nel partecipare poi l'esecuzione già
avvenuta de' due «trovati colpevoli nella congiura che andavano
fomentando», inviò pure l'ultima dichiarazione di Cesare Pisano, e
nel tempo medesimo la copia dell'Informazione presa dal Visitatore
contro il Campanella (questa era rimasta in Napoli fin allora),
per mostrare a S. M.tà ciò che essi andavano disseminando pel
paese, e ripetè che aveva ordinato l'invio di tutti i carcerati,
per investigare molto radicalmente tale negozio, e dare il gastigo
che conveniva.
Si scrisse allora finalmente una lettera da Madrid, in risposta ad
otto lettere Vicereali, cioè a dire in risposta a tutte le lettere
che erano state mandate intorno alla congiura: ne abbiamo
rinvenuta in Simancas la minuta senza data, ma questa si può
facilmente desumere, leggendovisi che l'ultima lettera ricevuta
era quella del 4 ottobre. In essa S. M.tà si sbaglia sul nome del
Campanella che chiama Matteo, ma con solenne gravità si compiace
che la congiura sia stata scoverta, approva le misure prese,
ringrazia la divina Provvidenza e rinforza gli ordini di rigore
verso gli incolpati. «Ho gradito molto, egli dice, essere stata
(la congiura) scoverta così a tempo, che voi abbiate potuto
arrestare, come lo faceste, mercè la prevenzione e i così buoni
rimedii, come li applicaste, i danni che poteano seguire dal
rimanere celata più a lungo; a Dio si debbono grazie di tutto, e
fu molto savio dar conto a S. S.tà del negozio e del trovarsi
alcuni ecclesiastici colpevoli e indiziati in questi delitti,
perché con sua autorizzazione e commissione poteste procedere
contro di loro, come lo faceste, e l'avere ordinato che si esegua
la giustizia de' quattro più colpevoli in questo delitto, come lo
sarà, e così ve ne dò incarico e comando, che ordiniate di
procedersi contro gli altri i quali appariranno di esserlo, con un
rigore che la gravezza de' loro delitti merita; ma con un certo
intervallo, per dar tempo che si scovrano i rimanenti complici che
in que' delitti si abbiano, e si sradichi ad un tempo questa mala
semente di eresia e ribellione, procurando di sapere con
particolarità se abbiano tenuto qualche intelligenza con Cicala, e
se sieno compresi in essa quegl'individui che nel principio i
carcerati nominavano, de' quali, e nemmeno di alcuno di loro, non
si è visto finora che siasi proceduto all'arresto». Era dunque un
disappunto per S. M.tà che qualche Vescovo o qualche Nobile di
alto rango non si trovasse già nelle mani del fisco; d'altra parte
non obbliava i denunzianti e conchiudeva: «A Fabio di Lauro e Gio.
Battista Biblia, che avvisaste essere coloro i quali scovrirono la
congiura di questa gente, darò ricompensa come voi glie la
offriste per tale servizio, ed è giusto che si dimandi, e perché
si agisca più oculatamente, mi avviserete con brevità di ciò che
si potrà fare per loro; e di mano in mano mi riferirete con
particolarità ciò che si andrà facendo in questo negozio, che per
essere della qualità che è, conviene saperlo». Dopo tutto ciò si
potrà ancora gridare contro la crudeltà dello Xarava e dello
Spinelli, ma si dovrà convenire che costoro interpetrarono
perfettamente le intenzioni non solo del Vicerè ma anche del Re.
Aggiungiamo qui le notizie sulle cose di Calabria, che al momento
cui siamo pervenuti l'Agente di Toscana, e il Residente Veneto
trasmettevano a' loro Governi. - L'Agente di Toscana, nel
partecipare che due prigioni erano stati tanagliati e strozzati
con titolo di ribellione, faceva anche sapere essere partite
quattro galere per levare il Card.l Guevara, e quattro altre
partire allora per Lipari e Calabria (10 ottobre), a fine di
mutare le compagnie spagnuole; aggiungeva che forse con esse
sarebbero venuti in Napoli i prigioni della congiura calabrese.
Poco dopo annunziava essersi congratulato col Vicerè, da parte
della Serenissima Casa di Toscana, per la scoverta e la
repressione della congiura (12 ottobre), aggiungendo che il Vicerè
gli avea dato conto dell'esecuzione fatta e del trovarsi carcerati
più di cento, tra' quali otto frati col Campanella; inoltre faceva
sapere il richiamo dello Spinelli, a suo avviso insieme co'
prigioni, e la commissione di formare i processi da affidarsi a'
dottori. - Il Residente Veneto, giusta il suo costume, partecipava
le notizie raccolte da ogni maniera di fonte. Erano usciti in
campagna circa 200 calabresi tra colpevoli e intimoriti, essendosi
trovati molti disposti per la libertà di coscienza, con la quale
il Campanella disegnava allettare gli animi. Un Maurizio de
Rinaldis, dapprima uomo d'arme in servizio del Re, poi contumace
per omicidii, favorevole alla ribellione ed anche all'eresia,
insieme con un fra Dionisio Ponzio si era ritirato nelle montagne
di Cosenza, mettendosi a capo de' fuorusciti, e si temeva che
avrebbe potuto là mantenersi a lungo (29 settembre e 5 ottobre).
Il Vicerè che avea già in animo di mandare suo figlio in Calabria,
ne era dissuaso dal Consiglio per la poca età di lui e la gravità
del negozio, e andrebbe il Presidente Montoya per le cose di
giustizia e un D. Alonso Rosa per le cose di campagna (confusione
di nomi e di fatti). Alcuni calabresi, mandati dalla Corte contro
i fuorusciti, li avevano combattuti «con spararsi reciprocamente
senza balla» (voci popolari). Intanto era venuta nuova certa che
Maurizio e il Ponzio erano stati «ritenti in una filucca 16 miglia
in mare per opera di loro particolari nemici a' quali furono
promessi gran premii», onde gli animi si erano sollevati. S. S.tà
avea fatto spedire un Breve al Nunzio, perché i religiosi
colpevoli potessero venire puniti anche nella vita in Napoli, ma
formandosi i processi coll'assistenza de' ministri ecclesiastici.
Tutti i prigioni sarebbero quanto prima tradotti in Napoli, ed
intanto erano stati giustiziati alcuni laici in Catanzaro i quali
avevano dichiarato Signori e cittadini napoletani essere partecipi
di quella congiura «senza haver saputo però nominare alcuno, il
che perturbò assai in generale questa città». Più tardi (12
ottobre), specificava i nomi de' due giustiziati, Crispo e Mileri,
e il genere del loro supplizio, «perché con Mauritio Rinaldo,
anch'esso retento, mandarono un prete a Costantinopoli a trattar
col Cigala» (voci popolari). Inoltre indicava il numero de'
prigioni, riducendoli a 60, al di sotto del vero, «la maggior
parte huomini di qualche conto, essendo anco fra essi alcuni
baroni», con la voce che nella famosa fiera del 18 ottobre in
Monteleone se ne sarebbero giustiziati alcuni, e gli altri,
insieme con gli ecclesiastici, sarebbero venuti a Napoli. Infine
annunziava che il Lauro e il Biblia, rivelanti della congiura,
erano già in Napoli, «ricercando ricognitione tale che possano
vivere sicuri delle insidie dei parenti numerosissimi degli
imputati». - Come si vede, tra molte stramberie, non mancano qui
notizie degne di nota: è facile scorgerle, ma sopra due di esse
dobbiamo richiamare l'attenzione e fare qualche commento. In primo
luogo dobbiamo notare che in Napoli, a' 5 di ottobre, gli animi
erano perturbati a motivo dell'affermata partecipazione di Signori
e cittadini napoletani nella congiura, senza che se ne sapessero i
nomi: ciò mostra che il Vicerè non solo non avea seguito l'avviso
dello Spinelli di carcerare alcuni di costoro, ma non avea neanche
fatto trapelarne i nomi. In secondo luogo dobbiamo notare che il
Vicerè volea mandare suo figlio in Calabria e poi ci mandò il
Montoya siccome è attestato pure dal Residente in un'altra sua
lettera anteriore, nella quale dice che il Vicerè volea mandare
suo figlio con due de' Consiglieri primarii del Governo: forse
intendeva mandarlo come Governatore in luogo del De Roxas, ma poi
se ne astenne per riguardo a Carlo Spinelli; e quanto al Montoya,
vedremo che egli andò difatti a Catanzaro per commissioni
speciali, ma alquanto più tardi, segnatamente per l'omicidio di
Marco Antonio Biblia fratello di Gio. Battista, pugnalato in odio
di costui che aveva rivelata la congiura.
Intanto lo Xarava, provvedutosi del nuovo Mastrodatti, ripigliava
il corso del processo e delle torture in Gerace. Egli dovè
dapprima far le confronte di Cesare Pisano col Gagliardo,
Santacroce, Marrapodi, Adimari, e un po' più tardi col Conia,
siccome trovasi disegnato nella citata sua relazione, e fino ad un
certo punto può desumersi ancora dalla numerazione de' folii del
processo, la quale al sèguito delle deposizioni sopra riferite
mostra una grossa lacuna, appena occupata da un «nuovo esame» del
Santacroce. Questa lacuna si spiega assai bene col fatto che le
confronte, i nuovi esami ed anche le torture non diedero
risultamenti degni di nota. Certo è che Felice Gagliardo ebbe la
tortura e «si vide in pericolo di morte a Jeraci», poi ebbe «una
seconda corda a Napoli et hebbe a morire», e queste prime torture
furono «crodelissime, con funicelle, acqua freda e bastonate, et
non confessò»; in tal guisa si espresse egli medesimo innanzi a'
Delegati del S.to Officio, sul punto di essere giustiziato, varii
anni dopo. Certo è pure che Gio. Angelo Marrapodi «hebbe la corda
a hierace»; lo dichiarò nel processo di eresia in Napoli un suo
figliuolo giovanetto, che lo seguì pe' diversi luoghi in cui stiè
carcerato, vivendo col fare qualche servigio a taluni de' frati
egualmente carcerati. Infine è indubitato che Geronimo Conia fu
sottoposto egli pure ad un nuovo esame e alla tortura, ma un po'
più tardi, dopo l'esame e la tortura del Caccìa; e di costui
sappiamo con sicurezza essere stato esaminato e torturato in
Gerace, poichè, nel processo di eresia fatto in Napoli, si ha una
deposizione del Petrolo, il quale esplicitamente attesta che il
Caccìa «à Squillace non fù essaminato... et à hieraci hebbe la
corda». Come dicevamo, né da' nuovi esami né dalle torture
doverono ottenersi risultamenti degni di nota; e però di alcuni di
questi Atti non si ebbe a fare alcuna menzione ne' Riassunti
degl'indizii, di altri, come quelli del Santacroce e del Conia, si
riportò un piccolo brano che in realtà non ci apprende nulla di
nuovo.
Importante invece riuscì, se non l'esame, la confessione in
tortura di Gio. Tommaso Caccìa, il quale comunque clerico ne' 4
ordini, al pari del Pisano, non fu risparmiato dallo Xarava. Egli
era stato catturato da Giulio Soldaniero e condotto dapprima a
Squillace, di poi a Gerace, e qui fu sottoposto
agl'interrogatorii. Nulla troviamo registrato intorno alla sua
deposizione, ciò che autorizza a ritenere aver lui deposto
negativamente; ma in tortura confessò con molta ampiezza, e narrò
tutte le circostanze nelle quali si era impegnato per la
ribellione. Recandosi un giorno con Marcantonio Contestabile e
Gio. Francesco d'Alessandria a Stilo, prima di giungervi
incontrarono fra Dionisio che andava con Cesare Pisano ed uno o
due altri monaci, e fra Dionisio disse a Marcantonio che andava a
Monasterace a trovare il Campanella, e così essi se n'andarono a
Stilo, nel monastero, ove trovarono Giuseppe Grillo che disse di
stare aspettando fra Dionisio; nella sera venne il Campanella con
fra Dionisio, il Pisano e gli altri due monaci e mangiarono,
quindi, partiti gli altri e rimasti soli col Campanella e fra
Dionisio, nella sua cella fra Tommaso dichiarò la congiura e i
preparativi di essa, e che «volea essere monarca del mondo e dare
nova legge». E sempre diceva che «in quest'anno 1599 e 1600»
dovevano accadere grandi mutazioni, sollevazioni e rivoluzioni,
così conoscendo per scienza, astrologia e profezie, e però beato
chi in questo tempo si trovasse con forza d'armi, ed ognuno dovea
stare preparato e procurare di cercare amici, aggiungendo, così
fra Tommaso come fra Dionisio, che Maurizio De Rinaldi e un altro
di Reggio, di Casaspano, aveano preparata una quantità di
fuorusciti tenendoli pronti per quella giornata. Allora insieme
con Marcantonio Contestabile e Gio. Francesco d'Alessandria, ad
istanza del Campanella e di fra Dionisio, concertarono di
ribellarsi, e i detti frati dicevano esservi molti altri
congiurati per fare la Calabria repubblica e ribellarsi dalla
soggezione del Re e degli ufficiali, con l'aiuto del Turco e di
altri Signori che aveano a loro divozione. Inoltre, tornato di poi
a Belforte, fra Dionisio venne a chiamarlo da parte di Claudio
Crispo che avea da parlargli in Pizzoni, ed egli vi si recò
insieme con fra Dionisio: l'indomani, vedutisi col Crispo, con fra
Dionisio e fra Gio. Battista di Pizzoni, si parlò di nuovo della
congiura, e il Crispo diceva di avere apparecchiati molti
fuorusciti per la giornata della ribellione. Aggiunse pure che
mentre era nel monastero di Stilo, vennero più volte a parlare
segretamente col Campanella Fulvio Vua, Gio. Gregorio Prestinace,
Tiberio Marullo, Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, ed
egli non udì di che parlassero ma giudicò che dovessero trovarsi
in detta ribellione. Questa sua confessione egli poi ratificò, e
nella ratifica disse pure che a Stilo Giulio Contestabile un
giorno, dopo di avere parlato segretamente al Campanella, dimandò
a Marcantonio cosa gli paresse di quanto il Campanella diceva e se
lo ritenesse per vero, e Marcantonio rispose che troppo era vero e
presto lo vedrebbe. - Adunque il Caccìa rivelò tanto il convegno
di Stilo quanto il convegno di Pizzoni; ma specialmente intorno a
quest'ultimo non rivelò tutto, e disse pure diverse cose che per
lo meno non avea potuto udire in Stilo, come p. es. l'aiuto del
Turco e l'aiuto de' Signori, de' quali aiuti sappiamo che in Stilo
non si era parlato ancora. Queste ed altrettali circostanze gli
furono probabilmente estorte dallo Xarava con l'atrocità de'
tormenti, giacchè i tormenti dati al Caccìa non solo furono
atrocissimi, ma ancora furono dati mentre egli avea la febbre.
Molti l'attestarono in sèguito nel processo di eresia, e basta
citare fra Pietro di Stilo e Geronimo di Francesco, il quale disse
che a tale proposito fu consultato il medico, e costui per timore
affermò che il tormento si poteva dare. Così non recherà sorpresa
che egli pure, al momento di essere giustiziato, abbia avuto a
fare ritrattazioni: ma in fondo, sul punto essenziale della
quistione, egli era «confesso», e quindi non poteva aspettarsi
altro che una condanna di morte.
Dopo il Caccìa, come abbiamo già avuta occasione di dire, fu
esaminato e torturato il Conia, il quale, nella confessione in
tortura, giusta il sunto molto arruffato datone dal Mastrodatti,
affermò che c'era stato concerto di ribellione tra il Campanella,
fra Dionisio ed altri nel modo più volte ripetuto, da porsi ad
effetto alla venuta dell'armata turca che essi aspettavano. -
Successivamente furono compilati gli Atti relativi alla cattura di
fra Dionisio; ma la sua condizione di ecclesiastico non permetteva
di fare altro intorno a lui, e si proseguirono gl'interrogatorii
de' laici, vale a dire di Maurizio, del Vitale, e con ogni
probabilità anche del Todesco.
Maurizio, chiamato a fare la sua deposizione, non rivelò nulla.
Disse che si era allontanato, avendo udito che Carlo Spinelli
catturava coloro i quali aveano parlato col Campanella e fra
Dionisio; che avea parlato col Campanella una volta in casa di D.
Gio. Jacopo Sabinis, ed un'altra volta a Davoli, nel monastero,
verso la metà di luglio, stando allora in casa di D. Marco Antonio
Pittella, ma aveano trattato della loro «natività». Gli furono
quindi amministrate torture atrocissime, ed egli egualmente non
rivelò mai nulla, ond'è che ne' Riassunti degl'indizii non se ne
trova fatta menzione. Ma è indubitato che ebbe torture enormi,
alle quali se ne aggiunsero poi altre non meno atroci, rimanendone
una nozione abbastanza confusa. Nella sua ultima rivelazione fatta
in Napoli innanzi a' Delegati del S.to Officio, sul punto di
essere giustiziato, egli disse puramente e semplicemente di avere
avuto «più volte la corda», senza aver mai voluto manifestare cosa
alcuna contro i frati; il Residente Veneto, in una sua lettera
della quale si parlerà più oltre, scrisse che avea «sofferto in
tre mesi quaranta hore di corda et altri tormenti... senza haver
mai confessato alcuna cosa»; ma Mons.r Mandina, che fu giudice per
l'eresia e potè saperlo in modo autentico, lo disse «per
septuaginta horas tortus et nihil confessus», e tutto induce a
credere che egli parlasse propriamente delle torture avute in
Napoli, non già di quelle di Calabria, che doverono essere
certamente più atroci. Ed intanto questa prova di maravigliosa
fortezza non recava alcun vantaggio alla sua causa: con la
protesta di applicare la tortura «non pro veritate habenda sed pro
praecisa responsione habenda et citra praejudicium probatorum» il
fisco soleva annullare i benefici effetti di una risposta negativa
in tortura; e Maurizio, se non risultava confesso, pur troppo
risultava «convinto» dalle concordi testimonianze avverse, a capo
delle quali la Dichiarazione del Campanella, oltrechè dalle stesse
sue lettere venute nelle mani della giustizia. E però la sorte sua
non poteva esser dubbia.
Quanto a Gio. Battista Vitale, egli avrebbe voluto imitare
Maurizio ma non ci riuscì. Nella deposizione disse, che essendosi
scoverto un trattato fatto da fra Dionisio e dal Campanella di
ribellarsi e far venire i turchi «et si dicea che Mauritio era
andato in torchia per questo effetto», e vedendosi che si
carceravano tutti gli amici che aveano conversato co' predetti,
Maurizio risolvè che se ne fossero andati a Venezia e a S.ta Maria
di Loreto, sino a che passasse la furia e si scoprisse la verità;
e così partirono da Davoli, dove stavano già da nove mesi in casa
di D. Marco Antonio Pittella. Si venne quindi alla tortura, ed
egli non resse allo strazio: ecco qui raccolti e disposti alla
meglio i brani sparsi della sua lunga confessione. Narrò che da
nove mesi erano assenti da Guardavalle insieme con Maurizio «per
certe pugnalate», ricoverati a Davoli in casa del Pittella, e con
costui Maurizio diceva avergli il Campanella manifestato che
«quest'anno» doveano esservi grandi guerre e rivoluzioni e il
Regno dovea mutare padrone, e che insieme col Campanella aveano
concertato di far gente e far ribellare quelle provincie. Che dopo
alcuni giorni Maurizio era andato a trovare il Campanella, e
quindi avea detto che con lui e fra Dionisio si era concluso di
effettuare detta ribellione, e per facilitarla «volevano invocare
l'aggiuto et favore del turco che li mandasse l'armata, con la
quale e con l'aggiuto de' Popoli haveriano levato questo regno dal
dominio del Rè di Spagna e fattolo republica, et che esso fra
Thomase haveria fatto nova legge, et ridotto ogni huomo à libertà
naturale, et mandato molti predicatori predicando la libertà, et
che haveano parlato à questo effetto a molti di Stilo parenti del
detto Mauritio di Casa Carnevale e Sabinis come di casa
Condestabile, et altri loro parenti et amici; alli quali fra
Tomase con fra Dionisio haveano parlato, et procuravano far
pacificare li Carnevali con li Conestabili, per che si haveano da
trovare in detta rebellione per quanto diceva detto Mauritio». E
dietro interrogazione, specificando meglio le persone, aggiunse,
«che Mauritio li disse, quando tornò da Stilo, che li parenti suoi
et altri, che s'haveano da trovare a detta rebellione, erano Gio.
Paolo e Fabio Carnevale, Ottavio Sabinis, Gio. Jacovo Sabinis,
Marc'Antonio Conestabile, Giulio Conestabile, Fabio Conestabile,
et Geronimo di Francesco che tutti si erano offerti a detta
rebellione». Aggiunse ancora che dapprima intese dire da tutti
quelli di Davoli che nel monastero di S. Maria del Trono di detta
terra erano venuti Gio. Paolo di Cordova ed Orazio Rania ed aveano
parlato col Campanella «et fra Dionisio»; e poi, passando per la
casa del Pittella, costui gli disse «come Oratio Rania, Gio. Paolo
di Cordova, et Gio. Tomase di Franza erano venuti à trovare
Mauritio et fra Tomase Campanella, et haveano trattato detta
rebellione dentro lo monastero di S.ta Maria del Truono». Aggiunse
che Maurizio «ogni hora dava animo ad esso deposante et a Donno
Marco Antonio Pittella», che dopo essere sceso dalle galere de'
turchi raccontò al Pittella l'appuntamento preso con Amurat Rais,
che in giugno con Geronimo Baldaya fuoruscito si era partito per
raccogliere gente, e Geronimo diceva «lassa fare a me ch'io busco
gente assai che staranno in ordine per la giornata che vene
l'armata del Turco, et allhora daremo dentro»; che il Pittella
diceva esservi in Catanzaro molti gentilhuomini ed altri i quali
partecipavano alla congiura, e che venivano spesso lettere da
Catanzaro a Maurizio e i corrieri dicevano mandarle il Rania; che
Maurizio «con questo pretendea farsi gran homo per che saria stato
padrone di molte terre... et persuadeva lo Donno Marco Antonio et
esso deposante se voleano concorrere con esso et ritrovarsi à
questa fattione che li saria stato gran utile; lo Donno Marco
Antonio si offerse a questo, et esso deposante disse, io vengo
dove vai tu, per che a me me tieni alla maneca» (intend. affibiato
a te). - La tortura data al Vitale fu del pari straordinaria: da
un brano della Difesa de' Cordova si ha che fu perfino trascinato
alla coda di un cavallo (ad caudam equi raptatus). Ciò spiega
sempre più la rivelazione da lui fatta di tanti nomi e di tanti
particolari, che per lo meno non poteva conoscere, mentre da molti
indizii apparisce che i capi della congiura conducevano le cose
con cautela, e non mettevano ogni cosa a conoscenza di tutti:
basterebbe la sola deposizione del Caccìa a mostrarlo, e
d'altronde vedremo p. es. lo stesso Maurizio, nella sua ultima
rivelazione, smentire la partecipazione del Pittella, che il
Vitale nominava con tanta larghezza. Facciamo queste avvertenze,
perché non rechi poi meraviglia il vedere questo disgraziato, nel
suo estremo supplizio, dichiarare che tutto gli era stato estorto
dallo Xarava per forza di tormenti. Egli pertanto era «confesso» e
quindi votato alla morte.
Come dicevamo, forse anche Gio. Ludovico Todesco fu esaminato dopo
costoro. A lui si poteva per lo meno imputare che avesse aiutato
Maurizio nella fuga, onde a' termini del Bando dello Spinelli era
reo di morte: e il vedere dalla numerazione de' folii del processo
l'inserzione di quel Bando al sèguito degli Atti relativi al
Vitale darebbe motivo di credere che per l'appunto il Todesco dovè
essere inquisito e forse condannato in virtù del suddetto Bando.
Ma non ce n'è notizia ne' Riassunti degl'indizii a noi pervenuti
con gli Atti esistenti in Firenze; e ciò vorrebbe dire non aver
lui avuto nulla a rivelare intorno agli ecclesiastici, che sono
contemplati in que' Riassunti. Dicasi lo stesso di tanti e tanti
altri carcerati già fin da' primordii della repressione della
congiura. Per lo meno i principali tra loro, come Geronimo del
Tufo, il Barone di Cropani, Ferrante Ponzio, i due Moretti etc.
etc., difficilmente si può credere che non sieno stati esaminati
in Calabria; e così pure Geronimo di Francesco che fu preso in
compagnia di Giulio Contestabile, con tanta prevenzione e tanto
sdegno dello Spinelli. Il Contestabile, per la sua qualità di
clerico ne' quattro ordini sacri, dovè esser lasciato al foro
ecclesiastico, siccome già lo Spinelli si proponeva (ved. pag.
316); se non si procedè con lui come col Pisano e col Caccìa,
questo verosimilmente accadde perché egli vestiva tuttora l'abito
clericale, mentre il Pisano e il Caccìa l'aveano deposto da un
pezzo; risulta infatti da una numerosa quantità di documenti
conservati nell'Archivio di Stato che era teorica del Governo,
combattuta continuamente da' Vescovi, non doversi ritener clerici
coloro i quali da un pezzo ne aveano deposto l'abito. Ma pel Di
Francesco ci pare impossibile che non siasi proceduto ad
interrogatorii d'ogni maniera; probabilmente egli dovè essere
negativo in tutto.
Aggiungiamo qui che il Pittella, indiziato per tante vie e poi
così fortemente compromesso dal Vitale, fu catturato da un Gio.
Andrea Spina, ma mentre era tradotto in carcere a cavallo, riuscì
a fuggire: lungamente ricercato dalla giustizia vedremo che fu poi
catturato di nuovo, ma molto più tardi, nel 1601, e quindi lo
troveremo in Napoli. Di tutti gli altri nominati dal Vitale
abbiamo solamente notizia che fu catturato Gio. Paolo Carnevale e
con lui Tiberio Carnevale, ma non Fabio Carnevale né Fabio
Contestabile, che troveremo in qualità di testimoni in un'altra
Informazione ecclesiastica presa dal Vescovo di Squillace nel
novembre e dicembre di questo stesso anno 1599. Quanto poi a
Marcantonio Contestabile, egli rimase sempre contumace, e vedremo
che dal tribunale di Napoli fu dichiarato forgiudicato, con Gio.
Francesco d'Alessandria, Alessandro Tranfo, Matteo Famareda,
Francesc'Antonio dell'Ioy, e Tulibio dello Doce (o Dolce), come
del pari Gio. Geronimo Prestinace e forse anche Fulvio Vua, che
sappiamo essersi entrambi nascosti; inoltre Geronimo Baldaya, che
fu certamente preso ed interrogato circa una lettera di Maurizio a
Gio. Francesco Ferrayma trovata chiusa presso di lui, dovè essere
rilasciato e poi ricercato di nuovo, probabilmente dietro le
confessioni del Vitale, e vedremo anche lui dichiarato
forgiudicato, ma presentatosi e processato in Napoli, liberato e
poi ricercato ulteriormente, come si dirà a suo tempo. Aggiungiamo
ancora che delle altre persone ecclesiastiche nominate o
sospettate come aderenti alla congiura fu successivamente preso un
certo numero, all'infuori del Jatrinoli e di Gio. Jacovo Sabinis,
i quali doverono rimanere fuggiaschi, non essendoci pervenuta
alcuna notizia di Atti giudiziarii concernenti le loro persone.
Fin dal 23 settembre era stato già preso fra Scipione Politi
Francescano, conosciuto come amico intimo del Campanella;
l'Auditore Gio. Lorenzo Martire andò a carcerarlo nel convento
medesimo di Stilo dove egli dimorava. Fu poi preso l'8 ottobre fra
Pietro Musso di Monteleone Domenicano, che il barricello di
Monteleone carcerò sotto il castello di quella città: un fra
Leonardo suddito di fra Pietro, mentre costui volea farlo
carcerare, lo denunziò come amico del Campanella, e un D. Domenico
Pulerà di Pimeni presentò allo Xarava due lettere dirette a fra
Pietro e rinvenute fin da luglio in un libro di lui durante una
visita che gli fece, una di fra Dionisio del 10 giugno e l'altra
del Pizzoni del 25 luglio, nelle quali si parlava di congregazione
di fuorusciti e di armi; inoltre un nipote di questo fra Pietro
andò caritatevolmente a deporre che il Pizzoni era stato in luglio
a visitare suo zio nel convento di Maierato e gli portò due
pistole ed un fucile, ed egli stesso, fra Pietro, si procurò
un'altra pistola e con queste armi se ne andò, soggiungendo che
nell'udire la cattura del Campanella e di fra Dionisio avea detto
che gli dispiaceva. Inoltre fu preso un fra Vittorio d'Aquaro
sacerdote Agostiniano, il 9 ottobre, sulla via di Mamola, mentre
tornava dalla Sicilia in Calabria: fu preso un fra Giuseppe da
Polistina, terziario Domenicano, in Reggio, mentre di là
s'imbarcava per Messina, ad oggetto di ricuperare certe robe
lasciate in eredità al suo convento. E furono presi alcuni altri,
ma ancora più tardi, e li vedremo a suo tempo.
Intanto fra Cornelio e il Visitatore, decisi a non lasciare la
preda, ripigliarono lo svolgimento del loro processo unitamente
col Vescovo di Gerace, che li secondò nel modo più sciagurato: ciò
accadde il 13 ottobre, e si ebbe in tal modo il così detto
processo di Gerace, fatto da costoro assistendo alle sedute e
facendo sentire la loro influenza lo Spinelli, lo Xarava, diversi
altri laici, co' metodi soliti ed anzi peggiorati; sicchè gli
ordini di Roma, dettati dall'amore della verità e della giustizia,
riuscirono del tutto infruttuosi. Era allora Vescovo di Gerace fra
Vincenzo Bonardo romano, già Segretario della Congregazione
dell'Indice e poi Maestro del Sacro Palazzo, uomo punto tiepido
nella difesa de' dritti giurisdizionali ed anzi prepotente siccome
abbiamo avuto opportunità di vedere altrove (pag. 121-122): ma
dovè forse allora essere invaso anche lui dal terrore che lo
Spinelli e lo Xarava aveano finito per incutere in quelle
sventurate provincie, onde si annullò interamente innanzi a fra
Cornelio e agli ufficiali Regii; né sarebbe troppo arrischiato
l'ammettere che lo Spinelli, sollecitamente informato dal Governo
della deliberazione presa in Roma e nota fin dal 17 settembre,
circa gli esami de' frati da farsi dal Visitatore e fra Cornelio
insieme coi Vescovi locali, avesse lasciato Squillace e fatto
tradurre tutti i prigioni a Gerace, precisamente per profittare
della debolezza in cui era caduto il Vescovo di quel luogo.
Certamente in Gerace gli ordini di Roma per lo meno non furono
interpetrati a dovere. Lungi dal prendere altre informazioni con
secretezza e diligenza laddove occorressero, si volle procedere
all'esame non solo di diversi altri prigioni ma anche di quelli
già esaminati scegliendo opportunamente gl'individui che sarebbero
risultati in danno: così fu esaminato di nuovo Giulio Soldaniero
senza rivelarne la condizione di guidato, fu esaminato il clerico
Pisano che era stato già perfino torturato dallo Xarava e il
clerico Caccìa che fu lasciato poco dopo torturare egualmente
senza prenderne nota e senza farne alcuna rimostranza, ma non
furono esaminati il clerico Contestabile e i frati Politi, Musso,
Aquaro, Polistina, oltre fra Dionisio, verosimilmente perché si
sapeva dover risultare per lo meno negativi; e furono dal Vescovo
e dal Visitatore commessi gl'interrogatorii a fra Cornelio «come
bene informato di tutto il negozio», con la più grande
condiscendenza verso gli ufficiali Regii, con una estesa
pubblicità e col solito corredo delle suggestioni, delle minacce,
de' terrori, senza farne mai parola ne' processi verbali. Allorchè
gl'infelici prigioni vennero in Napoli, questi fatti si scovrirono
mano mano, né soltanto per opera degl'interessati ma anche per
opera degli altri carcerati, come p. es. del Contestabile e del Di
Francesco, che aveano vista o udita una parte di quegli scandali:
lo Xarava medesimo disse ingenuamente al Vescovo di Termoli
Giudice dell'eresia, che il Pizzoni non voleva confessare ma che
alle insistenze di lui testificò, e il Vescovo non mancò di farlo
sapere a Roma, togliendo così ogni dubbio possibile su' fatti
asserti. - I prigioni si trovavano nelle carceri del castello
dette «la Marchesa». Fra Cornelio andava là a catechizzarli
individualmente, manifestando sempre che «per sutterfugger lo
giudicio temporale» bisognava deporre eresie: questo fece anche
col Pizzoni eccitandolo a confermare l'esame primitivo, come
attestò poi il Di Francesco che trovavasi nella medesima carcere;
ma principalmente egli cercò di catechizzare coloro i quali non si
erano esaminati ancora, e massime i due clerici, Cesare Pisano,
che non ne avea bisogno essendosi già prestato, e Gio. Tommaso
Caccìa, che dovea pur trovare qualche modo di scampare la vita, e
poteva sperarlo solo dalla remissione al foro ecclesiastico.
Qualche volta il Visitatore accompagnava fra Cornelio in tale
ufficio, e se non trovavano arrendevolezza, minacciavano i
riluttanti, giuravano che non sarebbero usciti dal castello che in
pezzi, sputavano sul viso, come fecero p. es. col Petrolo, il
quale non intendeva di confermare tutto l'esame di Squillace.
Allorchè poi si teneva seduta, ci era il Vescovo, il Visitatore,
fra Cornelio, il Mastrodatti della Curia Vescovile Biagio
Perlongo, e qualche sacerdote come testimone, p. es. Curiale de'
Curiali, Ferrante Guido, Gio. Antonio de Rinaldis, Antonio
Lucissa; fra Cornelio, intitolandosi anche utriusque juris doctor,
dirigeva gl'interrogatorii ed avea cura di mettersi sempre in
mostra, ciò che si rivela ottimamente da' processi verbali. Ma ci
era anche Carlo Spinelli, lo Xarava, ed inoltre il Capitano di
campagna (il Ruffo) con un certo numero di birri, e fu notato che
mentre fra Cornelio sedeva sopra uno sgabello con poca dignità, lo
Spinelli e lo Xarava erano adagiati sopra sedie a modo di Giudici;
nelle mani di costoro si lasciavano pure talvolta gl'imputati, ed
essi li interrogavano egualmente circa l'eresie, che anzi sappiamo
essere stato presente anche il Principe di Scalèa in una di queste
sedute straordinarie. Accadde inoltre talvolta, nelle sedute
formali, che sorgessero contestazioni sulle cose scritte, non
venendo trovate concordi con le cose dette, e s'interrompessero le
sedute con scene di violenza, le quali aveano un sèguito entro le
carceri, dove si finivano di redigere e firmare gli esami: intanto
nulla di tutto ciò si rileva menomamente da' processi verbali. Tra
le scene di violenza, meritano di essere ricordate quelle avvenute
col Petrolo e con fra Pietro di Stilo. Il Petrolo dalla sala del
tribunale fu bruscamente rimandato in carcere, e il Capitano di
campagna gli tolse mantello e cappello per fargli sfregio, sicchè
i suoi compagni di carcere lo videro rientrare in quella foggia
«che pareva un pescatore»; ma dopo tre giorni venne fra Cornelio a
fargli premura che firmasse il processo verbale, quindi fu
chiamato al luogo della corda in presenza del Visitatore, dello
Xarava e del Mastrodatti, e dicendogli fra Cornelio che il
processo verbale era stato emendato, lo Xarava afferrandolo pel
petto lo condusse alla banca e l'obbligò a firmare. Fra Pietro di
Stilo poi, come già in Squillace così pure in Gerace, fu più volte
interrogato senza che si scrivesse nulla, perché rifiutava di dire
ciò che si voleva; gli furono allora mostrati da fra Cornelio
alcuni ferri, co' quali gli minacciava di fargli stringere il
petto, e il Capitano di campagna, che era presente, faceva mostra
di averne compassione; poi finalmente, dopo parecchi tentativi, si
potè redigere il processo verbale del suo esame. Ora nella
procedura ecclesiastica, e così anche nella procedura secolare pe'
delitti comuni, il solo condurre l'imputato nel luogo de' tormenti
equivaleva a un primo grado di tortura detto territio, e la
tortura, in qualsivoglia grado, non poteva amministrarsi che dopo
di avere compiti gli esami informativi e ripetitivi, e data
all'imputato la copia degl'indizii raccolti contro di lui.
Gravissime dunque furono le irregolarità, con le quali si menarono
innanzi gli Atti del processo di Gerace, e le circostanze suddette
debbono servire ad essi di commento; passiamo ora a farne
l'esposizione nel miglior modo che ci sarà possibile.
Primo fra tutti, il 13 ottobre, fu esaminato fra Pietro Ponzio.
Rispondendo a diverse interrogazioni, egli disse ingenuamente che
credeva di essere stato carcerato perché fratello di fra Dionisio,
espose dove e come e perché lo avea visto negli ultimi tempi,
attestò l'amicizia di lui col Campanella da più di 14 anni avendo
sempre continuato ad essere amici, dichiarò di aver saputo che era
stato preso a Monopoli dicendosi comunemente che procurava una
ribellione col Campanella ed altri frati e secolari, negò che fra
Dionisio gli avesse mai parlato di tal cosa. Ed a fine di non
fargli conoscere il modo di esame che era stato adottato, i
Giudici decisero di non procedere oltre con lui. - Fu quindi
esaminato fra Paolo Jannizzi della Grotteria. Egli disse che
credeva di essere stato carcerato per un fatto occorsogli a
Filogasi (avea dato uno schiaffo al Baglivo di quella terra), ma
che intese essere stato carcerato per le cose del Campanella;
narrò che due volte sole avea visto il Campanella, la prima in
Napoli sette o otto anni avanti, allorchè egli, fra Paolo,
trovavasi in carcere e il Campanella passando per la via fu da lui
pregato di far giungere una sua lettera al P.e Superiore, la
seconda in Pizzoni, dove lo trovò verso la metà di luglio col
fratello giovanetto e due altre persone a lui ignote, oltre i due
figliuoli di Ferrante Crispo, il Caccìa e Giovanni di Filogasi,
tutti armati di fucile e pistola, eccetto uno de' figli di Crispo.
Disse di non sapere che costoro, in Pizzoni, avessero mangiato
carne di venerdì, ma che fra Gio. Battista di Pizzoni, venendo da
Monteleone a Gerace, gli avea detto di essere stato carcerato per
questa causa; negò di aver parlato di altro col Campanella che di
cose comuni, avendogli il Campanella, insieme con fra Gio.
Battista, detto solamente che i letterati non erano premiati né
esaltati secondo il dovere; ma attestò che costoro «tutto il
giorno parlavano con li banniti in secreto et a longo», e dietro
interrogazione aggiunse che per le cose stategli dette e per
quelle da lui viste teneva il Campanella «per homo tristo et per
malissimo christiano, et il simile... di fra Gio. Battista di
Pizzone». Si scusò intorno al libro di negromanzia, affermando non
essere di suo carattere e non averlo nemmeno letto. Dietro altra
interrogazione disse di aver conosciuto fra Dionisio e di averlo,
negli ultimi tempi, visto in Pizzoni solamente per una notte di
passaggio, né avergli parlato per le antiche inimicizie che avea
seco; ed aggiunse che era stato inquisito di aver voluto ammazzare
fra Ponzio Provinciale, onde avea riportata la condanna di tre
anni di galera ed avea scontato questa pena.
In una 2.a seduta, il 16 ottobre, furono esaminati molti altri, e
ne' processi verbali trovasi notato che l'interrogatorio fu
commesso a fra Cornelio. Comparve dapprima fra Pietro di Stilo,
del quale gioverà ricordare che in Squillace era stato interrotto
l'esame non appena cominciato. Egli continuando quell'esame,
dietro interrogazioni, disse avere udito dal Campanella che il
Papa e il Re si accordavano a' latrocinii, che l'elezione del Papa
non era canonica contando per una sola le molte voci de'
pensionati del Re, che il vivere della Corte Romana era
biasimevole, che il Papa facea molte cose contro il dovere, i
Cardinali erano tiranni e lussuriosi della peggiore specie;
inoltre che si burlava del peccato della carne, senza ritenerlo
veramente lecito, e soltanto per detto del Petrolo egli sapeva che
una volta avea manifestato non esservi nell'ostia consacrata il
corpo di Cristo. Dietro altre interrogazioni speciali disse che il
Campanella si burlava de' miracoli, affermando che egli pure ne
farebbe «in comprobatione della sua scientia et delle sue opere,
et che i miracoli non erano altro che una applicatione de
intentione di quello alla cui persona si faceva il miracolo, et
ch'ognuno potea far miracoli in questo modo»; che mai gli era
occorso di averlo udito chiamarsi Messia né Profeta, bensì
Monarca, avendo detto anche «in presentia di Gio. Gregorio
Presinacio nella camera sua... che tutti gl'altri homini che di
niente erano venuti a qualche dignità o imperio haveano havuti
solamente tre pianeti ascendenti favorevoli, ma che esso n'havea
setti, et che per questo aspettava la Monarchia del mondo come
anco li fu detto da un valentuomo astrologo delle parti di
Germania che si trovava nell'inquisitione». Circa all'averlo udito
discorrere di mutazioni di Stato, disse che in Arena, nel palazzo
del Marchese, gli avea detto che era stato scritto contro di lui
da quelli di Stilo al Nunzio ed al Papa che avesse amicizia co'
banditi, e che per scienza e per profezie di S.ta Brigida e del
Savonarola egli provava «ch'in quest'anno seranno gran revolutioni
et mutationi di stato... et questi stati muteranno regni et si
faranno republiche et sarà bono in questi tempi per chi si troverà
armato et che haverà arme assai di difender se stesso»,
soggiungendo che non sapeva «si volesse dire di se stesso ma havea
molti amici et adherenti». Specificando poi questi amici disse che
i principali erano Giulio Contestabile, Fulvio Bua e sopra gli
altri Gio. Gregorio Presinacio; tra' monaci poi fra Dionisio e M.°
Scipione Politi Conventuale. Per detto del Petrolo affermò, sempre
dietro interrogazioni, che il Contestabile avea calpestato il
ritratto del Re Filippo, e prescelto quello del Gran Turco. Circa
fra Dionisio, tre volte costui era venuto a Stilo da che egli era
Vicario nel convento; nulla avea detto mai contro la fede, se non
che parlava pubblicamente del peccato di carne della più brutta
specie e perfino se ne gloriava. Circa Giulio Soldaniero, lo
conosceva per avergli una volta portata una lettera del
Campanella, e pregatolo da parte di fra Tommaso che si recasse da
lui ma senza discorrere di altro. Tutto ciò non parve ai Giudici
conforme a verità, e fu deciso di rimandarlo nelle carceri per poi
continuare l'esame, e frattanto gli si domandò se avesse mai detto
di volere prender moglie, e subito fra Pietro accettò di averlo
detto spesso e in molti luoghi ma per burla.
Nel medesimo giorno, quantunque dal processo verbale dell'esame di
fra Pietro di Stilo si rilevi che era già tardi, furono esaminati
il Bitonto e tutti i rimanenti frati. - Il Bitonto dovè prima di
tutto dar conto del come e perché si trovasse senza abito
monastico, senza chierica e con lunga barba; e rispose che fu
preso mentre dormiva e non gli fu dato tempo di vestirsi, che
s'avea tolta la corona per certe infermità e la barba gli era
cresciuta! E narrò che si era rifugiato in una vigna, poichè gli
fu detto dovere esser preso come amico del Campanella. Quindi
narrò la sua antica conoscenza col Campanella, la visita fattagli
in giugno con fra Dionisio, fra Jatrinoli, il Pisano e il Grillo,
trattando cose di frati, e la fermata a Stignano in casa Grillo,
dove il Petrolo e il padre del Campanella gli aveano donato
qualche vivanda e fra Dionisio avea detto certi concetti
predicabili; ma i Giudici non ne furono contenti. Dietro altre
interrogazioni, disse di conoscere Cesare Pisano suo parente e di
essere andato con lui a Bagnara e a Messina; negò di aver mai
consacrate più particole fuor di bisogno, negò di aver mai saputo
un abuso osceno dell'ostia consacrata. Circa fra Dionisio, disse
di averlo conosciuto da molto tempo, di essere stato con lui e col
Pisano in Oppido, in Bagnara dove predicò, ed in Messina dove egli
comperò materasse e fra Dionisio libri, zafferano e pepe; aggiunse
di averlo visto poi un'altra volta ed essere andato allora con lui
e col Pisano presso il Campanella per pregarlo che gli procurasse
qualche predica, tornando poi per Castelvetere dove trovò
carcerato il Gagliardo; aggiunse ancora di averlo visto una terza
volta quando con lui e col Campanella andarono a Castelvetere,
dove visitò il Pisano carcerato ed ebbe occasione di incontrarsi
ancora col Gagliardo, dicendogli soltanto che stesse di buon
animo. I Giudici non furono contenti, e l'avvertirono che
continuerebbero l'esame «etiam rigorose». - Venne quindi chiamato
il Pizzoni, e rilettogli l'esame primitivo, egli lo confermò e
ratificò in tutto e per tutto. Lo stesso fece il Lauriana e si
giunse finalmente al Petrolo. Il Petrolo confermò del pari il suo
esame primitivo ma volle emendate due cose; la prima, che il
Campanella avesse comunicate le sue opinioni a' gentiluomini da
lui nominati, ciò che era stato detto per errore; la seconda, che
egli avesse lasciato l'abito per timore di esser preso ed ucciso
dalla Corte, mentre dovea dirsi per timore di essere ucciso da
Maurizio de Rinaldis, avendo lui, Petrolo, sconsigliato il
Campanella di recarsi presso Maurizio.
Il 18 ottobre, fu esaminato Giulio Soldaniero, il quale egualmente
confermò e ratificò l'esame primitivo. Due cose pertanto si fanno
notare nel processo verbale del suo nuovo esame; la prima, che il
Visitatore neanche questa volta vi fu presente; la seconda, che
fra Cornelio gli suggerì «che avverta aver detto queste cose per
zelo della fede e della religione, come pure della fedeltà che
deve al Serenissimo Re, e non per odio ne passione alcuna», e il
Soldaniero rispose, «io l'ho detto per zelo della fede et per
fideltà ch'ho portato et porto a Re Filippo nostro Signore et non
per odio ne passione alcuna»!
Il giorno seguente, 19 ottobre, furono esaminati il Pisano e il
Caccìa, ed anche per costoro fu dato a fra Cornelio l'incarico di
esaminare, quasi che fossero semplici testimoni e non già
principali. Il Pisano fu, al solito, loquace oltre misura. Disse
trovarsi carcerato «per conto della rebellione procurata in questi
Stati», e dietro successive interrogazioni rispose, che andando
lui carcerato in Castelvetere, il Bitonto gli disse di stare
allegramente perché avrebbe nelle carceri trovato il Gagliardo
molto amico suo, ed andatovi, il Gagliardo gli si presentò come
amico del Bitonto, il quale era stato una volta col Jatrinoli a
visitarlo in quelle carceri; e così egli, il Pisano, cominciò
allora a parlare al Gagliardo della ribellione. Ma qui i Giudici
gl'imposero silenzio, volendo che trattasse solo delle cose della
fede. Ed egli disse che cominciò a parlargli del Campanella nuovo
Messia, il quale volea fare nuova legge; e ripetè le solite
proposizioni da lui manifestate contro Cristo, contro la Trinità,
ammettendo «un solo Dio o sia spirito che governa il tutto et move
gli cieli», contro i miracoli di Cristo e la sacra scrittura, che
era stata dettata dagli amici di Cristo: ma negò di avere intorno
a Maria detto altro, se non che fosse moglie di S. Giuseppe e
nera, appoggiandosi al nigra sum; confessò di aver parlato delle
cattive relazioni tra Gesù e S. Giovanni, comunque non vi avesse
creduto, ed attestò che giammai fu redarguito intorno a ciò né dal
Gagliardo né da alcun altro. Aggiunse aver negato il purgatorio,
l'inferno e il paradiso, negato anche il Sacramento dell'altare,
raccontando che nella cena di Stignano fra Dionisio l'avea
predicato con gli esempi di pugnalate date all'ostia, del pugno
datole da un inglese in Roma e di qualche altro fatto osceno; non
accettò che questo fosse stato commesso da lui, e nemmeno dal
Bitonto. Proseguì la storia delle proposizioni da lui dette al
Gagliardo contro il Papa e i Cardinali, contro l'istituzione
monastica, contro Cristo, contro i digiuni, contro l'immortalità
dell'anima; negò qualunque altra cosa appostagli, e specialmente
di aver detto che né per Cristo né pe' paternostri si sarebbe mai
fuori di carcere ma solo co' danari. Circa il Campanella disse di
aver manifestato che era nuovo Messia, farebbe miracoli come
Cristo, predicherebbe la libertà, ed avrebbe più seguaci ed
acquisterebbe più Stati, perché avrebbe la virtù unita con l'armi.
Negò poi di professare i detti errori e disse di averli
manifestati a que' compagni di carcere «per indurli o confirmarli
alla rebellione temporale», attribuendo a fra Dionisio
l'averglieli insegnati in que' viaggi ad Oppido, Bagnara e
Messina, e poi a Stignano ed a Stilo, nei quali l'accompagnò
insieme col Bitonto. E qui fece un'altra volta la noiosa
ripetizione di tutte le cose dette, nel modo in cui le aveva
espresse fra Dionisio, dal quale solamente affermò di averle
udite, mentre gli altri frati plaudivano. Circa i suoi compagni di
carcere in Castelvetere, manifestò l'opinione che Felice Gagliardo
non solo professasse quegli errori ma anche ne sapesse più di lui,
essendone stato istruito dal Bitonto, e così pure Orazio
Santacroce «al quale aveano confidata ogni cosa» e dal quale udì
che gli piaceva la ribellione progettata da' frati perché volea
vendicarsi del Vescovo di Gerace ed ammazzarlo con le sue mani!
Finì dunque per accusare anche il Bitonto, mostrandosi, da parte
sua, pentito di aver manifestato quegli errori. Da ultimo
interrogato se avesse conosciuto il Campanella e se gli avesse mai
parlato, disse di averlo veduto soltanto per dodici ore, quando da
Monasterace lo accompagnò a Stilo insieme co' frati, i quali lo
presentarono a fra Tommaso come uno degli amici, e fra Tommaso,
perché erano a cavallo, si volse a lui e disse «bene, bene», e non
iscambiarono altre parole.
Si passò quindi all'esame di Caccìa. Costui disse egualmente
trovarsi carcerato «per causa della rebellione procurata in questi
Stati»; ma i Giudici gli vietarono di proseguire e gli ordinarono
di rispondere alle interrogazioni, ed egli disse di credere che
veniva esaminato «per conto delle cose di fra Thomaso Campanella
et di fra Dionisio Pontio et di fra Gio. Battista di Pizzoni per
conto delle sue heresie et opinioni». Narrò che avea conosciuto il
Campanella una volta in Stilo, quando vi andò col Contestabile
verso la fine del maggio, rimanendovi per otto giorni, un'altra
volta parimente in Stilo rimanendovi tre giorni, ed una terza
volta in Arena. Avea conosciuto pure fra Dionisio le due prime
volte che era stato presso il Campanella, e poi una terza volta
quando l'accompagnò a Pizzoni, di dove fra Dionisio subito fuggì
per timore di Carlo di Paola venuto a carcerare fra Gio. Battista
e il Lauriana. Aveva inoltre conosciuto il Pizzoni nel convento in
cui era Vicario, ed era stato quattro volte presso di lui. Disse
di ritenerli tutti e tre «per homini tristissimi et pessimi et per
mali Christiani» per alcune cose scandalose che aveva udite da
loro. E cominciando dal Campanella narrò, che avendogli dimandato
se conoscesse arte magica, il Campanella gli disse «o chiotto, e
tu credi che ci siano diavoli?... pezzo di chiotto, non cè ne
diavoli ne inferno»; ed altra volta disse di volere «far nova
legge, et che quando cominciasse a predicare che allora si
sentirebbe la verità et la legge che esso volea fare, la quale
sarà la vera legge di vivere et meglio di questa delli
Christiani», soggiungendo: «non me communicò il particulare della
legge o della verità che pretendia di predicare, si bene intesi da
esso proprio nel sudetto loco che volea far mutar il modo di
vestire da quello che s'usa adesso et volea che si portasse una
giobba longa o sia veste, ma non sò come o di che colore». Venendo
a fra Dionisio disse che una volta, lui presente, volendo andare a
Messa, egli se ne burlò, chiamandola una bagattella; né altro udì
mai da lui contro la fede. Infine, venendo al Pizzoni, disse che
una volta, avendogli detto di sgridare il nipote Fabio già frate
che da poco tempo avea deposto l'abito monastico e si facea
chiamar Lucio, perché avea mangiato carne nella sera della vigilia
di S. Bartolomeo, non lo volle fare, burlandolo col dire che
vigilia s'intendeva il dì e non la notte; e un'altra volta, nel
leggere lui, il Caccìa, un tratto di Plinio in cui si parlava
della natura, dimandato al Pizzoni cosa fosse questa natura di cui
parlava Plinio, egli rispose che la natura era ciò che noi
chiamiamo Dio, e che non v'era altro Dio che la natura. Dichiarò
di non conoscere altri frati, e di ritenere che que' tre
credessero realmente a quelle opinioni, mentre egli non vi avea
mai creduto e si era sempre allontanato da loro quando le aveva
udite. Ma era venuto a conoscenza de' Giudici che nel convento
degli Agostiniani di Belforte, dove egli soleva dimorare, una
volta, avendo lui trovato su di un tavolo un Gesù crocifisso lo
avea gettato a terra, e si volle sopra di ciò interrogarlo; ed
egli rispose che si trattava solo di una testa di crocifisso, la
quale non avea nemmeno riconosciuta, e facendogli ingombro, l'avea
gettata a terra. Notiamo poi che la qualità di clerico fu ammessa
da' Giudici tanto pel Caccìa quanto pel Pisano, e trovasi
debitamente registrata nei processi verbali.
È questo, in succinto, il processo di Gerace, che per la presenza
del Vescovo nella compilazione di esso riuscì tanto più grave, non
avendo il Vescovo in realtà fatto altro che covrire e lasciar
passare la malvagità de' frati Inquisitori e la prepotenza degli
ufficiali Regii. Ma dobbiamo ancora vedere il valore delle
deposizioni raccolte. E cominciando da quella di fra Pietro
Ponzio, possiamo dire che essa non aggiunse nulla, e servì solo a
mostrare che veramente fra Pietro non era stato fatto consapevole
di queste faccende. La deposizione poi di fra Paolo della
Grotteria aggravò certamente le condizioni del Campanella e di fra
Gio. Battista, massime dal lato della congiura, quantunque non
avesse fornito che semplici indizii ed apprezzamenti degni di un
ex-galeotto, il quale non si faceva scrupolo di calcare la mano
su' compagni nell'impresa, credendo di propiziarsi i Giudici in
questa guisa. Ma grave riusciva sopra tutte le altre la
deposizione di fra Pietro di Stilo: egli rivelava finalmente
parecchie e non lievi cose tanto circa l'eresia quanto circa la
congiura, ed evidentemente dovea saperne molte di più, giacché, e
per l'amicizia che lo legava al Campanella, e per la sua posizione
di Vicario del convento che lo costituiva responsabile di aver
tollerato cose simili, avea tutto l'interesse di celare quanto più
poteva. Senza dubbio, dopo tante rivelazioni fatte dal Pizzoni e
dal Petrolo, dopo tante rivelazioni fatte anche da' laici, le
quali aveano già condotto alla morte il Crispo e il Mileri, negare
ulteriormente era di grandissimo pericolo per lui, di niun
vantaggio alla causa: adunque non trattavasi più solamente di dir
cose di eresia per sottrarsi alla Corte temporale, ma anche di
lasciare la parte dell'ingenuo che oramai non poteva più
persuadere alcuno, badando tuttavia a rivelare il meno possibile.
E rivelò le cose certamente più comuni e più frequenti a trovarsi
in bocca al Campanella, e parlò soltanto delle opinioni di lui sul
Re, sul Papa e sulla elezione Papale, sulla poca importanza de'
peccati di carne e la nessuna importanza de' miracoli, e se non
tacque l'opinione sul Sacramento dell'altare, ciò accadde perché
essa era nota al Petrolo ed egli era in grado di capire che costui
non avea dovuto tacerla. Così, con la stessa altissima probabilità
con la quale si è detto che il Pizzoni, seguìto poi dal Petrolo,
rivelò tutto ed anche qualche cosa di più, può dirsi che fra
Pietro di Stilo rivelò molto meno di quanto conosceva: e
naturalmente deve dirsi, che l'avere taluni abbondato nelle
rivelazioni delle cose di eresia, con la speranza di sfuggire in
tal modo la Corte temporale, va inteso non già nel senso di avere
inventate le eresie, ma nel senso di non averle nascoste. Per
farsi un giusto concetto della causa, interessa grandemente che
tutto ciò sia ben fermato. Le violenze, usate da fra Cornelio
poterono esser dirette a pretendere che fra Pietro facesse altre e
più gravi rivelazioni, ma quelle che fra Pietro fece non vennero
strappate a forza: difatti vedremo in sèguito dichiarato da lui
che «fra Cornelio scriveva troppo diffusamente», ridotta così
l'asprezza ma non negata la qualità delle sue rivelazioni; e
veramente è naturale ammettere che tanto la parola
«sceleratissimo» usata verso il Campanella nel primo esame, quanto
diverse altre parole aggravanti usate nel secondo esame, non sieno
state le precise parole di fra Pietro, ma, attenuate pure
convenientemente queste parole, il fondo delle cose non riusciva
sostanzialmente modificato. Lo stesso deve dirsi delle rivelazioni
di fra Pietro circa la congiura. È superfluo notare quanto sia
grave il fatto deposto che il Campanella riteneva dover essere
monarca del mondo in virtù di sette pianeti favorevoli, ciò che
era suggellato anche coll'autorità di un astrologo germanico;
nella premura di scolparlo dell'essersi lasciata dare la qualità
di Messia e di Profeta, fra Pietro non dovè calcolare l'importanza
della sua rivelazione. Del resto si sforzò di dire che il
Campanella, dietro i presagi e le profezie di future repubbliche,
raccomandava di avere molte armi per difendere sè stesso, ma non
potè nascondere che avea molti amici e aderenti, la qual cosa
doveva essere un fatto più che notorio. E fra essi nominò Giulio
Contestabile, senza dubbio pel risentimento eccitato dalla sua
mala condotta, e più ancora per la necessità di dover dire la
faccenda dell'oltraggio fatto all'immagine del Re, essendo ciò
conosciuto anche dal Petrolo; nominò il Vua e il Presinacio,
certamente perché li sapeva nascosti ed al sicuro dalle unghie del
fisco; ma non nominò Maurizio e con lui quanti altri egli dovea
aver visti e conosciuti nella sua posizione di Vicario del
convento di Stilo. Dei frati poi nominò appena fra Dionisio per la
ragione che era un aderente manifesto anche troppo, e fra Scipione
Politi per una ragione rimasta ignota ma che ci dovè essere,
poichè questo frate, sebbene nominato da tante e così gravi
testimonianze e già carcerato, non fu menomamente travagliato. Da
ultimo non potè nascondere che conosceva il Soldaniero e gli avea
portata una lettera del Campanella, essendosi probabilmente
persuaso che il Soldaniero, nel suo volta-faccia, avea dovuto
rivelare e forse anche presentare questa lettera. Come ben si
vede, egualmente da siffatto lato la deposizione di fra Pietro
venne ad aggravare la condizione del Campanella, sebbene fosse
stata condotta con una discrezione notevolissima. I Giudici non
poterono essere soddisfatti, perché si aspettavano da lui molto
più, e manifestamente non a torto. Anche per noi, attese le
qualità di fra Pietro, questa deposizione non può non avere una
importanza grande, né solo per quello che dice, ma anche per
quello che non dice e lascia trasparire sufficientemente. Il
Campanella aveva presagi di vicine mutazioni ed anche presagi
grandiosi per la persona sua, insinuava l'utilità di armarsi,
aveva molti aderenti e scriveva a fuorusciti per chiamarli a sè:
questi grandi tratti bastano a chiarire la causa, e nella
farragine di deposizioni d'ogni risma, trovandone taluna come
questa, non sospetta, sopra di essa conviene fondarsi per avere
una guida meno fallace nella intralciata quistione.
Poco ci tratterrà il giudizio sul valore delle rimanenti
deposizioni. Il Bitonto, negativo in tutto, trovò una scusa per
ogni interrogazione, ma una scusa tale da sfidare qualche volta la
pazienza de' Giudici, e per tal modo non recò alcun vantaggio a sè
né agli altri. Il Pizzoni poi giunse solo a confermare quanto avea
deposto, mentre pure sappiamo che voleva per lo meno emendate
alcune cose e non vi riuscì; questo ci comprova che nella prima
deposizione avea rivelato più del vero. Lo stesso va detto pel
Petrolo, le cui emendazioni non mutarono sostanzialmente le cose,
dovendosi tuttavia notare, che quella introdotta per ispiegare
meglio la sua fuga venne troppo tardi per potere veramente scusar
lui denigrando Maurizio. Del Lauriana poi, come del Soldaniero, è
inutile occuparsi: con ogni probabilità essi non avrebbero nemmeno
saputo ripetere tutte lo cose dette nella loro prima deposizione,
laddove a qualche Giudice, e p. es. al Vescovo, fosse venuto in
mente di esigerlo; intanto tutti costoro ribadivano le accuse, e
le cause del Campanella riuscivano sempre peggiorate. Quanto al
Pisano, egli, poco più o poco meno, ripetè sempre le solite cose,
come lo abbiamo visto innanzi al Delegato del Vescovo di Gerace e
poi innanzi allo Xarava, e come lo vedremo sul punto di essere
giustiziato; tuttavia questa volta si mostrò risentito e
vendicativo più del solito verso coloro i quali riteneva essere
stati rivelatori delle cose sue, specialmente verso il Santacroce,
oltre il Gagliardo. Tale sua costanza nelle deposizioni, mentre
addimostrava che egli diceva il vero, riusciva aggravante massime
per fra Dionisio e gli altri frati compreso il Campanella, sebbene
anche questa volta egli avesse dichiarato un po' meno del vero le
brevi relazioni avute direttamente con lui. Infine quanto al
Caccìa, costui veramente aggiunse cose di eresia ed aggravò sempre
più le condizioni del Campanella, di fra Dionisio e del Pizzoni:
non ne conosceva molte, e ciò prova da una parte che non glie ne
furono artificiosamente suggerite da alcuno quando trovavasi nelle
carceri, e d'altra parte che in realtà non v'era ne' frati il
proposito di seminare eresie, come fra Cornelio e i Giudici laici
pretendevano; invece quelle poche che dichiarò, e il modo in cui
disse di averle sapute, provano che se fra Dionisio ne parlava,
ciò avveniva realmente perché voleva, a modo suo, spiriti forti i
soldati della futura ribellione, e se ne parlava il Campanella,
ciò avveniva o perché vi era condotto dalla necessità dietro certe
dimande, o perché alludeva a' principii religiosi che avrebbero
avuto impero nel futuro Stato.
Pertanto una copia di questo processo, come veniva certamente
spedita a Roma, così veniva anche rilasciata agli ufficiali Regii.
Gli Atti esistenti in Firenze mostrano indubitabilmente tale
compiacenza de' Giudici ecclesiastici, e fanno rilevare che questa
copia rimase come allegato di tutto il processo di tentata
ribellione, mentre la copia dell'Informazione presa da fra
Cornelio e dal Visitatore era stata inserta nel 1.° volume de'
processi medesimi. Il Vescovo di Gerace verosimilmente chiuse gli
occhi sopra una simile infrazione delle norme assolute del S.to
Officio e degli ordini formali di Roma, che intimavano diligenza e
segretezza, come li chiuse certamente sopra gli esami fatti e le
torture inflitte da' Giudici laici al Pisano e al Caccìa, mentre
venivano riconosciuti clerici ne' quattro ordini sacri. Del resto
avea chiusi gli occhi anche sulla mancanza di segretezza durante
gli esami, per l'intervento degli ufficiali Regii e della loro
gente armata, la qual cosa si fece sentire in modo non lieve a
carico de' poveri inquisiti; giacchè non solo divennero sempre più
diffuse le voci di congiura e di eresia, ma ne andarono per le
piazze le più minute particolarità, e così in qualche altra
Informazione, che si ebbe a prendere posteriormente, si trovarono
generalizzate assai più di quanto era legittimamente imputabile
agl'inquisiti. Vedremo tra poco che in una nuova Informazione
commessa da Roma al Vescovo di Squillace, e presa in novembre e
dicembre di questo stesso anno, si raccolsero molte e molte cose
specialmente «de fama publica, de auditu incerto post
carcerationem», e non si potrebbe dire con precisione quante ne
avessero disseminate gl'inquisiti e quante i Giudici. Ma a'
Giudici medesimi, segnatamente a quelli ecclesiastici, nocque non
poco la loro sciagurata maniera di procedere: lo zelo eccessivo di
fra Cornelio, secondato per lo meno dalla notevole acquiescenza
del Visitatore, al contrario di ciò che costoro si attendevano,
come ingenerò sospetto in Roma, così ingenerò disgusto e sospetto
nel pubblico; il processo di eresia fatto in Napoli venne poi a
rivelare le voci corse sul proposito, e gioverà qui riferirle.
«Comunemente fra Cornelio e il Visitatore si tenevano Vescovi»; di
fra Cornelio «dicevasi che lo volevano fare sin fino Arcivescovo
di Toledo»! Era questa senza dubbio una caricatura, ma da essa si
desume l'impressione che i procedimenti di fra Cornelio aveano
destata: né vale il dire che tali voci vennero messe innanzi
dagl'inquisiti che aveano interesse di farlo, come fra Pietro di
Stilo, il Petrolo, ed anche il Bitonto, il quale disse perfino di
avere udito l'Avvocato fiscale assicurare fra Cornelio «che se li
saria procurato un Vescovato»; vedremo più tardi fra Cornelio,
deluso e malcontento, recarsi da Napoli in Ispagna, ed il Nunzio
risentirsene con vivacità, la qual cosa non potrebbe spiegarsi
senza ritenere che le voci corse avessero davvero un fondamento.
D'altra parte dicevano «alcuni preti in Hieraci, che fra Cornelio
havea preso de li dinari da Misuracha acciò che andasse contra li
monaci e facesse tutto il possibile contra di essi e questo per
havere la taglia»; molti attestarono ancora avere udito dal padre
del Pisano, ed egualmente dal Caccìa, che entrambi aveano dato
danaro ed altre robe a fra Cornelio dietro promessa di farli
rimettere al foro ecclesiastico, ed egli li avea traditi. Il
Campanella medesimo raccolse poi queste voci e le addusse nelle
sue Difese; ma per verità almeno quanto al Mesuraca, non occorreva
l'opera di fra Cornelio e non era stata neanche bandita una taglia
o premio per la cattura del Campanella; quanto poi al Pisano ed al
Caccìa, la cosa potè esser vera, essendo avvenuto pure qualche
altro fatto che pose in evidenza lo spirito di profitto di quel
tristo frate. Il fatto fu questo. Allorchè l'opera sua era
compiuta, e rimaneva soltanto che gl'inquisiti fossero tradotti a
Napoli, egli cercò danaro da' conventi di Calabria sotto pretesto
di sovvenire gl'inquisiti; il danaro fu sborsato, ma non giunse a
coloro pe' quali era stato raccolto, e il Visitatore anche questa
volta per lo meno lasciò fare. Il Vescovo di Termoli, Giudice
dell'eresia in Napoli, volle poi informarsi di tale faccenda e
scrisse a Roma intorno al Visitatore e a fra Cornelio in questi
sensi: «la verità è che si fecero dar molti denari per provedere a
questi carcerati, et non gli è stato provisto, mà frà Cornelio li
hà spesi in venir à Roma, et si come intendo ne diede conto alli
superiori in Calabria».
Passiamo ora a narrare le ultime gesta dello Spinelli e dello
Xarava in quelle sventurate provincie. Secondo gli ordini già dati
dal Vicerè, essi dovevano far giustiziare quattro de' più
colpevoli, ed inoltre anche Maurizio dopo di averne vagliata bene
la causa, quindi tradurre tutti i rimanenti carcerati in Napoli.
Ma, come il Vicerè medesimo fece sapere a Madrid con sua lettera
del 20 ottobre, essendo i carcerati più di cento, e tra loro
venticinque fuorusciti ed otto o dieci frati, a fine di
risparmiare questo peso alle terre per le quali avrebbero dovuto
passare, egli ordinò a D. Garzia di Toledo che con quattro galere,
raccogliendo i soldati inviati a Lipari e ad altre parti, se ne
venisse al Pizzo o a Scalèa e di là avvertisse lo Spinelli di
recarsi con tutti i carcerati ad uno di que' posti, per imbarcarsi
con loro nelle galere e tornarsene in Napoli; quivi giunti, egli
diceva, «se ne vedranno le colpe e si procederà con loro come
meglio convenga, procurando di esaminare radicalmente il fatto di
questo negozio e quelli che vi si troveranno colpevoli». Sappiamo
che le galere erano partite da Napoli il 10 8bre (ved. pag. 330),
ma l'adempimento della loro commissione a Lipari e poi il mare
procelloso furono cagione di tanto ritardo, che gli ordini del
Vicerè si poterono eseguire solamente ai primi di novembre. Da'
folii del processo finora noti non apparisce che in tutto questo
tempo si fossero fatti altri esami di qualche importanza: ma
bisogna sempre ricordarsi che la massa de' sunti a noi pervenuti è
solo quella che direttamente o indirettamente riguarda
gl'inquisiti ecclesiastici, e mentre da una parte si trova ancora
in que' sunti qualche cosa di siffatto genere, d'altra parte
sappiamo che vi furono perfino altri laici «convinti e confessi» e
poi giustiziati nel porto di Napoli; riesce quindi manifesto che
fino all'ultimo momento la persecuzione continuò e il tribunale
non cessò mai di funzionare. Noi abbiamo cercato di raccogliere in
un elenco i nomi di tutti coloro i quali si trovano citati in ogni
maniera di documenti, e massime ne' processi, come carcerati o
perseguitati per la causa del Campanella: i lettori lo troveranno
in una delle Illustrazioni annesse a' Documenti e potranno prender
conoscenza di questi nomi. Qui ne menzioneremo appena taluni, che
non abbiamo ancora avuta occasione di citare e che poi vedremo
emergere nel corso degli avvenimenti; p. es. Francesco Antonio di
Oliviero di Nicastro, che il Campanella nelle carceri di Napoli
segretamente ebbe a compiangere perché del tutto estraneo a que'
maneggi; Marco Antonio Giovino (corrottamente Ingioino) di
Catanzaro, a' cui fratelli venne poi imputata l'uccisione del
fratello del Biblia per vendetta. Ma principalmente dobbiamo
menzionare taluni catturati da Giulio Soldaniero e Valerio Bruno,
i quali, dopo di aver consegnato Gio. Tommaso Caccìa, continuarono
in siffatti servizii e si meritarono poi l'indulto consegnando «in
Gerace» Gio. Battista Bonazza alias Cosentino di Nicastro, Fabio
Furci, Scipio lo Jacono, Cola Politi, Conte Jannello, Marcello
Barberi, tutti di Tropea, ed Orazio Paparotta (o forse meglio
Paparatto) di Nicotera. I nomi di costoro con la qualità di
«forasciti et rebelli» si leggono appunto nell'indulto concesso
dallo Spinelli al Soldaniero e al Bruno, ed i primi tre, il
Bonazza, il Furci e il Lo Jacono son detti «confessati in tortura
et condennati a morte», gli altri son detti «carcerati in questo
tribunale per tormentarli». Sul Bonazza noi abbiamo rinvenuto nel
Grande Archivio documenti i quali mostrano essere stato già prima
del 1599 catturato e condannato a morte e poi mandato alle galere
per omicidio; bisogna perciò dire che in quest'anno fosse evaso ed
ascritto tra' congiurati siccome anche il Pizzoni attestò; per
fermo le parole dell'indulto non lasciano dubbio circa la nuova
imputazione fatta a lui ed a' suoi compagni e dànno il modo
d'interpetrare i nomi e la condizione di almeno tre su' quattro
individui che vennero più tardi impiccati sulle galere in vista di
Napoli come ribelli, senza essersene saputo mai altro. I processi
ecclesiastici fanno anche conoscere per incidente come e dove il
Bonazza e i suoi compagni furono presi: essi erano rifugiati nel
convento di S. Francesco di Paola di Tropea e vennero assediati
dal Soldaniero con la sua comitiva, ed anche da un Camillo di
Fiore con un'altra comitiva; costoro promisero che catturando que'
rifugiati li avrebbero consegnati nelle carceri Vescovili, ed
invece, burlando il Vicario, li tradussero a Monteleone e poi a
Gerace nelle mani dello Spinelli, onde il Vescovo di Tropea ebbe a
scomunicarli.
Come pe' laici, egualmente per gli ecclesiastici continuarono le
catture e si prese anche qualche Informazione, ma sempre d'ordine
dello Spinelli; e da questo lato abbiamo notizie incomparabilmente
più complete, fornendole gli Atti esistenti in Firenze ed inoltre
i Preliminari del processo di eresia fatto in Napoli. Mentre il
tribunale ecclesiastico funzionava in Gerace, il 13 ottobre fu
catturato fra Francesco di Tiriolo Domenicano, essendogli stata
trovata una licenza per andare in Candia e Venezia, una carta
scritta in turco e certe lettere nelle quali si diceva dover lui
andare in Turchia per fare un riscatto; lo prese il Capitano
Manfusio nel convento di Cutro. Verso il 18 ottobre fu catturato
D. Gio. Battista Cortese clerico del Casale di Pimeni in casa di
Gio. Vincenzo Camarda, ed inoltre D. Gio. Andrea Milano sacerdote
di Filogasi, mentre si ritirava nella sua abitazione; si ricorderà
che entrambi erano stati nominati nella lettera scritta dal Crispo
a Geronimo Camarda e caduta nelle mani del fisco. Il 20 ottobre fu
catturato anche D. Marco Petrolo di Stignano, quel buon sacerdote
che dopo aver dato ricetto al Campanella lo denunziò; un Ferrante
de Sanctis napoletano lo prese di notte in casa del cognato. Verso
il 23 ottobre fu catturato D. Colafrancesco Santaguida di S.ta
Caterina sacerdote, mentre assisteva a certe lezioni; lo prese
Gio. Battista Carlino Commissionato dello Spinelli, perché quattro
testimoni deposero esser lui andato in giugno sulle galere turche
e statovi circa un'ora in compagnia di diversi altri, fra' quali i
due clerici Giovanni Ursetta e Valentino Samà della stessa terra,
e costoro furono egualmente catturati. E fino all'ultimo momento,
quando i prigioni erano sul punto d'imbarcarsi al Pizzo, fu
ricordato D. Domenico Pulerà che abbiamo visto altrove denunziante
di fra Pietro Musso: era sacerdote di Pimeni e stava a Filogasi
presso il Vescovo di Mileto; lo Spinelli credè bene di chiamarlo
al Pizzo e farlo imbarcare egualmente. Aggiungeremo che fu unito
agli altri anche un Giulio di Arena, clerico coniugato di
Maierato, il quale fu preso dal Governatore del Pizzo e condotto
sulle galere, onde si trovò poi nella lista degli ecclesiastici
prigioni, senza che apparisca alcun altro provvedimento per lui:
le nostre ricerche nell'Archivio di Stato ci hanno fatto trovare
un documento, il quale mostra che questo clerico veniva richiesto
da Napoli per altri delitti. Aggiungeremo ancora che il 31
ottobre, se pure non è uno sbaglio del Mastrodatti nella
indicazione del mese, fu presa una Informazione a Stilo
dall'Auditore De Lega intorno alle relazioni tra Giulio
Contestabile, il Campanella ed altri: dodici testimoni, tra' quali
due donne, attestarono più o meno l'amicizia del Campanella con
Giulio e col Di Francesco, con Marcantonio Contestabile, col
Caccìa ed altri fuorusciti, col Vua e col Prestinace che si erano
assentati; taluno affermò pure che il Di Francesco una volta avea
dimandato uno spirito familiare al Campanella e costui rispose che
non ne sapeva niente; altri affermarono di più che il Di Francesco
e il Campanella avevano insieme mangiato carne in giorni proibiti!
Ciò mostra che oramai tra le popolazioni le notizie dell'ordine
temporale e dello spirituale correvano congiunte in guisa, che
pure i Giudici laici avevano a raccogliere da persone indifferenti
fatti dell'una e dell'altra categoria.
I carcerati riuniti per essere tradotti a Napoli furono al numero
di 156, come risultò appunto nel loro arrivo e troveremo accertato
da diversi fonti. Ognuno avrà visto che erano stati messi insieme
tanto quelli ritenuti veramente colpevoli quanto i semplici
sospetti, gl'imputati e parecchi testimoni: basta ricordare che a
lato di fra Tommaso trovavasi carcerato non solo il fratello Gio.
Pietro, ma anche il vecchio padre Geronimo, a lato di fra Dionisio
trovavasi fra Pietro Ponzio suo fratello etc. Ma ognuno avrà visto
pure che molti, e non di lieve importanza, erano riusciti a
tenersi nascosti; abbiamo altrove citati parecchi di costoro e
potremmo citarne ancora diversi altri, come p. es. Ottavio
Sabinis, Paolo e Fabrizio Campanella, Geronimo Ranieri etc. E
però, tenuto conto anco dei fuggiaschi e perseguitati, il numero
de' compromessi risulta sempre ragguardevole; né si deve passare
sotto silenzio che dietro quella mostruosa denunzia di Lauro e
Biblia il numero de' carcerati dovè essere dapprima molto più
grande e dovè poi mano mano assottigliarsi, certamente per una
parte assai insignificante in via di pura e semplice giustizia; la
qual cosa ci conduce a parlare anche, da una parte,
dell'accanimento e ferocia dimostrata dal volgo verso il
Campanella e i suoi aderenti veri o supposti, e, d'altra parte,
delle iniquità e ruberie commesse da' Giudici laici in tale
occasione. Il Campanella in più luoghi de' suoi scritti diè chiare
prove del suo profondo disgusto verso que' di Stilo in
particolare, e le popolazioni in generale, per l'accanita
persecuzione che n'ebbe, e il concetto del «popolo», che egli,
repubblicano, ebbe a farsi dietro la persecuzione sofferta, merita
di essere rilevato: si può vederlo nelle sue Poesie, dove
segnatamente egli l'espresse con più calore. In altri suoi scritti
poi affermò esservi stato un numero grandissimo di carcerati, ben
superiore a quello che conosciamo tradotto in Napoli dallo
Spinelli, e un numero ragguardevole di «riscatti» e di «composte»,
nominando perfino gl'individui che vi furono soggetti, oltre le
cupidige e le promesse di titoli e di ricompense a' rivelanti e
persecutori. Nelle Lettere che scrisse il 1606-07 al Papa, a'
Cardinali etc. egli spesso accennò a questi fatti; nella 3a
lettera al Papa, da noi pubblicata, scrisse, che «fingendo di
salvarla (la Calabria) la spopolaro, la sacchiaro, la compostaro».
Nella Narrazione poi naturalmente si espresse con molto maggiore
larghezza. «Seguio Spinelli e Xarava a carcerar quasi due mila
persone in tutte le terre, dove era stato Campanella e F.
Dionisio, et alcuni Baroni... Quelli che non preveniro d'accusare
e fur accusati, si sforzaro riscattarsi con denari e chi pagava
mille, chi due mila, chi tre mila, chi cento, chi cinquecento
docati per non andar carcerati alli Commissarii et à Xarava e
Spinelli. Pagaro assai quelli che già eran carcerati e subito eran
liberati... Colui che nominava più gente, et dicea il tale, el
tale ponno esser complici quello era più stimato da Spinelli e
Xarava, e chi volea dir una parola in difesa loro era carcerato
per ribelle, e se pagava era liberato, se no era afflitto
miserabilmente, come anche quelli che murmuravano delle composte
si facevano alle terre oltre della paga che dava loro il Rè e
faceano ciò che lor piacea non solo impunemente, ma premiati, e
travagliando li contradicenti alle composte loro». E
nell'Informazione, accennate anche le promesse di titoli di Conti
e Marchesi fatte ad ognuno che rivelasse, scendendo a' particolari
de' riscatti soggiunse: «Si compostaro assai gente in danari,
dicendosi, che dovean morire jure belli, et ognuno volea perder
più presto la robba, che la vita, però davano quanto teneano, et
io sò che G. Francesco Branca di Castrovillari pagò docati mille.
G. Francesco Suppa di S. Caterina col figlio docati mille. Cicco
Vono col nepote di Stignano 2500 libre di seta, Giulio Saldaneri
pigliato nel convento di Suriano per opera di F. Cornelio, e del
Polistena, indultato perché dicesse heresia, e ribellione, docati
3000, et la propria anima come esso stesso solea dire, come appar
in processo del S. Officio. Gio. Thomaso di Franza tallaroni 200,
li Moretti M. Antonio (volea dire Ferrante) et Jacopo fratelli,
furo compostati 7000 docati in Jeraci, e perché poi non li volsero
pagare, furo condotti in Napoli con gli altri, che non si volsero
ritrattare: ci son altri più compostati; oltre le terre e casali
per dove passavano, come salvatori della provincia, qual hanno
ruinata e disertata con le scorrerie che faceano». In verità il
numero di due mila carcerati non corrisponde menomamente alle
notizie su' progressi delle catture, quali risultano dalle
relazioni dello Spinelli al Vicerè e da quelle degli Agenti di
Firenze e di Venezia a' loro Governi; ma noi non rifuggiamo punto
dal credere che la lista di carcerati e le altre indicazioni
datene dallo Spinelli rappresentarono solo quella parte di essi
che non potè liberarsi co' riscatti, tale essendo stato pur troppo
il costume di quei tempi, favorito da' poteri enormi che ne' casi
straordinarii solevano concedersi anche per la sola persecuzione
de' fuorusciti, ed aggravato dalla necessità di servirsi di tanti
Commissionati avidi e ladri, onde le regioni sottoposte a simili
flagelli rimanevano veramente disertate. È naturalissimo che lo
Spinelli abbia seguito anche in Calabria il sistema scellerato di
quell'età, e si può ritenere per certo che i suoi Commissionati ne
abbiano fatte d'ogni genere, non essendo neanche quelli di ordine
più elevato rimasti paghi alle ricompense di nobiltà, alle quali
ci è pervenuta notizia che aspiravano; poichè, come del Visitatore
e di fra Cornelio si disse che attendevano Vescovati, parimente si
disse di D. Carlo Ruffo che pretendeva essere Principe di Stilo,
di Gio. Geronimo Morano che pretendeva un Marchesato, di Ottavio
Gagliardo che pretendeva una Baronia. Ma i profitti non doverono
essere tanto grandi in persona dello Spinelli, sapendosi, come
abbiamo già avuta occasione di notare altrove, che egli rimase pur
sempre nelle strettezze (ved. pag. 237): tuttavia un documento
rinvenuto nell'Archivio di Stato ci mostra che lo Spinelli dovè
ottenere dal Vicerè anche prima di partire dalla Calabria, in data
del 31 ottobre, una sanatoria straordinaria, mediante ordine
all'Audienza di Calabria ultra di «non intromettersi nelli negotii
da lui fatti nella predetta provincia, etiam per la sua absentia».
Ciò comproverebbe che le affermazioni del Campanella non furono
del tutto infondate, e che i carcerati messi insieme per essere
tradotti in Napoli rappresentarono realmente la parte residuale di
un più gran numero, il quale forse andò diminuendo al punto, da
dover essere negli ultimi tempi rinforzato anche con individui a'
quali fin allora non si era data importanza; la qualità degli
ecclesiastici, che abbiamo visto carcerati negli ultimi tempi,
menerebbe perfino a una simile conclusione. Ripetiamo poi che vi
doverono essere molti fuggiaschi, e la Turchia dovè offrire anche
questa volta il luogo di rifugio agli esuli: se dovessimo credere
alle voci corse allora, fino a tre mesi dopo la partenza de'
carcerati continuava ancora l'emigrazione in Turchia, ed aveva
raggiunta una cifra esorbitante. Queste voci erano senza dubbio
esagerate; ma vedremo nelle Allegazioni del fisco in Napoli posti
a carico del Campanella, oltre gl'infelici giustiziati, i «molti
altri contumaci che erano fuggiti e che aveano perduto i beni e la
patria»!
Alla fine di ottobre D. Garzia di Toledo, Consigliere del
Collaterale anche lui come lo Spinelli, Castellano di S. Elmo in
Napoli, Comandante le Regie galere per quegli anni, era già con
quattro galere a Tropea «per imbarcare i prigioni Calavresi»;
questo ci mostra il carteggio del Residente di Venezia, con la
notizia di una lettera a lui scritta da D. Garzia da quel luogo e
in quella data, a proposito di certi schiavi e cannoni che egli
avea comperati da un capitano veneziano. D'altro lato lo Spinelli,
che avea dovuto recarsi a Catanzaro per presedere alla nuova
elezione del «reggimento» della città, il 3 novembre giungeva al
Pizzo, come si rileva dal luogo e dalla data dell'indulto concesso
al Soldaniero ed al Bruno: con lui trovavasi la massa de'
carcerati, la quale fu fatta fermare propriamente in Bivona,
borgata oggi diruta, posta sulla spiaggia al sud del Pizzo, ed
ecco quanto sappiamo intorno al viaggio fatto da quegl'infelici.
Da Gerace i carcerati furono condotti in lunga catena a coppie,
percorrendo un buon tratto di paese e dando uno spettacolo
straordinario alle città e terre per le quali passavano. Massime i
più gravemente incolpati si facevano notare per la loro età
giovanile: poichè de' frati, il Campanella non avea che 31 anno,
fra Pietro Ponzio 30, fra Dionisio probabilmente 32 o poco meno,
fra Pietro di Stilo 27, il Petrolo 26, il Lauriana 28, il Bitonto
32, il Pizzoni 35, fra Paolo 38; de' laici e clerici poi Maurizio
non avea che 27 anni, il Caccìa e il Pisano 25, Giulio
Contestabile 32, Geronimo di Francesco 26, Felice Gagliardo 22,
Geronimo Conia 21, Giuseppe Grillo 19 etc. etc. Per ogni verso
essi avrebbero dovuto destare una profonda pietà; non di meno
dalle rivelazioni avute in Napoli col processo di eresia
conosciamo che il volgo, cioè a dire l'immensa maggioranza, li
chiamava «inimici di Dio e del Re». L'avere essi trattato co'
turchi, l'aver voluto dare la provincia a' turchi, l'essersi
imbevuti di eresia, l'essersi proposti di far la vita dissoluta,
come n'erano corse le voci, avea certamente eccitato ognuno contro
di loro, senza contare l'odio e il disprezzo che suole
accompagnare chi non riesce in altrettali imprese: il Campanella,
già prima tanto esaltato, venne allora mostrato a dito con gioia
feroce dalle moltitudini, che esalavano la loro ignoranza e i loro
istinti di brutale malvagità, invano negati dagli adulatori del
popolo ancora più spregevoli degli adulatori de' Principi; dovè
quindi convincersi appieno che
«Il popolo è una bestia varia e grossa»
come di poi cantò. In Monteleone vi fu una fermata della carovana,
e Padri Gesuiti confortarono a ben morire alcuni de' carcerati,
che avrebbero dovuto essere «quattro de' più colpevoli» aggiuntovi
poi «benanco Maurizio de Rinaldis», secondo gli ordini dati dal
Vicerè fin da' primi di ottobre: ma effettivamente sappiamo solo i
nomi di Maurizio e di Gio. Battista Vitale, che sarebbero stati
confortati, e sappiamo che il Vitale non volle dare ascolto alle
esortazioni de' Padri Gesuiti, ripetendo le eresie insinuategli da
fra Dionisio. Ma presto la carovana si rimise in via e poggiò a
Bivona, dove la raggiunsero fra Cornelio e fra Gio. Battista di
Polistina, i quali con la loro presenza e la loro unione
contristarono ancora gli infelici frati prigionieri. Secondo il
Pizzoni, che trovavasi legato a mano a mano con fra Paolo della
Grotteria in un magazzino di sali, il Campanella, mediante un
soldato del Capitano Figueroa, l'avrebbe quivi minacciato di porlo
in più grave intrigo laddove non attendesse a ritrattarsi: secondo
fra Pietro di Stilo ed anche secondo il Petrolo, fra Gio. Battista
di Polistina avrebbe detto a ciascuno di loro che badassero bene a
deporre contro fra Dionisio, aggiungendo a queste raccomandazioni
lusinghe e minacce, come vedremo nel processo di eresia svoltosi
in Napoli. Che era intanto avvenuto, perché in Monteleone non si
facessero più le esecuzioni capitali prescritte? Ce lo dice il
Carteggio Vicereale e quello del Residente di Venezia, il quale
ultimo ci fornisce a tale proposito notevoli particolari. Secondo
il Residente, «haveva d.to Spinelli sentenciato Mauritio Rinaldi,
Capo secolare della congiura, di essere à Monteleone segato vivo à
traverso, ma non havendo per tempi fortunevoli potuto le galee
prender porto in quella parte, hà riservato così fatto spettacolo
da farsi in questa città a beneplacito del Vicerè». Anche in
un'altra lettera posteriore, scritta con più di un mese e mezzo di
intervallo, il Residente tornò a menzionare l'atroce ed insolita
condanna di Maurizio «di esser segato vivo tra due tavole», e ciò
dà motivo di ritenere che non sia stata questa una delle ordinarie
frottole in corso per la città; quanto poi al motivo per cui la
condanna non fu eseguita, bisogna dire che le galere non poterono
tenersi al sicuro ed aspettare impunemente qualche giorno. Infatti
una lettera Vicereale, scritta quando i carcerati vennero in
Napoli, ci dice che «si aveano da giustiziare in Monteleone sei
che erano convinti e confessi, e per non far trattenere le galere,
li condussero con gli altri», ciò che spiega pure quanto sappiamo
de' conforti a ben morire prestati ad alcuni da' Gesuiti in
Monteleone. Vi fu dunque una semplice mancanza di tempo, avendo
dato verosimilmente fretta il mare procelloso in un posto di poco
sicuro ancoraggio. Ma alfine i carcerati s'imbarcarono, e con
loro, oltre lo Spinelli e lo Xarava, anche fra Cornelio e il
Visitatore; e si imbarcarono dippiù taluni di quelli che si erano
distinti nella repressione della congiura. Certamente s'imbarcò
sulla capitana di D. Garzia il Principe della Roccella
accompagnato da molti dei suoi servitori «con l'occasione
dell'anno santo», vale a dire del Giubileo che era stato indetto,
come abbiamo rilevato da un'altra Informazione di S.to Officio; e
ben s'intende che costui, al pari degli altri suoi socii in
benemerenza, andava a riceversi i sorrisi, le lodi e i favori, che
il Vicerè si sarebbe benignato di accordargli.
Lasciamo ora che gl'infelici prigioni arrivino in Napoli, ove
ripiglieremo la cronaca de' loro strazii, e fermiamoci ancora a
vedere ciò che accadde in Calabria durante e dopo la loro
partenza, sempre in rapporto al nostro argomento.
Il fatto più importante per noi fu la novella Informazione, che il
Vescovo di Squillace ebbe a prendere sulle cose del Campanella,
per commissione di Roma. Avuta la copia dell'Informazione presa
dal Vescovo di Gerace, la Sacra Congregazione Romana evidentemente
non poteva rimanerne soddisfatta: per lo meno, essendo stato
affermato così da fra Cornelio come dal Vicerè che Stilo con le
sue vicinanze fosse tutto imbevuto delle eresie del Campanella, la
cosa non risultava menomamente chiarita; sorgeva dunque l'assoluto
bisogno di una ulteriore Informazione, e questa fu subito commessa
al Vescovo di Squillace, nella cui diocesi erano comprese la città
di Stilo e le altre terre delle quali volea conoscersi la
condizione vera. Il testo dell'Informazione o «Processo di
Squillace» non ci è pervenuto, ma ce ne sono pervenuti i Sommarii
molto precisi, redatti in Roma e mandati a' Giudici dell'eresia in
Napoli, e ci è pervenuto anche tutto intero un Supplimento alla
detta Informazione commesso da uno di cotesti Giudici, il Vescovo
di Termoli. Tra le deposizioni, che fanno parte del Supplimento,
ve ne sono due che ricordano le deposizioni anteriori del 5
novembre e del 19 dicembre 1599, le quali date servono a mostrare
quella del processo di cui parliamo, cominciato anche un po' prima
che il Campanella e socii partissero dalla Calabria, proseguito
per due mesi e verosimilmente anche più, atteso il gran numero di
coloro che furono chiamati a deporre: il Supplimento stesso ci
mostra che presedè alla formazione del processo il Vescovo in
persona, Tommaso Sirleto, insigne uomo appartenente all'insigne
famiglia de' Sirleti di Guardavalle patria di Maurizio, assistito
dal suo Vicario generale Agazio Mantegna. Furono chiamati a
deporre tutti i frati dei conventi di Stilo e di quelli delle
terre vicine, p. es. di quelli di S.ta Caterina, come ne diè
notizia una delle deposizioni raccolte nel processo di eresia
fatto in Napoli; ma furono chiamati anche molti ecclesiastici
secolari e molti laici delle migliori famiglie di Stilo e luoghi
vicini, come si rileva da' nomi che si leggono a capo di ciascuna
deposizione. Gioverà ricordare quelli che sono stati già citati
finora, e qualche altro che si dovrà ancora citare nel corso di
questa narrazione, segnatamente quelli che si fanno notare per
qualche condizione speciale; poichè ricordarli tutti sarebbe
perfino inutile, mentre si possono rilevare da' Sommarii del
processo. Furono dunque tra coloro che deposero, naturalmente a
carico, dei Contestabili Paolo e Fabio, che sappiamo essere l'uno
padre e l'altro fratello di Giulio e di Marcantonio; de' Carnevali
poi Gio. Francesco e Fabrizio, che abbiamo veduto altrove essere
ecclesiastici, l'uno zio e l'altro fratello di Gio. Paolo, dippiù
Fabio altro fratello, Prospero padre e Minico (Domenico) altro
zio. Vi fu ancora Giulio Presterà, che sappiamo giovane e medico,
amico del Campanella, Gio. Jacovo Prestinace che ci risulta cugino
di Gio. Gregorio l'intrinseco del Campanella, Francesco Plutino il
capitano nominato dal Campanella nella sua Dichiarazione,
Francesco Vono che abbiamo visto del pari amico del Campanella,
che vedremo nominato da lui nella sua pazzia e che sappiamo
essersi liberato dalle persecuzioni per la congiura mercè molte
libbre di seta. Potremmo citare altri nomi degni di menzione, come
uno Scipione Presterà, un Gio. Maria Gregoraci, diversi
Jeracitano, qualcuno de' Crea, Vigliarolo, Principato etc. tutti
di Stilo, e parecchi che ci risultano di Guardavalle, di Stignano,
di S.ta Caterina, di Riaci, di Camini, di Girifalco. Ci limiteremo
ad aggiungere che vi fu pure quel Tiberio Lamberti che presentò la
denunzia di D. Marco Petrolo, vi furono due donne (Francesca
Scivara e Caterina di Francesco), infine anche un Marcello
Salinitri e un Carlo Licandro, i quali, deponendo contro il
Campanella, non nascosero di essergli nemici, senza che ne
apparisca il motivo. E noteremo che il non esservi stati taluni
altri conosciuti come stretti amici del Campanella, p. es. Tiberio
e Scipione Marullo, i fratelli D. Gio. Jacobo e Ottavio Sabinis,
rende sempre più credibile che costoro si tenessero nascosti; la
qual cosa può dirsi con fondamento anche maggiore per quelli
egualmente conosciuti come parenti di fra Tommaso, p. es. Paolo e
Fabrizio Campanella, de' quali si deposero alcune proposizioni già
manifestate dal Campanella e commentate da loro, senza vederli
interrogati e senza saperli carcerati e partiti per Napoli.
Assai ci pesa il dover dare un cenno di ciò che emerse da questo
processo di Squillace, poichè da una parte riesce impossibile
esporre tutta la colluvie di cose che si raccolse, e d'altra parte
esponendo con un po' d'ordine le cose principali riesce
inevitabile una riproduzione di quanto si è detto a proposito
delle opinioni manifestate dal Campanella nel periodo della
congiura. Ma gioverà conoscere testualmente le cose principali co'
nomi di coloro che le rivelarono, e apprezzarne il valore e
l'importanza. Cominciando dalle cose riferibili al nuovo Stato, si
affermò che il Campanella «volea fondare una nuova setta per
vivere liberamente et fare il crescite» (test. Fabrizio Carnevale,
Marcello Salinitri, Gio. Consueva), che «voleva far mutare habito
et vestimenti et dire che ci era libertà di coscienza» (Gio.
Jacobo Prestinace), che nella «nuova setta di libertà»
s'indosserebbero «certi habitelli et copulini» (Ottavio Buccina),
che gli uomini si abbiglierebbero «con veste bianche sino al
ginocchio, con una tovaglia alla testa che pendi à dietro, et con
un capellino in testa» (Gio. Jacobo di Reggio), ed era con altri
salito sul monte di Stilo, dove mangiarono ed intitolarono quel
monte «monte pingue e di libertà» (Scipione Presterà, Francesco
Bartolo etc.); che era Profeta, che volea farsi chiamare il Messia
di Dio della verità etc. (Gio. Andrea Crea, Geronimo Jeracitano,
Gio. Francesco Carnevale, Giuseppe Ranieri ed altri). Venendo alle
cose riferibili alla Religione ed alla Chiesa, bisogna notare che
in questo processo non vi fu alcuna deposizione intorno
all'opinione della non esistenza di Dio attribuita al Campanella
pei processi anteriori, ma intorno a Gesù, alla sua resurrezione,
a' miracoli, non che intorno al Crocifisso, si depose avere il
Campanella detto, che Gesù «non è stato figliolo di Dio» (Gio.
Andrea Crea), che «fu bravo huomo e capo di sette» (Marcello
Salinitri a detto di Giulio Contestabile, Francesco Plutino etc.),
che nella predica avea dichiarato essere il precetto quod tibi non
vis alteri ne feceris stato detto da un filosofo gentile prima di
Cristo (Tiberio Vigliarolo), che «non bisognava si adorasse il
Crocifisso perché era un pezzo di legno» (Paolo Contestabile e
Fabio Contestabile a detto di Marco Antonio che l'aveva udito dal
Caccìa), che «non si doveva credere ad un appiccato» (Giulio
Presterà, Luzio Paparo, Lorenzo Politi, Desiderio Lucane), che
«Cristo avea potuto fare che ci fosse un altro in croce e che esso
non fosse morto» (fra Scipione Barili a detto di fra Scipione
Politi), che «le cose che si dice haver fatto Moisè tutte sono
state per ingannare li popoli» (fra Francesco Merlino), che «bravo
huomo era stato Mosè e Maumetto e Christo, e che se bene Martino
Lutero haveva acquistato 26 o 27 Provincie non haveva fatto nulla»
(Francesco Plutino). Quanto alla Trinità, a' Sacramenti,
all'Eucaristia, all'inferno, purgatorio e paradiso, si depose
avere il Campanella detto, «che tutte le cose della nostra fede si
possono passare eccetto che questa cosa della Trinità, che vi
sieno tre persone in una» (Gio. Gregorio Argiro), che era stato
udito Paolo Campanella parlare al fratello Fabrizio di
proposizioni di fra Tommaso intorno alla Trinità ed ai Sacramenti,
dicendo che «non credeva si consacri hostia», e soggiungendo
«havrei pagato cinquanta ducati a non intendere queste cose» (Gio.
Domenico Pilegi), che il Campanella medesimo avea detto a Fabrizio
«provarsi che il sacramento non era sacramento» (Gio. Jacobo
Vigliarolo), che «aveva uno spirito nell'unghia» (fra Berardino),
che non credeva esservi il diavolo, chiamandolo babao per far
temere le genti (Carlo Licandro), che avea detto a Fabio
Contestabile «si pigliasse spassi e piaceri... che del resto è
pensiero di chi è» (Fabio Contestabile), ritenendo non esservi
inferno (Fabio Carnevale, Desiderio Lucane ed altri). Quanto ad
orazioni, che il Campanella avea cancellato da un libro di
preghiere, appartenente alla Congregazione del Rosario e
presentato allora al Vescovo, alcune invocazioni a Maria, a S.
Domenico, a S. Giacinto, a S.ta Caterina, per ottener grazia, «che
non voleva si dicessero» (Gio. Francesco Carnevale), ed era stato
direttamente veduto quando le cancellava (Fabio Carnevale, Fabio
Contestabile). Ed ancora avea detto «la fornicazione non essere
peccato,... essere cose naturali» (fra Gio. Battista di
Placanica); e una volta «con altri nella propria cella fece il
crescite con una certa Giulia» (Gio. Maria Gregoraci). Ed avea
mangiato carne in giorni proibiti (molti), anche in casa di
Geronimo di Francesco e del suo zio Domenico Campanella (Fabrizio
Carnevale, Fabio Contestabile), adducendo la regola Apostolica
comedite quod appositum est vobis (Gio. M.a Gregoraci); e una
volta chiese chi avesse prescritto tali proibizioni e gli fu
risposto, la Chiesa, e il Campanella soggiunse «chi è la Chiesa?
li fu detto che sono il Papa, Cardinali et altri Prelati, et il
Campanella rispose, il Papa e Cardinali chi sono? li fu detto che
sono huomini, il Campanella rispose, io ancora sono huomo»
(Prospero Vitale). E la sua scienza era «una Cabala che imparò da
un Armeno» (Gio. Jeracitano), ed «havea promesso a Geronimo di
Francesco uno spirito familiare per vincere al giuoco» (Gio. M.a
Gregoraci). Che nel predicare a Stilo «metteva comparatione sopra
gl'idoli», e riteneva «che i figliuoletti de' Turchi morendo non
vanno all'inferno, perché crescendo potriano conoscere la fede e
si fariano Christiani», oltracciò che «Dio ha altro modo di salvar
l'homini che per il battesmo» (diversi). Che non credeva alla
scomunica, che nelle prediche «essaltava più del dovere li
filosofi et scrittori Gentili» e ne' discorsi diceva che «S.
Thomasso fù huomo et che alla dottrina sua si può aggiungere, et
che era cavata da altri Dottori antichi et particolarmente da
Lattantio firmiano, al quale havea gran credito»; né era vero che
il Crocifisso avesse detto a S. Tommaso bene scripsisti de me
Thoma (Tiberio Vigliarolo, Gio. Antonio Primerano, Lorenzo
Consueva). Nemmeno credeva che gli Atti degli Apostoli facessero
fede, «perché quello che trattano lo trattano per traditione di S.
Paolo» (Gio. Battista Rinaldo). Che infine non mostrava di gradire
tante diverse Fraterie (fra Gio. Battista di Placanica), non
credeva che bisognasse «dire Paternostri che erano cose perse»
(Paolo e Fabio Contestabile a detto di Marcantonio), né credeva
giovare a' defunti la Messa detta o fatta dire da chi si trovava
in peccato mortale (diversi).
Furono queste le cose essenziali rilevate col processo di
Squillace, in materia di eresia più che in materia politica,
attesa la qualità della Commissione data al Vescovo, e, come si
vede, esse venivano a colpire propriamente il Campanella e non
altri; appena qualche volta, da uno o due testimoni, fu nominato
con lui fra Dionisio, segnatamente ad occasione del voler fondare
la nuova setta e del doversi disprezzare il crocifisso. Invece fu
da qualcuno tratto in iscena il povero vecchio Geronimo padre del
Campanella, come testimone ed anche come principale. Si depose
aver lui detto che richiedendo al figlio di voler predicare a
Stilo, il figlio rispose che non volea «fare l'officio di Canta in
banco» (Marcello Fonte), che inoltre «gli avea preconizzato tanto
il bene quanto il male da dover accadere a' suoi figliuoli»
(Callisto Jeracitano), che infine avea composto quel tale libro
che superava quelli degli Apostoli (Scipione Ciordo). Ne abbiamo
già parlato abbastanza altrove e non occorre insistervi
ulteriormente. - Quale intanto deve dirsi il valore e l'importanza
di siffatto processo? In verità fa molta impressione il vedere che
la massima parte delle cose deposte si sia avuta con le clausole
«de fama publica, de auditu incerto», e non di rado pure, ciò che
è sempre più notevole, con la clausola «post carcerationem»;
questo dà fondato motivo di ritenere che le opinioni incriminabili
poterono anche esser diffuse in molta parte per colpa de' Giudici
de' processi anteriori, che ne fecero correre le voci per le
piazze, dalle quali taluni testimoni specificatamente affermarono
di averle raccolte. Ma mettendo pure da parte tutti i testimoni
che deposero per voce pubblica, ne rimangono sempre alcuni che
deposero cose udite o viste direttamente, ovvero cose udite o
viste da persone state molto dappresso al Campanella, e per la
loro condizione speciale riescono a dare alle loro deposizioni una
gravità notevole. Basta dire che più d'uno affermò di avere udito
quanti deponeva da fra Scipione Politi conosciutissimo amico del
Campanella, e, a quel che pare, solito a mantenere vive le sue
conversazioni col riferire le opinioni delle quali il Campanella
gli avea tenuto discorso; qualche altro affermò di avere udito
quanto deponeva da D. Marco Petrolo, da D. Marco Antonio Pittella,
da Paolo e Fabrizio Campanella, da Giulio Contestabile, da
Marcantonio Contestabile; né deve sfuggire che deposero i
Carnevali malgrado avessero Gio. Paolo e Tiberio carcerati,
deposero i Contestabili malgrado avessero Giulio carcerato e
Marcantonio perseguitato, depose Desiderio Lucane che sappiamo
avere anche lui un figlio carcerato. Adunque, per un certo numero
di cose raccolte con questo processo, non si può sconoscerne
menomamente la provenienza dal Campanella, essendovi anche una
concordanza significante tra esse e quelle che da altri fonti ci
risultano appartenenti senza dubbio a lui; né deve sfuggire che
molti, p. es. Giulio Presterà, Francesco Vono, il capitano
Plutino, i quali certamente ebbero relazioni col Campanella, e
così pure tanti altri, poterono deporre per voce pubblica ciò che
aveano saputo direttamente, non convenendo loro di dire che
l'aveano saputo direttamente da lui, perché sarebbero divenuti
responsabili del non averlo denunziato. In conclusione poteva
dirsi una calunnia l'avere il Campanella imbevuto di eresie la
città di Stilo e luoghi circonvicini, ma non già l'avere di tempo
in tempo enunciati principii punto ortodossi. E risultava
grandemente notevole la raccolta fatta di simiglianti principii,
perocchè di tutta la massa delle accuse, che vedesi ridotta a 34
capi nel Sommario complessivo dell'ultimo processo di eresia, 8 o
9 capi soltanto non riuscivano né confermati né smentiti dalle
deposizioni di Squillace, ma 13 ne riuscivano confermati, e 9
altri ne sorgevano interamente nuovi. Oltracciò si avevano
elementi tali da mostrare il giusto valore della scusa che già si
meditava, che cioè i frati inquisiti di congiura avessero rivelato
e fatto rivelare cose di eresia a fine di scansare la Corte
temporale. È superfluo dire quanto le condizioni del Campanella ne
divenissero aggravate, e non è arrischiato l'ammettere che
segnatamente per questo processo di Squillace egli abbia dovuto
rimanere tanto dolente di «Stilo ingrato» che egli onorava; di
Stilo infatti, e amici suoi per giunta, erano principalmente
coloro i quali avevano questa volta dato materia a «fabbricare
processi con processi» come egli cantò nelle sue Poesie.
Ci rimane a dire qualche cosa delle condizioni nelle quali la
Calabria si venne a trovare dopo la partenza dello Spinelli co'
carcerati. Abbiamo già avuto altrove occasione di vedere che le
quistioni giurisdizionali e le inimicizie private non ebbero
alcuna tregua; naturalmente i fuorusciti medesimi, pel rigore
eccessivo e le vessazioni spropositate, erano già cresciuti di
numero, ed abbiamo un documento il quale ci mostra esserne stato
lo Spinelli medesimo, avanti di partire, interpellato dal Vicerè.
I Governatori che successero nella Calabria ultra, D. Pietro di
Borgia, e poi D. Garzia di Toledo sopra nominato, e poi D. Carlo
de Cardines Marchese di Laino etc., come pure quelli della
Calabria citra, D. Alonso de Lemos, D. Antonio Grisone, e poi D.
Lelio Orsini l'amico del Campanella, rivestiti essi medesimi, più
o meno, di poteri straordinarii, ed aiutati anche da Commissarii
speciali, si affaticarono per più anni alla «extirpatione de'
forasciti» senza mai venirne a capo. L'Audienza di Calabria ultra,
rimasta priva dell'Avvocato fiscale e poi provvedutane in persona
di Gio. Andrea Morra, fece conoscere al Vicerè il suo imbarazzo
per «l'ordine di non intromettersi in le cose ha fatto il
spettabile Carlo Spinelli», poichè si era preso un Carlo Logoteta
di Reggio che da tre anni scorreva la campagna, e così due altri,
e se ne trovavano ancora molti, tutti guidati dallo Spinelli: ma
il Vicerè nemmeno credè opportuno di revocare l'ordine, e comandò
d'inviare alla Vicaria i catturati ed a lui una nota particolare e
distinta di tutti i guidati, che naturalmente l'Audienza non avea
modo di conoscere. La città di Catanzaro, già tanto conturbata
dalle fazioni municipali, si risentì pel nuovo «reggimento»
istituito dallo Spinelli, e l'Audienza fece sapere al Vicerè che
la città pretendeva «di non essere stata intesa in la busciola et
forma dell'electione fatta per il spettabile Carlo Spinello... e
si era ordinato al Capitaneo et Sindico di detta Città che apresse
la cascia dove stava tutto lo che si era fatto per raggione di
detta busciola, la quale non si ha possuto aprire per star'in
poter'del rettore del Jesu di detta Città con una delle chiave, al
quale essendosi ciò notificato etiam in scriptis non l'ha voluto
dare»; ma il Vicerè anche in tale occasione non volle scovrire lo
Spinelli, diè ragione a' Gesuiti e comandò di «non far altra
diligentia per aprire la sopradetta cascia» dovendosi solo
«osservare la detta busciola che stava ordinata o pur farsi
l'electione del Governo come si faceva per prima». E nominati più
tardi gli Eletti deputati a far l'elezione del nuovo reggimento,
si trovò affisso nella piazza pubblica un «cartello infamatorio»
contro quegli Eletti; e si venne con poteri straordinarii alla
cattura di un Marcantonio Paladino ritenuto autore di detto
cartello, ed allora di notte fu rotto il carcere «di fora, con
scarpelli et violentia grande» e fu fatto fuggire il Paladino con
gli altri carcerati, onde si ebbero nuove Informazioni e nuove
catture. Ma un avvenimento ancor più notevole fu l'uccisione di
Marcantonio Biblia, fratello di Gio. Battista denunziante della
congiura, pugnalato verso la fine di novembre in Catanzaro.
Abbiamo già avuta occasione di dire altrove che questo Marcantonio
Biblia era credenziere della gabella della seta di Catanzaro fin
dal 1595. L'Archivio di Stato ci offre più memoriali di Gio.
Battista Biblia al Viceré, co' quali «fa intendere come per havere
scoverto esso supplicante la congiura et rebellione tentata in
disservitio d'Iddio et de sua M.tà da Marco Antonio giovino et
altri... l'istesso Marco Antonio ha fatto occidere nella città di
Catanzaro a pugnalate Marc'Antonio suo frate da Gio. et Scipione
giovino fratelli del detto Marco Antonio», e ricordando altri
omicidii già commessi da costui conchiude col ricorrere «alli
piedi di V. E. che resti servita ordinare che il detto Marco
Antonio sia afforcato come V. E. s'è degnato ordinare acciò
l'altri non presumano fare l'istesso in persona d'esso supplicante
et fratelli rimasti». E abbiamo, al sèguito di questi memoriali,
le Commissioni speciali date dal Vicerè dapprima al Consigliere D.
Giovanni Montoja de Cardona, poi al Giudice D. Giovanni Ruiz
Valdevieto, quello stesso che troveremo assai più tardi membro del
tribunale costituito in Napoli per giudicare il Campanella e gli
altri frati intorno alla congiura. Nel suo sdegno il Vicerè
cominciò col dare gli ordini più severi: «farreti sfrattare tutti
li parenti di detti delinquenti sino al quarto grado dove à voi
parirà più convenire, et confiscarrete et farrete confiscare li
beni delli delinquenti predetti et deroccare le loro case, et
procederreti contra d'essi, loro complici, et fautori à tutti
l'altri atti che saranno de giustitia usque ad sententiam
inclusive» etc.; ma poi, tornato a più miti consigli, dispensando
il supplicante dalle spese per la Commissione, diede ordini meno
brutali e prescrisse di procedere «usque ad sententiam exclusive».
Ci manca finora ogni altra notizia sull'esito di queste
Commissioni, ma vedremo che Gio. Battista Biblia ci guadagnò
l'ufficio che già teneva il fratello, oltre il privilegio di
nobiltà, come egualmente Fabio di Lauro ebbe altri favori e grazie
in ricompensa della denunzia fatta.
Tornando al Campanella, notiamo che con questo di Squillace si
chiuse la serie de' processi di Calabria, e ricordiamo che ve ne
furono non meno di quattro. Vi fu un processo propriamente pei
laici formato dallo Spinelli e Xarava, appena iniziato in
Catanzaro, proseguito in Squillace, finito per una piccola parte
in Gerace: in esso si trattò della congiura, ed oltrechè vennero
giudicati e condannati alcuni clerici, non fu risparmiato il
Campanella, essendosi avuta da lui, come anche dal Pizzoni, una
Dichiarazione d'importanza grandissima. Vi furono tre processi per
gli ecclesiastici e propriamente pe' frati, uno formato da fra
Marco e fra Cornelio in Monteleone e per una piccola parte in
Squillace, un altro formato dagli stessi Giudici unitamente col
Vescovo di Gerace in Gerace, un altro formato dal Vescovo di
Squillace con la sua Corte ordinaria in Squillace: nel primo si
trattò dell'eresia e della congiura ad un tempo, nel secondo della
sola eresia, e in entrambi si ebbero di mira tutti i frati
incriminati, e si fece sentire l'influenza della malvagità
fratesca e della ferocia degli ufficiali Regii; nell'ultimo si
trattò della sola eresia, si ebbe di mira esclusivamente il
Campanella e non si fece sentire alcuna perniciosa influenza
almeno in un modo diretto. Il Campanella non fu mai chiamato
innanzi a' Giudici durante tutti questi processi, ma fuori ogni
dubbio entrambe le sue cause peggiorarono costantemente.
INDICE DEL VOL. I.
Prefazione
Cap. I. - Primi anni del Campanella e sue peregrinazioni
(1568-1598)
I. Nascita del Campanella in Stilo; la sua famiglia; i suoi primi
studii (1). Veste l'abito di clerico; emigra con la famiglia a
Stignano; suoi studii ulteriori (5). Entra nell'ordine Domenicano
in Placanica; va novizio a S. Giorgio; passa studente a Nicastro
ove fa conoscenza co' Ponzii e con fra Gio. Battista di Pizzoni
(8). È mandato a Cosenza ove non giunge a conoscere il Telesio,
poco dopo ad Altomonte; sua intimità con un astrologo ebreo e
persecuzione avutane dai superiori; sua partenza per Napoli in
compagnia dell'ebreo con molto scandalo (12).
II. Arrivo del Campanella in Napoli nella casa del Marchese di
Lavello presso il figliuolo di lui Mario del Tufo (22). La sua
disputa in S.ta M.a la nuova; i Domenicani di Napoli (23). I
Signori Del Tufo amici e protettori del Campanella (28). Altre
conoscenze fatte in Napoli; il Sangro, l'Orsini, i fratelli Della
Porta (32). Malattie sofferte e curate dal Campanella in Napoli;
il P.e Aquario e il P.e Serafino di Nocera (37). Opere da lui
composte fin allora e suo privato insegnamento (39). La Biblioteca
di S. Domenico e lo Studio pubblico di Napoli; parole dette dal
Campanella in dispregio della scomunica; sua cattura per ordine
del Nunzio e suo primo processo (42).
III. Trasferimento del Campanella prigione a Roma; condanna
all'abiura come veementemente sospetto dì eresia (50). Uscita dal
carcere; opere composte in Roma in tale periodo (52). D. Lelio
Orsini e l'Abate Persio in Roma (53). Andata del Campanella a
Firenze; sua visita al Gran Duca, ed informazioni date dal
Battaglino Agente di Toscana in Napoli, ad occasione di una
cattedra che gli si voleva concedere in Pisa (57). Visita della
Biblioteca Palatina; parere di Baccio Valori sul filosofo; disputa
di lui con Ferrante De Rossi e il P.e Medici; informazioni date
sul suo conto dal P.e Generale Beccaria (59). Partenza per Padova;
fermata in Bologna, ove gli sono tolte tutte le opere e sono
inviate al S.to Officio di Roma (62). Arrivo a Padova; dimora nel
convento di S. Agostino e nuovo processo per gravissima violenza
patita dal P.e Generale (63). Liberazione; altre opere composte in
Padova e suo privato insegnamento in questa città (64). Due nuovi
processi per varii capi di accusa; il processo per non rivelazione
di un giudaizzante va a terminare in Roma; importanza di questo 3°
processo; sua influenza sulle opere allora composte (67).
IV. Nuovo trasferimento del Campanella prigione a Roma e termine
del suo processo; sua difesa dalle diverse imputazioni (72). È
liberato non senza commendatizie anche dell'Imperatore e
dell'Arciduca Massimiliano procurate da Gio. Battista Clario; va
nel convento di S.ta Sabina (75). Opere da lui composte in Roma
dentro del carcere; suoi compagni di prigionia, Gio. Battista
Clario, due Ascolani e probabilmente anche Colantonio Stigliola;
poesie da lui scritte in tale periodo (76). Opere composte in S.ta
Sabina; impegno di acquistarsi la protezione di alcuni Cardinali;
ultima poesia scritta in Roma (85). Ritorno in Napoli; ciò che
quivi compose; suo insegnamento e suoi scolari (90). Discorsi
sulle future mutazioni col Cortese, Vernalione e Stigliola;
notizie circa costoro (92). Consola con l'annunzio delle mutazioni
il P.pe di Bisignano prigione nel Castel nuovo; notizie circa
costui (96). Parte per la Calabria; stato di Napoli in quel tempo;
dissenso de' Nobili col Vicerè e tra di loro; carcerazione del
Sangro Duca di Vietri e forgiudica del Carafa Marchese di S.to
Lucido; notizie circa costoro .
Cap. II. - Ritorno del Campanella in Calabria e sua congiura
(1598-1599)
I. Fermata per un mese nel convento di Nicastro, ove dimorano gli
antichi amici; Fra Dionisio e fra Pietro Ponzio, fra Gio. Battista
di Pizzoni; loro progressi (110). Dissensi giurisdizionali del
Governo col Vescovo di Nicastro e turbamento della città; fra
Dionisio ed Innico di Franza sono inviati per questo a Reggio e
poi a Ferrara presso il Papa (114). Andata del Campanella a Stilo
nel convento di S.ta Maria di Gesù; visita de' paesi della marina
col Vescovo di Mileto (116). Marcantonio del Tufo Vescovo di
Mileto e i suoi conflitti giurisdizionali; conflitti analoghi di
altri Vescovi nella Calabria (117). Controversie ed inimicizie
cittadine molto gravi (123). Lotte tra' componenti la R.a Audienza
di Catanzaro; D. Alonso de Roxas Governatore; D. Luise Xarava
Avvocato fiscale (126). Banditi e forgiudicati nella provincia;
loro rifugio ne' conventi e nelle Chiese (131). Discesa de' turchi
al Capo di Stilo col Bassà Cicala, e notizie intorno a costui; sua
dimanda di rivedere la madre alla fossa di S. Giovanni,
soddisfatta dal Vicerè di Sicilia (134). Vita del Campanella nel
convento di Stilo; suoi compagni ed amici, specialmente fra
Domenico Petrolo di Stignano e fra Pietro Presterà di Stilo
superiore del convento (142). Costumi, insegnamento ed opere del
Campanella in tal tempo; in particolare del suo libro della
Monarchia di Spagna e di quello de' Segnali della morte del mondo.
II. Convinto della vicina fine del mondo e de' grandi fatti che
doveano precederla, massime della santa repubblica e secolo d'oro
da doversi prima godere, il Campanella fomenta una viva agitazione
di aspettativa nella provincia (149). Argomenti da lui trovati ne'
libri di profezia e di astronomia per ritenere prossime grandi
mutazioni; fenomeni meteorologici che insieme col grave
perturbamento della provincia glie le fanno giudicare imminenti;
suoi concetti circa tali mutazioni (150). Conversazioni
particolari e poi prediche nella Chiesa del convento sul detto
tema; moltissimi gli dimandano chiarimenti, perfino il Governatore
della provincia; gran credito acquistatosi dal Campanella e motivi
di esso (155). Capitolo de' Domenicani, nel quale il Campanella
non è chiamato e fra Dionisio risulta in decadenza; trattativa di
pace tra' Contestabili e i Carnevali di Stilo, affidata al
Campanella dall'Auditore David (159). Componenti delle dette
famiglie; Marcantonio Contestabile e Maurizio de Rinaldis,
fuorusciti, ne rappresentano il braccio forte (161). Proposizioni
del Campanella un po' più spinte anche in materie religiose,
oltrechè in politica, aspettandosi, per predizioni astrologiche,
di essere Monarca del mondo; amici co' quali conversava,
atteggiandosi a riformatore e legislatore (164). Colloquii con
Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, con Marcantonio
Contestabile e Gio. Tommaso Caccìa egualmente fuoruscito (168).
Colloquii con Maurizio de Rinaldis, e notizie circa costui; il
Campanella, presenti fra Dionisio e il Petrolo, lo decide a voler
concorrere con amici a fondare la repubblica, e gli fa
copertamente intendere che sarebbe utile profittare dell'aiuto del
Turco (169). Commenti su questi fatti; al Campanella devesi non
solo l'idea ma anche l'indicazione de' mezzi per attuarla,
rimanendo a lui riservato l'ufficio di futuro capo della
repubblica (173). Tutti si pongono all'opera; Maurizio va sulle
galere di Amurat venuto alle coste di Calabria; il Campanella è
chiamato dal Marchese di Arena a Monasterace (175). Fra Dionisio
va con un fra Giuseppe Bitonto e un Cesare Pisano fino a Messina;
durante il viaggio sviluppa eresie per eccitare il Pisano; di poi
con la stessa compagnia, e con l'aggiunta di un fra Giuseppe di
Jatrinoli e un Giuseppe Grillo, dopo altri discorsi di eresie in
Stignano, torna presso il Campanella riconducendolo da Monasterace
a Stilo (176). Anche Marcantonio Contestabile e il Caccìa, con un
altro fuoruscito, tornano a Stilo (180). Altra escursione del
Campanella con fra Dionisio e il Bitonto a Castelvetere, per
pregare il P.pe della Roccella in favore di Cesare Pisano ivi
carcerato; nel carcere veggono un Felice Gagliardo, al quale, come
ad altri carcerati, il Pisano parla de' progetti del Campanella e
ripete i discorsi di eresia (181). Tornato a Stilo il Campanella
eccita il Pizzoni a parlare con Giulio Soldaniero fuoruscito;
intanto è chiamato di nuovo dal Marchese di Arena in Arena (184).
Il Pizzoni, fra Dionisio e Gio. Pietro fratello del Campanella,
come pure Marcantonio Contestabile col Caccìa e un altro
fuoruscito, accompagnano fra Tommaso ad Arena; fra Dionisio col
Pizzoni ne partono per parlare al Soldaniero in Soriano; colloquii
di fra Dionisio col Soldaniero, manifestando i disegni del
Campanella e molto eresie (186). Il Pizzoni con un altro
fuoruscito a nome Claudio Crispo ritorna ad Arena; giunge quivi
una lettera che annunzia avere Maurizio preso gli accordi col
Turco; fra Pietro di Stilo con Fabrizio Campanella armato viene
egli pure in Arena, forse latore della lettera; altre lettere di
Maurizio, di Claudio Crispo e del Pizzoni (188). Comparisce una
cometa che raddoppia il fervore del Campanella; tutta la compagnia
va in Pizzoni; convegno e banchetto di Pizzoni; fra Pietro di
Stilo va a Soriano recando una lettera del Campanella al
Soldaniero; parte presa da fra Pietro nella congiura.
III. Venuta di fra Marco da Marcianise per una visita nella
provincia di Calabria; fra Dionisio va al convento di Taverna già
assegnatogli; vi fa quistione con fra Cornelio di Nizza e bastona
un altro frate; fra Cornelio è scelto per suo Compagno da fra
Marco (196). Il Campanella torna a Stilo, e chiamato da Maurizio
va presso di lui col Petrolo e Fabrizio Campanella a Davoli;
Maurizio espone i patti conchiusi col Turco; son chiamati Gio.
Tommaso di Franza e Gio. Paolo di Cordova che vengono con Orazio
Rania da Catanzaro; concerto con costoro per fare un'insurrezione
in Catanzaro (197). Incontro di Gio. Battista di Polistina, nemico
di fra Dionisio, col Campanella in Davoli: parole scortesi
dettegli dal Campanella; fra Gio. Battista va a Soriano, e il
Soldaniero gli comunica la faccenda della congiura e dell'eresia
(201). Maurizio va in giro a raccogliere fuorusciti; il Campanella
scrive al Crispo e poi va a S.ta Caterina; fra Dionisio,
condannato dal Visitatore, si rimette in giro con un Cesare Mileri
e finisce per andare a Catanzaro, dove mostra gran premura di
essere assoluto, e cerca affiliati per la congiura, dicendo che vi
partecipavano il Papa, il Card.l S. Giorgio, diversi Vescovi,
diversi Nobili (202). Parla col Franza, col Cordova, con due
fratelli Striveri ed altri, parimente con Fabio di Lauro e Gio.
Battista Biblia; tratta per fare entrare in Catanzaro 4 a 5 cento
uomini incogniti e di notte; enumera gli aiuti che si avranno,
mettendo innanzi per la prima volta la frottola dell'intervento di
alti personaggi, che evidentemente non poteano intervenire (207).
Intanto il Campanella in Stilo mantiene corrispondenze anche in
cifra, continua nei colloquii con maggiore espansione, fa una
scampagnata con gli amici sul monte di Stilo eccitando le più vive
speranze (215). Cenni delle istituzioni politiche e religiose in
progetto, come si può desumerli principalmente dalle deposizioni
che si ebbero in sèguito da fra Pietro di Stilo e dal Petrolo, e
poi da moltissimi altri (217). Trattavasi di fondare ciò che fu
scritto di poi nella Città del Sole; si ha un notevole riscontro
tra le cose allora dette e quelle in sèguito scritte, e rimangono
così chiarite la congiura e le sue cause, non che la parte presavi
dal Campanella, e perfino la verità o la falsità di molte cose
deposte nel processo (220). L'idea non era punto democratica ma
altamente patriottica, e per essa il Campanella compromise tutto,
facendola abbracciare egualmente non da soli malfattori, ma anche
da uomini stimabilissimi come Maurizio e fra Dionisio tra gli
altri; né i preparativi erano di poca importanza quando la
congiura fu scoperta .
Cap. III. - Scoperta della congiura e processi di Calabria (dalla
fine di agosto a tutto 1Obre 1599).
I. Fabio di Lauro e Gio. Batt. Biblia denunziano la congiura al
Fiscale di Calabria; poi mandano una 2a relazione al Vicerè, il
quale ne scrive subito a Roma e a Madrid, e fa partire Carlo
Spinelli per investigare e punire (226). Il Vicerè Conte di Lemos;
suoi dubbi sulla congiura, la quale venne in fondo rivelata
secondo le esagerazioni affermate da fra Dionisio (230). Clemente
VIII e il Nunzio Aldobrandini; tenerezze di Roma col Vicerè a quel
tempo; la richiesta da parte del Vicerè, di poter carcerare i
frati, è accordata dal Papa (232). Carlo Spinelli e i suoi
antecedenti; istruzioni solite a darsi in analoghe circostanze;
capitani e soldati partiti con lo Spinelli (235). Nuova denunzia
tardiva ed incompleta da parte di 5 Catanzaresi, tra' quali il
Franza già stato a Davoli, per salvarsi; la denunzia, passata per
la via dell'Audienza, svela il segreto della congiura e fa
intendere che lo Spinelli veniva per essa; il Vescovo di Catanzaro
ne dà avviso a fra Dionisio il quale se ne parte immediatamente
(239). Fra Dionisio va a Stilo per sollecitare il Campanella ad
uscire col Petrolo in campagna; il Campanella si nega e ripara a
Stignano presso D. Marco Petrolo, il quale lo denunzia; Giulio
Contestabile lo denunzia egualmente, e procura una commissione al
cognato Di Francesco contro di lui (242). Lo Spinelli giunge in
Catanzaro, fa prendere il Rania e lo affida al Governatore, ma il
Rania fugge e poco dopo è rinvenuto soffocato in una vigna presso
la città; lo Spinelli si duole del Governatore ed inizia il
processo (243). Il Vicerè in Napoli affetta preoccupazione per un
voluto sbarco di turchi in Abruzzo e una voluta peste nella Marca
d'Ancona; emana bandi per la peste in realtà diretti a premunirsi
dalla parte di Roma; ma poi, viste bene avviate le cose di
Calabria, revoca i bandi e spedisce ordini di rigore contro i
congiurati (246). La denunzia di D. Marco Petrolo è mandata allo
Xarava e il denunziante finisce per essere carcerato come
ricettatore; la commissione al Di Francesco giunge un po' tardi, e
costui può soltanto carcerare i parenti del Campanella (248).
Crescendo il numero de' carcerati lo Spinelli ordina di tradurli
nel castello di Squillace, dove il processo continua, venendo
carcerato anche Geronimo del Tufo; prevenzioni verso i Nobili e i
Vescovi (250). Guidati e Commissionati contro i presunti
colpevoli; il Soldaniero ed il Bruno, Gio. Geronimo Morano e D.
Carlo Ruffo Barone di Bagnara; Nobili titolati venuti in aiuto del
Governo, il P.pe della Roccella, il P.pe Di Scilla, il P.pe di
Scalèa; notizie intorno a costoro (253). Altro aiuto potente dato
da fra Marco e fra Cornelio, accordatisi col Governo
nell'istituire un processo a' frati, co' più iniqui maneggi
suggeriti dagli odii frateschi (257).
II. Antecedenti segreti del processo ecclesiastico di Calabria;
fra Domenico da Polistina e fra Cornelio; colloquii di costui con
lo Spinelli, Xarava e Lauro; sue comunicazioni esagerate al Card.l
S.ta Severina e al P.e Generale; costringe il Soldaniero a far da
denunziante e persecutore de' congiurati, procurandogli anche un
guidatico e una promessa d'indulto dallo Spinelli (258). Titolo e
data del processo; 36 capi di accusa; assertiva di richiesta a
procedere anche da parte dello Spinelli, del Governatore e perfino
del Vescovo di Catanzaro; lettere del Vescovo e del Governatore;
commenti (262). Commissione data dal Visitatore fra Marco di
catturare il Pizzoni e il Lauriana; particolari della cattura; fra
Dionisio col Caccìa stava con loro, ma travestito se ne fugge
(263). I due frati prigioni dati in consegna a D. Carlo Ruffo
nelle carceri di Monteleone; esame del Pizzoni che svela ogni cosa
anche con esagerazione e malignità; artifizii e terrori per avere
simili deposizioni (264). Esame del Soldaniero commesso dal
Visitatore a fra Cornelio, tutto ben concertato; esame del
Lauriana, e giudizio su tale esame; commento sul processo, che in
fondo non creava fatti essenzialmente falsi, ma li traeva a luce,
li esagerava anche e li ribadiva con male arti (267). Intanto il
Campanella è catturato insieme col Petrolo; particolari della
cattura; ricovero in S.ta M.a di Titi; arrivo di Maurizio, fuga
per sottrarsi a Maurizio, ricovero e travestimento presso Gio.
Antonio Mesuraca a' dintorni della Roccella, tradimento del
Mesuraca; commento in particolare sulla condotta di Maurizio
(272). Il Campanella è tradotto alle carceri di Castelvetere;
apprende per via che il Pizzoni ha rivelato anche eresie e
consiglia al Petrolo di far lo stesso: lo Xarava viene a
Castelvetere e riceve dal Campanella una Dichiarazione scritta;
sunto della Dichiarazione e giudizio sopra di essa (277). Lo
Xarava portasi a Monteleone e riceve una Dichiarazione scritta
anche dal Pizzoni; inoltre una cifra di cui si sarebbero serviti
il Pizzoni e il Campanella, e una copia delle deposizioni fin
allora raccolte da' due frati col processo ecclesiastico (281).
Passaggio del Campanella col Petrolo dalle carceri di Castelvetere
a quelle di Squillace; intanto nelle carceri di Castelvetere il
Gagliardo e compagni, saputa la carcerazione di lui, denunziano al
P.pe della Roccella il Pisano amico del Campanella che li aveva
eccitati alla congiura, e lo denunziano anche al Vescovo di Gerace
per le eresie loro manifestate; il P.pe comunica queste cose allo
Spinelli, ma i denunzianti son ritenuti partecipi della congiura;
d'altro lato il Vescovo di Gerace fa prendere un'Informazione, che
rende la condizione del Campanella sempre peggiore (283). È preso
dal Morano Claudio Crispo, e gli si trovano due lettere, l'una di
Maurizio, l'altra del Campanella; fra Marco e fra Cornelio
continuano a far carcerare frati; son presi e poi rilasciati fra
Vincenzo Rodino e fra Alessandro di S. Giorgio; son presi fra
Pietro di Stilo, fra Paolo della Grotteria, fra Pietro Ponzio, fra
Giuseppe Bitonto; fra Paolo è trovato in possesso di una lettera
del Campanella al Crispo e di libercolo di segreti e cose
superstiziose; il Bitonto è trovato in abito secolare ed armato
(284). Deposizioni che i due Inquisitori raccolgono da taluni di
costoro; esame di fra Pietro di Stilo interrotto; esame del
Petrolo, che avvilito depone tutto anche con esagerazione (287).
Lettera del Card.l di S.ta Severina a fra Cornelio, che prescrive
doversi mandare il Campanella a Napoli, e prendere le informazioni
unitamente co' Vescovi de' luoghi; così il Campanella non è
sottoposto ad alcun esame in Calabria (290).
III. Catturato il Campanella, lo Spinelli ne dà partecipazione al
Vicerè, affrettandosi a riconoscere che il Papa non dovea aver che
fare nella congiura; dà notizia anche di varii incidenti e de'
provvedimenti presi; manda una lista di 34 carcerati; di poi
informa che erano state anche seminate eresie, ed erano apparsi i
primi legni turchi ben presto seguiti da tutta l'armata (291).
Altre catture di que' giorni e continuazione del processo contro i
laici; sono esaminati Lauro e Biblia e poi gli Striveri col
Franza; particolari di questi esami e commenti (294). Esame di
Gio. Paolo di Cordova e di suo fratello Muzio; prime torture molto
gravi; debbono rispondere anche della morte del Rania; è esaminato
il Soldaniero, di poi Claudio Crispo, che finisce per confessare
ampiamente in tortura; giudizii su tali esami (298). Inoltre sono
esaminati Cesare Mileri e Tommaso Tirotta, ma lo Spinelli è
costretto a partire per l'arrivo dei legni turchi; mosse de' primi
legni comparsi nella marina di S.ta Caterina e Guardavalle; fanno
segnali ma non hanno risposta; poi sopraggiunge l'armata che si
mantiene lontana dalla costa e manda 4 galere verso Stilo che
fanno pure segnali inutilmente, quindi si dirige verso il capo di
Bianco; lo Spinelli va con truppa a Castelvetere per sorvegliarne
le mosse, mentre continuano le catture degl'incolpati (303).
L'armata con 26 galere va, come al solito, alla fossa di S.
Giovanni avendo preso due navi Ragusèe; due galere vanno verso
Reggio donde si tirano cannonate, e prendono un'altra nave; due
schiavi cristiani fuggiaschi dànno notizie dell'armata e de'
voluti disegni del Cicala; succede una scaramuccia tra gli
spagnuoli e 500 turchi discesi a terra per fare acqua; dopo ciò
l'armata torna verso Castelvetere, ma tenendo vento favorevole si
dirige verso Cefalonia; lo Spinelli se ne torna a Squillace (306).
Viene notizia da Corfù che l'armata si ritira a Costantinopoli;
notizie inesatte date poi dal Campanella e da qualche storico
circa le cose dell'armata; non vi furono rimproveri al Cicala in
Costantinopoli per non avere soccorso i congiurati (308). Lettere
e giudizii del Vicerè su tutti questi fatti; scrive a Roma
immediatamente, partecipando che i frati erano anche eretici, e
dimandando che se ne rimetta a lui il gastigo; scrive a Madrid per
la ricompensa a Lauro e Biblia, ed annunzia l'accertato ritiro del
Cicala verso Costantinopoli (309). Roma fa sapere che la causa del
Campanella deve farsi in Napoli, e che venendo i prigioni debbono
essere tenuti come prigioni del Nunzio; aderisce poi ad un'altra
richiesta del Vicerè, che il Vescovo di Mileto venga a Napoli, e
che siano assoluti il P.pe di Scilla, il Poerio Governatore del
Pizzo e lo Xarava, quando veramente fosse stato riposto nella
Chiesa, donde era stato estratto, un clerico che avea data
occasione alla scomunica (311). Il Vicerè partecipa la scoperta
della congiura agli Agenti di altri Stati accreditati presso di
lui; relazione del Battaglino e dello Scaramelli; costui trasmette
a Venezia anche le notizie di piazza, oltre quelle di Corte, e non
pone mai in dubbio l'esistenza della congiura (313). Carcerazione
di Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, dietro formale
denunzia del Campanella, forse esasperato per la carcerazione di
suo padre e suo fratello seguìta per opera di costoro; il Petrolo,
sollecitato dal Campanella, fa una denunzia nello stesso senso
(315). Continuazione degli esami in Squillace, presedendovi il
solo Xarava; particolari della deposizione di Cesare Mileri, che
confessa ampiamente, convalidando in tortura le cose confessate;
esami del Gagliardo, Conia, Marrapodi, Santacroce e Adimari (317).
Esame di Cesare Pisano, che dapprima nega, poi in tortura confessa
ogni cosa; quindi sottoposto a nuovo esame, circa la nuova legge
del Campanella, rivela una quantità di eresie; esami secondarii di
Domenico Messina e di Giuseppe Grillo; la causa è sospesa per
morte del Mastrodatti (322). Prime esecuzioni in persona di
Claudio Crispo e Cesare Mileri in Catanzaro; sono arrotati,
tanagliati, strozzati, quindi appiccati per un piede e poi
squartati; le loro teste son poste in gabbia sulla porta della
città, le loro case diroccate, i beni confiscati (326).
IV. Trasferimento del tribunale e di tutti i prigioni a Gerace;
notizia della cattura di fra Dionisio, Gio. Ludovico Todesco,
Maurizio e Gio. Battista Vitale, per opera del Morano alle marine
di Puglia; invio a Madrid dell'esame del Pisano infarcito di
eresie e della copia dell'Informazione presa da fra Marco e fra
Cornelio (327). Risposta da Madrid con ordine che si usi rigore, e
che si facciano proposte per premiare i denunzianti (329). Notizie
che allora correvano in Napoli sulle cose di Calabria; relazioni
ulteriori dell'Agente di Toscana e del Residente Veneto (330). Si
ripigliano le sedute del tribunale in Gerace con le confronte del
Pisano, e con nuovi esami ed anche torture del Gagliardo,
Santacroce, Marrapodi, Conia etc., seguìte dalla confessione in
tortura del Caccìa (332). Esami di Maurizio e del Vitale,
verosimilmente anche di Gio. Ludovico Todesco e di varii altri già
carcerati; notizie di coloro che furono presi successivamente, e
di coloro che riuscirono a nascondersi o a fuggire (334). Intanto
fra Marco e fra Cornelio ripigliano il loro processo
coll'intervento del Vescovo di Gerace, e talvolta alla presenza di
Spinelli, Xarava, ed altri laici; molti e gravi abusi verificatisi
non ostante l'intervento del Vescovo (339). Sono esaminati fra
Pietro Ponzio, fra Paolo, e poi fra Pietro di Stilo, il Bitonto,
il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo; inoltre il Soldaniero, il
Pisano e il Caccìa (341). Giudizio sul processo di Gerace,
sull'opera di fra Cornelio e sulle deposizioni raccolte (347).
Anche di questo processo è rilasciata copia agli ufficiali Regii;
triste giudizio del pubblico; malvagità di fra Cornelio (350).
Ultime gesta dello Spinelli; altri esami ed altri catturati anche
negli ultimi tempi; catturati dal Soldaniero e dal Bruno, oltre il
Caccìa, un Bonazza, un Furci, un Loiacono etc. (351). Catturati
anche altri ecclesiastici per ordine dello Spinelli; informazione
particolare sulle relazioni di Giulio Contestabile col Campanella
(354). Prigioni 156, ma molti imputati sono nascosti o vanno
fuggiaschi; altri sono stati rilasciati dietro pagamenti (356). D.
Garzia di Toledo con 4 galere a Tropea; i prigioni in lunga catena
son diretti a quella volta; bestiale atteggiamento delle
moltitudini verso di loro (359). Manca il tempo di giustiziare
Maurizio, condannato ad essere segato vivo, insieme con 4 altri
più colpevoli in Monteleone; imbarco di tutti i prigioni e de'
loro persecutori a Bivona; fatti notevoli al momento dell'imbarco
(360). Un'altra Informazione è commessa da Roma al Vescovo di
Squillace; molti esaminati, molte cose raccolte: giudizio su
questo nuovo processo (361). Condizioni nelle quali rimane la
Calabria dopo la partenza dello Spinelli co' prigioni per Napoli;
il fratello del Biblia è pugnalato in Catanzaro; col processo di
Squillace si chiude la serie de' processi di Calabria, risultando
sempre più gravi le condizioni del Campanella (367).
CAP. IV.
PROCESSI DI NAPOLI E PAZZIA DEL CAMPANELLA.
A. - Processo della congiura (primi mesi del 1600).
I. Al declinare del giorno 8 novembre 1599, le quattro galere
provenienti dalla Calabria giungevano in vista di Napoli, e poco
dopo un battello spiccavasi dal Regio "tarcenale", come allora si
diceva, ed andava ad incontrarle. Nella sera, all'entrare in
porto, dalle antenne di ciascuna galera si vide spenzolare un uomo
appiccato, e due altri si videro squartare in mezzo alle galere
medesime, "per spavento del populo di questa città, concorso in
numero infinito alla fama di questi funesti spettacoli"(1).
L'indomani, i carcerati venivano sbarcati e rinchiusi parte nel
Castel nuovo e parte nel Castello dell'uovo.
Ecco come era andata la faccenda di queste esecuzioni: ce ne danno
notizie abbastanza precise in ispecie tre documenti autentici da
noi raccolti, una lettera Vicereale del 9 novembre rinvenuta in
Simancas, e due certificati scritti più tardi da' sacerdoti che
avevano assistito alcuni di quegl'infelici, inserti poi nel
processo di eresia. Il Vicerè scriveva a S. M.tà: "D. Garzia di
Toledo con le quattro galere giunse ieri con Carlo Spinelli e i
prigioni di Calabria, de' quali si aveano da giustiziare in
Monteleone sei che erano convinti e confessi, e per non trattenere
le galere li condussero con gli altri. Prima di sera mi
avvertirono di quanto accadeva, e comandai che andassero ad
incontrare le galere alcuni Religiosi i quali li aiutassero a ben
morire, e che all'entrata del porto ne appiccassero quattro alle
antenne e ne squartassero due, come si fece; ma ordinai che
dapprima li strozzassero, ed essi morirono molto bene confessando
i loro delitti, quantunque uno rimanesse pertinace sino all'ultimo
ed infine morisse come gli altri. Oggi i prigioni sono stati posti
ne' Castelli" etc.(2). Adunque l'ordine delle esecuzioni anche
questa volta fu dato dal Vicerè; e da una lettera del Nunzio, come
vedremo più sotto, risulta che le galere si fermarono in Nisida
per entrare la sera nel porto, od almeno che si era diffusa la
voce di questo avvenimento, senza dubbio insieme con la fama del
funesto spettacolo, secondo l'espressione del Residente Veneto. né
fu vero che que' due infelici venissero squartati vivi, siccome
dissero di poi il Parrino e il Giannone ed anzi lo stesso
Residente, il quale lo riferì al suo Governo del pari il 9
novembre, mostrando bene che tale era stata l'impressione avutane
in Napoli; il Vicerè fu tanto caritatevole da pensare non solo a
questo, ma anche a far salvare le anime di quegl'infelici
coll'invio de' Religiosi, mentre sulle galere non mancavano mai i
rispettivi Cappellani, sicchè in Madrid doverono rimanerne
edificatissimi. Un certificato appunto del Cappellano della galera
denominata S.ta Maria, D. Eligio Marti, che poi con la stessa
qualità passò a servire nell'ospedale degl'Incurabili, ed un
certificato di Gio. Luca de Crescenzio de' Padri Ministri
degl'infermi, o Padri della Crocella com'erano chiamati
volgarmente, ci rivelano il resto, mostrandoci a quale ordine di
Religiosi il Vicerè fosse ricorso(3). Erano allora in gran voga, e
giustamente, i Padri Ministri degli infermi: lo stesso venerabile
Camillo de Lellis li avea condotti in Napoli nel 1588, ed avea
fatto grandemente apprezzare la loro caritatevole istituzione,
sicchè ben presto, per le beneficenze di D.a Giulia Castelli,
ebbero una distinta casa di Noviziato di rimpetto al Castello
dell'ovo (alle Crocelle), oltrechè s'istallarono negli ospedali
dell'Annunziata, degl'Incurabili, di S. Giacomo, venendo poi anche
il De Lellis pel servizio corporale degl'infermi all'Annunziata;
solo più tardi, col crescere della loro fortuna, preferirono il
servizio spirituale, onde finirono per mantenersi in riputazione
principalmente con la volgare credenza che avessero una speciale
preghiera per abbreviare l'agonia degl'infermi accelerandone la
morte! Più Religiosi di quest'ordine andarono a confortare quelli
che doveano essere giustiziati, e al De Crescenzio toccò di
confortare Gio. Battista Vitale, "il quale fu all'hora affocato
dalli ministri di giustitia sopra uno schiffo e poi squartato in
mezzo alle dette galere"; ma "in quel medesimo tempo che stava per
morire, publice et in presentia nostra, e del fiscale sciarava,
che si ritrovava in dette galere con detto Carlo Spinello,
dichiarò, che quello che esso havea detto contro quelle persone da
lui nominate nelle sue depositioni, e specialmente contro monaci,
tanto in materia di Ribellione, quanto in materia di heresia non
era vero, ma che il tutto havea detto per dolori de' tormenti
datili dal predetto "fiscale sciarava". Al Marti poi toccò di
udire la stessa dichiarazione, durante il viaggio, non solo dal
Vitale ma anche dai Caccìa e dal Pisano, e da ultimo toccò di
trovarsi presente ed aiutare a ben morire "apparandosi detto acto
di giustitia sopra la detta galiera S.ta Maria" per Gio. Battista
Vitale e per Gio. Tommaso Caccìa, i quali ad alta voce innanzi al
fiscale Sciarava là presente ripeterono la dichiarazione e
volevano che fosse scritta; "qual dechiaratione da loro facta, fu
eseguita la detta giustitia, et furono li predetti Gio. Battista
et Gio. Thomaso affoghati sopra uno schifo, et poi squartati in
mezo di dette Galiere". Intanto come mai il Vicerè non disse nulla
su tale proposito, e parlò invece della temporanea pertinacia
irreligiosa mostrata da uno di questi infelici? Verosimilmente
essi fecero dichiarazioni di discolpe, ma parziali, avendo in
realtà rivelato per atroci torture più di quello che conoscevano,
e noi l'abbiamo fatto avvertire a suo tempo, né il Vitale potè
smentire ciò che avea rivelato in materia di eresia, mentre non
era stato mai interrogato su tale materia; quanto poi alla
pertinacia di uno di loro, la cosa fu vera ed accadde appunto in
persona del Vitale. Difatti si ebbe in sèguito la testimonianza di
Maurizio, il quale sul punto di morte narrò a' Delegati del S.to
Officio che suo cognato "che fu giustitiato qua in Napoli sopra il
molo dentro mare... non si voleva convertere, perché diceva havere
inteso da fra Dionisio che non ci era Christo, ciò e, che non ci
credeva"(4). Si ebbe poi anche, nel processo di eresia, la
testimonianza del Barone di Cropani, il quale a detto altrui,
giacchè soffrendo il mal di mare non vide nulla, disse che "tre
che furo giustificiati sopra la galera", dove egli si trovava,
gridavano essere stato loro estorto co' tormenti quanto aveano
rivelato intorno alla ribellione, aggiungendo che "un Gio.
Battista de Nicastro quale fu giustificato non si voleva
convertire, ma disse che voleva andare a casa del diavolo, et ivi
aspettare don loyse sciarava, si ben ala fine si ridusse et morì
devotamente"(5). È facile ravvisare che si alluderebbe qui
propriamente a Gio. Battista Bonazza, il quale come vedremo or ora
dovè essere giustiziato del pari; se non che in quanto alla
pertinacia irreligiosa da lui mostrata probabilmente il Barone
equivocò, confondendolo con Gio. Battista Vitale.
Ma, oltre il Caccìa e il Vitale, vi furono quattro altri
semplicemente appiccati, e su' nomi di costoro non abbiamo la
benchè menoma notizia. Forse nell'Archivio de' Padri Ministri
degl'infermi, che dicono trovarsi in Roma, potrebbe aversene
qualche cenno; ma è difficile che costoro abbiano avuti registri
particolareggiati come vedremo averli i Bianchi di giustizia, i
quali confortarono alcuni altri più tardi, e sicuramente non ne
dicono nulla né gli Annali del Lenzo, né le Memorie storiche del
Regi, che abbiamo appositamente consultato. Nondimeno per tre di
loro, anche dietro l'indizio datone dal Barone di Cropani,
possiamo dire essere stati con ogni probabilità quelli presi dal
Soldaniero e già condannati a morte, cioè Gio. Battista Bonazza
alias Cosentino, Fabio Furci e Scipio lo Jacono; il quarto dovè
essere uno della stessa comitiva, ovvero Gio. Ludovico Tedesco che
fu preso con fra Dionisio, col Vitale e col Maurizio, ma non
abbiamo qualche elemento di una certa consistenza per affermarlo.
Il Campanella nella sua Narrazione disse: "4 banditi né confessi,
né nominati in cosa di ribellione appiccaro nel molo Xarava e
Spinelli, perché si dicesse in Ispagna, ch'era verificata la
ribellione"; ma almeno i tre sopracitati erano confessi, ed il
primo di loro, il Bonazza o Cosentino, era stato nominato dal
Pizzoni oltrechè dal Soldaniero.
Del rimanente è verissimo che lo stesso Vicerè esagerava
l'importanza dell'affare, per magnificare il servizio reso alla
Corona di Spagna e per far valere le pretensioni del potere civile
verso l'ecclesiastico: ce lo dimostrano le relazioni del Residente
Veneto e del Nunzio Pontificio. Il Residente, nel giorno medesimo
dello sbarco de' carcerati, si diè premura di vedere il Vicerè,
che gli disse il loro numero essere di 156, de' quali "ottantasei
rei convinti da non poter fuggir la morte et gli altri indiciati"!
Egli trasmise questa notizia al suo Governo, e contemporaneamente
partecipò anche il genere di morte ideato dallo Spinelli per
Maurizio (ciò che farebbe credere essergli stato del pari
comunicato dal Vicerè), partecipò il supplizio inflitto a sei de'
carcerati sulle galere, ed aggiunse che il Campanella ed il Ponzio
negavano la ribellione ma confessavano l'eresia, per tentare, come
credevasi, di "prolongar la pena con esser condotti a Roma";
quest'ultimo apprezzamento usciva in campo per la prima volta e
potè forse provenire dal medesimo Vicerè, ma senza dubbio il fatto
era riferibile agli altri frati e clerici e non già a' due che
venivano citati. Il Nunzio poi avea veduto anche prima il Vicerè,
"havendo... havuto notitia che le Galere erano a Nisida per entrar
al notte (sic) in porto", allo scopo di ricordargli che ordinasse
al carceriere del Castello di tenere a sua istanza gli
ecclesiastici carcerati, i quali avea saputo essere al numero di
14 (al di sotto del vero); e il Vicerè gli disse che tutti i
carcerati erano 160, che tra gli ecclesiastici vi erano 8 clerici
selvaggi della diocesi del Vescovo di Mileto (la qual cosa non era
vera), che aveva anche qualche indizio contro il Teologo di quel
Vescovo (tale era stato nell'anno precedente il Campanella), e
perciò scrivesse al Vescovo di venire a Napoli insieme col
Teologo, aggiungendo che farebbe tenere i carcerati nel Castello
ad istanza di lui, ma in quanto alla congiura era necessario
l'intervento di qualcuno de' suoi ufficiali negli esami.
Ricordiamo che, nel settembre, il Vicerè aveva espresso desiderio
che si mandasse in Calabria un delegato del Nunzio, il quale
sarebbe intervenuto negli esami degli ecclesiastici da farsi
innanzi agli ufficiali Regii, e da Roma si era scritto che la
causa degli ecclesiastici dovea farsi in Napoli dal Nunzio, vale a
dire nel modo normale: ora, venuti i carcerati in Napoli, il
Vicerè affacciava la medesima pretensione, ma naturalmente sotto
forma diversa e senza dubbio più temperata, e per appoggiarla
metteva innanzi, ad occasione del processo di congiura, i clerici
selvaggi, Mons.r di Mileto e il suo Teologo, mentre sapeva bene
che non c'era alcuna relazione tra essi e la congiura. Da ciò si
vede pure che non nacque allora la contesa giurisdizionale,
siccome scrissero poi il Parrino e il Giannone, ma soltanto si
rinfocolò, non potendo nemmeno entrare in mente che per vederla
nascere dovessero passare oltre due mesi, quando tra l'uno Stato e
l'altro non si faceva che lottare per la giurisdizione ogni
giorno. Il Nunzio non tardò a trasmettere a Roma le pretensioni
del Vicerè, tanto sul modo di formare il tribunale, quanto sul far
venire a Napoli Mons.r di Mileto, e in tale circostanza partecipò
le esecuzioni fatte, aggiungendo che avea mandato una prima volta
il suo Mastrodatti in Castello, e non si era potuto dargli
udienza, l'avea mandato una seconda volta e gli si era detto che i
carcerati erano tenuti ad istanza del Vicerè! Faceva inoltre
conoscere che si era presentato a lui fra Cornelio del Monte e gli
aveva consegnato gli esami raccolti in Calabria d'ordine del
Card.l di S.ta Severina, annunziando che dirigevasi a Roma per dar
conto del suo operato, ed egli intanto avrebbe letto questi esami
per valersene a tempo opportuno. - Come ben s'intende, fra
Cornelio consegnava il processo di Monteleone e quello di Gerace,
che d'allora in poi rimasero nelle mani del Nunzio, mentre una
copia ne era stata già mandata dalla Calabria a Roma; ed è
notevole, da una parte, che il Nunzio non aveva mai saputo nulla
de' processi fatti in Calabria da ecclesiastici, e d'altra parte,
che nemmeno questa volta fra Marco di Marcianise credè opportuno
di mostrarsi, la qual cosa apparisce da una lettera posteriore
scritta dal Nunzio al Vescovo di Gerace(6).
Pertanto il Vicerè si era già dato pensiero del tribunale pei
laici, avea fatta la scelta del personale, e nella stessa sua
lettera del 9 novembre l'annunziava a Madrid. "Avendo trattato nel
Consiglio Collaterale della gravità di questo negozio e come
conveniva procedervi con molta ponderazione, ho stabilito di
nominare in qualità di Delegato Marco Antonio d'Aponte del
Consiglio di S.ta Chiara, che è un uomo molto letterato, molto
savio e di molta prudenza, e in qualità di Fiscale D. Giovanni
Sanchez del medesimo Consiglio, che lo assistesse il dottor D.
Luigi Xarava Avvocato fiscale di Catanzaro, e che mi dessero conto
nel Collaterale di tutto ciò che si andrebbe facendo, perché lì si
risolvesse ciò che fosse più conveniente. Credo bene che S. S.tà
debba volere quanto all'eresia che il Nunzio giudichi i frati e i
clerici, quanto alla ribellione procurerò che giudichiamo tutti".
Noi abbiamo potuto trovare nell'Archivio di Stato in Napoli la
lettera Vicereale di commissione, la quale venne spedita a'
suddetti Consiglieri il 15 novembre, e ci dà anche il nome del
Mastrodatti di cui si prescrisse servirsi, che fu Giuliano Canale.
Ricordato l'invio dello Spinelli in Calabria per la congiura che
vi si trattava, l'informazione e gli atti da lui compiti, il
gastigo dato a' più colpevoli e il trasporto in Napoli di tutti
gli altri contro i quali non era "tanta subsistentia et
chiarezza", il Vicerè si esprimeva in questi termini: "vi dicemo
et ordiniamo, che reconoscendo le dette informationi et atti,
debbiate nomine regio et nostro, summarie, simpliciter et de
plano, sine strepitu et figura Judicii procedere ad omnes et
singulos actus usque ad sententiam exclusive, però delli incidenti
di maggior momento, che in ciò occorreranno, ci ne verrete a far
relatione nel regio collaterale consiglio, et quando seranno le
cause a sententia, debbiate similmente venire a farcine relatione,
attal' che in presentia nostra si possano votare et sententiare, e
dopoi essequirle (sic) quello che serà sententiato, et potrete
procedere a tutti li atti incumbenti etiam in dì festivi et
feriali, non compiendo che si vada ritardando in questo la bona et
breve administratione della giustitia" etc.(7). È una grande
iattura che sieno perduti appunto i volumi intitolati Notamentorum
relativi a questo periodo: in essi si sarebbero certamente
trovate, co' processi verbali del Consiglio, le notizie, i pareri
e le risoluzioni prese nei suddetti incidenti di maggior momento e
nelle sentenze da doversi emettere(8). La perdita è
rincrescevolissima, poichè siamo ridotti ad avere a nostra
disposizione un numero ristrettissimo di documenti, mentre
sappiamo che il processo ebbe a travagliare almeno un 130 persone,
e sebbene fosse stato spinto innanzi con quella sollecitudine che
il Vicerè aveva ordinata, rimase aperto per più anni, come
crediamo di poter dimostrare con sicurezza. - Per ora gioverà dare
qualche notizia su' Consiglieri delegati a formare il tribunale
pe' laici. Essi erano entrambi assai distinti personaggi. Marco
Antonio d'Aponte, o de Ponte, apparteneva alla nobile famiglia di
questo nome ascritta al Seggio di Portanova, alla quale, oltre
varie Signorie, vennero mano mano i titoli di Marchesi di Morcone,
di S. Angelo, della Padula, di Collonise, e poi anche quello di
Duchi di Flumeri. Marco Antonio era del ramo di Nicolò 3.° de
Ponte, primogenito di Gio. Felice Signore di S. Angelo e di
Vincenza Galeota; Consigliere fin dal 1594 in luogo di Pompeo
Salernitano, Prefetto dei Deputati della pecunia nel 1598, divenne
poi Membro del supremo Consiglio d'Italia, 1.° Marchese di S.
Angelo, Presidente del sacro Regio Consiglio, Reggente del
Collaterale. Il Santanna nella sua Storia de' De Ponte, ce ne
diede il ritratto, che lo rivela uomo autorevole ed austero: molti
ce ne trasmisero le lodi, un Codice manoscritto, che si conserva
nella Nazionale di Napoli, ci trasmise le pessime qualità de' tre
suoi figliuoli che ne amareggiarono gli ultimi anni(9). Quanto a
D. Giovanni Sances de Luna, apparteneva anch'egli ad una nobile
famiglia di origine spagnuola, ascritta al Seggio di Montagna nel
1570, ed insignita del Marchesato di Grottola nel 1574. Era
secondogenito di D. Alonso iuniore 1.° Marchese di Grottola,
Tesoriere Generale, Consigliere del Collaterale e Grasciere, e di
D.a Caterina de Luna figlia di D. Giovanni Martinez de Luna
Castellano di Milano per Carlo V.° e poi Generale d'armata.
Divenne, per donazione del padre, Signore di S. Arpino, comunque
glie ne fosse stato contrastato il possesso da' suoi parenti con
molte liti transatte più tardi(10). Consigliere fin dal 1593 godè
sempre moltissima riputazione, "fu amato, riverito e dopo morte
desiderato" come dice il De Lellis. Una circostanza del suo
parentado merita qui speciale menzione: la sua cugina D. Anna
Sances, figlia di D. Loise Sances fratello del 1.° Marchese di
Grottola, avea sposato Gio. Battista Morano Barone di Gagliato e
quindi era cognata di Gio. Geronimo Morano: trovavasi poi già
intavolato a questo periodo un matrimonio tra l'unica e ricca
erede del Barone, D.a Camilla Morano, e un altro D. Giovanni
Sances cugino di lei e del Consigliere, figlio di D. Giulio
Sances. Potremmo aggiungere ancora che una sua nipote D.a Caterina
Sances, nata da D. Alonso 2.° Marchese di Grottola e D.a Beatrice
de Marinis, sposò il fratello di Carlo Spinelli D. Gio. Battista,
che divenne Marchese di Buonalbergo(11). Abbiamo già notato
altrove, che il Campanella ha reso la circostanza del parentado
del Sances col Morano assai importante per la nostra narrazione.
Mentre il tribunale pe' laici si costituiva, il Nunzio incontrava
difficoltà perfino a far ammettere che gli ecclesiastici fossero
tenuti nel Castello come carcerati suoi, la qual cosa pure era
stata antecedentemente consentita. Dapprima andò presso di lui lo
Xarava, a fine di persuaderlo che essendo costoro imputati di
ribellione, non si dovevano rimettere al foro ecclesiastico; di
poi vi andò D. Alonso Manrrique a nome del Vicerè per lo stesso
oggetto, e quest'ultimo si servì di un mezzo abbastanza adoperato
dagli alti ufficiali spagnuoli, quello cioè di mantenersi nelle
grazie di Roma e al tempo stesso nelle grazie della Corte di
Madrid che si mostrava tanto tenera per Roma, scovrendo e
compromettendo gli alti ufficiali napoletani; "questi Ministri,
egli diceva, che pretendono che nel caso di ribellione possa
procedere il Principe di propria autorità, potrebbero fare qualche
male offitio alla Corte di S. M.ia contro S. E.". Ma il Nunzio,
che a queste parole riconosceva subito la grande devozione del
Manrrique verso Sua B.ne, non poteva cedere, e in una udienza
avuta dal Vicerè sostenne assolutamente che gli ecclesiastici
dovessero tenersi come carcerati suoi, giusta gli ordini che da un
pezzo e ripetutamente aveva avuti da Roma; tuttavia "per
facilitare il negotio" diè "speranza" che S. S.ta avrebbe
accordato l'intervento di un ufficiale Regio negli esami di essi
intorno alla congiura, tanto più che il Vicerè gli fece
destramente intendere che voleva intervenirvi di persona, ed egli
ne rimase preoccupato. Così, in dato, del 12 novembre, fu scritto
dal Vicerè al Castellano, che tenesse gli ecclesiastici carcerati
in nome del Nunzio, e da costui, con la relazione di tutto
l'andamento dell'affare, fu scritto a Roma che sarebbe bene
accordare l'intervento di un ufficiale Regio negli esami degli
ecclesiastici. - Pertanto, procuratasi una copia del biglietto del
Vicerè, il Nunzio mandò subito a chiedere al Castellano se il
biglietto gli fosse pervenuto, e il Castellano rispose che l'avea
ricevuto, ma che nel tempo medesimo gli era stato detto di non
dargli esecuzione se il Nunzio non si fosse recato personalmente
in Castello! Queste tergiversazioni continue, e il disegno
mostrato dal Vicerè d'intervenire egli medesimo negli esami degli
ecclesiastici, davano a pensare al Nunzio che si volesse
intaccarne la giurisdizione. E in siffatto senso, il 16 novembre,
egli scriveva a Roma, aggiungendo che, se fosse costretto a fare
qualche cosa, proporrebbe di lasciar trattare prima la causa
dell'eresia, per la quale si dava anche premura di notare che era
disponibile soltanto il Vicario Arcivescovile di Napoli,
trovandosi assente il Vescovo di Caserta, e però bisognava
ordinare chi dovesse sostituirlo, laddove così fosse sembrato a
Roma(12). Il Vescovo di Caserta D. Benedetto Mandina de' Clerici
regolari, già Nunzio in Polonia, era a quel tempo il "Ministro
della S.ta ed universale Inquisizione" o "Inquisizione de Urbe",
successo in tale ufficio al Vescovo di Sorrento Mons.r Baldino
morto nell'aprile 1598; trattandosi di un processo clamoroso e non
ordinario, dovendovi essere un tribunale più largamente
costituito, egli appariva un giudice naturalmente designato.
Si può ben dire che dalla parte del Vicerè e de' suoi ufficiali,
più del solito fine di custodire la giurisdizione Regia, vi fosse
una grande diffidenza verso Roma; questo riuscirà sempre più
chiaro in sèguito, ma fin d'ora è già chiaro abbastanza.
Quantunque ognuno de' Regii si fosse affrettato a dire che
evidentemente il Papa non teneva mano a' disegni del Campanella,
in fondo nessuno dimenticò giammai che il nome del Papa era stato
pronunziato come quello del gran motore dell'impresa; e così, per
anni ed anni, il sospetto di una segreta protezione di Roma non fu
mai abbandonato da tutti i Vicerè ed alti ufficiali, e influì
anche troppo sulle loro determinazioni intorno al Campanella.
Dalla parte di Roma, quasi non occorre dirlo, non eravi il benchè
menomo interesse pel povero frate, ma tutti i pensieri erano
rivolti a far "conoscere la superiorità ecclesiastica" giusta
un'espressione del Nunzio; eppure avrebbe dovuto oramai farvisi
strada anche il sospetto, poichè i dubbii già concepiti sulla
bontà de' procedimenti usati con quegli ecclesiastici, nella
Calabria, ricevevano una potente conferma dalle spiegazioni orali
che fra Cornelio dava in Roma appunto a quei giorni.
Fra Cornelio, venuto co' carcerati in Napoli, dopo di aver
consegnato al Nunzio i processi ne' quali avea rappresentata
quella parte che conosciamo, si disponeva ad andar subito a Roma,
e da una lettera del Nunzio si rileva che dovè partire il 12
novembre(13). Intanto non avea mancato di visitare nel Castel
nuovo almeno taluno de' frati carcerati. Dalla testimonianza di un
altro carcerato per delitti comuni, inserta nel processo di
eresia, sappiamo che visitò fra Silvestre di Lauriana, ed ecco in
che modo fu riferita questa visita: "venne una volta un certo
frate rossetto compagno del visitatore di Calabria, et fra
Silvestre li dimandò alcuni dinari quali erano stati contribuiti
in Calabria dali conventi, et massime che fra Silvestre disse
haver detto tutto quello che havea voluto detto frate rosso llà in
Calabria, et questo frate rosso lo consolò, dicendo che non poteva
patere cosa alcuna perché esso era solo testimonio, è così li
diede nove carlini"(14). Naturalmente dovè vedere ancora qualche
altro, ma non ce n'è rimasta alcuna notizia: sappiamo invece che
giunto col procaccio in Roma, fu subito interrogato dal S.to
Officio, e i risultamenti dell'interrogatorio si leggono ne'
Sommarii del processo di eresia(15). Noi abbiamo già avuta
occasione di darne un cenno altrove (ved. vol. 1.° pag. 259). In
sostanza venne a dichiarare che prima fra Domenico da Polistina e
poi il Soldaniero, e il Vescovo di Catanzaro e gli ufficiali Regii
gli comunicarono tutte quelle cose che egli registrò nel processo;
non potè determinare e neanche legittimare la provenienza di
parecchie gravi accuse contro il Campanella, espresse nelle
lettere che avea già scritte al Generale dell'Ordine e al Card.l
di S.ta Severina, sia quanto a detti e fatti del Campanella, sia
quanto alla diffusione delle eresie di costui in molti paesi che
avea specificatamente indicati; non potè dare altre informazioni
al di là di quelle inserte nel processo, mentre in più lettere
aveva affermato di poterle dare meglio a voce. Per tutti i versi
egli "non soddisfece", e in verità sarebbe stato ragionevole un
buon processo contro questo malvagio frate; ma si conosce che uno
de' lati più deboli del S.to Officio, sia amministrato da'
Commissarii speciali sia dagli Ordinarii, era appunto il
rispettare coloro i quali bene o male davano prova di zelo nella
scoperta delle cose d'Inquisizione. Così la città di Napoli non
potè mai ottenere, malgrado i più insistenti reclami, che ad
evitare le tante testimonianze false nelle cause di S.to Officio
fosse lecito di conoscere i nomi de' testimoni; Roma vi si negò
ostinatamente, non dissimulando che preferiva il rischio di avere
testimoni falsi al rischio di non trovar testimoni, e
contentandosi di ovviare alle testimonianze incerte con le
ripetute, pazienti, laboriose informazioni. Vedremo che questo
precisamente accadde nella causa del Campanella, non senza
aggravare nell'animo del Vicerè e de' suoi ufficiali il sospetto
che si volesse, con le lungaggini, sottrarre il Campanella e i
frati inquisiti al gastigo che si meritavano. Ma se in Roma non
rimaneva più dubbio che il processo era stato iniziato malamente,
non si sarebbe anche dovuto ingenerare il sospetto per
l'intervento degli ufficiali Regii nella causa della ribellione e
tanto più rifiutarsi ad ammetterlo? Così avrebbe dovuto essere; ma
si conosce, o almeno si conosceva ottimamente da' padri nostri,
che Roma scansa volentieri la lotta con chi si mostra duro.
Il 17 novembre il Card.l S. Giorgio scriveva che S. S.tà stimava
ragionevole l'intervento di qualche ufficiale Regio nella causa
della congiura, e parimente la venuta del Vescovo di Mileto alla
presenza del Vicerè; stimava insomma ragionevoli tutte le dimande
Vicereali, se non che dichiarava dovere il Nunzio permettere
all'ufficiale Regio "d'intervenire in effetto ma non già
d'ingerirsi nel resto, et spetialmente nelle materie tangenti al
S.to Officio", dovere inoltre ad ogni modo assicurarsi bene che
fossero i prigioni "custoditi come prigioni suoi, et tenuti a sua
libera dispositione". Evidentemente c'era un singolare contrasto
d'idee, una indeterminazione curiosa, una voglia mal celata di
rendere la concessione illusoria. In un'altra lettera del 19 si
ripetevano le medesime cose, dicendosi, quanto agli esami degli
ecclesiastici, che S. S.tà "giudicava conveniente che mentre
s'interrogavano delle materie concernenti tal congiura,
v'intervenisse qualcheduno per il Fisco Regio conforme
all'instanza del Vicerè", donde parrebbe che volesse concedersi
tutt'al più la presenza di un Avvocato fiscale Regio: dichiaravasi
poi S. Stà molto soddisfatta del vigore mostrato dal Nunzio nella
difesa della giurisdizione, avendo "preteso vanamente i Ministri
regii di procedere di propria autorità nel caso, et nelle "persone
de i sodetti". Ma la Corte di Napoli non aveva preteso di
assistere vanamente al giudizio, sibbene di prendervi parte,
poichè aveva anzi preteso che il tribunale dovesse comporsi tutto
di laici, e i Ministri Regii non erano tanto dolci da contentarsi
delle semplici apparenze, onde la quistione ebbe a durare ancora
un pezzo. - Nella stessa data del 19, il Nunzio poteva finalmente
scrivere a Roma che il Vicerè, dietro le sue lagnanze, avea
mandato al Castellano un altro biglietto, col quale gli ordinava
di ammettere chiunque fosse stato da lui inviato per eseguire
qualunque suo ordine. E scriveva pure al Card.l di S.ta Severina,
dicendo che gli ecclesiastici inquisiti erano 14 (ancora non
sapeva che erano in maggior numero), e la carcere sua era "una
sola et non interamente sicura per simili huomini", e però avea
ricercato il Vicerè che si contentasse metterli in Castel nuovo a
sua istanza come era seguito: donde risulta sempre più manifesto
non esservi stata veramente mai, tra il potere civile e
l'ecclesiastico, una quistione intorno al doversi quegl'inquisiti
tenere nelle carceri Regie o in quella del Nunzio, il quale, al
pari di tutti i suoi predecessori e dello stesso Arcivescovo,
continuamente profittava delle carceri Regie per gì'inquisiti ed
anche pe' condannati di una certa importanza. Infine scriveva
ancora il Nunzio a' Vescovi di Squillace e di Gerace, dicendo che
i carcerati erano giunti e si doveano con loro eseguire gli ordini
che S. S.ta avrebbe dati. Ci mancano le lettere di questi Vescovi,
e così pure quella del Card.l di S.ta Severina, alle quali il
Nunzio rispondeva, e però non conosciamo il motivo preciso di
queste risposte del Nunzio abbastanza oscure; ma parrebbe che il
Card.l di S.ta Severina avesse giudicato poco corretto che
gl'inquisiti ecclesiastici fossero tuttora rimasti in mano delle
forze Regie, e che i Vescovi di Squillace e di Gerace avessero
fatto tardivamente avvertire che si badasse bene alle qualità di
clerici nelle persone del Caccìa e del Pisano.
Non si saprebbe dire veramente perché il Nunzio avesse tardato
fino al 23 novembre per mandare a riconoscere gli ecclesiastici
carcerati, mentre ne aveva facoltà fin dal 15: comunque sia, a
quella data egli mandò il suo Auditore, il Rev.do Antonio Peri
fiorentino, che vedremo figurare anche troppo durante il processo
di eresia, poichè il Nunzio, occupato in altri affari, si fece
sovente sostituire da lui. Lo mandò al Castellano con un suo
biglietto che può leggersi tra' Documenti; qui occorre soltanto
notare essere stato questa volta il Castellano più che gentile,
avendo non solo fatta dare una stanza per gl'interrogatorii, ma
anche "offerto ministri et ogni altra cosa per la tortura"!
Nell'udire un simile sfoggio di cortesia da parte del Castellano,
Mons.r Nunzio, che fino allora non era riuscito a nulla con lui,
dovè rimanerne lusingato tanto, che non mancò di riferire anche
quell'offerta a Roma(16). - È necessario pertanto fare la
conoscenza di questo Castellano. Egli era D. Alonso de Mendozza e
Alarcon, di nobilissima famiglia, discendente da quel D.
Ferdinando di Alarcon, il quale tenne prigione Re Francesco di
Francia dopo la rotta di Pavia, fu creato Marchese della Valle
Siciliana e poi anche di Rende, e maritando l'unica sua figlia a
un Mendozza, volle che tutti i successori prendessero perfino il
suo nome, onde si ebbe una serie di Ferdinandi de Mendozza e
Alarcon Marchesi della Valle, che ingarbuglia un poco la storia
della famiglia. D. Alonso era terzogenito di D. Diego de Mendozza,
quarto figlio di D. Ferdinando Pietro Gonzales de Mendozza, 2.°
Marchese della Valle, che morì governando lo Stato di Milano; egli
avea sposato D. Maria de Mendozza figlia di suo zio D. Alvaro e di
D. Anna di Toledo. Secondo il costume del tempo, l'ufficio di
Castellano del Castel nuovo era da anni nelle mani dei Mendozza.
Dopo la morte di D. Ferdinando Pietro Gonzales, 2.° Marchese della
Valle, era passato al figlio D. Alvaro, e in una delle assenze di
costui, che guerreggiò in Fiandra con molto valore, fu retto da D.
Diego padre di D. Alonso; più tardi, nel 1595, D. Alvaro medesimo
con licenza del Re ne fece rinunzia a D. Alonso suo genero, e tale
rinunzia fu confermata nel 1596, continuando poi nel medesimo
ufficio, dopo la morte di D. Alonso, anche i due figliuoli di
costui D. Alvaro e D. Diego iuniori successivamente(17). Tutti
questi particolari non debbono reputarsi inutili, che anzi dovremo
darne ancora altri più in là, essendo stato il Campanella in
relazione con qualche persona della famiglia Mendozza e della
parentela di essa.
Ecco ora un saggio della ricognizione fatta dall'Auditore del
Nunzio il 23 novembre; ne prendiamo alcuni brani dal 1.° volume
del processo di eresia, dove essa trovasi inserta. Precisamente
come scrisse il Nunzio a Roma nella stessa data, si volle rilevare
quali e quanti fossero gli ecclesiastici inquisiti, i loro nomi ed
il luogo in cui si trovavano carcerati: così per la prima volta
s'incontra un breve interrogatorio del Campanella e di tutti gli
altri ecclesiastici, con la descrizione degli abiti di coloro che
furono presi travestiti da secolari; non di rado vi s'incontra
pure la notizia della patria, parenti, età e circostanze in cui
ciascuno fu preso(18). Il Campanella venne interrogato prima di
ogni altro, e diamo qui la descrizione che se ne fece, e le due
risposte che si ebbero alle due interrogazioni fattegli. "Fu
esaminato un certo giovane, con barba nera, vestito di abiti
laicali, con cappello nero, casacca nera, calzoni di pelle,
ferraiolo di lana come volgarmente si dice panno di Morano arbaso,
e deferitogli il giuramento" etc. rispose: "Signore, Io mi chiamo
Fra Thomasi Campanella dell'ordine di San Domenico, sono di una
terra chiamata Stilo in Calabria ultra, mio patre si domanda
Geronimo Campanella et mia matre Catherina basile. L'essercitio
mio è di Religioso, dire l'offitio, messa, predicare et
confessare, et l'habitatione mia è in Stilo nel convento detto
Santa Maria di Gesù di detto ordine di S. Domenico, et si ben mi
ritrovo vestito di questa maniera, è perché fuggiva l'ira di miei
inimici che mi persequitavano, cioè l'Avocato fiscale Don luisi
Sciarava et Gio. Geronimo Morano che mi veniva appresso"...
"Nell'anno 1581 mi pare ch'io entrassi nella Religione, et per
prima era chierico". Due cose si fanno qui notare: l'una è che sua
madre vien detta Caterina Basile, mentre è stato assicurato che
ne' libri parrocchiali leggevasi Caterina Martello, e su questo ci
siamo già spiegati fin dal principio della nostra narrazione (ved.
vol. 1.° pag. 2); l'altra è che il Campanella scusa qui la sua
fuga dicendo che gli "veniva appresso" Gio. Geronimo Morano, non
Maurizio de Rinaldis. - Seguì l'interrogatorio fatto a fra Pietro
di Stilo, nel quale si parlò ancora del Campanella, e ne diamo
semplicemente le risposte. "Havrà da dudeci anni ch'io sono
entrato nella Religione, et havrà da undici anni che hò fatto la
professione, et di presente quando fui preso carcerato steva à
Stilo nel monisterio di S.ta Maria del Gesù dove io era
vicario"... "In detto convento vi erano quattro sacerdoti di messa
et uno laico assistenti computati con me, et fra Dionisio Pontio
ci soleva venire come una furia, et andava et veniva; li quattro
sacerdoti sono prima io, il secondo fra Thomasi Campanella, il
terzo fra Domenico di Riaci, il quarto fra Simone della Motta (si
noti che il Petrolo non c'era), et non fu di altri che fugissero
di detti frati solo il Campanella avertito da fra Dionisio pontio
che venne à dire che era stato avisato che veniva il s.r Carlo
Spinello contro di loro, et così si ne partirno, et questo è
quello ch'io so della fuga loro-". - Lasciando poi tutti gli altri
interrogatorii, riporteremo soltanto quelli di fra Domenico
Petrolo, di fra Giuseppe Bitonto e di fra Dionisio, con la
descrizione de' loro travestimenti. Quanto a fra Domenico si
scrisse: "Fu esaminato un certo giovane con piccola barba, vestito
di abiti laicali, con casacca nera di panno d'arbascio, calzoni di
panno color lionato, con ferraiolo egualmente di panno nero
d'arbascio, dietro giuramento" etc. rispose, "Io mi chiamo fra
Domenico de Stignano dell'ordine di S.to Domenico, et son figlio
ad Augustino petrone (sic) et a lucretia pelegia, et l'essercitio
mio è di studente sacerdote di Messa, et ha dui anni ch'hò
predicato et sono stato assignato al convento di Cosensa et
deputato al convento di S.ta Maria di Gesù di Stilo"; né gli fu
dimandato altro. Quanto a fra Giuseppe Bitonto, troviamo: "Fu
esaminato un certo giovane con barba castagnaccia, vestito di
abiti laicali, con giubba bianca, cappello nero e calzoni di
arbascio nero e ferraiolo di panno nero, con giuramento
interrogato" etc. rispose, "Io mi chiamo fra Gioseppe Bitonto di
san Giorgio et sono sacerdote di Messa et lettore" etc. "Quando
fui preso carcerato fui preso in casa fuori alla vigna d'un mio
zio, che mi ni era ritirato là per pagura di non essere preso, gia
che si diceva che tutti l'amici del Campanella dovevano essere
presi et però mi ritrovo in questo habito che mi presero che steva
dormendo, et li sbirri mi levorno la tunica et l'habito, et in
questo carcere di notte e giorno stò solo". Infine quanto a fra
Dionisio si scrisse: "Fu esaminato un certo giovane con barba nera
vestito di abiti laicali, con casacca di ciambellotto, calzoni di
scottano nero e ferraiolo nero, con giuramento interrogato" etc.
rispose, "Io mi chiamo fra Dionisio Pontio da Nicastro et son
frate dell'ordine di S.to Domenico et l'essercitio mio è di
sacerdote lettore et predicatore et mio padre si chiamò Jacovo
pontio et mia madre si chiamò lisabetta monizza"... "Io fui preso
carcerato à Monopoli dove io era fugito et scappato da molti
soldati nel convento di piczoni, perche mi fu detto da claudio
crispo che erano venuti detti homini per carcerare li frati in
detto monisterio". Si può qui notare che egli dicevasi avvertito
dal Crispo, il quale era stato solito di dimorare in quel convento
e forse allora vi mancava, non già dal Caccìa il quale veramente
l'aveva avvertito, e non conveniva che fosse nominato, per
nascondere che era là venuto in sua compagnia. - Facendo questa
rassegna, l'Auditore ebbe a trovare non 14 ma 21 ecclesiastici,
come si rileva dalla Ricognizione originale, ed ebbe a sapere che
altri tre di loro erano stati rinchiusi nel Castello dell'uovo,
probabilmente per semplice disavvertenza: questi erano infatti fra
Pietro Ponzio, Cesare Pisano e Giulio Contestabile, ma nella lista
che ne fu redatta lo stesso giorno e che può leggersi tra'
Documenti(19), fu messo non già il Contestabile, sibbene Gio.
Tommaso Caccìa che era stato già giustiziato! Chi si permise tale
sostituzione evidentemente dolosa? Sarebbe difficile dirlo; ma
poichè insieme coll'Auditore non v'era alcuno ufficiale Regio che
avrebbe potuto far nascere tale equivoco, bisogna piuttosto dire
che l'abbia fatto nascere il Nunzio medesimo, per mostrarsi ignaro
di questo grave e d'altronde irrimediabile oltraggio arrecato alla
giurisdizione. Il Vescovo di Squillace fin dal giorno 11 avea
scritto un'altra volta al Nunzio nominandogli in particolare un
clerico, naturalmente della propria diocesi, che con ogni
probabilità dovè essere il Caccìa; il Nunzio gli rispose che
questo clerico era stato condotto in Napoli, e intorno a lui
doveva eseguirsi l'ordine che S. S.tà darebbe, come altra volta
gli avea scritto(20); sicchè il trovarselo nella lista gli potè
servire di ottima scusa. Ma se questo non fosse stato un artificio
suo, avrebbe dovuto poi venire il giorno delle lagnanze e de'
risentimenti presso il Vicerè, allo scoprirsi dell'inganno; ora
siffatto giorno non venne mai, e ciò mostra che Mons.r Nunzio non
vide perché non volle vedere, o per lo meno che le sue grandi cure
intorno alla giurisdizione non erano dirette a proteggere le
persone ecclesiastiche, le quali potevano perfino scomparire senza
che egli se ne avvedesse.
Nel medesimo giorno 23 novembre il Nunzio mandò a Roma la notizia
della ricognizione fatta e la lista de' carcerati ecclesiastici,
che raggiungevano appunto il numero di 23, con l'osservazione che
se n'erano trovati 9 di più ed un solo clerico selvaggio. Nel
giorno 26 tornò sull'argomento e ripetè l'istanza che venisse
l'ordine circa le persone le quali doveano costituire il tribunale
per l'eresia, accertando che in questa materia i Ministri Regii
non avevano alcuna pretensione d'intervenire, ma soggiunse: "temo
bene che nel capo della congiura e ribellione non sia per bastare
à medesimi Ministri l'intervenire, ma che vorranno apparirci
principali, et che sotto lor nome si faccino i Processi non
ostante che di ragione non convenga, per che ritraggo che dicono
altra volta haverlo usato, et che sia solito de Principi in simili
casi proceder de facto". Questo gli venne confermato poco dopo dal
medesimo Vicerè in una udienza avuta, e mentre egli insisteva
sulla necessità "che tutto apparisse fatto coram Judice
ecclesiastico", il Vicerè mandò a chiamare il Reggente d'Aponte
(che era Gio. Francesco Marchese di Morcone, cugino del
Consigliere, figlio di Gio. Antonio e di Costanza Lanaria), e
costui disse che "havevano trovato che con altre occasioni era
stato dalli Antecessori di S. S.tà commesso ad uno de Ministri
Regii che intervenisse come delegato Apostolico in trattar simili
cause"; il Vicerè soggiunse che se ne farebbe istanza a Roma. Il
Nunzio allora non obiettò altro, ma chiese che i tre ecclesiastici
rinchiusi nel Castello dell'ovo si facessero condurre in Castel
nuovo, e l'ordine in questo senso fu subito dato; fece in pari
tempo notare che i carcerati ecclesiastici si erano trovati in
maggior numero, ma un solo veramente era clerico selvaggio, e il
Vicerè disse che non pensava che erano tanti! Insomma il Vicerè
all'occorrenza rappresentava anche la parte dell'ingenuo, e
mostrava sufficiente abilità in questo armeggìo.
Non si tardò a commettere le trattative all'Ambasciatore di Spagna
ed all'Agente Vicereale in Roma. Una lettera del Vicerè, in data
del 30 novembre, ci pone in grado di conoscere lo stato delle cose
dalla parte del Governo di Napoli: sarà bene riportarla qui tutta
intera in italiano(21). "Già tengo dato conto a V. M.tà dell'aver
tradotto qua i prigioni di Calabria, e della giustizia che si fece
di sei di loro all'entrata del porto. Contro i laici si va
procedendo, avendo delegato per Giudice il Consigliere Marco
Antonio de Aponte, e per Fiscale D. Giovanni Sanchez, con ordine
che ci vadano sempre dando conto in Collaterale di quanto si farà.
I frati e clerici tengo posti tutti in Castel nuovo, con ordine
che stiano lì in nome di S. S.tà e del Nunzio che risiede qui per
lui, ma segretamente ho ordinato al Castellano che non lasci
trarre di là nessuno. S. S.tà inviò ordine al Nunzio che risiede
qui, perché con lui, o col Giudice che egli deputerebbe pel
compimento di questa causa, entrasse sempre un'altra persona di
parte mia. Io non mi sono contentato con questo, e però faccio
istanza per mezzo del Duca di Sessa e di D. Alonso Manrrique che
mi rimetta la causa, e quando non potessi ottener questo, che S.
S.tà nomini i Giudici che io le presenterò, o mi mandi un Breve
perché io possa presto nominarli in suo nome. Perciò ho trovato un
decreto emanato al tempo delle rivolte del Principe di Salerno da
due Reggenti di questo Collaterale, nel quale si nominano Giudici
creati da S. S.tà e S. M.tà, e così con questo ed altre ragioni
convenienti faccio l'istanza suddetta, e in tale stato tengo il
negozio. L'Inquisizione ancora, da parte sua, tratta di volere
coloro che sono inquisiti di eresia; io vado rispondendo a tutto
con buone ragioni e parole, e almeno procurerò che i capi
principali, per una via o per l'altra, non escano di qui senza
aver giustizia di loro" etc. Quest'ultima proposizione si vedrà
affermata ancora più energicamente nelle lettere Vicereali
consecutive, ed essa fa intendere il deciso proponimento del
Governo contro il Campanella e socii, malgrado che da parte di
Roma non apparisse alcuna premura di secondarlo.
Naturalmente a Roma tutta questa insistenza per farle sacrificare
i dritti giurisdizionali non piaceva punto, e già, mettendo in un
sol fascio i negozii comuni e quello de' carcerati per la congiura
(26 novembre), il Card.l S. Giorgio dolevasi col Nunzio, perché i
Ministri Regii non sapevano lasciare i loro abusi e il Vicerè non
riusciva quale si era mostrato da principio: allorchè poi comparve
D. Alonso Manrrique (2 dicembre) con quella specie di dimande
sopra menzionate, si affrettava a partecipare al Nunzio la
maraviglia destata dal vedere che i Ministri Regii pretendevano
"di fare la causa soli". Ma non tardò nemmeno a fargli sapere (4 e
5 dicembre) la risoluzione di S. S.tà, che la causa della congiura
dovesse farsi da lui "et da un Ministro Regio non coniugato in sua
compagnia, che non essendo Chierico pigli la prima Tonsura per
questa occasione, non essendosi lasciato persuadere S. B.ne di
delegare persona meramente Laica"; ed aggiunse pure l'altra
risoluzione di S. S.tà "di far venire a Roma... finita la causa
della congiura" coloro tra gli ecclesiastici che erano inquisiti o
sospetti di eresia, onde non solo non accadeva di deputare alcuno
in luogo del Vescovo di Caserta, ma neanche si doveano agitare in
Napoli siffatte materie. Evidentemente con quest'ultima
risoluzione la Curia Pontificia rinfocolava i sospetti e si
preparava un'altra difficoltà, imperocchè non poteva presumersi
con qualche fondamento l'assoluzione di tutti gli ecclesiastici,
in una causa di congiura in cui vi erano già state dieci condanne
di morte con otto esecuzioni, né doveva attendersi agevolmente il
rinvio a Roma di coloro i quali sarebbero riusciti condannati,
senza far loro espiare la pena nel Regno. Intanto, poco dopo, il
Card.l S. Giorgio fece anche sapere che si spedirebbe un
Breve particolare sopra il tribunale della congiura, ma
desiderando il Vicerè che la causa non si differisse
ulteriormente, S. S.tà voleva che il Nunzio vi mettesse subito
mano, senza nemmeno aspettare il Breve, contentandosi inoltre "che
il Fiscale e il Notaro sieno quali il Vicerè gli vorrà". - Come si
vede, pretendendo sempre di più e con gran fretta, quasi non
lasciando tempo alle repliche, il Governo guadagnò molto e
sollecitamente. Il Papa non si riserbò nemmeno la conoscenza
personale del Ministro Regio che doveva intitolarsi Delegato
Apostolico e procedere in nome della S.ta Sede: bastava che,
essendo celibe, avesse la tonsura, e non avendola se la
procurasse, senza contare che avrebbe poi dovuto sempre il Nunzio
trovarsi d'accordo con questo Ministro Regio, poichè in caso di
disparità chi mai avrebbe sciolta la differenza? Ben di rado la
sostanza fu tanto barbaramente sacrificata alla forma. Una
relazione di D. Alonso Manrrique in data di Roma 4 dicembre, la
quale fu poi mandata in copia a Madrid, ci fa conoscere i
particolari delle trattative da lui fatte, e le notizie e i
consigli che dava(22). Ci basterà notare che nelle trattative egli
svolse l'argomento, che il Vicerè non si fermava in puntigli di
giurisdizione, ma solo desiderava riuscire ad accertare il delitto
e gastigarlo per soddisfazione del suo Re, e a tal fine era un
mezzo più a proposito quello de' Ministri di S. M.tà che quello
del Nunzio: quanto poi alle notizie ed a' consigli che dava,
gioverà riportare le sue stesse parole. "In tal negozio mi rimane
solo a dire che desidero infinitamente che si riesca a mettere in
luce la verità, essendo molti di avviso che non vi sia nulla da
accertare in riguardo al Re, e che a' prigioni non debba mancare
il tutore, come altre volte ho scritto a V. E.; oltracciò ho
potuto capire che hanno in progetto lasciar finire questa causa, e
subito che sia conchiusa, richiedere i prigioni per la causa della
fede, e tradurli qua, dove, dicono alcuni, se si giustificano
intorno alla fede, sfuggiranno quest'altra pena, o per lo meno ne
sarà l'esecuzione poco rigorosa, come accade nelle cause
dell'inquisizione. V. E. vedrà ciò che si conviene fare.
Abbastanza buono sarebbe che agisse in guisa da far commettere al
Nunzio la causa della fede, perché fatte costì le prove e riusciti
convinti di qualcuno de' due delitti, non avendo null'altro da far
provare, si possa meglio insistere per l'esecuzione della
sentenza, chè se non si rimette costà il fare questa causa, passa
pericolo che si porti qua". Il consiglio del Manrrique, senza
mostrare un negoziatore di alta levatura, mostra un uomo accorto,
ed è superfluo dire che fu presto seguito.
Il Nunzio ricevè le lettere del Card.l S. Giorgio per mezzo dello
stesso Governo di Napoli, poichè sovente le staffette Regie
servivano anche per lui, e il 10 dicembre, avuta un'udienza, fece
conoscere la risoluzione di Roma al Vicerè, il quale già ne era
informato e potè comunicargli la risoluzione sua di deputare il
Consigliere D. Pietro de Vera d'Aragona clerico di prima tonsura.
Costui era spagnuolo e veramente assai distinto magistrato,
Consigliere dal 1588, "erudito e giusto" come lo disse il
Toppi(23); ma apparteneva ad una famiglia tutta devotissima al
Governo, avendo pure un cugino, Diego de Vera, in funzione di
Pro-segretario del Vicerè appunto a quel tempo, inoltre uno zio,
Francesco de Vera, Ambasciatore di S. M.tà presso la Repubblica
Veneta. Il Nunzio, che lo conosceva, ebbe a dichiararlo "uno de'
principali del detto Consiglio, così in lettere come in altre
qualità"(24). E si offerse subito a cominciare la causa "etiam
senza il Breve"; ma riferendo queste cose a Roma espresse pure la
sua opinione che passerebbe altro tempo prima di cominciare, ed
intanto potea venire il Breve, "per non haver a mettere le lettere
in processo per fondar la giuriditione". Più tardi, il 17
dicembre, riferì la comunicazione fattagli dal Vicerè dell'aver
già nominato il De Vera per Giudice e lo stesso D. Giovanni Sances
per Fiscale, la visita fattagli da costoro in sèguito di questa
nomina, e la sua novella offerta di esser pronto a trattare la
causa; ma aggiunse che il Vicerè stimava a proposito "aspettar
detto Breve quanto alli ecclesiastici, poichè intanto si potea
trattar contro laici". - Oramai, concluso l'affare, il Vicerè non
avea più tanta fretta, o voleva egli pure un documento il quale
suggellasse ciò che si era ottenuto e che lo rendeva molto
soddisfatto. Questa sua soddisfazione rilevasi da una lettera che
mandava a Madrid fin dal 13 dicembre, insieme con una copia della
relazione di D. Alonso Manrrique, rilevandosi in pari tempo la sua
costante premura che il Campanella fosse gastigato e l'annunzio
della prossima esecuzione di altri laici già condannati(25) "...
S. S.tà si risolvè di fare quanto V. Mtà potrà comandar di vedere
da questa copia di lettera di D. Alonso, che non mi pare si sia
fatto poco; e così ho nominato D. Pietro De Vera, che è il Decano
del Consiglio, tanto per le molte e buone parti che tiene, quanto
per essere tonsurato, e credo che l'avrà per molto bene; stimai
anche nominare fiscale lo stesso D. Giovanni Sanchez, e
Mastrodatti il medesimo; così comincerà subito a procedersi nel
negozio, e di ciò che farà il dottore Marco Antonio de Ponte co'
laici si darà copia a D. Pietro de Vera e al suo compagno pel
procedere contro i frati e clerici. Odo che contro il Campanella
sono ben provati tanto il delitto della ribellione quanto il
delitto dell'eresia; procurerò, se posso, che si faccia giustizia
pel primo, sebbene non riesca a persuadermi che li vogliano
tradurre a Roma per l'eresia; ma, per sì o per no, farò istanza
che quanto riguarda l'Inquisizione si rimetta qui al Nunzio. Di
alcuni de' laici che sono convinti e confessi comincerà a farsi
giustizia secondo la colpa di ciascuno; di ciò che si farà andrò
dando conto a V. M.tà" etc.
Adunque il Vicerè poteva tenersi certo che il Campanella non la
scamperebbe, e facendo trattare in Napoli anche la causa
dell'eresia, per lo meno veniva ad assicurarsi che il povero frate
non sarebbe mai più sfuggito dalle sue mani. Vedremo che il far
trattare la causa dell'eresia in Napoli, non offendendo la
giurisdizione, fu accordato senza la menoma difficoltà, laonde non
si ebbero controversie da questo lato, e con la promessa del Breve
sulla costituzione del tribunale per la congiura nel modo
convenuto, ebbe realmente termine la contesa giurisdizionale. Noi
abbiamo voluto esporla in tutti i suoi più minuti particolari,
giacchè essa non rappresenta una delle contese ordinarie, e i suoi
particolari soltanto possono dare qualche luce su' fatti che si
svolsero di poi, sull'andamento e sugli esiti de' processi.
Naturalmente il processo di congiura pe' laici sottostava
all'azione, legale a que' tempi, del Vicerè e del Consiglio
Collaterale, e il processo di eresia per gli ecclesiastici
sottostava all'azione legale del Papa e della Sacra Congregazione
Cardinalizia; basta dire che le sentenze erano profferite dai
Giudici così come le imponevano le risoluzioni superiori dietro la
relazione de' fatti delle cause. Ma sul processo di congiura per
gli ecclesiastici chi avrebbe avuto influenza? Certamente col
Breve Papale il Nunzio ed il Consigliere sarebbero risultati
"Delegati Apostolici", ma poteva attendersi dal Consigliere che si
fosse posto alla dipendenza del Papa e non già del Vicerè? Il
fatto è che ciascuna delle due parti avea presa la sua strada, che
il corso delle trattative ci fa vedere in un modo abbastanza
chiaro, e ci permette di giudicare in un modo meno fallace. Dalla
parte del Vicerè si voleva il gastigo del Campanella e degli
ecclesiastici più compromessi, conforme al gastigo che già era
stato dato e si continuava a dare ai laici; bene o male si credeva
alla congiura e la si voleva punita. Dalla parte del Papa si
voleva riconosciuta "la superiorità ecclesiastica", che "tutto
apparisse fatto coram Judice ecclesiastico" secondo le espressioni
del Nunzio; e ritenendosi non esservi "nulla da accertare in
quanto al Re", si voleva che non mancasse "il tutore"
agl'inquisiti, secondo l'espressione del Manrrique. Ora se così
ritenevasi, se conoscevasi pure essere stato malamente condotto in
Calabria il processo primo e fondamentale da fra Cornelio,
occorreva una tutela efficace, ed è agevole intendere che quel
Breve sarebbe venuto a tutelare i diritti giurisdizionali, non le
persone degl'inquisiti; è agevole anzi intendere che il desiderio
di un tutore rappresentava piuttosto un argomento per non
lasciarsi strappare del tutto le prerogative ecclesiastiche. Anche
ammettendo, come noi ammettiamo, che il Campanella fosse stato
giuridicamente colpevole, sarebbe stata giusta l'istituzione di un
tribunale che avesse data guarentigia d'imparzialità, e
l'espediente al quale si era ricorso non poteva riuscire a darla;
poteva solo creare nuovi imbarazzi, come difatti li creò, senza
giovare efficacemente al povero Campanella. Vedremo a suo luogo i
termini ne' quali il Breve fu redatto, vedremo anche la condotta
che tenne il Nunzio ulteriormente, e rimarrà dimostrato appieno
ciò che qui affermiamo.
È tempo ora di occuparci della vita che menava il Campanella e
tutta la turba degl'infelici venuti di Calabria: ecco quanto
possiamo dirne, secondo le notizie che si trovano sparse qua e là
nel processo e nelle altre scritture di S.{to} Officio. Una parte
de' carcerati trovavasi nel Castello dell'uovo, e fra essi il
Barone di Cropani, Ferrante Ponzio, Gio. Paolo e Tiberio
Carnevale, Jacobo e Ferrante Moretti, Francesco Antonio
d'Oliviero, Marco Antonio Giovino, Geronimo di Francesco, Giuseppe
Grillo, Felice Gagliardo; la parte maggiore trovavasi nel Castel
nuovo, e ci basterà nominare solamente Geronimo del Tufo, Maurizio
de Rinaldis, e insieme con tutti gli altri ecclesiastici ed anche
co' parenti suoi il Campanella. Mano mano molti carcerati dal
Castello dell'uovo passarono del pari nel Castel nuovo, e
segnatamente Ferrante Ponzio, Francesco Antonio d'Oliviero etc.;
ma perfino un anno e mezzo dopo questo tempo di cui parliamo ve
n'erano sempre alcuni nel Castello dell'uovo, p. es. il Gagliardo.
Gioverà rammentare in breve qualche particolarità del Castel
nuovo, poichè non ci mancano elementi per definire la parte di
esso occupata da' carcerati calabresi, il torrione in cui il
Campanella fu rinchiuso, ciò che ci sembra dover riuscire
interessante al cuore di ogni persona bennata. Come conoscono gli
amatori delle cose patrie, nel Castel nuovo si distingue il
maschio o castello Angioino del 1283, fornito delle cinque
maestose torri, due delle quali verso il mare e tre verso terra, e
la falsabraca o revellino Aragonese del 1486, con le sue torri e
cortine molto basse, poi successivamente elevate, che a' giorni
nostri abbiamo visto con poco giudizio spianare. A' tempi de'
quali trattiamo, la falsabraca con le sue torri in gran parte
quadre era incomparabilmente più bassa di quanto possiamo ben
ricordare averla vista, e le cinque torri del maschio, veri
torrioni si elevavano un poco di più sul livello de' bastioni
rispettivi, i quali non raggiungevano l'altezza attuale, come si
può vedere abbastanza bene p. es. dalla gran carta di Napoli
incisa da Alessandro Baratta nel 1628, che ogni amatore delle cose
belle della città ha certamente ammirata nel Museo di S. Martino,
E possiamo aggiungere che a que' tempi si chiamava impropriamente
"reveglino" lo spazio compreso tra il maschio e la falsabraca;
infatti nel processo vedremo parlarsi di uno scritto buttato giù
dalla "cancella... al reveglino tra le due porte, che risponde ala
finestra dela carcere del Campanella", in un momento in cui egli
veniva sorpreso da una visita del luogotenente del Castello in
cerca di scritti. Le cinque torri Angioine poi si chiamavano, la
prima sul mare, ad oriente, Bibirella, nome improntato certamente
da quella porzione di mare che essa guarda e che ancor oggi dicesi
dal volgo beveriello, l'altra egualmente sul mare, ad occidente,
Talassia, vale a dire marina, dal nome greco corrispondente; le
due laterali alla porta maggiore verso terra, costeggianti il
magnifico Arco d'Alfonso, si chiamavano torri della porta;
l'ultima, ad oriente, sì chiamava dell'Incoronata, del Governatore
o del Castellano, perché vi abitava appunto il Castellano.
Siffatti nomi non s'incontrano nel processo, ma nelle scritture ed
anche ne' libri del tempo (basti citare il Capaccio), ed importa
conoscerli per potersi intendere: nel processo s'incontra
solamente più volte citata "la loggetta delle carceri... il piano
della loggetta... l'arco e il corridoio della loggetta", dove
potevano in alcune ore i carcerati minori salire e passeggiare, ed
inoltre citato, il "torrione" da cui il Campanella dava i suoi
Sonetti a Maurizio "calandoli con uno filacciolo", "il torrione"
da cui il Campanella, mostratosi pazzo, predicava la crociata al
"populo che andava a vedere ad impiccar uno", il quale spettacolo
si conosce che eccezionalmente si dava nella piazza del Castello,
mentre ordinariamente si dava nella piazza del Mercato. E vedremo
da' Registri de' Bianchi di giustizia risultare, che l'esecuzione
di Cesare Pisano fu fatta fare "vicino la Guardiola del Castello"
(presso a poco dove fino a' giorni nostri è stata la posta delle
lettere), e quella di Maurizio innanzi la "Chiesa di Monserrato"
(che sta quasi dirimpetto) vale a dire all'ingresso dell'attuale
Strada di Porto, che allora dicevasi Piazza dell'Olmo, vale a dire
di prospetto alla torre del Castellano, senza dubbio per metterle
sotto gli occhi del Campanella e de' suoi calabresi. Da tutto ciò
può desumersi con bastante certezza che il Campanella sia stato
rinchiuso nella torre del Castellano, sotto gli appartamenti di D.
Alonso de Mondezza, e che le carceri occupavano i piani inferiori
di questa torre e i bastioni vicini, tanto verso la torre
Bibirella, quanto verso la torre corrispondente della porta,
trovandosi appunto sulla sommità di questi bastioni la loggetta
del Castello. La massa de' calabresi era mista con altri là
detenuti, per imputazione o per condanna, sia in nome del potere
civile sia in nome del potere ecclesiastico, e ne vedremo figurare
parecchi nel corso di questa narrazione: occupavano molti il
carcere così detto "del civile", occupavano altri il carcere
criminale che stava più in alto e componevasi di camere più
piccole, dove erano rinchiusi uno, due e fin quattro individui,
secondo l'importanza di essi, disponendo per solito di un sol
letto ogni coppia e venendo spesso tramutati da una camera
nell'altra. I miserabili ricevevano un carlino al giorno (circa 40
centesimi), e sappiamo che così vivevano moltissimi, tra gli altri
il padre del Campanella, il Tirotta, gli stessi frati, come fra
Paolo della Grotteria, fra Pietro di Stilo, il Petrolo, il
Bitonto, e senza dubbio anche il Campanella, dopochè fra Cornelio
si aveva appropriato il danaro raccolto in Calabria per loro.
Mercè qualche inserviente, e sopratutto qualche parente venuto di
Calabria per assisterli, i carcerati potevano provvedersi delle
cose necessarie al vitto, che erano soggette a visita quando
s'introducevano nel Castello; e così sappiamo che un giovanetto
Aquilio Marrapodi figlio di Gio. Angelo, oltre il padre, serviva i
Ponzii, il Petrolo, il Lauriana e il Pizzoni, comprando "per
questi monaci foglie, fave, carcioffi, radici et altre cose da
mangiare"(26); potremmo perfino dare qualche lista della magra
spesa quotidiana che si faceva anche per taluni de' carcerati del
Castello dell'uovo, essendo notata sul rovescio di alcune carte
sequestrate al Gagliardo ed allegate nel processo(27).
Naturalmente i carcerati non mancavano di profittare di questo
mezzo e di qualche altro ancora per mandarsi cartoline e
biglietti, ciò che per altro era proibito; ma solamente più tardi
dando pochi soldi a uno de' due carcerieri Alonso Martines ed
Onofrio, nominati anche nella Narrazione del Campanella,
riuscirono ad avere diverse concessioni che a tempo proprio
vedremo. Gli ecclesiastici, servendosi, principalmente di motti
latini, poterono con tanto maggiore facilità mettersi in qualche
relazione tra loro dalle finestre: poichè sappiamo con certezza
essere stati perfino i più compromessi, dal primo momento, posti
nelle "segrete", ossia in camere capaci di una sola persona e
tenute strettamente chiuse, non già nelle così dette "fosse"; in
queste furono posti al tempo de' loro esami, quando i Giudici
solevano darne l'ordine per indurli a confessare. Le fosse si
trovavano a piede del torrione del Castello, e ricevevano luce da
aperture che corrispondevano alla parete dell'antico fossato, il
quale circondava il Castello e in origine poteva anche ricevere
acqua dal mare; del resto non ne mancavano di quelle affatto
oscure, e rinomata fra tutte era la fossa del miglio o del
coccodrillo, nota fin dal tempo degli Aragonesi, nella quale il
Campanella narrò di essere stato posto prima del tormento. Alcuni
lavori fatti durante la prima metà di questo secolo, ad occasione
dell'ampliamento della fonderia di cannoni là eretta, posero in
mostra queste fosse con lagrimevoli iscrizioni ed anche con
qualche residuo di scheletro, la qual cosa ribadisce che il
torrione delle carceri, dimora del Campanella, sia stato quello
che abbiamo indicato(28). Si aveano dunque, da sotto in sopra, le
fosse, la carcere del civile a pian terreno, le carceri criminali
che occupavano i due piani superiori: e sappiamo che nel primo
periodo della prigionia il Campanella trovavasi in una carcere
criminale del piano più elevato, e Maurizio in un'altra del piano
più basso immediatamente sottoposta alla prima, sicchè poterono
talvolta scambiarsi qualche parola, e perfino, mediante un filo,
trasmettersi qualche carta(29). Ogni lettore umano, passando in
vista del Castel nuovo, vorrà, speriamo, rivolgere uno sguardo a
quel torrione, con un pio ricordo de' generosi, che tanto vi
patirono senza che l'opera loro sia stata nemmeno riconosciuta.
A due cose attese il Campanella assiduamente fin da' primi tempi
della sua prigionia in Napoli, sollecitare la ritrattazione da
coloro i quali aveano rivelato, dare animo a coloro i quali si
erano mantenuti negativi o in qualunque modo gli si mostravano
tuttora amici. Come già in Calabria, così in Napoli, egli rivolse
le sollecitazioni particolarmente al Pizzoni e al Petrolo; non
occorse che sollecitasse il Lauriana, perché anzi costui in Gerace
gli avea scritta egli medesimo una lettera, nella quale, gli
comunicava l'esame di Monteleone, gli prometteva con giuramento
che si sarebbe ritrattato, e finiva per dimandargli il modo di
potersi ritrattare. né stentiamo a credere che talvolta le
sollecitazioni del Campanella non sieno state espresse in forma di
preghiere, onde i sollecitati poterono dire di avere avuto da lui
"minacce"; se non che i pochi documenti che ne sono rimasti non lo
confermano, e d'altronde vi furono tanti motivi di asserire e di
smentire a vicenda queste cose, da non poterne facilmente assodare
la verità. Al Petrolo, come dicemmo a tempo e luogo, avea fatte
alcune sollecitazioni per via, tra Squillace e Gerace,
direttamente; altre glie ne potè fare mediante Cesare Pisano in
Monteleone, e poi ancora altre in Napoli ne fece di persona dalla
finestra. Così gli avrebbe detto che bisognava ritrattarsi o
altrimenti capiterebbe male, che era caduto in irregolarità avendo
deposto in causa capitale contro particolari etc.; ma vedremo
ulteriormente, che quando si pose a scrivere Poesie gli scrisse
anche un Sonetto al medesimo scopo, ed in esso non si leggono
minacce bensì le maggiori lusinghe. Al Pizzoni poi avea pure fatte
sollecitazioni mediante fra Pietro Ponzio in Gerace, ed altre glie
ne fece in Napoli per lo stesso mezzo, giacchè vedremo con
certezza aver lui potuto parlare con fra Pietro dalla finestra; ma
poi gli riuscì di mettersi in comunicazione diretta col Pizzoni
mediante lo scambio di un Breviario, e ciò che se ne disse in
sèguito mostra che nemmeno vi furono minacce; ecco pertanto come
il fatto venne riferito(30). Si trovavano ciascuno in una segreta.
Il Campanella dimandò al carceriere Alonso Martines un Breviario,
e il carceriere gli portò quello del Pizzoni. Nel Breviario "fra
Gio. Battista pose molti signacoli di carta larghi, fatti à posta
di certi modelli di musica rigati con le note, et d'una lettera
nella quale si vedea che li fosse stato dato avviso, che la Causa
era già stata rimessa al sig.r Nuntio et à Don Pietro di Vera, et
in detti signaculi scriveva ch'esso fra Gio. Battista havea detto
à frà Silvestro che insieme seco deponesse cose di santo officio
per scampar quella gran furia, perche in quel muodo la Corte
secolare à viva forza l'harebbe punito per l'heresie, e
Ribellione, il che non harebbe fatto per la sola ribellione, ma di
fatto l'harebbe appiccati, già che quelli di Catanzaro, che la
revelorno, dissero, ch'il Papa la favoriva" etc. Dimandava anche
il Pizzoni, in quelle cartoline, chi fosse stato quel frate che,
secondo la cronaca di S. Domenico, ebbe dalla B.ta Vergine la
rivelazione che mai monaco di S. Domenico sarebbe stato eretico,
se molto tempo innanzi non avesse deposto l'abito, e diceva di
confidare che avrebbe potuto facilmente ritrattarsi, e ricordava
diverse autorità, come il Cipolla Veronese, che permetteva dir
cose di eresia a' condannati a morte per essere protetti dal S.to
Officio, e S. Girolamo che concedeva il mendacio ad evadendam
mortem. E il Campanella, conservando presso di sè alcune cartoline
più importanti, scrisse sulle altre "che havea fatto molto bene,
et che frà Domenico petrolo à sua persuasione havea seguitato
l'esempio d'esso frà Gio. battista, con l'istesso intento di
ritrattarsi, et che quel frate della revelatione ut supra fù
Reginaldo si ben si ricordava etc., et li diede esso Campanella
molte altre authoritati per tal difesa". Ma passato e ripassato
tra loro questo Breviario, ed esaurite le cartoline, cominciarono
a scrivere sul Breviario medesimo, ove poteasi vedere di mano del
Campanella scritto "bene et fideliter... ut lacrimas emiserim prae
laetitia", ed inoltre "Micheas propter timorem mortis prophetavit
falsum, et adiuratus se se retractavit, 3.° Reg. 24". E il
Campanella si diè anche premura di far sapere queste cose a fra
Dionisio che stava in un'altra segreta; ed avendogli mandata
scritta "dentro un pasticcio una cartella di simili andamenti,
entrati in sospetto li carcerieri, aprirono il pasticcio, et
trovata la cartella quella presentarono al Vice Rè, come anco per
veder così scritto et scacacciato il Breviario, quello anco
presentorono al medesimo Vice Rè, et si disse, che furono da lui
rimandate al fiscale". Siffatte cose, verificatesi durante un
certo periodo di tempo, furono poi riferite da fra Dionisio; e
potrebb' essere che vi sia stata qualche esagerazione da parte del
relatore, ma bisogna convenire che nulla vi s'incontra
d'inverosimile, salva sempre la quistione della serietà delle cose
che si comunicavano i due scrittori nelle cartoline e nel
Breviario. Poichè all'uno ed all'altro, sotto tutti gli aspetti,
conveniva scrivere in quel senso; ma si può dubitare che
esprimesse la verità il Pizzoni, il quale infatti non fece di poi
nulla di ciò che scrisse, e si deve dubitare che esprimesse la
verità il Campanella, il quale, mentre dicevasi allietato fino
alle lagrime, ad ogni buon fine metteva in tasca qualcuna delle
cartoline scritte dal Pizzoni, che egli oramai avea potuto
ravvisare "bilingue". Vedremo infatti che al momento in cui il
Campanella fu spogliato per essere sottoposto alla tortura, gli fu
trovata una delle dette cartoline, ed anche un sunto dell'esame
del Lauriana certamente scrittogli da costui, il quale soltanto
può dirsi avere agito in buona fede, ma sotto l'impero di una
stringente necessità; poichè evidentemente, spinto dal Pizzoni, si
era posto in un brutto garbuglio, da cui non sapeva in qual modo
districarsi, e temeva molto che ritrattandosi sarebbe capitato
male. - Dobbiamo aggiungere che pure con Maurizio il Campanella si
mantenne in relazione, e, a quanto sembra, dalla finestra,
verbalmente, profittando del trovarsi le rispettive carceri l'una
sopra l'altra; ma non dovè di certo sollecitarne la ritrattazione,
ed invece si dovè forse scusare presso di lui. Come si seppe in
sèguito, continuò a dirgli qualche particolare sugli uomini e
sulle cose della ribellione disegnata e tanto acerbamente
prevenuta: ma una volta Maurizio, abbandonata ogni illusione, gli
disse che in que' travagli loro "era tempo di riconoscere Iddio, e
che stava scandalizzato di quella parola che havea detto in Stilo,
che Giesu christo era un'huomo da bene", immaginandosi esser lui
"in opinione che christo non fusse vero figliolo di Dio"; e il
Campanella gli rispose che lui, Maurizio, "non intendeva bene li
negotii" né si curò di fornirgli spiegazioni.
D'altra parte, dicevamo, il Campanella attese a dare animo agli
amici: questo fece componendo Poesie, siccome troviamo ricordato
dal Syntagma, dove per altro se ne parla con una completa
confusione di tempi. Per fortuna, la raccolta che noi
pubblichiamo, essendo stata fatta in un periodo ben determinato e
relativamente breve, ci mette in grado di potere fino ad un certo
punto assegnare alle diverse poesie la propria data, oltrechè ci
fornisce precisamente quelle composte fin da principio e con lo
scopo di rinforzare l'animo degli amici, rimaste poi naturalmente
inedite perché compromettenti. Ma è facile intendere che
pochissime potrebbero riferirsi ad un periodo anteriore al
cominciamento de' processi, perocchè a questi si pose mano con
sollecitudine, e il maggior numero si collega con le vicende del
processo della congiura così de' laici come degli ecclesiastici;
laonde, per non scindere di troppo l'esposizione di queste poesie,
gioverà dapprima narrare ciò che sappiamo del processo della
congiura, e in sèguito ricercare le poesie da doversi dire
composte nel periodo in cui il detto processo fu istituito e
svolto.
II. Veniamo dunque al processo della congiura pe' laici(31).
Dicemmo che la commissione Vicereale fu data il 15 novembre a
Marco Antonio d'Aponte e a D. Giovanni Sanchez o Sances, con
l'ordine di riconoscere le informazioni e gli atti di Calabria,
procedere sommariamente sine strepitu et forma Judicii, e non
ritardare la buona e breve amministrazione della giustizia,
servendosi di Giuliano Canale per Mastrodatti. Vedemmo pure avere
il Vicerè provveduto che lo Xarava aiutasse il Sances, e scritto a
Madrid, il 30 novembre, che si andava già procedendo contro i
laici, e il 13 dicembre, che si sarebbe cominciato a far giustizia
di alcuni. Gli ordini del Vicerè furono eseguiti puntualmente, ed
è chiaro che non si perdè tempo; solo dobbiamo notare che a
Giuliano Canale venne sostituito Marcello Barrese, il quale servì
da Mastrodatti egualmente nella causa della congiura per gli
ecclesiastici, e di tale sostituzione ci rimane tuttora ignoto il
motivo.
Secondo il costume del tempo, si procedeva separatamente e
successivamente per un determinato individuo o per un determinato
gruppo d'individui, e si sentenziava a misura che si compivano gli
atti ad essi relativi: così vi furono condanne ed esecuzioni in
Calabria, e poi in Napoli, ed analogamente vi furono altre
condanne od invece assoluzioni di tempo in tempo. Trovandosi due
già condannati a morte in Calabria, Maurizio de Rinaldis e Cesare
Pisano, sopra di essi appunto cominciò a svolgersi l'opera del
tribunale, certamente per averne, se fosse stato possibile,
rivelazioni in danno anche degli altri, al quale scopo si era
giudicato meglio tenerli ancora in vita; con gli atti relativi a
costoro ebbe ad iniziarsi il 3.° volume del processo, al sèguito
di quelli compiuti in Calabria. Maurizio non avea confessato nulla
malgrado gli orribili tormenti avuti; ricominciarono per lui in
Napoli gli esami e ricominciarono i tormenti non meno crudeli. Il
Campanella medesimo cantò che Maurizio il primo avea vinto i
tormenti antichi e sprezzato i nuovi, che avea sofferto tormenti
inusitati per trecento ore(32). È facile qui vedere una
esagerazione poetica, ma, come abbiamo già avuta occasione di dire
altrove, Mons.r Mandina, il quale fu più tardi Giudice dell'eresia
e potè saperlo in modo autentico, affermò che era stato tormentato
per settanta ore, alludendo con ogni probabilità a' soli tormenti
avuti in Napoli. Per quanto possiamo giudicarne, egli dovè
soffrire due volte, a breve intervallo, il tormento della veglia,
ne' modi e forme che vedremo con tutti i loro particolari in
persona del Campanella, il quale lo soffrì in sèguito, per una
volta sola, nella causa dell'eresia. Comunque il tormento della
veglia dovesse durare quaranta ore, pe' modi enormemente aspri con
cui si amministrava sopratutto in Roma e in Napoli, quasi mai si
giungeva a siffatto termine, senza che il paziente cadesse in tale
prostrazione da far cessare la prova innanzi tempo, tanto più che
il Giudice era tenuto a rispondere della morte di lui se avesse
soccombuto nel tormento; e la prostrazione, quando gl'individui
erano di buona tempra, ordinariamente si verificava fra le trenta
e le trentacinque ore, ed ecco le settanta ore di tormento
affermate dal Mandina. né rappresenta una difficoltà il leggersi
"tormenti inusitati", poichè appunto tra questi era annoverata la
veglia, e vi si ricorreva soltanto per casi straordinarii, mentre
poi d'altra parte i Giudici di professione, a differenza de'
"Capitani a guerra", doveano pure contenersi in quelle categorie
di tormenti, che erano ammesse da' Giuristi e dalle consuetudini
di ciascun paese(33). Ad ogni modo le prove furono terribili,
eppure vennero nobilmente superate da Maurizio: il fortissimo uomo
non fece la menoma rivelazione, soffocando qualunque rancore,
mentre già conosceva di essere stato nominato fin troppo nella
Dichiarazione del Campanella! Ma durante i tormenti venne senza
dubbio fatta la protesta che lo s'interrogava "citra prejudicium
probatorum"; e poi, benchè non confesso, era pur sempre convinto,
e gli si potè confermare la sentenza di morte, condannandolo ad
essere appiccato e squartato certamente con la formola del tempo,
"suspendatur in furcis adeo quod anima a corpore segregetur,
eiusque cadaver in quatuor frustra dividatur". È superfluo poi
dire che la sua casa doveva essere demolita ed aspersa di sale, e
i suoi beni dovevano essere confiscati: "domus propria diruatur
funditus, et solo aequata, in ea sale asperso, destruatur; singula
eius bona publicentur, et fisci commodis applicentur". Vi fu
dunque la conferma della sentenza di morte già pubblicata in
Calabria, e non poteva essere altrimenti; deve dirsi inoltre che
vi fu una mitigazione nella specie del supplizio, in paragone di
quello tanto spaventoso sentenziato dallo Spinelli forse a
proposta dello Xarava, ed anche da questo lato non poteva essere
altrimenti, perocchè il tribunale non era come il precedente "ad
modum belli". Dopo ciò è facile giudicare quanto il Campanella
scrisse molto più tardi, nella sua Narrazione, circa l'influenza
che avrebbe avuta nella condanna di Maurizio l'amicizia e la
parentela del Sances col Morano, il quale desiderava la morte di
Maurizio per ereditarne un feudo e stringere una nuova parentela
col Sances mediante un matrimonio. Con un po' di confusione di
tempo e di circostanze, mostrato già in corso e bene avviato il
processo degli ecclesiastici che invece non era cominciato ancora,
il Campanella scrisse: "Sendo stato fatto fiscale in luoco di
Xarava D. Gio. Sances, la cui sorella havea per marito il Baron di
Gagliato, fratel di Giovan Geronimo Morano, il cui figlio per
dispensa venuta del Papa stava per pigliar la figlia unica del
Barone, nepote del Sances, e perché detto Morano havea scorso il
regno e preso Mauritio e F. Dionisio carcerati con molto vantaggio
e sperava dal Rè un Marchesato, come si vantava publicamente, e di
più desiderava la morte di Mauritio, perché morendo senza herede
mascolo(34) esso Mauritio, il Morano hereditava di quello un
feudo, come poi l'hereditò. Per questo il Sances oltra le sue
pretendenze et amicitia delli processanti non cercò s'era vera la
ribellione ma si sforzò verificarla, e far morir Mauritio". La
parentela del Sances col Morano è fuori contestazione, ma è un
fatto che il Sances non poteva non trovar vera la ribellione, e
che Maurizio non poteva in alcun modo scansare la morte, come
nemmeno la scansò quando più tardi fece sotto il patibolo una
spontanea confessione di ogni cosa. E dobbiamo aggiungere che alla
mano della figlia unica del Barone di Gagliato, D.a Camilla
Morano, a quel tempo di soli dodici anni, aspirava il cugino del
Fiscale, un altro D. Giovanni Sances, figlio di D. Giulio, che
difatti la sposò più tardi, nel novembre 1605, avendone in dote la
terra di Gagliato e il rinomato feudo di Burgorusso in tenimento
di Stilo, e fu lui che divenne poi Marchese di Gagliato. Non
sarebbe veramente difficile che vi avesse aspirato anche il figlio
di Gio. Geronimo Morano, giacchè abbiamo nel Grande Archivio
documenti i quali mostrano la gran cura del Governo nel far tenere
D.a Camilla in Monastero, secondo i principii dell'ingerenza
governativa ne' matrimonii de' nobili a' tempi feudali(35). Ma è
evidente che in un simile conflitto di rivali non avrebbe potuto
esservi nemmeno amicizia tra il Sances e Gio. Geronimo. Vedremo
poi come finirono i beni di Maurizio, il quale forse potè essere
semplicemente subfeudatario di una parte di Borgorusso, mentre le
ricerche più ostinate su tale punto non ci hanno fatto sinora
scovrire alcun feudo speciale di quella regione da lui posseduto.
Nella detta ipotesi la morte di Maurizio nemmeno avrebbe
profittato a Gio. Geronimo, ma a D.a Camilla; ad ogni modo quanto
era già avvenuto, anche prima che la causa si agitasse in Napoli,
mostra nel modo più chiaro che il Sances non poteva che dimandare
ed ottenere la condanna di morte per Maurizio(36).
Intorno a Cesare Pisano, che il Nunzio aveva nella sua lista qual
clerico, e il Governo riteneva doversi continuare a trattare qual
laico, non sappiamo come si sia veramente proceduto nel tribunale
di Napoli: sappiamo solo ciò che ne disse il Nunzio quando venne a
conoscere l'esito del giudizio, scrivendone una lettera di
lagnanza al Vicerè, nella quale lo avvertiva aver inteso che
contro del Pisano "si procede con tanto rigore per il capo della
ribellione, che senza ammettergli ne anche la probanza del
Clericato è stato condannato à morte". Forse il tribunale stimò
che avesse confessato abbastanza, e che invece di far nascere la
quistione giurisdizionale col rumore di nuovi esami e nuovi
tormenti, fosse preferibile dare un saggio di vigore confermando
la condanna ed eseguendola senza curarsi d'altro. Lo argomentiamo
dal conoscere la prolissa maniera di rispondere, che il Pisano era
solito di usare ne' suoi interrogatorii, onde non sarebbe mancata
poi la citazione di qualche notizia tratta da un nuovo
interrogatorio, laddove questo ci fosse stato.
La condanna di Maurizio, e così pure quella analoga del Pisano,
doverono pronunziarsi o almeno decidersi nel Consiglio Collaterale
il 10 o 12 dicembre, poichè il 13 già si trasmetteva a Madrid la
notizia di prossime esecuzioni. Difatti pel giorno 20 si allestiva
certamente l'esecuzione di Maurizio, e molto probabilmente anche
quella del Pisano, onde il Nunzio nel giorno 19 potè conoscere che
costui era stato condannato a morte, e potè scriverne in fretta al
Vicerè, facendogli notare, che non solo come clerico il Pisano
avrebbe dovuto essere giudicato pure da lui "secondo
l'appuntamento fatto con S. S.tà", ma anche come molto informato
dell'eresie suscitate dal Campanella, "e forse della medesima
setta", dovea essere riserbato; "non per campargli la vita, egli
scriveva, se merita perderla per il capo della ribellione, ma per
riscontro et castigo di quel che appartenesse al S.to Officio",
supplicandolo di "non permettere che la causa della ribellione
humana si solleciti tanto che pregiudichi à quella della
ribellione divina, perché si sarà in tempo di castigar l'una et
l'altra"(37). Il Vicerè sospese allora la faccenda in quanto al
Pisano, per farla sopire e darle poi corso più tardi a modo suo,
di sorpresa. Rispose al Nunzio in termini generali, che in tutto
ciò che si poteva servirlo, stesse certo, che lo si farebbe, e
sarebbero liberati coloro che non paressero colpevoli in delitti
così gravi, etc.(38); non prese quindi alcuno impegno determinato,
ed egualmente fece allorchè più tardi il Nunzio glie ne parlò,
dimostrandogli che bisognava sempre mantener vivo il Pisano per
riscontro delle cose del S.to Officio, anche quando i suoi
Ministri non lo ritenessero clerico, come non lo ritenevano perché
non avea nemmeno indossato l'abito clericale "non ostante che
mostrasse di haver preso gli anni passati gli ordini minori"(39).
Il Vicerè non lasciò intendere la sua opinione, e frattanto, con
molta unzione, si diè premura d'intercedere a Roma, perché fosse
assoluto il Principe di Scilla, già scomunicato per l'affare di
Marco Antonio Capito dal Vescovo di Mileto.
Ma in quanto a Maurizio, il 20 dicembre si andò per l'esecuzione;
se non che una circostanza affatto impreveduta la fece poi
sospendere per quel giorno. Massime il relativo documento da noi
trovato nell'Archivio de' Bianchi di giustizia, ed inoltre una
lettera del Residente Veneto, ce ne dànno sufficienti particolari.
Giusta la consuetudine, il condannato doveva uscire dalle carceri
della Vicaria, ed a spettacolo pubblico traversare una gran parte
della città, percorrendo la via oggi detta de' Tribunali,
scendendo pel vico Nilo (che perciò dicevasi "degl'Impisi" e fino
a' giorni nostri fu detto "Bisi"), per dirigersi di là alla piazza
del Mercato, ovvero scendendo per la via di Toledo e girando
presso Palazzo (e ben s'intende che qui si parla del Palazzo
vecchio), per dirigersi alle adiacenze di Castel nuovo. Maurizio
fu egli pure tradotto dapprima alla Vicaria, e poi di là, sopra un
carro, certamente perché inabilitato a muoversi dietro le torture
sofferte, facendo il lungo giro sopraindicato fu tradotto "a vista
del Castel novo"; ma giunto sotto la forca egli dichiarò di voler
rivelare ogni cosa, ed allora l'esecuzione fu sospesa. Ecco come
il fatto trovasi esposto nel Registro de' Bianchi di giustizia:
"et à di XX di xbre se andò in Vicaria con tutta la compagnia, et
uscì la giustitia sopra un carro, et essendo già sotto la forca se
risolse detto Mauritio confessare et rivelare li complici della
ribellione, et così non si eseguì la giustitia et ritornò in
Vicaria con essersi trattenuta la compagnia un pezzo dentro la
chiesa di Monserrato"(40). Come mai Maurizio fece questa
risoluzione? Egli stesso nelle sue ultime rivelazioni a' Delegati
del S.to Officio, sul punto di essere definitivamente condotto
alla forca, lo spiegò in questi termini: "Io sapendo che frà
Thomaso si era esaminato contra di me, havendo io avuto più volte
la corda, non hò voluto mai dire cosa alcuna contra di essi frati,
è si bene poi hò ditto la verità, è stato perche sono stato
consigliato che era obligato a dirlo per scarico dela mia
conscientia, si come me hà ditto lo mio confessore dela Compagnia
di quelli che confortano quelli che si vanno à giustitiare"(41).
Non altrimenti ne scrisse pure a Roma il Nunzio medesimo quando
era già cominciata la causa degli ecclesiastici, ed egli, come
Giudice di quella causa, poteva e doveva saperlo: "condotto alle
forche si risolvette à dire spontaneamente, et per scarico di
conscienza, tutto quello che sempre haveva negato nei
tormenti"(42). Inoltre, poco dopo l'accaduto, come vedremo più
sotto, il Residente Veneto ne fece relazione al suo Governo negli
stessi sensi, aggiungendo qualche altra circostanza degna di nota.
Ma il Campanella, dapprima nella sua Difesa che noi pubblichiamo,
poi nelle Lettere del 1606-07 pubblicate dal Centofanti, da ultimo
nella sua Narrazione pubblicate dal Capialbi, riferì le cose assai
diversamente, con circostanze che meritano di essere ben chiarite,
poichè ognuno comprende l'estrema importanza del fatto, da cui,
secondo la diversa interpetrazione(43), riesce suggellata o invece
scossa profondamente l'esistenza della congiura o almeno la parte
presavi dal Campanella. Dapprima dunque nella Difesa asserì che
Maurizio "volle vendicarsi di quanto fra Tommaso scrisse in
Castelvetere contro di lui", e che "ebbe speranza di redimersi
all'ultimo momento col far dichiarazioni contro fra Tommaso,
poichè così lo persuase un certo fiscale in abito di confrate
promettendogli la vita sotto parola del Re come poi fra Tommaso
udì dalla bocca di lui" (queste ultime proposizioni furono
aggiunte per uso de' Giudici propriamente dell'eresia). Nelle
Lettere al Papa, al Card.l Farnese, al Card.l S. Giorgio, al Re di
Spagna, rinforzò le assertive anteriori scrivendo, che "sotto
verbo Regio fecero confessar a Mauritio mille bugie", che Maurizio
"per altra causa morendo sulle forche persuaso dal falso fiscale e
confessore tornò in prigione e disse mirabilia et non
subsistentia", che gli "fu promessa la vita sub verbo regio che
dicesse su la forca quel ch'in mille tormenti negato havea", che
"fu ingannato sotto parola della vita dopo molti tormenti quando
andava a morire e disse mille bugie"(44). Infine nella Narrazione,
scritta tanto più tardi, espose i fatti con tanto maggiore
disinvoltura in questi termini. "Però vedendo esso Sances, che non
si potea verificare la ribellione, perché Mauritio con torture
terribilissime in Calabria non havea confessato con tutto che
Xarava lo torturò un'altra volta dopo condannato e confessato,
dicendoli ch'il confessore era un secolare vestito di monaco per
spiarlo: né pur in Napoli poi confessò tormentato di novo: si
vestir di confrati bianchi certi Consiglieri, fingendo che volean
farlo morire: et esso Sances con un Gesuino confessor del Vicerè,
li promisero la vita in verbo regio, se confessava la ribellione
sopra la forca, perché havesse color di verità. E Mauritio temendo
morir de mandato regio perché havea ucciso un suo cugino et una
femina, et andato sopra le galere turche per scampar la vita
confessò sopra la forca quando andò fintamente ad appiccarsi". Pur
troppo questo garbuglio del Campanella è de' più dolorosi, e si
può intendere ma non si può assolvere che egli abbia dovuto
infamare Maurizio in tal modo. La condanna di Maurizio alla morte,
come convinto di ribellione, era stata pronunziata già una volta
in Calabria, e principalmente per colpa del Campanella medesimo;
né bisognava affaticarsi perché la ribellione acquistasse "color
di verità", quando il Campanella l'aveva così bene affermata nella
sua Dichiarazione dando anche la spiegazione precisa dell'andata
di Maurizio sulle galere turche, e già ad otto persone era stato
inflitto l'estremo supplizio per essa. Il confondere gli omicidii
anteriori di Maurizio col suo caso ultimo, il voler far credere
che avrebbe potuto scampar la vita confessando quella ribellione
per la quale era condotto alla forca, l'asserire che "andò
fintamente ad appiccarsi" quasi che non vi fosse stata una
precedente condanna in tal senso, tutto ciò è ben poco serio; ed
egualmente è ben poco serio, o meglio iniquo, il voler mostrare
Maurizio divenuto vigliacco a un tratto, dopo le splendide prove
di fermezza da lui date, dopo gli splendidi attestati del
Campanella medesimo espressi già nella Dichiarazione e in sèguito
nelle Poesie. Può bene ammettersi nel Sances e nel Gesuita
confessore del Vicerè (P.e Ferrante de Mendozza) ogni specie di
tentativo per indurre Maurizio a confessare la ribellione, ma non
in Maurizio tanta dose d'ingenuità da cedere segnatamente a quella
specie di promessa che il Campanella si fece a narrare. Quanto poi
all'esservi stati Consiglieri vestiti da confrati bianchi, i quali
esercitarono la loro influenza su Maurizio per farlo confessare,
la cosa potrebbe ritenersi nel senso, che qualche confrate addetto
a confortare Maurizio allorchè andava a giustiziarsi, per eccesso
di zelo, abbia avuto premura di suscitarne gli scrupoli e
mostrargli la necessità di confessare per salvarsi l'anima. Si
potrebbe ritenerlo in astratto, poichè, come ricordano i nostri
Storici ed attestano varii documenti, non una volta a quella
benemerita Compagnia de' Bianchi furono mosse accuse di questo
genere ed anche di genere opposto, da' particolari ovvero dal
Governo, essendovi stato motivo di ritenere che i confrati
avessero spinto qualche condannato alle confessioni ovvero alle
discolpe; ma dobbiamo pure soggiungere che nel caso concreto
Maurizio medesimo ebbe più tardi a dichiararlo a' Delegati del
S.to Officio; se non che sarebbe difficile sostenere essere stato
spinto alla confessione dolosamente e dietro manovre del Sances e
del Governo. Per disgrazia questa volta non abbiamo nemmeno i nomi
de' confrati intervenuti, che i Registri della Compagnia dànno
sempre, specificando anche coloro i quali hanno assistito il
condannato all'ufficio, per la strada, alla porta, alla scala o al
talamo secondo le specie del supplizio: essendo mancata
l'esecuzione, non vi fu un annotamento apposito, ma vi fu la
seconda volta, quando l'esecuzione si compì, e non sarebbe troppo
arrischiato l'ammettere che pure la prima volta fossero
intervenuti i confrati medesimi. Laddove questa ipotesi dovesse
ammettersi, potremmo dire certamente non essere intervenuti
Consiglieri né Fiscali, essere stati i due principali
confortatori, che maggiormente avrebbero avuto ad influire, il P.e
Palescandolo governatore della Compagnia il quale avrebbe
assistito Maurizio lungo la strada, e D. Scipione Stinca
egualmente sacerdote oltrechè dottore (ed avremo a vederlo più
tardi difensore officioso della maggior parte de' frati nella
causa dell'eresia), il quale avrebbe assistito Maurizio alla
scala, dove appunto egli dichiarò voler fare le sue rivelazioni:
vi fossero poi stati anche Consiglieri e Fiscali, si sa che la
Compagnia ne annoverava molti, insieme co' più distinti personaggi
del paese(45). Ad ogni modo può dirsi certo che Maurizio non fu
indotto a confessare da alcuna ragione vituperosa, bensì da una
ragione che può non essere stimata giusta, ma non può non essere
rispettata, tanto più che trovasi in tutto conforme a' precedenti
di lui. Da niuno fu detto mai, in quel tempo, che avesse
confessato per vigliaccheria o per capitolazione, e fortunatamente
abbiamo la relazione del Residente Veneto, la quale ci fa
conoscere assai bene i desiderii e le condizioni che Maurizio
espresse dopo la condanna e al momento dell'esecuzione; è
superfluo dire che vi si può credere senza riserve, non
trattandosi di fatti avvenuti fuori Napoli ovvero in segreto, pe'
quali soltanto riesce difficile aspettarsi l'esattezza dal
Residente, come s'incontra in realtà anche questa volta per talune
circostanze che leggonsi in fine del suo dispaccio, Ecco(46)
questo dispaccio, che porta la data del 28 dicembre, e che, unito
alle affermazioni del Nunzio sopra citate, ci pare che venga a
togliere ogni dubbio sul fatto in quistione. "Quel Mauritio
Rinaldi famoso per essere stato capo della congiura et non meno
perché ogniuno sapeva, che dal signor Carlo Spinelli era stato
condannato di esser segato vivo tra due tavole, condotto di ordine
del Vicerè a' 23 del presente a vista del Castelnovo per dover
essere impiccato, et poi squartato, non havendogli giovato di
offerire sei mille ducati più di alcuni suoi beni liberi
confiscati, per ottenere che per non derogar al suo nascimento di
nobiltà gli fosse solamente tagliata la testa, giunto al luogo del
supplicio, tutto converso a Dio, disse, che havendo in questa sua
prigiona sofferto in tre mesi quaranta hore di corda, et altri
tormenti per i quali si trovava tutto attratto et quasi morto
senza haver mai confessato alcuna cosa, haveva à bastanza
comprobato che egli per viltà non consentiva di mancar di fede a'
suoi collegati, ma che allhora, essendo all'ultimo cimento
dell'anima, per non seppelirla nell'Inferno voleva scoprir tutte
le cose trattate senza niuna conditione di salvarsi la vita. Fu
però per ordine di Sua Eccellenza trapposto più tempo alla sua
morte, et hà egli manifestate cose maggiori che non si sapevano,
et nominato persone di qualità per infette della heresia et della
rebellione, onde, non ostante gli ordini di Spagna che furono che
si procurasse di poner in silentio quanto prima questa materia,
incominciano pur hora i processi et le retentioni"(47).
Ripigliamo il racconto particolareggiato di quanto accadde,
dopochè Maurizio manifestò la risoluzione di voler confessare ogni
cosa. L'esecuzione fu sospesa ed egli venne ricondotto nelle
carceri della Vicaria, come ci fa conoscere il documento esistente
nell'Archivio de' Bianchi. né confessò sotto la forca, come
risulterebbe dalla dicitura poco precisa della Narrazione del
Campanella ed anche di qualcuno de' documenti per gli
ecclesiastici conservati in Firenze, ma confessò per lo meno il
giorno dopo nel tribunale. Questo si argomenta da una lettera del
Vicerè, il quale trasmise subito a Madrid, il giorno 21, la
risoluzione presa da Maurizio, ma solamente più tardi potè
annunziare che avea confessato "e molto bene", senza per altro
dire i particolari della confessione(48). Si argomenta inoltre
dall'ampiezza della confessione medesima, la quale, scritta,
occupò per lo meno 32 fogli, come si rileva da' numeri notati pei
brani di essa inserti ne' suddetti documenti conservati in
Firenze. Aggiungiamo che da questi documenti si rileva pure essere
stato tale atto tenuto sciolto, ma al sèguito del 3.° volume del
processo; la qual cosa si spiega benissimo, considerando che erano
stati già compìti tutti gli atti relativi a Maurizio ed anche
quelli relativi al Pisano, allorchè si ebbe la lunga confessione
del tutto inaspettata.
Ecco ora quanto sappiamo delle cose confessate da Maurizio, poichè
ne sappiamo appena quella parte che si trova inserta a brani ne'
documenti per gli ecclesiastici sopra citati, e quindi siamo ben
lontani dal possedere tutta intera la confessione(49). Maurizio
andò una notte al monastero di S.ta Maria di Gesù a Stilo, dove
trovò fra Tommaso ed altri; fra Tommaso parlò in lode delle armi e
della campagna. E mentre così parlava nella sua camera, fra Pietro
di Stilo entrava ed usciva. Di poi, egualmente a Stilo, in casa di
D. Gio. Jacovo Sabinis, vennero a trovarlo fra Tommaso, fra
Dionisio e Gio. Gregorio Prestinace, ma c'era gente e si parlò
d'altro. Nella notte seguente o in quella dell'indomani tornarono
(Maurizio non ricordava se ci fosse stato anche il Prestinace), e
fra Tommaso cominciò a citare esempî di uomini che dal niente
erano diventati grandi, allegando il Macchiavelli ed altri autori;
animandolo alle armi disse che vi sarebbero mutazioni, che egli
voleva fare repubblica, che bisognava trovare amici a questo
effetto, e parlando contro la nuova numerazione disse che le anime
di Dio erano contate come animali bruti, che si offendeva Dio, che
quando David volle numerare il suo Regno, Dio non gastigò David ma
i popoli che si erano lasciati numerare. Maurizio allora si offrì.
C'era anche Giulio Contestabile, il quale stava sempre insieme con
fra Tommaso e non si scovriva perché inimico a Maurizio: ma
durante la carcerazione nel Castello fra Tommaso avea detto a
Maurizio che Giulio con tutta la casa sua era consapevole. E una
volta, stando del pari in casa Sabinis, essendosi visti certi
legni in mare, fra Tommaso e fra Dionisio (Maurizio non ricordava
se ci fosse stato anche il Petrolo), dissero di volere scendere
per trattare co' turchi di questo negozio, e fra Dionisio si avviò
con scusa di voler andare a riscattare un suo fratello. Fra
Tommaso intanto gli diceva di stare in ordine e trovar compagni,
non dovendosi perder tempo, di avere già molti con lui, averne
parlato a persone principali e tra gli altri a D. Lelio Orsini;
Maurizio disse non voler cominciare né portar gente, se prima non
vedesse cominciata la guerra, e fra Tommaso gli dimandò se quando
si cominciasse a ribellare Catanzaro non avrebbe accudito, ed
allora egli acconsentì. Inoltre Maurizio gli obiettò che non si
potevano mettere ad un'impresa così grande senza danari, e fra
Tommaso gli disse che avea persone le quali li avrebbero dati e
specialmente sarebbero venuti dal Castello di Arena, di dove
Marcantonio Contestabile confidava poterli pigliare, la qual cosa
fra Tommaso gli confermò anche dopo la carcerazione. Si concluse
di mandare fra Dionisio là presente a Catanzaro, per cercare ed
indurre gente a far parte dell'impresa; e fra Dionisio vi andò, e
al ritorno disse a Maurizio in Davoli che avea trattato con alcuni
gentiluomini, e gli nominò Fabio di Lauro, Gio. Battista Biblia e
il Barone di Cropani. Risolverono poi di chiamare Gio. Paolo di
Cordova e Gio. Tommaso di Franza che Maurizio preferiva come
uomini di valore, e Maurizio, a consiglio di fra Tommaso, scrisse
loro sotto colore di trattare della loro natività: questi vennero
con Orazio Rania a Davoli, ove Maurizio si trovava in casa di D.
Marco Antonio Pittella, e fra Tommaso vi era venuto la notte
precedente col Petrolo e Fabrizio Campanella; l'indomani parlarono
in S.ta Maria del Trono, nel castagneto, e fra Tommaso discorse
delle prossime guerre e dell'utilità del trovarsi pronti in armi,
e trattenutisi più di due ore con fra Tommaso, dissero di poi che
fra Tommaso era un grande uomo ed avea parlato della loro
natività. Ancora fra Tommaso disse a Maurizio che v'intervenivano
Claudio Crispo e Gio. Francesco d'Alessandria, fra Gio. Battista
Pizzoni, e forse anche Giulio Soldaniero, ma Maurizio non si
ricordava bene se glie lo avesse detto prima o dopo la
carcerazione; e voleva che Maurizio fosse andato a Pizzoni, ma
Maurizio non volle andarvi ed andò invece il Petrolo. Fin da che
si trattò del negozio con fra Tommaso, fra Dionisio, Gio. Gregorio
Prestinace e Gio. Jacovo Sabinis, si stabilì che quando
apparissero galere turche, o fra Tommaso, o fra Dionisio, o il
Petrolo, andrebbero a trattare co' turchi perché volessero dare
aiuto e favore. E poi vi andò spontaneamente egli stesso,
Maurizio, senza alcuna missione del Campanella, e trattò con Morat
Rais detta ribellione, e al ritorno mostrò il salvacondotto a Gio.
Gregorio Prestinace, fra Tommaso Campanella, D. Marco Antonio
Pittella ed altri, a' quali disse ciò che avea trattato e
conchiuso con Morat Rais, e ne giubilarono lodandolo e dicendogli
che avea fatto assai di quello che desideravano; ben vero il
Pittella non mostrò contento come gli altri, poichè non era così
addentro al negozio come gli altri. E in somma conclusero
tutt'insieme, Maurizio, fra Tommaso e fra Dionisio, che quando
costui avesse finito di trattare ed avuto il consenso di quelli di
Catanzaro, avviserebbe, e si sarebbe pigliato espediente di
effettuare la ribellione ed entrare in Catanzaro, e fra Tommaso
diceva doversi gridare libertà, scassinare le carceri e ammazzare
gli ufficiali. - Fu questa la confessione di Maurizio, che abbiamo
cercato di riordinare diligentemente secondo i numeri de' folii
notati per ciascun brano di essa, e l'analogia delle circostanze
espresse in ciascun brano. Facciamo subito avvertire, che se la
confessione apparisce addirittura acre verso il Campanella, fra
Dionisio, il Petrolo ecc., ciò avviene perché i brani di essa a
noi pervenuti son quelli soli che il Mastrodatti sceglieva pe'
riassunti degl'indizii contro costoro: ma è facile comprendere che
tutta intera avrebbe un altro aspetto, senza per altro rimanerne
alterati i fatti sopra riferiti, mentre poi anche in questa parte
a noi nota si vede che Maurizio non risparmia punto sè stesso. né
i fatti vi riescono essenzialmente diversi da quelli esposti dal
Campanella nella sua Dichiarazione, essendovi solo la differenza
che nella confessione di Maurizio fra Tommaso risulta il motore
fondamentale di ogni menomo passo. Ora intorno a ciò basta
considerare che non si sarebbe proceduto nell'impresa, senza
quelle tali profezie e previsioni di avvenimenti, dapprima più
lontani, poi divenuti imminenti, siccome il Campanella li
concepiva, e d'altronde si sconoscerebbe del tutto e il carattere,
e la posizione, e il credito del Campanella, quando si volesse
pensare che egli si fosse lasciato condurre invece di condurre;
anche il contegno suo nel carcere ci apparisce né più né meno che
quello di un capo, sia quando prosegue a discorrere di queste cose
con Maurizio, sia quando lo giudica, lo esalta o lo vitupera, come
fa del resto con tutti gli altri. Qualche lieve inesattezza nella
successione de' fatti esposti da Maurizio, qualche vacillamento di
memoria, si spiega agevolmente con lo stato della sua persona
affranta e stritolata dalle torture. Ma non v'è luogo ad ammettere
che il Fiscale abbia profittato di una simile condizione per
fargli dire ciò che gli premeva che dicesse. Vedremo l'altra
confessione di Maurizio innanzi a' Delegati del S.to Officio,
fatta oltre un mese più tardi, in un momento supremo e lungi
dall'influenza di Giudici d'ogni sorta, nella quale, benchè si
espongano cose di altro genere, non si nota la menoma dissonanza
ed invece si ha una sufficiente corrispondenza con le cose esposte
nella presente confessione; e questo ci pare un argomento
fortissimo per ritenerla del tutto vera.
La confessione di Maurizio, perché acquistasse forza contro i
complici, come allora si costumava, venne ratificata con una nuova
tortura. Questa, secondo i procedimenti in vigore, dovè applicarsi
non più tardi del giorno consecutivo, leggendo de verbo ad verbum
tutte le cose deposte, e facendo dichiarare al paziente sospeso
alla corda che egli le confermava in omnibus et de omnibus.
Quindi, come fu poi scritto a Madrid, parve bene al Vicerè,
"avendone tenuto consulta col Collaterale, di trattenere
l'esecuzione di Maurizio sino a confrontarlo con fra Tommaso
Campanella"(50). Credevasi allora che non dovesse tardare di molto
l'arrivo del Breve Papale, con cui veniva ad essere costituito il
tribunale della congiura per gli ecclesiastici; ma invece esso
tardò ancora, e frattanto il tribunale pei laici continuò nel
còmpito suo.
Le notizie ulteriori intorno all'opera di questo tribunale pei
laici sono tanto deficienti, che in verità non abbiamo troppe cose
a dire. Possiamo affermare con sicurezza che furono esaminati
tutti gl'inquisiti già carcerati, amministrando o ripetendo
torture più o meno crudeli a parecchi fra loro; oltracciò furono
presi i provvedimenti più gravi contro i contumaci, e il tribunale
restò aperto per varii anni. Il Campanella, mettendo insieme
gl'inquisiti ecclesiastici e i laici, nelle sue lettere del
1606-07, una volta scrisse che vi erano stati 80 tormentati ad
pompam, un'altra volta scrisse che i tormentati erano stati quasi
100, ed aggiunse che niuno avea confessato(51); nella Narrazione
poi ridusse di molto queste cifre, e scrisse che "furo
tormentati... da cinquanta e nullo confessò cosa alcuna",
nominando de' laici appena un Geronimo Politi procuratore di fra
Dionisio (nome nuovo) e taluni fra' rivelanti tardivi di
Catanzaro, Gio. Tommaso di Franza, Mario Flaccavento, Tommaso
Striveri. Or sapendo che furono tormentati non più di sei o sette
ecclesiastici, è facile vedere il numero de' laici tormentati, per
quanto le cifre suddette lo consentono; e ben s'intende che
nessuno di costoro confessò cosa alcuna relativamente a sè stesso,
non già relativamente al Campanella e a fra Dionisio. Massime que'
tre di Catanzaro sopranominati non poterono certamente contraddire
le prime loro deposizioni; e difatti anche nel processo di eresia
ebbe a vedersi più tardi Mario Flaccavento, insieme con Felice
Gagliardo e con Camillo Adimari, sollecitare Giuseppe Grillo
perché deponesse contro fra Dionisio(52). Il Campanella scrisse
pure che lo Xarava diede a due de' sopra nominati le cartelle "di
quello haveano a dire": evidentemente le cartelle, se ve ne
furono, doverono contenere il ricordo di ciò che essi avevano
deposto in Calabria. Da parte nostra possiamo aggiungere soltanto
il nome di qualche altro de' laici, che figurò pure nel processo
di eresia ed ebbe ivi occasione di far motto del tormento
sofferto: tale fu Felice Gagliardo, che disse avere avuto "a
morire" nella "seconda corda" che gli diedero in Napoli; ma ciò
avveniva abbastanza più tardi, nientemeno che verso il marzo 1602,
onde rimane dimostrato che tutto questo lavoro durò molto a lungo.
Circa i contumaci poi, dietro documenti da noi trovati nel Grande
Archivio, possiamo dire che non si mancò di venire alla
"forgiudica" per parecchi di loro, e non sempre in sèguito di
indizii gravissimi. Come abbiamo accennato altrove, con questa
parola "forgiudica", parola non giuridica ma di uso comune nel
Regno, s'intendeva di costituire gl'inquisiti fuori ogni adito al
giudizio, ovvero di giudicarli fuori giudizio, se a questo non si
presentassero fra un certo termine; il quale termine le
Costituzioni del Regno prescrivevano dover essere un anno, ma la
licenza del Principe potea ridurre a pochi giorni e perfino ad
ore! Si pubblicavano i bandi per citare gl'inquisiti a comparire
personalmente "ad informare ed a' capitoli", e i bandi,
intrinsecamente mortali, erano connessi all'annotazione de' beni:
fatta poi e letta la sentenza, i rei si avevano per confessi, non
potevano appellarsi né supplicare, né erano ascoltati nella causa
principale; si ritenevano morti e i loro beni venivano confiscati,
ognuno poteva ucciderli impunemente e i loro cadaveri non potevano
esser seppelliti(53), potevano bensì, con certe regole, essere
rilasciati per l'anatomia. Del resto, tanto prima che dopo la
sentenza, si potevano opporre non poche eccezioni e capitoli, sia
dagl'inquisiti medesimi, sia da' loro consanguinei. Una prima
lettera Vicereale concesse a Marc'Antonio d'Aponte facoltà di
dichiarare forgiudicati, con termine abbreviato, parecchi che a
relazione di lui e di D. Giovanni Sances erano stati dichiarati
contumaci ad informandum et ad capitula nella causa della
"sedutione de congiura": la lettera reca la data del 31 dicembre
1599. I contumaci erano: "Alexandro tranfo di tropea, Gio.
francesco d'alexandria di Monte lione, Marco ant.° Contestabile di
stilo, Matteo famareda di Catanzaro, Geronimo baldaya di
Squillace, pietro paulo santa guida, Antonio verlino di S.ta
Caterina, francesco antonio de lo Joyo di girifalco et Tolivio de
lo doce de satriano": il Vicerè accordava "di possere abreviare il
termine dela forgiudicatione alli sopradetti contumaci,
prefigendoli termine di giorni venti à comparere... non obstante
la constitution del Regno, che vole il circolo dell'anno per
possere declarare forgiudicati"(54). Riesce certamente notevole il
non vedere compreso in questo elenco l'amico intimo del Campanella
e compare di Maurizio, Gio. Gregorio Prestinace: ma venne più
tardi anche la volta sua; abbiamo difatti rinvenuta un'altra
lettera nel senso medesimo, esclusivamente per lui, ma scritta
circa dieci mesi dopo la sopradetta, nell'ottobre 1600, e ciò
conferma che pure da questo lato il lavoro fu lungo(55). Con ogni
probabilità non mancarono altre deliberazioni contro altri
contumaci di Calabria: le evidenti e sconfortanti lacune, che
presentano le scritture rimasteci nel Grande Archivio, ci
autorizzano a ritenerlo. D'altronde l'elenco soprariferito ci
presenta non solo nomi d'individui de' quali abbiamo avuto notizie
più o meno ampie dagli Atti processuali che ci sono rimasti, ma
anche qualche nome d'individuo che ci riesce del tutto nuovo. Non
parliamo di Marcantonio Contestabile e di Gio. Francesco
d'Alessandria, citati ampiamente da moltissimi testimoni:
ricordiamo soltanto che il Famareda fu citato da Fabio di Lauro
come particolare amico ed ospite di Maurizio de Rinaldis, il
Baldaia fu perquisito e trovato possessore di una lettera di
Maurizio a Gio. Francesco Ferraima e di poi citato dal Vitale qual
complice in colloquio con Maurizio e raccoglitore di fuorusciti
per conto di lui, il Dell'Joy fu citato dal Biblia e poi dal
Mileri come complice in colloquio col Campanella e fra Dionisio,
il Dolce fu citato dal Pistacchio come compagno di Maurizio
nell'andata a Davoli, il Santaguida fu citato da più testimoni
come uno degl'individui di S.ta Caterina i quali salirono sulle
galere turche e vi rimasero più di un'ora, ciò che verosimilmente
fece del pari il Verlino (leg. Merlino) anch' egli di S.ta
Caterina. Ma quell'Alessandro Tranfo non si rinviene citato da
alcuno negli Atti processuali in nostro potere finoggi, e ciò
mostra che non conosciamo davvero quanto si fece pe' laici, e che
ve ne furono altri, forse in numero ragguardevole, tuttora rimasti
ignoti. Notiamo qui che documenti da noi trovati ci mostrano
questo Alessandro Tranfo, figlio di Jacovo Giovanni Barone di
Precacore (o Crepacore) e di S. Agata, qualificato Barone egli
medesimo poco dopo il periodo di tempo di cui trattiamo, con ogni
probabilità per "refutazione" fattagli dal padre, il quale morì
più tardi, nel 1611(56). A tempo della congiura avrebbe avuto
appena 19 anni, e dovè essere di quelli ricercati da Maurizio dopo
il convegno di Davoli, allorchè Maurizio andò in giro per parlare
a Gio. Battista Soldano (egualmente di Tropea) e ad altri. Insieme
col Barone di Cropani, egli va compreso nel gruppo dei "Baroni
Provinciali", che secondo il Giannone parteciparono alla congiura
del Campanella "in numero ben grande", e non furono da lui
nominati nella sua Istoria civile per rispetto alle loro famiglie:
noi pertanto conosciamo solamente i due anzidetti, e dobbiamo dire
che ve ne furono senza dubbio parecchi altri. Dietro laboriose
ricerche siamo veramente pervenuti a sapere che varie famiglie dei
carcerati di Calabria possedevano feudi rustici, e basterà citare
i feudi di Guarna e Palermiti per gli Striveri, Pantano
Pratovecchio e Tornafranza pe' Susanna, Caiazza pe' Salerno,
Montalto pe' Dolce, S. Andrea con Turchisi e Caria pe' Vella
imparentati mercè matrimonio a Gio. Gregorio Prestinace; ma non ci
consta che a que' tempi i possessori di feudi rustici si
fregiassero del titolo di Baroni, e ci sembra chiaro doversi dire
che più individui siano rimasti ignoti, avendo la congiura, o
almeno la repressione della congiura, avuto proporzioni assai più
larghe di quelle che siamo in grado di ammettere finoggi, come per
altro apparisce assai bene dall'estensione del territorio che
diede inquisiti. Del resto, se non sappiamo i nomi de' molti
Baroni propriamente detti, sappiamo che molti tra' carcerati
appartenevano a famiglie nobili riconosciute: basterà fare
avvertire che tra' soli carcerati di Catanzaro, oltre quelli sopra
nominati, anche il Franza, i due Cordova, il Famareda, il Giovino,
appartenevano a "famiglie nobili serrate", come rilevasi dal
D'Amato, che ne fa distinta menzione e ne offre i rispettivi
stemmi(57). - Notiamo poi che il tribunale di Napoli,
coll'anzidetto elenco di forgiudicati, ci si mostra più severo di
quello di Calabria: poichè se pel Baldaia, lasciato dapprima in
pace, emerse la testimonianza posteriore del Vitale che aggravò
gl'indizii contro di lui, pel Merlino e pel Santaguida non
s'intende quali nuovi indizii fossero venuti in campo, mentre un
altro Santaguida ecclesiastico, come vedremo a suo tempo, fu
incolpato dello stesso fatto e subito apparve catturato senza
fondamento. Dobbiamo del resto aggiungere, che se fu spiegata
tanta severità per alcuni, nessun provvedimento risulta preso per
altri non meno gravemente indiziati, come in verità è accaduto
sempre in tali faccende sino a' giorni nostri. Ognuno p. es.
crederebbe che i fuorusciti nominati dal Campanella nella sua
Dichiarazione scritta, i figli di Jacobo Grasso, il figlio di Nino
Martino, Carlo Bravo, i Baroni di Reggio, fossero stati
immancabilmente perseguitati; lo stesso si crederebbe p. es. per
Geronimo Camarda, colto nientemeno che in corrispondenza con
Claudio Crispo; invece documenti che abbiamo trovato intorno a
tutti costoro mostrano persecuzioni e catture pe' loro delitti
comuni, senza che sia mai citato il delitto di ribellione, onde si
deve conchiudere che da questo lato siano stati veramente lasciati
in pace. Ma di ciò più tardi, quando con la nostra narrazione
giungeremo agli anni successivi, ne' quali vedremo da una parte
assoluzioni e rilasci, da un'altra parte la cattura e l'invio in
Napoli di taluno de' forgiudicati sopradetti e del rispettivo
manutengolo.
Sorgeva intanto il nuovo anno 1600, e il Breve Papale, per
cominciare a procedere contro gli ecclesiastici, non arrivava
ancora. Come dicevamo, durante l'aspettativa, il Vicerè aveva
interceduto a Roma per l'assoluzione del Principe di Scilla dalla
scomunica che il Vescovo di Mileto gli aveva già da un pezzo
inflitta; in pari tempo aveva sempre continuato ad insistere
presso il Nunzio per la venuta del Vescovo medesimo in Napoli. Da
Roma fu presto data al Nunzio, fin dal 22 dicembre, la facoltà di
assolvere il Principe, a patto che fossero state già adempite
tutte le necessarie condizioni. E il Principe venne assoluto, e in
tale occasione egli medesimo fece istanza che venissero assoluti
egualmente il suo Vice-Principe dottor Fabrizio Poerio e D. Luise
Xarava, i quali erano stati scomunicati insieme con lui. Questo fu
pure più tardi concesso, e con lungo giro eseguito pel Poerio,
mercè facoltà trasmessa all'Arcivescovo di Reggio, ma non risulta
che sia stato eseguito del pari per lo Xarava, il quale sappiamo
che assai più tardi, nel 1605, richiese al Gran Duca di Toscana
che gli ottenesse da S. S.ta la dispensa da qualunque irregolarità
commessa pel passato(58): così non a torto il Campanella scrisse
essere stato lo Xarava perseverante nella scomunica. Arrivava poi
nella capitale, la prima settimana del nuovo anno, il Vescovo di
Mileto, che aveva impiegato circa un mese per venirsene a tutto
suo comodo da Calabria, onde il Vicerè pretendeva doversi
ritenerlo contumace. Una lettera del Nunzio, in data 11 gennaio
1600, narra tutti i particolari dell'udienza datagli dal Vicerè,
essendovi lui pure intervenuto, e ci fa conoscere gli appunti e le
ammonizioni dal lato del Vicerè, e le discolpe e la richiesta di
un passaporto dal lato del Vescovo, con la conclusione del
rilascio del passaporto senza difficoltà. Uno degli appunti che
riesce importante per la nostra narrazione fu questo, che il
Vescovo "desse occasione di sospettar di lui, come haveva fatto
adesso col difendere qualch'uno di quelli che si pretendevono
complici della ribellione seguita in Calabria; come era un Clerico
Cesare Pisano, in favore del quale si trovava fatto ex officio un
Processo per Giustificatione del suo Clericato per essimerlo dalla
Corte Secolare quando si trattava d'un negotio così grave". Il
Vescovo disse "che il Processo del Clericato di quel Cesare era
stato fatto avanti si sapesse nulla della congiura, ò ribellione,
ad altro fine come poteva vedersi"(59). Ma finalmente, nella
stessa data 11 gennaio, arrivò pure il Breve Papale, e D. Pietro
de Vera lo portò di persona al Nunzio. E già costoro si
disponevano a dare cominciamento al processo, quando il Vicerè,
avuto il Breve, e trovandosi ancora in Napoli il Vescovo di
Mileto, diede improvvisamente ordine che Cesare Pisano fosse
giustiziato.
Il Pisano, secondo il solito, fu tradotto alle carceri della
Vicaria, e un documento, che abbiamo allegato al processo di
eresia, ce lo mostra il sabato 15 gennaio 1600 entro la cappella
segreta di quelle carceri, in presenza de' Rev.di Orazio Venezia,
Curzio Palumbo e Geronimo Perruccio, ufficiali della Curia
Arcivescovile appartenenti alla Congregazione diocesana del S.to
Officio, alla quale, mediante i Confrati bianchi, vicino ad essere
giustiziato, egli avea fatto istanza di voler confessare per
disgravio della sua coscienza. La lunga confessione che egli fece,
e che secondo lo stile del S.to Officio è detta denunzia poichè in
fondo con essa riusciva a denunziare sè medesimo e gli altri, lo
rivela turbato, confuso, in qualche punto speciale contradittorio,
ma nel complesso coerente in tutte le cose di eresia che altre
volte avea deposte, con qualche rettificazione verso fra Dionisio,
con qualche circostanza aggravante verso il Campanella ed anche
verso sè medesimo, riconoscendo di aver creduto a quelle opinioni,
la qual cosa aveva altra volta negata. I lettori troveranno questa
confessione riportata nella sua integrità tra gli altri Documenti,
e potranno scorgere le varianti in raffronto delle deposizioni
anteriori(60); qui basterà citarne i punti più importanti per la
nostra narrazione. Intorno al Campanella, egli rivelò che fra
Tommaso, nelle carceri di Squillace, gli avea raccomandato di non
voler "ruinare li amici" col suo esame, quando non poteva salvare
sè stesso; che inoltre, a tempo della gita da Monasterace a Stilo
(cosa da lui precedentemente negata) fra Tommaso gli avea parlato
dell'analogia de' nostri corpi con quelli dei cavalli e giumente,
e della conversione delle anime nostre "in non essere" non
trovandosi inferno, purgatorio e paradiso, ma circa l'esistenza di
Dio avea detto dovergli bastare quanto gli aveano comunicato que'
frati, essendo cose troppo alte per poterle capire; infine accennò
all'essere stato visitato da fra Tommaso nelle carceri di
Castelvetere a' primi tempi della sua carcerazione. Intorno a fra
Dionisio, revocò di aver saputo da lui le cattive relazioni tra S.
Giovanni e Gesù, ma non altro che questo, e intorno a fra Bitonto
e fra Jatrinoli non revocò nulla; che anzi ripetè ancora una volta
tutti i discorsi di eresie fatti da' frati da lui accompagnati
nelle gite a Bagnara e a Messina, e poi a Stignano in casa Grillo
etc., come pure i discorsi consimili da lui stesso tenuti nelle
carceri di Castelvetere col Gagliardo, che vi partecipava, e col
Santacroce, col Marrapodi e coll'Adimari, che egli voleva indurre
in quelle opinioni, delle quali infine si pentiva e voleva far
penitenza, vedendo "di havere da morire fra breve termino". Tutto
ciò dovè sembrare di troppa gravità agli ufficiali della Curia, i
quali non presero alcuna risoluzione; sicchè l'indomani, 16
gennaio, intervenne il Vicario Arcivescovile in persona, Ercole
Vaccari, che poi troveremo come Giudice nella causa dell'eresia, e
costui, fatta qualche altra interrogazione, decretò che per
rendere valida la deposizione anche contro i complici "et ad omnem
alium bonum finem et effectum" fosse al Pisano amministrata la
tortura con la corda per un ottavo di ora. Ed immediatamente la
tortura venne amministrata, ed i lettori troveranno fra' Documenti
il primo processo verbale di questo genere. Spogliato, legato ed
attaccato alla corda, di poi tratto in alto, il Pisano dovè più
volte dichiarare che le cose dette erano vere, verissime; e
soggiunse "lhò ditto per scaricarmi in tutto è per tutto la
conscientia, è per salvarmi l'anima, et se non l'havesse ditto, lo
tornaria a dire". Poi soggiunse ancora: "Monsignor mio,
misericordia, che hò ditto la verità, et sono quattro giorni che
non hò mangiato, è mi trovo debole"; ed allora, con la solita
formola, il Vicario ordinò che fosse deposto, che gli fossero
accomodate le braccia e venisse rivestito, quindi lo condannò come
eretico formale, imponendogli l'abiura ed alcune penitenze "in
questo poco spacio di tempo di vita" che gli rimaneva. La sentenza
fu subito letta dal Mastrodatti della Curia Gio. Camillo Prezioso,
l'abiura fatta e sottoscritta dal Pisano e l'assoluzione data dal
Vaccari, nell'Audienza criminale della Vicaria. - Ma in pari tempo
anche i Confrati bianchi ricevevano dal Pisano talune
"esculpationi" intorno alla congiura, come ci mostra il documento
relativo alla sua esecuzione, e queste meritano bene di essere
ricordate(61). In fondo il Pisano si ritrattava sul conto di
talune persone che avea nominate ne' tormenti sofferti in
Squillace, e negli "ultimi tormenti" sofferti in Gerace. In
Squillace egli avea dichiarato che il fratello di Orazio
Santacroce avrebbe dato aiuto "al trattato della rebellione", ed
inoltre che avea parlato pure con Geronimo Conia di detto
trattato, e questo non era vero. In Gerace avea dichiarato che i
fratelli Moretti consentivano al trattato e che fra Dionisio glie
l'avea detto, come pure che Gio. Angelo Marrapodi avea promesso di
portar gente in aiuto, e tutto questo nemmeno era vero. - Tali
furono gli atti estremi del Pisano, che nel medesimo giorno,
malgrado fosse di Domenica, venne condotto al supplizio; ci corre
pertanto il debito di giudicarli. A rigore, la confessione delle
eresie potrebbe dirsi fatta con la speranza di suscitare
direttamente nel S.to Officio la premura di avocare la causa al
suo tribunale, e quindi intercedere perché l'esecuzione fosse
sospesa; tuttavia il tenore di essa è tale da poterla credere
sincera, mostrando un uomo per quanto turbato altrettanto scevro
d'illusioni, mentre d'altra parte tutta la vita anteriore di lui
ce lo rivela di costumi tristi, ma leggiero più che malizioso. Le
discolpe poi intorno alla congiura, le quali attenuano la
responsabilità di parecchi ed anche esonerano perfino fra Dionisio
circa un punto speciale, non fanno motto né del Gagliardo, né del
Bitonto, né del Jatrinoli, e però implicano evidentemente una
conferma dell'esistenza del concerto per la ribellione: se non era
vero che il tale e il tal altro vi avessero avuta parte o che ve
l'avessero avuta nella misura prima deposta, era vero che vi
avessero avuta parte in una misura più circoscritta e che ve
l'avessero avuta tutti i rimanenti. Di certo non gli era mancata
l'opportunità di disdirsi in tutto e per tutto, e gli sarebbe
riuscito tanto più facile il farlo in poche parole qualora la
coscienza glie l'avesse consentito. Dopo ciò bisogna dire che fu
assai male informato il Campanella, quando nella sua Narrazione
scrisse che "il Pisano si ritrattò più volte, e poi dicendo che
l'heresia lo havea salvato, lo fecero morir di domenica, avanti
che si presentasse la bolla del clericato per lunedì, e nella sua
morte si scommosse il cielo el mare, e s'annegaro 8 navi e galere
in porto di Napoli". Che propriamente nella notte del 16 gennaio,
ed anzi sull'alba del 17, vi sia stato un uragano, pel quale
perirono in Napoli 7 navi e diverse altre egualmente nelle spiagge
vicine, è ricordato da' nostri Storici, e meglio anche dagli
Agenti di Toscana e di Venezia ne' loro Carteggi, e su ciò non v'è
nulla da dire(62). Che l'esecuzione sia stata fatta di Domenica
per ragione non del Vicerè ma del S.to Officio, si rileva da
quanto abbiamo narrato con la scorta de' documenti autentici ed
anche dal documento de' Bianchi che dice: "a questa giustitia andò
la compagnia il sabato prima 15 del mese et aspettò sino a 2 hore
di notte, et poi fu licenziata per non possere l'afflitto essere
assoluto del s.to officio". Che non la bolla ma l'informazione del
clericato abbia dovuto già essere stata esibita al tribunale
innanzi questa data, si è visto dall'averne il Vicerè fatto
perfino un appunto al Vescovo di Mileto. Che infine il Pisano non
siasi ritrattato mai, ed invece con una desolante persistenza
abbia ripetuto, più o meno, le cose dell'eresia e della congiura
innanzi qualsiasi tribunale, è accertato da tutti gli esami e
rivelazioni che di lui possediamo, e precisamente nella persona di
lui la raccolta che possediamo è completa.
I particolari del supplizio del Pisano ci vengono forniti dallo
stesso documento dell'Archivio de' Bianchi. Col lunghissimo giro
altrove accennato, dalla Vicaria "s'andò per palazzo"; e si eseguì
la "giustitia per ordine di S. E. ad appiccare et squartare vicino
la guardiola del Castello". Anche nelle scritture di S.to Officio
relative alle persone di questa causa, troviamo che Felice
Gagliardo, menzionando Cesare Pisano, lo disse "giustitiato al
largo del Castello"(63). Così quest'infelice giovane, di 26 anni,
servì di spettacolo non solo al popolo della fedelissima città, ma
anche a' suoi compagni di sventura, che dalle carceri del Castello
doveano vederlo. E meritano pure di essere notate ed interpetrate
due circostanze che si trovano riferite dal Residente Veneto(64).
La prima, che il Vicerè fece affrettare l'esecuzione, poichè il
Pisano nelle carceri avea disegnato di avvelenare Maurizio, il
quale continuava a svelare il negozio della congiura; e fu questa
verosimilmente una voce sparsa dal Governo medesimo, per
giustificare un abuso giurisdizionale aggravato anche dal modo
tenuto. La seconda, che il Pisano, essendo prete, fu impiccato in
abito di prete; e questa circostanza dovè esser vera unicamente
nel senso che si fece andare il Pisano al patibolo col ferraiolo
nero di clerico; poichè non solo trovasi attestato dalla lettera
del Residente il fatto dell'impiccato coll'abito di prete, ma
anche trovasi riferito da tutti gli Avvisi del tempo essere stato
impiccato un sacerdote, anzi lo stesso Campanella, ciò che
significa esservi stata tale credenza, originata verosimilmente
dal fatto dell'abito, che va interpetrato come uno sfregio
inflitto al potere ecclesiastico. - Per certo il Nunzio ebbe a
rimanere duramente deluso nella sua aspettativa intorno al Pisano,
e non se ne potè neanche lagnare immediatamente in Corte,
essendosene il Vicerè andato fuori Napoli: ne fece bensì
risentimento con D. Giovanni Sances, e ne diè conto al Card.l S.
Giorgio con la sua lettera del 21 gennaio, senza far motto della
circostanza dell'abito di clerico fatto indossare al Pisano. Più
tardi potè parlarne al Vicerè, il quale disse che di queste cose
se ne rimetteva a' suoi ufficiali e che non avea saputo nulla di
tale esecuzione; ed al Nunzio parve che le sue lagnanze avessero
lasciato il Vicerè "confuso" e perciò si era espresso in quel modo
"punto verisimile"! Per non intralciare la narrazione, aggiungiamo
che ancora più tardi ne dovè dar conto egualmente al Card.l di
S.ta Severina, il quale glie ne scrisse inculcando di
risentirsene; ed egli fece del pari conoscere di averne già
parlato al Vicerè, e di essergli stato da lui risposto "che non
haveva saputa tal esecutione", come pure di averne parlato a'
Ministri e di esserne costoro "rimasti confusi ad ogni modo"(65).
In verità bisogna dire che il Nunzio non rifuggiva dai concetti
più arrischiati, quando si trattava di scusare la sua non rara
indolenza in queste materie così delicate, che egli aveva per lo
meno il torto di mettere allo stesso livello de' negozii
ordinarii. Due volte la Compagnia de' Bianchi era andata in
Vicaria pel Pisano, due volte il S.to Officio si era trattenuto
col povero condannato, e il Nunzio non ne avea saputo nulla. Il
vero è che egli soleva scansare ad ogni costo le imprese
laboriose: così avea fatto pel Caccìa, così fece pel Pisano, così
lo vedremo fare anche in qualche altra occasione.
III. Intanto, dietro l'arrivo del Breve Papale, il tribunale della
congiura per gli ecclesiastici si costituiva, e sollecitamente
cominciava a funzionare. L'11 gennaio il Breve era stato
presentato al Nunzio da D. Pietro de Vera e letto da entrambi; il
16 la nomina del medesimo D. Giovanni Sances per fiscale e di
Marcello Barrese per Mastrodatti fu trasmessa ufficialmente, da
parte del Vicerè, a D. Pietro de Vera con l'incarico di
comunicarla al Nunzio; il 18 si tenne la prima seduta. Queste date
risultano dagli Atti che si conservano in Firenze, posti al
sèguito del Breve, parzialmente anche dal Carteggio del Nunzio, e
dal Carteggio del Vicerè, infine da un documento che abbiamo
rinvenuto nell'Archivio di Stato(66): ma prima d'inoltrarci nella
narrazione di ciò che si fece nel tribunale, non sarà inutile dare
un'occhiata al Breve. Esso vedesi diretto al Vescovo di Troia
Nunzio Apostolico e a Pietro de Vera Consigliere, e reca la data
dell'8 gennaio. Con quella dicitura contorta e stentata di
Marcello Vestrio Barbiano Segretario de' Brevi, e con quel piglio
altiero ed ingiurioso tanto comune ad incontrarsi ne' documenti
della Curia, Clemente VIII comincia dal ricordare la
partecipazione avuta "pocofà" dal Vicerè, che taluni frati e
clerici "figli dell'iniquità" aveano cospirato nello Stato del
carissimo figlio Filippo e trattato di dare la Calabria "nelle
mani de' turchi nemici del nome cristiano", e la dimanda dello
stesso Vicerè, che si fosse degnato di provvedere con la benignità
Apostolica perché i parecchi carcerati avessero il meritato
gastigo; ond'egli stimando que' "ribaldi e sediziosi uomini
indegni dell'immunità e libertà ecclesiastica", concede alla
fraternità del Vescovo, e alla discrezione di Pietro, facoltà di
esaminare carcerati e carcerandi, complici, testi etc. Finquì
ognuno avrà notato quel "pocofà" da doversi riferire a tre mesi
indietro, una definizione della congiura che la Curia sapeva da un
pezzo non esser la vera con qualche sospetto che la congiura
medesima fosse destituita di fondamento, inoltre una durezza
estrema di linguaggio verso individui i quali tuttora non erano
che semplici imputati: si faccia un confronto col linguaggio
tenuto dal Vicerè nell'istituire il tribunale pe' laici (Doc. 209
p. 109) e si vegga la differenza. Ma cosa voleva dire quell'essere
i ribaldi e sediziosi uomini indegni dell'ecclesiastica immunità?
Era forse un tribunale laico quello che s'istituiva per essi?
Senza dubbio si derogava ai Canoni e alla procedura ordinaria,
massime coll'intervento del Fiscale Sances e del Mastrodatti
Barrese, individui laici nominati dal Vicerè; ma coloro i quali
doveano in ultima analisi giudicare e sentenziare erano sempre il
Nunzio, giudice naturale segnatamente de' frati, e il de Vera
clerico, proposto dal Vicerè ma nominato giudice dal Papa, e
quindi funzionario Papale, precisamente come p. es. erano i
Vescovi proposti dal Governo e nominati dal Papa senza potersi
dire perciò funzionarii Governativi. Difatti "Commissarii
Apostolici, Delegati Apostolici", si dissero poi sempre il Nunzio
e il De Vera, e solo per le facoltà avute direttamente dal Papa
essi furono in grado di esaminare gl'imputati, prescrivere i
tormenti, emettere le sentenze; se il Campanella in sèguito pose
sempre innanzi il Sances e le sue crudeltà, è chiaro che lo fece
unicamente per mettere nell'ombra le persone e le crudeltà de'
Commissarii Apostolici de' quali non gli conveniva sparlare. Si
chiami dunque "tribunale misto" il tribunale creato col Breve, ma
s'intenda bene la costituzione sua, e non se ne sconosca la natura
al punto da attribuire al Governo Vicereale ciò che esso fece:
sicuramente esso fu costituito in modo da dover servire in tutto e
per tutto il Governo Vicereale, ma rimanendo pur sempre un
tribunale i cui Giudici funzionavano in nome del Papa,
coll'autorità avuta dal Papa. Non meno importante poi riesce il
notare l'estensione de' poteri accordati a questi Giudici verso
gli inquisiti: concediamo, diceva il Breve, facoltà "di sottoporli
alla tortura ed altri tormenti giusta le disposizioni del
dritto.... di procedere fino alla sentenza esclusivamente, e di
consegnare e rilasciare alla Curia secolare, senza pericolo di
censure... colpiti dalle condegne pene giusta le sanzioni
canoniche coloro i quali a voi sia constato essere legittimamente
convinti e confessi". Ecco un abbandono insolito di ciò che le
Autorità, tanto ecclesiastiche quanto laiche, ordinariamente si
riserbavano; ma si noti che i Delegati potevano agire fino alla
sentenza di condanna "esclusivamente", sicchè quando una tale
sentenza si fosse dovuta emettere, sarebbe occorsa l'approvazione
del Papa. Con ciò risulta chiarita anche meglio la natura del
tribunale; e s'intende che l'approvazione del Papa non sarebbe
mancata, ma s'intende pure che per salvare l'apparenza della
superiorità ecclesiastica, il Papa consentiva ad assumere di
dritto la responsabilità di ciò che sarebbe avvenuto, mentre
abbandonava di fatto gli ecclesiastici inquisiti all'influenza
prepotente del Governo Vicereale; non si neghi dunque tale
responsabilità, e si riconosca questo abbandono del Campanella e
socii fin dal momento della istituzione del tribunale col detto
Breve. - Poniamo qui che il Campanella, nella sua Narrazione e poi
anche in una delle sue lettere pubblicate dal Baldacchini(67),
disse questo Breve "sorrettitio ch'esponea ribellione", ed affermò
che "el S. Papa Clemente 8.° donò licenza che si facesse questa
causa nelli carceri regi per confrontar li frati con li laici
carcerati e mostrar che lui non era consapevole". In verità la
concessione del Breve fu indipendente dal fatto della confronta,
che venne in campo più tardi; quanto(68) poi all'esporre
ribellione, certamente il Breve non poteva esporre altro, e
solamente avrebbe potuto esporla in migliori termini; sappiamo poi
che già da un pezzo il Governo Vicereale si era mostrato o aveva
finto di mostrarsi persuaso che il Papa non fosse consapevole
della congiura. Assai meglio di questo avrebbe potuto il
Campanella dire intorno al Breve; ma, come sempre, nelle parole di
lui bisogna leggere lo sforzo costante di appoggiarsi a qualunque
specie di argomento, e al tempo medesimo di non dare motivi di
disgusto al Papa, dal quale soltanto potea sperare la sua
liberazione.
Dicevamo che il 17 e 18 gennaio si tennero le prime sedute del
tribunale. Probabilmente il 17 si tenne seduta preparatoria
facendo la rassegna degli Atti raccolti a carico degl'inquisiti,
ma il 18 si produsse il rescritto Vicereale che nominava il Sances
e il Barrese, e si deliberò di conservarlo ed eseguirlo, quindi si
dovè subito metter mano all'interrogatorio del Campanella: così
venne iniziato il 4.° ed ultimo volume di tutto il processo,
consacrato appunto alla causa della congiura per gli
ecclesiastici. La "deposizione" del Campanella è solo menzionata
negli Atti esistenti in Firenze, e ciò si spiega con la
circostanza che essa risultò negativa: quegli Atti per altro
mostrano che si estese dal fol. 3 a 9 del volume e quindi fu molto
lunga(69). Una lettera del Nunzio, in data del 21 gennaio, fa
conoscere precisamente che il Campanella negava, e che forse
l'indomani si sarebbe fatta la confronta: "sono stato, egli dice,
già due volte con il Sig.r D. Pietro di Vera in Castello, et
essaminato (sic) fra Thomaso Campanella il quale stà sù la
negativa, ma hà tanti che gli testificano contro, de' quali forse
domani si farà la confrontatione, che credo bisognerà si risolva à
dir il fatto come stà circa la congiura, et ribellione". Ma la
confronta si fece solamente il giorno 23 gennaio, come risulta da
una lettera del medesimo Nunzio scritta l'indomani, e non vi
furono altri Atti fra l'esame del Campanella e la confronta,
vedendosi questa occupare nel volume il fol. 10 ed 11, come è
notato negli Atti sopra menzionati. Si ricominciò coll'esame del
Campanella rammentandogli la Dichiarazione da lui scritta, ed
egli, secondo il Nunzio, la negò egualmente, ed allora si venne
alla confronta; ma forse il Nunzio volle dire che negò la
ribellione della quale aveva altra volta scritto, e non deve far
meraviglia questa distrazione da parte del Nunzio, che sempre,
così nella causa della congiura come in quella dell'eresia, lasciò
fare a' suoi colleghi, intervenendo solo in qualche occasione
nella quale gli pareva che potesse "far conoscere la superiorità
ecclesiastica". Ecco come egli riferì il fatto nella sua lettera
del 24 gennaio. ".. Hieri stando pur frà Thomaso Campanella sù la
negativa, etiam d'una narratione del fatto scritta di sua mano sin
nel principio che fu preso, se gli condusse à petto, et per
riscontro cinque, et particolarmente un' Mauritio de Rinaldi che
fù quello che condotto alle forche si risolvette à dire
spontaneamente, et per scarico di conscienza, tutto quello che
sempre havea negato nei tormenti, il quale disse sul viso à detto
Campanella il trattato della Ribellione che havevano havuto
insieme, e che per questo era stato sù le Galere Turchesche, e
tutto quello ch'era seguito; et egli pure stette sù la negativa,
onde il fiscale fece instanza che si venisse à tortura"(70). Prima
d'inoltrarci nell'incidente della tortura, dobbiamo dire che se
nel giorno suddetto vi furono soltanto cinque confronte come il
Nunzio asserì, ve ne furono di poi altre due, poichè sette ce ne
mostrano fuori ogni dubbio, successivamente avvenute, gli Atti
esistenti in Firenze; da' quali apparisce pure che queste
confronte non durarono a lungo, occupando appena il fol. 10 ed 11
del volume(71). Difatti, secondo la procedura che costantemente
accade d'incontrare in qualunque processo del tempo, s'introduceva
il teste, gli si deferiva il giuramento in presenza
dell'inquisito, gli si dimandava se conoscesse costui, e
verificatosi che lo conosceva, gli si dimandava in termini
generali se le cose che avea deposte contro di lui fossero vere;
ed allora, riuscendo negativa la confronta, mentre il teste diceva
che tutto era vero, verissimo, l'inquisito diceva che non era
vero, che tutto era bugia, che il teste ne mentiva per la gola;
così la confronta finiva in pochi momenti. I sette confrontati
furono, oltre Maurizio, Gio. Tommaso di Franza, Gio. Paolo di
Cordova, Tommaso Tirotta, Felice Gagliardo, Geronimo Conia, fra
Silvestro di Lauriana. Le parole del Nunzio sopra riportate ci
mostrano che Maurizio, alla presenza del Campanella, non dovè
limitarsi alla semplice rafferma della sua confessione in termini
generali, ma trasportato dal suo zelo per l'anima dovè rammentare
qualche cosa del progetto e de' preparativi di ribellione, e
segnatamente dell'andata sulle galere turche deliberata d'accordo
con lui. Quanto a Gio. Tommaso di Franza, Gio. Paolo di Cordova e
Tommaso Tirotta, evidentemente la loro confronta dovè servire a
raffermare il fatto del convegno di Davoli e de' discorsi ivi
tenuti; quanto a Felice Gagliardo e Geronimo Conia, la loro
confronta dovè raffermare segnatamente il fatto della visita del
Campanella a Cesare Pisano nelle carceri di Castelvetere e le
parole ivi scambiate, giacchè vedremo essere stato questo uno dei
principali capi dell'accusa che il fiscale scrisse contro il
Campanella. Infine quanto al Lauriana, la sua confronta dovè
raffermare il fatto del convegno di Pizzoni e delle parole del
Campanella ai congregati, ed è manifesto che al cospetto de'
Giudici caddero tutti i proponimenti di ritrattazione che il
Lauriana aveva esternati al Campanella. Vedremo altre confronte di
altri inquisiti col Campanella nel tratto successivo: intanto già
fin dalle prime confronte il fiscale dimandò a' Giudici che si
ordinasse di amministrare la tortura, ma il Nunzio volle che prima
se ne informasse S. S.tà per ottenerne la licenza.
Ecco in che modo il Nunzio riferì questo incidente. ".. Il fiscale
fece instanza che si venisse à tortura, et mettendogli io in
consideratione che se il detto Campanella domandava la copia delli
inditii non vedevo come se li potessero negare, disse, e mostrò
che secondo l'uso della Vicaria e di tutte l'udienze di Regno, ne
casi così enormi si veniva à tortura per il processo
informativo... et che anche questo si era fatto nell'ultimo caso
di ribellione dove intervenne un deputato dalla sedia Apostolica
et che me lo mostrerebbe; gli replicai che era più espediente
saper sopra questo il comandamento di S. S.tà che ne può
dispensare, et però mi son risoluto à scriverne per la staffetta,
tanto più quanto intendo che questo medesimo è stato usato dalli
Offitiali dell'Arcivescovato in casi d'importanza, et è stato
ottenuto licenza di poter venire à tortura nel processo
informativo senza farne altra copia, che certo conosco che in
questo negotio sarebbe cosa di molta difficoltà, e lunghezza, ma
non voglia (sic) consentire à nulla di straordinario secondo l'uso
di quà senza particolare ordine il quale desidero quanto prima,
acciò il negotio si possa tirar avanti conforme al desiderio del
sig.r Vicerè". Abbiamo voluto riportare per intero questo brano di
lettera, per potere ben valutare l'incidente. Da esso si dovrebbe
inferire che fosse ben poca nel Nunzio la conoscenza del dritto e
la pratica del tribunale, mentre pure ne presedeva uno e di non
poco rilievo. Poichè se la Curia Arcivescovile ne' casi importanti
doveva ottenere licenza da Roma per amministrare la tortura
durante il processo informativo, senza dare all'inquisito la copia
degl'indizii, ciò accadeva perché ne' casi importanti la Curia
Romana voleva essere intesa di tutto, e dirigere essa medesima il
processo in ogni sua parte. D'altronde l'amministrare la tortura
durante il processo informativo non era un uso particolare di
Napoli, bensì un principio riconosciuto da tutti i Giuristi, ogni
qual volta si trattasse di casi gravissimi e specialmente di lesa
Maestà. Adunque la tortura dimandata dal fiscale, nel caso del
Campanella, non usciva da' limiti del dritto e delle facoltà date
dal Papa a' Giudici col suo Breve, essendovi tra le altre quella
di poter sottoporre gl'inquisiti "alla tortura ed altri tormenti
giusta le disposizioni del dritto". Non potendosi ammettere nel
Nunzio tanta ignoranza del dritto, bisogna piuttosto conchiudere
che egli abbia voluto dar prova di saper sostenere la superiorità
ecclesiastica, mostrando che in tutto si doveva dipendere da Roma;
e con ciò non giovava alla causa del Campanella e socii, ma la
danneggiava senza dubbio, poichè rinfocolava la sorda diffidenza
della Corte di Napoli verso quella di Roma nella faccenda de'
frati. Bisogna tener presenti queste cose, poichè esse influirono
certamente sulla condotta ulteriore del Governo Vicereale. - La
richiesta della nuova facoltà per dare la tortura al Campanella fu
subito fatta dal Nunzio, mediante una staffetta spedita dal
Vicerè, e si ebbe cura di farla in modo da comprendervi anche gli
altri, che il Nunzio in una sua lettera di sollecitazione, in data
del 4 febbraio, qualificava "inditiati per non dir convinti".
Naturalmente la richiesta venne accordata senza la menoma
difficoltà, trattandosi di una quistione di forma, non di
sostanza; ma la lettera che l'accordava si fece attendere alcuni
giorni.
Intanto il tribunale non perdeva tempo. Dopo l'esame e le
confronte suddette del Campanella, immediatamente dopo, si venne
all'esame di fra Dionisio, come si rileva dal trovare la
deposizione di costui, negli Atti conservati in Firenze, notata
col fol. 12 del volume(72): anche di essa per altro quegli Atti
non dànno che la semplice menzione, e certamente perché risultò
del pari negativa. Se non c'è una lacuna, del resto poco notevole,
nelle notizie dei folii del volume, dopo fra Dionisio fu esaminato
fra Gio. Battista di Pizzoni. Dichiarazioni fatte più tardi nel
processo di eresia massime da fra Dionisio(73), quindi ripetute
dal Campanella nelle sue Difese(74) e poi ancora nella Narrazione,
tenderebbero a far credere che le cose fossero passate nel modo
seguente. Il Pizzoni dapprima si ritrattò, onde fu posto in una
fossa, dove col carbone scrisse sul muro il suo nome aggiungendovi
"positus ut dicat mendacium ad instantiam fiscalium"; ma il
Lauriana dalle carceri del civile, dietro il consiglio di un
dottore Domenico Monaco, che là si trovava e che aveva consigliato
lui stesso a non ritrattarsi perché sarebbe stato punito come
falsario, potè con lo stesso argomento indurre il Pizzoni a
revocare la ritrattazione; così uno o due giorni dopo costui
dimandò di essere udito di nuovo e revocò quanto avea dapprima
ritrattato. Di tutto questo non si ha veramente notizia negli Atti
sopra citati; solo vi si trova l'esame del Pizzoni qualificato
"deposizione ultima di fra Gio. Battista che accetta quella fatta
innanzi al Vescovo di Gerace", e da ciò potrebbe desumersi che le
suddette dichiarazioni esprimessero il vero. Ma dobbiamo notare
che possediamo tale deposizione di fra Gio. Battista integralmente
riportata nel processo di eresia, perocchè venne trasmessa in
copia dall'uno all'altro tribunale, e non vi scorgiamo alcuno
indizio di un esame anteriore che con essa il Pizzoni si facesse a
revocare(75). La deposizione porta la data del 29 gennaio. I
Giudici dimandano dapprima, "come si ritrova esso deposante
carcerato in questo Regio Castello", ed egli dichiara come e
quando e da chi venne carcerato in Calabria "acciò deponesse...
contra fra Thomase Campanella et fra Dionisio Ponsio de le cose,
che esso deposante havea denuntiato tanto al'Avvocato fiscale di
Calavria in scritto quanto per lettre al Generale": poi, dietro
altre dimande, dice di essere stato già esaminato dal Visitatore
ed anche dal Vescovo di Gerace e si rimette a questi esami, spiega
come non depose già per timore ed insiste ad atteggiarsi a
denunziante, rettifica la parola "complici" che fu scritta nel suo
esame a proposito degli altri frati da lui nominati, nega
assolutamente di aver mai consentito alla ribellione, dicendo che
piuttosto vorrebbe gli "fosse stata tagliata la lingua". Vedremo
or ora che ben diversamente fu redatto il processo verbale
dell'esame del Petrolo, il quale davvero prima si ritrattò e poi
revocò la ritrattazione: ad ogni modo, la deposizione del Pizzoni
che rimase e servì nello svolgimento ulteriore del processo fu
quella sopradetta. - Non appena raccolta tale deposizione, fu
immantinente chiamato il Campanella per fare la confronta, e come
sempre era avvenuto, il Pizzoni disse che era vero quanto avea
dichiarato nelle sue deposizioni contro di lui, e il Campanella
disse che egli mentiva per la gola. Si passò allora alla confronta
del Pizzoni con fra Dionisio; quindi si fece la confronta del
Lauriana con lo stesso fra Dionisio, e il risultamento fu sempre
identico, come si rileva dagli Atti che pubblichiamo tra i
Documenti(76).
Nel giorno medesimo 29 gennaio si venne anche all'esame di fra
Domenico Petrolo, e costui positivamente si ritrattò, ma poi
revocò la ritrattazione aggravando fuor di misura la condizione
del Campanella. Possediamo egualmente questi Atti nella loro
integrità, giacchè vennero inserti in copia nel processo di
eresia(77). I Giudici dimandarono, al solito, come e perché egli
si trovasse carcerato, e il Petrolo rispose che credeva essere
stato carcerato per deporre contro il Campanella: poi, dietro
altre dimande, rispose di aver deposto che il Campanella volea
ribellare la provincia di Calabria coll'aiuto de' turchi e de'
fuorusciti, di averlo deposto a suggerimento di fra Cornelio, che
lo persuase di dirlo per non essere maltrattato in Calabria e
venir rimesso a' proprii superiori; quindi espose tutte le
circostanze della sua fuga insieme col Campanella temendo che
Maurizio volesse ammazzarlo, tutte le circostanze della loro
cattura e carcerazione. Ma i Giudici gli obiettarono che avea
deposto spontaneamente e poi avea ratificato la deposizione
innanzi al Vescovo di Gerace, ed egli rispose che non avea
ratificato nulla e che quanto avea deposto non era vero; infine
gli dimandarono se era vero che avesse concertato col Campanella
di ribellare la Calabria e farla repubblica, ed egli rispose, "non
è vero, Giesù"! Si può ritenere per certo che i Giudici fecero
allora porre il Petrolo nella fossa, onde egli ben presto si
raccomandò al carceriere, dicendo che volea manifestare la verità.
- Così nella seduta del 31 gennaio il Petrolo fu sottoposto a un
nuovo esame; e nel processo verbale trovasi consacrato che,
essendo venuti i Giudici, il carceriere fece loro intendere il
desiderio del Petrolo, e che costui tradotto nel luogo
dell'Audienza ed interrogato se volesse manifestare la verità come
avea dichiarato, disse di avere negato il primo esame per le
minacce fattegli dal Campanella a nome suo ed anche a nome di fra
Dionisio in più circostanze. E cominciò dal riferire i motti
latini scambiati tra il Campanella e lui durante il tragitto da
Squillace a Gerace, la cartolina mandatagli dal Campanella appunto
in Gerace, l'ambasciata fattagli a Monteleone per mezzo del
Pisano, le parole direttegli in Napoli dalla finestra del carcere;
inoltre riferì le sollecitazioni avute perché deponesse falsamente
contro Mesuraca, il Principe della Roccella e Giulio Contestabile,
e concluse che dubitando di poterne aver danno si era ritrattato.
Lettogli quindi il primo esame, lo confermò, rettificando ed
aggiungendo qualche cosa pur sempre a carico del Campanella ed a
scusa propria. Così disse che solo il Campanella gli avea
manifestato più liberamente doversi far ribellare Catanzaro, ma
"lo dì prima della cattura"; che poi "alla Roccella" gli avea
manifestato aver lui, il Campanella, questi pensieri nello stomaco
da tredici anni e fin d'allora averli comunicati a fra Dionisio,
avere inoltre mandato fra Dionisio alla Piana per mettere in
ordine la gente e i fuorusciti, infine venire per lui trenta
vascelli turchi dietro le trattative fatte da Maurizio, con altre
circostanze relative a' fatti e detti di que' giorni. Interrogato
aggiunse pure che il Campanella avea detto bastargli essere amico
di Maurizio perché i turchi non lo facessero schiavo; ed aggiunse
inoltre spontaneamente, che una volta in Stilo essendosi il
Campanella vantato di aver fatto nominare dodici Vescovi, ed
avendogli lui detto "piacesse a Dio che tu fossi fatto Cardinale
per fare bene a noi altri", il Campanella avea risposto, "io
Cardinale? io voglio fare altri Cardinali, et non aspettare che me
faccino à me". Fu questa la deposizione ultima del Petrolo, la
quale, come ben si vede, riassumeva in brevissimi tratti perfino
la storia de' disegni del Campanella, senza tralasciare nemmeno di
far capire l'altissimo grado che egli si riserbava nel nuovo Stato
da doversi fondare: e comparando i fatti accennati dal Petrolo con
quanto sappiamo da tutti gli altri fonti, tenendo presente
l'indole stessa del Petrolo, si può conchiudere che egli non abbia
mentito, eccettochè nell'asserire di aver ben conosciuti i disegni
della congiura solamente negli ultimi giorni e alla Roccella.
Pertanto i Giudici fecero subito una confronta del Petrolo col
Campanella, come si rileva da' soliti Atti, ne' quali la
"deposizione" o "seconda deposizione" del Petrolo trovasi notata
co' fol. 18 a 20, e la confronta col fol. 21(78). Si ebbe così la
nona ed ultima confronta in persona del Campanella, e non sarà
strano l'ammettere che il risultamento di essa sia stato pur
sempre identico a quello delle altre.
Molto probabilmente allora appunto, il 31 gennaio, essendosi
mostrato negativo con tanta ostinazione, il Campanella venne
rinchiuso a sua volta nella fossa, donde non fu tratto che per
essere sottoposto alla tortura: e veramente, nella sua Narrazione,
il Campanella ne parla come di un fatto avvenuto dopo le confronte
di Maurizio non solo con lui ma anche con fra Dionisio, ciò che
sappiamo essere avvenuto immediatamente dopo la confronta sua col
Petrolo. Ecco in che modo egli racconta il fatto. "Per questo il
Sances credendosi haver trionfato di tutta la causa, pose il
Campanella dentro la fossa del niglio in Castelnovo, che và quasi
sotto mare, oscurissima humidissima dicendoli e facendoli dire che
senza altro havea a morire e li davan de mangiar malamente solo
una volta il giorno, stava con li ferri alle gambe, dormia in
terra; e li vennero flussi di sangue. E così infermo poi lo posero
nel tormento". Non stentiamo a credere che la fossa in cui venne
posto il Campanella sia stata la più terribile, detta del
coccodrillo, ovvero anche del miglio, non niglio come si legge
nella Narrazione(79). La menzione di questa fossa risale al tempo
degli Aragonesi e vedesi continuata fino a' giorni nostri, senza
per altro poter dire dove essa sia veramente stata, giacchè
parrebbe essersi successivamente così chiamata ogni fossa molto
profonda e quasi del tutto oscura; notiamo solamente esser
probabile che il livello sottomarino di detta fossa sia stato
asserito dietro la nozione della profondità dell'intero fossato,
dove ne' primi tempi, come abbiamo accennato in altro luogo,
potevasi immettere l'acqua del mare. Vedremo che il Campanella vi
rimase solo per una settimana.
Intanto si fece ancora qualche confronta e segnatamente quella di
Maurizio con fra Dionisio: subito dopo si esaminò pure il Bitonto,
e non può esser dubbio che risultò parimente negativo; quindi si
passò a fra Paolo della Grotteria, intorno al quale sappiamo di
certo che negò ogni cosa(80). Non apparisce poi che siano stati
esaminati né fra Pietro di Stilo né fra Pietro Ponzio: ne'
Riassunti degl'indizii compilati contro di essi, come contro
diversi altri, non è ricordata una loro deposizione in qualunque
senso, a differenza di quanto si vede per quelli sopra nominati e
per qualche altro ancora. Apparisce invece essere stato esaminato
fra Scipione Politi, il quale disse che avea conosciuto il
Campanella, e che nel gennaio 99 lo andò a visitare per averne una
lettera in favore di un suo parente, e poi, essendo l'ora molto
tarda, rimase a dormire con lui; che più volte andò a visitarlo di
nuovo per parlargli di cose letterarie, ma non gli riuscì
possibile per le molte persone che si trattenevano con lui, "et
precise quando stava con Gio. Gregorio Prestinaci, et Gio. Jacovo
Sabinis, si ponea à ragionare con quelli et lasciava tutti".
Aggiunse che dopo la venuta di Carlo Spinelli si era detto "che lo
fra Tomase, fra Dionisio, Mauritio et altri forasciti trattavano
di dare, primo si disse, in poter del Papa questo Regno, et poi si
disse che lo volevano dare in mano deli Turchi, et l'hà inteso
generalmente, ma dopò che fu carcerato frà Tomase, l'intese dire
questo dal Capitan Francesco Plotino, et si dicea, che Mauritio
havea trattato con li Turchi et fra Dionisio ancora, et frà Tomase
con altre persune et forasciti seu delinquenti"(81). Così questo
fra Scipione, già intimo del Campanella, se la cavò felicemente, e
non può dirsi che il tribunale sia stato severo con lui.
Ma dobbiamo tornare a Maurizio, il quale aveva esaurito il còmpito
per cui era stato fin allora serbato in vita, onde non si tardò a
farne l'esecuzione. La confronta con fra Dionisio fu l'ultimo atto
giudiziario certo della sua vita. Il Campanella, nella Narrazione,
scrisse pure che "lo portaro... a conurtar F. Pietro di Stilo
prelato del Campanella che confessasse per salvarsi come lui havea
fatto, e poi fatto questo officio iniquo, mandò il carcerere
Alonso de Martinez, et Onofrio a dir al Gesuino, che l'osservasse
la parola: el Gesuino rispose, che non si osserva palabra con
ladrones, e fu appiccato con perdita del corpo et dell'anima".
Lasciamo da parte queste ultime asserzioni, che vedremo bilanciate
da altre diametralmente opposte, e che ad ogni modo rappresentano
la continuazione del disgustoso atteggiamento preso dal Campanella
verso Maurizio. Quanto all'incarico che gli avrebbero dato di
esortare fra Pietro di Stilo, il fatto non può recare sorpresa,
visto lo zelo religioso eccitato in Maurizio, che era anche
parente di fra Pietro; ma è singolare che non se ne trovi qualche
traccia nel processo di eresia, dove gl'incidenti della causa
sogliono trovarsi menzionati in gran numero. Vedremo per altro che
qualche poesia del Campanella si spiegherebbe ottimamente con
questo fatto, e del pari con esso può spiegarsi in gran parte il
non essere stato poi fra Pietro nemmeno chiamato all'esame:
conoscevano che sarebbe risultato ostinatamente negativo, e gli
esami negativi non tornavano convenienti, poichè gl'indizii
raccolti a carico degl'inquisiti principali ne rimanevano sempre
alquanto vulnerati.
Il 3 febbraio era già avvenuto il passaggio di Maurizio dalle
carceri del Castello a quelle della Vicaria, e le scritture di
S.to Officio ce lo mostrano appunto a quella data, come già il
Pisano, innanzi a' Delegati della Curia Arcivescovile, che questa
volta furono i Rev.di Orazio Venezia e Curzio Palumbo Consultori e
Marco Antonio Genovese Avvocato fiscale, riuniti nell'Audienza
criminale della Vicaria. Non bisogna credere che simiglianti
ricorsi al S.to Officio, in punto di morte, si fossero verificati
soltanto in persona dei condannati per la causa presente: era un
uso molto comune a quei tempi, spesso verificatosi senz'altro
motivo che quello di ritardare per qualche giorno l'esecuzione.
Tra le carte venute nelle nostre mani abbiamo p. es. due lettere
del Card.l di S.ta Severina, che trattano delle deposizioni di uno
Scipione Prestinace egualmente di Stilo, celebre bandito
menzionato in qualche documento del Grande Archivio(82) e
decapitato il 17 febbraio 1597, il quale avea dimandato ed
ottenuto di confessare al S.to Officio: e vedremo pure Felice
Gagliardo, sul punto di essere giustiziato più tardi per delitto
comune, fare una lunga deposizione innanzi a quel tribunale.
Relativamente a Maurizio non si potrebbe supporre il motivo sopra
indicato, giacchè l'esecuzione sua era stata già differita anche
troppo; oltracciò non lo troviamo a rivelare in S.to Officio il
giorno medesimo dell'esecuzione, come abbiamo visto in persona di
Cesare Pisano, ma mentre l'esecuzione era stabilita pel 4
febbraio, egli il giorno precedente trovavasi innanzi agli
ufficiali della Curia Arcivescovile da lui richiesti pur sempre
con la clausola "a scarico della mia conscientia secondo me hà
imposto il mio padre spirituale"(83). Ed ecco in breve quanto,
giusta lo stile del S.to Officio, egli "denunziò" contro il
Campanella e fra Dionisio: gioverà conoscere il complesso delle
sue rivelazioni, anche a costo di annoiarsi trovando una
ripetizione di cose già narrate. In primo luogo depose che presso
D. Gio. Jacobo Sabinis il Campanella avea detto essere stato
Cristo un grande uomo da bene, ed aveva anche detto bene de'
turchi (allora era di obbligo dirne male), ond'egli poi in
Castello ebbe ad avvertirlo che stava scandalizzato di quelle
parole, e fra Tommaso gli rispose che lui non conosceva bene li
negozii. Dippiù, che pure nella stessa data, "con occasione della
guerra che voleva cominciare, ò fattione che voleva fare contra il
Re", fra Tommaso disse che voleva "fare brusciare tutti li libri
latini perche era un inbrogliare le gente", senza precisare quali
libri e senza scovrirsi molto con lui per cose di religione,
giacchè egli era stato sempre saldo nelle cose della fede, "anzi
chiarì al detto frà Thomaso che di queste cose di religione non
bisognava trattarne, perche non ci haveria mai consentito", e fra
Tommaso rispose che egli voleva solamente riformare gli abusi
della religione. Inoltre che avea saputo da Gio. Gregorio
Prestinace volere il Campanella "fare una republica dove si
havesse da vivere in commune", ciò che fra Tommaso medesimo gli
confermò, dicendogli "che la generatione humana si dovea fare
dagli huomini buoni" cioè gagliardi e valorosi, e che "con la
medesima occasione della guerra... voleva aprire li sette
sigilli", ricordando che in Calabria dicevasi pubblicamente "che
la scientia di detto frà thomaso sia del demonio ò di Iddio,
perche ogn'uno che parla con esso lo ritira dove vole esso con la
scientia è con la persuasione sua". Aggiunse pure infine, che
intese da fra Tommaso "come quando voleva fare le guerre haveria
fatto deli miracoli, et mostrato con la scientia è raggione che
quello che mostrava esso era ben fatto". Relativamente poi a fra
Dionisio, dichiarò che costui aveva una volta raccontato il solito
fatto osceno in dispregio dell'ostia consacrata, ed anche
l'annegamento di quel sacerdote che a tempo dell'inondazione del
Tevere volea salvare il SS. Sacramento; che un'altra volta, stando
lui, Maurizio, inginocchiato nella chiesa del convento, fra
Dionisio gli disse che così voleva gli uomini, che sapessero
fingere; e un'altra volta, stando a desinare, fra Dionisio, ovvero
fra Tommaso, avea detto che i Cardinali non digiunavano, e le
riforme si facevano per tutti ma non per loro. Aggiunse, dietro
domanda di rivelare i complici, che ricordava solo di avere inteso
dal Vitale suo cognato, giustiziato in mare, che fra Dionisio,
avendo celebrato la messa in Nardò dentro la sua cella, gittò a
terra l'ostia, né credeva a Cristo, né alla verginità di Maria. Da
ultimo, interrogato se avesse deposto per odio, per inimicizia o
per passione, egli appunto allora ricordò che non avea mai
rivelato nulla contro quei frati, malgrado ripetute torture, e
malgrado sapesse che fra Tommaso si era esaminato contro di lui,
né aveva poi detta la verità per altro, se non perché il suo
confessore della Compagnia de' Bianchi lo aveva consigliato a
farlo per obbligo di coscienza. - Così, in fondo, non si ebbero
rivelazioni nuove o numerose di Maurizio, il quale non potea
nemmeno ignorare che vi erano state anche troppe rivelazioni di
eresia, o per debolezza, o per artificio, allo scopo di passare
alla Curia ecclesiastica: né vi fu bisogno per lui di assoluzione
e di abiura, poichè egli non era imputabile in siffatta materia.
Ma l'importanza delle dette rivelazioni per noi sta in questo, che
esse dànno una notevole impronta di autenticità a' tratti
principali dei disegni del Campanella e delle riforme politiche e
religiose da lui progettate, come anche alla via seguìta da fra
Dionisio in questa faccenda; poichè, quasi non occorre dirlo, noi
crediamo pienamente sincere quelle rivelazioni, senza alcuna
riserva, e però siamo stati anche solleciti di riferirle con le
parole testuali. In un momento supremo, quando ogni speranza di
salvar la vita, se mai ve n'era stata, avea dovuto rimanere del
tutto spenta, vedere Maurizio non già ritrattare le confessioni
fatte nel tribunale, ma aggiungere rivelazioni in termini tali da
suggellarle, è certamente un fatto di suprema importanza; né
cesseremo dal dire egualmente da questo lato, che la condotta di
Maurizio si può giudicare inaccettabile ma non mai indegna di
rispetto, e chi volesse ad ogni modo biasimarla dovrebbe rivolgere
i suoi biasimi piuttosto a coloro i quali abusarono di quell'anima
tutta imbevuta della fede in cui era stata educata. Ci rimane
intanto una somma di notizie in tal guisa raccolte, che non
ammettono dubbio.
Il giorno seguente, 4 febbraio, con lo stesso corteggio della
prima volta, Maurizio venne condotto al patibolo, e di rimpetto al
torrione del Castel nuovo, dal quale i suoi compagni di sventura
poteano vederlo, lasciò miseramente la vita col capestro a soli 28
anni. Il Registro de' Bianchi lo ricorda in questi termini: "A dì
4 di febraro Venerdì 1600, per ordine di S. Ecc.a fù giustitia di
Mauritio Rinaldi de Guardavalle appresso Stilo, lascia una
figliuola d'anni tre, nomine Costanza in potere de sua matre
nomine Giulia Vitale; et una sorella d'anni 30 vidua nomine
Costanza. Ve intervennero" etc. Il Campanella, nell'Informazione,
scrisse che "li fecero perder l'anima e 'l corpo, e non li donaro
tempo di ritrattarsi se non alli confrati": bisogna dire che egli
non abbia conosciuto nulla delle rivelazioni fatte in S.to
Officio, e poi sappiamo oggi ciò che avvenne presso i confrati; se
mai vi fossero state discolpe, nel Registro de' confrati si
leggerebbero come si leggono quelle del Pisano. - Dobbiamo
aggiungere che il Residente Veneto, l'8 febbraio, riferiva
l'avvenimento al suo Governo con qualche altra circostanza degna
di nota e ne' termini più lusinghieri per Maurizio; non possiamo
dispensarci dall'esporre qui il suo dispaccio e tutto intero,
senza rimandare i lettori a' Documenti. "Quel Mauritio Rinaldi
doppo haver ratificato alla presentia de i frati autori della
ribellione tutte le cose fra loro accordate in Calavria, propose
da sè stesso di lasciarle comprobate senza più dilatione con la
sua morte perche non habbia loro à restar più speranza di poterle
negar nei tormenti; con che finì la vita nel luogo et modo istesso
dove anco la prima volta era stato condotto pubblicamente. Le
attioni fatte da costui, et vivendo, et morendo sono generalmente
stimate di tanto momento che da esse si possa far giudicio qual
fossero stati i suoi progressi se fosse riuscito l'effetto della
congiura. Et havendo colla volontaria revellatione, per solo zelo
dell'anima sua, mosso l'animo del V. Re, non parendo a S. Ecc.za
in caso di M.tà lesa di dover permutargli la pena della vita, hà
fatto, con atto magnanimo, che la facoltà sua, già per la
sententia confiscata, sia hora divisa in tre parti, una delle
quali sia data per Dio, et una alla madre, et l'altra ad una
figliuola nubile di esso infelice, con la qual gratia gli è parso
morendo rinascere al mantenimento di persone a lui tanto
congiunte". Una testimonianza del tutto disinteressata, come
questa del Residente Veneto, su fatti avvenuti in Napoli, regge
assai bene a fronte delle molte, delle troppe affermazioni
vituperose del Campanella verso Maurizio. Forse, come tanto
spesso, non tutte le circostanze da lui riferite debbono ritenersi
esatte. Verosimilmente non sarà esatto che Maurizio abbia proposto
di voler comprovare con la sua morte le cose da lui rivelate a
carico de' frati, giacchè per lo meno questo non era punto
necessario; del pari non sarà forse esatto che egli abbia saputo
in precedenza, con sua letizia, la revoca almeno parziale della
confisca de' suoi beni, non essendo facilmente ammessibile un così
pronto senso di pietà Vicereale verso un ribelle. Possiamo
ritenere che la confisca non abbia avuto effetto, e forse per
questo motivo son riuscite vane finora tutte le nostre ricerche
nell'Archivio di Stato su tale argomento: vi era l'interesse di
"Dio", cioè de' monasteri, a' quali con siffatto titolo tanto
indegnamente adoperato si prodigava la roba altrui, e vi era anche
il gusto Vicereale di mostrarsi in gara di commozione ne' casi di
coscienza commossa. Ma ci basta sapere che i contemporanei
giudicarono Maurizio ben diversamente da quanto il Campanella ci
lasciò scritto, e crediamo che oramai il nome di Maurizio debba
registrarsi nel martirologio italiano, dandogli lo splendido posto
che gli compete.
Continuava intanto nel tribunale lo svolgimento delle prove a
carico di fra Dionisio. Furono esaminati Mario Flaccavento e Gio.
Battista Sanseverino, i quali confermarono di essere stati da lui
sollecitati a prender parte nella congiura. Anche Fabio di Lauro e
Gio. Battista Biblia fecero la confronta con fra Dionisio; e forse
si udì pure qualche altro contro di lui, giacchè si nota a questo
punto una piccola lacuna nella numerazione de' folii del
volume(84). - Ma giunse finalmente da Roma la lettera che dava
licenza di amministrare la tortura al Campanella e agli altri
indiziati. Il Nunzio si affrettò a comunicarla al Vicerè, e dovè
pure esser subito emanato dal tribunale il decreto per
l'esecuzione. Questa lettera è menzionata in un'altra posteriore
del Nunzio(85), e non si trova nel Carteggio, sicuramente perché
venne inserta nel processo, come allora solevasi fare.
Il 7 febbraio 1600 venne amministrata la tortura al povero
Campanella, e la specie prescelta fu quella così detta del
polledro. Ciò rilevasi da un documento trasmesso dall'uno
all'altro tribunale ed inserto nel processo di eresia, il quale
comincia così: "à tempo si dede lo polletro à fra thomase
campanella ali 7 di febraro" etc.(86). Di questa specie di
tortura, tutta napoletana, non ci è costato poco il rinvenire i
particolari; e li abbiamo finalmente rinvenuti in un trattato di
Medicina legale intitolato Il Medico fiscale di Orazio Greco
fisico della Gran Corte della Vicaria, trattato totalmente ignoto
agli Storici dell'arte, essendo stato annesso ad un'opera
legale(87). Il concetto del polledro apparisce preso da quel
chiuso fatto con barre di legno che adoperavasi per fermare i
polledri indomiti, attaccandone gli arti alle barre mediante
funicelle. Non era un tormento comune: usavasi in casi
d'importanza, ed il Greco, che scriveva oltre un secolo dopo il
tempo di cui trattiamo, accertò che "sin dalle popolari
revolutioni (int. quelle di Masaniello) non si era più
pratticato". Il paziente veniva situato come in una cornice di
legno a modo di scala piramidale, munita di traverse tagliate ad
angolo acuto per cruciare tutta la parte posteriore del corpo,
dalla nuca a' talloni: il capo era incassato come in una cuffia di
legno nella quale la scala terminava; un foro si trovava nella
parte posterior-superiore della cuffia, e fori analoghi si
trovavano lungo gli assi della scala, per far passare gli estremi
di tante funicelle che doveano stringere il capo e gli arti in più
punti. Oltre due funicelle fortemente applicate a' polsi per
tenerli uniti insieme, un'altra ne era applicata alla fronte, due
alle braccia, otto alle cosce e gambe; in tutto 13 funicelle, i
cui estremi passati pe' fori suddetti erano ritorti mediante
bastoncelli di legno, così che le carni venivano strette sulle
ossa; e perché gli arti inferiori non si allontanassero tra loro,
una funicella supplementare era passata intorno agli alluci. Del
resto il Greco ebbe cura di darcene un disegno, e noi abbiamo
creduto che valesse la pena di riprodurlo, per avere una nozione
più chiara di tale tormento, e così intendere ciò che il
disgraziato filosofo ne disse nella sua Narrazione(88). Il
Campanella dovè essere tratto dalla fossa del miglio per avere
questa tortura, e però può contarsi che venne a dimorare nella
fossa sette giorni. Un primo fatto da essere notato nella sua
tortura fu questo, che mentre veniva spogliato gli cadde una carta
contenente la relazione dell'esame del Lauriana, che costui gli
avea scritta, e D. Giovanni Sances la lesse, e il Campanella gli
disse che quella carta volea presentarla; D. Giovanni affermò che
l'avrebbe presentata egli medesimo, ed allora il Campanella gli
consegnò pure una o due cartoline scrittegli dal Pizzoni, dicendo
che le presentasse egualmente. Queste cose furono poi da fra
Dionisio riferite al Vescovo di Termoli, Giudice nel tribunale
dell'eresia, il quale volle da lui una relazione su' documenti
attestanti la corrispondenza passata tra il Pizzoni e il
Campanella; ed il Vescovo, avutane notizia, fece richiesta de'
detti documenti al tribunale della congiura, ed in tal guisa se ne
trova una copia nel processo di eresia. Ma notiamo che si ebbe la
copia di una sola delle cartoline che sarebbero state scritte dal
Pizzoni, oltre la carta che sarebbe stata scritta dal Lauriana: e
la cartolina reca la semplice assicurazione che egli non avea
detto né direbbe mai essere que' tali Signori (certamente i Del
Tufo, Orsini, Sangro etc.) fautori del preteso delitto, ma amici
della persona e delle opere di lui; la carta poi reca veramente
l'esame del Lauriana innanzi al Visitatore e a fra Cornelio,
scritto abbastanza fedelmente, e con ogni probabilità secondo la
vera maniera d'interrogare tenuta dagl'Inquisitori(89).
Questa prima tortura data al Campanella non durò molto. Egli non
resse allo strazio, dichiarò di voler confessare e fece una lunga
confessione, tanto lunga da occupare due sedute in due giorni
diversi: dovè quindi esser posto due volte nel tormento del
polledro con la solita formola "continuando et non iterando" per
mantenere gli effetti legali di una confessione "in tormentis";
così possiamo spiegarci il trovarsi in una Lettera del Campanella
al Papa il 1607, da noi pubblicata, la menzione di "dui polledri",
e in uno de' brani della sua confessione pervenuti fino a noi la
circostanza espressa con le parole "come disse l'altro dì"(90). In
fondo nella sua confessione il Campanella ammise che aveva avuto
il progetto di fare la repubblica e che doveva con altri suoi
compagni predicarla, ma solo nel caso in cui fossero accadute le
mutazioni da lui previste, al quale proposito espose quanto avea
raccolto ne' suoi profetali; inoltre sostenne che avea consigliato
di ricorrere alle armi ma per difendersi, e rigettò poi sempre su
Maurizio le trattative fatte col Turco. Ma un momento di tanta
importanza merita bene di essere esposto con tutta la possibile
larghezza. Vediamo dapprima ciò che ne disse egli medesimo nella
sua Narrazione, avvertendo che egli pone in molto rilievo
l'infermità contratta nella fossa del miglio e qualche altro suo
incomodo, certamente perché dovea sentirsi umiliato dal fatto
dell'avere lui solo confessato, mentre tutti gli altri
ecclesiastici, che vennero dopo di lui egualmente tormentati, non
confessarono nulla, o non aggiunsero nulla a quanto aveano già
detto. "E così infermo lo posero nel tormento del polledro senza
lasciar che andasse prima del corpo... Il Campanella antevidendo,
che era forzato morire, tanto più che il Sances disse al boja che
lo tormentasse a morte e fù stretto con le funi al polledro con
tanta strittura, che si rompevano tutte, e subito le raddoppiava:
et il dolor cresceva tanto horrendamente che lo fecero spasmare,
et uscir di cervello: per questo, secondo havea previsto,
conoscendo che di certo moria se non diceva; però per dar tempo
disse, che volea confessare. E perché il Sances e li giudici non
sapeano di Theologia et Astrologia li levò dalla legge a queste
altre scienze con arte; dicendo ch'era vero, che lui predicò che
si dovea mutar il mondo, el regno, et che s'havea a far una
repubblica nova universale secondo molte revelationi di Santi e
d'Astrologi, e che quando questo fosse succeduto, lui voleva
predicarla e farla, e che sendo dimandato da molti disse a quelli,
che attendessero all'armi, perché occorrendo mutatione fatale da
qualsivoglia banda si difendessero, e facessero la repubblica
antevista nell'Apocalissi di S. Giovanni e nominò molti che
consentiano a questo parere. Ma però non confessò heresia alcuna
né ribellione né voluntà di ribellare. Anzi dice nella sua
confessione, ch'interrogato da Mauritio come potea far questo, li
rispose, che essi non havean d'assaltar il regno; ma con questa
conditionale se venia mutatione, volean far la repubblica nelle
montagne difendendosi come li Spagnoli nelle montagne quando
entraro li Mori. E parlava in tal modo che li giudici si credeano
che confessava, e che solo negava la prattica con Turchi, la quale
nega espressamente, e dice haver ripreso Mauritio perche era
andato su le galere d'Amurat. E perche essi giudici non sanno quel
che dice Arquàto Astrologo, et Scaligero, et Cardàno, e Ticòne e
Gemma Frisio et altri Astrologi della mutatione instante al secol
nostro: né quel che dicon li Santi Caterina, Brigida, Vincenzo,
Dionisio Cartusiano... pensare che queste profezie fossero finte
dal Campanella per tirar la gente a ribellare, e ch'erano false; e
si contentaro di tal confessione, sperando anche che poi nel
tribunal del S. Officio confessasse che quella republica che dicea
voler fare havea d'esser heretica: e così saria stato brugiato".
In verità i Giudici della tentata ribellione non aveano alcun
motivo di preoccuparsi della qualità eretica della repubblica
voluta dal Campanella, qualità che si sarebbe dimostrata più tardi
in un altro tribunale. Bastava loro che venisse da lui confessato
il trattato di far repubblica, per ritenerlo un reo confesso con
tutte le terribili conseguenze legali; e non importava neanche
troppo se per tale repubblica avessero dovuto aversi o no certe
condizioni, se avessero dovuto usarsi le armi in difesa ovvero in
offesa, se avessero dovuto esservi gli aiuti de' potentati esterni
e segnatamente del Turco, da qualunque de' complici invocato. Le
conseguenze legali non variavano punto per tutto ciò, e tale fu
infatti l'opinione che ne portarono i Giudici; lo rileviamo
benissimo da una lettera del Nunzio, in data 11 febbraio. "Nella
causa della ribellione finalmente con poco tormento, per vigor
della facoltà venuta et per la sua (int. la lettera del Card.l S.
Giorgio) de' 24 del passato, che comunicai subito con S. E., si
cavò da quel Campanella tutto il fatto come era passato, se bene
non hà mai voluto chiamarlo ribellione ma detto che voleva far
Repubblica la provincia di Calabria per mezo delle Armi e delle
Prediche, quando però seguissino i garbugli in Italia, che lui si
era presupposto, et intanto andava disponendo gli animi et
procurando seguito; il trattar col Turco dice che fù concetto di
quel Mauritio di Rinaldo, che poi hanno fatto appiccare, non di
meno il negotio resta di maniera scoperto che non par che possa
haver difesa, alla qual cosa se gli è di già dato il termine, e la
commodità, et intanto si seguirà contra complici ch'egli hà
nominato, con i quali si terrà il medesimo modo che si è tenuto
con seco, poichè è riuscito bene". Vedesi qui manifestamente che
neppure il Nunzio diede alcuna importanza a' Profetali esposti dal
Campanella in rapporto al disegno della repubblica da lui
concepito e promosso, e ritenne puramente e semplicemente essersi
avuta la confessione di una congiura o trattato di ribellione, per
lo quale il Campanella era andato disponendo gli animi e
procurando sèguito, né deve sfuggire che egli mostrò chiaro qual
fosse l'animo suo, ed anche l'animo della Curia alla quale
scriveva e doveva ingegnarsi di dar buone notizie, dicendo che il
modo tenuto era riuscito bene, mentre il povero filosofo si era
avviato all'estrema rovina. Da un lato solo l'esposizione de'
Profetali dovè colpirlo ed incutergli anche un certo timore, dal
lato della profonda erudizione e dottrina che il Campanella
palesava; poichè nella stessa data egli si diè subito a chiedere
al Card.l S. Giorgio ed anche al Card.l di S.ta Severina, per la
prossima causa dell'eresia, l'intervento di "persone pratiche e
buoni Theologhi per disputare con quel Campanella, che per haver
abiurato altra volta, com'egli stesso dice, vorrà forse in questo
dar che fare dinuovo", notando che aveva "umore in difendere le
sue opinioni"(91). Da queste parole del Nunzio rimangono appieno
giustificate quelle della Narrazione riferibili più direttamente a
lui, che cioè "li giudici non sapeano di Theologia et Astrologia":
e ci sembra conveniente aggiungere, che da quanto sappiamo
dell'andamento della confessione potrebbero risultare giustificate
anche certe parole del Giannone intorno alla medesima. Il
Campanella ci lasciò scritto, e non stentiamo a crederlo, che gli
orrendi spasimi lo fecero "uscir di cervello"; da parte sua,
almeno nel 1° giorno, chi sa in qual modo il Mastrodatti potè
seguirlo nelle considerazioni apocalittiche dettate con una
inevitabile confusione; non può quindi sorprendere l'impressione
avuta dal Giannone quando ebbe a leggere nella copia del processo
"la sua lunga deposizione fatta nel mese di febbraio... nella
quale (egli dice) a guisa di fanatico e di forsennato, sia per
malizia, sia per lo terrore, ora affermando, ora negando, tutto
s'intriga e s'inviluppa".
C'incombe pertanto l'obbligo di vedere più da vicino ed anche
commentare sobriamente la confessione del Campanella, adunando i
brani a noi pervenuti con gli Atti esistenti in Firenze, e
riportandoli secondo il testo del sunto fattone dal
Mastrodatti(92). Non si avrà l'intera confessione e tanto meno la
precisa fisonomia di essa, ma se ne avranno i punti di maggior
rilievo, pe' quali risulterà sempre più chiara la posizione
derivatane a lui medesimo ed a' compagni suoi propriamente
ecclesiastici. Notiamo innanzi tutto che ci mancano i brani
relativi alle Profezie ed a' pronostici, i quali doveano
verosimilmente occupare i fol. 28 e 29 del processo, ed abbiamo
solamente alcuni di quelli compresi tra il fol. 30 e 34; essi
cominciano dalla esposizione del partito che il Campanella
intendeva trarre dagli avvenimenti previsti, e furono riferiti dal
suo Avvocato nella Difesa. "Che soccedendono detti romori, et
revolutioni, che lui per Profetie et altri segni prevedea, con
detta occasione si volea forzare fare detta Provincia di Calabria
Republica, che con pigliare li monti si hariano mantenuti, et con
questo il Papa et Rè di Spagna li hariano lasciati vivere in
Repubblica, Che dicendoli Mauritio che detta Republica non si
possea fare senza aiuto di Potentati esterni, Lui rispose che non
havevano d'assaltare il Regno, et per questo non haveano bisogno
di potenza esterna; mà che con la mutatione del Regno, che havea
da soccedere secondo havea trovato per Profetie, loro soli
bastavano con l'eloquenza et con gl'amici. Che l'Imperio Torchesco
s'havea da dividere in due parti, Et una saria stata da parte de
Christiani, Et un'altra dalla parte Maumettana, et che di quella
parte di Christiani se n'haveriano visto dove per fato
inclinavano. Che havendoli ditto Mauritio, che lui era andato
sopra le Galere Torchesche à parlare con Morat Rais, che l'havesse
voluto dare aiuto in fare detta Republica, esso fra Thomaso lo
riprese di questo, che non havea fatto bene, per che li turchi
sempre sogliono essere infedeli et inimici. Che lui dicea che
succedendono detti romori, et mutationi nel Regno, si seriano
fatti grandi, ò della parte del papa, ò della parte del Rè. Che in
detto anno del 600 havea da essere unum ovile et unus Pastor, et
che lui con li compagni suoi Monaci con detta occasione haveriano
predicato in favore di detta Republica profetizata in benefitio
del Papa". Ma dovè nominare quelli co' quali egli avea fatti tali
discorsi, in ispecie poi i frati compagni suoi che avrebbero
predicato con lui, giacchè il tribunale doveva occuparsi appunto
degli ecclesiastici; ed ecco nominati parecchi, e s'intende che a
noi sono propriamente pervenuti i nomi degli ecclesiastici già
carcerati. Forse si era al secondo giorno, ed egli avea dovuto
riflettere a' casi suoi; ad ogni modo troviamo qui pure l'animo
suo, come sempre, soggetto all'impeto de' risentimenti, malgrado
la confusione suscitata dall'atrocità de' dolori. Scorgesi infatti
senza riguardi verso il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo, che si
erano da poco tempo confrontati con lui a suo danno, abbastanza
riguardoso verso fra Dionisio e naturalmente anche più verso fra
Pietro di Stilo, abbastanza riguardoso perfino verso Giulio
Contestabile, al quale già prima in Calabria, per lo stesso motivo
de' risentimenti, aveva usato tutt'altro che riguardi. "In
interrogatione chi sono questi altri religiosi, che volevano
agiutare col predicare et eloquentia in detta Republica et Novità?
dice che era esso deposante, Fra Gio. Battista de Pizzoni, frà
Dominico Petrolo, frà Silvestro de Lauriana, frà Dionisio Pontio,
et frà Pietro de Stilo lo seppe all'ultimo quando stavamo per
fugire, et non seppe manco tutto lo negotio, et non ci confidiamo
comunicarli questo, per che era un pazzo"! Con questo titolo di
pazzo, dato al più giudizioso della compagnia, evidentemente egli
quasi venne a porre fra Pietro di Stilo fuori causa. Rispetto a
fra Dionisio non potea fare altrettanto, e si limitò a dire che
"era consapevole di quanto si trattava, et esso fra Dionisio havea
trattato, et parlato di questo negotio di fare republica la
provintia in genere con fra Gioseppo Yatrinoli et fra Gioseppo
Bitonti, et con Cesare Pisano, li quali vennero una sera à Stilo,
et la matina per tempo si partero et non li parlò". Rispetto al
Pizzoni fu più largo ed anche molto ostile, a differenza di quanto
avea fatto nella Dichiarazione scritta in Calabria. "La prima
volta che esso frà Thomaso ne parlò con detto frà Gio. Battista fù
l'anno passato del mese di Settembre 98 in Stilo, conferendo certe
conclusioni che esso frà Gio. Battista havea da tenere nel
capitolo". In dette conclusioni "trattò... de statu optimae
Reipublicae, et dicendoci Io le legge di quella, Lui disse,
volesse Dio, che si trovasse, ma è quella di Platone, che non si
trovò mai, et Io le risposi che s'haverà da trovare questa
republica innanzi la fine del mondo per compire li desiderij
humani del secolo d'oro, et che così era profetato, et non se ne
parlò più, et dopò à Giugnetto 99. venne fra Gio. Battista à
Stilo, et per strada ragionammo, et li disse io tengo per fermo
che l'anno 600 facendosi mutationi, ne haveriamo fatti grandi ò da
la parte del Papa, ò da la parte del Rè, et lo frà Gio. Battista
cominciò à dire venesse presto questa mutatione, finalmente disse
che io volesse andare à Pizzoni à parlare con Claudio Crispo et
animarlo con questa novità, che non pigliasse moglie. Et in
conformità di questo quando frà Gio. Battista me disse che volea
portare Claudio Crispo in Arena li persuadesse che non si
maritasse, per che volea che ll'agiutasse à fare le sue vendette,
et finalmente dopò d'essere andato à Pizzoni rechiesto da frà Gio.
Battista, mi parlò Claudio, et ragionammo un giorno sopra
l'astrolabio, acciò che con questa occasione havesse possuto
subintrare a trattare con detto Claudio de la mutatione del mondo,
et persuaderlo à volersi trovare pronto à la novità predetta, et à
fare la Provintia di Calabria Republica, et in quella occasione
havendosi aboccato esso deposante con Claudio Crispo presente fra
Gio. Battista Pizzoni li dissi, che la fine del mondo era presta,
et che innanzi à questo havea da essere una Republica la più
mirabile del mondo, et che li monaci di san Domenico l'haveano da
preparare secondo l'apocalissi, et che havea da cominciare
dall'anno 600, et esso Claudio s'offerse stare in ordine, et se
ricorda ancora esso deposante che in Arena li mostrò una lettra, à
Claudio Crispo, et à fra Gio. Battista Pizzoni di Giulio
Condestabile, dove l'avisava che Mauritio era andato sopra le
galere in Costantinopoli (sic). Et dice de più che frà Gio.
Battista Pizzoni, et Claudio Crispo mandorno à chiamare Eusebio
Soldaniero da Serrata per frà Silvestro Lauriana, et non ci volse
venire. A frà Silvestro Lauriana esso deposante non hà parlato di
questo negotio, se non genericamente, dicendo, volesse Dio, che
fusse tutto quello, che aspettamo, presupponendo, che lo sapesse
per quanto frà Gio. Battista m'havea referito". Citò pertanto (e
questo forse era un po' troppo) anche il Lauriana tra quelli "che
volevano agiutare col predicare et eloquenza... con li quali da
Pasqua di resurrettione dell'anno passato 99 in quà havea trattato
di fare detta Republica, et mutatione". Rispetto al Petrolo
dichiarò avergli "parlato à Stilo dicendoli che nell'anno 1600
havea da cominciare ad essere Unum ovile, et Unus Pastor, et che
noi haveriamo predicato in favore di questa republica profetizata
in beneficio del Papa, et che il Papa l'haveria esaltati perché
loro si voleano pigliare alcuna parte della Provintia, et esso fra
Domenico si ne contentava, et di questo ne hà parlato più volte,
et esso fra Domenico era tutto cosa di esso deposante, et sempre
lo hà sequitato, et cossì se offerse sequitarlo in questo". Onde
lo citò egualmente tra' futuri predicatori, ed aggiunse che "con
fra Domenico petruolo et fabritio Campanella andammo a Davoli, et
trovò Mauritio che stava in casa di donno Marco antonio pittella,
et per lettre Mauritio mandò a chiamare da Catanzaro Gio. thomase
franza, et Gioan paulo de Cordoa". Infine rispetto a Giulio
Contestabile confermò che era intervenuto al trattato, "quale si
contentava trovarsici et era uno delli capi", aggiungendo ch'un
giorno del mese di Maggio il detto Giulio steva in camera d'esso
fra Tomaso, et dicea male del Capitano di Stilo ch'era spagnolo,
et in questo il vento fe cascare in terra il ritratto del Rè
nostro Sig.re, et detto Clerico Giulio uscendo la porta l'incontrò
innanti, et lo calpestrò, dicendo, mira à che stamo soggetti, à
uno sbarbato, Re dell'uccelli". Fu dunque il vento che fece cadere
il ritratto del Re, e Giulio l'incontrò innanti e così ebbe a
calpestarlo, non già che lo prese e se lo pose sotto i piedi,
secondochè il Campanella medesimo avea dichiarato in Calabria: non
è dubbio qui che il risentimento con Giulio Contestabile si era
calmato, e il fatto di lui veniva attenuato; invece col Pizzoni,
col Lauriana e col Petrolo, il risentimento era vivissimo, e i
fatti occorsi con loro venivano aspramente asserti.
Da' suddetti brani, i soli che ne rimangono e così trivialmente
redatti, possiamo rilevare che la confessione orale in tortura non
suggellava soltanto la dichiarazione scritta, ma faceva anche
emergere manifesto il disegno del Campanella di rendere il paese
indipendente da Spagna e costituirlo in repubblica, essendone
autore non altri che lui, ed avendolo ad istanza di lui accettato
diversi frati che doveano d'accordo predicarlo, come pure diversi
laici, specialmente fuorusciti, che doveano con le armi per lo
meno sostenerlo. Vero è che tale disegno presentavasi subordinato
alla condizione di future rivolte e mutazioni; ma questo importava
poco, non potendosi ammettere nemmeno con riserva l'apostolato per
una forma di Governo diversa da quella costituita, e tanto meno il
preparativo dell'azione rappresentato dalle ricerche e concerti di
persone che doveano promuovere quella forma di Governo con la
parola e con le armi. D'altronde non appariva decifrabile per
opera di chi sarebbero avvenute le rivolte e le mutazioni
antivedute con le Profezie e co' segni astronomici, né in qual
modo la detta repubblica dovesse riuscire tollerata dal Papa e dal
Re, essendo stata profetizzata in beneficio del Papa; egualmente
non appariva decifrabile che il Campanella, mentre non voleva
l'aiuto de' turchi per la detta repubblica ed avea rimproverato
Maurizio che si era spinto a chiederlo, ammettesse doversi una
parte de' turchi porre dal lato dei Cristiani, ed avesse
continuato a trattare con Maurizio il quale avea concordato
l'aiuto de' turchi, e a confabulare con persone disposte o
chiamate a fare delle armi un uso più spinto e più pronto. Con ciò
manifestamente veniva confermato quanto il Pizzoni, il Lauriana,
il Petrolo, oltrechè molti laici, aveano deposto contro di lui,
quanto aveano denunziato Biblia e Lauro, potendo solo ammettersi
che l'avessero denunziato con la più grande ed iniqua
esagerazione. E veniva in pari tempo giustificato quanto il
Governo avea detto e fatto sin allora, potendo solo ammettersi che
avesse tollerato negli ufficiali suoi lo sfogo della loro
ambizione e rapacità sulla povera Calabria, considerandola già
ribellata, e però "macchiandola di falsa ribellione", come ebbe a
scrivere il Campanella, e come si trova anche scritto, con le
medesime parole, dal Residente Veneto, benchè, al pari di altri
Agenti accreditati in Napoli, non avesse mai posto in dubbio la
congiura o il tentativo di ribellione(93). - Al Campanella potè
sembrare, come nella Narrazione ci lasciò scritto, che non avesse
confessato "né ribellione né voluntà di ribellare" e che i Giudici
"accortisi che la confessione era erronea, perché li altri non
pigliassero la medesima fuga, non fecero ch'esso Campanella
facesse la confronta a F. Dionisio, et a gli altri, come la facean
fare da tutti l'altri che confessavano". Ma naturalmente i
Giudici, per quanto videro chiara e limpida, e niente affatto
erronea, la confessione di aver voluto ribellare, altrettanto
videro oscura e misteriosa, ed al postutto indifferente, la
condizione alla quale si diceva subordinata: né ebbero a temere
che fra Dionisio e gli altri, con la confronta avrebbero pigliato
"la medesima fuga", poichè non accordavano alcun valore a questa
fuga, la quale, per essere stata così denominata dal nostro
filosofo, dovrebbe tradursi sotterfugio, onde le profezie e le
vedute astrologiche risulterebbero, se non finte, certamente
evocate "per tirar la gente a ribellare". E conviene aggiungere
che fu una buona fortuna pel Campanella il non essere stata
ordinata dai Giudici la sua confronta con fra Dionisio e compagni,
poichè null'altro poteva seguirne, se non che costoro sarebbero
risultati convinti per opera sua; e fra Dionisio principalmente,
che dovè senza dubbio irritarsi per la confessione del Campanella
e ne vedremo una prova più in là, avrebbe ben a ragione finito con
odiarlo a morte dopo una confronta. In conclusione non può recare
maraviglia che i Commissarii Apostolici si fossero trovati
d'accordo nel giudicare il Campanella "confesso"; in tal guisa
egli trovasi qualificato negli Atti due volte, ed è superfluo
dirne le conseguenze(94).
Secondo la procedura del tempo, in questi giudizii celeri, non
appena esauriti per ciascuno inquisito tutti gli Atti informativi
ed offensivi, fatta anche ratificare la confessione nel giorno
seguente a quello della tortura allorchè essa era stata
amministrata, i Giudici emanavano un decreto che ordinava la
consegna di una copia degli Atti all'inquisito con la conclusione
del Fiscale, assegnando un termine di pochi giorni per la difesa,
ed all'occorrenza deputando anche un Avvocato di ufficio. Il
Mastrodatti allora, che avea già preparato ogni cosa, trasmetteva
in via legale la copia degli Atti, l'assegnazione del termine etc.
all'inquisito, ed anche un Riassunto degl'indizii a' Giudici.
L'Avvocato quindi ponevasi in relazione col giudicabile, scriveva
l'Atto di difesa, che comunicava al tribunale nel termine
stabilito, e poi attendeva la notificazione di un altro decreto ad
dicendum per la trattazione della difesa, ciò che del resto
importava solo la dimanda se avesse altro da aggiungere alla
Difesa scritta. Debbono dunque riferirsi al tempo cui siamo
giunti, alla 2a metà del mese di febbraio 1600 il Riassunto
degl'indizii, alle prime settimane di marzo la Difesa scritta
dall'Avvocato pel Campanella, ed anche la Replica scritta dal
Fiscale, i quali Atti, come quelli analoghi successivamente
compilati per gli altri incriminati ecclesiastici, rimasero nelle
mani del Nunzio, e pervennero quindi con altre carte di lui
nell'Archivio di Firenze(95). Riserbandoci di esporre a suo tempo
gli Atti sopra menzionati, qui dobbiamo notare che al Campanella
fu assegnato per difensore il dott.r Gio. Battista de Leonardis
Regio Avvocato de' poveri, e da una poesia di fra Tommaso a lui
diretta vedremo che costui ebbe l'incarico di difendere anche gli
altri frati inquisiti. Allorchè il Vescovo di Termoli, uno de'
Giudici dell'eresia, scrisse a Roma la sua opinione su questa
causa della congiura, tra le altre cose fece conoscere che "non si
trovò un dottore il quale avesse voluto scrivere in jure a loro
favore"(96). Ciò deve intendersi nel senso che si cercò e non si
trovò un Avvocato particolare, e con ogni probabilità il Vescovo
intese parlare segnatamente di fra Dionisio, poichè il Campanella
e gli altri non ne avrebbero avuto i mezzi; ad ogni modo poi
l'Avvocato de' poveri non era una persona da nulla. Nato in
Cicciano presso Nola, da umili origini, Gio. Battista de Leonardis
si era dapprima mostrato uomo di lettere tale da venir chiamato ad
insegnarle pubblicamente in Cosenza, dove cominciò anche
l'esercizio dell'avvocatura; ridottosi poi in Napoli e studiato
accuratamente il diritto, era già un dottore ben conosciuto,
quando con Privilegio del 30 settembre 1599, visto e promulgato il
26 gennaio 1600, fu chiamato all'ufficio di Avvocato de' poveri
della Vicaria in luogo di Antonio Catalano(97). - Ma nel medesimo
tempo avvenne pure un altro fatto, che il Campanella ci fece
conoscere nella sua Narrazione e che finora non ci risulta da
verun altro fonte; sicchè gioverà tanto più esporlo qui con le
parole medesime della Narrazione. "Però dandoli le difese poi al
Campanella e l'Avvocato de' poveri...(98) il Sances Fiscale finse
che per curiosità desiderava sapere in che profetie fondava questi
suoi detti, e li fece scriver dal suo notario dettando il
Campanella molti articoli profetali: li quali esso Sances portò a'
Gesuini, et ad altri, e molti di quelli dissero, che Campanella
havea ragione e che non eran finte per ribellare. Però li mandò
molti Gesuini, e Theologi Spagnoli a disputare. Li quali si
divisero, altri dicendo che diceva bene, altri che no. El
Campanella allegò li predetti Santi, et Astrologi et il Cardinale
anche Bellarmino. E poi disse, che quando pur fosser false le
profezie sue, questa non era confessione di ribellare, ma di
falsificar la Theologia, et appartiene al S. Officio, non a loro".
Ci fermiamo a questo punto, non senza raccomandare a' lettori di
percorrere tutto il resto che il Campanella narrò a tale
proposito. E ripetiamo che non vi sono altre notizie capaci
d'illustrare il fatto, ma dobbiamo ad ogni modo avvertire che
questi Articoli profetali di cui qui si parla, dettati al notaro
della causa della ribellione ad istanza del Sances, non debbono
confondersi con quelli che il Campanella scrisse egli medesimo
come una delle sue difese: noi li abbiamo trovati nel processo di
eresia, presentati in giugno dell'anno seguente, e dovremo
parlarne più in là.
Come abbiamo visto dalla lettera del Nunzio sopra riportata, l'11
febbraio già si era dato al Campanella "il termine e la commodità"
per la difesa, e si era deciso di seguire con gli altri lo stesso
metodo, cioè quello delle torture acri. Infatti può ritenersi con
sicurezza che i fol. 35 e 36 del volume siano stati occupati dalla
ratificazione della confessione del Campanella e dal decreto per
l'assegno del termine e deputazione dell'Avvocato; ed ecco il fol.
37 occupato dall'Atto della tortura data a fra Dionisio(99). Il
Riassunto degl'indizii contro costui ci dice che gli fu dato
egualmente il polledro e non confessò nulla, e un brano di lettera
del Vescovo di Termoli, inserto ne' Sommarii del processo di
eresia, ci fa conoscere che "fu tormentato con 'l tormento del
polledro, et delle 19 funicelle (sic) con le quali era tormentato
7 se ne ruppero nell'atto della tortura datali per
ribellione"(100); vedremo nel medesimo processo che fino a tutto
giugno egli non potè firmare gli Atti che lo riguardavano, e dovè
segnarli portando la penna stretta tra' denti, giacchè i polsi
torturati non si prestavano. Dopo fra Dionisio venne la volta del
Pizzoni, il quale ebbe la corda aggravata da' funicelli per quasi
due ore, e nemmeno confessò(101): come riferì lo stesso Vescovo di
Termoli, "fù ligato con li funicelli e posto alla corda per la
causa della ribellione et è restato stroppiato d'un brazzo";
infatti vedremo che una delle sue spalle non guarì mai più, e
questa lesione l'avviò alla morte durante il processo di eresia.
Nella stessa seduta, o in una seduta successiva, furono
interrogati il Clerico Gio. Battista Cortese e il Sacerdote D.
Andrea Milano, che si ricorderà essersi trovati nominati in una
lettera di Claudio Crispo a Geronimo Camarda, la quale parlava
della congiura e futura vittoria nel mese di settembre: non
sappiamo ciò che essi risposero, ma possiamo ritenere per certo
che non si passò oltre contro di loro. E si ripigliarono subito le
torture col Petrolo, che ebbe la corda per due ore ed egualmente
non confessò: sappiamo da lui medesimo la specie di tortura avuta,
poichè quando l'ebbe di nuovo nel 1603 per l'eresia, rivolto al
Nunzio esclamava, "hoggi fanno tre anni, e fù pur Sabbato come
hoggi che hebbi un'altra volta la corda". Poi si venne a Giulio
Contestabile che non era stato interrogato ancora, onde si
raccolse la sua deposizione che riuscì negativa; e si passò al
Bitonto e gli si diede la tortura "ad sciendum complices et
fautores citra prejudicium probatorum", ed egli come tutti gli
altri, ad eccezione del Campanella, non confessò, sicchè il metodo
vantato dal Nunzio non riuscì. Possiamo affermare che non vi
furono altre torture di frati, e però in conclusione l'ebbero
solamente il Campanella e fra Dionisio mercè il polledro, il
Pizzoni, il Petrolo e il Bitonto mercè la corda forse in tutti
aggravata da' funicelli per due ore: questo risulta dal cenno
fattone in coda a' rispettivi Riassunti degl'indizii che si
conservano in Firenze; e dietro la scorta del medesimo fonte
dobbiamo dire che per fra Paolo della Grotteria si procedè al solo
interrogatorio, mentre pel Lauriana, per fra Pietro di Stilo e fra
Pietro Ponzio non vi furono nemmeno altri interrogatorii, e si
ritennero sufficienti quelli fatti da fra Marco e fra Cornelio e
dal Vescovo di Gerace. - Immediatamente dopo il Bitonto ebbe la
tortura anche Giulio Contestabile, per quasi due ore cum funiculis
come dice il Riassunto degl'indizii compilato contro di lui, ed
egli nemmeno confessò: naturalmente così a lui come a tutti gli
altri, mano mano che si esaurivano gli Atti offensivi, era
decretata la consegna della copia del processo, l'assegno del
termine per le difese, la deputazione dell'Avvocato ufficioso
qualora non avessero un Avvocato particolare; e vedremo tra poco
che il Contestabile si provvide di un Avvocato particolare.
Tutto ciò fu compìto nella 2.a metà di febbraio e 1.a metà di
marzo, con molta sollecitudine, poichè intendevasi finir presto
ogni cosa, per liberare i parecchi prigioni poco o punto indiziati
e quindi passare alla causa dell'eresia, come il Nunzio facea
sapere a Roma. Difatti nello stesso periodo or ora indicato furono
liberati dapprima otto, poi altri quattro, in tutto dodici
incriminati ecclesiastici, come si rileva da due lettere del
Nunzio, l'una del 3 e l'altra del 10 marzo, che gioverà riportare
testualmente. "La causa della ribellione si tira avanti con ogni
diligenza, et di già si è ordinato la liberatione di 8 fra Frati
et Clerici che si trovavono presi per diversi sospetti senza
fondamento et 4 altri spero ne liberaremo domani, poichè i
principali sono tutti essaminati, et di già si vede in che il
negotio potrà principalmente parare, et per che la medesima Ecc.za
mi hà richiesto che i Calabresi che dovranno come hò detto
liberarsi non si lascino così subito ritornare in Calabria, gli hò
detto che si farà con un Precetto che non partino di Napoli senza
licenza, parendomi cosa che come propone possa esser di qualche
consideratione, che tornino là persone avanti che il negotio si
finisca che sieno informati come gira, et ne suscitino qualche
nuovo bisbiglio; procurerò che si risolva quanto prima per manco
incommodo di quei poveri huomini" (3 marzo). "La causa della
ribellione si tira avanti con la solita diligenza, et di già se ne
sono liberati 12 fra regolari et Clerici, et la prohibitione del
partirsi che le scrissi con altra si è ristretta à due frati
Domenicani, che non tornino in Calabria senza licenza, et altrove
vadino dove vogliono" (10 marzo). Non si potea veramente procedere
con maggior sollecitudine: il tribunale teneva sedute quasi ogni
giorno, come si rileva da un'altra lettera del Nunzio della stessa
data (10 marzo) che dice, "dal Venerdì in poi che l'occupo in
dettar lettere, et le feste, gli altri tutti si va in
Castello"(102). Trattandosi d'individui non trovati delinquenti,
ai termini del Breve i Giudici aveano facoltà di pronunciare
senz'altro la sentenza; per essi non c'era la limitazione di
procedere usque ad sententiam exclusive, ed è poi facile
conoscerne i nomi guardando l'Elenco degl'incriminati
ecclesiastici(103). I primi otto furono: D. Gio. Battista Cortese,
D. Gio. Andrea Milano, fra Scipione Politi, fra Francesco di
Tiriolo, D. Marco Petrolo, fra Pietro Musso, D. Domenico Pulerà,
fra Vittorio d'Aquaro; gli altri quattro furono D. Colafrancesco
Santaguida, fra Giuseppe Perrone di Polistina, Giovanni Ursetta e
Valentino Samà. Di tutti costoro vennero esaminati solamente il
Cortese e il Milano; e i due Domenicani, a' quali si vietò di
tornare in Calabria, doverono essere il Tiriolo ed il Musso,
mentre contro fra Giuseppe di Polistina, come contro qualche
altro, non si potè neanche compilare un Riassunto d'indizii, non
essendosi trovata in processo cosa alcuna. Rimasero dunque in
carcere nove frati Domenicani compreso il Campanella, e dippiù il
clerico Giulio Contestabile; vi pervenne poi molto più tardi, come
vedremo a suo tempo, il clerico D. Marco Antonio Pittella, il
quale era scappato di mano alle guardie in Calabria, ma fu
ripigliato nel 1601. E non è dubbio che gli Atti difensivi ebbero
immediatamente corso pel Campanella, per fra Dionisio e per gli
altri frati; così pure per Giulio Contestabile, e vi è motivo di
ritenere che co' suoi mezzi costui abbia potuto far precedere la
difesa della sua causa, essendo stato in grado di presentare in
suo favore, senza ritardo, documenti, testimoni ed un Avvocato
proprio.
La Difesa scritta per Giulio Contestabile ci fa intendere le
accuse formolate dal Fiscale contro di lui, e ci dà notizia de'
documenti e testimoni da lui presentati(104). Secondo il Fiscale,
Giulio Contestabile dovea dirsi uno de' capi della congiura dietro
la Dichiarazione del Campanella, la cui amicizia con Giulio era
confermata da sei testimoni uditi in Calabria, come pure dietro le
deposizioni del Caccìa, del Vitale e dello stesso Maurizio
nell'ultima sua confessione; inoltre dovea dirsi reo di fatti e
detti in dispregio di S. M.tà dietro le rivelazioni del Campanella
e del Petrolo, e indirettamente anche di fra Pietro di Stilo. I
documenti prodotti da Giulio furono: un certificato di buona vita
e fama, rilasciato dall'Università, clero e particolari di Stilo;
l'istrumento pubblico di pace tra' Contestabili e Carnevali,
stipulato mercè l'opera del Campanella e non ratificato; le fedi
di tre Confessori che aiutarono a ben morire il Caccìa, attestanti
la revoca della sua confessione fatta per forza di tormenti. I
testimoni furono quattro: essi affermarono principalmente (con
poca verità) che Giulio e il Campanella erano nemici prima del
maggio 1599, fin dal gennaio di quell'anno, ma dal maggio "né si
parlavano, né si cavavano la berretta". E l'Avvocato si appoggiò
moltissimo a questa circostanza dell'inimicizia anteriore, e cercò
di confermarla anche col fatto, che appena venuto lo Spinelli in
Calabria, Giulio avea dato accuse scritte contro il Campanella, e
procurata presso D. Carlo Ruffo commissionato dello Spinelli una
commissione pel cognato Di Francesco in persecuzione del
Campanella e complici, come pure il Campanella avea date
egualmente accuse scritte contro Giulio ed avea sedotto il Petrolo
a far lo stesso, mentre poi le sue affermazioni non poteano far
fede, essendo lui "notato d'infamia per avere abiurato de
vehementi"(105). Invalidò inoltre le deposizioni del Caccìa,
notando che costui non avea determinato il genere di discorsi
passati tra Giulio e il Campanella, che era stato esaminato da un
tribunale incompetente, e poi in ultimo avea revocato i suoi esami
presso i Confessori. Invalidò la deposizione del Vitale, notando
che non era stata fatta la ripetizione di lui innanzi a'
Commissarii Apostolici, né egli avea potuto conoscere da Maurizio
la partecipazione di Giulio nella congiura, mentre Maurizio
medesimo avea rivelato che la cosa gli era stata detta dal
Campanella nelle carceri di Napoli, ed allora il Vitale era stato
già giustiziato. Invalidò ancora la rivelazione di Maurizio,
notando sempre che non era stata fatta la ripetizione di lui
innanzi a' Commissarii Apostolici, ed aggiungendo che egli non
avea potuto parlare col Campanella trovandosi rinchiusi non solo
in carceri separate ma anche in torrioni separati (fatto non
vero), né poteva credersi che Giulio fosse entrato in un concerto
nel quale erano capi il Campanella e Maurizio, entrambi notorii
nemici suoi. Infine, quanto all'avere Giulio oltraggiato il
ritratto del Re, gli bastò mettere in rilievo le contraddizioni
tra le rivelazioni del Campanella e quelle del Petrolo, e tra le
prime ed ultime rivelazioni del Campanella medesimo. - Con
siffatti argomenti l'Avvocato potè far ritenere Giulio
Contestabile qual semplice sospetto di complicità, e così poi,
allorchè molto più tardi si venne alla sentenza, il Contestabile,
aiutato forse anche dalle potenti raccomandazioni delle quali
vedremo che disponeva, riuscì a cavarsela con la condanna ad una
pena relativamente mite.
Poco dopo, o tutt'al più contemporaneamente, venne fuori la Difesa
del Campanella scritta dal De Leonardis: e in sèguito di essa una
Replica di D. Gio. Sances. Ad entrambi questi Atti possiamo
facilmente assegnare la data delle prime settimane di marzo,
poichè certamente durante il marzo le difese doverono essere
discusse: vedremo infatti esservi state negli ultimi giorni di
marzo e primi di aprile le feste di Pasqua, e poco dopo, il 12
aprile, la richiesta del Sances a' Giudici di venire alla
spedizione della causa. La Difesa scritta dal De Leonardis mostra
che pel Campanella non ci furono né documenti né testimoni a
discarico: nulla di simile vi si trova citato, e chiaramente vi si
scorge che l'Avvocato sentiva di scrivere per una causa persa,
giacchè il Campanella non poteva non dirsi convinto e confesso
qual capo della congiura o tentata ribellione(106). Fin
dall'esordio della Difesa l'Avvocato non potè fare a meno di
riconoscere una criminosa cospirazione contro la Real M.tà; se non
che goffamente magnificò la clemenza e la bontà di Filippo III,
per avere ordinata questa Difesa, ed affermò che da parte sua
avrebbe voluto dilaniare e fare a brani con Neronica voluttà
"simili facinorosi delinquenti", e dichiarò che per obbedienza
agli ordini del Vicerè presentava al Nunzio e al De Vera
"dottissimi e religiosi Giudici Apostolici" le ragioni che gli
parevano favorevoli alla causa. Due questioni egli vide nella
causa: la 1a, se il Campanella, dato che fosse reo di tale delitto
di lesa Maestà, potesse consegnarsi alla Curia secolare, e
siffatta questione egli dovè riconoscere già sciolta col Breve
Papale, che ne avea dato larga facoltà a' Giudici Apostolici; la
2a, se il Campanella avesse commesso tale delitto di lesa Maestà,
che dovesse consegnarsi alla Curia secolare, ciò che equivaleva a
condannarlo alla morte, e sopra tale questione egli stimò aversi a
considerare le circostanze del fatto e la qualità della persona.
Notò quindi che il Campanella non gli pareva "legittimamente
convinto" giusta i termini del Breve, poichè tutti i testimoni
erano socii del delitto, i quali bastavano a provare la congiura,
ma non bastavano a far condannare alla pena di morte, massime in
persona di un Clerico in sacris, contro il quale occorreva sempre
una forma più privilegiata che nel Laico; oltracciò tutti i
testimoni lo aveano detto capo della congiura, e per esservi
congiura avrebbe dovuto esservi concerto di molti a fine di
sovvertire lo Stato, ma i testimoni medesimi aveano detto che
doveano fatalmente avvenire rumori e rivoluzioni nel Regno, ed
allora egli avrebbe sottratta la Provincia alla potestà Regia, ma
allora si era già verificata la sovversione dello Stato. Non gli
pareva poi nemmeno confesso di congiura e per questo
legittimamente convinto, mentre dalla sua confessione non
risultava "una così grande ed acerba cospirazione quale era stata
asserta da' testimoni", perché appunto egli voleva far la
repubblica quando fatalmente succedessero rumori e rivoluzioni, e
non aveva mai approvato l'aiuto de' turchi. Aggiunse inoltre che
la congiura non doveva avere una esecuzione prossima ed immediata,
e poteva anche non verificarsi o poteva verificarsi in un senso
buono, essendo preferibile nel caso di grossi trambusti, che si
costituisse la repubblica dall'inquisito con la volontà del Papa e
del Re, rimanendo impedita la conquista a' nemici invasori. In
somma trattavasi della preparazione ad un mutamento in caso di un
futuro evento dubbio, e l'inquisito non era suddito del Re e non
avrebbe quindi dovuto mandarsi a morte come se il delitto fosse
stato consumato o vi fosse stato disegno di uccidere il Re; non
era poi l'inquisito nemmeno tale da poter sovvertire uno Stato, e
quindi la pietà e l'equità de' Giudici Apostolici poteva fargli
scansare la morte, "salvo sempre il più sano giudizio e l'autorità
della Sede Apostolica", in servizio della quale e del Re Filippo
egli, l'Avvocato, avrebbe voluto volentieri morire se fosse stato
necessario! - Messe da parte le goffe ampollosità del tempo,
rimane che il De Leonardis cercò, per quanto potè, di salvare il
Campanella dalla morte: tutti i suoi sforzi furono concentrati su
questo punto, riuscendo impossibile negare ciò che fra Tommaso
avea confessato, e parecchie osservazioni dell'Avvocato, che i
lettori vorranno senza dubbio più minutamente conoscere
percorrendo la Difesa da lui scritta, offrono tutti gli elementi
di una critica di quel Breve Papale che avea tanto largamente
concesso di rilasciare alla Curia secolare gli ecclesiastici
legittimamente convinti o confessi "di ribellione o prodizione, o
altri delitti di lesa Maestà", senza tener conto di alcuna delle
circostanze restrittive ammesse dalla giurisprudenza del tempo.
Una sola cosa a noi profani in giurisprudenza apparisce imputabile
al De Leonardis, la mancanza dell'argomento che i testimoni nella
più gran parte non erano stati esaminati o ripetuti nel foro
competente, e però non potevano dirsi capaci di legittimamente
convincere: ma bisogna pur riconoscere che si era fatta una
inestricabile confusione di fori, mentre da' "Giudici Apostolici",
e segnatamente dal Nunzio, si era tollerato che figurassero nel
processo, e quindi ne' Riassunti, come elementi del giudizio,
perfino le deposizioni raccolte da fra Marco e fra Cornelio, ed
anche dal Vescovo di Gerace, nel foro di S.to Officio; così la
mancanza del detto argomento non potè davvero influire in nulla.
Avremo poi a vedere che il Campanella medesimo, nella Difesa sua
propria, venuta in luce più tardi ed inserta nel processo di
eresia, non trovò argomenti migliori di quelli del De Leonardis, e
distinguendo il crimen volitum e il crimen patratum (distinzione
che ne' delitti di lesa Maestà non giovava) concluse doverglisi
dare piuttosto la pena del carcere perpetuo e non la pena di
morte. Assai più tardi poi, nella sua Narrazione, scrisse che il
suo Avvocato "più presto avvocò contra per diventar Consigliero":
ma anche questa volta bisogna riconoscere, che le necessità sue
l'abbiano spinto a scrivere senza alcun ritegno tutto ciò che potè
sembrargli utile a farlo uscire da una tristissima posizione.
Venendo all'Allegazione del Sances in risposta a quella del De
Leonardis, abbiamo poco da dire(107). Egli, rivolgendosi allo
Ill.mo Presidente e al dottissimo Magistrato, stimò del tutto
naturale che il Campanella, "legittimamente convinto e confesso"
del delitto di lesa Maestà, dovesse "essere attualmente degradato
e consegnato alla Curia secolare, tanto per disposizione del
dritto, quanto in forza del rescritto di commissione del SS.mo
Padre". E confutando le ragioni dell'Avvocato, fece notare che,
circa la qualità della persona, trattavasi di un frate di mancata
vita monastica, assiduo co' malfattori, già condannato ad
abiurare, cospiratore contro gli Stati del Re Cattolico per menare
vita lussuriosa e seminare eresie, autore e capo di tutto,
convinto da testimoni come il Franza, il Cordova e due altri già
carcerati col Pisano (sicuramente il Gagliardo e il Conia), i
quali, sebbene socii nel delitto, in questo di lesa Maestà per una
speciale disposizione del dritto provavano; che inoltre era
confesso, come essi medesimi i "Padri" lo avevano udito, di avere
eccitato a prendere le armi e procurare amici, confesso di formata
macchinazione, soggetto ad essere degradato e consegnato alla
Curia secolare anche per un rescritto espresso del Papa, il quale
volle mostrare quanto difendesse e proteggesse gli Stati di S.
M.tà. né egli faceva istanza che fosse condannato perché avea già
cacciato il Re e fatta la Repubblica, ma per avere macchinato e
sedotto a farla le persone che si erano mostrate pronte, dovendosi
nel delitto di lesa Maestà, per dritto, punire con la stessa pena
così la volontà come l'effetto; la macchinazione era seguìta, e i
Giudici poteano degradare questo clerico ribelle alla Maestà
Divina ed umana, causa della perdita della vita, de' beni e
dell'onore, per tanti infelici, e de' beni e della patria per
molti contumaci, costituiti anche in pericolo di vita, essendo
stato lui di ogni cosa duce, autore e capo.
Una Difesa scritta, analoga a quella pel Campanella, parrebbe che
avesse dovuto esservi anche per conto di fra Dionisio; giacchè il
Sances chiese di poi a' Giudici che spedissero la causa tanto del
Campanella quanto di fra Dionisio. Forse, essendo in sèguito
costui scappato senza rimedio, il Nunzio credè inutile conservare
tale Difesa e così essa non sarebbe a noi pervenuta; ma forse
anche, con maggior probabilità, avendo lui dichiarato di volersi
servire di un Avvocato proprio, e non essendo poi riuscito a
trovarlo, rimase senza Difesa scritta, giacchè, nel decretare il
termine per le difese, i Giudici solevano dichiarare che badasse
l'inquisito a provvedersi di un Avvocato o a chiedere quello di
ufficio, mentre in difetto, scorso il termine, il tribunale
avrebbe spedita la causa anche senza l'Avvocato. Ciò per altro non
vuol dire che fra Dionisio non si sia difeso da sè, oralmente e
presentando documenti; che anzi dobbiamo ritenerlo, trovandosi in
coda al Riassunto degl'indizii contro di lui l'annotazione "habuit
defensiones quas fecit". Non potremmo dire lo stesso pel
Campanella, mentre in coda del relativo Riassunto degl'indizii
troviamo scritto solamente "habuit defensiones": la qual cosa
riesce difficile a spiegarsi, e bisognerebbe ammettere che
veramente non sia stato chiamato a parlare, come di poi si dolse;
ma forse egli avea dichiarato che intendeva presentare una propria
Difesa scritta ed anche difendersi oralmente, e non giunse in
tempo a presentare la Difesa scritta, come vedremo più in là, e i
Giudici poco giustamente passarono oltre ritenendo decaduta la sua
dichiarazione. Ad ogni modo la sorte del Campanella, e così pure
di fra Dionisio, non poteva esser dubbia, e stiamo per vedere che
il Nunzio non ne fece un mistero.
Di certo durante il marzo vi fu un poco di rilasciamento
nell'attività del tribunale; le feste di Pasqua poi, negli ultimi
giorni di marzo e primi di aprile, vennero a sospenderne affatto
le sedute. Durante il marzo la causa del Contestabile, con l'esame
de' quattro testimoni, non potè occupare molte sedute, tanto meno
la Difesa orale di fra Dionisio, ancor meno la Difesa scritta
dell'Avvocato del Campanella, e d'altronde conosciamo che i
termini per le difese solevano essere brevissimi. Bisogna dunque
ammettere qualche ragione estrinseca, e questa potrebbe ravvisarsi
nell'assenza del Vicerè da Napoli in tale periodo: poichè egli
dovè finalmente adempiere la missione già troppo ritardata, di
Ambasciatore straordinario di obbedienza al Papa in nome di
Filippo III, e così venne meno la sua inesorabile insistenza(108).
Il 9 marzo egli era partito da Napoli, insieme con la Viceregina
ed una distinta comitiva di Nobili, che erano felici di potersi
mostrare servitori affezionati a S. M.tà e di poter guadagnare
anche le indulgenze del Giubileo in Roma, né fu di ritorno prima
del 27 aprile. Potremmo narrare una grande quantità di aneddoti
intorno a questo viaggio, ma ce ne asteniamo. Diremo solamente,
per quanto riflette i casi della nostra narrazione, che tra'
nobili i quali ottennero l'onore molto ambìto di accompagnare il
Vicerè vi fu il Principe della Roccella, insieme col suo
primogenito Girolamo Marchese di Castelvetere, la qual cosa venne
ritenuta un favore particolare del Vicerè dietro la brillante
condotta del Principe nella cattura del Campanella: oltracciò il
Nunzio espose al Card.l S. Giorgio il desiderio che si trattassero
in Roma direttamente col Vicerè gli affari più gravi, e tra questi
non v'era compreso l'affare del Campanella, ma del resto, malgrado
le promesse del Cardinale, non se ne fece nulla. Era rimasto in
Napoli Luogotenente del Regno il figliuolo secondogenito del
Vicerè, D. Francesco de Castro, giovane di anni e maturo di senno,
il quale non fu tiepido nel volere spedita la causa del
Campanella, ma non avea la voce autorevole del padre, e il Nunzio
poteva tanto più opporgli la sua. Il 12 aprile, forse in
previsione del prossimo ritorno del Vicerè, ma piuttosto in
sèguito di una novità manifestatasi nel Campanella, come vedremo
più oltre, il Sances chiese istantemente a' Giudici che si
spedissero le cause del Campanella e di fra Dionisio: il Nunzio si
avvide allora, abbastanza tardi, degl'inconvenienti a' quali si
andava incontro, e si oppose, e volle che si attendesse per avere
nuove istruzioni da Roma. Ecco come egli ne scrisse al Card.l S.
Giorgio in una sua lettera del 14 aprile, che importa tener tutta
sott'occhio, mentre da essa si rileva qual fosse la posizione
giuridica del Campanella e di fra Dionisio, con la corrispondente
condanna in vista. "Tornammo due giorni sono à trattar della causa
della ribellione, et perché il Fiscale di essa mi fece una
gagliarda instanza della speditione quanto alla persona di fra
Thomaso Campanella et di fra Dionigi Pontio, non volsi consentire
che si trattasse della fine, non si sapendo ancora dove N. S.re
voglia si conoschino le materie appartenenti al S.to Offitio,
oltre che reputandosi l'uno confesso che è il Campanella, et
l'altro convinto che è il Pontio, potrà facilmente essere la fine
delle loro cause il degradarli, e darli alla Curia secolare, ma
non mi è parso che questo si deva fare in modo alcuno, senza
parteciparlo prima con S. S.tà rimanendo sospesa la causa del S.to
Offitio. Et se bene di questo se ne potrà fare espressa riserva,
ho non dimeno per un certo che di convenienza reputato sia bene
che S. B.ne lo sappia, et comandi se in ciò gli occorre altro,
questo medesimo risposi hieri al Sig.r D. Francesco de Castro che
à suggestione, per quanto credo, del medesimo fiscale me ne parlò
tanto efficacemente, non si volendo far capace delle ragioni che
mi movevano à voler prima parteciparlo costà, che mi hebbi à
risentire, parendomi d'esser troppo stretto, et à dire
risolutamente che non ne voleva far nulla et che mi pareva strano
che in un negotio che hà durato più di 6 mesi mi si volesse
ridurre ad un' giorno, quando per haver una risposta di costà ne
bisognavano 10 ò 12 che non erano anche tanti che si convenisse
negarmeli, et perciò desidero haver di questo risposta quanto
prima".
La posizione del Campanella, e così pure quella di fra Dionisio,
erano dunque nettamente definite: il Campanella ritenevasi
confesso, fra Dionisio convinto, e secondo la giurisprudenza e i
termini chiari ed espliciti del Breve Papale dovevano essere,
previa la degradazione, consegnati al braccio secolare,
naturalmente con quella rutinaria preghiera altrove menzionata che
la pena fosse "senza pericolo di morte" etc., preghiera che la
giurisprudenza imponeva, e che era sottinteso non doversi tenere
dal braccio secolare in alcun conto(109). Erano dunque accolte le
conclusioni del Sances, e senza dubbio, pronunziata la condanna di
degradazione e consegna alla Curia secolare, la Curia Pontificia
non avrebbe più ricevuto il Campanella nelle sue mani per
sottoporlo al processo dell'eresia, segnatamente essendovi
l'intenzione, come appunto il Papa l'avea una volta manifestata,
che gl'interessati nel negozio dell'Inquisizione si mandassero a
Roma. Il Nunzio ebbe a capire quanto male a proposito si era
procrastinato il giudizio dell'eresia, e nel tempo stesso si era
largheggiato in concessioni pel giudizio della congiura; ed il
pericolo di non poter più fare il giudizio dell'eresia, non già la
menoma idea di salvare il Campanella, indusse lui ad esigere e
Roma ad approvare che si soprassedesse alla spedizione della
causa. Intanto siffatta sospensione giunse realmente a salvare
dalla morte il Campanella e così pure fra Dionisio; ma il Governo
Vicereale dovè ritenerla una manovra dalla parte di Roma in
beneficio de' frati ribelli, e dovè legarsela al dito, poichè a'
termini del Breve Papale non c'era da rivolgersi ancora a Roma ed
"aspettare il comandamento di S. S.tà", ma potevasi concretare la
sentenza e poi aspettarlo. Ad ogni modo la sospensiva non fu messa
innanzi dal Governo perché non sapeva come condannare que' frati
innocenti, secondo che è stato affermato da altri scrittori; e
vedremo anzi quanto esso insistè, durante più anni, perché si
compisse una volta la spedizione della causa, finchè non
sopraggiunsero altri fatti, pe' quali sorse un grave sospetto che
Roma volesse addirittura salvare que' frati in dispregio del
potere civile.
Da Roma, il 22 aprile, si scrisse al Nunzio che tra poco si
manderebbe una risposta risoluta, e intanto si lodava che egli non
avesse consentito alla spedizione della causa della ribellione,
mentre pendeva la deliberazione da prendersi per quella
dell'eresia. Effettivamente venne poi, alcuni giorni dopo,
comunicata la deliberazione che vi si procedesse in Napoli, e già
durante tutto questo tempo si era continuato lo svolgimento del
processo della congiura, trattandosi le difese degli altri frati.
Questo si rileva dalle lettere del Nunzio del 24 e del 28 aprile,
nella quale ultima si dice "che i prigioni per la ribellione...
seguono le loro difese, nelle quali non ci è parso restringerli,
se bene i termini concessi à tal effetto erano passati". Quali
siano state le difese de' rimanenti frati non conosciamo: alcuna
Difesa scritta per loro dal De Leonardis non ci è pervenuta, e
questo ci fa pensare che forse essi siano rimasti senza Difesa
scritta. Del rimanente ecco quanto troviamo in coda a' rispettivi
Riassunti degl'indizii, dove si ebbe cura di registrare ciò che si
fece da questo lato. Pel Pizzoni troviamo, "habuit defensiones
quas fecit", e da ciò desumiamo che egli siasi difeso da sè. Pel
Petrolo, e così pure pel Bitonto, troviamo semplicemente "habuit
defensiones", donde desumeremmo che questi due si siano rimessi
alla giustizia del tribunale senza difendersi, la qual cosa
collimerebbe col loro grado di cultura molto più basso. Per gli
altri frati poi, cioè il Lauriana, fra Paolo della Grotteria, fra
Pietro di Stilo e fra Pietro Ponzio, non troviamo alcuna
annotazione, e dovremmo desumerne che il Sances abbia rinunciato
all'azione penale contro di loro. È quasi superfluo aggiungere che
pe' frati suddetti, come pel Campanella e fra Dionisio, e
parimente pel Contestabile, furono compiute le difese ma restò
sospesa la spedizione della causa: essi dovevano, o come
principali o come testimoni, sottostare al processo dell'eresia, e
la Curia Romana avea deliberato che dovesse prima svolgersi
quest'altro processo. Così la sorte di tutti costoro rimase
sospesa durante molto altro tempo, e da ciò rimase danneggiato
singolarmente fra Pietro Ponzio, il quale non era implicato in
nessuno dei due processi e restava intanto nel carcere; ma vedremo
tra poco che appunto nel carcere erano già cominciati a sorgere
alcuni sospetti contro di lui. - La deliberazione che il processo
dell'eresia dovesse trattarsi in Napoli fu annunziata dal Card.l
di S.ta Severina, con lettera del 28 aprile che troveremo a capo
del relativo processo: questa lettera pervenne al Nunzio verso i
primi di maggio, come si rileva dall'altra che egli scrisse al
Card.l S. Giorgio in data del 5 maggio. Si fu dunque perfettamente
in tempo a cominciare il processo dell'eresia mentre terminava il
processo della congiura per gl'inquisiti ecclesiastici fin allora
presi; e come la spedizione di quest'ultimo processo rimase
sospesa, così dobbiamo anche noi sospendere il racconto dell'esito
riserbandolo pel tempo suo.
Ci occorre pertanto narrare un fatto importantissimo, che si era
già verificato in persona del Campanella fin dai primi di aprile.
Con un accesso subitaneo e violento si era manifestata in lui la
pazzia: questo incidente, non senza conseguenze giuridiche per
lui, merita tutta la nostra attenzione, e cominceremo dal vedere
dapprima quanto egli medesimo ne lasciò scritto. Nelle lettere del
1606-1607, pubblicate dal Centofanti, una volta scrisse, "furono
negate le difese, e per questo sopraggiunse la pazzia"; un'altra
volta scrisse, "mi fecero pazzo essi con tanti tormenti et con non
lasciarmi difensare"(110). Più tardi (il 1614) in una delle note
nelle sue Poesie scrisse, "bruciò il letto, e divenne pazzo ò vero
ò finto"(111). Più tardi ancora (il 1620), nella sua Narrazione,
tornò alla prima versione del fatto e con molta larghezza scrisse,
che il Sances "con altri di sua fattura" (e questi non potrebbero
essere stati che il Nunzio e il De Vera), udendo le ragioni da lui
addotte in sua discolpa, "levaro al Campanella la commodità di
scrivere, e d'esaminare, e difensarsi, e li libri e il commertio
con avvocati, e lo posero dentro al torrione inferrato dicendoli,
che dovea morir per ragion di stato e che s'apparecchiasse i
sacramenti, non a difensarsi, e li mandaro Gesuini, e frati a
conortarlo a morire, e volendo presentar il Campanella li libri da
lui fatti sopra la mutatione del mondo e la monarchia di Christo,
d'una greggia sotto un pastore, presto apparitura in tutto il
mondo, data da lui al Cardinal Sangiorgi dui anni avanti perché si
vedesse che non era invention contra la chiesa, né contra il Re
fatta novamente (sic). E di più volea presentar un volume scritto
della Monarchia di Spagna molto utile alla corona, e la tragedia
della Regina di Scotia fatta da lui per Spagna contro Inghilterra,
e li discorsi alli Principi d'Italia, che per ben comune non
devono contradir a detta monarchia, e questi libri fece venir
dalla padria subito. Ma il Sances non volse che si presentassero,
né si sapessero, e però lo ristrinse nel torrione con le fenestre
serrate, e mise timore a chiunque parlava d'aiutarlo, e li fè
tanti stratii al povero Campanella che lo fè impazzire, brugiò il
letto, e lo trovaro la mattina mezzo morto, e pazziò cinquanta
dì". - Parecchie riserve debbono farsi intorno alle circostanze
qui esposte. Vedremo che la sua pazzia durò anche oltre 14 mesi, e
scorso questo tempo fu provata col più atroce de' tormenti;
saremmo perfino tentati di credere che vi sia stata in tal punto
una lezione sbagliata. Vedremo dippiù che i libri i quali volea
presentare non vennero dalla patria subito, e nella Difesa scritta
da lui medesimo, compiuta dopo la manifestazione della pazzia e
venuta in luce 14 mesi più tardi, egli chiedeva a' Giudici che gli
si dessero i libri, menzionando i Discorsi politici inviati
all'Imperatore, il Dialogo contro gli eretici esistente presso
Mario del Tufo, la Monarchia dei Cristiani data al S. Giorgio, la
Tragedia e il libro Del Reggimento della Chiesa che diceva
trovarsi in Stilo tra le sue piccole masserizie, ed aggiungendovi
di seconda mano la Monarchia di Spagna, che diceva trovarsi pure
in Stilo tra le sue piccole masserizie, "in meis sarcinulis".
Ognuno poi avrà già notato che i tormenti gli erano stati dati il
7 e 8 febbraio, mentre la pazzia cominciò a' primi di aprile, e
circa il non essergli state date le comodità di difendersi,
bisogna tener presente che nella prima delle sue Lettere del 1606
a Paolo V egli scrisse esplicitamente, "quando mi citaro mi
protestai che voleva io difensarmi di propria bocca almen che
(sic) non mi lasciaro articolare, e 'l Nuntio passato non mi fè
chiamare, che penso non ci l'han detto né potea" (accennando
all'Aldobrandini, che mostrò di scusare poichè scriveva a un
Papa): e certamente il Nunzio, che benissimo lo potea, non è
scusabile di non averlo fatto chiamare, ma bisogna riconoscere che
erano state date le comodità per la difesa, e, come vedremo tra
poco, egli non giunse in tempo a presentare la Difesa scritta, e
venne poi, il 2 aprile, a manifestarsi pazzo; sicchè riesce del
tutto credibile essere sorta la pazzia quando dovè persuadersi che
pel momento non dovea più pensare alla difesa, e per giunta
mostravasi imminente il processo di eresia tanto più spaventevole
per lui. Infine anche la circostanza dell'essere stato trattato
con rigore maggiore del solito mentre dovea fare le difese, merita
di essere accolta con riserva; poichè, all'opposto, nel detto
tempo si soleva trattare gl'inquisiti con larghezza, e vedremo tra
poco da una deposizione del carceriere Alonso Martinez confermata
la cosa in persona sua. Tutte le altre circostanze poi debbono
essere riconosciute esatte, giacchè concordano con quanto emerse
in sèguito nel processo dell'eresia, onde siamo in grado di dare
la data precisa dell'incidente e tutti i suoi particolari.
Non può dubitarsi che fornirono l'occasione o il pretesto per la
pazzia le esorbitanze di confessori, che specialmente a motivo
della Pasqua frequentavano allora più del solito il Castello. Vi
erano assidui il P.e Pepe gesuita, il P.e Muzio, un P.e Pietro
Gonzales Domenicano, e quest'ultimo specialmente confessava i
frati carcerati, come trovasi attestato nelle loro deposizioni.
Notiamo che fra Pietro di Stilo ebbe a dire del Gonzales: "soleva
venire spesse volte quà, è ci faceva delle belle esortationi, et
andava anco dal Campanella spesse volte per quanto mi è stato
detto, è li faceva delle brutte riprensioni". Più esplicitamente
il Vescovo di Termoli scrisse a Roma: "dubito che la pazzia sia
nata che andando il Padre Maestro Pietro Gonzales à confessar et
communicar alcuni di questi carcerati prima che io venisse à
Napoli, andava dal Campanella et l'essortava ad haver cura
dell'anima perché il corpo era spedito". Ben si vede che il
Gonzales non godeva pienamente le simpatie del Vescovo di Termoli,
e possiamo aggiungere che tanto meno godeva quelle del Nunzio, nel
cui Carteggio si trovano più lettere contro di esso, dalle quali
apparisce molto amico di fra Serafino di Nocera tanto affezionato
al Campanella(112): inoltre egli conosceva assai da vicino
qualcuno de' frati carcerati, p. es. il Petrolo, che era stato con
lui in Milano; e per tutti questi motivi rimane dubbio se egli
avesse agito a quel modo per leggerezza ed imprudenza, o invece
per malizia, vale a dire d'accordo col Campanella medesimo, a fine
di rendere spiegabile l'inatteso manifestarsi della pazzia. Ecco
ora in che maniera il Campanella si mostrò pazzo, secondo che
depose il carceriere Alonso Martines quando ne fu interrogato. "La
matina di pasqua del spirito santo prossime passato havendo io la
sera precedente lassato una lucerna accesa dentro la priggione di
detto frà Thomaso quale poteva durare circa un'hora, è mezza à far
lume acciò egli vedesse à mangiare, la matina secondo il mio
solito, visitando tutti li carcerati, ritrovai che frà Thomaso
havea brusciato la lettèra, le asse, le tavole, un saccone di
paglia, et una coperta, et la priggione era tutta piena di fumo,
et frà Thomaso era gettato in terra, et io credevo che fusse
morto, mà poi io udj che si lamentava, et io lo levai da terra, et
lo messi in un'altro loco, et rivenne quanto alle forze del corpo,
et ritornato da esso per condurlo alla messa che alhora havea
licenza di condurlo, detto frà Thomaso mi venne à dosso è poco ci
mancò che non mi levasse il naso dalla faccia, è, da questa hora
in quà hà parlato spropositatamente, et anco con altri"(113). Da
diversi fonti all'uopo ricercati abbiamo potuto trarre che la
Pasqua nel 1600 si celebrò il 2 aprile: fu questa dunque la data
precisa in cui si manifestò la pazzia del Campanella, ed essa
spiega pienamente così l'opportunità e convenienza della pazzia
dal lato suo, come l'urgenza estrema della spedizione della causa
dal lato del Sances. Reca poi senza dubbio una grande meraviglia
il fatto, che il Nunzio non abbia partecipata a Roma tale novità;
nel suo Carteggio non se ne trova menzione per lungo tempo, e il
primo a parteciparla a Roma apparisce nel processo di eresia il
Vescovo di Termoli, in data del 25 maggio(114).
Non appena ebbe notizia dell'incidente, il Sances ordinò che si
spiassero gli andamenti del Campanella, per conoscere se la pazzia
fosse vera o simulata; e fin dal 4 aprile alcuni scrivani andarono
nelle ore della notte ad appiattarsi presso il carcere del
Campanella per raccogliere ciò che avrebbero udito. Ebbe così due
relazioni, che esponevano due colloquii notturni tra il Campanella
e fra Pietro Ponzio rinchiusi in due carceri vicine, in data l'una
del 10 e l'altra del 14 aprile: queste relazioni furono più tardi
trasmesse in copia a' Giudici dell'eresia, i quali le inserirono
nel loro processo, e in tal guisa ci è venuto tra mano non solo un
documento importantissimo per intendere le cose del Campanella e
la condotta del Governo Vicereale verso di lui, ma anche il
racconto di uno de' più drammatici episodii del tempo de'
processi(115). Una delle relazioni scritta da Marcello de
Andreanis, scrivano fiscale ordinario della Banca di Marcello
Barrese, dice che essendosi insieme con Francesco Tartaglia,
scrivano straordinario della medesima Banca, recato per ordine del
Sances nelle carceri del Castello, e propriamente in un corridoio
vicino alle carceri del Campanella e di fra Pietro Ponzio,
accostatisi pian piano nel detto corridoio, il 10 aprile, a tre
ore di notte, udirono il seguente dialogo. Il Campanella
dimandava: che n'è di mio fratello e di mio padre? E fra Pietro
rispondeva: stanno nelle carceri del civile con Giuseppe Grillo e
Francesco Antonio di Oliviero. Ancora il Campanella: e di tuo
fratello che n'è? E fra Pietro: Ferrante sta con quella marmaglia
delle carceri del civile. Continuava il Campanella: oh che pietà,
che ne sa quel poveretto Francesco Antonio di Oliviero! E fra
Pietro: tu vedi! Ripigliava fra Pietro in latino: hai scritto
abbastanza oggi? E il Campanella: assaissimo, tutto. Ancora fra
Pietro: il Martines è rimasto fuori del Castello ed Onofrio
(l'altro carceriere) è stato chiamato dal Capitano; noi possiamo
parlare? E il Campanella, in latino: tu non conosci la razza degli
spagnuoli; e fra Pietro, in latino: conosco la razza e la
scelleratezza degli spagnuoli. Continuando quasi sempre in latino,
il Campanella diceva: sai se Tommaso d'Assaro è stato liberato? E
fra Pietro: no, dimandane a colui che sta nel carcere superiore
(intend. superiore a quello di fra Pietro). E il Campanella: non
posso; aggiungendo: fa in modo che dimani possa dare una pagina
scritta a fra Pietro (certamente fra Pietro di Stilo), perché non
posso parlare e sento un odore di uomo! E fra Pietro: scongiurali,
e parla in latino, giacchè sono idioti e non conoscono la lingua
latina. Rimasti quindi un poco in silenzio, fra Pietro ricominciò:
non ci è nessuno, perché il vizio li porta via, tu hai lume? E il
Campanella: no, affatto; e soggiunse: andiamo a dormire perché ho
visto un lume. E fra Pietro: andiamo a dormire. Fu questo uno de'
colloquii. Notiamo che Tommaso d'Assaro trovavasi carcerato e
doveva essere vicino ad uscire in libertà, vedendosi il suo nome
più tardi nella lista de' testimoni dimoranti in Napoli, dati da
fra Dionisio nella causa dell'eresia, per fatti avvenuti nel
carcere(116). Ma ciò che riesce notevolissimo è il sapere che il
Campanella scriveva, che aveva in quel giorno scritto "assaissimo,
tutto", come pure una pagina da doversi passare a fra Pietro di
Stilo, e che fra Pietro Ponzio ne pigliava molto interesse. Cosa
scriveva il Campanella? Non mancheremo d'indagarlo più in là. -
Veniamo all'altro colloquio. Esso è riferito da Francesco
Tartaglia sopra nominato, il quale dice di essersi recato per
dodici notti successive nel Castello, dietro ordine del Sances, e
più volte ha udito il Campanella discorrere con fra Pietro "de
bonissimo modo", e segnatamente la notte del 14 aprile, in
compagnia anche de' carcerieri Martines ed Onofrio, udì le
seguenti parole. Fra Pietro chiamò quattro volte il Campanella
dicendo, o fra Tommaso... non senti no o cor mio? E il Campanella:
bona sera, bona sera. E fra Pietro: o cor mio, come stai, che fai,
sta di buon animo, perché domani verrà il Nunzio e sapremo qualche
cosa. Ed il Campanella: o fra Pietro, perché non trovi qualche
modo per potere dormire insieme e godere? E fra Pietro: volesse
Iddio, anche a dover pagare dieci ducati al carceriere, a te, cor
mio, vorrei dare venti baci per ora; ho sparso per tutta Napoli i
tuoi Sonetti, li so tutti a memoria e nulla mi dà più gran gusto
che il leggere qualche frutto dell'ingegno tuo. E il Campanella:
voglio ora comporne uno pel Nunzio. E fra Pietro: sì cor mio, ma
ti chiedo in grazia di comporre prima quelli per me o quelli che
desidero per mio fratello, e poi comporrai quelli pel Nunzio. E il
Campanella: va a riposare, buona sera. Ben si rileva qui la tenera
ed irremovibile amicizia di fra Pietro pel Campanella, e il suo
ardore per averne le poesie, spinto fino all'indiscrezione di
volerne per sè e per suo fratello, mentre il povero filosofo ne
meditava qualcuna che riuscisse a rendergli propizii i potenti
nella sua terribile condizione; e si rileva al tempo medesimo
l'animo depresso del filosofo, e il suo vivo bisogno della
compagnia di un amico come fra Pietro. Si vide poi tale affettuoso
colloquio dare al Vescovo di Caserta motivo di sospettare
nientemeno che dell'onestà delle relazioni tra il Campanella e fra
Pietro: evidentemente questi due giudicabili erano assai migliori
di alcuni de' loro Giudici! Ma dunque il Campanella componeva
Poesie, oltrechè scriveva pagine da doversi trasmettere a fra
Pietro di Stilo, e il Sances già ne sapeva qualche cosa: e come
mai poteva egli meditare un Sonetto pel Nunzio? Non ne troviamo
alcuno con questo indirizzo nella raccolta fattane da fra Pietro,
e bisogna dire che o lo scrivano sia caduto in un equivoco, o il
Campanella abbia voluto alludere al Sonetto indirizzato al Papa,
da doversi per vie trasversali far capitare nelle mani del Nunzio,
il quale si sarebbe poi fatto un dovere d'inviarlo al Papa. Si può
intanto immaginare quale concetto abbia dovuto formarsi il Sances
intorno a questa pazzia, durante la quale il Campanella scriveva
Sonetti perfino al Nunzio: evidentemente egli non poteva che
chiedere d'urgenza la spedizione della causa.
Ed eccoci condotti a narrare la vita intima del Campanella,
considerandola propriamente dal lato delle sue opere d'ingegno, in
questo primo periodo della sua prigionia di Napoli, rappresentato
dal tempo in cui venne istituito e svolto il processo della
congiura così pe' laici come per gli ecclesiastici. Dicemmo già
che fin dai primi momenti dell'arrivo egli compose Poesie per dare
animo agli amici, che nel Syntagma se ne ha il ricordo ma con una
completa confusione di tempi, che la Raccolta fattane da fra
Pietro ci mette in grado di potere fino ad un certo punto
distinguere ed assegnare alle diverse poesie la propria data. E
veramente nel Syntagma si parla delle poesie in questi termini:
"Fui condotto a Napoli qual reo di Maestà, ed ivi, mentre si
negava l'aiuto de' libri, composi molti versi latini ed italiani,
sul primo Senno e prima Possanza, sul primo Amore, sul Bene, sul
Bello e simili, che tutti scriveva di nascosto quando ne aveva
l'agio. Di essi vennero formati sette libri intitolati La Cantica,
de' quali in parte Tobia Adami pubblicò una scelta, fatta secondo
il giudizio suo, sotto il nome di Settimontano Squilla, aggiuntavi
l'esposizione. Composi parimente Elegie sulle sventure mie e degli
amici, inoltre Ritmi profetali ed una quadruplice Salmodia su Dio
e su tutte le opere sue, e a questo modo con le poesie diedi anche
vigore agli amici acciò non si abbattessero ne' tormenti". Ora tra
le poesie raccolte da fra Pietro, alla cui composizione quasi
totale possiamo assegnare un tempo certo, compreso tra il 10
novembre 1599 e il 2 agosto 1601, non si trovano le Canzoni, le
Elegie, le Salmodie ricordate nel Syntagma e poi pubblicate
veramente dall'Adami; né occorre dire che vi si troverebbero,
qualora fossero state composte nel tempo anzidetto. Appena vi si
trovano i Ritmi profetali, sicchè bisogna rimandare le poesie
sopra ricordate ad un periodo posteriore di molto; nel qual caso,
gli amici rinvigoriti con esse ne' tormenti dal Campanella
sarebbero i soli pochi frati tormentati per l'eresia, ciò che
vedremo accaduto nel gennaio 1603; invece la raccolta fatta da fra
Pietro ci presenta le poesie del primo periodo, e tra esse quelle
che servirono a rinvigorire gli amici tutti ne' tormenti per la
congiura. La detta Raccolta non serba un ordine strettamente
cronologico, ed abbiamo già rilevato altrove che contiene pure
qualche poesia certamente del tempo della prigionia di Roma,
conservataci per reminiscenze comunicate dal Campanella al
raccoglitore: ma essa nemmeno procede scompigliata del tutto, e in
generale vi si possono molto bene riconoscere due gruppi che
indichiamo subito, assegnando al primo il periodo del quale ci
siamo finora occupati, vale a dire dal novembre 1599 all'aprile
1600. Questo primo gruppo è rappresentato essenzialmente dalle
prime 24 poesie, che mostrano un distacco sensibile dalle
rimanenti, tra le quali per altro è capitata ancora qualcuna da
doversi riferire al primo gruppo, mentre poi nell'uno e nell'altro
gruppo son capitate quelle poche di reminiscenza, già composte ne'
tempi anteriori(117). Il primo Sonetto col quale si apre la
Raccolta di fra Pietro, ben conosciuto perché fu poi pubblicato
dall'Adami, è quello "sul presente stato d'Italia" che comincia
col verso
"La gran Donna ch'a Cesare comparse":
in verità noi lo crederemmo scritto piuttosto ne' giorni de'
preparativi, in Calabria, contemplandosi in esso che per la patria
infelice, dominata da stranieri, non c'era più da sperare né nel
Principato né nel Sacerdozio, ma bisognava tornare a' puri
principii del Cristianesimo e della Sapienza greca; ad ogni modo
riesce abbastanza interessante il sapere che un Sonetto simile,
decorato del sacro nome d'Italia e tutto sollecitudine per le
sciagure di essa, sia di vecchia data ed abbia circolato tra le
mani de' congiurati o de' perseguitati per la congiura(118). Più
sicuramente appartiene al primissimo tempo della prigionia di
Napoli, e forse è stato davvero il primo composto nel Castello
nuovo, quello che viene in 2° luogo "sopra l'istesso stato
d'Italia" (titolo verosimilmente dato da fra Pietro), avendo tutta
l'impronta dell'attualità, esprimendo la preoccupazione che il
Conte di Lemos avesse a menar buoni i tristi processi fatti in
Calabria, promettendo in tal caso più grave la rovina profetizzata
agli oppressori, ed esalando il dolore del filosofo ancora sotto
l'impressione della bieca accoglienza popolare sofferta nel
viaggio da Gerace a Bivona:
"Il fato dell'Italia hoggi dipende
dall'esser vera ò falsa rebellione
questa, ch'à calavresi Carlo impone
e Sciarava, ch'el Regno el Rè n'offende.
E s'il Conte che regge ancor pretende
che lor finte ragion sian vere e buone
. . . . . . . . . . . . . .
più grave fia l'antevista ruina.
. . . . . . . . . . . .
Ahi cieca Italia nella tua rapina!
sin quando il senno tuo sopito langue?
s'io ben ti desiai, che t'ho fatt'io?"
Sarebbe poco ragionevole voler qui trovare una Musa felice e
splendida, e lo stesso va detto per tante altre poesie di questa
raccolta: il filosofo dovea sentirsi disposto a tutt'altro che a
poetare; d'altronde poesie simili bastavano per que' rozzi ma
generosi patriotti. Il 3° Sonetto, intitolato dall'autore "a sè
stesso", può ritenersi bene al suo posto, valendo ad ispirare
conforto e fiducia a' compagni suoi in un modo generale, e sempre
promettendo la vendetta divina:
"Spesso m'han combattuto, io dico anchora,
fin dalla giovanezza, ahi troppo spesso,
. . . . . . . . . . . . . .
ma la spada del ciel per me lavora".
Non così l'altro intitolato anche "a sè stesso", con la giunta
dovuta a fra Pietro, e certamente errata, cioè "subito fu preso":
esso venne pubblicato dall'Adami senza questa giunta, che forse
potè essere suggerita a fra Pietro dalle parole che si leggono nel
2° verso, "il fiero stuol confondo"; ma tutte le circostanze, che
accompagnano queste parole, le mostrano riferibili a' Giudici,
Fiscale e contradittori intervenuti nelle confronte, sicchè il
Sonetto risulta precisamente del tempo degli esami e confronte del
Campanella, che aveano dovuto sembrargli tali da poterne menar
vanto. Passiamo quindi sopra di esso, e del pari sopra il
seguente, che gli apparisce collegato e che dinota un grave
sconforto succeduto ad una viva fiducia; ci troviamo così in
presenza del Sonetto "in lode di carcerati e tormentati", che ci
conduce al periodo in cui si pose mano alle torture cominciando da
Maurizio.
Siamo dunque alle prime settimane del dicembre 1599, al tempo del
massimo fervore nel processo della congiura pe' laici. Maurizio
avea sostenuto con fermezza terribili e lunghissimi tormenti, e
gli altri avrebbero dovuto imitarne l'esempio; il Campanella lo
esalta con entusiasmo, e merita di essere notato che attribuisce
allo "ardore di libertà e di ragione" il superare que' tormenti,
armi del tiranno:
"Veggio spirti rivolti al Creatore
schernir tormenti e morte, del tyranno
armi sovrare, e scherzar con l'affanno
. . . . . . . . . . . . . .
Di libertà e ragion tanto è l'ardore
che dolcezza il dolor, ricchezza il danno,
seguendo l'orme di color che sanno,
stimano, armati di gloria et honore.
Rinaldi il primo sei notti e sei giorni
vince i tormenti antichi e i nuovi sprezza
. . . . . . . . . . . . . . . .
esempio a gl'altri d'invitta fermezza"(119).
Ma il poeta dovea sentirsi anche personalmente grato a Maurizio,
il quale, non avendo confessato, aveva contribuito assaissimo a
farne migliorare la causa; ed ecco quel Madrigale:
"Generoso Rinaldi
vera stirpe del syr di Monte Albano" etc.
né deve fare impressione qualche concetto come quello di "aver
reso il pegno di fedeltà al Re". Bisogna tener presente che
stavano entrambi in carcere e sotto un processo capitale; la
poesia avrebbe potuto essere sorpresa da' carcerieri e trasmessa
al Sances, onde naturalmente non può darsi molto peso a qualche
concetto che esprima innocenza, ed invece deve darsene molto a
quelli che esprimono sentimenti di libertà. - Ma giunge il 20
dicembre, e Maurizio sotto le forche si decide a confessare per
iscrupolo di coscienza: si rivolta allora l'animo del poeta, e
scrive quel "Madrigale di Palinodia", che è triste dover
ricordare, e che i lettori troveranno dopo il precedente; un
passaggio così brusco dalla lode al vituperio stringe veramente il
cuore. Conoscendo poi che egli credè, più o meno, all'influenza
del Gesuita confessore del Vicerè, il Padre Mendozza, che avrebbe
determinato Maurizio alle rivelazioni, ci parrebbe naturale
collegare con tale fatto quel Sonetto che potè anche scrivere più
tardi, col titolo "contro i G......" ossia "contro i Gesuiti",
pubblicato negli anni successivi dall'Adami col titolo più
prudente "contro gl'ipocriti": che esso debba riferirsi a' Gesuiti
risulta manifestamente da' primi versi,
"Gli affetti di Pluton portano in core
il nome di Giesù segnano in fronte";
ben doveva il poeta trovarsi in grande eccitamento contro costoro,
allorchè accennava alle loro malizie, e non soltanto per
aggiustare la rima egli scriveva
"questo veggendo fà ch'io mi dischiome"(120).]
né scorgiamo altre poesie da doversi con qualche probabilità
riferire a' fatti concernenti i laici, fra' quali pel solo
Maurizio si vede che il Campanella poetò, mentre da una
cancellatura fatta da fra Pietro nella sua raccolta rilevasi che
perfino il Sonetto "in lode di carcerati e tormentati" aveva
dapprima il titolo di Sonetto "in lode di Mauritio Rinaldo".
Ma nelle prime settimane del gennaio 1600 già si conosceva non
lontano il cominciamento del processo della congiura per gli
ecclesiastici, e le poesie furono più frequenti. Non è arrischiato
l'ammettere che siano stati composti in tale data que' due Sonetti
profetali, l'uno ancora inedito che comincia col verso
"Toglie i dì sacri il Tebro e calca Roma",
e l'altro già pubblicato dall'Adami che comincia col verso
"Veggio in candida roba il Padre Santo".
Questi Sonetti con qualche altro analogo, che trovasi disperso nel
2° gruppo e che vedremo altrove, sarebbero appunto i Ritmi
profetali menzionati nel Syntagma; e non debbono sfuggire que'
versi del primo rimasto inedito, forse rimasto inedito per essi,
"La giustizia si compra, el verbo santo
sotto favole e scisme ogn'hor si vende"(121).
Egualmente è verosimile che siano stati composti in tale data quei
tre Sonetti concernenti lo Sciarava, i due primi di maledizione,
il terzo, diremmo, d'insinuazione(122). Il primo che comincia co'
versi
"Campanella d'heretici e rubelli
Capo in Calavria mai non s'è trovato"
offre anche una discolpa, oltre la maledizione nella quale son
compresi tutti i persecutori di alto grado
"Ruffi, Garraffi, Morani, e Spinelli".
Il secondo, che ci sembra abbastanza bello, e che comincia co'
versi
"Mentre l'albergo mio non vede esangue
e gli spirti poggiar tremanti al cielo",
offre una maledizione ed anche una preghiera, la quale mostra che
l'autore riteneva del tutto imminente la chiamata agli esami,
"Deh Sig.r forte, in me volgi tua faccia,
dà authorità più espressa al mio sermone
ond'i ministri di Sathan disfaccia".
Il terzo, che porta veramente il titolo "in lode di spagnuoli",
offre una insinuazione contro lo Sciarava e una protesta di
devozione a Spagna, la quale certamente nessuno vorrà prendere sul
serio: bisognava pure che il poeta si preparasse qualche argomento
in suo favore pel caso di una scoperta delle poesie, massime
quando avea mostrato tanto poco rispetto verso un funzionario
importante del Governo spagnuolo e tuttora deputato ad assistere
il Sances durante il processo. Poniamo inoltre qui il "Sonetto di
rinfacciamento a Musuraca", senza dubbio mal situato tra le poesie
del 2° gruppo, e sempre capace di eccitare gli amici a rimaner
tali anche "a tempo d'infelice stato"(123). Con tanto maggior
ragione poniamo qui anche il "Sonetto fatto a tutti carcerati",
che del rimanente potrebbe esser posto anche tra le poche poesie
del tempo del processo de' laici(124): in esso si dice che era
negata, oltre la favella e il commercio, benanco la difesa, ciò
che si spiega col fatto dell'amministrazione delle torture
decretata durante il processo informativo, senza dare
anticipatamente la copia degli atti; e tra' varii istrumenti di
morte è citata pure la sega, ciò che aggiunge qualche cosa anche
alla credibilità dello strano supplizio già destinato a Maurizio
in Calabria. Vi brillano poi i concetti elevati e i consigli
virili al maggior segno; vi si canta
".... sol la virtù de' vostri petti
l'orgoglio del tyranno affrena e lega";
vi si esalta il glorioso e bel morire per la libertà, e vi si dice
"Qui dolce libertà l'alma gentile
ritrova, e prova il ver, che senza lei
sarebbe anchor il paradiso vile".
Ma oltre gli eccitamenti in generale, diretti a' frati rimastigli
fedeli, il Campanella diresse anche qualche eccitamento in
particolare, p. es. al Petrolo, che sperava poter ricondurre a
fedeltà; così dettò quel Sonetto che fra Pietro intitolò "in lode
di fra Domenico Petrolo", e che veramente si deve dire di
sollecitazione a ritrattarsi:
"Venuto è 'l tempo homai che si discuopra,
Petrolo mio, l'industriosa fede
che serbasti all'amico, e già si vede
ch'à tutte l'altre questa tua và sopra.
Mortifera, infedel, empia, ingrata opra
far simolasti, ch'a lui vita diede" etc.(125).
Non si sarebbe potuto adoperare modi più insinuanti, facendo
ottimo viso a pessimo gioco; s'intende quindi che il Petrolo ne
sia rimasto convertito, come mostrò con la sua deposizione del 29
gennaio, ma pur troppo per brevissimo tempo.
Cominciata in sèguito la causa, sostenuto l'esame ed essendo in
corso le confronte, precisamente al cadere del gennaio 1600, il
Campanella rincorato dovè scrivere quel magnifico Sonetto "a sè
stesso", che fu poi pubblicato dall'Adami e che comincia coi noti
versi:
"Legato e sciolto, accompagnato e solo
chieto, gridando, il fiero stuol confondo,
folle all'occhio mortal del basso mondo" etc.(126);
le quali ultime parole dinoterebbero il valore dato da' Giudici
alle profezie e presagi, che egli dichiarò averlo guidato a
ritenere imminenti grandi mutazioni. Di poi sofferta la dimora
nella fossa del miglio e quindi la tortura, fatta in questa la sua
confessione, non dovè mantenersi in tanta fiducia, e lo
mostrerebbe il Sonetto "alla Beata Ursula napolitana a cui si
raccomanda", inserto nella raccolta dopo il precedente(127): tutto
il Sonetto esala lo sconforto del Campanella, che in quel momento
sperava soltanto in una protezione superiore;
"Pregoti per l'honor del sacro manto
di cui spogliato incorsi in gran ruina,
. . . . . . . . . . . . . .
E canterò tornando al mio bel nido
il fin de' miei travagli" etc.
inutili speranze, desolanti ricordi. Ma non dovè tardare a sentire
tanto maggiormente il bisogno di ravvivare la fede ed anche
l'affetto de' suoi compagni, e crederemmo che dapprima gli abbia
data una buona occasione la fermezza di fra Pietro di Stilo nel
respingere le esortazioni di Maurizio a seguire l'esempio suo e a
confessare: così alla 2a metà di febbraio e 1a di marzo ci
parrebbe potersi assegnare i due Sonetti "in lode di fra Pietro di
Stilo" seguìti da' tre "in lode del Rev.do P.e fra Dionisio
Pontio"(128); l'essere stati posti nella Raccolta in ordine
inverso ben può spiegarsi con la classificazione della relativa
importanza data da fra Pietro Ponzio a' frati compagni del
Campanella. Fra Pietro di Stilo, che aveva tanto poco partecipato
alle speranze ed a' maneggi della congiura, soffriva tanti disagi
e maltrattamenti per l'affetto al Campanella, su cui vegliava
assiduamente e senza ritrarsi per qualsivoglia motivo; così ben si
spiega tutto il contesto de' due Sonetti, ne' quali si vede pure
il Campanella tuttora sconfortato:
"Sino all'inferno un cavalier seguìo
l'avventurato amico à grande impresa.
. . . . . . . . . . . . . . .
Frati, amici, parenti, chi mi nega,
chi più ingrato mi trade, e mi maligna (int. il Pizzoni)
chi non volendo nel mio mal si piega (int. il Lauriana).
Solo il travaglio e la rabbia maligna
titulo in fronte del tuo honor dispiega
Rè della fede chi mai non traligna.
. . . . . . . . . . . . . .
Fedel combattitor, mai non s'estingue
più il nome tuo, poiche serbasti solo
virtù, religion, patria, et amici".
In tal guisa il Campanella, pieno di gratitudine, onorava fra
Pietro Presterà, "Pietro suo", come poi lo disse nell'opera
ricomposta Del Senso delle cose: ma per fra Dionisio il caso era
abbastanza diverso. "Senza dubbio fra Dionisio avea motivo di
dolersi del Campanella, che già prima nella Dichiarazione, ma poi
anche peggio nella confessione in tortura, avea rivelato
l'esistenza di un concerto per fare la Calabria repubblica
compromettendo lui; ed avendo sostenuto il polledro con tanta
fermezza, verosimilmente la sua vanità lo conduceva tanto più a
sparlare del Campanella, il quale, fin dal 1° Sonetto, "senza
voce, afflitto e lento" ne carezza al maggior segno la vanità:
"Cantai l'altrui virtuti, (int. di Maurizio), hor me ne pento
Dionigi mio, non havean senno vero" etc.
Umiliato per non essere riuscito, all'opposto di lui, nella prova
del polledro, il Campanella spiega la cosa con una finzione
poetica, ma anche più curialesca, e infine si rivela disposto a
soggiacere a tutto:
"In me tanto martìre io non soffersi
ch'in te stava il valor, el senno mio,
e solo al viver tuo fur ben conversi.
S'a te par, io men vado, o frate, a Dio
né chieggio marmi, né prose, né versi,
ma tu vivendo sol viverò anch'io".
Il 2° Sonetto, che risente troppo del gusto triviale del tempo,
torna sull'argomento e glorifica fra Dionisio perfino con la
testimonianza degli spiriti di Averno; ma vi si fanno notare i
seguenti versi,
"Sfogaro mille Spagne e mille Rome,
al tuo martir unite, l'odio interno".
Il 3° Sonetto loda fra Dionisio per l'altro atto suo, per le
confronte, le quali davvero non si scorge da qual lato potrebbero
dirsi gloriose; e l'innesto, che vi si trova, dell'arme de'
Ponzii, del giuoco degli scacchi e cose simili, apparisce una
concessione al gusto non solo de' tempi ma anche de' Ponzii: né
bastarono i tre Sonetti, e più tardi ce ne volle ancora un quarto.
Ma bisogna per ora aggiungere che oltre a questi sinora detti vi
fu anche il Sonetto "al sig.r Gio. Leonardi Avvocato de' poveri",
Sonetto tirato addirittura co' denti, manifestamente obliato tra
le poesie del 1° gruppo e posto di ripiego tra quelle del 2°: esso
deve riportarsi per lo meno alla fine del febbraio, poichè allude
alle difese che il De Leonardis già scriveva, ed agli argomenti
che preparava quale Avvocato comune a tutti i frati
"Contra l'ombra di morte accesa lampa"(129).
Sicuramente poi nel marzo e prima metà di aprile la mente del
Campanella fu tutta rivolta alla prosa e non alla poesia: basta
ricordarsi de' due colloquii notturni passati tra lui e fra Pietro
Ponzio, il 10 e il 14 aprile. Ma a quest'ultima data appunto fra
Pietro gli annunziava di avere "sparso per tutta Napoli" i
Sonetti, il Campanella annunziava di volerne comporre uno pel
Nunzio, fra Pietro gli chiedeva in grazia di voler comporre prima
quelli per lui e per suo fratello. Attenendoci più che è possibile
all'ordine serbato nella raccolta di fra Pietro, dobbiamo dire che
il Campanella siasi adattato a compiacere il suo amico, ma
componendo un solo Sonetto, in cui abbracciò insieme fra Pietro,
il fratello Ferrante, ed anche l'altro fratello fra Dionisio; di
poi compose quello pel Nunzio, o meglio, come abbiamo già detto
altrove, quello pel Papa da doversi far capitare nelle mani del
Nunzio(130). Il Sonetto "in lode de' tre fratelli di Pontio"
concede loro per attributi nientemeno che i tre principii
metafisici, e li mostra un riflesso della Trinità: Ferrante
rappresenterebbe la potenza, fra Dionisio la sapienza, fra Pietro
l'amore; e ci basti sapere che fra Pietro abbia rappresentato pel
Campanella l'amore o "il buon zelo". Quanto al Sonetto "al Papa",
l'ultimo del gruppo che abbiamo fin qui esaminato, esso può
considerarsi come l'embrione di quelle "appellationi segrete" che
il Campanella intese poi di avere inviate al Papa massimamente con
le sue lettere del 1606-1607: egli si raccomanda come meglio può,
e riescono notevoli sopratutto i seguenti versi:
"Non vedi congiurati a farli guerra
i nemici alla patria Italia bella,
ch'egli al valor anticho rinovella,
dove il zelante suo parlar s'afferra".
Ignoriamo se il Sonetto sia stato trasmesso al Papa: nel Carteggio
del Nunzio non ne troviamo il menomo indizio, e del rimanente,
laddove fosse stato trasmesso, niuno potrebbe meravigliarsi che il
ricordo della patria Italia bella, e del valore antico da
rinnovellarvisi, avesse trovato il cuore SS.mo indifferente o
peggio; basta che esso sia giunto a noi, per farci sempre meglio
conoscere ed apprezzare gl'intendimenti del Campanella.
Passiamo ora a vedere le prose, delle quali il Campanella si
occupò nel tempo suddetto. Ve ne sarebbero a considerare innanzi
tutto tre, la 1a Delineatio defensionum, la 2a Delineatio...
Articuli prophetales, l'Appendix ad amicum pro Apologia: le due
prime, che rappresentano le Difese presso i Giudici, comparvero
più tardi, il 3 giugno 1601, durante il processo di eresia per
mano di fra Pietro di Stilo(131); l'ultima, che rappresenta una
difesa presso un amico, comparve varii anni dopo, con ogni
probabilità nel 1607, in coda agli Articoli profetali ricomposti
allora in una forma più larga, verosimilmente essa pure ricomposta
in una forma più larga di quella della composizione
primitiva(132). Si può affermare con certezza, e ne vedremo tra
poco le ragioni, che appunto in quest'ordine di successione le
dette tre scritture siano state composte, essendone cominciata la
composizione un po' prima della 2a metà di febbraio. Si ricordi
che agli 11 febbraio era stato già accordato al Campanella "il
termine e la commodità" alle difese, e che allora il Sances volle
da lui una esposizione delle profezie sulle quali fondava le sue
credenze di vicine mutazioni, onde egli dettò al Barrese notaro
della causa molti Articoli profetali (ved. pag. 72 e 73). È
naturale ammettere che il Campanella abbia posto subito mano a
scrivere le sue Difese, stimando indispensabile aggiungervi anche
gli Articoli profetali, mentre al Sances era parso conveniente
acquistarne una nozione meno vaga mediante uno scritto. Ma tutto
questo lavoro non potè esser pronto che pel 10 aprile, e il
Campanella, giudicando che la causa sarebbe presto finita male e
che bisognava pure aprirsi una via di uscita dall'imminente
processo di eresia, avea dovuto manifestarsi pazzo fin dal 2
aprile: così le Difese scritte non poterono venir presentate in
tempo, ma il Campanella continuò a lavorarvi di nascosto, senza
dubbio nella speranza fallace che qualora non fosse stata
giuridicamente convalidata la pazzia, esse avrebbero ancora potuto
servire. Che il lavoro sia stato compiuto il 10 aprile, si desume
dal colloquio notturno tenuto a quella data con fra Pietro Ponzio,
il quale, avendo domandato al Campanella se avesse scritto
abbastanza in quel giorno, ne ebbe per risposta "assaissimo,
tutto"; l'aver poi il Campanella soggiunto che avea bisogno di
dare l'indomani una pagina scritta a fra Pietro di Stilo, farebbe
credere che in quel giorno medesimo egli avesse composta pure
l'Appendice in forma di lettera, rappresentata da quella pagina
scritta; sicchè la data di essa sarebbe il 10 aprile, ma resti ben
fermato non potersi sostenere che essa sia stata allora scritta
ne' termini precisi ne' quali è pervenuta a noi. Dopo le dette
scritture abbiamo fondata ragione di ammettere che il Campanella
si sia occupato di ricomporre l'opera già composta in Calabria
"Della Monarchia di Spagna", volendosi servire anche di essa per
sua difesa, quando si fosse ripigliata la spedizione della causa
rimasta sospesa in que' giorni; e nella ricomposizione di detta
opera ebbe ad impiegare il tempo immediatamente consecutivo, dal
maggio 1600 ad una parte del 1601, mentre era in pieno svolgimento
il processo di eresia.
Prima di esporre i particolari della Difesa, vogliamo notare
alcune interessanti singolarità, che colpiscono vedendo in qual
modo le Difese si trovano scritte: ne risulterà provato l'ordine
di successione con cui vennero composte tutte le scritture sopra
menzionate, ed anche chiarita la quistione de' libri, che il
Campanella in sèguito affermò aver voluto presentare in sua
discolpa, e in parte aver fatto subito venire dalla sua patria, ma
che il Sances non volle si presentassero né si sapessero (ved.
pag. 84). Le Difese con gli Articoli, così come furono trasmesse
più tardi a' Giudici dell'eresia, non appariscono scritte di mano
del Campanella, bensì trascritte da due copisti, de' quali il
primo che trascrisse la "1a Delineatio" è rimasto ignoto, ma
vedremo a suo tempo essere stato procurato da un Vincenzo Ubaldini
di Stilo, l'altro che trascrisse gli Articoli fu certamente fra
Pietro Ponzio, come apparisce dal carattere e come fu chiarito
anche presso il tribunale per l'eresia: costoro ebbero a porre in
ordine il contenuto di tante carte e cartoline staccate avute dal
Campanella, il quale poi lo rivide, lo corresse, vi appose qualche
postilla e qualche aggiunta di mano sua, ciò che merita la nostra
attenzione(133). Fin dalla prima pagina colpisce il vedere
enumerati quali libri suoi, atti a mostrare la sua affezione al Re
e alla Spagna, i Discorsi a' Principi d'Italia che avea mandati
all'Imperatore, il Dialogo contro i Luterani mandato a
Massimiliano ed esistente anche presso Mario del Tufo, la Tragedia
della Regina di Scozia conosciuta in Stilo e dal Principe della
Roccella, e poi anche la Monarchia di Spagna, ma questa con
un'aggiunta posteriore autografa, e con le circostanze dell'essere
stata scritta "ad instantiam praetoris" e del trovarsi "in suis
sarcinulis", naturalmente in Stilo; la cosa medesima si veda
nell'ultima pagina degli Articoli profetali, dove sono enumerati i
libri suoi atti a chiarire le cose enunciate negli Articoli, cioè
la(134) Monarchia de' Cristiani esistente presso il Card.l S.
Giorgio, e il libro Del Regime della Chiesa esistente in Stilo "in
suis sarcinulis" e poi anche, e sempre con un'aggiunta autografa,
la Monarchia di Spagna, con la circostanza del trovarsi parimente
in Stilo. Adunque il libro della Monarchia di Spagna dovè essere
scritto dopo le Difese, probabilmente in rifazione di un esemplare
perduto in Stilo durante le sue peripezie, ma non potè essere
presentato perché il Campanella mantenevasi tuttora pazzo, onde
v'è ragione di credere che invece di farlo venire subito da Stilo,
lo abbia mandato a Stilo per farlo trovare in quel posto e
giustificare in tutto e per tutto la sua asserzione; questo per un
altro verso si dovrebbe dire egualmente del libro del Regime della
Chiesa, perché sappiamo che era stato scritto fin dal tempo della
dimora in Padova ed era stato mandato a Mario del Tufo, e con ogni
probabilità, mentre premeva che fosse venuto nelle mani de'
Giudici, non si volle compromettere ulteriormente l'amico e
protettore che ne possedeva un esemplare; deve d'altronde
ritenersi molto naturale che in Calabria la prima composizione
della Monarchia di Spagna si fosse perduta durante le peripezie
del Campanella, mentre sappiamo con certezza che pure l'originale
del Regime della Chiesa fu ivi "rubato da infedeli amici" come si
legge nel Syntagma. Un'altra importante aggiunta autografa nella
"1a Delineatio" si legge poco dopo quella finora esposta e
commentata: avendo affermato che dalle profezie si rileverebbe non
aver finto "ad malum tegendum", di seconda mano aggiunse che ciò
si rileverebbe "et ex articulis prophetalibus ab eo additis" etc.;
deve dunque dirsi che gli Articoli siano stati veramente scritti
dopo la "1a Delineatio", che ad essi quindi si riferiva la dimanda
fatta nel colloquio notturno da fra Pietro Ponzio il quale era
impegnato a ricopiarli, e la data del 10 aprile sarebbe senz'altro
la data in cui il Campanella dovè finirne la composizione.
Mettiamo poi in un fascio tutte le altre aggiunte sparse nella "1a
Delineatio", le quali recano essere stati i testimoni uniformi
nelle profezie e varii nel rimanente, essere stato Maurizio
persuaso a rivelare da un Fiscale in abito di confrate, essersi
ritrattati il Caccìa e il Vitale, essersi una volta ritrattato
anche il Pizzoni; tutto ciò mostrerebbe che la composizione della
"1a Delineatio" dovè cominciare anche prima che fosse stata
consegnata la copia degli Atti processuali, rappresentando le
dette aggiunte, quasi tutte, notizie raccolte dagli Atti; né osta
che in una si legga "detur copia processus et demonstrabitur",
poichè ve ne sono altre che dicono "ut patet ex processu" e il
Campanella avrebbe voluto non solo gli Atti concernenti la persona
sua ma anche quelli concernenti i suoi compagni, che del resto
dovè avere almeno in frammenti di soppiatto. Può dunque dirsi che
egli abbia cominciato a scrivere questa "1a Delineatio" non appena
sofferto il polledro e fatta la confessione, quando n'ebbe
immediatamente "la comodità", ma deve anche dirsi che l'abbia
compiuta dopo di avere avuto conoscenza della Difesa scritta dal
De Leonardis e della replica del Sances, poichè vedremo or ora,
nell'ultima parte di essa, non solo discusse con calore le
identiche quistioni di dritto, ma anche respinte le cose che il
Sances avea notate su' costumi, sulle passate imputazioni di
eresia, sull'aver dato motivo di far morire molte persone: e gli
Articoli profetali, da non doversi confondere con gli Articoli
analoghi dettati al Barrese dietro richiesta del Sances, e rimasti
senza dubbio nelle mani del Sances, naturalmente doverono essere
scritti, nella loro ultima parte, tra le angustie della
dimostrazione di pazzia e tra' pericoli della rigorosa
sorveglianza.
Veniamo a' particolari delle Difese, che ci sembra conveniente
esporre con larghezza e poi commentare un poco, sebbene venute
tanto più tardi in luce, non presentate al tribunale competente e
rimaste affatto perdute pel Campanella. Teniamo per fermo che i
lettori vorranno conoscerle nella loro integrità testuale, ma ciò
non ci dispensa dall'obbligo di farne una minuta esposizione: deve
anzi dirsi una fortuna poter udire subito dopo lo svolgimento del
processo la voce dell'imputato, e poterne trarre una conclusione
meno fallace intorno alla sua colpabilità ottenebrata da tanti
interessi diversi.
Nella "1a Delineatio", appellandosi a' Libri sacri come fonte di
ogni legge, il Campanella comincia dal notare che in essi son
detti colpevoli di lesa Maestà solamente quelli che prendono le
armi contro il Re giusto o per malevolenza o per ambizione, non
quelli che perfino consumarono la ribellione guidati dalla
profezia e comunque fossero cattivi soggetti, adducendo gli esempi
di Siba e di Chore da una parte, e di Jeroboam, di Jehu e di
Joiada dall'altra. E soggiunge: "ma fra Tommaso Campanella,
insieme con quelli i quali aderirono a lui con retta intenzione,
non fu mosso a cospirare né dall'ambizione né dalla malevolenza,
se pure cospirò, bensì guidato dalla profezia umana e divina; né
la sua fu una cospirazione contro il Re, ma una certa cautela
contro le incursioni de' barbari e un'ammonizione a' conterranei
perché si mantenessero incolumi ne' monti, se per fatalità
avvenisse quanto si prediceva, laonde egli non è ribelle né degno
di morte". Passa quindi a dimostrare che non lo fece per ambizione
di Regno, perché era impossibile a lui poveretto distrarre il
Regno o la provincia dal dominio di un Re tanto forte, e bisognava
esser matto per ingannarsi fino a questo punto; e dice che per
natura e per fortuna egli era impotente a tali desiderii, e
rassegna i suoi precedenti, e nota le sue carcerazioni e malattie
anteriori, il ritorno in patria per salute a consiglio de' medici
Tancredi, Politi e Carnevale, i suoi studii alieni dalle armi, le
sue predicazioni per indurre il popolo a fabbricare una Chiesa di
cui il convento difettava ed egli scavò i fondamenti; e nota il
libro Sulla predestinazione che scriveva contro Molina per S.
Tommaso, e la Tragedia della Regina di Scozia contro gli Anglicani
in favore del Re, la sua vita di studioso e religioso, la sua
opera di pacificatore, e perfino la sua timidità provata nel
tormento, citando come testimoni fra Pietro di Stilo, il Petrolo,
tutti i suoi compagni di dimora, e conchiudendo che "dissero cosa
mostruosa coloro i quali gli attribuirono la cupidigia di
Monarchia". Dimostra poi che non cospirò per malevolenza verso il
Re e il suo dominio, perché aveva sempre ottenuto favore dagli
spagnuoli ed austriaci, come dal Reggente Marthos (Reggente di
Cancelleria in Napoli) e dall'Ambasciatore di Roma (il Duca di
Sessa), e parimente dall'Arciduca Massimiliano e dall'Imperatore,
i quali scrissero a Roma in favore di lui e di Gio. Battista
Clario carcerati; onde per gratitudine egli compose il Trattato in
cui sosteneva che l'Italia per suo bene dovea desiderare il
dominio del Re di Spagna, Trattato che mandò all'Imperatore
mediante Gio. Battista Clario, ed egualmente il Dialogo contro gli
Stati del settentrione calvinisti e luterani, che mandò a
Massimiliano e che trovavasi in copia presso D. Mario del Tufo,
come pure l'anzidetta Tragedia, nota a Stilo ed al Principe della
Roccella, ed il libro della Monarchia di Spagna, scritto ad
istanza del pretore (Governatore de Roxas?) e colmo di lodi per
gli spagnuoli, che trovavasi nelle sue poche masserizie. Nota
infine la sua amicizia col pretore spagnuolo e co' Presidi della
Provincia (gli Auditori?), l'essere stato sempre invitato dal
governatore a predicare, e l'aver detto nelle sue prediche tante
cose in favore del Re: che Dio avea dato la Monarchia agli
spagnuoli perché aveano combattuto 700 anni contro i mori nemici
della fede, mentre gli altri Principi cristiani si combattevano
tra loro; che il Re avrebbe distrutto i turchi quando costoro si
sarebbero divisi giusta la predizione di Arquato astrologo; che se
nel Regno esisteva qualche durezza, essa dovevasi ai difetti del
popolo e de' ministri, non già del Re; che nella prossima
mutazione del mondo il Re Filippo avrebbe rappresentata la parte
di Ciro, secondo i detti di Esdra e di Isaia, poichè dovea
liberare la Chiesa dalla Babilonia de' turchi e degli eretici,
edificare Gerusalemme, cioè Roma, e stabilire il vero sacrificio
dovunque nel mondo, girando il suo imperio col sole, ogni ora
facendo giorno in qualche parte del Regno suo e celebrandosi
continuamente la Messa in siffatto giro, la quale sentenza era
invalsa tanto, che Fulvio Vua sindaco di Stilo l'avea riprodotta
nel recitare il prologo di una rappresentazione della Passione di
Cristo, citando il Campanella fra' battimani generali. Così egli
era stato sempre pel Re ed avea procurato che gli altri lo
fossero, ne conservava l'immagine ed amava coloro che le facevano
onore, come erano in grado di attestare fra Pietro di Stilo, il
Petrolo, fra Scipione Politi, tutti gli Stilesi; né poteva dirsi
che egli si fosse infinto, mentre avrebbe agito contro sè
medesimo, perocchè se voleva tra due mesi distruggere il dominio
del Re, come mai così accanitamente l'edificava? e come mai il
Popolo poteva credergli in tanta contraddizione? conchiudendo:
"l'edificazione è attestata da molti e probi uomini, la
distruzione segreta da pochi e scellerati, a chi crederete voi o
giusti giudici?". Escluso quindi il movente dell'ambizione e della
malevolenza contro la Maestà, rimaneva il movente della profezia,
e non già contro ma a tutela della Maestà. E qui egli si fa a
citare tutte le previsioni, tutt'i prodigi, tutte le profezie ad
una ad una (sono state già accennate troppe volte e possiamo
dispensarcene), aggiungendo di avere interpretate le imminenti
mutazioni a favore del Re e della Chiesa, col servirsi delle
affermazioni de' Profeti e de' Santi, col sostenere che prima
della fine del mondo doveva esservi "un solo ovile ed un solo
pastore in una sola Repubblica cristiana, a capo della quale il
Pontefice Romano", che "il Re avrebbe adunato i Regni e il Papa li
avrebbe accolti nel suo ovile con maggior potestà". E dice che i
frati di S. Domenico doveano preparare tale repubblica, e con
autorità sacre e profane dimostra la futura repubblica, preludio
della celeste, desiderio degli uomini pii e de' Profeti, de' Poeti
e de' Filosofi, da verificarsi con la fusione di tutti i
principati in un Regno Sacerdotale ammesso anche da Platone; e
nota che riusciva esaltato il Re Filippo, posto da Dio per
soggiogare tutte le genti e i Regni, onde il senso della
repubblica predetta "era utile al Re prima che al Papa". Aggiunge
non poter essere condannato nemmeno quando le mutazioni predette
non si avverassero, poichè egli seguiva i Padri e i Santi, che
pure errarono; egli non era Profeta ma seguiva i Profeti, e
d'altronde nota che chi scorge i segni è tenuto a mostrarli,
citando in ciò l'esempio di Geremia e il precetto di S. Pietro.
Prevede intanto un argomento del Fisco, l'avere cioè lui detto che
bisognava "fare la repubblica con l'eloquenza e con le armi ne'
monti": e risponde che spettava a' Domenicani il prepararla, e lo
dimostra con molte autorità, aggiungendo che pure a' filosofi
spetta trattare della repubblica, ed egli, filosofo cristiano,
come S. Tommaso, Egidio ed altri, ne trattò scrivendo il libro
della Monarchia universale dei Cristiani che trovavasi presso il
Card.l S. Giorgio, ed in Stilo scriveva un libro sulla maniera di
formare quella Monarchia secondochè avea promesso nel libro
anteriore; donde bellamente provavasi "che egli non avea voluto
preparare la repubblica per sè stesso, ma preparare pel Papa e pel
Re un seminario di uomini grandi nelle lettere e nelle armi, acciò
potessero essere inviati dal Re e dal Papa pe' negozii di pace e
di guerra, e mostrare il preludio della repubblica grande
universale" etc. Prevede ancora un'obiezione(135), cioè, chi gli
avea data una missione simile? E risponde che avea "avuto
nell'animo un istinto divino appoggiato da segni e da profezie",
che Dio gli avea dato de' segni, ed egli avea considerato a
proposito servirsi del cattivo evento in bene, e così "ciò che
disse non fu un tentativo di ribellione ma una cautela contro il
male imminente, perocchè non avrebbe fatta la republica se non si
fosse avverata la mutazione; secondochè provasi dalla confessione
sua"; e come i Veneti non furono ribelli, quando per mettersi al
sicuro da' barbari occuparono gli scogli e il mare Adriatico e
fecero la repubblica, così essi pure non lo sarebbero stati
nell'occupare i monti se la mutazione si fosse avverata.
Continuando, passa a ribattere le testimonianze raccolte contro di
lui. I testimoni aveano deposto "che egli voleva ribellarsi
appoggiato agli aiuti de' turchi, de' banditi e de' predicatori":
ma non lo convincevano intorno a ciò, sia perché egli non poteva
ambire l'impossibile ed era amico degli spagnuoli, come avea già
provato, sia perché que' testimoni o parlavano per detto altrui, o
erano complici ed uomini scelleratissimi, ed anche aveano fatte
confessioni estorte per forza e per inimicizie. Tutti aveano detto
che egli metteva innanzi le mutazioni, laonde non vi era
intenzione di ribellarsi ma di difendersi da' nemici del Re e del
Papa; quanto essi aveano aggiunto proveniva o da cattiva
intelligenza, o da inimicizia, o da malvagità, e nelle cose
aggiunte a lui sfavorevoli erano "varii", e nella cosa principale
a lui favorevole, cioè la profezia, erano uniformi, onde
risultavano a discarico più che a carico. D'altronde la profezia
di una mutazione è sempre apparsa così vicina alla ribellione
medesima, che tutti i Profeti, come Michea, Geremia, Amos e del
pari gli Apostoli e Cristo Signor nostro, furono incolpati di tale
delitto; qual meraviglia che lo sia stato lui poveretto? Ma egli
non si appoggiò mai all'aiuto de' turchi; nessuno lo disse se non
per detto altrui, e lo stesso Maurizio che parlò co' turchi non
disse che vi era stato mandato da fra Tommaso, ma che vi era
andato spontaneamente; e ciò quantunque gli fosse nemico. Gli era
nemico, perché dubitò che esso fra Tommaso, il quale lo rimproverò
pel salvacondotto stabilito co' turchi, lo rivelasse; inoltre
perché esso fra Tommaso, mediante una domestica, avvertì Giulio
Contestabile che Maurizio si era nascosto nella piazza di Stilo
per ucciderlo, e questo non succedendogli, nello stesso giorno
Maurizio si portò a S. Maria di Titi per uccidere fra Tommaso e lo
perseguitò per 7 miglia. E però Maurizio risultava degno di fede
quando negava di essere stato mandato presso i turchi da lui, non
già quando deponeva contro di lui per inimicizia; poichè era
testimone unico, nemico, e facinoroso, che aveva ucciso più
persone e volle vendicarsi di ciò che esso fra Tommaso avea
deposto in iscritto contro di lui in Castelvetere, come rilevavasi
dal processo. Allorchè esso fra Tommaso lasciò Davoli e Maurizio,
trovandosi insieme con fra Domenico, veduti in mare i turchi li
sfuggì, malgrado avesse visto il salvacondotto dato da essi a
Maurizio; e però non avea confidenza ne' turchi, sebbene avesse
detto doversi essi dividere sotto due Re secondo la profezia di
Arquato astrologo, ed uno di costoro dover venire alla fede ed
alla repubblica; ma Maurizio faceva queste cose perché fosse
temuto ed avesse danaro dagli amici, servendosi male de' detti di
esso fra Tommaso, al pari degli scellerati ed eretici i quali
abusano anche dei detti degli Apostoli. E poi Maurizio ridotto
agli estremi ebbe speranza di salvarsi, deponendogli contro;
giacchè glie lo persuase un certo fiscale in abito di confratello,
promettendogli la vita sotto la parola Regia, come in sèguito udì
dalla bocca di lui esso fra Tommaso, e vi erano per testimoni
sacerdoti e persone dabbene che l'affermavano. "né esso fra
Tommaso volle servirsi de' banditi come nemici del Re, ma come
uomini armati, volgendoli al bene: perocchè propose di servirsi
anche di uomini probi non banditi, come rilevasi dal processo. A'
Principi amici poi egli dichiara non aver rivelato nulla, non
perché fosse cosa cattiva, ma perché agli uomini felici ogni
presagio di mutazione rincresce". Quanto a Claudio Crispo, costui
rivelò per orribili tormenti non scritti in processo; ed era
bandito, omicida e nemico di esso fra Tommaso, il quale non avea
voluto trattarne il matrimonio ed avea detto al Pizzoni che
avvertisse il Signore del luogo che Claudio voleva ammazzarlo,
onde si rifiutò di recarsi a Davoli quando egli ve lo chiamò per
mezzo del Petrolo; adunque non meritava fede. Quanto al Caccìa, al
pari del Pisano, era stato esaminato in foro non ecclesiastico, ed
era bandito ed omicida, nemico egualmente di esso fra Tommaso, il
quale ricettò nella sua cella Marcantonio Contestabile quando egli
voleva ucciderlo per averne avuto un colpo di archibugio; ed avea
detto di aver parlato con fra Tommaso nel giugno, mentre aveagli
parlato nella settimana santa, e poi sul punto di morte si era
ritrattato. Quanto al Pisano e a Gio. Battista Vitale, oltrechè
erano scelleratissimi, non aveano mai parlato con fra Tommaso; e
nel carcere di Castelvetere non si parlò di quello che disse il
Pisano, come lo provavano la sconvenienza della cosa e le
testimonianze del Bitonto e di fra Dionisio; il Vitale poi sul
punto di morte si era ritrattato. Quanto al Pizzoni, esso era
scandaloso, scellerato ed infame (e qui nota ad una ad una tutte
le colpe di lui minutissimamente ed anche ingenerosamente, con un
odio manifesto); avea promesso di ritrattarsi nelle cartoline
scritte entro il Breviario, e si era una volta ritrattato, e poi
era tornato alle prime dichiarazioni, onde dovea dirsi bilingue,
detestato da Dio nell'ecclesiastico, e qual fede potea fare? Il
Lauriana era falsario, come lo provavano le sue lettere mandate a
fra Dionisio ed a' fratelli Ponzii, e varie altre circostanze
rilevate nel processo; era infame, come lo provava la sua vita
anteriore; ed esso fra Tommaso nella sua confessione non lo
nominò, poichè essendo infame non aveagli mai parlato, ed anzi si
rifiutò di farlo accogliere nel convento di Stilo, onde gli
divenne nemico. Fra Domenico Petrolo poi nemmeno meritava fede,
perché si lasciò persuadere dal Lauriana mentre era nella medesima
fossa, nella quale scrisse esservi stato posto perché dicesse il
falso; inoltre in Lombardia aveva avuto penitenze come manesco.
Dopo di aver combattuto i testimoni, il Campanella combatte i
primi giudici, accenna all'imputazione di eresia, discute le
quistioni di dritto, e formola la sua conclusione. Fra Marco di
Marcianise era vecchio nemico di fra Dionisio per le controversie
de' frati Riformati. Fra Cornelio lombardo era egualmente nemico
di fra Dionisio per molte cause fratesche, e poi avea preso
danaro; 100 ducati da Mesuraca per fare un processo capitale, 50
ducati da' parenti di Cesare Pisano per favorirlo, 100 ducati da
fra Vincenzo Rodino e fra Alessandro di S. Giorgio per liberarli
dalla carcere. Lo Sciarava, giudice nell'altro foro, era stato
giudice e parte, avea magnificata la causa della ribellione per
magnificare sè medesimo presso il Re, trovavasi da due anni
scomunicato dal Vescovo di Mileto patrono di esso fra Tommaso;
avea preteso la ribellione essere fomentata da Prelati e da
Principi, ed aveva amministrati tali e tanti tormenti da far dire
ad ognuno più di quanto sapesse, mentre anche i calabresi, per
natura loro, credono di esonerarsi col dire più di quanto sanno
non solo contro i nemici ma anche contro gli amici. E poi
soggiunge: "Non deve pregiudicare ciò che falsi testimoni
affermano, l'aver lui voluto fondare eresia, poichè questo deve
discutersi non già ritenersi in anticipazione, né egli ne fu mai
confesso o convinto, benchè ne sia stato veementemente sospetto; e
la sospizione si è verificata anche in persona di Profeti e di
Santi, che trovansi condannati come eretici e seduttori. né in
Calabria è possibile fondare eresia senza le forze de' Principi,
siccome egli disputò nel libro della Monarchia, e se avesse avuta
questa intenzione sarebbe andato in Germania o a Costantinopoli.
Così mostransi riprensibili le parole sue mal comprese, non già la
sua vita e i suoi costumi, circa i quali egli chiede di essere
inquisito benchè si trovi diffamato. E i suoi travagli passati non
lo rendono cattivo, ma forse piuttosto timido, giacchè la cattiva
azione fa l'uomo cattivo.... Oramai si è fatto palese che i
pensieri di fra Tommaso erano rivolti all'unione de' Cristiani".
Soggiunge ancora: le pruove testimoniali dicono tutto al più aver
lui voluto ribellare solamente di seconda intenzione, cioè nel
caso in cui fossero avvenute mutazioni. Ma bisogna distinguere il
reato commesso e il reato semplicemente voluto, e quello contro la
persona del Re e quello contro il Regno. Chi l'abbia commesso
merita la morte e non può darglisi di più; chi l'abbia solamente
voluto merita qualche cosa di meno; chi l'abbia voluto di seconda
intenzione merita anche meno di chi l'abbia voluto di prima
intenzione; e chi non è suddito merita meno del suddito, e il
frate meno del clerico secolare, poichè la Religione Domenicana
dipende immediatamente dal Papa; chi poi dice bene del Re merita
anche meno. Inoltre non ci fu mai un concerto, ma ci furono
colloquii accidentali. Così nella casa di Gio. Jacopo Sabinis esso
fra Tommaso andò a far la pace tra' Contestabili e Carnevali;
erano presenti Maurizio e Gio. Gregorio Prestinace suo compare
venuti per la pacificazione, e cadde il discorso sulle mutazioni,
ma nessuno intervenne per la ribellione, che nessuno di loro avea
mai ideata. A Pizzoni esso fra Tommaso andò sollecitato tre volte
da fra Gio. Battista, e comunque vi fossero altre persone, il
colloquio si tenne solamente tra lui, fra Gio. Battista e Claudio
Crispo: non erano presenti fra Dionisio e gli altri, e però non ci
fu concerto; esso fra Tommaso parlò al Crispo dietro istanza di
fra Gio. Battista per trattenerlo nella difesa di lui, non già per
la ribellione, e andò pure a vedere una fabbrica di carta, ed
aveva compagni perché la strada non era sicura. A Davoli neanche
vi fu concerto, poichè il Rania e Maurizio non furono presenti al
colloquio che esso fra Tommaso ebbe con Gio. Paolo di Cordova e
Gio. Tommaso di Franza, "onde riesce chiaro non esservi stato da
parte di fra Tommaso fermo consiglio, se fatalmente le mutazioni
non avessero fornita l'occasione". Egli non merita pena, avendo
solo razionalmente dubitato pe' segni o per le profezie; né è
responsabile dell'essere molti morti per questa causa, poichè
tutti erano omicidi, e Dio permise che morissero per avere abusato
de' detti di fra Tommaso e per gli altri loro peccati. Anche le
predicazioni degli Apostoli e de' Profeti eccitarono molti rumori,
ma la predicazione di fra Tommaso fu a vantaggio della repubblica
sì del Re che del Papa. I socii di Catilina convinti e confessi di
congiura per mettere a fuoco la patria e distruggere il Senato,
avendo giurato col bere sangue misto con vino, perché non giunsero
a consumare la loro scelleraggine, trovarono una parte di Senatori
che con Cesare disse non doversi dare loro la morte: e non troverà
misericordia presso cristiani fra Tommaso, che non commise
scelleraggine, non si ricinse di armi, non mosse a sedizione....
né è suddito, né Principe o potente da cui possa temersi qualche
cosa? I Dottori dicono, che è in facoltà del giudice consegnare o
no un clerico alla Curia secolare, vista la condizione della
persona: la condizione deve intendersi relativamente all'atto in
quistione non già relativamente ad ogni altra cosa, e qui c'è
difetto di condizione spettante alla sostanza dell'atto, poichè
essendo fra Tommaso inabile a ribellare e per natura, e per
fortuna, e per professione, non deve credersi che abbia cercato di
ribellare, anche quando fosse un cattivo soggetto. Oltracciò il
Papa nel suo Breve dice che si consegnino alla Curia secolare
coloro i quali sono legittimamente convinti, e fra Tommaso non è
convinto, sia perché manca il corpo del delitto, sia perché i
testimoni sono complici, nemici e scellerati, ed anche varii
intorno alla cosa, al modo, al luogo e al tempo. E la convinzione
deve intendersi nel senso del reato commesso, non già soltanto
voluto, e se la convinzione manca, la condanna deve pronunziarsi
secondo il dritto canonico, non secondo il dritto civile: né la
ragione politica lo consiglia, poichè è odioso lo spargere il
sangue di un sacerdote, massime pel motivo di profezia; e il
popolo lo loderebbe quando avvenisse qualche sciagura. Tutti i
testimoni ne' tormenti negano di essersi accordati con fra Tommaso
intorno alla repubblica; adunque fra Tommaso fu solo a volerla,
ciò che è impossibile, e così essi lo assolvono, e "mostrano fra
Tommaso aver detto questo nella sua confessione pel minor male,
sotto l'impressione del tormento, macerato dal carcere, dalla
fossa e dall'inedia".
Ed ecco la conclusione: "Meglio è che sia messo in custodia fino
al tempo della predizione sua, sì che il popolo ne vegga la
falsità, ovvero si penta acciò non accadano i mali quando siano
veri; come avvisava Geremia... Che se avvenga danno al Regno, egli
si offre di risarcirlo al doppio; poichè della morte sua il Regno
non rimane edificato ma scandalizzato, laddove si verifichi
qualche sciagura, come apparisce dalla perdita delle navi
sofferta(136). "La morte è una cautela di mali futuri, non già de'
passati: a ciò meglio provvede il carcere in materia di predizioni
e novità". E ripigliando le sue considerazioni sul processo
aggiunge di non dover morire, perché non è ribelle né di 1a né di
2a intenzione, perché non è convinto, perché seguendo il fato
predisse e desiderò preparare un bene da un male; e le inimicizie,
tra tutti quelli che volevano ciò, mostrano non esservi stato tra
loro alcun proposito di ribellare, poichè la cospirazione esige
l'unione degli animi e molta confidenza, e tra loro non ve ne fu;
vi fu abuso delle predizioni da parte di taluno. La ribellione non
venne dimostrata con qualche atto, ma solo concepita
nell'intenzione; null'altro il fisco può provare dal processo, ma
non si può provarlo nemmeno dalle parole di fra Tommaso agli
altri, poichè egli poteva altro dire ed altro intendere; ma dalle
parole sue nel tormento non si prova l'intenzione di ribellare,
bensì il contrario, e però contro di lui non c'è nulla. Finisce
chiedendo i suoi libri e la facoltà di essere esaminato, e
dimostrando che non si deve seguire il Palermitano, il quale dice
che nel caso di delitto di ribellione il clerico ha da essere
consegnato alla Curia secolare, poichè le teoriche di costui non
sono soltanto erronee ma perfino eretiche(137).
La "2a Delineatio" è rappresentata dagli Articoli profetali. Sono
15 articoli ne' quali il Campanella mostra la necessità di
occuparsi de' segni e delle profezie, espone e giustifica quanto
avea raccolto in tale materia, ed infine ricorda anche i segni
speciali visti in Calabria, onde era stato condotto a determinare
l'inizio delle imminenti mutazioni nel 1600 e nel primo settenario
del nuovo secolo. Andremmo troppo in lungo nel volerne dar conto;
e trattandosi di cose le quali riescono a chiarire il punto di
partenza della sua azione, ma non propriamente la sua azione ne'
fatti della congiura, crediamo bene potercene dispensare. Egli li
scrisse in aggiunta alla sua 1a Difesa, per dimostrare "che non si
era infinto allo scopo di covrire un male", come appunto ivi
dichiarò; non rappresentavano quindi propriamente una difesa, ma
un allegato della difesa, e questo si rileva anche dalla loro
intestazione. Il Campanella si proponeva di svolgerli innanzi a'
Giudici coll'aiuto del libro sulla Monarchia de' Cristiani e del
libro sul Regime della Chiesa, l'uno in potere del Card.l S.
Giorgio, l'altro lasciato in Stilo; e chiedeva questi libri, e si
protestava della nullità degli atti se i libri non fossero dati,
come si legge appunto nella fine degli articoli.
Dobbiamo ora fare qualche commento su queste Difese, e
segnatamente sulla 1a di esse. Lasciando da parte la forma,
notiamo che varii tentennamenti appariscono ne' concetti medesimi
esposti dal Campanella, ed in ultima analisi non è assolutamente
negato il fatto di un disegno partecipato con sollecitazioni a
diversi aderenti, banditi e non banditi, di un concerto per far la
repubblica nei monti, avvalendosi di mutazioni in vista ed
aiutandosi con le armi e le prediche; ma questo fatto è
semplicemente attenuato e fornito di spiegazioni, il cui valore
doveva senza dubbio riuscire quistionabile assai nella mente de'
Giudici. D'altronde non si vede efficacemente combattuto il cumulo
di testimonianze raccolte contro di lui, ma anch'esso appena
attenuato e fornito di spiegazioni non sempre felici; sicchè non è
pienamente negata la reità, ma solo rimpiccolita al punto da
respingere per essa la pena di morte ed ammettere la pena del
carcere indefinito. Mentre si propone di sostenere che non abbia
cospirato, comincia col dimostrare che "non fu mosso a cospirare
né dall'ambizione né dalla malevolenza, ma guidato dalla
profezia"; intende di provare non esservi stato concerto, e
frattanto parla di "coloro i quali aderirono a lui con retta
intenzione", e spiega che "volle servirsi de' banditi non come
nemici del Re, ma come uomini armati convertendoli al bene, e
propose di servirsi anche di uomini probi non banditi"; ed è
superfluo insistere sul buio fitto della natura delle mutazioni,
della condizione della repubblica da fondarsi, del Regno
sacerdotale unico "utile al Re prima che al Papa", dell'essersi
mosso a preparare la repubblica "per istinto divino e perché
spettava a' Domenicani il prepararla", e parimente degli scopi
singolari affibbiati a tale repubblica. Non riesce poi certamente
a combattere i testimoni dicendoli "complici e scelleratissimi",
giacchè l'esistenza del reato veniva con ciò tristamente ribadita,
e per la giurisprudenza del tempo nel reato di Maestà anche i
complici valevano a convincere; né riesce esatto dicendo che
"tutti ne' tormenti aveano negato di essersi accordati con fra
Tommaso intorno alla repubblica" e però fra Tommaso sarebbe stato
il solo a volerla, mentre invece taluni erano risultati confessi
di avervi direttamente o indirettamente aderito. E guardando alle
obiezioni avverso ciascun testimone, debolissime riescono p. es.
quelle fatte al Petrolo, e quanto al Pizzoni, niente di serio
prova l'enumerazione delle sue scelleraggini ed infamie passate,
le quali non aveano mai impedito che fosse corsa tra lui e il
Campanella una grande intimità; né prova molto la ritrattazione da
lui fatta ma non mantenuta, e l'essere stato bilingue prova
tutt'al più che gli avea mancato di fede, denunziandolo in un
reato nel quale erano complici, ma non che il reato era stato da
lui inventato. Quanto al Caccìa ed al Crispo, non riescono
facilmente ammissibili le spiegazioni date per mostrare la loro
inimicizia verso di lui, mentre egli si era mantenuto in istretta
relazione con loro, e massime con l'ultimo avea tenuto una
corrispondenza scritta, assai compromettente e caduta nelle mani
del fisco; quanto al Pisano ed al Vitale, è vero che costoro non
aveano mai parlato con lui, ma aveano pur troppo parlato co' due
suoi più attivi compagni, fra Dionisio e Maurizio, l'uno lasciato
dal Campanella assolutamente nell'ombra, l'altro posto sotto una
luce orribile; d'altronde, circa le ritrattazioni avvenute per
taluni di costoro in punto di morte, esse a quel tempo nemmeno
godevano molto credito, sapendosi che erano troppo spesso dovute
alle istanze de' superstiti, e alla credenza che fosse opera
cristiana e meritoria l'aiutarli. Quanto a Maurizio, l'inimicizia
di costui non riesce concepibile, mentre in tanti tormenti
sofferti non aveva mai nominato il Campanella, e le storie postume
di tale inimicizia, come il movente delle ultime rivelazioni da
lui fatte, appariscono asserzioni inventate pe' bisogni della
causa: sul fatto medesimo dell'avere Maurizio deposto che il
Campanella non avea voluto il soccorso de' turchi, fatto ripetuto
costantemente dal Campanella, c'era un po' di equivoco, giacchè
Maurizio avea con lealtà deposto di essere spontaneamente andato
presso i turchi, non già che il Campanella fosse propriamente
contrario alla dimanda di questo soccorso, mentre invece egli
appunto ne avea fatto sorgere il pensiero. Ma del resto lasciando
anche da parte tutte le testimonianze di questi "complici e
scelleratissimi", c'era la testimonianza dello stesso Campanella,
la Dichiarazione scritta in Castelvetere, suggellata dalla
confessione orale in tortura; e il Campanella nella sua Difesa
accenna appena a questa confessione, la quale era sempre della più
alta importanza, giacchè, pur quando avesse potuto dimostrare di
non essere stato convinto, gli rimaneva ancora a dimostrare di non
essere stato confesso; egli si limita a dire, col solito
tentennamento, una volta che "dalla sua confessione si provava
solo che non avrebbe fatta la repubblica se non quando fosse
avvenuta mutazione", ed un'altra volta che "dalle sue parole nel
tormento non si provava l'intenzione di ribellare, bensì il
contrario", laonde questo lato importantissimo della difesa
apparisce deficiente. Infine torna anche inutile per lui ricordare
che i primi Giudici erano nemici e venali, quando le imputazioni
risultavano confermate innanzi a' successivi; inutile far notare
che lo Sciarava si era servito di tormenti gravissimi, quando la
giurisprudenza concedeva di potersene servire nel caso di lesa
Maestà; inutile distinguere il reato commesso e il reato
semplicemente voluto quando la giurisprudenza nel caso di lesa
Maestà assegnava la pena medesima all'uno ed all'altro; inutile
discutere le condizioni in cui si poteva consegnare il Clerico
alla Curia secolare, quando il Breve Papale aveva conceduto che le
si consegnassero quelli "legittimamente convinti o confessi". In
conclusione le Difese del Campanella non avrebbero potuto
distruggere l'imputazione fattagli, perché la sua causa
disgraziatamente era insostenibile con efficacia. Gli Articoli
profetali da lui scritti, senza contare quello serbato in petto
concernente la Monarchia a lui profetizzata dall'astrologo,
valevano bene a dimostrare che egli penetrato di certi principii
superiori aveva agito in conseguenza di essi: ma non era stata per
anco fatta a que' tempi la grandiosa scoperta della forza
irresistibile, e l'opera sua, comunque ricinta di certe
condizioni, non era e non poteva essere che una congiura, un
disegno di ribellione, e i Giudici non avrebbero potuto profferire
altra sentenza che quella di consegna alla Curia secolare. Egli
medesimo si contentava allora di ciò che lo rese scontento in
sèguito, quando il caso glie lo fece ottenere, di esser messo in
custodia fino all'avveramento della predizione sua; e si sa che il
tempo ne era definito sino ad un certo punto, lasciando un margine
più che largo, come rilevasi chiaramente dalla stessa edizione
posteriore de' suoi Articoli profetali. Dopo tutto ciò può ognuno
formarsi un criterio intorno alla colpabilità del Campanella nel
delitto appostogli; a noi essa apparisce manifesta.
Ci rimane a parlare dell'Appendice o Lettera "ad amicum pro
Apologia", scritta, come abbiamo veduto, subito dopo le Difese.
Quale oggi la possediamo, essa trovasi in coda a ciascuna delle
tre copie ms. degli Articuli prophetales, ultima ricomposizione,
che si conservano in Roma nella Casanatense, in Napoli ed anche in
Madrid nelle rispettive biblioteche nazionali. Il Berti fu il
primo a scovrirla nella Casanatense, e nel 1878 ne diè un sunto
molto preciso, giudicandola documento valevolissimo a smentire
l'esistenza della congiura. Noi la diamo per esteso, nella lezione
della Casanatense e in quella di Napoli, giacchè ognuna di esse è
molto scorretta e può l'una correggersi con l'altra, raccomandando
a' lettori di percorrerla nella sua integrità: essi la
giudicheranno probabilmente, come noi la giudichiamo, un documento
apologetico, al pari delle lettere del 1606-1607 e della
Narrazione che il Campanella scrisse tanto più tardi, per
giustificarsi alla meglio e in tutti i modi, i quali d'altronde
non escono dall'ordine de' modi da lui adottati e ripetuti sempre;
né sfuggirà certamente la concordanza de' concetti in essa svolti
con quelli svolti nella Difesa. Diciamo d'un tratto che la Lettera
apparisce scritta ad un compagno di carcere similmente frate, con
ogni probabilità a fra Dionisio, durante la causa della congiura,
dietro il risentimento di costui perché le mutazioni previste non
erano succedute o erano succedute a rovescio, ed anche perché avea
confessato di voler predicare la repubblica. Ma eccone una
rassegna particolareggiata. Il Campanella vi ricorda aver detto
che dall'anno 1600 in poi sarebbero succedute grandi novità, ed
afferma che sul negozio di Calabria l'amico dovea sdegnarsi non
già contro di lui ma contro sè stesso, che avea parlato di ciò che
meno comprendeva. Che egli vide una cometa marziale la quale
correva dall'oriente all'occidente, ed argomentò che sarebbe
venuta gente estranea contro i Reggitori della Provincia, ma non
potè vedere che razza di gente si fosse, e vennero i Capitani
Regii e desolarono il paese (infatti venne Carlo Spinelli avverso
a De Roxas Preside della Provincia, ma di questo pronostico
sbagliato da cima a fondo avrebbero potuto forse rimanere
capacitati i Giudici, non mai l'amico suo). Ed estendendosi ne'
prodigi apparsi "che poteano muovere ogni savio a parlare", dice
che nelle sue predizioni non tocca questo Regno più che lo stesso
mondo, di cui preconizza la fine (veramente nella Dichiarazione
avea ammesso di aver predetto le mutazioni pel Regno di Napoli),
ed annunzia la fine del mondo e la Santa repubblica aspettata da'
profeti, da' filosofi e dalle genti; e dice che l'amico non può
far difese se egli non parli ai Giudici, la qual cosa non si
permette (ma pure fino ad un certo punto ne aveva parlato a'
Giudici ed anche dettato uno scritto per uso del Sances). Predice
all'amico che la congiunzione magna gli sarà fatale e non potrà
sfuggire agli spagnuoli, che gli sovrasta la morte ne' 38 anni di
età, come a sè stesso sovrasta ne' 43, e quindi gli raccomanda di
trovar mezzi perché la causa sia finita prima di tre anni (donde
si dovrebbe inferire che la lettera fosse stata scritta dopo la
sospensiva prodottasi nella spedizione della causa, vale a dire
dopo il 12 aprile, ma bisogna sempre tener presente che si ha
sott'occhio un esemplare della lettera rifatta). Passa a
giustificarsi dell'aver confessato di voler predicare la
desiderata repubblica, se fatalmente fosse avvenuta la rovina del
Regno e della Provincia, raccogliendone i residui su' monti: io,
egli dice, non ho confessato eresia né ribellione, ma di aver
voluto profittare di un male volgendolo in bene; così non furono i
Veneti ribelli all'Impero, quando percossa Aquileia da Attila
ripararono nelle lagune e costituirono una nuova repubblica libera
dall'Impero. E poi dice che spettava a' Domenicani predicare tale
repubblica, e lo dimostra co' testi ecclesiastici, con S. Vincenzo
Ferrer, S.ta Caterina, l'Apocalisse, e cita fra Rusticano,
Savonarola, M.° Catarino, il B.to Raimondo etc., e nota che quelli
i quali tengono la fede per ragion di Stato giudicano che essi
pure abbiano parlato per acquistare uno Stato, ma chi crede per
ragione Divina li difende con Davide e S. Paolo. Aggiunge che egli
è umiliato troppo, che tutti sono umiliati e flagellati troppo,
che egli meritava un premio, che quelli che non credono nelle sue
predizioni se ne avvedranno, e qui cita S. Pietro, Isaia etc.
concludendo che le profezie si adempiranno, e raccomandando a
tutti di agire virilmente e sollevare il loro cuore. - Che questa
lettera si debba ritenere diretta a fra Dionisio, come il Berti
ottimamente afferma sebbene non ne dica le ragioni, apparisce dal
vederla scritta ad uno che si era sdegnato coll'autore, che avea
già prima parlato a sproposito, che era in pericolo di non potere
sfuggire agli spagnuoli, circostanze tutte riferibili appunto a
fra Dionisio. Vi sarebbe solo da obiettare che avendogli il
Campanella predetta la morte a 38 anni, nel tempo della
congiunzione magna, vale a dire nel 24 10bre 1603 come ci lasciò
scritto anche nelle Poesie, fra Dionisio avrebbe dovuto nel 1600
avere 35 anni di età; e sebbene ci facciano difetto le notizie
intorno a ciò, mancandone sempre tutti i costituti suoi, l'età di
35 anni nel 1600 non può dirsi probabile per lui, tanto più che
conosciamo avere allora il germano fra Pietro l'età di 31 anno, e
l'altro germano Ferrante 29(138); tuttavia fra le moltissime
scorrezioni di entrambi i manoscritti questa potrebbe esser una, e
invece di 38 dovrebbe forse leggersi 35. Ma ciò che non persuade
si è, che in una lettera confidenziale occorresse esporre tutte
quelle giustificazioni estranee a' rimproveri che erano stati
mossi, e ripetere tutte quelle profezie e citazioni che fra
Dionisio e gli altri compagni aveano dovuto udire già troppe
volte, come lo mostrano le deposizioni fatte da alcuni di loro in
Calabria. Bisogna quindi dire che in ultima analisi, come gli
Articoli profetali delle biblioteche sono certamente un'edizione
posteriore rifatta ed ampliata degli Articoli scritti al tempo de'
processi, così la lettera che sta in appendice a quelli Articoli
dev'essere un'edizione rifatta ed ampliata della lettera scritta
dapprima, e quindi un'edizione adattata alle circostanze
dell'autore a' tempi ne' quali essa venne rifatta. Vedremo che gli
Articoli profetali vennero rifatti nel 1607, con la speranza che
sarebbero stati presentati ad alti personaggi, de' quali il
Campanella sollecitava l'aiuto; e così l'Appendice avrebbe servito
presso costoro, ripetendo gli argomenti che si trovano addotti
nella "1a Delineatio defensionum" e poi nelle lettere del
1606-1607, svolti di nuovo in sèguito nella Narrazione; laonde
bene a ragione dicevamo trattarsi di un documento apologetico non
dissimile da tutti gli altri che si conoscono, e da doversi
apprezzare co' criterii medesimi co' quali i detti documenti vanno
apprezzati.
Nulla abbiamo poi a dire circa la ricomposizione del libro della
Monarchia di Spagna; ci basterà solo far avvertire che essa venne
eseguita realmente nel corso del processo dell'eresia, essendo
rimasta sospesa la spedizione della causa della congiura, e
continuando il Campanella a dimostrarsi pazzo.
Ma non c'ingolferemo nel racconto del lungo processo dell'eresia,
senza parlare de' premii che da un pezzo i denunzianti e i
persecutori della congiura dimandavano, il Vicerè sollecitava, e
il Governo di Madrid venne accordando mano mano e senza alcuna
fretta. "Non era negotio questo da passar irremunerato; furono
riconosciuti non solo dal Conte, ma anche da S. M.tà in molte
maniere": così scrisse il Capaccio vissuto a que' tempi,
discorrendo di Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia(139).
Disgraziatamente i Registri Mercedum rimastici nell'Archivio di
Stato, ne' quali insieme con le ricompense si sogliono trovare
specificati i servigi, cominciano solo dall'anno 1606; ma altre
categorie di scritture forniscono anche notizie di concessioni
fatte a questi due sciagurati, ricordando il loro servigio
speciale della scoperta della congiura. Per Fabio di Lauro, ne'
Registri Sigillorum in data di aprile 1600, troviamo una grazia
fatta a sei individui che avevano assassinato fra Maurizio
Barracco, altra nostra conoscenza, sicuramente dietro la sua
intercessione o "nominatione" come allora si diceva, "stante lo
servitio fatto in scoprire la congiura tentata in Calabria, in
deservitio de Dio et de sua M.tà" etc.(140): ma troviamo pure in
data del 3 gennaio 1602 e 3 aprile 1604 una licenza d'arme per lui
con altri tre compagni, la qual cosa potrebbe indicare che era
obbligato a guardarsi da qualche vendetta(141). Per Gio. Battista
Biblia poi, abbiamo veduto essergli stato ucciso il fratello Marco
Antonio fin dal novembre o dicembre 1599: questo Marco Antonio,
dapprima sostituto credenziere, era stato in sèguito nominato
percettore della gabella della seta di Catanzaro, con privilegi
notati per le esecutorie fin dall'ultimo di febbraio e 12 maggio
1595; ed ecco Gio. Battista Biblia succedergli in questo ufficio
con privilegio notato per l'esecutoria il 16 dicembre 1600, ma
naturalmente concesso alcuni mesi prima(142). Oltracciò i Registri
Privilegiorum ce lo mostrano con la data del 12 giugno 1602
insignito del titolo e grado di nobiltà, trasmissibili a' suoi
discendenti: e in siffatta occasione troviamo menzionato "il
singolare servizio" di avere partecipato al Sovrano "la congiura e
perfidia di taluni della stessa città di Catanzaro"(143). È del
tutto verosimile che la medesima onorificenza, con qualche altra
lauta carica, abbia avuta egualmente Fabio di Lauro, e lo
confermerebbe il fatto, che alcuni anni dopo il Campanella, nelle
sue lettere del 1606, parlò de' "revelanti falsi fatti cavalieri";
ma non ci è riuscito trovarne i documenti. Lo stesso ci è avvenuto
per Gio. Geronimo Morano, pel quale le ricompense doverono essere
certamente più laute: possiamo soltanto dire che egli non si mosse
da Catanzaro e continuò a spadroneggiarvi, ma vi fu gravemente
avversato dagli Spina. È certo poi che da Madrid, allorchè si
trattava di pure lettere di complimenti, queste non si facevano
troppo attendere, ma allorchè si trattava di ricompense sode,
queste venivano con comodo e dopo maturi consigli. E p. es. il
Principe della Roccella non tardò ad avere, in data de' 27 aprile
1600, una lettera del Re, pubblicata dall'Adimari nella Storia
della famiglia Carafa e ripubblicata dal Baldacchini, con la quale
Filippo III diceva che avrebbe nelle occasioni tenuto presente
l'avviso avuto dal Vicerè "de la promptitud con que acudistes à la
defensa de las cosas de Calabria, en la ocasion dela venida dela
Armada Turquesca el año passado, y el cuydado con que os
empleastes en atajar la coniuracion que algunos tratavan en
aquella Provincia". Ma, utilitario qual era, il Principe si fece
anche cedere dal Conte di Condeianni D. Gio. Battista Marullo le
difese di Bianco e Condeianni involte in una grossa vertenza col
Fisco, e iniziò una favorevole transazione su questo capo, inoltre
chiese un comando di gente d'arme (titolo di alto onore, con buon
soldo, senza obbligo di servizio); scorse allora molto tempo, ma
infine ottenne, oltre la transazione desiderata, un posto di
Consigliere del Collaterale, con la promessa che dandosi
l'occasione sarebbe stato tenuto presente pel posto di Capitano di
gente d'arme(144). Quanto a Carlo Spinelli, fatta una dimanda
formale, con l'esposizione di tutti i suoi meriti, e tra gli altri
quello della diligenza e premura usata "en acquietar y guardar la
provincia de Calabria dela armada del Turco y alboroto que alli
occurrio el año passado", onde sollecitava o la proprietà del
comando della cavalleria che teneva interinalmente, o l'aumento
della pensione di. D.ti 400 che godeva, sempre con la facoltà
della trasmissione a vita a un suo nipote, dovè attendere che il
Vicerè e il Consiglio Collaterale dessero il loro parere sulla
dimanda. I lettori troveranno ne' Documenti da noi raccolti la
lettera Regia con la quale veniva ordinato l'invio di tale
parere(145); ed aggiungiamo che non prima del 4 settembre 1601 fu
accordato allo Spinelli il posto di Capitano della cavalleria
pesante, "avendo per aggiunto con futura successione D. Scipione
Sanseverino Marchese di S. Donato suo pronipote da sorella" che
egli nominò(146); così questo giovane cavaliere, Marchese dal 1598
e subito promosso Duca il 20 settembre 1602, favorito dallo zio
Spinelli e dal padrigno Reggente Costanzo, divenne sempreppiù
scapestrato e prepotente, né a caso parliamo di lui, dovendo
incontrare anche la sua sorella nel corso di questa narrazione.
Maggior tempo ancora dovè attendere D. Carlo Ruffo, per vedere
accolte le dimande fatte: abbiamo intorno a lui solamente il
Privilegio col quale gli si concede la dignità e il grado di Duca
di Bagnara, con la circostanza dell'averlo dimandato; esso è in
data del 19 gennaio 1603(147). Come si vede, D. Carlo saltò da
Barone a Duca, pe' meriti suoi, di tutta la sua famiglia e de'
maggiori, secondo l'espressione del Privilegio; e il Campanella fu
pur troppo la causa principale di tante grandezze.
Naturalmente non venne dimenticato lo Xarava e neanche fra
Cornelio. Documenti rinvenuti nell'Archivio di Napoli ci mostrano
che il Conte di Lemos propose immediatamente lo Xarava al posto di
Consigliere del Sacro Regio Consiglio di Capuana, non appena vi fu
una vacanza per la morte di D. Alonso Ximenes; ma in Madrid si
affacciarono dubbî sulla sua capacità, integrità e prudenza, il Re
volle esserne bene informato, e per quella volta fu nominato
Consigliere il Ruiz de Baldevieto, del quale accadrà pure di dover
parlare in sèguito(148). Nel frattempo vacò un altro posto di
Consigliere per la morte di D. Francisco Bermudez de Castro, e
l'ebbe l'Avvocato De Leonardis, stato già promosso a Fiscale della
Vicaria; ne vacò poi un terzo pel passaggio di D. Pietro De Vera a
Presidente, ed allora lo Xarava, recatosi personalmente a Madrid,
potè essere nominato Consigliere, ma ciò avvenne non prima del 14
aprile 1603(149). Vedremo che al nuovo ufficio agevolò ancora la
via un altro avvenimento, che eccitò sempre più a' rigori verso i
frati incriminati, a' quali rigori lo Xarava si offrì in un modo
perfino strano: per ora aggiungiamo che tanto più tardi, nel 1615,
ottenne ancora una pensione annua di D.i 300, e sempre venendo
annoverati tra' meriti i servigi resi in Calabria da Avvocato
fiscale(150). Quanto a fra Cornelio, anch'egli dovè aspettare, ma
impaziente qual era, d'accordo col Vicerè e con le commendatizie
di Carlo Spinelli, nel marzo 1601 si recò a Madrid, e vedremo che
subito fra Dionisio lo fece conoscere a Roma, essendosi ritenuto
che avesse intrapreso tale viaggio per dar notizia al Governo
dell'andamento del processo dell'eresia già in corso, nel quale si
trovava a ridire sul conto suo, e sul conto di fra Marco da
Marcianise come di tutti coloro i quali aveano tenuto mano o a
perseguitare o a giudicare i frati; se non che, oltre questo
scopo, dovè esservi anche l'altro di sollecitare almeno una
pensione, ed è certo che finì per ottenerla. Lo abbiamo desunto da
due documenti raccolti tra diversi altri nell'Archivio di Torino,
essendo stato fra Cornelio il protagonista di un incidente che
avvenne parecchi anni dopo e che accenneremo in breve. Trovavasi
Vicerè di Napoli il 2° Conte di Lemos, e fra Cornelio era ben
veduto da lui: con lettere commendatizie del Card.l Aldobrandini,
e con un atteggiamento di suddito fedele a casa Savoia, progettò
un matrimonio tra il Re di Spagna e Maria di Savoia terzogenita
del Duca Carlo Emmanuele; in giugno 1613 impegnò nella faccenda
l'Agente del Duca in Napoli Melchiorre Reviglione, e ne fece fare
la proposta al Conte di Lemos, offrendosi di andar lui in Spagna,
giacchè essendo "pensionato del Re" nessuno avrebbe mai potuto
intendere lo scopo del viaggio, che sarebbe stato attribuito ai
suoi particolari interessi. La guerra pel Monferrato assopì la
faccenda, ma nel novembre 1616 fra Cornelio se ne andò a Roma per
parlarne al Ministro di Savoia, l'Abate Scaglia Conte della
Verrua, al quale già si era offerto prima quale agente di fiducia
mandandogli una cifra e qualche lettera di poca importanza:
l'Abate non lo ritenne altrimenti che un furbo, desideroso di
assicurarsi in Madrid la pensione, posta in pericolo dall'essere
succeduto il Duca di Ossuna al Conte di Lemos, mentre egli
trovavasi "da tanto tempo pensionato dal Re"; infine poi fra
Cornelio, divenuto già gottoso, non volle contentarsi di 300
ducati d'oro fattigli offrire dal Duca pel viaggio, ma a noi basta
che sia accertato il fatto della pensione già ottenuta da antica
data(151). Così non a torto poi il Campanella ebbe a mettere
innanzi i tanti premii che il Re avea dati; e s'intende che per un
servigio di quel genere i premii erano un fatto naturalissimo, ma
veder premiato e notoriamente premiato anche fra Cornelio giudice
di S.to Officio, senza che il Nunzio Aldobrandini se ne fosse mai
curato in alcun modo, non può non dirsi un fatto veramente
scandaloso.
Dobbiamo aggiungere ancora qualche parola sulla promozione avuta
egualmente dall'Avvocato De Leonardis, di cui il Campanella poi
nella Narrazione disse che avea "più presto avvocato contra per
diventar Consigliero". Non pare che l'appunto possa qui dirsi
fondato. Oltrechè abbiamo testualmente la Difesa scritta dal De
Leonardis, ed ognuno è in grado di valutarla, sappiamo che egli
non diventò Consigliere a un tratto, ma prima passò all'ufficio di
Fiscale della Vicaria, e più tardi all'ufficio di Consigliere;
percorse quindi la carriera giudiziaria comune, nella quale non
poteva incontrare obiezioni, giacchè era universalmente
riconosciuta la sua cultura e la sua buona morale, come
l'attestano varie scritture del tempo. Non siamo riusciti a
trovare nell'Archivio di Stato il Privilegio della sua nomina ad
Avvocato Fiscale, dove avrebbe veramente potuto esservi qualche
parola di ricordo de' suoi meriti speciali anche per la causa
degl'incriminati della congiura, giacchè il Governo spagnuolo non
si sarebbe fatto scrupolo di parlarne; abbiamo soltanto trovato
l'esecutoria di tale Privilegio in data del 2 novembre 1601. Ed
abbiamo poi trovato anche il Privilegio della nomina a Consigliere
in data di Valladolid 3 aprile 1602, la comunicazione fattane al
Consiglio in data del 1° maggio, e l'annotamento dell'esecutoria
in data dell'11 ottobre detto anno; né il Privilegio reca alcuna
menzione del servizio prestato nella causa della congiura, come
s'incontra p. es. in persona dello Xarava(152). Dopo ciò possiamo
venire all'esposizione del processo dell'eresia.
CAP. V.
SÈGUITO DE' PROCESSI DI NAPOLI E DELLA PAZZIA DEL CAMPANELLA.
B. - Processo dell'eresia (maggio 1600 a settembre 1602).
I. Rammentiamo innanzi tutto, circa l'eresia, che dapprima il Papa
avea manifestato di volere a Roma gl'incriminati o sospetti in
tale materia finita la causa della congiura (4 10bre 1599); ma in
sèguito, vista senza dubbio l'impossibilità della cosa, giacchè il
Governo Vicereale non si sarebbe lasciato trarre di mano i frati
che il processo della congiura mostrava colpevoli, avea spedito
ordine mediante il Card.l di S.ta Severina che se ne occupasse il
Nunzio, con ogni probabilità perché il Vescovo di Caserta Ministro
della S.ta Inquisizione Romana nel Regno trovavasi assente, in
compagnia del Vicario Arcivescovile della Curia napoletana, il
quale presedeva il tribunale diocesano di S.to Officio (4 febbraio
1600)(153); il Nunzio poi, che molto volentieri ne avrebbe fatto
di meno, vista la profonda dottrina del Campanella, il quale
sviluppava tante profezie e produceva tante citazioni in suo
favore, scrisse subito al Card.l S. Giorgio, ed anche al Card.l di
S.ta Severina, che "se pur tal negotio dovea spedirsi qua" in
Napoli, reputava necessario l'intervento di qualche persona
pratica e buon Teologo (11 febbraio). Così scorse ancora un certo
tempo, sino a che non fu disponibile l'uomo capace di stare a
fronte del Campanella secondo le preoccupazioni del Nunzio, e solo
verso la fine di aprile si potè costituire il tribunale per
l'eresia, associando a' due Giudici prima designati il Vescovo di
Termoli. Era costui quel fra Alberto Tragagliolo da Firenzuola
Domenicano, che abbiamo già visto Commissario generale del S.to
Officio sin dall'ottobre 1592 e durante i processi avuti in Roma
dal Campanella nel 1594-1595, divenuto molto benevolo verso il
filosofo in tale occasione e senza dubbio assai competente ed
opportuno nel caso attuale. Malamente designato dal Fontana col
nome di "frater Albertus Tragnolus" e poi anche con quello di fra
Alberto Drago(154), così ritenuto dall'Ughelli e dopo di lui anche
da Quétif ed Echard(155), malamente creduto Firenzuola e non
Tragagliolo dal Capialbi(156), egli cognominavasi Tragagliolo ed
era nativo di Firenzuola nel Piacentino: avea già funzionato da
Commissario del S.to Officio in Faenza, in Genova, in Milano,
quando venne chiamato Commissario generale in Roma da Clemente
VIII; poi dietro la morte di Mons.r Francesco Scoto fu promosso al
Vescovato di Termoli, secondo il Fontana e l'Ughelli il 29
novembre 1599, ma certamente provvisto di exequatur soltanto
all'ultimo di febbraio 1600, con esecutoria in data degli 8 marzo,
come risulta dalle scritture esistenti nell'Archivio di
Napoli(157). Può dirsi con sicurezza che si pensò a lui per la
causa del Campanella più che all'ultima ora, essendogli stata
mandata a Napoli la nomina di Commissario della causa dopo la sua
partenza da Roma; ond'egli assai probabilmente non giunse nemmeno
a vedere la sua Chiesa, obbligato ad un lavoro assiduo pel
processo di cui andiamo ad occuparci, fino al tempo della sua
morte, che avvenne disgraziatamente otto mesi dopo, succedendogli
nel carico di giudice D. Benedetto Mandina Vescovo di Caserta.
Quanto al Vicario Arcivescovile, abbiamo già avuta occasione di
rilevare che teneva detto officio il Rev.do Ercole Vaccari (ved.
pag. 44): qui dobbiamo aggiungere che per le molteplici e gravi
faccende della Curia Arcivescovile erano allora i carichi
distribuiti a più persone in qualità di Vicarii, e nelle scritture
del tempo, oltre il Vaccari, designato "Vicarius generalis
capitularis et locumtenens in spiritualibus", troviamo il Rev.do
Curzio Palumbo, designato "Vicarius generalis Monialium et
locumtenens in civilibus"; e vedremo nel processo figurare da
giudice o "congiudice" prima il Vaccari con la qualità di
Delegato, poi il Palumbo con la qualità di subdelegato, poi ancora
il Rev.do Alessandro Graziano successo al Vaccari dopo la morte
dell'Arcivescovo Card.l Gesualdo.
Il 18 aprile 1600, alle istanze del Nunzio, il quale in data del
14 aveva ancora mostrato di non sapere dove S. S.tà volea che si
trattassero le materie appartenenti al S.to Officio, il Card.l di
S.ta Severina rispondeva, avere S. S.tà "per satisfare a cotesti
Signori et Ministri Regii" risoluto che la causa spettante al S.to
Officio si trattasse in Napoli dal Nunzio, dal Vicario
Arcivescovile e dal Vescovo di Termoli, il quale da tre giorni era
partito per Napoli, onde egli dirigeva al Nunzio medesimo la
lettera scritta per lui; e soggiungeva essere intenzione di S.
S.tà, che procurassero di terminar presto la causa, ma ne
inviassero a Roma un breve Sommario, coll'avviso su' meriti del
processo, e col parer loro intorno alla spedizione, prima di dare
la sentenza. Analogamente egli scriveva pure al Vescovo di Termoli
ed al Vicario Arcivescovile, aggiungendo al Vescovo, che per
essere persona "molto ben pratica, et anco informata delle altre
cause conosciute in questa santa Inquisitione contra il
Campanella, ove abiurò come sospetto vehementemente di heresia
l'anno 1591", non gli diceva altro, bensì offriva di mandargliene
le scritture se lo reputasse necessario: dalle quali parole
risultano chiariti assai bene gli antecedenti così del Vescovo di
Termoli come del Campanella, e chiarita la posizione giuridica in
cui il Campanella veniva a trovarsi, cioè la posizione di relapso,
qualora le nuove accuse di eresia fossero state provate. Siffatte
lettere leggonsi nel processo di Napoli, 2° volume dell'intero
processo, costituendone i primi atti(158). Sappiamo poi dal
Carteggio del Nunzio che egli vide il Vescovo di Termoli il 5
maggio, e in tale data gli consegnò ad un tempo la lettera del
Card.l di S.ta Severina e il processo di Calabria portato da fra
Cornelio fin dal novembre e giacente presso di lui. Così al
Vescovo di Termoli veniva in realtà "deferita ogni cosa", come il
Nunzio ebbe a dire più tardi, ed egli, presa stanza nel convento
di S. Luigi dell'ordine de' Minimi di S. Francesco di Paola, posto
presso Palazzo Reale, si diede con molta alacrità a compiere il
suo mandato. Gli altri colleghi si occuparono della causa
piuttosto con la semplice loro presenza, ed il Nunzio, benchè
figurasse come il principale tra' Giudici, nemmeno della presenza
sua onorò largamente il tribunale; egli aveva pur allora ottenuto
dal Papa di passare la Pasqua rosata nella sua Chiesa di Troia,
ove non apparisce che si fosse mai recato fino a quel momento, e
nel dichiararsi pronto a trattare la causa, riservavasi di voler
andare a Troia per la Pasqua, la quale si celebrava il 22 del
mese, come ci mostrano diverse scritture del 1600.
Il 10 maggio, in una camera del Castel nuovo, si diè principio
agli esami, continuandoli poscia il 15, il 17, il 19, il 26, il
28; ma fin dalla 3a seduta, in sostituzione del Nunzio assente
intervenne l'Auditore di lui, il Rev.do Antonio Peri fiorentino:
come Notaro e Mastrodatti, servì sempre, dal principio alla fine
della causa, Gio. Camillo Prezioso, uno de' vecchi Notari della
Curia Arcivescovile, che figura nella più gran parte de' processi
del tribunale diocesano della fine del 1599 e principio del
1600(159). Fu esaminato dapprima il Pizzoni. Confermando in
termini generali quanto avea deposto innanzi al Visitatore in
Calabria, egli aggiunse che era stato più volte da parte del
Campanella minacciato di farlo trovare in maggiore intrigo se non
si ritrattasse specialmente sulle materie di S.to Officio, una 1a
volta in Gerace mediante fra Pietro Ponzio che avea ricevuta per
questo una cartolina da fra Tommaso, una 2a volta alla presenza di
fra Paolo della Grotteria in Bivona, quando erano per imbarcarsi,
mediante un soldato del capitano Figueroa, una 3a volta in Napoli
mediante lo stesso fra Pietro Ponzio, che avea ricevuto per questo
nuove lettere da fra Tommaso. Aggiunse pure che nell'udire la
lettura del suo esame in Napoli (certamente a proposito della
congiura), si era avveduto trovarvisi detti complici quelli che
egli aveva indicati come familiari del Campanella, verosimilmente
consapevoli delle opinioni eretiche di lui, e ripetè che costoro
erano fra Pietro di Stilo, il Petrolo, fra Paolo della Grotteria,
il Bitonto, il Jatrinoli. Ripetè l'occasione con la quale nel
luglio scorso il Campanella aveagli parlato delle sue eresie, e
come fra Dionisio, due giorni prima, gli aveva esternato le
medesime eresie dicendogli di tenerle per vere. Aggiunse infine,
che aveva rimproverato e cacciato il Campanella da Pizzoni, aveva
informato di ogni cosa per lettera del 1° agosto il Generale in
Roma, ne aveva anche informato di persona il Visitatore in Soriano
il 28 agosto. Tale fu la deposizione del Pizzoni, che egli non
potè sottoscrivere e dovè soltanto crocesegnare, trovandosi col
braccio offeso dalla tortura avuta nell'altro tribunale(160).
Persistente nelle accuse contro il Campanella, aggravandone la
responsabilità col fatto delle minacce, egli cercò di scusare sè
medesimo con la cacciata del Campanella da Pizzoni e con gli
avvisi datine a' superiori. - Vollero allora i Giudici udire su
tale asserzione il Visitatore ed anche fra Cornelio, il quale era
già tornato da Roma a Napoli in quel tempo (circostanza
probabilmente ignorata dal Pizzoni). Entrambi, l'un dopo l'altro,
nella 2a seduta del tribunale, il 15 maggio, ricordando qualche
faccenda trattata col Pizzoni in Soriano, negarono di aver avuta
quivi da lui alcuna notizia delle cose del Campanella(161).
Aggiungiamo che poco dopo il Vescovo di Termoli dovè pure
interrogare per lettera il P.e Generale Beccaria, poichè se ne
trova nel processo la risposta in data del 12 giugno dal convento
di S. Tommaso, vale a dire da Napoli, dove a que' giorni era
venuto pel Capitolo generale che vi si tenne, e dove qualche mese
dopo, il 3 agosto, morì col compianto de' cittadini e in voce di
santità e di miracoli. Non contento delle reminiscenze proprie, il
P.e Generale volle consultare anche quelle del suo P.e compagno, e
venne a dichiarare che non si era mai avuta dal Pizzoni lettera
alcuna contenente l'avviso asserto(162). E per verità così il
Visitatore come il Generale, al menomo avviso, non avrebbero
potuto mancare di provvedere immediatamente contro il Campanella e
fra Dionisio; e già riesce manifesta la pessima via in cui il
Pizzoni si era posto e si manteneva. - Frattanto, nella stessa
seduta, fu esaminato pure il Petrolo. Costui volle che gli si
rileggesse la deposizione fatta in Calabria, e trovò solamente a
ridire che non avea deposto con quelle precise parole che erano
state scritte. Ripetè ad una ad una le eresie udite dal
Campanella, quasi tutte quelle deposte in Calabria, dicendo di
averle udite nel passeggiare con lui a' Lanzari presso Stilo, nel
mese di maggio, e ripetendo i nomi de' frati e secolari co' quali
il Campanella dava segni d'indevozione e parlava delle sue
opinioni, ma non tanto apertamente, sicchè a lui non constava che
fossero veramente complici; ripeteva pertanto di aver saputo da
fra Pietro di Stilo che il Lauriana gli aveva dette certe parole
pronunziate da fra Dionisio in dispregio dell'eucaristia. Inoltre
si dichiarò egualmente minacciato dal Campanella perché si
ritrattasse, una 1a volta per via dal Campanella in persona che
gli disse "per Deum oportet te retractare alioquin agam ut mecum
moriaris", una 2a volta in Monteleone per mezzo di Cesare Pisano,
una 3a volta in Napoli parimente dal Campanella in persona dalla
finestra della carcere(163). Come ben si vede, anche costui non
faceva che aggravare la posizione del Campanella cercando di
salvare la propria, e quanto alle minacce avute, noi ci siamo già
manifestati nel senso che poterono esservi, dovendo il Campanella
sentirsi esasperato contro questi suoi scempiati compagni, i quali
avevano dapprima udito benevolmente le sue opinioni, si erano
anche impegnati a propagarle, e poi le avevano manifestate a'
Giudici rigettandone sopra di lui tutta la responsabilità.
Il 17 maggio, 3a seduta del tribunale, in cui cominciò ad
intervenire l'Auditore Antonio Peri invece del Nunzio, si procedè
all'esame del Campanella; ma egli, già mostratosi pazzo innanzi
che si desse principio alla causa, continuò a mostrarsi tale. Gli
si deferì il solito giuramento, ed egli non diè segno di capire;
gli si disse di lasciare le finzioni, poichè altrimenti, per avere
la risposta precisa, si sarebbe ricorso a' rimedi opportuni, vale
a dire alla tortura, e gli si offerse il Diurno, sul quale avrebbe
dovuto giurare toccandolo, ma egli rispose "voletemelo legere"
continuando a mostrare di non capire; allora fu rimandato alla sua
carcere(164). E si passò a fra Pietro di Stilo, il quale, con fina
ironia, disse che non avrebbe voluto mancare di dire la verità per
uomini quali il Campanella e fra Dionisio, mentre dal volgo erano
allora chiamati inimici di Dio e del Re; negò di aver mai parlato
con alcuno delle opinioni del Campanella, e solo ammise di averlo
lodato come sapiente quale era stimato da tutti, affermando che un
gran numero di persone di ogni ceto accorreva a vederlo, e
ripetendo i nomi de' più particolari amici di lui, il Vua,
Marcantonio Contestabile e il Prestinace (tutti già posti in
salvo), il Caccìa "quale fu squartato dalle galere, et Giulio
Contestabile quale veneva più presto per il fratello che per il
Campanella" (non più dichiarato intimo amico costui, ora che si
trovava in pericolo ed erano già sbolliti i primi rancori). E
noverò tra loro anche il Soldaniero, cui egli avea portata una
lettera del Campanella, continuando a negare di aver mai saputo
ciò che quella lettera contenesse, negando anche di aver saputo
mai che fra Dionisio fosse stato in relazione col Soldaniero.
Egualmente negò di aver mai persuaso o tentato di persuadere
alcuno (cioè il Soldaniero) che non rivelasse le opinioni eretiche
di fra Dionisio, che volesse credere alle opinioni di costui, e
che andasse dal Campanella. Quanto poi alle opinioni eretiche del
Campanella, disse di aver solamente saputo da alcuni birri i quali
accompagnavano i prigioni, che il Campanella diceva di esser
profeta e negava l'inferno e il paradiso, ma direttamente egli
avea da lui udito soltanto che vi era poca differenza tra' peccati
di lussuria ritenuti assai diversamente gravi (attenuazione
notevole). Sempre dietro dimande, ripetè che il Campanella gli
avea due volte detto di dover essere monarca, come gli era stato
vaticinato pure da un astrologo; e in quanto a sè, ripetè di aver
detto per burla voler prendere moglie, e di non aver mai sognato
che avesse a predicare contro la fede(165). Così, evidentemente,
fra Pietro continuava a non negare ciò che riusciva impossibile
negare, e difendendo sè stesso si sforzava di difendere in pari
tempo il Campanella, attenuando perfino le cose altre volte da lui
medesimo deposte. - Si venne allora all'esame anche di fra
Silvestro di Lauriana, di fra Paolo della Grotteria, di fra
Giuseppe Bitonto. Il Lauriana disse non aver altro a dire se non
che pativa continue minacce da parte del Campanella ed egualmente
di fra Dionisio perché si ritrattasse, rivelando che costoro
continuamente si scrivevano cartoline, e che qualora si facesse
ricerca sulle persone di fra Pietro e di Ferrante Ponzio, forse si
troverebbe qualche cosa; onde i Giudici fecero fare immediatamente
questa ricerca sulla persona di fra Pietro che era in Castel
nuovo, mentre Ferrante era in Castello dell'uovo, ma non si trovò
nulla. Inoltre, dietro interrogazioni, il Lauriana affermò di
essere andato col Pizzoni presso il Visitatore, per denunciare i
fatti del Campanella, dopochè il Campanella era stato nel loro
convento; e disse di non sapere propriamente che persona fosse il
Pizzoni, non avendolo avuto in pratica, ed attenuò di molto ciò
che altra volta avea dichiarato a carico di lui, dicendo che
mentre leggevano insieme un libro del Campanella, il Pizzoni, da
lui interrogato, avea risposto che alcune cose del Campanella gli
piacevano ed altre no (scuse sicuramente concertate tra loro). Fra
Paolo poi disse non occorrergli dire altro, e negò di aver mai
saputo tentativi di qualche carcerato verso altri carcerati perché
revocassero le deposizioni fatte; negò di aver mai trattato cosa
alcuna col Campanella; affermò che quel libretto di cose
superstiziose, trovato sulla sua persona, era stato in suo potere
due giorni soli, e spiegò che avea avuta la condanna alla galera
per aver minacciato il P.e Provinciale Pietro Ponzio, il quale fu
poi ucciso mentre egli già trovavasi alla catena. Finalmente il
Bitonto disse che avea bensì visitato due volte il Campanella, di
cui era familiare, ma senza avere avuto nemmeno agio di
trattenersi con lui; nominò quelli che aveano in sua compagnia
visitato il Campanella, e li dichiarò tutti uomini dabbene,
all'infuori del Pisano, che era tristo e volle accompagnarlo senza
potersene liberare, ed abitò con lui otto giorni (contraddicendo
con ciò la sua prima deposizione); disse pure non aver mai udito
eresie da alcuno, ma solo nelle carceri avere udito dal Pizzoni e
dal Lauriana che il Campanella e fra Dionisio aveano sparse
eresie, e fattagli l'osservazione che sapevasi nel tribunale aver
lui applaudito a certi discorsi eretici e segnatamente alla
proposizione che la Messa si celebrava per bere ancora una volta,
egli rispose di non saperne nulla(166).
Dobbiamo qui aggiungere che nella stessa data del 17 maggio venne
presentata al Vescovo di Termoli una denunzia contro il Campanella
da parte di fra Agostino Cavallo di Cosenza. Sappiamo che costui
era Provinciale di Calabria in quell'anno(167), ed avea dovuto
venire in qualità di definitore del Capitolo generale che allora
celebravasi in Napoli, al pari di fra Giuseppe Dattilo egualmente
di Cosenza, stato già Provinciale due altre volte ed appartenente
alla fazione del Polistina. Fra Agostino consegnò al Vescovo di
Termoli una scritta in cui esponeva che, avendo udito essere stata
a lui affidata la causa del Campanella, per disgravio della sua
coscienza gli faceva conoscere che il Campanella già da dieci anni
in circa, stando in Cosenza, avea stretta amicizia con un ebreo
chiamato Abramo, sospetto negromante e possessore di spiriti
familiari, amico stretto anche di fra Dionisio; che col detto
ebreo erasi il Campanella partito da Calabria, e di tutto ciò
poteva aversi notizia anche da fra Giuseppe Dattilo. - L'indomani,
d'ordine del Vescovo di Termoli, il Prezioso andò a raccogliere la
deposizione di fra Agostino, ed alcuni giorni più tardi raccolse
pure quella di fra Giuseppe Dattilo. Fra Agostino confermò la
pratica dell'ebreo col Campanella in Cosenza, in Montalto, in
Altomonte (sic), di dove poi essi se ne andarono insieme a Napoli,
con tutte quelle particolarità da noi già esposte a tempo debito
in questa narrazione: confermò pure la pratica dell'ebreo con fra
Dionisio in Catanzaro, notando che era corsa voce essere stato poi
quell'ebreo giustiziato in Napoli come spia del turco, ed
aggiungendo che allora dicevasi aver lui vaticinato al Campanella
la Monarchia del mondo e che era stato lui, l'ebreo, la rovina del
Campanella. Fra Giuseppe Dattilo fu meno esplicito: attribuì la
scoverta di ogni cosa a fra Domenico di Polistina, e disse che a
relazione di costui rimproverò in quel tempo il Campanella, perché
volea svestirsi dell'abito religioso, ciò che poi non fece, ma
solamente se ne andò con l'ebreo a Napoli; disse che non si
ricordava bene se fosse partito con sua licenza o no, e che in
Calabria era corsa voce essere stato l'ebreo "brugiato in Roma per
ordine del Santo officio". Quanto alla pratica dell'ebreo con fra
Dionisio, non ne fece parola (e veramente il fatto era più che
dubbio). I lettori troveranno ne' Documenti la denuncia e le
deposizioni dei due frati(168), e leggendole sentiranno forse,
come noi lo sentiamo, il sospetto che a quelle rivelazioni tardive
potè dare la spinta fra Domenico di Polistina più volte in esso
citato, tanto più che dalle parole e da' concetti di que' frati,
comunque pezzi grossi dell'ordine, si rileva manifesta la loro
melensaggine, della quale i nemici del Campanella, e ancor più di
fra Dionisio, aveano tutto l'interesse di profittare. È difficile
intendere che fra Agostino, così tenero della sua coscienza,
avesse aspettato dieci anni a sgravarsela, e che fra Giuseppe
Dattilo, così smemorato, avesse potuto ricordare la voce corsa che
l'ebreo era stato bruciato dal S.to Officio, senza che qualcuno si
fosse data la premura di eccitarne gli scrupoli e ravvivarne la
memoria: del resto c'è anche da sospettare che costoro si
mostrassero melensi per progetto, trovandosi ascritti alla fazione
del Polistina, e volendo farsi credere ingenui.
Dobbiamo d'altra parte aggiungere che il Vescovo di Termoli si era
presto messo in corrispondenza con Roma, dando ragguaglio al
Card.l di S.ta Severina di ciò che veniva rilevando negli esami
de' frati, e di ciò che gli riusciva sapere anche per vie
estragiudiziarie; poichè con una premura lodevolissima,
oppostamente all'incuria sempre addimostrata dal Nunzio, cercava
la luce dovunque, non solo dagl'inquisiti, ma anche da fra
Cornelio, dallo Sciarava, perfino da Fabio di Lauro, oltrechè da
D. Pietro de Vera, parlando loro privatamente. Abituato a quelle
ricerche diligentissime che si adoperavano nel giudicare le
materie di S.to Officio, colpito dalla feroce prepotenza de'
Giudici Regii e dalla condotta per lo meno deplorabile de' Giudici
ecclesiastici nella Calabria, consapevole degli odii feroci e
criminosi che campeggiavano segnatamente nell'ordine Domenicano al
quale egli stesso apparteneva, forse anche trasportato
dall'ammirazione e dalla benevolenza che da un pezzo nutriva pel
povero fra Tommaso, non credè mai di aver fatto abbastanza per
iscoprire la verità, e vedremo che, fino alla sua morte, egli,
tanto pratico nelle cose giudiziarie, rimase perplesso e dubbioso
su tutto. Delle sue lettere non conosciamo che i punti più
notevoli, i quali vennero inserti negli ultimi Sommarii de'
processi, e senza le date che pure favorirebbero tanto più la
buona nozione dell'argomento; laonde non possiamo riportarli, come
vorremmo, a proprio tempo e luogo, ma ci vediamo obbligati a
riunirli tutti in un fascio al sèguito degli atti compiuti da quel
Vescovo. Conosciamo per altro le date delle prime lettere, che
furono il 12 e il 19 maggio(169). Il 12 maggio il Card.l di S.ta
Severina gli mandava il Sommario del processo, o meglio de'
processi ecclesiastici di Calabria (di Monteleone, di Gerace ed
anche di Squillace), Sommario compilato nel S.to Officio di Roma
dal Rev.do Procuratore fiscale, che era quello stesso Giulio
Monterenzio, il cui nome figura anche ne' documenti del processo
di Giordano Bruno: infatti oltre la lettera di S.ta Severina ne
abbiamo un'altra posteriore di questo Monterenzio, che spiega un
dubbio sorto sopra un punto del suo Sommario, ciò che dimostra
pure la diligenza grandissima con la quale il Vescovo di Termoli
attendeva alla causa(170). Nella stessa data, due giorni dopo la
prima seduta del tribunale, il Vescovo scriveva al Card.l di S.ta
Severina partecipandogli senza dubbio che la trattazione della
causa era già cominciata: il 19 maggio poi, due giorni dopo che il
Campanella chiamato all'esame erasi mostrato pazzo, egli scriveva
la sua 2a lettera, con la quale manifestava di credere che la
pazzia del Campanella fosse simulata, che il Nunzio da molti
giorni l'avea fatto sorvegliare ed avea saputo che parlava
assennatamente, che stimava doversi venire alla tortura "pro
praecisa responsione" (secondo la giurisprudenza del tempo); ed
aggiungeva essere a sua notizia che il Campanella non temeva la
tortura, e che la pazzia era nata da che il P.e Gonzales,
confessore di alcuni tra' carcerati, prima della sua venuta a
Napoli, aveva esortato il Campanella ad aver cura dell'anima
perché il corpo era spedito(171). Come mai questi ultimi fatti, di
ordine assolutamente riposto, erano venuti a notizia del Vescovo
di Termoli? Vedremo fra Pietro di Stilo, assai più tardi, esporre
ai Giudici la circostanza delle esortazioni e riprensioni del P.e
Gonzales; è chiaro quindi che il Vescovo non rifuggiva
dall'informarsi dell'andamento delle cose da' frati medesimi,
mostrandosi con loro Giudice severo ma tutt'altro che inumano.
Si ripigliavano intanto più e più volte gli esami de' frati, e poi
si passava a quello de' testimoni. Nel medesimo giorno, 19 maggio,
si esaminavano ancora fra Paolo, il Bitonto, il Petrolo, fra
Pietro di Stilo, il Lauriana(172). Fra Paolo fu interrogato di
nuovo circa quel libretto di cose superstiziose, e richiesto del
motivo pel quale vi si leggeva un segreto per non confessare alla
corda, onde si poteva dedurre che egli temesse di averla a
soffrire; fu interrogato ancora su' detti e fatti del Campanella,
su' frati i quali si erano congregati in Pizzoni, sull'impegno
preso di dover predicare contro la fede al tempo della ribellione.
Ed egli in fondo negò ogni cosa, nominò i congregati in Pizzoni, e
all'ultima dimanda rispose "son frate semplice et non intendo
Latino, come volea predicare"? - Il Bitonto fu interrogato circa
la sua conoscenza con Felice Gagliardo e con Cesare Pisano,
l'andata in Messina con Cesare, i discorsi fatti in tale
occasione, la consacrazione di diverse ostie e lo scellerato abuso
fattone, come pure circa il motivo pel quale avea lasciato l'abito
e tolta la corona al tempo della sua cattura. Ed egli,
qualificando il Gagliardo, come il Pisano, tristissimo uomo,
ricordando le circostanze per le quali avea dovuto trovarsi con
loro, negò energicamente tutti i fatti criminosi che se
gl'imputavano; e addusse una sua malattia e il trovarsi in una
vigna, per ispiegare il fatto dell'abito e della corona,
conchiudendo sul fatto dell'ostia consacrata, "mi potete fare
mettere nel foco e farmi ingiottire così come datum, et abiron, se
mai hò ditto, ne fatto tal cosa". - Il Petrolo fu esortato a dire
la verità, se gli fossero piaciute le opinioni del Campanella,
mentre l'aveva tanto spesso udito parlare di eresie ed aveva
continuato sempre a trattarlo, fino ad associarglisi nella fuga
travestito quando era ricercato dal S.to Officio, e poi trovavansi
nel processo tante cose contro di lui da doversi ritenere
convinto. Ed egli si scusò sopra ciascuno addebito, persistendo
pur sempre nel sistema di denunziare senza parsimonia i detti e
fatti del Campanella, onde ripetè che fra Tommaso presso la
Roccella gli avea detto essere stato da lui mandato Maurizio
presso i turchi, come pure esser baie le credenze sul fico
mangiato da Adamo, e in Squillace avea detto a un capo di squadra
non trovarsi morte ma mutazione di essere, conchiudendo, "in altro
son grandissimo peccatore, ma contra la fede non hò peccato". -
Fra Pietro di Stilo fu esortato egualmente a dire la verità, se
fosse stato consapevole de' fatti e detti del Campanella contro la
fede ed impegnato a predicare in questo senso a tempo della
ribellione, ciò che rendevasi credibile, essendo lui intimo del
Campanella e di fra Dionisio, ed avendo anche esortato qualcuno
(intendasi il Soldaniero) a non rivelare ed anzi a credere quelle
eresie, come constava nel processo. Ed egli negò di aver mai
saputo cosa alcuna del Campanella contro la fede, negò di essere
amico di fra Dionisio, mentre era invece amico del Polistina,
confermando che fra Dionisio era scelleratamente abituato a
parlare senza ritegno della più turpe lussuria, ed egli avea
rimproverato il Campanella perché conversava con lui; inoltre negò
di aver mai parlato con alcuno in lode del Campanella se non per
cose di filosofia. - Da ultimo il Lauriana fu interrogato sul
motivo pel quale avea suonate le campane all'armi quando i
ministri del S.to Officio erano venuti a catturare certi imputati,
e fu eccitato a dire la verità, mentre era tanto amico del
Campanella e di fra Dionisio da doversi ritenere non pure
consapevole ma complice delle loro eresie ed impegnato a
predicarle, come era noto per deposizioni. Ed egli si scusò,
dicendosi suddito del Pizzoni ed obbligato ad eseguirne gli ordini
ricevuti dietro erronei apprezzamenti; fece avvertire che non era
letterato e quindi non era capace di predicare, ed aggiunse che
avea comunicato al Pizzoni quanto gli era accaduto di sapere, che
aveva pure scritta una lettera dettata dal Pizzoni per dar notizia
al P.e Generale della ribellione e di alcune cose di S.to Officio,
che aveva egli medesimo portata questa lettera alla posta di
Monteleone. In tal guisa procedevano gli esami, condotti con molta
perizia e conoscenza della causa, come risulta da' documenti;
questi mostrano inoltre lo studio che il Vescovo di Termoli vi
faceva, notando al margine di essi non solo i punti più
importanti, ma anche i raffronti con gli esami anteriori, le
menome varianti e le cose che gli sembravano inverosimili.
Si produsse allora un primo incidente tra' parecchi che in questa
causa si verificarono. Fra Pietro Ponzio, sulla cui persona era
stata fatta una ricerca di corrispondenze provocata dal Lauriana,
si pose con tanto maggiore accanimento, egli e fra Dionisio, a
sorvegliare il Lauriana e il Pizzoni, che tenevano corrispondenza
tra loro. Il Lauriana trovavasi nella carcere da basso con più di
venti individui, ed il Pizzoni stava in una delle carceri
superiori con Gio. Angelo Marrapodi, Geronimo Conia e Marcantonio
Stanganella: Aquilio Marrapodi, giovanetto quattordicenne, figlio
di Gio. Angelo, serviva questi ultimi ed anche il Lauriana, fra
Pietro e fra Dionisio, ed eludendo la vigilanza de' carcerieri
portava le corrispondenze; un giorno fra Dionisio lo sorprese, gli
tolse una lettera che teneva nascosta in petto, lettera senza
firma e senza indirizzo, ma scritta certamente dal Lauriana al
Pizzoni. Con essa il Lauriana diceva di avere inviate prima altre
lettere, raccomandando di lacerarle, e di aver fatto capitare a
fra Francesco da Tiriolo (che ricordiamo aver visto carcerato per
la causa della congiura e già liberato) alcuni memoriali da
doversi presentare; infine raccontava minutamente l'ultimo esame
cui era stato sottoposto. La lettera fu mandata da fra Dionisio,
mediante lo stesso Aquilio, a fra Pietro Ponzio, e da costui fu
presentata al Vescovo di Termoli, qualificandola "un concetto
importante pel progresso della presente causa"; immediatamente, il
26 maggio, il tribunale venne ad occuparsene(173). Fu interrogato
fra Pietro, che disse avere avuta la lettera da quel servitorello,
e crederla scritta dal Lauriana al Pizzoni. Fu interrogato in
genere il Lauriana, che negò ogni cosa. Fu interrogato Aquilio,
che affermò di servire suo padre ed anche que' monaci pei quali
comprava cose da mangiare; affermò di aver portato lettere di
secolari alla posta ma non di monaci, aggiungendo con grande
disinvoltura, "se si trova che habbia portato pur un viglietto di
questi monaci, voglio che mi sia tagliata la testa". Gli fu
presentata allora la lettera, dimandandogli se sapeva leggere e
scrivere; ed egli disse di saper "legere quando la lettera è bona
et un poco scrivere", ma affermò di non conoscere quella
scrittura. I Giudici, per convincerlo, fecero subito venire fra
Pietro, il quale gli ricordò che avea portato biglietti e lettere
del Lauriana e del Pizzoni, e n'era stato rimproverato da lui ed
anche da un altro carcerato, Cesare Bianco; ed Aquilio dovè
confessare ogni cosa, e licenziato fra Pietro, richiesto perché
non avesse detto prima la verità, con non minore disinvoltura
rispose che non se n'era ricordato, aggiungendo di aver portato
un'altra volta al Pizzoni un biglietto che il Lauriana gli avea
detto essere memoriale, che non credeva di essere stato veduto ma
che Cesare Bianco l'avea realmente rimproverato; e dietro altre
dimande rispose che il Pizzoni non potea scrivere (aveva la spalla
offesa), ma che con lui stavano suo padre e il Conia e lo
Stanganella, i quali sapevano scrivere. I Giudici vollero ancora
interrogare Cesare Bianco, che era di Nicastro e trovavasi
carcerato per la congiura, e costui confermò di aver visto il
Lauriana dare il biglietto pel Pizzoni e di averne mosso
rimprovero ad Aquilio: e fatto venire il Lauriana lo confrontarono
con costui, ed egli giunse a dire, "Dio mi mandi alle pene
dell'inferno se mai hò fatto tal cosa", e licenziato il Bianco e
richiamato Aquilio, confrontarono il Lauriana anche con lui, e il
Lauriana continuò sempre a negare, e rimasto solo e presentatagli
la lettera, disse che non avea fatta tale scrittura, che essa non
era di mano sua ed egli non avea comunicato il suo esame ad
alcuno. Ma le notizie dell'esame erano precise, e potevano essere
state date solo o dai componenti il tribunale, o da lui, che aveva
in tal guisa tradito pure il segreto solito ad imporsi dal
tribunale ad ognuno che si esaminava: rimase quindi ben provato
che il Pizzoni e il Lauriana si concertavano tra loro, per
esimersi dalla responsabilità che più o meno aveano comune con gli
altri frati da loro accusati; erano perciò sospetti, ed anzi
falsi, se non in quanto agli altri, certamente in quanto alle
persone proprie.
Nella stessa seduta fu esaminato di nuovo il Pizzoni(174); e prima
di tutto gli si dimandò se avesse mai ricevuto lettere e memoriali
dal Lauriana, ed egli rispose negativamente. Si volle allora che
ripetesse le circostanze in cui il Campanella gli avea parlato
delle profezie e delle rivoluzioni che dovevano accadere, e
dicesse come e perché fra Dionisio gli avea già parlato prima
dell'eresie medesime ripetutegli in seguito dal Campanella,
opponendo essere inverosimile che, mentre il Campanella indignato
di non poter avere da lui fuorusciti a sua divozione aveva
esclamato "ben mi fu detto da M.° Gio. Battista (Polistina) che tu
sei un traditore", si era tuttavia lasciato andare a rivelargli
tante eresie e tante empietà; inoltre gli si dimandò se conoscesse
complici degli errori del Campanella e di fra Dionisio.
Evidentemente si voleva cogliere il Pizzoni in qualche
contraddizione, ma egli imperturbato ripetè le circostanze di que'
discorsi, e l'occasione avutane dall'essere stati ricordati i
travagli patiti in Roma dal Campanella, e le opere composte da
lui; disse che la qualificazione di traditore, secondo l'avviso di
M.° Gio. Battista di Polistina, gli fu data dal Campanella dopo i
discorsi della ribellione e dell'eresia e non già prima; infine
dichiarò di non conoscere complici.
Il 29 maggio si ritornò ad esaminare il Lauriana ed il
Petrolo(175). Al Lauriana si dimandò dapprima se si fosse risoluto
a dire la verità sulla faccenda della lettera mandata al Pizzoni,
ed egli rispose di averla detta la verità. Poi gli si dimandò una
quantità di circostanze in cui avea dovuto udire le eresie del
Campanella e di fra Dionisio, e se le avesse udite anche da altri,
e come si fosse accorto che il Pizzoni vi partecipava, e se
veramente fosse stato dal Pizzoni esortato a credere le eresie del
Campanella, secondochè avea dichiarato nel primo esame sostenuto
in Monteleone e ratificato in Gerace. Ed egli ripetè soltanto la
scusa già data altra volta su quest'ultimo fatto, ma per tutto il
resto disse sempre di non potersene rammentare, e si riportò
costantemente al suo primo esame; "vedete llà ala mia esamina che
llà lo trovareti". - Quanto al Petrolo, gli si dimandarono diversi
chiarimenti sulle cose dette negli esami sostenuti in Calabria, e
massime come e dove il Campanella dicesse le sue eresie a frati e
secolari, come fosse egli venuto a conoscere la cifra che il
Campanella e il Pizzoni adoperavano tra loro, come e dove ed a chi
il Campanella esponesse le rivoluzioni che doveano accadere e le
profezie che vi si riferivano, e quando ed a chi dicesse di voler
predicare la libertà. E il Petrolo ripeteva le cose già deposte,
conformando sempre che il Campanella non parlava di eresie agli
altri così liberamente come faceva con lui, ma per motti e in
diversi luoghi; che alla Roccella avea vista la cifra in una
scrittura, la quale il Campanella gli disse essere una lettera del
Pizzoni; che le profezie e le rivoluzioni erano state esposte dal
Campanella dapprima nella Chiesa di Stilo, predicando all'altare
sopra una sedia, ed a lui solamente il Campanella avea detto, "par
che queste profezie parlino di me"; infine che non ricordava dove,
e quando, e con chi il Campanella avesse detto voler predicare la
libertà.
Continuarono gli esami nel giugno seguente, e in essi potè
intervenire il Nunzio, essendo tornato in Napoli dalla sua Chiesa
di Troia; ma dopo quattro sole sedute egli mandò di nuovo in sua
vece l'Auditore Antonio Peri, che lo sostituì per tutto il
rimanente dell'anno, sicchè nella più gran parte del processo
offensivo, in tutto il ripetitivo, ed anche in quasi tutto il
difensivo, il Nunzio non assistè menomamente. Dal suo Carteggio
rilevasi che in questo ritorno da Troia egli potè vedere quale
fosse la sicurezza delle strade, ed essere informato sopra i
luoghi intorno alle criminose relazioni tra banditi ed
ecclesiastici: non sarà inutile riportare qui un brano di lettera
da lui scritta al Card.l S. Giorgio su tale argomento, poichè
interessa conoscere pienamente i tempi e farsi un concetto giusto
di quella abominevole miscela di frati, clerici e banditi, la
quale non era propria della Calabria a' tempi del Campanella, ma
comune a tutto il Regno anzi a tutto il mondo che diceasi civile,
venendo dalle autorità ecclesiastiche riguardata in un modo per lo
meno singolare(176). "Le replicarò che quanto alla ricettatione
de' banditi et al commercio che tengono con loro molti Clerici, et
tutti i religiosi che stanno in certi Conventi, dove per il poco
numero non si osserva regola alcuna, è necessario provedervi in
qualche modo acciò non segua così spesso che le Chiese et i
Conventi sieno violate da questi Ministri Regii (ecco il vero e
proprio inconveniente agli occhi del Nunzio), che gridono alle
stelle che dette Chiese et Conventi sieno ricetto di tristi et
d'assassini come riscontro pur troppo vero, et al ritorno di Troia
è bisognato che mi proveda di chi mi assicuri la strada, poichè la
sera che arrivai ad Ariano intesi che poco avanti erano stati
rubati due mercanti Raugei et menati via da una truppa di Banditi
per farne ricatti, onde scrissi al Vicerè della Provincia che è il
Conte del Sacco, il quale non solo mi mandò 20 Archibusieri ma
venne ancora lui su la strada per aboccarsi con me, et mi fece
gran querela di quanto hò detto, con soggiugnere che fra gli altri
certi Monaci di M.te Vergine che stanno à S. Guglielmo, luogo in
quelle campagne(177), non solo raccettano, ma partecipano i loro
furti, portano ambasciate fra di loro, et sono mezi alli ricatti"
etc. etc. - Continuarono dunque gli esami coll'intervento del
Nunzio, e il 7 giugno si udì per la 3a volta il Pizzoni, rimanendo
dal suo esame occupata l'intera seduta(178). Diremo in breve che,
sempre dietro dimande, egli dichiarò di avere udito una volta sola
parlare di eresie e di ribellione tanto il Campanella quanto fra
Dionisio; e redarguito, perché nel primo esame avea detto di avere
udito eresie dal Campanella in Stilo ed in Pizzoni, dichiarò che
in Gerace non gli era stato letto il primo esame, e che il
processo del Visitatore conteneva falsità. Addusse un altro motivo
della sua andata a Stilo, un pagamento che dovea fare ad un frate,
e ne fu redarguito da' Giudici. Narrò la sua andata a Stilo,
seguita dall'altra ad Arena, insieme col Campanella accompagnato
da' parenti armati. Disse di aver conosciuto già prima il
Soldaniero, capo di banditi, che gli avea mandato una lettera
minatoria, e di averlo poi visto passeggiare col Visitatore e fra
Cornelio nel convento di Soriano il 28 agosto, ma di non sapere se
egli fosse informato delle eresie del Campanella, sapere bensi che
avea parlato con fra Dionisio; e redarguito, perché nel primo
esame avea detto che il Soldaniero era informato di tutto,
dichiarò che fra Cornelio lo scrisse di sua volontà e poi non glie
lo lesse. Negò di avere usato mai cifre col Campanella; confermò
di avere scritto al P.e Generale e di aver dettata la lettera al
Lauriana; stretto dalle dimande dovè negare che il Campanella e
fra Dionisio gli avessero in Pizzoni parlato di eresie alla
presenza d'altri, e dichiarare che fra Dionisio non si trovò mai
in Pizzoni in compagnia del Campanella (dovè quindi dare una grave
smentita al Lauriana). Accettò di avere ordinato al Lauriana che
suonasse le campane all'armi nel tempo della loro cattura, ma
aggiunse di averglielo subito vietato quando seppe che trattavasi
della venuta de' soldati del Battaglione. Confermò di aver prima
parlato al Visitatore delle eresie udite, notando che vi era
andato egli solo: ma i Giudici gli obiettarono che se avesse
davvero parlato prima al Visitatore di quelle eresie
estragiudizialmente, non gli sarebbe stato possibile il volerle
poi occultare, quando fu tratto in giudizio innanzi al medesimo
Visitatore; ed egli si scusò adducendo il terrore avuto perché
ognuno gli annunciava la morte, l'essergli stato quindi necessario
che il Visitatore e fra Cornelio gli ricordassero ogni cosa con
una nota scritta che tenevano nelle mani, aggiungendo pure che
aveva fin d'allora avuto minacce dal Campanella per mezzo di Gio.
Tommaso Caccìa. né dopo tutto questo i Giudici ritennero esaurito
l'esame del Pizzoni.
Il 17 giugno furono esaminati nuovamente il Lauriana, il Petrolo,
fra Pietro di Stilo; il 20 giugno fu esaminato per la 4a volta il
Pizzoni. Stretto dalle dimande, il Lauriana confermò che quando il
Campanella si fece a parlare di eresie c'era anche fra Dionisio
oltre il Pizzoni (ed in ciò per lo meno la memoria non l'assisteva
bene). Citò due occasioni per le quali il Campanella avea
manifestato eresie: l'una, l'essere stata condotta dal Casale di
Vazzano a Pizzoni una donna spiritata, e il Campanella la giudicò
pazza, e nel dopo pranzo disse, "mi portano innanzi queste donne
spiritate e matte, et io non tengo che ci siano ne spiriti, ne
diaboli, "ne inferno, e ne paradiso"; l'altra, l'avere il
Campanella letto un capitolo di Plinio in cui parlavasi della
natura, onde disse che Dio era la natura con tutte le altre
proposizioni altra volta deposte (singolare raffronto con ciò che
avea pure già dichiarato il Caccìa, ma attribuendolo al Pizzoni).
Disse che fra Dionisio gli avea solamente parlato contro
l'eucaristia, ma presente il Campanella e il Pizzoni; e che il
Pizzoni non avea mostrato di credere all'eresie, ma di approvare
alcune opinioni scritte dal Campanella in un suo libro,
aggiungendo che in quel libro trattavasi di opinioni contro S.
Tommaso. - Il Petrolo poi dovè rispondere ancora una volta intorno
a' complici del Campanella; e continuò a dire che non ne
conosceva, e che il Campanella non avea manifestato mai eresie
formali in presenza di altri, sibbene si esprimeva per motti, de'
quali fornì qualche esempio. - Infine fra Pietro di Stilo dovè
dare chiarimenti intorno a ciò che il Campanella avea detto della
elezione del Papa e de' miracoli; e fattosi leggere il primo esame
cercò di attenuarne la misura, dolendosi anche di fra Cornelio che
scriveva troppo diffusamente, ma conchiuse che confermava quanto
nell'esame trovavasi scritto. - Ben più lungo fu l'esame del
Pizzoni, che di nuovo occupò l'intera seduta. Sempre dietro
dimande, dovè dichiarare in qual luogo fosse stato ammalato negli
ultimi tre anni, e se in Stilo (che egli aveva taciuto nella sua
rassegna) avesse avuto stanza anche il Campanella al tempo della
sua malattia. Dovè dichiarare di nuovo se in Pizzoni, quando il
Campanella parlò di eresie, fosse stato presente fra Dionisio; e
dettogli che un testimone suo amico affermava che fra Dionisio
c'era, fu costretto a smentirlo definitivamente, dicendo che quel
testimone (il Lauriana) sapeva di tali cose quanto il muro della
stanza, che quel testimone, alla presenza di quasi tutti i frati
ed altri secolari, aveva in Monteleone confessato che non sapeva
addirittura nulla né di ribellione né di cose di eresia, e che
avea parlato per paura e per subornazione del Visitatore, di fra
Cornelio ed anche di D. Carlo Ruffo, con la speranza di essere
subito liberato anzi premiato, e la paura era stata tale che
avrebbe deposto perfino contro suo padre; che quanto avea deposto
eragli noto solamente per la lettera al P.e Generale scritta di
sua mano sotto la dettatura di esso Pizzoni. Intorno a tutte le
altre citazioni di deposizioni testimoniali contrarie (riferibili
segnatamente al Caccìa, senza che il nome di lui fosse
pronunziato), egli dichiarò che doveano provenire da persone
infami e bugiarde, o inimiche, o sedotte, ovvero anche da falsità
di scrittura, dando per sospetto il Visitatore e fra Cornelio, ed
affermando che in Monteleone il Pisano e il Caccìa se n'erano
lamentati con gli altri prigioni, perché gli aveano carpiti 100
scudi per uno ed altri donativi, con la promessa di sottrarli alla
Corte secolare, e così gli aveano fatto dire quello che aveano
voluto; inoltre il Caccìa avea dimandato perdono ad esso Pizzoni,
per aver deposto dietro insinuazione di que' due frati, che gli
dicevano essersi avute deposizioni del Pizzoni contro di lui, e
poi anche dietro gli atroci tormenti sofferti mentre era
travagliato dalla febbre. Negò di nuovo la cifra; confermò che il
Lauriana gli avea detto essere rimasto scandalizzato, perché il
Campanella in una predica in Stilo aveva esclamato, "oh si mi
fusse lecito estendermi in questa materia", parlando del governo
de' Principi e Prelati, non già di eresia; infine ripudiò ad una
ad una tutte le eresie che gli erano state addebitate.
L'indomani, 21 giugno, fu esaminato di nuovo il Bitonto, e poi,
per la prima volta, fra Dionisio(179). Il Bitonto dovè dar conto
di ciascuno di que' molti fatti che avea deposti il Pisano, e che
direttamente o indirettamente lo riguardavano (senza che il nome
del Pisano fosse mai pronunziato): ed egli rispose costantemente
"non ho mai inteso tal cosa", qualche volta anche "l'ho inteso da
che son qua carcerato", ovvero "l'ho inteso quando so stato
esaminato dalli giudici et in particolare in hierace", aggiungendo
che quivi fu esaminato dal Vescovo e dal Visitatore, essendo
presente anche Carlo Spinelli; e conchiuse che tutte quelle cose
avevano dovuto esser deposte da qualche infame o nemico suo. - Si
passò quindi a fra Dionisio. Costui, sempre dietro dimande, disse
di aver saputo dal Sances e dal carceriere che era stato imputato
in cose di S.to Officio insieme col Campanella, e negò con la più
grande energia di aver peccato nella fede. Diè una lunga lista de'
suoi nemici, a cominciare da' Polistina e dagl'inquisiti per la
morte dello zio M.° Pietro, e venendo sino a fra Pietro di Stilo
che disse creatura del Polistina, al Pizzoni finto amico nelle sue
liti col Polistina e ladro di molti suoi scritti predicabili onde
dovè infamarlo, al Lauriana partecipe del furto degli scritti ed
incaricato della vendita di essi, oltrechè legato in nefande
relazioni col nipote del Pizzoni, fra Fabio, e col Pizzoni
medesimo, onde dovè scacciarlo dal convento di Nicastro dove esso
fra Dionisio trovavasi Priore. Negò di aver mai trattato con
qualche ebreo in Cosenza, dichiarando spontaneamente che a tempo
di quell'ebreo, allorchè venne eletto il P.e Generale Beccaria
(cioè nel 1588), egli trovavasi in Napoli, nel convento di S.ta
Caterina a formello, e che seppe in Napoli da una lettera di suo
zio M.° Pietro avere il Campanella avuto conversazione con
quell'ebreo di cattiva fama in Cosenza, essere fuggito in
compagnia di lui da Calabria ed avere arrecato questa fuga grande
scandalo, onde gl'ingiungeva di non avere più relazione col
Campanella; dichiarò anche, dietro dimande, di non avere mai più
avuta notizia di quell'ebreo, né occasione di parlare col
Campanella, che non vide più per 7 od 8 anni dopo quel tempo. Negò
assolutamente di avere mai avuto scandalo dal Campanella per cose
di fede, mentre pure avea cercato di chiarirsene, poichè dicevasi
che avea diavoli, comandava diavoli e credeva poco: aggiunse di
aver saputo da lui che era stato inquisito nel S.to Officio per un
Sonetto bruttissimo contro la fede e contro Cristo, quale Sonetto
gli recitò, che l'accusatore era stato condannato in galera ed
esso Campanella liberato senza abiura, non avendo mai voluto
accettare di avere abiurato, mentre di poi in Napoli ebbe a sapere
che l'abiura c'era stata (onde dovrebbe dirsi che pure tra loro
amici intimi si manteneva l'equivoco, confondendo l'esito di
processi diversi). Tale fu la prima deposizione di fra Dionisio,
che egli non potè sottoscrivere per la tortura avuta nel tribunale
della congiura, e che crocesegnò tenendo la penna stretta tra'
denti.
Fu poi fra Dionisio esaminato di nuovo tre altre volte
successivamente, il 20 e 28 giugno, ed il 13 luglio, continuando
sempre ad intervenire agli esami non il Nunzio, ma l'Auditore di
lui Antonio Peri. Il 26 giugno fra Dionisio cominciò dal dire
spontaneamente che avea ricevute dal Lauriana due lettere, con le
quali gli narrava l'esame sostenuto in Calabria e gli chiedeva
perdono, avendolo a torto accusato di proposizioni eretiche contro
l'eucaristia, a suggestione del Pizzoni e per uscire dalle mani
de' secolari; che queste lettere gli erano state tolte da'
carcerieri, ed egli riteneva dovessero trovarsi nell'altro
processo; che da esse rilevavasi essere stato deposto dal Lauriana
di avere udite le eresie in un discorso tenuto dal Campanella in
Pizzoni con lui, fra Dionisio, e con fra Gio. Battista di Pizzoni,
e tale fatto era la più grande menzogna, non essendosi lui fra
Dionisio mai trovato in Pizzoni contemporaneamente al Campanella
(il fatto era fondamentale, e il vederlo a notizia di fra Dionisio
mostrava che le lettere c'erano state, salva la quistione di
sapere se in esse si parlava realmente di accuse ingiuste e di
domanda di perdono). Narrò poi, interrogato, le circostanze della
sua cattura e di quanto gli era avvenuto ne' giorni consecutivi
(ciò che fu da noi esposto a suo tempo). Fornì spiegazioni sulla
sua lettera trovata presso fra Vincenzo Rodino, sulla sua
conoscenza col Pisano, sull'andata con costui a Messina e
sull'andata successiva col Campanella e col Bitonto a
Castelvetere, dove il Pisano trovavasi carcerato pel furto di una
giumenta del Principe, riconoscendo di aver voluto aiutarne la
liberazione, ma semplicemente per l'onore della famiglia di esso.
Fornì spiegazioni sul fatto dell'inglese che in Roma avea dato un
pugno all'ostia consacrata, dicendo di averlo veramente narrato
perfino dal pulpito "etiam cum lachrimis", per dimostrare la gran
bontà e tolleranza di Dio: dichiarò di non aver mai conosciuto
l'avvenimento del prete annegatosi con l'ostia, e ripudiò
assolutamente il fatto osceno commesso con l'ostia, facendone
rilevare l'inverosimiglianza. Infine negò di aver mai parlato in
dispregio dell'eucaristia, e disse che le precise parole, con le
quali gli si faceva tale dimanda, si trovavano nelle lettere del
Lauriana (altra prova che tali lettere c'erano state); notando che
in Pizzoni egli non potea dire tali cose, poichè c'erano soltanto
suoi nemici e un vigliacco fuoruscito (certamente il Caccìa), il
quale poi si disdisse nell'atto di essere giustiziato. - Il 28
giugno, esaminato per la 3a volta, fra Dionisio negò ad una ad una
tutte le eresie e tutte le accuse che gli erano state apposte (dal
Soldaniero, dal Lauriana, dal Pisano etc.) e che i Giudici gli
vennero successivamente formolando, non senza dare qualche
spiegazione in sua difesa. Così, a proposito del pugno da lui dato
a un'immagine del crocifisso in Soriano, dichiarò che il Priore e
Lettore di quel convento erano suoi nemici, che vi si trovava
anche un gran fuoruscito a nome Giulio Soldaniero stato per tutta
la quaresima in relazione con fra Gio. Battista di Polistina, ed
egli avea temuto di essere ucciso o almeno bastonato da lui, e gli
avea parlato sempre in pubblico. A proposito di altre eresie che
si era deposto aver lui udite dal Campanella e lodate ed insinuate
ad altri, dichiarò che il Petrolo, già da circa un mese, passando
innanzi alla sua prigione si era avvicinato alla finestrina di
essa e gli avea dimandato perdono, facendogli sapere che avea
deposto essere stato detto dal Campanella, in presenza di lui fra
Dionisio, che non c'era purgatorio né inferno; onde temeva che
questo potesse nuocergli, sebbene avesse pure aggiunto alla
deposizione che il Campanella prima diceva le eresie a lui e poi
le diceva anche agli altri, ma in modo che esso Petrolo non sapeva
se gli altri le intendessero (e questo mostrava che veramente il
Petrolo avea dovuto parlargliene). Infine negò di aver mai saputo
che il Campanella si fosse proposto di predicare, e che egli
medesimo dovesse predicare contro la Chiesa. - Il 13 luglio,
esaminato per la 4a volta, dovè dar conto di altre eresie ed
accuse, sulle quali non era stato ancora interrogato (quelle
deposte da Maurizio per propria scienza o per detto del Vitale,
come pure quelle raccolte nel processo di Squillace). Ed egli negò
egualmente ogni cosa; ed a proposito del fatto dell'ostia che
pretendevasi avere una volta consacrata e poi gettata a terra,
disse di aver saputo da Maurizio, nel venire a Napoli, che tale
fatto era stato deposto da Gio. Battista Vitale "credendosi
schifare la morte almeno per alcuno giorno", e fece rilevare che
il Vitale prima di essere squartato avea revocata quella
deposizione (c'era quindi stato ad ogni modo un colloquio con
Maurizio su tale fatto, salva rimanendo la quistione di sapere se
Maurizio avesse realmente attribuito il motivo suddetto alla
deposizione, ed anzi se vi fosse stata realmente una deposizione
del fatto innanzi a' Giudici da parte del Vitale). Potè poi questa
volta dopo cinque mesi, stando meglio co' suoi polsi,
sottoscrivere(180) il processo verbale dell'esame sostenuto.
Dobbiamo aggiungere che nella seduta medesima fu esaminato ancora
Giulio Contestabile, qualificato non solo teste, ma anche
principale, senza dubbio per avere troppo conversato col
Campanella(181). Egli disse di conoscere il Campanella e fra
Dionisio, e di stimarli uomini tristi mentre erano inquisiti di
cose triste; disse di sapere che il Campanella ora stato già prima
processato per eresia, ma non sapere altro, e di avere due volte
sole parlato col Campanella in Stilo, in casa sua, per la
conchiusione della pace tra la famiglia sua e quella de'
Carnevali; ma Geronimo suo fratello scrisse da Napoli che non
volea si trattasse con persona già processata per eresia, ed
avendo lui divulgata la lettera, il Campanella gli divenne nemico.
Dichiarò di non aver mai udito il Campanella parlare di Cristo né
di Mosè, e fece rilevare che in Stilo c'era un altro Giulio
Contestabile figlio di Lucio, Maestro della confraternita del
Rosario e perciò molto assiduo nel convento dei Domenicani (il
fatto era vero(182), ma rappresentava una scusa grossolana).
Il 1° luglio fu interrogato Giulio Soldaniero, testimone
importante, che si dovè far venire dalla Provincia. Il Carteggio
del Nunzio ci mostra che egli non trovavasi più in Calabria, ma in
terra d'Otranto, e che lo si fece venire per mezzo del Vescovo di
Nardò; parrebbe pure dall'esame suo che fosse stato tenuto in
prigione fin dal marzo, sicuramente ad istanza del S.to Officio.
Lo stesso Carteggio ci mostra che appunto per lui la trattazione
della causa soffrì un ritardo nelle prime settimane di luglio;
poichè alla sua venuta era stato rinchiuso in Castel dell'ovo, e
quando si volle esaminarlo, si trovò il solito intoppo del non
esserci ordine alcuno del Vicerè, onde il Nunzio ebbe a fare
istanza che o si desse quest'ordine o si conducesse il prigione in
Castel nuovo(183). Vedremo in sèguito che si fece venire anche il
suo fido Valerio Bruno, ed entrambi furono rinchiusi in Castel
nuovo insieme co' frati inquisiti. Il Soldaniero, dietro dimande,
disse che era stato esaminato da fra Cornelio, e successivamente
dal Vescovo di Gerace, dopo di aver mandato il Priore di Soriano
al Visitatore per rivelare le cose dettegli da fra Dionisio; e
ripetè talune di queste cose, affermando che quando vennero dette
o fatte, era presente e consenziente il Pizzoni, e tutto proveniva
dal Campanella. Invitato ad esporre ciò che fra Dionisio gli avea
detto di provenienza del Campanella, non seppe dire più nulla e si
richiamò all'esame precedente, poichè non se ne poteva ricordare.
Aggiunse di aver visto in sèguito fra Pietro di Stilo, che gli
raccomandò di non dir nulla di quanto gli avea detto fra Dionisio,
ma egli già avea raccontato tutto al Priore e Lettore di Soriano:
non potè ricordarsi se fra Pietro gli avesse parlato di eresie, ma
negò di aver ricevuto lettere del Campanella. Disse che avea
raccontato pure ogni cosa a fra Domenico e fra Gio. Battista di
Polistina e costoro se ne maravigliarono, che vide fra Dionisio
una sola volta (prima avea detto due volte), e parlò al Priore ed
al Lettore perché lo cacciassero dal convento(184).
Ma il fatto più importante della seduta del 18 luglio fu il
tormento della corda dato al Campanella per un'ora, fatto
ricordato poi da lui medesimo nella sua Narrazione, là dove dice:
"el Campanella sendo impazzito hebbe un'hora di corda, e restò per
pazzo quando era il Tragagliola". Già fin dal 12 maggio, dietro la
richiesta del vescovo di Termoli, il Card.l di S.ta Severina avea
scritto: "quanto al particolare che ella avvisa, che fra Tomaso
Campanella si finge pazzo, et non vuol giurare ne rispondere à
quello, che se gli domanda, le dico che S. S.tà rimette
all'arbitrio di Monsignor Nuntio e di V. S., e del Generale
Vicario Archiepiscopale di dargli la corda per havere da lui la
precisa risposta, con avvertire di non interrogarlo de' capi del
negotio principale per non debilitare le ragioni del Fisco".
Adunque, dopo il Soldaniero, venne introdotto il Campanella(185),
e questa volta egli toccò il libro su cui fu invitato a giurare,
ma fin dalla prima dimanda che gli venne diretta rispose in modo
strano ed incoerente. "Volsero pigliare fratimo, et poi si
concitorno tutti contra di me, et mi hanno spogliato, et mi
ritrovo in questo modo, et hò fatto tanti libri, et poi me li
hanno cambiati" etc. Era sempre vestito da secolare, col suo
cappello nero tra mano, e diceva: "questo cappello è tutto
stracciato, et tutte queste veste che hò sopra sono stracciate"; e
volle coprirsi il capo ma l'aguzzino glie lo scoprì, onde egli si
rizzò contro l'aguzzino dicendo, "guarda costui che mi vuol levare
il cappello", e soggiunse "bisogna che venghi il Papa et sbroglia
queste cose" etc. Fu quindi fatto condurre alla stanza del
tormento e là venne spogliato e ligato alla corda, con le proteste
che il S.ta Severina avea raccomandate: ed elevato in alto
cominciò a dire "hoimè che moro, ah traditori, figlioli di
cornuti, bagascie, mi hanno ammazzato, madonna santissima
aiutami". Rinunziamo a continuare questa atroce rassegna di
dolori, che d'altronde i lettori troveranno nel relativo
Documento: solo diremo che il povero Campanella, talvolta furioso,
talvolta abbattuto, ingiuriava o invece blandiva chiedendo pietà,
e spesso invocava il Papa o a lui si appellava, nota dominante per
tutto il tempo della sua pazzia; allorchè si rivolse a qualcuno
de' Giudici in particolare, per muoverlo a misericordia, si
rivolse sempre al "frate", cioè al Vescovo di Termoli. Tra le
svariate dimande fattegli vanno notate le seguenti: quanto tempo
fu carcerato in Roma, se era stato visitato da qualche medico
nelle carceri, come si chiamava il Commissario del S.to Officio in
Roma al tempo in cui fu carcerato, ed anche, con ludibrio indegno,
cosa avrebbe avuto di buono a pranzo, e dopo di avergli due volte
minacciato il polledro, che dimandasse qualche grazia. E il
Campanella, obbligato allora appunto a soddisfare a' suoi bisogni
naturali stando sospeso alla corda, replicò all'ultima domanda che
lo lasciassero... fare; né rispose mai a proposito, e tra' diversi
suoi detti incoerenti nominò il Marchese d'Arena, dicendo che "se
havesse fatto (sic), non pateria questo", nominò Paolo Campanella,
che avea disegnato una figura di S. Rocco, nominò Cicco Vono,
qualificandolo suo nemico. Infine, scorsa un'ora, venne
definitivamente deposto e sciolto, e secondo l'uso gli aguzzini
gli ricomposero le braccia, quindi lo rivestirono e lo
ricondussero nella sua carcere.
Subito dopo furono esaminati Geronimo padre e Gio. Pietro fratello
del Campanella(186). Geronimo si dichiarò di Stignano, dell'età di
circa 65 anni, e dovè rispondere intorno alla causa della
carcerazione di suo figlio, intorno a un libro che costui avea
scritto ed egli avea lodato come superiore anche a quello degli
Apostoli, intorno alle divinazioni fattegli sull'avvenire degli
altri figli, intorno al rifiuto di predicare espressogli da fra
Tommaso e motivato col non voler fare l'ufficio di saltimbanco,
intorno al pranzo di Stignano in casa Grillo, dove egli avea
fornite vivande ed avea dovuto udire eresie da fra Dionisio. Il
povero vecchio disse di sapere solamente che suo figlio era stato
carcerato da Carlo Spinelli, o per detto d'altri che avea scritto
un libro in Napoli, mentre quanto a sè egli non sapea leggere né
scrivere, soggiungendo, "alhora tutti mi dicevano beato et hora
tutti mi dicono sfortunato". Quanto alle divinazioni, disse che
suo figlio era stato quattordici anni fuori di Calabria, ed al
ritorno appena lo riconosceva per padre, trattando solo con
Principi e Signori, come il Principe della Roccella e il Marchese
di Arena; quanto poi al rifiuto della predicazione, disse che
veramente avea pregato fra Tommaso di accettare l'offerta fattane
da que' di Stilo col compenso di 200 ducati, "per aiutare alcune
figlie femine che hò è sono pezzenti", ma fra Tommaso non volle,
dicendogli che sapeva quel che si faceva. Accettò di aver visitato
fra Dionisio in casa Grillo, ma negò di aver fornite vivande,
aggiungendo, "non hò per me, et hò nove tra figlie et nipote
femine"; negò pure energicamente di avere udito discorsi eretici,
ed aggiunse, "si fra Dominico (Petrolo) lo dice, fatime mettere un
chiappo al collo et impendere". Da ultimo s'inginocchiò innanzi a'
Giudici e disse, "Signori, siamo tutti spersi per povero regno, et
si questi monaci hanno fatto male, vi prego, castigateli per amore
di Dio": con ciò, s'intende, egli volea dire che facessero presto,
perché così sarebbe presto tornato a casa sua ove l'attendeva una
frotta di giovani donne rimaste nell'abbandono e nella miseria; e
il suo desiderio era naturalissimo, ma faceva dimenticargli che
tra' monaci i quali avrebbero dovuto essere gastigati, e non
lievemente, c'era anche il migliore de' suoi figliuoli. - Molto
più breve fu l'esame di Gio. Pietro Campanella, che si dichiarò di
28 anni in circa e di mestiere calzolaio. Gli chiesero se avesse
mai udito suo fratello fra Tommaso parlare di rivoluzioni da dover
accadere nel 1600; ed egli rispose che poche volte gli avea
parlato e non mai di tali cose. Al pari di suo padre, non sapendo
scrivere, segnò con una croce il processo verbale dell'esame.
Il 20 luglio venne il Campanella ricondotto innanzi a' Giudici, e
continuò a mostrarsi pazzo(187). Non voleva rimanere nella sala di
udienza, si tirava indietro, e poi cominciò a baciare certe figure
disegnate nel foglio del Calendario. Gli si fecero dimande strane;
quante sorelle aveva, dove trovavasi il suo padre carnale e da
quanto tempo non l'aveva veduto, se possedeva il breviario etc.
poi lo si avvertì di cessare dal fingersi pazzo. Ed egli nominò
più sorelle, Costanza che era Badessa, Emilia maritata, Giulia da
doversi maritare con Michele Castellano; parlò del padre in modo
incoerente, ricordò che gli aveano presi tutti i suoi libri,
accennò ad una "Signora grande", a soldati che l'aveano
perseguitato, ad una sua fuga di 20 miglia. Lamentavasi per avere
le braccia addolorate in sèguito della tortura, e da ultimo disse,
"dammi da bere frate, quattro confortini (confortatori) negri
negri vengono ogni sera et mi ammazzano...". Dal processo verbale
si rileva che avrebbe sottoscritto l'esame, se non avesse avuto le
braccia debilitate.
Fu di poi, nella stessa seduta, interrogato nuovamente il
Soldaniero, quindi Giuseppe Grillo; inoltre furono richiamati fra
Dionisio ed il Pizzoni, per dare qualche chiarimento(188). Al
Soldaniero si fecero molte dimande; come mai fra Dionisio avesse
cominciato a parlare con lui contro la fede mentre non c'era mai
stata familiarità tra loro, se fra Dionisio fosse venuto a Soriano
egli solo o in compagnia di qualcuno, come si fosse comportato il
Pizzoni in quella circostanza, in quale giorno si fosse mangiato
carne, a quale scopo que' frati gli avessero dette tante eresie. E
il Soldaniero narrò di nuovo i particolari della venuta di fra
Dionisio a Soriano, ed affermò che questa accadde di martedì, nel
quale giorno, avendo precedentemente riportata una ferita di
archibugio, egli non mangiava carne per divozione alla Madonna
dell'Idria (cioè di Costantinopoli), ma fra Dionisio mangiò carne
ed eccitò lui a mangiarne; non potè poi ricordarsi se il Pizzoni
fosse presente, ma dichiarò che gli pareva di sì, e che costui
confermava le opinioni di fra Dionisio, dicendo che erano opinioni
del Campanella. I Giudici gli fecero notare che nella prima
deposizione avea detto non essere stato presente il Pizzoni,
essere avvenuto il fatto in giorno di venerdì, non avere fra
Dionisio mangiato carne (l'aveva solamente desiderata per
mangiarla), e che badasse quindi a non dire menzogne: egli rispose
più volte che non se ne poteva ricordare e si rimetteva al suo
primo esame, conchiudendo che le eresie gli erano state raccontate
perché le credesse. - Giuseppe Grillo, fatto venire dal Castello
dell'ovo in cui era rinchiuso, dietro dimande, dichiarò di aver
conosciuto anteriormente fra Dionisio e gli altri frati che poi
vennero a pranzo in casa sua in Stignano, e di averne buonissima
opinione, ma non così Cesare Pisano che vide allora per la prima
volta; dichiarò che durante il pranzo fra Dionisio avea detto
doversi "rengratiar Dio di tante gracie che ci fà e cose simile",
ma non avea detto nulla contro la fede, perché egli "saria ricorso
da superiori", ed anzi lo stesso fra Dionisio fece poi un sermone
in Chiesa, in Stignano, presenti tre dottori e moltitudine di
popolo, e fu lodato assai. Avvertito di non dir bugie, il Grillo
soggiunse che avea detto la verità; che dal Petrolo, per mezzo del
figlio di Desiderio Lucane, gli era stato raccomandato di volersi
esaminare in favor suo; che da Mario Flaccavento come pure da
Felice Gagliardo e Camillo Ademari, prima di venire dal Castello
dell'ovo, gli era stato raccomandato di voler dire che in Stignano
si era mangiato carne in giorno di venerdì o sabato, e che egli
stesso l'avea mangiata inavvertentemente, poichè così trovavasi
affermato in processo, e non dicendo così anche lui, avrebbe avuto
la corda, ma egli avea risposto di non voler dire la bugia (tanti
erano impegnati a non far alleviare la posizione degl'inquisiti, o
invece tanto era furbo questo giovanotto che inventava
sollecitazioni per procurarsi credito). - Si fece poi venire fra
Dionisio, per sapere in che giorno fosse stato in Soriano, e se il
Pizzoni vi fosse stato con lui. Dietro varii tentennamenti di
reminiscenze, egli conchiuse che vi fu col Pizzoni il mercoledì, e
il Pizzoni si partì subito pel suo conventino poco distante da
Soriano, che in quella sera si mangiò co' frati, e l'indomani,
giovedì, si mangiò nel dormitorio col Priore, col Lettore, con
alcuni spagnuoli, ed anche con Giulio Soldaniero. - Da ultimo si
fece venire il Pizzoni per udirlo sullo stesso fatto, ed egli lo
negò assolutamente (senza dubbio a torto); e dietro dimande disse
che non era mai stato a Soriano con fra Dionisio, che non aveva
mai confermato eresie né biasimata l'astinenza dal mangiar carne
per divozione, e che questa era un'infamia in suo danno da parte
di fra Dionisio e del Campanella conformemente alle loro minacce!
A questo punto si erano già raccolti esami sufficienti per poter
passare dal processo informativo, che dicevasi pure offensivo, al
processo ripetitivo: difatti il 31 luglio, sull'istanza del
Procuratore fiscale, la Corte emanò i suoi Decreti in questo
senso, ed abbiamo ragione di credere che non poco v'influì Mons.r
Nunzio, il quale era spesso sollecitato dal Vicerè a terminare la
causa dell'eresia, acciò si potesse procedere alla spedizione di
quella della congiura. Ma il Vescovo di Termoli, che avea
realmente studiata la causa ed era abituato alla ricerca della
verità senza transazioni, scorgendo un cumulo di circostanze poco
atte a rassicurare la sua coscienza, volle che fossero interrogati
dal tribunale il Priore e il Lettore di Soriano, fra Domenico da
Polistina e così pure Valerio Bruno, inoltre fra Gio. Battista di
Placanica e fra Francesco Merlino già interrogati dal Vescovo di
Squillace in Calabria: e però fin dal 18 luglio avea con una sua
lettera commesso a quel Vescovo di mandare tutti que' frati in
Napoli, e di chiarire con nuovi esami alcuni punti del processo
già da lui fatto nell'anno precedente; ed il Vescovo eseguì la
commissione con ogni sollecitudine, procurando la comparsa de'
frati al tribunale di Napoli ed inviando poi anche l'Informazione
supplementare da lui presa, che per tal modo trovasi inserta nel
processo di Napoli. Come si rileva dai documenti che fanno parte
di questa Informazione, il Priore di Soriano era già venuto in
Napoli chiamatovi dal P.e Generale, e fra Domenico da Polistina,
funzionante da compagno del Provinciale di Calabria, fu da costui
immediatamente inviato; a fra Gio. Battista da Placanica e a fra
Francesco Merlino fu fatto dal Vescovo di Squillace, con la
comminatoria di molte e gravi pene, precetto di presentarsi al
tribunale in Napoli, l'uno nel termine di 20, l'altro nel termine
di 25 giorni; al Lettore di Soriano fu fatto un uguale precetto,
col termine di 30 giorni. - Si ebbe quindi una serie di altri
esami, alcuni de' quali si compirono mentre già il processo
ripetitivo faceva il suo corso: noi li poniamo tutti qui in
continuazione degli esami precedenti, senza attenerci con rigore
assoluto alla cronologia de' diversi atti processuali, per non
intralciare di troppo il corso della nostra narrazione.
Ed in prima l'8 e l'11 agosto, nel convento di S. Luigi ove
risedeva il Vescovo di Termoli, furono esaminati e riesaminati fra
Giuseppe d'Amico Priore di Soriano e fra Domenico di
Polistina(189). L'esame del giorno 8 fu fatto innanzi all'intero
tribunale. Fra Giuseppe d'Amico, dietro dimande, disse che fra
Dionisio e il Pizzoni vennero insieme a Soriano, un giorno di
giovedì al tardi, ed allora nel convento trovavasi pure il
Soldaniero, uomo di mala vita, che Mons.r di Mileto non voleva
fosse cacciato, come anche Valerio Bruno, servitore del Soldaniero
ed egualmente fuoruscito; che il Pizzoni l'indomani se n'andò al
suo convento di Pizzoni, d'onde tornò il sabato con Claudio Crispo
e si diresse tosto ad Arena ove trovavasi il Campanella; che fra
Dionisio, rimasto il venerdì a Soriano, partì egli pure il sabato
per Arena, poco dopo ch'era partito il Pizzoni, dicendo di temere
che costui conducesse il Campanella a Pizzoni mentre egli volea
condurlo a Soriano, e poi l'istesso giorno tornò a Soriano e vi
rimase la domenica per farvi una predica, dopo la quale
definitivamente se ne partì. Disse che, appena giunto, fra
Dionisio dimandò del Soldaniero, e si recò in camera di lui e vi
si trattenne un pezzo in colloquio, e ciò accadde nel giugno o
luglio 99; che da otto a quindici giorni dopo, il Soldaniero parlò
ad esso fra Giuseppe della ribellione, ma solo nel mese di agosto
gli raccontò diverse eresie dette da fra Dionisio; che poi,
trovandosi esso fra Giuseppe presso il Visitatore in Monteleone,
quando già la congiura era scoverta e fra Dionisio era fuggito con
una cavalla presa nel convento, riferì ogni cosa al Visitatore ed
al Provinciale, ed avvertì al suo ritorno il Soldaniero di quanto
avea fatto; che il Soldaniero allora gli rispose di dover essere
esaminato, perché avrebbe deposto anche di più, ma non aveva mai
pregato lui che cacciasse fra Dionisio dal convento. Aggiunse che
il Soldaniero non gli aveva mai discorso del Pizzoni come fautore
di eresie, bensì come sollecitatore perché "si havesse voluto
trovare con l'intentione loro", e solo di fra Dionisio gli
raccontò le diverse eresie, che egli si fece a ripetere; (così era
certo l'armeggio per la ribellione da parte di tutti costoro
insieme col Campanella, ma la faccenda dell'eresia era imputabile
solo a fra Dionisio, che veramente ne faceva professione almeno
come di un'arma di guerra). - Quanto a fra Domenico di Polistina,
costui confermò che agli 8 o 9 di agosto dell'anno precedente,
dopo l'incontro avuto col Campanella in Davoli, la sua fuga da
quel posto per minacce di banditi e il suo arrivo in Soriano,
seppe dal Soldaniero che fra Dionisio gli aveva esposto un gran
numero di eresie, il fatto osceno contro l'ostia etc., eresie che
fra Dionisio e il Campanella doveano predicare al tempo della
ribellione, ed egli poi ne parlò a fra Cornelio del Monte; che del
Campanella non seppe al di là delle cose dette, e con fra Cornelio
non parlò del Campanella per conto dell'ostia consacrata (così fra
Cornelio risultava falso, ma rimaneva pure a vedere se non era
falso in ciò fra Domenico, e fino a qual punto costui fosse stato
informato dal Soldaniero o viceversa). Aggiunse poi,
spontaneamente, che il Campanella molti anni prima avea voluto
uscire dalla Religione, e si era detto pubblicamente che avea
lasciato la Calabria in compagnia di un certo Abramo ebreo o
caldeo; (era sempre lui fra Domenico che evocava tale fatto, e
questa volta per detto altrui, non per propria scienza). - Il
nuovo esame di costoro, l'11 agosto, fu fatto innanzi al solo
Vescovo di Termoli. Fra Domenico da Polistina narrò qualche
circostanza di poco valore relativamente al suo incontro col
Soldaniero. Fra Giuseppe d'Amico aggiunse che, parlando della
ribellione col Soldaniero nell'agosto, ebbe a vedere nelle mani di
lui una lettera del Campanella scritta di suo pugno, giacchè ne
conosceva il carattere, la quale finiva col dire al Soldaniero che
su quanto gli avea discorso fra Dionisio, se ne rimetteva al suo
luogotenente fra Gio. Battista di Pizzoni; (così fra Giuseppe
parlava sempre de' soli fatti della ribellione, ma è pur vero che
non avrebbe potuto parlare de' fatti di eresia laddove fossero
stati a sua notizia fin da principio, mentre non si era curato di
denunziarli per tanto tempo). Infine, dietro dimanda, depose che
il Campanella, quando si partì dalla Calabria, diceva di
partirsene per la persecuzione che soffriva dal Provinciale di
quel tempo P.e Pietro Ponzio, e si disse che era partito con un
Abramo, ebreo molto scienziato ma che esso fra Giuseppe non avea
veduto; (nessuno dunque avea veduto questo ebreo, ma è pur vero
che a nessuno conveniva ammettere di averlo veduto).
Di poi, il 21 agosto, fu interrogato in Castel nuovo Valerio
Bruno(190). Costui disse che era stato per circa un anno col
Soldaniero nel convento di Soriano, che avea là veduto fra
Dionisio rimastovi due giorni, durante i quali venne pure il
Pizzoni, e che li avea veduti cacciare entrambi dal Priore a
richiesta del Soldaniero, scandalizzato perché gli avevano
palesate molte eresie, le quali egli si fece a ripetere. Disse che
fra Dionisio e il Soldaniero aveano mangiato insieme un giorno di
martedì o venerdì; giorno in cui il Soldaniero si asteneva dalla
carne per voto fatto in sèguito di un colpo di archibugio
ricevuto, ed egli avea udito fra Dionisio maravigliarsene; che non
seppe altro di ciò, ma poi l'indomani, essendo venuto il Pizzoni
ed avendo confermato le eresie dette da fra Dionisio, ad un'ora o
due in circa di giorno udì il Soldaniero che "comminciò a gridare
che cose son queste che mi dite, à par mio dite queste cose, è
comminciò à chiamare il Priore, Padre Priore venite, cacciati
questi"; che il Priore il quale nella sera precedente avea cercato
di scusare fra Dionisio dicendo che era briaco, ed avea
raccomandato al Soldaniero, per amore di Dio, l'onore della
Religione, finì per accorrere insieme col Lettore ed altri e così
cacciarono que' due frati. Insomma, accumulando circostanze in
modo abbastanza comico, questo furfante procurò di rendere sempre
più credibile il suo racconto, ma avvertito da' Giudici che era
caduto in qualche contradizione e che badasse di non dire bugie,
cominciò lui a turbarsi veramente e ad esclamare "misericordia
Signore, per l'amor di Dio, che questa cosa hà un anno che è
passata che non mene ricordo;... io non son dottore, facilmente si
può pigliare et errare una parola, habbiatimi compassione
Signore". Infine dichiarò di non avere udito egli stesso, né da
altri all'infuori del Soldaniero, cose contrarie alla fede
provenienti da fra Dionisio e dal Pizzoni; (evidentemente Valerio
Bruno si era messo anche questa volta d'accordo col Soldaniero,
per appoggiarne le deposizioni).
Vennero in sèguito da Calabria fra Gio. Battista da Placanica e
fra Francesco Merlino, e il 30 agosto e il 2 7bre, quando già il
processo ripetitivo faceva il suo corso, e furono sottoposti al
primo esame e all'esame ripetitivo nel solito convento di S. Luigi
presso Palazzo: venne egualmente fra Vincenzo di Lungro Lettore di
Soriano, e poco dopo, il 7 7bre, fu egli pure esaminato nel
medesimo convento innanzi all'intero tribunale(191). I due primi
riuscirono di speciale interesse circa la persona del Campanella,
l'altro circa la persona di fra Dionisio e i fatti di costui in
Soriano. Fra Gio. Battista di Placanica disse di stare "di mal
cervello, ciò e, di mal memoria", e si riferì costantemente
all'esame già fatto dieci mesi innanzi in Squillace; fu
interrogato su' concetti che il Campanella aveva espressi intorno
all'immortalità dell'anima, alla fornicazione, alla scomunica,
alle cerimonie de' turchi, alle religioni claustrali, e in genere
non se ne seppe più di quanto se n'era saputo prima; può dirsi che
fu esplicito solamente nell'attestare che il Campanella parlava
della fornicazione in modo da sembrare che quasi dicesse non esser
peccato, ed oltracciò nell'attestare che non potè avere né dal
Vescovo di Squillace né dal P.e Provinciale la licenza di
confessare e predicare in Monasterace. Nell'esame ripetitivo in
sostanza disse di aver conosciuto il Campanella quando esso era
novizio in Placanica, non aver mai udito direttamente da lui cose
di eresie, aver solamente udito da lui dire "che inferno, che
inferno" nel parlare a' suoi discepoli e segnatamente a Fulvio Vua
e Giulio Contestabile, come pure che gli atti carnali non erano
peccati tanto grandi quanto si ritenevano, poichè "Dio havea fatto
il membro genitale..." per usarne. - Fra Francesco Merlino, nel
primo esame, riferendosi lui pure all'esame sostenuto in Calabria,
disse di avere solamente udito dire che il Campanella negava i
miracoli fatti da Mosè, che avea mangiato più volte carne in
giorni proibiti e segnatamente una porchetta insieme co' banditi
in Pizzoni, che teneva con sè il demonio, e per arte diabolica
conosceva tutto quello che sapeva; disse pure, a proposito del
disprezzo della scomunica, che egli si trovava studente in S.
Domenico di Napoli, quando il Campanella dimorava pure in questa
città presso Mario del Tufo, e che venuto un giorno in S. Domenico
il Campanella fu preso e tradotto nelle carceri del Nunzio,
essendosi allora dato per motivo della carcerazione che aveva
spiriti, ma essendosi poi saputo che ci erano altri motivi, e in
ispecie che parlando della scomunica per coloro i quali estraevano
libri dalla libreria avea detto, "come è questa scomunica, che, si
mangia"? Nell'esame ripetitivo poi dichiarò, che avea cominciato a
conoscere di vista il Campanella nel convento di Placanica, di cui
esso Campanella era figlio, che in sèguito l'avea conosciuto in
Napoli, quindi di nuovo l'avea visto in Calabria, essendosi più
volte visitati, che non sapeva che avesse detto eresie, che altri
aveano palesate più cose contro la fede da lui dette o fatte, le
quali egli si diè a ripetere; che in Stilo passava per uomo
onesto, che si era detto essere partito dalla Calabria coll'ebreo
Abramo, ed avere la sua scienza per arte diabolica, ma egli non
credeva questo, avendo conosciuto "che hà bello ingegno et hà
studiato assai". Inoltre che si era detto "che esso si voleva fare
nominare il Messia della verità", ma di questa, come di altre
cose, si parlò dopo la carcerazione, e più di una volta fece
notare tale circostanza, dicendo, "molte cose sono state dette
subito che questi fratri furono presi, et non so come uscessero",
(ben si vede che in fondo il Campanella non riusciva aggravato di
troppo da tali deposizioni). - Quanto a fra Vincenzo, Lettore di
Soriano, egli narrò la venuta di fra Dionisio e del Pizzoni in
Soriano con lievissime differenze dal modo in cui l'avea narrata
il Priore fra Giuseppe: soltanto aggiunse di più, che quando fra
Dionisio andò momentaneamente ad Arena per condurre il Campanella
a Soriano, il Campanella non volle venirvi; inoltre che veramente,
4 o 5 giorni dopo la dipartita di fra Dionisio, il Soldaniero gli
disse che fra Dionisio era venuto a trattare della ribellione
contro il Re, avendo molti Signori per lui, e gli disse pure che
fra Dionisio non credeva a nulla, comunicandogli il fatto del
pugno dato al crocifisso e il fatto osceno contro l'ostia
perpetrato da fra Dionisio medesimo, cose "approbate da fra
Dionisio come cose del Campanella". Negò assolutamente che il
Soldaniero avesse comunicato al Priore i detti e fatti contro la
fede, se non dopo un mese o dieci giorni in circa; e per quanto i
Giudici avessero insistito con le loro dimande, negò che il
Soldaniero avesse mai parlato di tali cose mentre fra Dionisio era
in Soriano per farlo cacciare dal convento, come pure che avesse
attribuite le eresie anche al Pizzoni, dichiarando che il
Soldaniero "ben diceva, che frà Thomaso Campanella, frà Dionisio
Pontio, frà Gio. Battista di Pizzoni, frà Silvestro di Lauriana,
frà Pietro de Stilo, et frà Dominico di Stignano erano tutto una
cosa insiemi, mà non mi parlò di heresie contra frà Gio. Battista
predetto". (Si sarebbe tentati di credere che il Pizzoni, per
essersi stretto a fra Dionisio e al Campanella, dovea dapprima
venire spietatamente involto nel medesimo destino loro, ma avendo
poi fatto il suo orribile voltafaccia, questi frati di Soriano,
appartenenti alla fazione del Polistina, doveano oramai
proteggerlo: intanto per fra Vincenzo il Campanella riusciva egli
pure imputabile delle peggiori cose contro la fede, e il
Soldaniero rimaneva per entrambi que' frati scoperto).
Mentre in Napoli si facevano questi esami, in Squillace nello
stesso tempo, dall'8 agosto all'8 7bre, il Vescovo esauriva la sua
Informazione supplementare, la quale riguardava interamente la
persona del Campanella. Mediante i diaconi selvaggi della sua
Corte citò ciascun teste a comparire personalmente innanzi a lui,
sotto le solite gravi pene ecclesiastiche, in brevissimi termini:
ed egli medesimo nel suo Palazzo, col suo Vicario Sir Agazio
Colobraro e coll'Auditore Andrea Mantegna, procedè a quasi tutti
gli esami(192). - Eccone un sunto. Vespasiano Vosco dottore di
Girifalco dichiarò, che dopo la carcerazione del Campanella udì
nella piazza di Squillace dire pubblicamente che costui riteneva
Cristo essere un semplice eremita e Maria Maddalena sua concubina.
- Gio. Battista Rinaldis dottore di Guardavalle dichiarò di aver
saputo dalla sua suocera Dianora Santaguida, vedova di Ottavio
Carnevale, che fra Scipione Politi le aveva detto che il
Campanella "per stratiare et burlare li patri cappoccini, mentre
andavano in Chiesa, li dicia dove andati, ad adorare un
appiccato". - Marcello Fonte di Stignano confermò di aver saputo
da Geronimo padre del Campanella, che costui non volle predicare
in Stilo dicendo di non voler fare l'officio di Cantimbanco. - Il
Rev. Scipione Ciordo di Camini confermò di avere udito da alcune
persone del suo paese che il Campanella diceva "che la buggera (la
fornicazione) non era peccato". - Fabio Contestabile di Stilo
confermò che gli era stato detto dal Campanella di pigliarsi
spassi e piaceri quanto più poteva "che del resto è pensiero di
chi è". - La Sig.ra Dianora Santaguida di S.ta Caterina (questa
sola innanzi all'Auditore Mantegna espressamente inviato) dichiarò
che da Luzio Paparo suo parente avea saputo di aver lui udito dire
che il Campanella diceva, "non vi ca (int. non vedi che) adorano
uno impiso"; dichiarò che non avea saputo questo fatto da fra
Scipione Politi, poichè costui non era venuto in casa sua, ma
nello studio di suo figlio, separato dalla casa sua; aggiunse che
l'aveva poi comunicato a Marcello Contestabile suo nipote. -
Marcello Contestabile di Guardavalle raccontò ne' seguenti termini
un discorso avuto con sua zia la Sig.ra Santaguida, a tempo della
persecuzione fatta da Carlo Spinelli e dall'Avvocato fiscale; essa
disse, "o Marcello figlio mio, secondo si intende questo fra
Thomaso che vene a S.to Nicola alli monaci è peccato non me e
abrusciato, et io le disse S.ra zia che cosa passa, et la detta mi
rispose dicendomi figlio mio io tremo de dirti questi paroli, et
raggionandomi disse credi Marcello che uno homo da bene che sta
sotto parte illoco, nominando il nome ma non mi si ricorda come lo
nominò ma per quanto mi ricordo mi pare che lo chiamò mastro
Jacopo, et disse che quello l'havea detto che lo detto fra thomaso
solia venire in S.to Nicola monesterio de dominichini di detta
terra, et illà con li monaci facia banchetti et dopo si faciano
portare uno leuto et sonavano et detti monaci et altri seculari
ballavano et che... (un luridume da non riportarsi)... et detta
donna me lo dicia con gran modestia sugiungendo che lo detto pure
li disse che lo detto fra Thomaso raggionando di Jesu Christo
disse, dati credito ad uno che morio impiso, et di questa parola
spaventati io et la detta mia zia dicendone Jesu Jesu Vergine
maria mi levai" etc. - Jacopo Squillacioti di S.ta Caterina (il
mastro Jacopo della Santaguida) negò assolutamente di aver mai
saputo e detto alla Sig.ra il lurido fatto che la modesta e pia
donna riferiva, e cosi pure qualche concetto eretico che il
Campanella e suoi compagni avessero in qualunque modo espresso:
unicamente attestò avere udito dire "che era venuto a S.to Nicola
delli dominichini uno fra Thomaso, et diciano li genti di S.ta
Catherina che non guardava hom' in faccia ma sempre si guardava la
ungnia". - Fu questa l'Informazione supplementare di Squillace,
dalla quale sicuramente non emerse nulla di nuovo, e se qualche
aneddoto venne in luce, esso fu smentito sul nascere; può dirsi di
più che rimase quasi sempre infruttuosa la ricerca della
provenienza de' fatti in quistione, e sopratutto la ricerca delle
persone presenti allorchè essi erano stati enunciati, oggetto
principale dell'Informazione, per quanto dalle interrogazioni ivi
registrate è lecito argomentare.
II. Possiamo ora occuparci del processo ripetitivo, per lo quale,
come abbiamo fatto avvertire più sopra, la Corte fin dal 31 luglio
1600 aveva già emanati i suoi decreti. E gioverà innanzi tutto
dire in che consistevano le ripetizioni, e in qual modo vi si
procedeva secondo la giurisprudenza del tempo. Le ripetizioni
concernevano essenzialmente i testimoni del fisco. Il Procuratore
fiscale, che compariva in dati momenti senza assistere alle sedute
della Corte, facendo lo spoglio degli esami raccolti compilava
tanti Articoli, capi, o posizioni, esprimenti tanti fatti o detti
incriminabili da' quali emergeva il delitto onde si intitolava la
causa. Questi articoli egli redigeva ed esibiva per far constare
chiaramente il delitto, e in ciascuno di essi poneva, offriva, e
voleva e intendeva provare ciascun fatto o detto, ciò che per
altro era stato ed era vero, pubblico, notorio, pubblica voce e
fama, e però egli, il fiscale, protestava di non ritenersi
costretto ad una prova superflua! Presentando gli articoli conditi
di un simile noioso formulario, faceva istanza e chiedeva che si
venisse alla ripetizione; e la Corte, veduti gli atti e l'istanza
del fiscale, emanava un Decreto, col quale ordinava la consegna di
una copia degli articoli all'imputato, e stabiliva un termine
entro il quale l'imputato dovea formare e produrre
gl'Interrogatorii da farsi a' testimoni del fisco sopra quegli
articoli, ed anche dimandare un Avvocato e procuratore,
dichiarando che in contrario si sarebbe proceduto alla ripetizione
de' testimoni senza interrogatorii; per solito la Corte deputava
pure fin d'allora, ex nunc prout ex tunc, un Avvocato e difensore
di ufficio quando prevedeva che l'imputato non l'avrebbe chiesto
da sè, ed infine ordinava di notificare ogni cosa all'imputato.
Nello stesso giorno il Mastrodatti faceva la consegna degli
articoli e la notificazione del termine con la deputazione
dell'Avvocato, e ne redigeva un atto in presenza di quattro
testimoni, ordinariamente carcerati e carcerieri. Quindi
l'Avvocato presentava a nome dell'imputato gl'interrogatorii da
rivolgersi a' testimoni contro gli articoli, e faceva istanza ed
umilmente chiedeva che i testimoni prima di esaminarsi su ciascuno
articolo rispondessero a quegl'interrogatorii, in contrario con
riverenza protestava. Quest'interrogatorii erano preceduti
rutinariamente da alcune ammonizioni che si doveano fare a ciascun
testimonio, cioè, di essere obbligato a dire la pura e semplice
verità, sotto pena di scomunica ed altre molte e gravi pene, di
tener presente che si commetteva falsità non solo col proferire il
falso ma anche col tacere il vero, e che commettendo, Dio non
voglia, la falsità, era sempre tenuto a restituire la fama. E non
meno rutinariamente esigevano che ciascun testimone dicesse il suo
nome, cognome, padre, madre, patria, esercizio, a spese di chi
vivesse, quanto possedesse, se fosse solito confessarsi e
comunicarsi, e presso quale confessore e in quale chiesa e da
quanto tempo l'avesse fatto, se fosse stato mai scomunicato, e da
quanto tempo e per quale causa: e poi, se conoscesse l'imputato,
da quanto tempo e per quale causa, se gli fosse amico o nemico e
perché, se ci avesse mai conversato intrinsecamente e quale
opinione ne avesse circa le cose della fede; e poi, venendo a
ciascuna imputazione, se avesse udito qualche volta parlare
l'imputato del tale argomento e in che senso, e con quali parole,
e in qual luogo, e in qual parte di quel luogo, e con quale
occasione, e in presenza di chi, e quante volte, e in quale ora,
giorno, mese ed anno, e se determinatamente o d'improvviso, e se
con assenso o con dissenso del testimone, e in caso di dissenso,
con quali parole questo fu espresso e quali risposte ebbe etc.
etc. etc. Ci rimangono saggi d'interrogatorii che costituiscono
veri monumenti di fecondità in sottigliezze, e sempre allo scopo
di far trovare qualche contradizione ne' testimoni, o di
stancare interroganti ed interrogati e prender tempo. Era poi
anche in facoltà dell'Avvocato di aggiungere qualche speciale
interrogatorio, oltre quelli calcati sugli articoli, e perfino
d'indicare qualche persona speciale cui quell'interrogatorio
aggiunto dovea rivolgersi: d'altra parte, è quasi superfluo il
dirlo, i Giudici non mancavano quasi mai di rivolgere di tempo in
tempo a ciascun testimone, oltre la detta doppia serie di dimande,
qualche loro particolare dimanda d'ufficio.
In tal modo fu iniziato e condotto anche il processo ripetitivo
nella causa del Campanella e socii. Procuratore fiscale fu il
Reverendo Andrea Sebastiano, fiscale della Curia Arcivescovile,
che trovasi nella massima parte delle scritture processuali di
quel tempo, avendo poi avuto a successore nel 1603 il Rev.do
Silvestro Santorello: egli diede gli articoli soltanto contro
ciascuno de' tre imputati principali, il Campanella, il Pizzoni e
fra Dionisio, incolpandoli tutti egualmente "de haeretica
pravitate et atheismo"; ma vedremo che durante la causa svanì
l'ateismo e rimase unicamente l'eretica pravità. Il tribunale
emanò tre Decreti, uno per ciascuno de' tre imputati, assegnando
il termine di soli 4 giorni perché si producessero
gl'interrogatorii, ma veramente tollerò che questi fossero
prodotti fin 16 giorni dopo, come si vede accaduto appunto pel
Campanella, essendo stati gl'interrogatorii in nome suo presentati
il 16 agosto. Nel Decreto relativo al Campanella si disse: "atteso
che fra Tommaso Campanella simula o sembra simulare la pazzia, i
Signori giudici, senza deliberar nulla sopra di ciò, perché la
giustizia non patisca danno in qualche parte e per abbondanza di
cautela, decretarono che ad esso fra Tommaso Campanella venga
assegnato d'ufficio come si assegna per curatore ed avvocato il
Rev.do Attilio Cracco"(193). Questo medesimo Cracco fu assegnato
per Avvocato e difensore al Pizzoni e a fra Dionisio, nel caso in
cui costoro non avessero da loro medesimi chiesto un Avvocato e
procuratore. Per quanto ci consta da diverse scritture di quel
tempo, il Rev.do Attilio Cracco era l'avvocato officioso
quotidiano nelle cause del S.to Officio in Napoli, salvo
l'assistervi o no con la debita diligenza; così nel corso di
questo medesimo processo troviamo una supplica di fra Dionisio a'
Giudici perché provvedessero a far andare presso di lui il Cracco
che non ci andava. Da una nota confidenziale, scritta da costui a
piè di un atto del processo, rilevasi che egli era compare del
Mastrodatti Prezioso e certamente coll'avvocatura di officio
faceva la sua carriera nella Curia: difatti in una scrittura del
23 luglio 1615, durante l'Arcivescovato del Card.l Carafa, essendo
Curzio Palumbo Vicario delle Monache e Commissario delle cause di
S.to Officio, troviamo il Rev.do Attilio Cracco Canonico ed
Avvocato fiscale.
Ecco ora con la maggior brevità possibile i particolari degli
articoli e degl'interrogatorii dati per ciascuno de' tre
inquisiti, contro i quali si fece il processo ripetitivo. - Contro
il Campanella furono dati dal fiscale non meno di 20 articoli,
riproducendo anche tutte le scritture, atti e processi formati
contro di lui(194). Co' 20 articoli, corredati delle formole sopra
esposte, il Fiscale volle provare avere il Campanella detto
apertamente e pubblicamente: che non c'era Dio, che la Trinità era
una chimera, che Cristo non era Dio ma un pezzente, che l'ecclissi
del sole a tempo della passione di Cristo non fu miracolosa né
universale, che la risurrezione di Cristo non fu vera e il corpo
di lui, al pari di quelli di certi legislatori, fu rubato, che
Maria non rimase vergine, che nell'Eucaristia non c'era il corpo
di Cristo ed essa fu istituita per semplice commemorazione, che i
Sacramenti erano invenzioni di uomini ed istituiti per ragione di
Stato, che i miracoli di Cristo non erano veri ed ognuno potea
farne, e Mosè passò il mare profittando del flusso e riflusso e
Lazzaro risuscitò per finzione, che era una stoltezza adorare il
crocifisso, che non c'era purgatorio né paradiso né inferno e le
anime tornavano nel nulla, che l'anima era mortale, che non
c'erano i diavoli, che egli volea predicare una nuova legge
migliore di quella de' Cristiani, che il peccato era tale in
quanto così credevasi dagli uomini e non era peccato quello che
commettevasi di nascosto, che gli atti venerei non erano peccati e
la Chiesa avea fatto male a proibirli, che le Sacre Scritture
erano invenzioni degli Apostoli ad oggetto d'introdurre la fede di
Cristo, che era lecito cibarsi di carne in ogni tempo, che egli
sapeva fare miracoli o poteva farli, che la legge de' turchi era
migliore di quella de' Cristiani. Come si vede, egli presentò i
fatti emersi dai varii processi, accogliendoli con tutta la
larghezza possibile e così come erano stati deposti. Naturalmente
anche l'Avvocato riprodusse le cose medesime per conto suo
negl'interrogatorii con tutto il formulario d'uso; né aggiunse
alcuna cosa di proprio per combattere le accuse, ma invocò la
dottrina, bontà e religione de' Signori della Corte, notando che
in simili casi conveniva che essi fossero non solo giudici ma
anche patroni per indagare la verità(195).
Quanto al Pizzoni, gli articoli del fiscale contro di lui furono
solamente 4, volendo provare aver lui detto, creduto ed anche
tentato d'insegnare, che non c'era Dio, che non c'era Trinità, che
era vano astenersi dal mangiar carne, ed in complesso tutte le
eresie che si pretendevano dette dal Campanella, per lo che aveva
con costui una cifra secondo la quale si scrivevano
scambievolmente. E l'Avvocato si attenne alle stesse cose
negl'interrogatorii, e per l'articolo in cui si affermava avere il
Pizzoni professate tutte le eresie del Campanella volle che ogni
testimone dicesse: se conosceva che il Pizzoni e il Campanella
fossero familiari tra loro e da quali segni l'avea rilevato, se
aveva mai udito costoro parlare di cose contro la fede e di quali
cose, dove, e quando, e alla presenza di chi, e in modo aperto e
chiaro o piuttosto oscuro, se aveva poi riferito ad altri queste
cose, e a chi, e dove, e quando, e con quale occasione e a quale
scopo, se infine conosceva quali fossero le opinioni del
Campanella e che le esponesse etc. etc. Diede dippiù altri
interrogatorii aggiunti, volendo che ogni testimone dicesse se era
stato persuaso da qualche giudice a deporre contro il Pizzoni,
segnatamente perché il Pizzoni avea deposto contro di lui, se
sapeva che fossero state scambiate lettere tra il Pizzoni e il
Campanella, e cosa esse contenessero e in quale carattere fossero
scritte, se sapeva che il Campanella e fra Dionisio avessero
minacciato il Pizzoni e procurate fedi testimoniali false, se
sapeva che il Pizzoni fosse stato lettore e predicatore di buone
dottrine cattoliche o si fosse mai detto il contrario, se infine
esso testimone era stato mai inquisito, processato e condannato, e
da chi, e dove e per quale causa.
Da ultimo, quanto a fra Dionisio, vi furono per parte del fiscale
17 articoli, volendo provare aver lui detto, creduto ed insegnato
o tentato d'insegnare: che non c'era Dio, che la Trinità era una
chimera... insomma quasi tutte le cose affermate contro il
Campanella, aggiuntovi il fatto osceno in dispregio dell'ostia che
sarebbe stato da esso fra Dionisio perpetrato, e con la
conchiusione dopo tanto lusso di articoli, che aveva tenuto,
creduto, insegnato o tentato d'insegnare tutte e ciascuna delle
opinioni eretiche le quali si pretendeva aver tenute, credute e
insegnate il Campanella. È superfluo dire che l'Avvocato seguì
puntualmente il fiscale negl'interrogatorii; ma bisogna notare che
aggiunse un'altra quantità d'interrogatorii divisa in tre gruppi,
l'uno circa la persona del Pizzoni, l'altro circa la persona del
Lauriana, il terzo circa la persona del Soldaniero. E col 1° volle
che fosse il Pizzoni interrogato sopra più fatti: se esso Pizzoni
fosse stato amico o nemico di fra Dionisio ed essendogli nemico
come mai avesse fra Dionisio potuto comunicargli tanto gravi
eresie, se fosse vero l'aver rubato molti scritti e prediche di
fra Dionisio e l'essersene costui lagnato co' superiori, se avesse
fatto fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio
cercava di farlo carcerare per l'omicidio del P.e Ponzio, se fosse
stato mai cacciato da qualche convento in cui fra Dionisio era
Priore, se nel luglio 99 incontratosi con fra Dionisio in Stilo
avesse cercato di parlargli e fra Dionisio vi si fosse rifiutato,
se avesse dimorato più a lungo col Campanella ed avutane maggior
conoscenza in paragone di fra Dionisio. Col 2° gruppo
d'interrogatorii volle che il Lauriana dicesse: se esso Lauriana
avesse cercato di vendere a fra Vincenzo Perugino certi scritti,
che fra Vincenzo non volle comprare avendo conosciuto che
apparteneano a fra Dionisio, se fosse stato mai suddito di fra
Dionisio e da costui pubblicamente gastigato ed espulso dal
convento per mala vita, se nel convento di Pizzoni ci fosse un
passaggio per la cella del Vicario volendo andare alla cucina, se
in Pizzoni fra Dionisio fosse stato prima o contemporaneamente al
Campanella. Infine col 3° gruppo d'interrogatorii volle che il
Soldaniero dicesse: se esso Soldaniero fosse andato nella camera
in cui trovavasi carcerato fra Dionisio per parlargli, avendogli
pure fatto visite, assistenza, spese, e prestato danaro quando fra
Dionisio era infermo, allo scopo di conciliarsi con lui; inoltre
se nelle carceri gli avesse rivelate le deposizioni fatte contro
di lui, e divulgate alcune circostanze deposte nel suo esame.
Evidentemente gl'interrogatorii aggiunti, pel Pizzoni e per fra
Dionisio, venivano da costoro medesimi suggeriti all'Avvocato con
lo scopo di prepararsi il terreno alle difese. E così pel povero
Campanella, che continuava a mostrarsi pazzo, non vi furono
interrogatorii aggiunti, ed invece di essi vi furono le semplici
raccomandazioni a' Signori Giudici.
Il 21 agosto 1600, nella seduta medesima in cui si faceva l'esame
informativo di Valerio Bruno, procedevasi alle ripetizioni,
cominciando da quelle contro il Campanella, che furono in breve
esaurite nelle sedute successive del 22 e 23, aggiungendovisi una
ripetizione supplementare il 29 agosto. Furono ripetuti il
Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di
Stilo; la ripetizione del Petrolo ebbe bisogno di un supplimento,
per chiarire alcuni punti su' quali non parve di avere avute
risposte da poter contentare(196). Ad ognuno di costoro si lesse
dapprima, con le debite ammonizioni, ogni singolo interrogatorio,
di poi ogni singolo articolo "della parte avversa", a meno che la
persona del testimone non vi fosse del tutto estranea, aggiuntavi
pure qua e là qualche dimanda ex officio; e però nel processo si
trovano inserti prima gl'interrogatorii con le ammonizioni e poi
gli articoli, secondo l'ordine col quale doveano rivolgersi al
testimone per averne le risposte. I lettori intenderanno che noi
non potremmo in alcun modo riferire tutta la serie di queste
risposte, le quali veramente dànno una quantità notevole di
notizie, onde simili atti processuali riescono sempre di una
grande importanza: moltissime notizie, da essi rilevate, hanno
servito di base alla nostra narrazione degli antecedenti del
Campanella, della congiura ed anche de' primi atti del processo;
qui terremo conto essenzialmente delle cose che riflettono i punti
più cospicui della causa.
Il Soldaniero (21 agosto) dovè dichiarare che era stato una volta
scomunicato "per havere preso alcuni ribelli in chiesa" senza dire
se fosse stato assoluto; e vedremo che pure di questo fatto si
servì poi fra Dionisio per infermare la validità della sua
testimonianza. Del rimanente continuò a dire che non aveva mai
conosciuto il Campanella, non aveva mai ricevuta da lui alcuna
lettera, e ne aveva avuta relazione solo da fra Dionisio, dal
Pizzoni e da fra Pietro di Stilo, il quale ultimo non gli disse
nulla del Campanella contro la fede, mentre i due primi gli
dissero che il Campanella era uomo d'importanza, poteva fare
miracoli, poteva risuscitar morti (null'altro che questo).
Continuò a dire che mandò il Priore di Soriano a rivelare ogni
cosa al Visitatore, e dichiarò di non avere avuta niuna promessa
per deporre nel modo in cui depose. Naturalmente, non avendo mai
conosciuto il Campanella, non potè attestare niuna delle cose
affermate ne' 20 articoli del fiscale. - Il Pizzoni (22 agosto)
ripetè le solite cose. Aveva conosciuto il Campanella da lungo
tempo, ma solo quella volta che lo vide in luglio, lo udì parlare
di eresie. Accennò (abbastanza goffamente) alle argomentazioni con
le quali si era sforzato di ribattere le eresie che il Campanella
aveva proferite, ed alla lettera che scrisse al P.e Generale, con
l'opera del Lauriana, per informarlo di tutto; aggiunse che non
potè fare altra dimostrazione contro di lui, perché egli era
accompagnato da tre o quattro banditi, come il Caccìa e
Marcantonio Contestabile; (sempre senza riguardo alcuno verso il
Campanella e solo intento a salvare sè medesimo con la menzogna).
Confermò che al suo esame innanzi a fra Cornelio era presente D.
Carlo Ruffo, che quell'esame conteneva molti errori e non gli era
stato letto come era stato scritto. Sopra ciascuna eresia, che
avrebbe udita dal Campanella, molto spesso si riportò agli esami
fatti, non ricordandosi bene (circostanza da notarsi), ed infine
aggiunse che quando parlava degli esami fatti, intendeva parlare
di quelli fatti in Napoli, perché in quelli fatti in Calabria ci
erano "mille errori del scrittore". - Il Lauriana (nella seduta
medesima) disse che conosceva il Campanella da due anni, e pel
rimanente non fece che risponder sempre, "vedete al mio esamine
che sarà llà... non mi posso ricordare... vedete llà all'esamine".
Aggiunse infine, "queste cose le mantenerò in faccia à fra
Dionisio et à fra Thomaso"; ed allora i Giudici gli fecero
l'obiezione naturalissima, "come potrà sostenere quelle cose che
dice di non sapere e non ricordare"; ed egli, "io lo sostenerò
perché essi l'hanno detto"; e i Giudici, "quali sono queste cose
che i predetti dissero"; ed egli, "stanno scritte all'esamine,
vedetelo llà"; e i Giudici, "dica le cose che si contengono in
detto esame"; ed egli, "io non me ne ricordo"! Confermò del pari
che a Monteleone D. Carlo Ruffo fu presente all'esame; e poi,
venendo agli articoli, sul primo, cioè che il Campanella aveva
detto non esservi Dio, rispose, "vedete l'esamine che mi pare che
lo dica, et esso havea un libro in mano, che trattava de Deo, et
si chiama Plinio"; su tutti gli altri rispose che non se ne
ricordava, appellandosi continuamente al suo esame. - Il Petrolo
(23 agosto) disse di avere conosciuto il Campanella prima che
fosse frate, "che esso era prevetello", e poi negli ultimi due
anni. Quindi, molto diffusamente, citando una quantità di
circostanze, confermò ciascuna delle cose che avea deposte contro
di lui. Narrò le pressioni sofferte la prima volta da parte di fra
Cornelio per farlo deporre, la lettura fattagli privatamente
dell'esame del Pizzoni per avere da lui le deposizioni medesime; e
poi la presenza di D. Carlo Ruffo, del Capitano di campagna e di
molti birri, nell'esame di Gerace, le pressioni ivi sofferte da
parte di fra Cornelio per fargli sottoscrivere un esame che
conteneva più di quello che aveva detto, l'andata alla stanza
della tortura con lo Sciarava, le violenze di costui che
prendendolo pel petto l'obbligò a sottoscrivere; onde si rimise
all'esame fatto in Napoli "perché quello di Calabria non fu
scritto come egli diceva". Intanto venne ripetendo le eresie che
il Campanella gli aveva espresse in discorsi confidenziali,
negando quelle non deposte da lui e taluna malamente scritta in
Calabria, come pure le diverse esagerazioni accumulate su quelle
da lui deposte (che il fiscale aveva tratte dalle deposizioni del
Caccìa, del Pisano etc.). - Fra Pietro di Stilo (nella seduta
medesima) dicendo che si era confessato al P.e Gonzales, aggiunse
che costui faceva a tutti belle esortazioni, ed andava spesse
volte dal Campanella e gli faceva "brutte riprensioni". Narrò la
sua conoscenza col Campanella "da che era figliolo", accennando
anche ad un progetto di matrimonio tra un fratello suo ed una
sorella del Campanella, che poi non si concluse "per questi
romori". Confermò di non aver mai udito il Campanella parlare
contro la fede, e di averlo solamente dovuto rimproverare come
superiore del convento, ammonendolo che non praticasse tanto con
secolari. Espose assai minutamente le circostanze verificatesi nel
suo primo esame in Squillace, ricordando le dimande fattegli e le
risposte date, e il non essersi voluto scrivere il processo
verbale, e l'essere stato minacciato di consegna alla Corte Regia
da parte del Visitatore e più ancora di fra Cornelio, presenti i
birri della Corte; poi le cose medesime verificatesi in Gerace,
presenti il Capitano di campagna e i suoi soldati, e l'avergli fra
Cornelio mostrati certi ferri co' quali voleva fargli stringere il
petto, e d'altra banda l'avergli promesso libertà se dicesse di
avere udito eresie dal Campanella, aggiungendo che fra Cornelio
aveva preso molti danari da' conventi ed altre robe da'
particolari per fornirne gl'inquisiti, e intanto nessuno avea
ricevuto nulla. Intorno alla Trinità, a' Sacramenti ed in ispecie
all'Eucaristia, e così pure intorno alle Sacre Scritture, non solo
negò che il Campanella ne avesse parlato male, ma attestò che alle
volte disputando con dottori e con Cappuccini, alle volte
predicando in Chiesa, ne aveva parlato sempre bene; del resto egli
disse, "io non mi intendo di queste cose perché son ignorante".
Intorno all'ecclissi avvenuta a tempo della morte di Cristo
rispose, "sò che il Campanella parlava di stelle, de lune, di
clisse, è di terremoti et di tutte le scientie del mondo, è mi
parevano cose curiose, è buone, mà dela oscuratione fatta à tempo
dela morte di christo non ne sò niente": intorno a' miracoli poi,
pur negando che il Campanella avesse parlato de' miracoli di
Cristo come era stato malamente scritto in Gerace, ammise che una
volta, mentre il Campanella diceva che le opere sue si potevano
comprovare con miracoli, avendo taluno, che forse era il
Prestinace, argomentato in materia di miracoli, il Campanella
mostrò di sprezzare quegli argomenti ed accennò ad una certa
"elevatione di mente". Passando agli articoli, fin dal 1° disse,
"poi che il fiscale dice questo, et è comprobato dalla Santa
Chiesa che il Campanella è tenuto per uno heretico, vi dico che
per l'avenire lo voglio tenere anchora io per heretico, ma però di
queste cose contenute in questo articolo non ne sò niente"; ed
egualmente per tutti gli altri articoli disse non saperne niente.
- Infine il Petrolo (29 agosto) fu esaminato di nuovo, per dare
chiarimenti intorno ad alcune cose che aveva ammesso per dette dal
Campanella ovvero enunciate in modo confuso, e segnatamente
intorno alle superstizioni che c'erano nell'Eucaristia, intorno
all'ecclissi a tempo della morte di Cristo, intorno all'essere
stato il sacramento dell'Eucaristia istituito per ragione di
Stato. Ed egli, negando quest'ultima proposizione, che disse di
non intendere ed attribuì totalmente a fra Cornelio, negando che
il Campanella avesse mai parlato di quella tale ecclissi ed
ammettendo invece che avea detto essere il sole calato alcune
miglia, dichiarò di non ricordarsi delle superstizioni che c'erano
nell'Eucaristia. Ed aggiunse: "per l'amore di Dio, le Signorie
Vostre non habbiano tanto riguardo alle cose fatte in Calabria,
perché le cose furono fatte tanto imbrogliate, è sotto sopra che
non si potria dire"; e ricordò avere un prete di Gerace detto che
loro frati si cavavano gli occhi l'un l'altro, ed essere stati dal
Mesuraca dati 100 scudi a fra Cornelio perché processasse
mortalmente il Campanella ed egli potesse così guadagnarsi il
taglione dalla Corte Regia, narrando di nuovo tutte le circostanze
della fuga e cattura sua insieme col Campanella per opera del
Mesuraca.
Se ci facciamo a valutare i risultamenti delle ripetizioni contro
il Campanella, troviamo le seguenti cose. Riuscirono: assai meno
gravi e quasi insignificanti le testimonianze del Soldaniero, già
prima poggiate essenzialmente sopra vaghi detti e congetture;
abbastanza chiaramente false le deposizioni del Lauriana, già
dettate da suggestioni ed ingrossate per bestiale scempiaggine;
pur sempre molto gravi e compromettenti le testimonianze del
Pizzoni, già date senza dubbio per doppiezza e speranza
d'impunità; non meno gravi, comunque attenuate di molto, le
testimonianze del Petrolo, già rese per eccessiva timidezza
piuttosto che per malvagità; sempre più favorevoli e
giustificative da ogni lato le testimonianze di fra Pietro di
Stilo, già prima niente affatto lievi per avveduto apprezzamento
de' tempi, de' luoghi e delle circostanze. Riuscirono poi unanimi
le dichiarazioni di mala condotta de' primi processanti da parte
dei frati d'ogni colore, ma se esse giungevano ad infondere gravi
dubbî sulla legittimità del processo fondamentale di Calabria, non
potevano giungere a scuotere la convinzione che molte eresie
aveano dovuto essere manifestate dal Campanella almeno ne'
discorsi confidenziali, poichè, mentre p. es. il Pizzoni diceva
che "mille errori del scrittore" erano corsi nel suo esame, e il
Petrolo diceva che "le cose furono fatte sotto sopra", in fondo
entrambi confermavano in tutto o in gran parte le loro
testimonianze precedenti.
Ecco ora i particolari degli esami ripetitivi contro il Pizzoni.
Essi si fecero immediatamente dopo quelli del Campanella ed
occuparono due sedute, il 23 e 24 agosto: furono ripetuti, il
Soldaniero (in due volte), il Lauriana, Valerio Bruno e il
Petrolo. - Il Soldaniero disse di avere già conosciuto il Pizzoni
qualche tempo prima che confermasse le eresie di fra Dionisio,
perché veniva spesso in Soriano; che quando vi venne con fra
Dionisio, in due giorni successivi confermò le eresie che costui
diceva, cioè che il Sacramento dell'altare non era vero, che egli
se n'era servito per un uso osceno, e che i sette peccati (sic)
erano stati fatti per ragion di Stato, rimettendosi in tutto il
resto all'esame primitivo giacchè non se ne ricordava. Persistè
nell'asserire che ne avvertì il Priore ed il Lettore fin dal 1°
giorno, e poi, nel 2° giorno, procurò che que' frati fossero
cacciati dal convento, affermando che il Pizzoni avea detto
potersi sempre mangiar carne, ed avea lodato il Campanella e le
sue opinioni eretiche, ond'egli congetturò che tutti e tre que'
frati si avessero comunicate le eresie tra loro. Inoltre confermò
di aver narrato il fatto a fra Domenico e poi a fra Gio. Battista
di Polistina, e dietro dimanda d'ufficio, attestò che credeva
costoro uomini da bene; disse di non conoscere lettere scambiate
tra il Pizzoni e il Campanella, e infine dovè dichiarare di essere
stato processato, secondo lui falsamente, per l'omicidio di due
fratelli Soldaniero parenti suoi. Quanto alle cose contenute negli
articoli del fiscale, disse che non si ricordava se il Pizzoni
avesse o no parlato dell'esistenza di Dio e della Trinità, che
avea parlato del potersi mangiar carne ogni giorno, e che egli
riteneva avergli discorso di eresie in que' due giorni per
insegnargliele! - Il Lauriana disse di aver conosciuto il Pizzoni
da oltre sei anni, non averlo mai visto fare o dire qualche cosa
contro la fede, e solo averlo udito dire, a proposito di un libro
del Campanella, che alcune delle cose scritte in quel libro gli
parevano buone ed altre no, mentre esso Lauriana non le riteneva
buone, perché erano contro S. Tommaso, non già contro la fede.
Confermò che in Pizzoni il Campanella e il Pizzoni stettero
insieme sette giorni, e che quando il Campanella parlò di eresie
era presente anche fra Dionisio. Disse di non sapere che il
Pizzoni avesse professate le eresie del Campanella, di sapere che
costoro si scrivevano ma di non averne mai visto i caratteri,
infine di non essere a sua notizia che alcuno avesse minacciato il
Pizzoni e procurato fedi false contro di lui. Quanto alla materia
degli articoli del fiscale, sopra ognuno di questi rispose o di
non averne udito nulla o di non ricordarne nulla. - Valerio Bruno
disse di aver conosciuto il Pizzoni in Soriano, ma non avergli mai
parlato; di aver udito dal Soldaniero, quando lo fece cacciare dal
convento insieme con fra Dionisio, che avea detto mille cose
contro la fede, ma non avere saputo nulla di particolare. Non avea
saputo nemmeno che avesse detto potersi mangiar carne ogni giorno.
Così non potè dare alcuna notizia precisa, e su ciascuno articolo
rispose non saperne nulla. - Finalmente il Petrolo disse di aver
conosciuto il Pizzoni da due anni, ma non aver mai trattato con
lui, di sapere che il Campanella era stato in Pizzoni e che gli
era amico, onde si visitavano l'un l'altro; di non potere dir
nulla delle opinioni di lui non avendolo trattato. Confermò che
alla Roccella, un giorno o due prima della cattura, avea visto
lettere venute al Campanella e scritte in cifra, che il Campanella
gli disse provenienti dal Pizzoni e da non potersi intendere che
tra loro due; dietro dimande d'ufficio, disse dapprima che la
lettera in cifra non avea sottoscrizione, di poi che non sapeva se
avesse sottoscrizione e che egli non la lesse né poteva leggerla;
(si ricordi che di questa cifra esisteva in processo la sola
sottoscrizione del Pizzoni e del Campanella, vergate di mano di
fra Cornelio). E in somma non potè dare la benchè menoma notizia
delle cose che s'imputavano al Pizzoni, e fu negativo in tutto,
dicendo che avea solo congetturato che il Pizzoni e il Campanella
fossero amici intrinseci, perché si scrivevano in cifra tra di
loro.
Come si vede, le prove testimoniali contro il Pizzoni si andavano
attenuando in un modo sensibile. Il Petrolo e Valerio Bruno non
attestavano quasi nulla, mentre il fatto della cifra, deposto e
conformato dal Petrolo, poteva riguardare la congiura, non
l'eresia, e quel tanto che in genere deponeva Valerio Bruno si
fondeva nella deposizione del Soldaniero. Il Lauriana
disimpegnavasi straordinariamente bene, con ogni probabilità
guidato dallo stesso Pizzoni attenuando le cose già deposte. Il
Soldaniero medesimo attestava meno del solito, e d'altronde,
continuando a sostenere che il Pizzoni era stato presente in due
giorni a' colloquii di fra Dionisio con lui e che egli era ricorso
al Priore e al Lettore contro quei frati, cose, specialmente in
riguardo al Pizzoni, già ben provate false, non poteva punto
conciliarsi la fede de' Giudici. E si può dire che il peggior
testimone rimasto a carico del Pizzoni era il Pizzoni medesimo,
che con le sue tante rivelazioni contro il Campanella, e col
fatto, già ben provato falso, dell'essere ricorso contro costui al
P.e Generale e al P.e Visitatore, infondeva grave sospetto che
veramente avesse trattato di eresie col Campanella, egli che n'era
stato uno degli amici più intimi ed operosi; di tal che la
furberia e doppiezza che gli erano naturali, eccitate dalle
pressioni inique di fra Cornelio, mentre tanto nocquero al
Campanella, nocquero non meno a lui medesimo.
Ci rimane a dire degli esami ripetitivi contro fra Dionisio. Essi
si fecero il 26, 28 e 29 agosto, aggiungendovisi anche una
ripetizione supplementare nell'ultima seduta. Furono esaminati il
Bruno, il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo e fra
Pietro di Stilo. - Valerio Bruno (26 agosto) disse di conoscere
fra Dionisio da un anno, di non avere mai parlato con lui, e di
crederlo un uomo dabbene e buon cristiano (singolare credenza
mentre andava di nuovo a farlo dichiarare eretico). Attestò di
avere solamente udito dal Soldaniero che avea detto "alcune cose
contra Dio.... non so che per raggione di Stato, e contra li sette
peccati mortali"; inoltre, nel corso degl'interrogatorii, disse di
avere anche udito dal medesimo Soldaniero, quando due volte
ricorse al Priore e al Lettore contro di lui e del Pizzoni, che
avea parlato della Trinità, dell'abuso osceno dell'ostia, del
disegno di predicare una nuova legge; per altro dichiarò pure che
in que' giorni avea predicato in Soriano, "et li gentilhomini
dicevano che predicava buono, mà io non sò quel che si dicesse, mà
mi pareva che parlasse de le cose di missere Domine dio, è che
parlasse bene". Aggiunse di aver veduto discorrere tra loro alla
tavola fra Dionisio e il Soldaniero, ma discorrevano piano, e non
sapeva quel che dicessero, né sapeva "che tra di loro venessero a
parole"; di poi dichiarò che fra Dionisio non avea mangiato carne,
e avea detto al Soldaniero "Signore, cammarati, perché non è
peccato mangiare caso, ova, e latticini, e niente più occorse"
(chiare contradizioni con le deposizioni precedenti). Dimandato
d'ufficio se avesse veduto in Napoli il Soldaniero da che
trovavasi in carcere, rispose di averlo veduto due volte e di
averne solamente avuto conforto, con dire che stesse allegramente,
e di averlo poi veduto anche dopo di essere stato esaminato ma
senza parlargli. Infine, venendo agli articoli del fiscale,
riaffermò le cose dette negl'interrogatorii, e di nuovo attestò di
non sapere che fra Dionisio avesse detto esser lecito il mangiare
carne ogni giorno indifferentemente. - Il Soldaniero (nella stessa
seduta) confermò di aver veduto a Soriano per la prima volta in
giugnetto, cioè in luglio, fra Dionisio che gli "fece de
basciamano" e rimase a Soriano due giorni, aggiungendo di non
averlo mai più veduto in sèguito se non carcerato, a Gerace, a
Monteleone, sulle galere, e poi in Napoli, dove trovandosi lui
ammalato a letto, esso Soldaniero lo avea guardato dalla porta,
senza entrare nella camera. E ripetè ciascuno de' detti e fatti di
fra Dionisio contro la fede, presente ed accettante il Pizzoni
(poichè ciascuno interrogatorio gli dava modo di ricordarsene), e
disse che que' frati aveano definito "impressioni di testa" i voti
e le divozioni, come pure i miracoli, che aveano detto essere
stati istituiti i Sacramenti dalla Chiesa "ad trahendum ad se";
del resto, nel ripetere ciascuno de' capi da lui deposti, per
maggior cautela si riferì sempre al primo esame, dicendo anche una
volta, "non esca da queste carceri se quanto ho detto nel mio
esamine non è vero". E confermò di averne avvertito il Priore ed
il Lettore, ma dovè non di meno attestare che fra Dionisio, ad
istanza di un Rutilio di Pucci, predicò, e a lui parve che
predicasse dottrine cattoliche (non era stato dunque cacciato a
sua istanza dal convento). Non mancarono poi i Giudici di
rivolgergli gl'interrogatorii dati espressamente per lui, se cioè
avesse visitato, assistito, cibato con le mani sue e fornito di
danaro a prestito fra Dionisio, mentre costui trovavasi infermo,
per riconciliarsi con lui: il Soldaniero rispose negativamente su
tutto. Infine, su ciascuno articolo, non occorre dire che ripetè
quanto negl'interrogatorii avea dichiarato. - Il Pizzoni (28
agosto) disse di aver conosciuto fra Dionisio fin da che era
studente del Fiorentino, e di essere poi stato suddito di lui nel
convento di Nicastro: aggiunse che gli era divenuto nemico da che
esso Pizzoni ne avea riconosciute le eresie, onde ne avea avute
mille minacce. Confermò quindi avergli fra Dionisio in Pizzoni
manifestate quelle medesime eresie, che tre o quattro giorni dopo
anche il Campanella gli manifestò, e che esso Pizzoni poi espose
al Visitatore e scrisse al Generale, servendosi del Lauriana, il
quale così venne egli pure ad averne notizia. Addusse taluni degli
argomenti co' quali combattè fra Dionisio, affermando che per
quelle così dette verità, mentre erano eresie, non si poteva dir
savio il Campanella, dal quale fra Dionisio le faceva derivare;
narrò come costui finì per dargli dell'asino, ed egli lo scacciò
dal convento, ricordando una quantità di circostanze, di tempo, di
luogo, d'occasione (che poteva bene citare a modo suo poichè non
c'era stato presente alcun altro). Venne così confermando ciascun
capo di accusa a misura che gl'interrogatorii li riducevano alla
sua memoria; e sugl'interrogatorii dati espressamente per lui
rispose, che veramente fra Dionisio aveva persi alcuni scritti
sull'Apocalisse e gliene aveva chiesto conto, mentre egli non ne
sapeva niente, che non aveva fatto fuggire fra Gio. Battista di
Polistina quando fra Dionisio cercava di farlo carcerare, che
costui mentiva quando diceva essere lui stato espulso da un
convento per delitti e furti, che nel luglio 99 erano andati
insieme ad Arena e quindi avevano di necessità dovuto conversare
tra loro, che in Stilo fra Dionisio e il Campanella aveano perfino
dormito insieme e quindi erano intrinseci amici. Sugli articoli
del fiscale si riferì a quanto avea detto sugl'interrogatorii,
talvolta anche a quanto avea detto negli esami precedenti,
ripudiando ciò che non aveva udito o visto (come p. es. il fatto
del pugno dato al crocifisso(197), del quale veramente avea
parlato il Soldaniero) e tornando a ripetere che l'esame di
Calabria era stato falsificato dal Visitatore e da fra Cornelio, i
quali aveano preso anche danari dal Pisano e dal Caccìa e gli
aveano fatti rimanere ingannati, come costoro dicevano in
Monteleone alla presenza di molti frati e secolari mentre stavano
tutti in una carcere. Conchiuse col dire che egli aveva inteso di
sgravare la sua coscienza, e non di gravare quella degli altri
indebitamente. - Il Lauriana (nella seduta medesima) disse di aver
conosciuto fra Dionisio da quattro anni, perché era stato suddito
di lui in Nicastro, e di esserne rimasto in Pizzoni scandalizzato
per una proposizione da lui detta contro l'Eucaristia; ma
ostinatamente disse di non ricordarsi di tale proposizione, e se
ne riferì al primo esame, come fece anche per tutta la serie
degl'interrogatorii senza che i Giudici avessero mai potuto
cavarne alcuna spiegazione. Dietro dimanda d'ufficio, disse che il
Pizzoni gli aveva fatto scrivere al P.e Generale una lettera in
cui gli pareva "più presto de sì che altramente" che si fosse
fatta menzione di fra Dionisio, parlandosi di ribellione e di cose
di S.to Officio. Sugl'interrogatorii speciali per lui, disse che
il Pizzoni lo aveva una volta mandato a vendere per sei ducati un
libro di prediche a fra Vincenzo Perugino, il quale non lo volle,
ed egli non ricordava che fra Vincenzo avesse detto che erano
prediche di fra Dionisio; che egli aveva una volta avuto penitenze
da fra Dionisio; che nel convento di Pizzoni, per salire alla
cucina, si doveva passare per la cella del Vicario; sul resto si
riferì al primo esame. Finalmente sugli articoli del fiscale si
riferì del pari al primo esame, poichè non ricordava alcuna cosa.
Continuarono il 29 agosto gli esami ripetitivi contro fra
Dionisio. - E dapprima il Petrolo disse di avere, fin da quando
era novizio, conosciuto fra Dionisio, ed averlo poi veduto due
volte in Stilo di passaggio, oltrechè in Stignano, l'ottava del
Corpo di Cristo, quando fece una predica sul SS.mo Sacramento che
non si poteva sentire più bella "et tutti la laudorno" (la predica
egli menzionava, il pranzo in casa Grillo no). Disse di non aver
mai udito eresie dalla bocca di lui, ma solamente udito da fra
Pietro di Stilo che egli, fra Dionisio, aveva dette al Lauriana
alcune parole contro il SS.mo Sacramento, oltrechè aveva commesso
qualche peccato di carne della peggiore specie. Rispose quindi su
tutti gli interrogatorii negativamente: e dietro dimande d'ufficio
disse che fra Dionisio era veramente amico del Campanella, ma egli
non sapeva che il Campanella gli avesse comunicato eresie, né
aveva mai detto che il Campanella discorresse di eresie alla
scoperta, mentre invece ne discorreva in modo che solamente
qualcuno poteva intenderle. Sugli articoli del fiscale rispose del
pari negativamente. - Fra Pietro di Stilo disse di aver conosciuto
fra Dionisio ed averlo veduto tre volte in Calabria, due volte in
Stilo ed una volta in Briatico quando andava contro fra Gio.
Battista di Polistina; e dichiarò di averlo ritenuto sempre un
ciarliero e vendicativo, ma non cattivo nelle cose di fede.
Dimandato di ufficio se avesse almeno udito dire qualche cosa
contro di lui in materia di fede, rispose che una volta il
Lauriana gli cominciò a dire qualche cosa contro di lui, "ma non
finì"; ed avvertito di non dir bugie, rispose che non aveva potuto
comprenderlo (oramai fra Pietro era in vena di difender tutti,
anche tirandola un po' troppo). Insomma non ebbe nulla a dire
contro fra Dionisio, eccetto che era "scaccione, ciò e
chiacchiarone", e riuscì negativo su tutti gl'interrogatorii e
così pure sugli articoli: segnatamente sull'ultimo articolo, che
diceva avere fra Dionisio creduto, insegnato o cercato d'insegnare
tutte le opinioni eretiche del Campanella, egli rispose di non
aver mai udito dire tali cose contro la fede da niuno di loro. Ed
aggiunse, spontaneamente, che stando in Pizzoni ed avendo udito
frati e secolari sparlare di fra Dionisio pe' suoi discorsi di
cose lascive, avendogli anzi Claudio Crispo detto che pure nel
discorrere la prima volta col Soldaniero si era comportato
egualmente e costui n'era rimasto scandalizzato, egli nel passare
per Soriano andando ad Arena, poichè il Soldaniero l'interrogò
circa il Campanella e gli disse che fra Dionisio era un
cervellino, lo pregò di tacere quanto fra Dionisio gli aveva
detto, essendo nella natura di lui il ciarlare con tutti, ed
intese di alludere a' discorsi di cose lascive; (così volle
sopprimere la circostanza dell'aver lui portato una lettera del
Campanella al Soldaniero, e veramente la tirò un po' troppo). - Da
ultimo il Soldaniero, e successivamente Valerio Bruno, vennero
entrambi interrogati in via supplementare sul fatto
dell'espulsione di fra Dionisio e del Pizzoni dal convento di
Soriano per parte del Priore e del Lettore. Il Soldaniero confermò
che nel secondo giorno in cui que' frati gli aveano parlato di
eresie, il Priore, dietro il suo reclamo, li cacciò entrambi, e
poi gli disse, "che ti pare, non te l'ho fatti sfrattare?" ed egli
rispose, "havete fatto bene". Valerio Bruno confermò egli pure che
que' frati furono cacciati nel secondo giorno in cui il Soldaniero
avea parlato al Priore ed al Lettore, ed aggiunse che gli aveva
veduti partire; (ma oltrechè il Priore e il Lettore lo negavano,
era stato pure da entrambi questi testimoni affermato che fra
Dionisio aveva fatta una predica in Soriano, e ciò non si
accordava coll'espulsione).
Evidentemente anche per fra Dionisio le prove testimoniali
riuscivano sempre meno gravi in questi esami ripetitivi. Fra
Pietro di Stilo deponeva a favore di lui, e il Petrolo non
l'accusava menomamente. L'accusava bensì il Lauriana, ma costui,
che non sapeva più dar conto di nulla, era stato già dichiarato
testimone falso dal Pizzoni medesimo che ne aveva diretto i passi.
Non rimanevano dunque contro fra Dionisio che il Pizzoni e Giulio
Soldaniero con Valerio Bruno: tuttavia il Pizzoni si andava
scovrendo di una morale assai disputabile, ed intento solo ad
accusare gli altri per iscusare sè medesimo; il Soldaniero poi non
poteva riuscire ad accreditarsi, mentre sosteneva essergli state
fatte tante confidenze in materia di eresie durante una prima
visita di fra Dionisio (bisognava conoscere a fondo il modo di
agire di costui per ammetterlo), ed oltracciò confessava di aver
prima confabulato co' Polistina nemici capitali di fra Dionisio,
continuava a deporre fatti indubitatamente falsi come l'espulsione
di fra Dionisio e del Pizzoni dal convento, e mostrava abbastanza
chiaramente di avere indettato il suo fido Valerio Bruno (come il
Pizzoni avea fatto col Lauriana) e spintolo a deporre ciò che ad
esso Valerio non constava, per far risultare più credibili le
proprie deposizioni. né occorre dire che la condotta iniqua de'
primi processanti, entrambi devoti alla fazione de' Polistina,
accertata anche dal Pizzoni testimone del maggior peso contro fra
Dionisio, faceva apparire per lo meno esagerata la colpabilità di
costui e di tutti gli altri inquisiti.
Siffatti apprezzamenti, che sorgono spontanei nell'animo di
chiunque sia fornito di una dose anche discreta di equanimità, non
potevano non sorgere nell'animo del Vescovo di Termoli, che al
rigore di un vecchio Commissario del S.to Officio sapeva
accoppiare un senso squisitissimo di giustizia. E ci è rimasto di
lui un documento che lo dimostra abbastanza bene, rivelandoci ciò
che l'agitava a questo periodo della causa: poichè precisamente
alla fine del volume che comprende il processo offensivo e
ripetitivo, in uno de' folii esuberanti rimasti in bianco,
troviamo un quadro di note ed appunti che egli redigeva intorno
alla colpabilità di ciascuno inquisito, note ed appunti incompleti
e in qualche tratto vergati con parole tanto abbreviate da
rendersi poco intelligibili, ma in somma esprimenti le diverse
contradizioni, inverosimiglianze, falsità, ed accuse rimaste
infondate, che emergevano dalle deposizioni raccolte. I lettori
troveranno questo quadro tra' Documenti(198): d'altronde vedremo
in sèguito, dopo il processo difensivo, ciò che il Vescovo
scriveva a Roma intorno alla causa, e il concetto che in ultima
analisi se n'era formato.
Non appena esaurite le ripetizioni, nello stesso giorno 29 agosto
1600 i Giudici deliberarono di devenire alla spedizione della
causa e al processo difensivo: pertanto disposero che fosse subito
inviato al S.to Officio di Roma una copia del processo tanto
informativo che ripetitivo; e sappiamo che l'8 settembre questa
copia fu mandata al Nunzio dal Vescovo di Termoli insieme con una
sua lettera, e che nella stessa data il Nunzio la trasmise al
Card.l di S.ta Severina, accompagnandola con un'altra lettera sua,
in cui partecipava le sollecitazioni che spesso riceveva da'
ministri Regii desiderosi di potere spedire la causa della
ribellione(199). Diremo ora anche qui, innanzi tutto, in che modo
si procedeva nelle difese. Un decreto fermava che ciascuno
inquisito avesse una copia del processo (copia repertorum), ma
senza nome e cognome di coloro i quali aveano deposto, "secondo lo
stile del S.to Officio"; che inoltre fosse avvertito aver facoltà
di scegliersi un Avvocato e procuratore a suo piacere, bensì
persona cognita ed approvata dalla Curia, fornita de' requisiti
necessarii, e con ciò un termine di tanti giorni per fare ogni e
qualunque difesa, se intendesse e volesse farne: questo decreto
era da' Giudici medesimi partecipato di persona a ciascuno
inquisito, che facevano tradurre al loro cospetto separatamente.
Scelto l'Avvocato, o dall'inquisito, o in mancanza dai Giudici,
d'ufficio, costui recavasi nella casa di qualcuno de' Giudici a
prestare il giuramento nelle mani di lui, inginocchiato, toccando
i Santi Evangeli e promettendo di fare "le giuste difese" del tal
di tale secondo lo stile del S.to Officio. Il Notaro e Mastrodatti
consegnava allora al più presto le copie de' reperti a ciascuno
inquisito, e redigeva sempre un atto di questa consegna e del
seguìto ricevimento in presenza di quattro testimoni (i soliti
carcerieri e carcerati) decorrendo dalla data di quest'atto il
termine per le difese: talvolta pure, sia d'ordine de' Giudici,
sia dietro spontanea deliberazione dell'inquisito, redigeva o
autenticava una dichiarazione, in cui l'inquisito manifestava di
volersi difendere, ovvero di non volersi difendere riposando nella
giustizia e pietà dei Giudici, ed avendo per rato, fermo e valido
quanto essi ordinerebbero, ciò che poteva farsi anche durante lo
svolgimento delle difese. Mettendosi d'accordo coll'Avvocato,
allorchè voleva difendersi, l'inquisito redigeva e presentava una
serie di così dette eccezioni ossia articoli, in ciascuno de'
quali eccepiva, poneva e voleva provare un dato fatto in sua
discolpa, affermando per solito ogni volta che esso era vero,
verissimo, come constava a coloro che lo sapevano o l'avevano
udito: e quasi sempre cominciando dai fatti della sua buona vita
fin dalla tenera età, passava, mano mano, a' fatti delle
inimicizie che aveva incontrate, alla mala condotta e speciale
odiosità de' testimoni che intendeva o supponeva aver deposto a
suo carico(200), alla falsità ed erroneità delle imputazioni
fattegli, a tutti gl'incidenti che spesso si verificavano durante
i processi. Oltracciò dava una lista di testimoni a difesa,
indicandone anche la residenza, i quali dovevano essere esaminati
sopra tutti o sopra alcuni determinati articoli. Dal canto suo il
fiscale, sugli articoli presentati, faceva ed esibiva i suoi
interrogatorii, ed istantemente chiedeva che i testimoni fossero
esaminati prima sopra di essi e poi sugli articoli:
gl'interrogatorii erano preceduti dalle solite ammonizioni, ed
esigevano le solite informazioni sulla persona del testimone, e
poi le informazioni su' fatti posti negli articoli con tutte le
relative circostanze, terminando con un appello alla diligenza de'
Signori Giudici. In somma si teneva la via medesima del processo
ripetitivo ma all'inversa: gli articoli erano presentati
dall'inquisito assistito dal suo Avvocato, e gl'interrogatorii
erano presentati dal fiscale; e però questi ultimi erano sempre
redatti senza tante sottigliezze e con molto maggiore concisione.
Dobbiamo anche dire che i Giudici talvolta cassavano qualche
articolo contenente fatti già enunciati in altri articoli, e il
processo presente ce n'offre un esempio; inoltre non accoglievano
mai tutti i testimoni dati se erano assai numerosi, come sovente
accadeva, ma ne sceglievano un certo numero a loro piacere.
S'intende poi che l'Avvocato non assisteva alle sedute del
tribunale, ma poteva all'occorrenza fare una comparsa e più tardi
presentare una vera e propria Difesa scritta, come ne conosciamo
in gran numero pervenute sino a noi(201). Figurava poi sempre
quando esauriti gli esami testimoniali e consegnatane una copia
all'inquisito, costui era citato "ad dicendum", e neanche nel
tribunale ma nella casa di abitazione di uno de' Giudici.
Quest'ultima circostanza mostra sempre più chiaramente che non
l'inquisito ma il suo Avvocato presentavasi allora in nome di lui,
era interrogato se dovesse dire altro e potea forse presentare
anche una Replica scritta; ma non apparisce che fossero ammesse le
arringhe.
Come dicevamo, il 29 agosto i Giudici deliberarono che si
procedesse alle difese; nello stesso giorno fecero tradurre alla
loro presenza, l'uno dopo l'altro, il Petrolo, fra Pietro di
Stilo, il Pizzoni, il Lauriana, il Bitonto, fra Paolo della
Grotteria, e a ciascuno di essi separatamente parteciparono la
loro deliberazione, assegnando per le difese il termine di otto
giorni; poi si recarono alla carcere di fra Dionisio, che
trovavasi ammalato a quel tempo, e parteciparono anche a lui la
loro deliberazione e il termine stabilito di otto giorni. Sappiamo
infatti che fra Dionisio fu ammalato una prima volta nell'agosto
del 1600: ce lo mostra un conto di spese che vedremo più tardi
fatte pe' frati inquisiti, e che contiene la nota delle medicine
fornite a fra Dionisio dallo Speziale del Castello Ottavio
Cesarano, con l'indicazione de' giorni in cui esse vennero
fornite; e fu in questo frattempo che il Soldaniero vide fra
Dionisio, gli prestò qualche assistenza e forse anche gli chiese
perdono pe' travagli procuratigli coll'opera sua, come fra
Dionisio asserì e il Soldaniero negò negli esami ripetitivi.
Dobbiamo intanto notare che pel Campanella non fu tenuto lo stesso
procedimento, senza dubbio a motivo della sua pazzia, ma ebbe in
sèguito un Avvocato: per fra Pietro Ponzio poi non vi fu
provvedimento alcuno, giacchè davvero in questa causa, come in
quella della congiura, nulla gli si potè addebitare, all'infuori
dell'intima amicizia col Campanella, provata specialmente con la
scoperta delle conversazioni notturne tenute tra loro.
Il 5 settembre nel convento di S. Luigi il Vescovo di Termoli,
presente anche l'Auditore del Nunzio Antonio Peri, ricevè il
giuramento del dot.r Carlo Grimaldi Avvocato del Pizzoni; il 15
settembre ricevè ancora, egli solo, quello di Gio. Filippo
Montella Avvocato del Petrolo, di fra Pietro di Stilo, del
Lauriana, di fra Paolo e del Bitonto; il Montella nello stesso
giorno prestò giuramento anche nelle mani del Vicario
Arcivescovile, ma, non si saprebbe dire perché, venne più tardi
sostituito dal Rev.do dot.r Scipione Stinca, il quale prestò
giuramento il 13 ottobre, e trovasi qualificato "avvocato
deputato" per la difesa de' frati suddetti. Alla mancanza del
Montella, seguita dalla deputazione dello Stinca, si deve forse
riferire un memoriale de' frati al Vescovo di Termoli per
dimandare un Avvocato, memoriale senza data, ed inserto nel
processo un po' a caso, dopo le difese di fra Dionisio(202).
Nessuno Avvocato si trova nominato per fra Dionisio, comunque in
una lettera, da lui scritta nell'inviare taluni articoli a'
Giudici, si legga che non avea "potuto accapar dal suo Avocato la
compilatione di tutti gli articoli... per la lunghezza del
processo et occupationi d'infiniti altri negotii di detto suo
Avocato". Il 17 settembre fu consegnata a fra Dionisio la copia
de' reperti della sua causa secondo lo stile del S.to Officio, e
il giorno seguente una copia analoga fu consegnata al Pizzoni; di
poi (15 e 18 ottobre) fu consegnata allo Stinca la copia de'
reperti della causa de' diversi frati che egli doveva difendere.
Aggiungiamo che ancora più tardi (31 ottobre) fu prestato il
giuramento dal dottore di leggi Gio. Battista dello Grugno in
qualità di Avvocato difensore del Campanella, certamente "Avvocato
deputato" anche lui, comunque di una simile qualificazione non si
trovi alcun ricordo(203). Dobbiamo dire che l'opera di questi
Avvocati nel presente processo apparisce anche meno del solito.
Vedremo mancanti del nome dell'Avvocato non solo gli articoli di
fra Dionisio, che forse li compilò da sè, ma anche quelli del
Pizzoni, ne' quali per altro la mano dell'Avvocato si rivela da
qualche errore materiale circa le persone, errore che l'inquisito
non avrebbe certamente commesso; pel Campanella poi vedremo una
comparsa del procuratore rimasto anonimo, ma vedremo anche qualche
altro atto in cui il nome dell'Avvocato non manca; infine per gli
altri frati vedremo che non ci fu occasione di comparsa
dell'Avvocato, perché non si fece nulla. - Ci crediamo pertanto
nel dovere di dare qualche notizia intorno a' suddetti Avvocati.
Carlo Grimaldi era un dottore non ispregevole; pervenne
all'ufficio di Giudice della Gran Corte della Vicaria nel 1622-23,
come è attestato anche dal Toppi(204). Il dot.r Scipione Stinca è
stato da noi già incontrato una volta nel corso di questa
narrazione, sotto le forche preparate pel povero Maurizio, che
egli ebbe ad assistere nell'estremo momento. Apparteneva ad una
famiglia illustre per magistrati, nella quale figurava tuttora il
dot.r Ottavio Stinca, che abbiamo pure avuta occasione di nominare
qual difensore del Duca di Vietri, ed avremo occasione di nominare
ulteriormente a proposito di qualche altra singolare persona la
quale verrà in iscena più tardi. Era Avvocato e sacerdote, come
tanto spesso accadeva a quei tempi: nel processo è detto
"Presbyter Neapolitanus" e possiamo aggiungere che era ascritto
all'ordine de' Cappellani Regii, poichè abbiamo trovato il suo
nome nell'elenco di que' Cappellani, ripetuto dal 1595 al 1603,
nelle scritture della Cappellania maggiore esistenti nel Grande
Archivio(205). Quanto al dot.r Gio. Battista dello Grugno Avvocato
del Campanella, egli era un uomo ancor più distinto. Nominato
lettore delle Instituta e glose nel pubblico studio di Napoli, in
sèguito dell'ingresso di Giulio Berlingieri nella Congregazione
de' Gerolamini (31 8bre 1598), fu poi promosso alla lettura De
Actionibus, vacata per morte di Gio. Maria Cossa, con provvisione
raddoppiata in omaggio alla sua persona (ult.° di febbr. 1601); ed
in tale qualità morì verso la fine del 1604, avendo a successore
Ottavio Limatola, come ci risulta da' documenti sparsi nelle
medesime Scritture della Cappellania maggiore(206). Bisogna dunque
riconoscere che le difese de' frati, e massime del Campanella, non
si trovavano affidate a dottori di poco conto; solo si può dire
che la ricerca di essi fu laboriosa, poichè durò circa due mesi, e
forse, oltre il Montella, parecchi altri rifiutarono il carico di
queste difese; d'altronde occorre anche vedere se vi attesero con
diligenza, e su questo punto li giudicheremo all'opera.
Il 30 settembre si diè principio agli esami difensivi per fra
Dionisio, co' quali si aprì il 3° volume del processo dell'eresia.
Egli aveva scritto a' Giudici di non aver potuto ancora ottenere
dall'Avvocato la compilazione di tutti gli articoli a sua difesa,
e di averne intanto formato da sè un certo numero, pregando che
sopra di questi venissero esaminati "alcuni carcerati, quali per
essere stati "habilitati facilmente partiranno per la Calabria";
ed è superfluo dire quanto sia per noi degna di nota siffatta
circostanza, poichè ci rivela lo stato del processo della congiura
pe' laici a quel tempo, e il destino di taluni tra loro, i cui
nomi si leggono nella lista de' testimoni dati da fra Dionisio
contemporaneamente a' suoi articoli. Appena sette furono gli
articoli allora presentati da fra Dionisio, e con essi poneva e
voleva provare la falsità delle deposizioni del Lauriana, e così
pure del Soldaniero e di Valerio Bruno. Intorno al Lauriana, egli
affermava, che costui avea già detto nelle carceri di Squillace e
poi in quelle di Gerace, presenti molti, di essersi esaminato
contro fra Dionisio ed altri, deponendo falsamente in materia di
eresia e di ribellione persuaso dal Pizzoni, e di volersi
ritrattare per scrupolo di coscienza; che poi nelle carceri di
Napoli si era consigliato circa tale ritrattazione con un dot.r
Domenico Monaco egualmente carcerato, il quale gli avea detto che
ritrattandosi avrebbe avuta la corda e sarebbe stato mandato in
galera; che quando in Napoli ratificò il primo esame, rimproverato
da molti a' quali avea detto di essersi esaminato falsamente, avea
risposto, "che sempre c'era tempo per accomodar la conscientia, ma
non sempre c'era tempo d'evitar la corda, et la Galera, et che più
facilmente si potea accomodar con Dio, che con gl'huomini, et
officiali"; che dopo ciò, quando nelle litanie si giungeva al
verso a falsis testibus libera nos Domine, tutti guardavano in
faccia al Lauriana e ridevano, ed egli arrossiva, e quando toccava
a lui dir le litanie, ometteva quel verso con grandissimo riso di
tutti; che infine avea negli ultimi giorni cercato perdono ad esso
fra Dionisio, facendosi più volte chiudere per questo nella stessa
carcere con lui dal carceriere. Intorno al Soldaniero e Valerio
Bruno affermava, che il Soldaniero, egualmente per ottenere il
perdono delle falsità deposte contro di lui, gli avea fatto
visite, servigi, regali e prestito di danaro; che inoltre teneva
continuamente presso di sè Valerio Bruno suo servitore, e poteva
presumersi avergli fatto deporre il falso, essendosi da entrambi
dichiarato ne' rispettivi costituti che non aveano mai parlato tra
loro, mentre a tutti era noto il contrario. Sopra siffatti
articoli dava per testimoni, variamente sopra ciascuno di essi,
oltre fra Pietro di Stilo e fra Paolo, Geronimo Marra, Francesco
Salerno, Nardo Rampano, Cesare Bianco e tutti gli altri carcerati
di Catanzaro, Giuseppe Grillo di Oppido, Domenico Monaco il
dottore, Aquilio Marrapodi suo servitore e il carceriere. D'altra
parte il fiscale (sempre D. Andrea Sebastiano) presentava i suoi
interrogatorii al n.° di 18, preceduti dalle solite ammonizioni, e
contenenti le informazioni di rutina e le informazioni su' fatti
asserti negli articoli(207). - I Giudici si limitarono ad
esaminare Geronimo Marra, Francesco Paterno (o forse Salerno) e un
Minico Mandarino, tutti giovani sarti di Catanzaro carcerati per
la congiura; e li udirono su tutti gl'interrogatorii e tutti gli
articoli indifferentemente, impiegandovi la sola seduta del 30
settembre. Le deposizioni di costoro non diedero alcun
risultamento serio. Nessuno sapeva nulla; nessuno avea veduto
nulla. Il solo Geronimo Marra dichiarò di avere udito in Napoli il
Lauriana, dopo di essere stato esaminato, dire ad alcuni
carcerati, "quando uscirò, Dio provederà all'anima", ma senza aver
capito a quale scopo avesse dette tali parole(208). Perfino
intorno a Valerio Bruno rimase assodato che stava in una camera
diversa da quella del Soldaniero, ma non si giunse a sapere
nemmeno se facesse l'ufficio di servitore presso di lui (i guai
sofferti aveano resi quei testimoni più che riservati).
Una lunga interruzione si verificò dopo questa seduta, la qual
cosa reca un po' di meraviglia, mentre non si può negare che fino
allora si era proceduto con la più grande celerità, e se molto
tempo si era impiegato nello svolgimento del processo, ciò era
accaduto unicamente per l'intrinseca qualità della procedura, che
nelle cause di S.to Officio era sempre scrupolosamente osservata.
Bisogna dire che i Giudici ebbero a persuadersi non poter
convenire questi esami sopra articoli in numero ridotto, dopo i
quali si era costretti a fare nuovi esami sopra articoli in numero
completo. E in tal guisa riesce di spiegarsi che il Notaro e
Mastrodatti Prezioso, d'ordine del Vescovo di Termoli, il 6
ottobre si recò presso fra Dionisio, gli chiese formalmente se
volesse o no difendersi, ed innanzi a testimoni rogò un atto in
cui fra Dionisio dichiarò che voleva ed effettivamente intendeva
fare le sue difese, e si sottoscrisse confermando tale sua
volontà(209). Ma senza dubbio non potè presentare le sue eccezioni
od articoli se non a' primi del mese consecutivo, poichè si venne
agli esami sopra di essi soltanto il 6 novembre. Verosimilmente fu
sollecitato anche il Pizzoni a voler presentare i suoi articoli,
essendo scorso da un pezzo il termine assegnato di otto giorni,
ciò che era sempre tollerato dal S.to Officio, ma non poteva poi
durare indefinitamente; così, mentre si menavano innanzi gli esami
difensivi per fra Dionisio, si fecero ancora quelli pel Pizzoni. E
certamente l'Avvocato del Campanella, non appena prestato il suo
giuramento il 31 ottobre, dovè essere sollecitato del pari;
giacchè poco dopo fu presentata al tribunale una comparsa, con la
quale si diceva essere il Campanella pazzo, non potersene fare le
difese, chiedersi un termine per provare la pazzia; e nello stesso
giorno 6 novembre, quando cominciarono gli esami difensivi per fra
Dionisio, cominciarono pure gli esami informativi sulla pazzia del
Campanella. Sicchè dal 6 al 16 del mese venne simultaneamente
esaurito tutto ciò che rifletteva la difesa degl'inquisiti
principali: ma per procedere ordinatamente, sarà bene narrare
prima gli esami difensivi per fra Dionisio, che erano stati già in
parte iniziati, poi gli esami difensivi pel Pizzoni, che
rappresentano il contrapposto degli anzidetti, infine gli esami
informativi sulla pazzia del Campanella.
Le eccezioni od articoli, che fra Dionisio definitivamente
presentò in sua difesa, ascesero nientemeno al numero di 58; e noi
pur troppo non possiamo dispensarci dal darne conto, tanto più che
in sostanza vi si comprendono le difese di tutti gli altri frati
all'infuori del Pizzoni e del Lauriana, non escluso il Campanella
che per la pazzia rimaneva ecclissato(210). Con le sue eccezioni
fra Dionisio affermò i suoi titoli di onore, cominciando dalla
tenera età e passando a' tempi della vita monastica, ricordando
pure l'andata presso Clemente VIII come procuratore della città di
Nicastro per la faccenda dell'interdetto, e la premura spiegata
per "manifestar l'innocenza del sangue del P.e M.° Pietro Pontio
suo zio ucciso proditoriamente da alcuni monaci", come potea
rilevarsi dagli Atti esistenti nella Corte del Nunzio, onde si
acquistò le inimicizie di tutti gl'inquisiti e loro parenti, e
massime de' due Polistina. Affermò che costoro, d'accordo col
Priore di Soriano eccitarono il Soldaniero contro di lui, e fecero
circondare di birri il convento per costringere il Soldaniero ad
accettare l'indulto offertogli da fra Cornelio altro suo nemico, e
così poteva intendersi l'inverosimiglianza dell'avere esso fra
Dionisio confidate a un tratto tante gravissime cose al
Soldaniero. Che costui era di pessima vita e cattivo cristiano al
punto di persistere tuttora nella scomunica inflittagli in
Calabria, teneva per servitore Valerio Bruno nelle carceri di
Napoli e dichiarava di non aver mai parlato, ed avea più volte
cercato perdono ad esso fra Dionisio narrandogli i particolari del
fatto di Soriano; che mentre era impossibile accordare la cacciata
di esso fra Dionisio da Soriano e la predica contemporaneamente
permessagli dal Priore, dovea notarsi aver lui deposto dopo il
Pizzoni, quando da fra Cornelio gli fu detto che il Pizzoni
l'aveva nominato come uno de' capi della congiura. Che esso fra
Dionisio avea nella predica di Soriano, a santo e pio fine,
parlato di qualche fatto esecrabile commesso contro il SS.mo
Sacramento, per mostrare l'infinita pazienza di Dio; che lo stesso
Valerio Bruno avea con più persone lodata la predica di lui in
Soriano, dicendo che era riuscita a farlo piangere, la qual cosa
non gli era mai accaduta; che se il Priore e il Lettore di Soriano
avessero deposto di aver cacciato esso fra Dionisio dal convento,
risulterebbero mendaci, poichè gli aveano permesso di predicare e
non aveano partecipato nulla a' superiori. Che il Pizzoni gli era
nemico, atteso il furto degli scritti per lo quale esso fra
Dionisio l'aveva svergognato; che era sempre stato amico de'
nemici di lui, ed avea fatto fuggire il Polistina, procurando che
fra Pietro di Stilo l'avvertisse, quando esso fra Dionisio cercava
di farlo carcerare; che era sempre stato di pessima vita, soggetto
a penitenze per molti furti (citato uno per uno), affetto da mal
francese etc., scappato in pianelle, senza cappello e senza cappa
dal Capitolo di Catanzaro per fuggire la prigionia, obbligato a
circondarsi di fuorusciti per salvarsi dalle vendette di coloro
che aveva offeso con le sue disonestà. Che nella causa della
congiura, negando dapprima l'esame di Calabria, il Pizzoni aveva
espressamente affermato di aver detto anche in materia di eresia
molti mendacii, amplificati ed accresciuti da fra Cornelio e dal
Visitatore, e nella fossa in cui fu posto avea pure scritto sul
muro di esservi stato posto perché si volea che dicesse bugie,
come tuttora potea vedersi, ma poi persuaso dal Lauriana confermò
di nuovo il primo esame. Che aveva scritto al Campanella, entro il
suo breviario, essere state da lui deposte le eresie per eccitare
gelosie di giurisdizione tra il Papa e il Re, ma essere risoluto
di ritrattarle, e due cartoline di questo genere furono prese dal
Sances sul Campanella, quando costui fu tormentato. Che veramente
il Pizzoni avea praticato col Campanella più lungamente di esso
fra Dionisio, ed avrebbe potuto piuttosto il Pizzoni dire a lui,
che lui al Pizzoni, le cose del Campanella; e poi a molti avea
dichiarato essergli state da fra Dionisio dette le eresie non
assertive ma recitative tantum; e poi nel vespro di quel giorno di
luglio in cui parlarono tra loro in Pizzoni, esso fra Dionisio fu
visto parlargli sdegnato e bravarlo, poichè gli dimandava conto
del furto degli scritti (lato questo il più debole della difesa
per essere stato troppo spinto). Che il Lauriana gli era nemico
perché creatura del Pizzoni, perseguitato fin dal P.e Pietro
Ponzio pe' suoi vizii e disonestà, complice del furto degli
scritti che cercò di vendere al P.e Perugino, scacciato da esso
fra Dionisio dal convento di Nicastro per le turpi relazioni con
fra Fabio nipote del Pizzoni; che avea scritto due lettere ad esso
fra Dionisio chiedendogli perdono, come l'avea pure chiesto a voce
a traverso un foro esistente tra le carceri rispettive, ed inoltre
l'avea chiesto anche a Ferrante Ponzio per lettere delle quali
esibiva una in data 10 ottobre 99. Che nelle carceri aveva tenuta
corrispondenza col Pizzoni ed animatolo a star saldo sulle cose
deposte, perché si trovassero uniformi nelle falsità, come fu
provato durante il processo, rimanendo anche convinto di averlo
falsamente negato; che avea fatto sapere a molti essere stato
costretto a deporre il falso da fra Cornelio e dal Visitatore; che
sopratutto avea falsamente deposto essersi trovati in Pizzoni al
tempo medesimo esso fra Dionisio e il Campanella, mentre esso fra
Dionisio vi era stato molti giorni prima; che avea detto a molti
volersi ritrattare, cercando anche perdono a fra Pietro Ponzio, e
poi consigliato da un Domenico Monaco non l'avea fatto ed aveva
indotto il Pizzoni a non farlo; che n'era stato rimproverato da
molti, ed era ritenuto falso testimone e deriso nel dir le
litanie; che avea chiesto anche negli ultimi giorni perdono ad
esso fra Dionisio infermo (come negli altri articoli già dati
precedentemente). Che il Visitatore gli era stato sempre nemico,
perché esso fra Dionisio avea dovuto presentare al Papa memoriali
contro di lui nelle quistioni de' Riformati e poi nel tempo de'
torbidi di S. Domenico di Napoli; che aveva in Calabria forzato i
testimoni a deporre contro esso fra Dionisio, e l'aveva condannato
a gravi penitenze negandosi sempre a perdonarlo. Che fra Cornelio
gli era nemico per fatti personali occorsi tra loro (già narrati
altrove); che si era perciò unito a' Polistina, insieme co' quali
avea sedotto e forzato il Soldaniero a deporre come avea deposto,
procurandogli l'indulto. Che il Petrolo gli era nemico, perché
riteneva derivati da esso fra Dionisio tutti i suoi travagli, e
perciò, come si era espresso con molti, l'aveva conciato a dovere
ne' suoi costituti(211); oltracciò nell'altro tribunale si era
dapprima disdetto, dichiarando che il Campanella l'aveva indotto
ad imitare il Pizzoni nell'esporre eresie per sottrarsi alla furia
secolare; che poi, al pari del Pizzoni, non era rimasto saldo in
tali assertive, ed entrambi rimproverati per questo da molti
carcerati aveano detto esservisi determinati pe' maltrattamenti
del fisco e le visibili propensioni de' Giudici. Che fra Pietro di
Stilo gli era egualmente nemico, perché creatura del Polistina,
che si diè premura di far fuggire quando esso fra Dionisio cercava
di farlo carcerare; né avea voluto andare al convento di Nicastro
dove era stato assegnato quando esso fra Dionisio vi si trovava
Priore. Che infine per tutto il tempo, in cui esso fra Dionisio
era stato carcerato, ognuno avea dovuto persuadersi esser lui
vittima di falsità fatte deporre dal Visitatore, da fra Cornelio e
dallo Sciarava, ed essere cosa impossibile in lui la colpa
specialmente di eresia.
In prova di così numerose affermazioni, fra Dionisio diè testimoni
non meno numerosi, oltre 60 individui, secolari ed
ecclesiastici(212). Alcuni tra loro erano individui liberi
dimoranti in Napoli, ed altri già carcerati e rimasti in Napoli,
come p. es. Tommaso d'Assaro, Pietrantonio Tirotta, Cesare
Forte(213); altri già carcerati e tornati in Calabria, come D.
Marco Petrolo, D. Minico Pulerà, Gio. Francesco Paterno e Geronimo
Marra, su' quali ultimi abbiamo così la data precisa della
liberazione; altri tuttora carcerati, sia per le cause presenti,
sia per cause diverse come vedremo più sotto. Vi erano poi
egualmente tra' testimoni frati disseminati in tutti i conventi di
Napoli, come pure dimoranti in Calabria e in altre provincie,
perfino in Siena e in Venezia. Ognuno de' testimoni era indicato
per la prova di determinati articoli; ed oltracciò erano prodotti
diversi documenti, e date le indicazioni per averne altri de'
quali gli articoli facevano menzione. Così troviamo inserte nel
processo, al sèguito delle difese di fra Dionisio: la procura
originale in pergamena fattagli dalla città di Nicastro per
trattare anche presso il Papa la faccenda dell'interdetto; la
lettera del 10 ottobre 99 scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio,
per iscusarsi delle falsità deposte insieme col Pizzoni contro fra
Dionisio, e pregarlo che trovasse modo di farlo venire a nuovo
esame per ritrattarsi; e poi una fede dell'Università di
Fiumefreddo sulle eccellenti predicazioni ed opere di carità fatte
da fra Dionisio in quella terra; inoltre le fedi di Gio. Luca de
Crescenzio de' P.i Ministri degl'infermi e di D. Eligio Marti
Cappellano della galera S.ta Maria, già confortatori di Gio.
Battista Vitale e Gio. Tommaso Caccìa sul punto di essere
giustiziati, attestanti che da costoro si era dichiarato aver
deposto il falso per forza de' tormenti dati dallo Sciarava(214).
A questi documenti si aggiunsero poi quelli che il Vescovo di
Termoli, sulle indicazioni date da fra Dionisio, venne procurando
sopratutto dall'altro tribunale; ma allora si era già agli esami
difensivi, e di essi conviene oramai occuparci.
Naturalmente non tutti i testimoni dati da fra Dionisio furono
chiamati all'esame, ma soltanto i frati inquisiti (all'infuori del
Pizzoni e del Lauriana), parecchi carcerati per la causa della
ribellione, tra' quali il Contestabile, il Di Francesco, Geronimo
padre del Campanella e il Barone di Cropani, dippiù quattro
carcerati per altre cause, e con tutti costoro il carceriere. Su'
quattro carcerati per altre cause ci crediamo in dovere di dare
qualche notizia speciale; troveremo due di loro celebrati dal
Campanella nelle sue poesie, da doversi considerare come suoi
amici ed anche benefattori, e per parte nostra non avverrà mai che
un amico e benefattore del povero filosofo rimanga in alcun modo
trascurato; d'altronde importa pure conoscere un po' addentro le
qualità de' testimoni, per essere in grado di valutare la fede che
le loro testimonianze possono meritare. Essi furono: Cesare
Spinola, D. Francesco Castiglia, fra Antonio Capece cav.
Gerosolimitano, Domenico Giustiniano marinaro. Cesare Spinola nel
suo esame si dichiarò genovese, dell'età di 30 anni in circa,
celibe, benestante tale da potere spendere 100 scudi al mese:
senza dubbio egli era uno di que' numerosi Spinola, che al pari di
moltissimi altri Liguri ammassavano ricchezze con le loro
speculazioni e facevano continui acquisti di rendite in Napoli. Di
altrettali Spinola l'Archivio di Stato fornisce una serie infinita
al cadere del secolo 16.°, anche con frequenti omonimi; ma per
fortuna col nome di Cesare se ne trova solamente uno detto "q.m
Stephani q.m Bartholomaei", e varii documenti lo mostrano abitante
dapprima in Genova, dove stava anche una sua sorella a nome
Antonia, monaca in S. Silvestro de Pisis, possidente del pari di
varie rendite acquistate dal padre, massime sulla gabella della
seta ma anche sopra altri cespiti. Da uno de' documenti raccolti
Cesare apparisce inoltre parente, forse cugino, del Marchese
Ambrogio Spinola, essendo insieme col Marchese erede di una parte
delle facoltà di Lorenzo Spinola; da altri documenti apparisce
sotto la tutela di alcuni suoi parenti nel 1588, ed abitante già
in Napoli nel 1602, circostanze tutte che rispondono a quelle
notate nel processo(215). Ci rimane tuttora ignoto il motivo della
sua prigionia: ma sappiamo che nel 1599 un Cesare Spinola
trovavasi affittatore del feudo di S. Nicola, e con ogni
probabilità era appunto il Cesare del quale si è discorso, avendo
sempre avuto i genovesi di ogni ceto il lodevole costume di
lanciarsi nelle speculazioni(216); né è difficile intendere che
per quistioni insorte, col metodo spiccio di quel tempo, egli
fosse stato imprigionato. Vedremo che di poi il Campanella in un
suo Sonetto, fra mille lodi, lo ringraziò anche della difesa che
di lui avea fatta. Quanto a D. Francesco di Castiglia, era costui
uno de' tanti spagnuoli che facevano la loro carriera nelle
provincie napolitane, ma era nato a Verona, ed avea già i suoi 40
anni: ne' Registri Officiorum Viceregum lo troviamo nominato
Capitano di Rossano pel 1594, poi Capitano di Ostuni pel
1598(217); e mentre era al governo di Ostuni fu carcerato in Lecce
e tradotto nel Castel nuovo di Napoli; il Campanella lo lodò non
solo come un alto personaggio, ciò che era quasi di obbligo con
uno spagnuolo, ma perfino come poeta, cantore delle Donne sante e
de' suoi cocenti amori, della vinta Antiochia e dell'abominio che
si meritavano le Corti false e bugiarde (dopo di averne persa la
protezione). Quanto a fra Antonio Capece, la sua storia è molto
brutta: il suo esame ne dice poco o nulla, ma ce l'insegnano
ampiamente moltissime Lettere esistenti nel Carteggio del Nunzio,
ed anche qualche documento de' Registri Curiae dell'Archivio
napoletano. Era uno de' tanti Cavalieri di Malta, che profittando
delle guarentigie giurisdizionali cominciavano per fare i
prepotenti, e poi ben presto finivano per fare gli assassini di
strada insieme co' compagni a' quali erano costretti ad
appoggiarsi. Di nobile famiglia napoletana, dimorante nel vicino
paesello di Melito, aveva appena 26 anni e già fin dal 9 marzo
1595 trovavasi carcerato in Castel nuovo perché le carceri del
Nunzio erano malsicure per lui, essendosi distinto per molti e
gravi delitti, omicidii, scarcerazione violenta di detenuti,
svaligiamento del procaccio di Puglia, ricatti, furti ed
assassinii al passo tra Melito ed Aversa, furto e ricatto di notte
nella stessa città di Napoli in casa di Ascanio Palmieri fuori la
porta del pertuso (quella che fu poi detta porta Medina e non ha
guari è stata diroccata): fuggito una volta dalle galere mentre lo
traducevano a Malta per esservi giudicato, nel 1598 era riuscito a
fuggire anche dal Castel nuovo con un altro carcerato del Nunzio,
Cesare d'Assero clerico, ma semplicemente "perché il carceriere
havea lassata la porta aperta et egli voleva buttarsi alli piedi
di S. S.tà", siccome scrisse a Roma quando fu ripreso in Gaeta e
ricondotto in Castel nuovo; e poichè tutti i suoi compagni nelle
scelleraggini, i quali aveano testificato contro di lui, erano
stati prontamente appiccati dalla Corte Regia e non potevano più
farsi gli esami ripetitivi per convincerlo, il Nunzio lo teneva
così in carcere senza sapere cosa dovesse farne(218). Ci
affrettiamo a dire che la Musa del Campanella non si mosse per
lui. Finalmente quanto a Domenico Giustiniano, sappiamo dal
processo che era un povero marinaro di Scio, preso da' turchi
all'età di 7 od 8 anni e divenuto così maomettano, poi tornato in
grembo alla madre Chiesa, ed in espiazione della colpa di
rinnegato già da 10 anni in carcere, con otto grani al giorno pel
vitto: il suo contegno ce lo mostra un uomo semplice ed ingenuo,
senza ombra di fiele, e sì che egli poteva ben raccontare quanto
fosse dura la via del paradiso; dimenticato nel carcere, quivi
morì il 28 marzo 1607, come si legge ne' libri parrocchiali del
Castello.
Il 6 novembre si tenne la prima seduta, ed ecco le deposizioni che
si raccolsero(219). D. Francesco di Castiglia disse correr voce
tra i carcerati in generale che i frati si accusavano l'un
l'altro; avere udito che Valerio Bruno teneva pratica col
Soldaniero ma non averlo visto; aver saputo direttamente dal
Soldaniero che era stato assediato nel convento di Soriano e
forzato a dire ciò che gli era stato domandato. - Di poi fu
interrogato Giulio Contestabile, che riuscì un testimone di grande
importanza. Egli disse avere udito da molti, e li nominò, che il
Lauriana avea lasciato intendere di essersi esaminato contro il
Campanella e fra Dionisio per istigazione del Pizzoni e per timore
di D. Carlo Ruffo, Carlo Spinelli, Sciarava, fra Cornelio; aver
lui medesimo veduto in Calabria, mentre fra Cornelio esaminava,
que' secolari assistere con molta distinzione alle sedute e
interrogare; avere più tardi saputo che il Lauriana volea
ritrattarsi in Napoli, e non l'avea fatto per consiglio di un
dottore; esser vero che tutti lo ritenevano testimonio falso e che
arrossiva quando nelle litanie si diceva a falsis testibus; aver
veduto lui stesso il Lauriana entrare nella camera di fra
Dionisio, e così pure il Soldaniero più volte, avendogli costui
inviato anche regali e fatto fare il pranzo da Valerio Bruno che
lo serviva sempre, come ben sapeva perché era compagno di stanza
del Soldaniero. Aggiunse essere stato presente, quando Cesare
Spinola disse al Soldaniero non dover procurare tanta rovina a
que' frati, e il Soldaniero si scusò raccontando come era stato
costretto di deporre contro fra Dionisio dopochè fu circondato il
convento in cui stava per opera de' Polistina e del Priore; avere
lui stesso udito il Soldaniero lamentarsi, perché i frati l'aveano
ridotto nelle mani del diavolo e non poteva ritrattarsi senza
essere appiccato; aver veduto l'indulto concesso al Soldaniero da
Carlo Spinelli coll'intercessione di fra Cornelio, e sapere che
trovavasi depositato alla banca di Barrese. Aggiunse aver saputo
in Napoli direttamente tanto dal Pizzoni quanto dal Petrolo, che
in Calabria fra Cornelio diceva loro doversi dare soddisfazione a'
Giudici laici, che essi aveano dovuto deporre eresie per isfuggire
da' secolari e tentare di esser chiamati a Roma, e che "per verità
tutto era stato inventione"; aver saputo anche dal Di Francesco
suo cognato, carcerato insieme col Pizzoni in Gerace, che fra
Cornelio "con bravate, e con bone parole lo suggerì ad esaminarsi
contra non so chi frati". Conchiuse aver dovuto giudicare, dietro
le cose sapute dal Soldaniero, dal Pizzoni e dal Petrolo, che
erano state dette molte falsità (e vede ognuno di qual peso
riusciva una simile testimonianza da parte del Contestabile,
convertito oramai in deciso difensore de' frati).
Il 7 novembre s'iniziò la seconda seduta col cavaliere fra Antonio
Capece(220), il quale disse aver veduto una volta un frate
rossetto, compagno del Visitatore di Calabria, venire a visitare
il Lauriana nel carcere, e costui ricordargli che avea deposto
quanto egli avea voluto, e dimandargli qualche somma de' danari
che erano stati contribuiti da' conventi di Calabria, ricevendone
buone parole e nove carlini; aver poi saputo dallo stesso Lauriana
che era sicuro di aver la corda, ma non se ne curava per amore del
Pizzoni suo maestro, che lui veramente non conosceva nulla di
quanto avea deposto, ma l'avea deposto per liberarsi dalla Corte
temporale e non essere "inforcato et fatto in pezzi", e si voleva
veramente ritrattare; essersi ritenuto pubblicamente che si
sarebbe ritrattato, ma non lo avea fatto dietro consiglio dato dal
dot.r Monaco, presente Domenico Giustiniano; essere state una sera
omesse da lui nella litania le parole a falsis testibus, ed
avergli fra Pietro di Stilo detto "che non si vergognasse ma che
le dicesse" (vigile ed accorto sempre quel fra Pietro); essere
corsa pubblicamente la voce che avea chiesto perdono a fra
Dionisio per le deposizioni fatte contro di lui. Aggiunse aver
veduto il Soldaniero visitare e servire fra Dionisio ammalato,
presenti anche il Contestabile, fra Pietro Ponzio e il carceriere.
Inoltre aver veduto una lettera che fra Pietro Ponzio diceva
scritta al Pizzoni dal Lauriana; avere udito lui stesso il Pizzoni
da una fossa parlare al Lauriana in latino e perciò non averlo
capito; aver saputo dal Pizzoni medesimo, che andava in quella
fossa per non aver voluto confermare l'esame di Calabria fatto per
uscire dalle mani de' laici e tutto falso; aver saputo dal Pizzoni
e dal Lauriana che il Visitatore e fra Cornelio li avevano
esortati a confessare per dar soddisfazione a' Giudici secolari,
"che poi passata quella furia sarebbero andati in Roma per il S.to
officio è llà si saria accomodato ogni cosa" (testimonianze per
certo troppo esplicite, e troppe volte poggiate su notizie
raccolte direttamente). - Di poi Cesare Forte di Nicastro,
conciatore di pelli, carcerato per la congiura(221), confermò
avere udito tra i carcerati che il Lauriana si voleva ritrattare
ma un Domenico Monaco lo sconsigliò; essere ritenuto testimonio
falso, rifiutandosi a dire le parole a falsis testibus, onde i
carcerati ne mormoravano; su tutto il resto disse non saper nulla.
- In sèguito Cesare Spinola(222) attestò aver veduto un giorno fra
Dionisio e il Lauriana in alterco, aver domandato allora al
Lauriana come mai nel Castello "non c'era cane né gatto che lo
potesse vedere, et alhora fra Silvestro rispose Dio perdoni à chi
n'è causa", e dietro le sue insistenze gli palesò esserne stato
causa il Pizzoni che gli avea fatto deporre quanto avea deposto.
Aggiunse di sapere che il Soldaniero aveva parlato a fra Dionisio
quando costui era ammalato, e che aveva a' suoi servigi Valerio
Bruno; di avere una volta veduto il Soldaniero tornare dall'esame
col viso infuocato, ed avergli detto "non più contra questi poveri
frati, che tante cose? et esso rispose, che voi che io faccia? per
Dio che non posso far di manco per trovarmi haver detto contra di
essi monaci", e raccontò il fatto dell'essere stato circondato in
un convento ed obbligato da un monaco a deporre contro fra
Dionisio per non essere consegnato alla Corte; ond'egli, lo
Spinola, volgendosi al Contestabile che era presente, ebbe a
dirgli in disparte "mira che anima negra". Aggiunse di conoscere
che il Soldaniero aveva avuto l'indulto da Carlo Spinelli, ma non
conoscere ad istanza di chi (testimonianze tutte gravi anche per
la loro provenienza da un uomo non volgare). - Venne quindi la
volta di Domenico Giustiniano, il quale dichiarò avergli un giorno
il Lauriana dimandato consiglio, dicendo "che non havea faccia di
comparere avanti di fra Thomaso Campanella perche si havea
esaminato falsamente contra di lui, e detto milli falsità";
avergli lui risposto essere in obbligo di dire la verità, ma
temendo il Lauriana che avrebbe la corda, essersi deciso
consultare qualche letterato; "e così chiamassemo un giovane
nominato Gio. Vincenzo mezzo monaco il quale non si volse
impacciare, chiamassemo poi Domenico Monaco Dottore, et fra
Silvestro li proposse il caso, et il dottore li disse, Io te hò
ditto più volte che tu debbi star saldo alla prima esamina che
altramente sarrebbe andato in una galera". Confermò avergli il
Lauriana detto che i suoi superiori l'aveano forzato a deporre in
quel modo, essere da tutti ritenuto falso testimone, avere una
volta nelle litanie omesse le parole a falsis testibus, onde fra
Pietro di Stilo lo rimproverò e tutti ne risero. Aggiunse di
sapere che il Pizzoni e il Lauriana erano stati più mesi insieme
nella carcere civile, ma non sapere che si fossero concertati o no
fra loro (testimonianze rese ancora più gravi dall'ingenuità della
persona). - Infine Giuseppe Grillo, che già conosciamo, dichiarò
essere stato presente allorchè nelle carceri di Gerace il Lauriana
si scusò con fra Pietro Ponzio perché non si era ritrattato,
dicendo che "esso era andato con animo di disdirsi pensando di
trovare solo la Corte spirituale, mà che ci era anco presente
Carlo Spinello et l'Avvocato fiscale Regio, è che lo spaventavano
solamente à guardarlo". Confermò tutto il resto intorno allo
stesso Lauriana, ma solamente per detto di altri. Confermò che il
Lauriana e così pure il Soldaniero e Valerio Bruno aveano parlato
con fra Dionisio, ciò che avea visto egli medesimo.
L'8 novembre fu dapprima interrogato, senza il formulario solito,
il carceriere Alonso Martines di Medina del Seco(223), il quale
disse: "frà Dionisio Pontio stette male à morte, et il sig.r Don
Giovanni Sanges mi ordinò che io li dovesse dare un compagno, et
che dovesse lassar aperta la porta della(224) priggione nella
quale era il detto frà Dionisio": e quindi vi entrò più volte il
Soldaniero, che con le proprie mani imboccava fra Dionisio quando
mangiava, e diceva di farlo per carità; vi entrò pure Valerio
Bruno, che portò a fra Dionisio da parte del Soldaniero "qualche
regalillo di frutta", ed anche il Lauriana, che una volta rimase a
parlare con fra Dionisio per un'ora. Egli vide tutto ciò, e quando
erano partiti il Soldaniero e il Lauriana, fra Dionisio gli disse,
"guarda costoro, si sono esaminati contra di me, et adesso mi
vengono à dire che non si erano essaminati contro... niente" (non
disse dunque che gli avessero dimandato perdono, ma d'altro canto
perché il Soldaniero specialmente negava con tanta ostinazione la
visita fatta?). - Nardo Rampano di Catanzaro, sarto, carcerato per
la congiura, disse essere stato sempre compagno del Lauriana nelle
carceri di Squillace e poi anche in quelle di Napoli, avere udito
più volte fra Pietro di Stilo in Squillace dare del falsario al
Lauriana, che "piangeva e diceva che lo lassasse stare con li guai
suoi"; aver veduto ancora in Napoli venire alle mani il Lauriana
ed il Petrolo, il quale anche dava del falsario al Lauriana.
Confermò tutto il resto circa il Lauriana, ed aggiunse inoltre di
avere lui stesso udito il Pizzoni parlare dalla fossa col Lauriana
"per un pertuso che risponde fuori, et parlavano latinamente" e
dopo tre giorni il Pizzoni fu tolto dalla fossa e rimase da basso
per più di due mesi in compagnia del Lauriana che lo governava;
(senza mettere in dubbio l'orribile condotta del Lauriana, bisogna
pur dire che tutti i frati d'ogni colore, eccetto il Pizzoni,
seppero organizzare una vera crociata contro di lui). - Di poi
Marcello Salerno di Guardavalle, sarto, carcerato egualmente per
la congiura, confermò di avere udito tutte le voci che correvano
su' fatti del Lauriana, tra le altre "che un certo dottore
chiamato Dominico era stato la salute di frà Silvestro et la ruina
dela causa". Aggiunse di aver udito prima fra Dionisio e il
Lauriana quistionare e gridare tra loro e poi quietamente parlare
insieme; aver veduto anche il Soldaniero visitare fra Dionisio.
Non potè pertanto attestare di aver veduto in Squillace il
Lauriana dimandare perdono a fra Pietro Ponzio per le falsità
dette contro fra Dionisio, perché allora esso Marcello aveva avuta
la corda e stava male; attestò solamente di averlo udito dire da
altri carcerati, come pure di aver udito che il Lauriana era stato
sedotto a deporre in quel modo da un frate chiamato fra Cornelio.
Aggiunse che veramente il Lauriana e il Pizzoni erano stati in un
medesimo carcere più mesi; (nulla di nuovo, ma una concordanza
notevole). - Quindi Cesare Bianco di Nicastro, domestico,
carcerato come sopra, confermò le voci che correvano intorno al
Lauriana, che tutti lo dicevano falsario, aggiungendo
prudentemente, "quanto à me lo tengo per religioso da messa di S.
Domenico". Attestò di aver veduto lui medesimo il Soldaniero ed
anche Valerio Bruno parlare con fra Dionisio; ricordò di avere già
deposto circa la lettera che il Lauriana avea mandata al Pizzoni;
negò di avere udito il Lauriana dire che ci era tempo ad
accomodare la coscienza, avendolo invece saputo per detto di altri
carcerati; conchiuse dicendo, "fra Dionisio publicamente si tiene
per homo da bene come lo tengo io, è per buon religioso, è
predicatore, et publicamente si è ditto, è si dice particolarmente
tra li carcerati che le cose che li sono state apposte sono state
falsità"; (una testimonianza simile da un uomo piuttosto prudente
merita di essere considerata). - Venne poi esaminato Geronimo
padre del Campanella(225), che questa volta si disse di Stilo,
calzolaio, costretto a vivere col carlino al giorno che a lui dava
la Corte (come agli altri compagni poveri), e dichiarò di non
saper nulla su quasi tutte le dimande che gli furono fatte.
Attestò che dicevasi il Lauriana essere falsario, aggiungendo "et
esso se lo sape". Attestò che avea veduto il Lauriana visitare fra
Dionisio e parlargli, come pure il Soldaniero, non così Valerio
Bruno, il quale serviva di cucina il Soldaniero; (il povero
vecchio era sempre di molto cattivo umore). - Successivamente
venne esaminato Gio. Battista Ricciuto di Monteleone, orefice, che
dichiarò del pari non saper nulla su quasi tutti i punti e volle
barcamenarsi. Disse il Lauriana ritenuto "appresso di alcuni per
buono et appresso di alcuni altri non"; aver recitato la litania
"giusta", ma lui, Gio. Battista, non saper "lettera"; non sapere
se il Lauriana avesse visitato o no fra Dionisio, ma la camera di
costui essere rimasta aperta a tutti. Quanto al Soldaniero fu più
esplicito; l'avea veduto in camera di fra Dionisio, avea veduto
Valerio Bruno servirlo, avea saputo da costui l'indulto
accordatogli. - Finalmente Tommaso Tirotta, già servitore del
povero Maurizio e carcerato e tormentato per questo, dovè
rispondere solo intorno al Soldaniero e a Valerio Bruno: e disse
aver conosciuto l'uno e l'altro fin da quando stavano ritirati nel
convento di Soriano, sapere che il Bruno serviva il Soldaniero
anche nel Castello, sapere che il Soldaniero avea visitato fra
Dionisio, non sapere che il Bruno l'avesse egualmente visitato ed
anche servito, poter attestare aver lui medesimo, Tirotta,
cucinato due polli per fra Dionisio nel focolare del Soldaniero
col consenso di costui (testimonianza insignificante per questa
causa).
Il giorno seguente, 9 novembre, si cominciò ad interrogare i
frati(226). E dapprima fra Paolo confermò che il Lauriana da tutti
era stimato falsario, ricordando specialmente che così l'avea
chiamato pure il Petrolo nel venire alle mani tra loro. Disse aver
udito in Gerace perfino da' birri, ma non dal Lauriana, che costui
avea detto volersi ritrattare e poi non l'avea fatto per timore,
aggiungendo, a dimanda d'ufficio, che lo Spinelli e lo Sciarava
erano presenti agli esami e minacciavano, ed il Capitano di
campagna era anche presente e insolentiva, come avea provato egli
stesso e parimente il Petrolo. Confermò aver udito in Gerace e in
Monteleone che il Lauriana non conosceva nulla di quanto avea
deposto, ma l'avea deposto per timore di fra Marco e del suo
compagno, i quali dicevano volerlo consegnare alla Corte secolare
se non confessava. Dichiarò aver veduto nella carcere di fra
Dionisio, in colloquio con costui, il Lauriana, e così pure altra
volta il Soldaniero; d'avervi veduto egualmente Valerio Bruno, che
era servitore del Soldaniero, tanto che pur in que' giorni,
essendo il Soldaniero passato al Castello dell'ovo, gli preparava
il pranzo e glie lo mandava aggiungendo che da Valerio era stato
detto di aver udito quanto avea deposto non da fra Dionisio ma dal
Soldaniero. Attestò che trovandosi in Pizzoni, vide fra Dionisio
venuto per ricuperare certi scritti dal Pizzoni e sdegnato verso
costui uscire dalla Chiesa dove gli avea parlato (testimonianza
troppo tardiva e quindi sospetta). Attestò le cattive qualità del
Pizzoni, i furti, il mal francese, le disonestà che gli erano
addebitate. Disse di sapere che in Pizzoni, quando vi fu fra
Dionisio, non c'era il Campanella; confermò che fra Pietro di
Stilo non era amico di fra Dionisio, ed invece lo era del
Polistina; (così fra Paolo si mostrava ben diverso da quello di
prima, ma perciò appunto non poteva conciliarsi molta fede). -
Successivamente fu interrogato fra Pietro di Stilo, che abbondò
moltissimo ne' particolari, profittando della circostanza per far
entrare nelle difese in un modo anche più largo la persona del
Campanella, sicchè la sua deposizione riesce di una importanza
straordinaria. Dichiarò aver saputo direttamente dal Lauriana, in
Squillace e in Monteleone, che avea deposto "tutto buggie ad
instantia di frà Cornelio, è di frà Gio. Battista de Pizzoni", ed
espose l'occasione a questo modo: "io dissi à fra Silvestro, come
è possibile che tu che sei inimico di frà Dionisio perche ti
persequitò per conto di frà fabio in Nicastro.... et tù sempre sei
stato lontano da frà Thomaso, che essi ti habbiano communicato
queste cose à te, et à me che ero amico di fra Thomaso, e paesano,
non habbia ditto niente, Et fra Silvestro alhora mi disse, non per
Dio, io mai seppi queste cose, mà me l'ha fatto dire il maledetto
frà Gio. Battista da Pizzoni, in servitio del quale hò posto
l'onore, è molte volte in pericolo la vita, Et io dissi come è
possibile che si hai deposto contra frà Dionisio, et il Campanella
ad instantia di frà Gio. Battista, che tu poi habbi accusato fra
Gio. Battista, esso mi rispose che quelli doi ciò è il Campanella,
è frà Dionisio li dovesse nominare come in effetto li nominai, et
io da me aggionsi fra Gio. Battista per terzo, massime che frà
Gio. Battista mi havea ditto di haver udito heresie dal
Campanella, è da frà Dionisio" (rivelazioni molto sottili).
Attestò che pure alla presenza di molti di Catanzaro il Lauriana
disse di aver deposte falsità, ed esso fra Pietro glie ne fece
rimprovero. Attestò di aver saputo dal Dottore Monaco il consiglio
dimandatogli dal Lauriana; disse che uguale consiglio fu dimandato
al Giustiniano e poi ad esso fra Pietro medesimo, onde ebbe a
rispondere, "che si havea detto la verità stasse saldo, et
moressero li tristi, è si havea detto la falsità mirasse a sè, è
che li testimonii falsi condennorno il figliolo di Dio alla
morte". Confermò che il Lauriana era falsario, anche perché avea
deposto di avere udito eresie da fra Dionisio, dal Campanella e
dal Pizzoni, "e non dimeno, egli disse, frà Dionisio non è stato
mai in Pizzoni con frà Thomaso Campanella, perche io era in
Pizzoni in questo tempo, et l'haveria saputo si ci fusse stato",
indicando testimoni, per sapere la verità, fra Paolo e il Pizzoni
medesimo. Confermò aver fatto un appunto al Lauriana durante le
litanie, quando si giunse alle parole a falsis testibus, poichè
"parve che à fra Silvestro s'ingroppasse, è non potesse dire".
Attestò che un giorno fra Dionisio e il Lauriana vennero a briga
tra loro per le falsità, e poi la sera li vide discorrere insieme,
come il Lauriana medesimo gli disse l'indomani. Attestò aver
veduto più volte il Soldaniero parlare con fra Dionisio; quanto a
Valerio Bruno, aver saputo lo stesso da carcerati. Dichiarò aver
saputo da Giulio Contestabile che il Soldaniero gli avea detto
essere stato da fra Cornelio forzato a deporre, ma attestò averlo
poi saputo anche direttamente ed ecco in quale occasione: "al
Soldaniero dissi che frà Gio. Battista di Pizzone se li
raccomandava per amore di Dio, et Giulio rispose che non li volea
perdonare, mà roinarlo, perche esso fù il primo che accusò il
Soldaniero che con trenta persone voleva uscire in campagna per la
ribellione, et che li rencresceva bene di haver detto contra frà
Dionisio, perche la sospittione che havea contra frà Dionisio che
se la tenesse con Eusepio suo inimico non era stata vera, è disse
di haver fatto il debito suo verso frà Dionisio in camera di frà
Dionisio, ma che al Pizzone lo voleva convincere col detto di
valerio bruno suo servitore de loco, et tempore, perche da quello
servitore faceva dire quel che lui voleva, è questo sarà il
servitio che voglio fare à fra Gio. Battista, Et dopò questo
biastemò San Gio. Battista, S. Giovanni evangelista, è Santo
Cornelio, Et soggionse se venessero persone che havessero questi
nomi io non li crederia mai, ne tan poco voglio credere à questi
Santi per tali nomi, perche questi, ciò è frà Cornelio del Monte,
e Maestro Gio. Battista Polistina, sono stati causa, che hò perso
l'anima, la robba, e dubbito che perderò la vita, Et poi cacciò
una carta reale, è disse questa mi costa un'anima, è tre mila
docati, et confortandolo io che saria remesso, mi rispose questo è
l'indulto, et maledicì quando mai fu indultato, et che era meglio
per esso che fosse stato alli passi" (rivelazioni sempre più
sottili ed anche abbastanza teatrali, un pochino inverosimili
trattandosi non di un uomo semplice ma di un capo di fuorusciti
qual era il Soldaniero). Dichiarò inoltre avergli lo stesso
Soldaniero affermato, che i fatti esecrabili commessi contro
l'ostia consacrata erano stati narrati da fra Dionisio nella
predica di Soriano a pio fine (unico testimone fra Pietro su
questo articolo tanto scabroso); avergli dippiù Valerio Bruno
lodato grandemente quella predica. Accettò di aver fatto molto
opportunamente fuggire il Polistina quando era perseguitato da fra
Dionisio (con che si accreditava come testimone a favore di
costui), e confermò ad una ad una le accuse di furto, malattie e
"cose di donne" addebitate al Pizzoni, mostrandosi personalmente
informato di tutto. Riconobbe che il Campanella avea trattato
molto col Pizzoni, ma disse di non poter entrare a giudicare se
dovesse ritenersi più probabile che il Pizzoni avesse manifestate
a fra Dionisio opinioni del Campanella, o invece il contrario.
Affermò di avere tanto lui quanto il Petrolo saputo dal Pizzoni
che fra Dionisio avea parlato di eresie disputativamente, e
soggiunse essergli stato detto dal Pizzoni, nelle carceri di
Monteleone, che volea ritrattarsi di quanto avea deposto contro
fra Dionisio e il Campanella, allegando "molte raggioni per le
quali esso havea confessato la prima volta, è fra l'altre... il
timore della morte, e la speranza di libertà, l'odio che havea con
frà Dionisio, et l'occasione dela soversione delle cose, che
alhora pareva che il mondo tutto andasse sotto sopra" (non si
poteva dir meglio); al quale proposito ritornò sulle minacce fatte
da D. Carlo Ruffo, da fra Cornelio, dal Visitatore, da Ottavio
Gagliardo, e ricordò quello che costoro aveano fatto contro lui
medesimo. Ma la lunghezza di questo esame obbligò i Giudici a
rimandarne il sèguito ad altra seduta.
L'indomani 10 novembre fu ripigliato l'esame di fra Pietro di
Stilo. Ed egli continuò sull'articolo delle minacce fatte in
Calabria a ciascuno de' frati inquisiti, esponendo anche a lungo
gli eccitamenti avuti da fra Gio. Battista di Polistina unito con
fra Cornelio, poco prima di montare sulle galere in partenza per
Napoli, perché deponesse contro fra Dionisio, onde giudicò che in
questa faccenda si trattasse di una vendetta particolare del
Polistina. Confermò l'inimicizia del Lauriana con fra Dionisio,
avendolo costui perseguitato per le pessime relazioni tra lui e
fra Fabio Pizzoni: attestò di aver veduto la lettera scritta dal
Lauriana a Ferrante Ponzio, di avere udito più di quaranta volte
dal Lauriana che era stato sedotto dal Pizzoni e da fra Cornelio,
esponendo tutti i particolari del modo di procedere tenuto per gli
esami in Calabria, la lettura dell'esame del Pizzoni agli altri
che dovevano esaminarsi, la presenza de' laici che interrogavano
anche in materia di eresia perfino in Gerace, facendosi gli esami
innanzi al Vescovo. Così mano mano confermò ciascuno articolo su
cui venne interrogato, sempre di scienza propria: e nel parlare
del mulo rubato dal Pizzoni ad un uomo di Stilo, dichiarò che
egli, insieme col Campanella e col Sig.r Francesco Petrillo,
s'interpose per accomodare la faccenda; nel parlare degli
eccitamenti del Visitatore perché si deponesse contro fra
Dionisio, aggiunse di essere stato eccitato a deporre anche contro
il Campanella. Così pure, nel parlare della conferma dell'esame di
Calabria fatta in Napoli dal Pizzoni a consiglio del Lauriana,
aggiunse che egualmente il Petrolo (accusatore del Campanella)
confermò l'esame a consiglio del Lauriana datogli allo stesso
modo; nel parlare poi dell'inimicizia tra Dionisio e il Petrolo,
dichiarò che non ne sapeva nulla, ma che sapeva bene esservi
inimicizia tra il Petrolo e il Campanella, "perche si disse che
una sorella di frà Dominico era innamorata di frà Thomaso, et che
havevano peccato insiemi, et per questo si disse che frà Dominico
cercò di fare ammazzare il Campanella dal Mauritio, mà Mauritio
non lo volse fare; quando poi si suscitorno questi rumori di
ribellione il Mauritio cercò di ammazzare il Campanella, è fra
Dominico, mà non potè si ben li sequitò per alcune miglia"!
Finalmente, nel parlare del motivo per cui il Pizzoni e il Petrolo
dicevano aver dovuto confermare i rispettivi esami, cioè
l'insistenza minacciosa del fisco, non solo dichiarò averlo udito
da que' frati mentre discorrevano tra loro di notte, ma soggiunse
averlo udito particolarmente dal Petrolo mentre lo diceva al
Campanella per iscusarsi (e ben si vede che il povero fra Pietro
si spingeva quanto più poteva, certamente un po' troppo, per
giovare al suo disgraziato amico). - Dopo di lui fu esaminato il
Petrolo, ma sopra un numero di articoli assai limitato. Egli
attestò aver saputo direttamente dal Lauriana che avea deposto
contro il Campanella, fra Dionisio e il Pizzoni, che vi era stato
colto da fra Cornelio e dal Visitatore mentre non sapeva nulla di
quanto depose, che voleva ritrattarsi almeno relativamente al
Pizzoni suo maestro, ma non già che avesse deposto il falso ad
istigazione del Pizzoni; e spiegò le confidenze fattegli, dicendo
essere stato assistito dal Lauriana dopochè ebbe due ore di corda
(naturalmente per la congiura). Attestò essere il Lauriana
ritenuto pubblicamente falsario, persistente nel falso a consiglio
di un dottore "furbo e mariolo", riluttante a dire le parole a
falsis testibus nelle litanie per quanto avea saputo da fra Pietro
di Stilo. Attestò aver veduto il Lauriana e fra Dionisio parlare
insieme, sibbene fuori la carcere; aver udito il Soldaniero
bestemmiare santo diavolo(227) e borbottare minacce contro i
Polistina, ciò che il Bitonto gli spiegò col dire che i Polistina
lo avevano costretto a deporre ciò che depose; inoltre aver veduto
il Soldaniero visitare fra Dionisio dentro la carcere e prestargli
danaro, come pure aver veduto nella carcere di fra Dionisio
Valerio Bruno servitore del Soldaniero. Dichiarò di avere non solo
udito il Soldaniero lamentarsi dei Polistina, ma ricevute lui
stesso in Bivona raccomandazioni dirette da fra Gio. Battista di
Polistina perché non risparmiasse fra Dionisio, e nella medesima
occasione veduto anche il Polistina riscaldarsi con fra Pietro di
Stilo. Dichiarò di aver udito il Soldaniero dire che in Calabria
avea dovuto fare il birro per salvarsi la vita; di sapere che il
Pizzoni era stato in relazioni molto strette col Campanella; di
avere udito dal Pizzoni che le cose dettegli da fra Dionisio erano
state dette recitative e poi egli l'aveva accomodate nella sua
deposizione a modo di disputa; di avere avuto preghiera dal
Pizzoni, perché raccomandasse al Lauriana di persistere nella
discolpa conoscendo che l'aveva discolpato; di sapere che il
Campanella non era stato a Pizzoni quando vi fu fra Dionisio,
perché il Pizzoni e il Lauriana glie l'aveano detto, ed anzi il
Lauriana, preoccupato di aver detto il contrario, lo pregò di
raccomandare a fra Paolo che non lo scovrisse su questo punto.
Infine dichiarò di sapere che il Pizzoni e il Lauriana erano stati
più mesi insieme nelle carceri civili, e di credere che si fossero
là messi d'accordo a voce dopochè aveano cercato di farlo in
iscritto; (così oramai il Petrolo, col contatto de' frati, si era
modificato di molto, ed avea capito che la causa di ognuno
rifletteva quella di tutti; ma si era troppo spinto innanzi per
tornare francamente indietro). - Fu interrogato da ultimo il
Bitonto, e costui dichiarò di aver saputo dal Lauriana in Gerace,
che si era esaminato contro fra Dionisio e il Campanella a
persuasione del Pizzoni, che non si era ritrattato per timore di
Carlo Spinelli, ma che si sarebbe ritrattato in Napoli, dimandando
ad esso Bitonto se si dovesse o no ritrattare. Attestò di aver
veduto un giorno fra Dionisio e il Lauriana quistionare insieme ed
aver poi saputo dallo stesso Lauriana che la sera era andato a
cercare perdono a fra Dionisio per le falsità deposte contro di
lui; aver veduto il Soldaniero visitare fra Dionisio nella carcere
e portargli cose da mangiare, ed aver veduto egualmente presso fra
Dionisio Valerio Bruno servitore del Soldaniero. Attestò aver
udito dal Soldaniero che non gli si teneva conto del guidatico, e
che i Polistina e fra Cornelio lo avevano consigliato e costretto
a deporre le cose di eresie. Attestò che il Pizzoni avea fatto
fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio cercava
farlo carcerare, che in Calabria era reputato un cattivo soggetto,
avea rubati scritti a fra Dionisio e commessi altri furti, aveva
avuto il mal francese e fatto udire molte cose in materia di
donne. Attestò egualmente di propria scienza la pessima condotta
del Lauriana in materia di costumi, e per detto altrui le lettere
che avea scritte a Ferrante Ponzio revocando le cose affermate
contro fra Dionisio e il Campanella. Infine attestò l'amicizia di
fra Pietro di Stilo per fra Gio. Battista di Polistina nemico di
fra Dionisio (come si vede, nulla di nuovo, e d'altronde il
testimone era troppo ligato a fra Dionisio per potergli accordare
molta fede).
Il 16 novembre si tenne l'ultima seduta, e furono interrogati il
Barone di Cropani e Geronimo di Francesco, fatti venire dal
Castello dell'ovo. Il Barone di Cropani, Antonino Sersale(228),
narrò come egli si fosse adoperato per far perdonare dal
Provinciale fra Dionisio quando costui ebbe grave punizione per
aver bastonato un frate, come inutilmente avesse in tale
circostanza procurato i buoni ufficii del Vescovo di Catanzaro e
dell'Auditore De Lega presso il Visitatore, con la conseguenza
rincrescevole per lui di essere ritenuto a motivo di queste
trattative con fra Dionisio, "sospetto come li altri calabresi
carcerati". Attestò per scienza propria le ottime qualità di fra
Dionisio, e per detto altrui l'ostilità del Visitatore verso
questo frate dietro antichi dissensi circa le controversie de'
frati Riformati, come pure l'amicizia del Visitatore per fra Gio.
Battista di Polistina nemicissimo di fra Dionisio. Attestò aver
saputo da due Padri Gesuiti, mentre si trovava nelle carceri di
Monteleone, che il Mileri e il Crispo, quando vennero giustiziati,
dicevano con alte grida aver tutto deposto in materia di
ribellione per forza di tormenti avuti dallo Sciarava; e la cosa
medesima essersi detta di altri tre che vennero giustiziati sulla
galera in cui egli si trovava, sebbene non l'avesse udito di
persona poichè soffriva il mal di mare, specialmente di Gio.
Battista di Nicastro (il Bonazza), che per questo motivo non
voleva nemmeno riconciliarsi con Dio ma poi si piegò. Aggiunse
essere anche in materia di fede fra Dionisio "da tutti tenuto per
bonissimo Catholico". - Geronimo di Francesco disse di avere
appena conosciuto fra Dionisio, e di poter attestare che tutte le
accuse fatte a questi frati erano falsità, come aveva in parte
udito e in parte saputo dal Pizzoni, aggiungendo che i due
giustiziati in Catanzaro (Mileri e Crispo) avevano confessato di
aver tutto deposto per forza di tormenti e persuasione dello
Sciarava; (e così entrambi i testimoni confondevano troppo la
materia della ribellione e quella dell'eresia).
Abbiamo già avuta occasione di dire che in questo stesso periodo
di tempo, oltre gli esami difensivi per fra Dionisio, si fecero
anche quelli pel Pizzoni. Costui presentò in sua difesa 34
articoli, e poi ne diede in supplemento pure qualche altro
nell'ultima ora scrivendolo di suo pugno (sicchè a quel tempo dovè
la lesione della spalla dargli un po' di tregua), ma i Giudici non
vi badarono nemmeno(229). Secondo il solito volle provare che fin
dal suo ingresso nella vita monastica avea vissuto religiosamente,
e poi predicato ed insegnato ne' conventi principali, aggiungendo
di avere strettamente digiunato ogni sabato e di non essere stato
mai inquisito né processato. Che il processo fatto da fra Marco e
fra Cornelio era falso, avendo ricevuto danari e donativi da
diverse persone per fare un processo tale da guadagnarsi un
premio. Che que' frati eccitavano gl'inquisiti l'uno contro
l'altro dicendo che l'uno avea deposto contro l'altro, leggevano
in precedenza all'uno l'esame raccolto dall'altro, facevano co'
tormenti dire quanto loro piaceva. Che senza precedente denunzia,
inquisizione o querela, aveano fatto carcerare esso Pizzoni,
dicendolo pubblicamente nemico di Cristo e del Re. Che il fisco e
gli ufficiali Regii promettevano premii e diedero indulti per far
deporre contro la propria coscienza. Che un testimone del fisco,
il Caccìa, aveva in punto di morte dichiarato di aver deposto il
falso e se n'era fatta fede che esso Pizzoni riproduceva; inoltre
questo Caccìa era stato sottoposto alla tortura mentre aveva la
febbre e in tale condizione era stato sedotto da que' frati a
nominare esso Pizzoni! Che i due Polistina erano suoi nemici,
essendo lui stato a Roma contro di loro quando concorrevano al
Provincialato. Che Giulio Soldaniero gli era nemico capitale e
l'avea più volte minacciato, pretendendo che avesse nascosto
Eusebio Soldaniero; e poi era stato eccitato da' Polistina a
deporre contro di lui. Che Valerio Bruno era compagno di delitti e
servo stipendiato del Soldaniero, e quindi non meritava fede; e
poi egli medesimo confuso per le sue falsità avea detto a'
Giudici, "misericordia signore, che sono ignorante". Che esso
Pizzoni non era stato mai cacciato dal convento di Soriano, ma
sempre accoltovi con affetto, e vi avea pure cantata la messa in
presenza del Visitatore nel giorno di S.to Agostino (vale a dire
il 28 agosto). Che il Campanella e fra Dionisio non aveano mai
parlato di quelle cose che esso Pizzoni avea deposte, se non
separatamente e fuori la presenza di alcuno; e il libro del
Campanella stampato in Napoli non era scritto contro S. Tommaso ma
contro Antonio Marta napoletano, e S. Tommaso vi si trovava
nominato sempre colla massima riverenza (in questo contradiceva al
Lauriana, col quale oramai il disaccordo era completo). Che avea
sempre letto e predicato dottrine approvate dalla Chiesa. Che fra
Dionisio gli era divenuto nemico mortalissimo da che esso Pizzoni
avea deposto contro di lui molte cose intorno alla congiura e alla
fede; fra Domenico Petrolo era stato eccitato a deporre contro
esso Pizzoni da fra Cornelio, il quale glie ne lesse pure l'esame,
oltrechè non avea potuto vederlo ammalato in Pizzoni due anni
prima, perché allora esso Pizzoni si trovava in altri posti. Che
mai vi era stata tra lui e il Campanella corrispondenza in cifra,
che non era mai il Campanella venuto altre volte a Pizzoni, che
quando ci venne fu perché volea vedere i Vescovi di Mileto e di
Nicotera i quali dovevano là venire, che dopo di averlo esso
Pizzoni cacciato dal convento, non gli scrisse mai più. Che se
esso Pizzoni lo vide in Stilo, ciò fu per certo danaro che dovea
restituire a un fra Marcello Basile, e per certo altro danaro che
doveva esigere andò a vederlo presso il Marchese di Arena. Che
avvertì il P.e Generale facendo scrivere la lettera al Lauriana e
mandandola egualmente per costui alla posta di Monteleone, non
appena seppe le cose delittuose del Campanella e di fra Dionisio.
Che tutte le deposizioni de' frati furono fatte innanzi ad
ufficiali Regii, ed anche innanzi a D. Carlo Ruffo, il quale era
speciale nemico di esso Pizzoni per controversie passate tra loro.
Che nel convento di Pizzoni egli non era stato se non durante tre
mesi prima della sua carcerazione, mandatovi a forza da' Superiori
suoi nemici, ed avea supplicato inutilmente di poter lasciare quel
posto, solito ad essere frequentato da fuorusciti protetti dal
Vescovo di Mileto, onde due Vicarii suoi predecessori aveano
dovuto scapparne di soppiatto.
A questi articoli, redatti con un po' di disordine e con diversi
errori di nomi, attestanti la poca cura dell'Avvocato e
l'affievolimento del Pizzoni pur sempre infermo, venne aggiunto un
elenco di testimoni rappresentati da tutti i frati inquisiti
all'infuori di fra Dionisio (oltrechè del Campanella come
ben s'intende), da molti frati de' conventi di Calabria, e da
taluni de' conventi di Napoli, dal Contestabile e dal di Francesco
carcerati per la ribellione, dallo Spinola e dal Castiglia ed
anche da un D. Francesco di Genova carcerati per altre cause, da
Fabio Pisano disgraziato padre di Cesare dimorante in Calabria. E
con una fiacchezza di accorgimento sempre più notevole, vennero
tutti i frati inquisiti indicati come testimoni su tutti gli
articoli indifferentemente, sicchè p. es. il Petrolo ed il
Lauriana doveano provare anche le affermazioni contenute negli
articoli addotti contro di loro; e può dirsi senza esitazione, che
la difesa del Pizzoni, già essenzialmente scabrosa, fu mal
condotta davvero. - Il fiscale Sebastiano diede dal canto suo
appena 6 interrogatorii, contenenti le solite ammonizioni e
generalità rutinarie, senza brigarsi menomamente de' fatti
affermati negli articoli, tanto dovea sentirsi sicuro che non ve
n'era bisogno. I Giudici poi chiamarono all'esame soltanto i frati
inquisiti, lo Spinola e il Castiglia, il Contestabile e il Di
Francesco, e in due sedute successive, il 14 e 15 novembre,
esaurirono le difese del Pizzoni(230).
Il 14 novembre fu interrogato dapprima fra Paolo della Grotteria,
il quale disse di conoscere da poco tempo il Pizzoni e non poter
dare testimonianze sulla vita di lui; avere udito con molti altri
carcerati in Monteleone Cesare Pisano affermare, che da suo padre
era stato dato danaro ed altro al Visitatore e compagno, per
passarlo dalla Corte temporale all'ecclesiastica; esser vero che
il Visitatore e compagno, presenti Spinelli, Sciarava e il Vescovo
di Gerace, minacciarono esso testimone se non avesse deposto
contro il Pizzoni intorno al mangiar carne in tempo proibito; che
D. Carlo Ruffo con suoi famigli era venuto nelle carceri a sedurlo
e così pure fra Cornelio; che avea veduto minacce di pugni e di
consegna alla Curia secolare, la quale procedeva a modo di
campagna, fatte al Petrolo e a fra Pietro di Stilo. Avere udito
parlare della fede fatta dal Caccìa a tempo della sua morte, ma
non averla veduta; poter attestare che il Caccìa fu tormentato
mentre avea la febbre, ma non sapere se il Visitatore e compagno
fossero stati presenti. Avere udito da un birro che i due
Polistina coll'intervento di un secolare, il quale doveva essere
Giulio Soldaniero, avevano fatta una lista di accuse, non sapere
se il Campanella e fra Dionisio avessero parlato o no di eresia,
ma poter attestare che il Pizzoni si era con lui lamentato del
Visitatore e compagno, perché con buone parole e promesse di
liberazione, al pari di D. Carlo Ruffo, l'aveano indotto a deporre
contro que' due frati, ed egli l'avea fatto tanto più perché
pensava di non avere a nuocere a fra Dionisio che era fuggito;
potere inoltre attestare che nella Chiesa di Pizzoni fra Dionisio
avea parlato al Pizzoni con sdegno. Su tutto il resto disse non
saper nulla (la difesa del Pizzoni già cominciava a risultare ben
altro che difesa, e se venivano a galla tutte le infamie del
Visitatore e di fra Cornelio, non per questo il Pizzoni se ne
giovava). - In sèguito il Petrolo disse del pari aver conosciuto
poco il Pizzoni, avendolo veduto appena una volta in Stilo e poi
nel carcere; sapere che era buon predicatore e letterato ma assai
maledico, e che avea cominciato a digiunare il sabato da sole tre
o quattro settimane! Aver udito in Gerace che il Mesuraca avea
dato 100 scudi a fra Cornelio per far processare mortalmente i
frati inquisiti, a fine di guadagnarsi il taglione sopra il
Campanella ed esso Petrolo; aver udito in Monteleone da Cesare
Pisano ed anche dal padre di costui, presenti altri frati, che
erano stati dati 100 scudi e robe di tela a fra Cornelio,
convenendo di far dire cose di eresie per passare al foro
ecclesiastico. Essergli stato da fra Cornelio letto in gran parte
l'esame del Pizzoni, ma non detto che dovesse deporre contro il
Pizzoni. Essergli stato detto dal Pizzoni che fra Cornelio,
presente Geronimo di Francesco, l'istruiva nella carcere su quanto
avrebbe dovuto deporre; poter assicurare che esso testimone
medesimo era stato visitato nella carcere da fra Cornelio, il
quale voleva fargli sottoscrivere un verbale che egli non voleva
sottoscrivere, "e disse con giuramento, dicendo per queste mani,
monstrando le mani sue, che tu non hai da uscire da questo
Castello se non in pezzi, et io mi humiliai, et esso col
visitatore mi sputavano in faccia con dire non basta questo, ma
volevano che io dicesse delle cose che non sapeva... et il
Sciarava mi pigliò una volta per il petto, è mi condusse alla
banca sotto la corda, et voleva che confirmasse lo mio esamine
quale io non voleva confirmare per le falsità che contineva".
Dichiarò inoltre che tutti i frati di S. Domenico erano chiamati
ribelli, che ognuno de' persecutori si aspettava un premio, e di
fra Cornelio si diceva che sarebbe stato fatto Arcivescovo di
Toledo! Avere udito che il Caccìa avea fatto fare una fede per
ismentire le falsità deposte, e che era stato tormentato mentre
avea la febbre; aver saputo da lui medesimo, in Squillace e poi in
Monteleone, che era stato esaminato contro il Pizzoni e avea
deposto il falso; ma i Giudici gli fecero osservare d'officio che
dal processo si rilevava essersi le deposizioni del Caccìa avute
senza tormento, e il Petrolo ripetè che in Gerace aveva avuta la
corda (erano state confuse negli articoli le deposizioni sulla
congiura e quelle sull'eresia, e i testimoni continuavano in tale
confusione). Avere udito che il Pizzoni non era nemico ma amico
del Polistina (confusione di due periodi diversi); aver saputo dal
Pizzoni medesimo che fra Dionisio non gli avea dette tante eresie;
e che glie le avea dette recitativamente; nulla poi aver saputo
intorno al Campanella. Poter assicurare che il Pizzoni era stato
esaminato innanzi al Visitatore e compagno, allo Spinelli e allo
Sciarava, come esso medesimo era stato esaminato; che anzi lo
Spinelli e lo Sciarava volevano esaminarlo soli ed egli si rifiutò
di rispondere dicendo che era ecclesiastico, ma Sciarava gli disse
che non lo era più, perché aveva allora lasciato l'abito, e
finirono per interrogarlo (ma questo era accaduto in Gerace, e il
Pizzoni avea già deposte tante cose propriamente in Monteleone,
fuori la presenza dello Spinelli e dello Sciarava). Sugli articoli
che concernevano direttamente la persona sua, confermò essergli
stato da fra Cornelio letto in gran parte l'esame del Pizzoni ma
non fatto eccitamento a deporre contro il Pizzoni; confermò
inoltre aver veduta una lettera in cifra che il Campanella gli
disse essere stata scritta dal Pizzoni. Su tutto il resto dichiarò
non saper nulla. - Venne poi la volta del Lauriana, il quale disse
aver conosciuto il Pizzoni da molto tempo, non essergli amico né
nemico, sapere che era buon predicatore ma non che digiunasse o
no. Aver udito dal Pisano e dal padre di costui il pagamento e
regalo fatto a fra Cornelio; aver saputo dal Caccìa essere stato
spinto a deporre contro il Pizzoni dietro assicurazione che il
Pizzoni avea deposto contro di lui. Avere lui medesimo avuta dal
Visitatore e compagno la minaccia di essere consegnato allo
Sciarava, il quale diceva volergli dare la corda. Avere udito dal
Caccìa che molte cose erano state da lui deposte contro il Pizzoni
e che venendo in Napoli si sarebbe ritrattato; sapere che il
Caccìa era stato sottoposto alla corda mentre aveva la febbre, ma
non sapere se il Visitatore e compagno vi fossero intervenuti.
Avere il Soldaniero scritto a Claudio Crispo lamentandosi che in
Pizzoni si desse ricetto ad Eusebio suo nemico, la qual cosa non
era vera. Riferirsi al suo esame circa la presenza contemporanea
del Campanella e fra Dionisio in Pizzoni quando si parlò di
eresia, e così pure circa la lettura del libro stampato dal
Campanella. Esser vero che il Pizzoni leggeva la dottrina di S.
Tommaso, che era stato Teologo del Vescovo di Nicotera, che era
andato presso il Campanella per le ragioni da lui addotte. Avere
scritto realmente la lettera al Generale, con cui il Pizzoni
rivelava le cose del Campanella e di fra Dionisio, ed averla lui
medesimo portata alla posta. Nel suo primo esame non esservi stati
altri esaminatori che il Visitatore e fra Cornelio, senza
intervento di persone laiche. Esser vero che il Pizzoni si
lamentava sempre del Provinciale e del Polistina i quali l'avevano
mandato nel convento di Pizzoni, e che in questo convento erano
stati sempre ricoverati banditi, da' quali una volta il Vicario
predecessore del Pizzoni aveva avuto minaccia di essere buttato
dalla finestra.
Il 15 novembre si venne agli esami di tutti gli altri testimoni. E
dapprima fu esaminato fra Pietro di Stilo, il quale, come sempre,
ebbe di mira principalmente la difesa del Campanella, sicchè il
Pizzoni non potè punto giovarsene. Egli disse aver conosciuto il
Pizzoni da otto anni, averlo avuto a lettore in Briatico, essergli
amico, essere rimasto con lui una volta che gli altri scolari gli
si ribellarono; sapere che era buon lettore e buon predicatore, ma
di vita scandalosa. Confermò di avere udito da alcuni preti in
Gerace che a fra Cornelio erano stati dati danari da Misuraca,
perché aggravasse la condizione de' frati e così egli guadagnasse
la taglia; si diffuse sull'argomento de' premii e quindi della
falsità del processo, dicendo, "chi pretendeva per questa causa di
voler essere vescovo, chi cardinale, chi conte, chi una cosa, et
chi un'altra, et comunemente fra Cornelio et il visitatore si
tenevano vescovi, et quelli preti dissero con pietà, la causa di
questi monaci non può andare bene perché li istessi monaci li
cacciano, et altro non mi racordo per ora, Et poi si il processo
sia falso, dico che frà Gio. Battista da Pizzone et frà Silvestro
de Lauriana separatamente l'uno dall'altro mi hanno detto che
hanno detto la falsità, et per questo bisogna che il processo sia
falso, quanto poi alli Giudici ciò e, Visitatore, et compagno,
facevano, è dicevano tante cose, come saria pigliavano me, è mi
conducevano avanti li giudici secolari, et dicevano, ve lo
consegno per tre hore, facciati quel che vi piace, è se
partivano..., di più dicevano si tu confessi non morirai, è sarai
libero, et haverai premio, et altre parole simili, et l'istesso
anco mi è stato fatto da don Carlo Ruffo è da quello di casa
guagliardo (intend. Ottavio Gagliardo) à Monteleone...; fra
Cornelio si monstrava non amico, mà servitore deli giudici
secolari, et l'istesso visitatore pareva che dependesse da frà
Cornelio, et per tutte queste cose, et altre, hò anco sospetto che
per mali modi tenuti dal visitatore, è compagno che il processo
sia falso". Disse poi non sapere che si leggessero prima a'
testimoni gli esami raccolti contro di loro, ma saper bene che i
giudici "fingevano et dicevano parecchie cose contra il
Campanella, frà Dionisio, et il Mauritio, che erano tristi, et
scelerati, et heretici, è che fra thomaso Campanella havea
predicato publicamente le heresie, Et io facendo instantia di
vedere le cose che mi dicevano non me le volevano monstrare, è poi
mi dicevano hor su tu vuoi morire...". Ed inoltre: "fra Cornelio
con belle parole, è lusinghe mi voleva persuadere à dire quel che
lui voleva, ciò e, che io accettasse l'esamina deli altri,
dicendomi tu solo non puoi portare il carro et si tu solo sarai
pertinace, tu solo morirai, monstrando certe pietà, è forfanterie
con me, et ultimamente sempre mi lassava con bravarie... Facevano
gran cose per fare confessare, e massime frà Cornelio, il quale mi
minacciava la morte, et io risposi pacientia, più presto la morte
che offendere Dio". Dichiarò non conoscere che il Caccìa avesse
fatta una carta di ritrattazione, ma conoscere che fu tormentato
mentre avea la febbre senza essere informato se v'intervenisse o
no il Visitatore ovvero fra Cornelio; poter poi attestare,
avendolo udito dal Caccìa medesimo, che si lamentava di fra
Cornelio perché l'avea sedotto a dire la falsità con
l'assicurazione che avrebbe così evitata la corda, onde diceva
aver deposto la falsità per la corda (evidente ripiego per
profittare in qualche modo di un articolo scioccamente redatto).
Disse di sapere che il Soldaniero si era lamentato di fra Dionisio
(anche di fra Dionisio), del Pizzoni e del Lauriana, perché
ospitavano Eusebio fuoruscito suo nemico; sapere per detto di fra
Paolo che il Soldaniero si era concertato col Polistina in questa
faccenda, e che a lui parea vero, mentre il Polistina avea tentato
di sedurre lui medesimo perché deponesse contro fra Dionisio (ma
non si pronunziò sulla inimicizia sorta tra il Pizzoni e i
Polistina). Dichiarò non potere esser vero che fra Dionisio avesse
dette eresie al Pizzoni, mentre nel principio di luglio, essendo
in Stilo e sapendo che vi era venuto il Pizzoni, corse a prendere
un candeliere dall'altar maggiore per ucciderlo, a motivo di certi
scritti rubatigli da lui; ed esso testimone col Campanella
doverono quietarli, promettendo il Pizzoni che avrebbe restituiti
gli scritti e mandatili ad Arena (mezzo di difesa venuto in campo
negli ultimi tempi). Dichiarò non sapere che il Pizzoni avesse
accusato fra Dionisio a' superiori; potere invece attestare, che
il Pizzoni voleva persuadere esso testimone a dire che avea veduta
una lettera da lui scritta allo Sciarava e che costui glie l'avea
mostrata, la qual cosa era "bugia tremendissima"; potere attestare
ancora che il Lauriana avea detto ad esso testimone non esser vero
che avesse portato alla posta una lettera del Pizzoni al P.e
Generale (troppe confidenze ricevute). Quanto a fra Domenico
Petrolo, dichiarò non sapere che costui avesse avuto terrori da
fra Cornelio perché deponesse contro il Pizzoni, ma avere udito
dal Petrolo medesimo che aveva avuto terrori per deporre contro il
Campanella e fra Dionisio (sempre confidenze da tutti costoro, che
pure lo conoscevano amico intimo del Campanella). Quanto al non
avere più il Pizzoni trattato col Campanella dopo di averlo
cacciato dal suo convento, dichiarò constargli il contrario,
mentre essendo il Campanella in Pizzoni verso la fine di luglio,
fu pregato di volervi rimanere ulteriormente, e vi rimase tre
giorni più di quanto si era proposto; aver sempre il Pizzoni
pregato il Campanella che si recasse al convento di Pizzoni,
averlo anche in Arena pregato in tal senso, sicchè per queste
falsità non avrebbe dovuto farlo esaminare come testimone! Esser
vero che quando il Pizzoni venne a Stilo portò certi danari a M.°
Marcello Basile, come "ne portò anche al speciale che li curò il
mal francese"! Sapere che fra Gio. Battista di Polistina l'avea
processato per i suoi delitti; sapere che in Pizzoni vi erano
banditi, ma non sapere che vi fossero prima che ci andasse per
Vicario il Pizzoni (altro che difesa; il Pizzoni amico infedele,
doveva essere trattato come un deciso nemico, oltrechè dimostrato
testimonio falso per le seduzioni e il terrore incussogli da fra
Cornelio). - Venne di poi il Bitonto, il quale disse aver
conosciuto il Pizzoni da dodici anni, averlo saputo di mala vita,
essere stato tenuto per scandaloso e maligno. Avere udito da Fabio
Pisano la faccenda de' danari e regali dati a fra Cornelio per far
liberare il figlio dalla morte, e da' carcerati la faccenda de'
danari pagati allo stesso fra Cornelio dal Mesuraca, per far
processare mortalmente il Petrolo e il Campanella. Avere fra
Cornelio detto a lui medesimo che il Pizzoni gli si era esaminato
contro, eccitandolo così a deporre contro il Pizzoni; e dicendo
lui che non sapeva nulla, avere avuto da fra Cornelio minaccia di
consegna a' Giudici secolari. Sui cattivi modi di esame, e sulle
speranze de' premii da parte de' Giudici e persecutori, disse:
"usorno milli stracie verso di noi il fra Cornelio, et l'Avocato
fiscale, et Carlo Spinello, acciò per le stracie dicessimo quello
che volevano loro..., quello che pigliò à me pretendeva di
acquistare una baronia, è don Carlo Ruffo, pretendeva essere
Prencipe de Stilo, è frà Cornelio per quanto disse l'Avocato
fiscale se li saria procurato un vescovato, et io udì quando che
il fiscale disse questo in risposta che diceva non haveria mancato
di fare tutto quello che havesse possuto in servitio del Re
Catholico al quale era devoto". Intorno al Caccìa disse sapere che
gli fu data la corda mentre aveva la febbre e che in particolare
gli fu dimandato del Pizzoni, ma non sapere chi ci fosse presente
e se vi fosse intervenuto il Commissario e compagno. Intorno alle
relazioni tra il Pizzoni e il Polistina, disse sapere che il
Pizzoni era andato a Roma per mostrare che l'elezione del
Polistina al Provincialato non era valida. Confermò che il libro
del Campanella era scritto contro un certo Marta napoletano (egli
solo tra' testi si trovò in possesso di tale notizia). Confermò
che il Petrolo era stato eccitato da fra Cornelio a deporre il
falso contro il Pizzoni, dicendo averlo saputo dallo stesso
Petrolo ed aggiungendo essere stato lui medesimo presente alle
bravate di fra Cornelio verso il Petrolo. Su molti altri articoli,
sulla condotta del Soldaniero messosi di accordo co' Polistina,
su' fatti del convento di Soriano, sulle relazioni del Pizzoni con
fra Dionisio e il Campanella disse non saper nulla; sulla presenza
di banditi nel convento di Pizzoni disse aver saputo dal Lauriana
che c'erano già prima che il Pizzoni ci andasse per Vicario (e ben
si vede che le testimonianze del Bitonto furono pel Pizzoni assai
migliori di quanto si poteva attendere).
Nella stessa seduta furono esaminati i rimanenti testimoni,
chiamati a deporre sopra determinati articoli. - Cesare Spinola
disse di conoscere un frate chiamato fra Gio. Battista di Pizzoni
ma non avergli mai parlato; non sapere che il Soldaniero si fosse
messo d'accordo co' Polistina contro il Pizzoni; sapere bensì che
Valerio Bruno passava per servitore del Soldaniero. - Giulio
Contestabile disse aver conosciuto il Pizzoni nelle carceri; poter
attestare che il Caccìa avea deposto contro esso testimone e al
momento dell'estremo supplizio si era ritrattato, onde egli se ne
avea procurata dai confortatori una fede che aveva presentata in
giudizio a sua difesa; non conoscere i Polistina e non sapere che
si fossero concertati col Soldaniero a danno del Pizzoni, sapere
che Valerio Bruno era da tutti tenuto per servitore del
Soldaniero. - D. Francesco di Castiglia disse non conoscere il
Pizzoni personalmente, non saper nulla del concerto del Soldaniero
co' Polistina, sapere che Valerio Bruno era servitore del
Soldaniero. - Infine Geronimo di Francesco disse aver conosciuto
il Pizzoni solamente nelle carceri di Gerace, dove stava con lui
in una medesima camera, ed aggiunse: "essendo priggione con frà
Gio. Battista di Pizzoni, venne un frate rossetto, di bassa
statura, e giovane quale lo chiamavano il compagno del visitatore,
e per nome intendo si chiama frà Cornelio, et parlando con fra
Gio. Battista udii che disse: Padre frà Gio. Battista mio bisogna
per sutterfuger lo giudicio temporale che deponestivo in materia
dal Santo Officio, et confermassi l'esamina fatta, et à questo
modo si daria satisfatione à questi Signori, ciò e, al Advocato
fiscale di Calabria, et saressi forzato di andare in Roma per
ordine del Santo officio, Et questo detto si appartorno un poco da
me che io non potesse udire et raggionorno quasi mezza hora
secretamente che non udii, mà dopò frà Gio. Battista mi disse che
il Compagno non havea parlato solamente come da se, mà mandato dal
Padre visitatore à posta per persuaderlo à quanto hò ditto di
sopra". Ed interrogato d'ufficio dichiarò ancora: "frà Gio.
Battista disse così confusamente per che io non volsi sapere quel
che havea deposto, che esso si era esaminato avanti don Carlo
Ruffo, et che era molto attimorato, è mi giurò sopra li ordini che
lui tiene, che delle cose che lui havea deposto, non ne sapeva
niente, et che si Dio li faceva gratia di venire in buona sanità,
che alhora havea certi discensi molto fastidiosi nelle braccia,
voleva morire in una corda per mantenere la verità, essendo che
quello che haveva detto non era la verità, et à questo niuno altro
fù presente perche noi doi soli eravamo in quello carcere" (troppe
confidenze). Intorno alle sevizie da parte del Visitatore e
compagno dichiarò, che al Petrolo esaminato da fra Cornelio,
"perche non disse come voleva esso, li levò il ferrarolo, et il
cappello essendo alhora in habito secolare nel quale era stato
preso, et lo fece tornare alla carcere che pareva un pescatore, et
io lo viddi senza cappello, e senza ferrarolo, per il che mi mossi
à dimandarli perche non havea il cappello, et il ferrarolo, et
esso mi racontò quanto hò ditto". Intorno al Caccìa, disse che "fu
tormentato à tempo che havea la febre, et l'Avocato fiscale fece
venire un medico, il quale dubitando di non essere carcerato,
disse per quanto si è inteso che si li poteva dare la corda".
Dichiarò per altro non sapere che il Visitatore e compagno vi
fossero intervenuti, ed aggiunse: "quando questo Gio. Thomaso
Caccìa et Gio. Battista Vitale furono giustitiati io mi trovai
presente su le galere, et questi doi publicamente dissero, havendo
anco chiamato prima l'Avocato fiscale, è li padri dela Crocella,
et Maestro Cesare Pergola franciscano che era passiggiero, che
quanto havevano detto contra di loro nelli tormenti, poiche non
voleva credere detto fiscale che fusse mentita, è falsità, e
perciò si contentavano di morire; mà in quello che toccava li
altri dichiaravano che quanto havevano detto tanto in materia di
ribellione come del Santo officio tutto era falsità, è fecero
instantia che ne facesse fare atto publico, mà esso non volse"
(dichiarazioni evidentemente troppo larghe, estese anche alla
congiura, della quale lo stesso Di Francesco era stato almeno
persecutore; in quanto al Pizzoni poi testimonianze di accusa, non
di difesa). E così ebbero termine gli esami difensivi pel Pizzoni.
Ecco ora gli esami informativi sulla pazzia del Campanella, che si
fecero contemporaneamente agli anzidetti, in due sedute, il 6 e il
15 novembre, ad istanza del suo procuratore. Senza dubbio vi erano
state da parte de' Giudici sollecitazioni per procedere alle
difese del Campanella, poichè il Dello Grugno era entrato in
funzione non prima del 31 ottobre, e ben presto fu presentata una
comparsa scritta chiedendo un'informazione sulla pazzia; onde con
appena sei giorni d'intervallo le si diè principio(231). La
comparsa, che trovasi inserta nel processo, non reca il nome di
chi la scrisse, ed è redatta in latino ne' seguenti termini che
diamo tradotti: "Innanzi agl'Ill.mi e Rev.mi Signori giudici
delegati dal Santiss.mo S.r N.° nella causa di fra Tommaso
Campanella dell'ordine dei predicatori carcerato nelle carceri del
Castel nuovo, comparisce il procuratore dello stesso e dice, che
il detto frate, da alcuni mesi in quà, è stato ed è in manifesta
demenza, è stato ed è privo totalmente d'intelletto, siccome è
apparso ed evidentemente apparisce dalle sue parole e da' suoi
gesti, poichè a modo dei matti sempre ha detto e continuamente
dice parole risibili, non a proposito, stravaganti; e però che non
si possono fare per lui difese intorno alle cose delle quali
trovasi inquisito, mentre a volerle fare bisognerebbe cavarle
dalla bocca sua. Laonde chiede gli si conceda un termine
conveniente per provare la predetta demenza, e frattanto si
sospenda ogni cosa, premessa la protesta di non decorrenza del
termine concesso per le difese..." etc. I Giudici diedero
immediatamente corso alla dimanda, e cominciando dal carceriere
esaminarono dieci testimoni, de' quali poterono aver notizia da'
primi esaminati. Dobbiamo anche dire che nella prima seduta
intervennero il Vescovo di Termoli, il Vicario Arcivescovile di
Napoli e l'Auditore Antonio Peri (il Nunzio era pur sempre
occupato in altre faccende), e nella seconda seduta raccolse gli
esami il solo Notaro e Mastrodatti Prezioso per mandato dei
Giudici. Daremo con tutta la larghezza possibile le cose raccolte,
poichè esse non solo addimostrano la vita, almeno la vita
apparente, del povero filosofo, ma anche rivelano le sue vedute e
le sue tendenze in questo periodo molto importante della sua
prigionia.
Il 6 novembre Alonso Martinez, carceriere, esaminato disse avere
più volte parlato al Campanella, che gli avea risposto sempre
"spropositatamente", e narrò come l'avea trovato la prima volta
pazzo nel giorno di Pasqua, col letto bruciato e la prigione piena
di fumo, giacente a terra e poco dopo furioso al punto da
esserglisi avventato contro per morderlo; tutte le circostanze già
da noi dette altrove (ved. pag. 86). Interrogato se credesse che
simulava la pazzia per isfuggire le pene forse dovutegli, rispose,
"à giudicio mio il Campanella è pazzo". Indicò lo Spinola, il
Castiglia, il Contestabile, il Grillo, tra coloro che potevano
essere esaminati sull'incidente. - Giuseppe Grillo disse non avere
parlato al Campanella, ma averlo visto quando il carceriere andava
a dargli da mangiare; narrò che "diceva parole spropositate, è che
voleva fare la bibbia, è la Cruciata, et pigliava le scarpe, è
quando altra cosa, et faceva cose da pazzo". Indicò come contesti
il Salerno, il Ricciuto, il Marrapodi, lo Stanganella, il Tirotta:
interrogato se credesse che era finto pazzo, rispose crederlo
"pazzo vero, perche la fintione in tanto tempo saria scoperta". -
Cesare Spinola disse: "io hò visto et parlato col Campanella molte
volte, secondo l'occasioni, et sempre hà parlato
spropositatissimamente, et io alle volte ci hò posto pensiero
particolare per vedere si era cosa finta ò reale questa sua
pazzia, et in somma à mio giudicio è pazzo per le cose che l'hò
sentito à dire, è dice che aspetta il Papa, et l'indulgentia per
la cruciata, che bisogna che il Papa sia Monarcha, et à me diceva
che mi voleva fare Confaloniero della Cruciata, mà con patto che
io dovesse digiunare quaranta giorni, et quaranta notti"! (non
poteva riuscire più esplicito). - Giulio Contestabile disse:
"dicono che frà Thomaso Campanella sia pazzo, è così quando il
carceriero li porta da mangiare sono andato à vederlo et sentire
li spropositi che lui diceva, non che io l'habbia parlato in
secreto ne di cose particolari"; inoltre, "dalle cose che lui ha
ditto è fatto io lo giudico per pazzo, e potrebbe essere che lui
simulasse, mà però dagli effetti lo giudico pazzo" (sempre
riservato e cinto di cautele; era compatriotta del Campanella e
clerico). - Marcello Salerno disse: "sempre dice parole al
sproposito, et hier sera cercando del pane da noi altri carcerati,
et non havendo, esso Campanella disse, questi diavoli di soldati
che hò mandato alla Cruciata tutto se lo mangiano..; subito
cominciato una cosa passa in un'altra...; io per quello che hò
visto lo giudico pazzo". - D. Francesco di Castiglia disse: "io hò
udito frà Thomaso Campanella parlare dalla porta della priggione,
quando si li dava da mangiare, et anco dala finestra, è li
raggionamenti suoi sono stati sempre mai spropositati, et io hò
posto particolar cura per farlo parlare alcuna cosa à proposito in
materia di filosofia, ò in altra cosa curiosa, et esso sempre
risponde, di fare la Cruciata, et che spetta (intend. aspetta) sua
Santità, è dalla fenestra cominciò à dimandare il populo che
andava à vedere ad impiccar uno, è diceva che li voleva dare il
confalone dela cruciata che faceva, è milli altri spropositi..;
l'animo suo non lo posso giudicare, ma dico bene che le parole
sue, et atti sono da pazzo, ne mai l'hò potuto cavare da bocca
cosa al proposito, et quando ultimamente li fù data la corda si
lamentava che li forausciti l'havevano robbato trenta carlini, et
l'havevano battuto assai in milli modi, senza dir parola che li
fosse stata data la corda per ordine delle Signorie Vostre".
Il 15 novembre furono dal Prezioso esaminati i rimanenti
testimoni. Gio. Angelo Marrapodi disse: "molte volte io hò udito à
parlare fra thomase Campanella dentro le carceri dove stà, et il
parlare suo è al sproposito dicendo delle parole spropositate, et
parla pazzescamente, perche comincia a dire una cosa, et lassa
quel parlare, et entra in altre parole..; lo tengo per pazzo come
è tenuto dali altri..." - Gio. Battista Ricciuto disse: "da che si
è ditto che frà thomaso Campanella sia pazzo, io con curiosità più
volte lhò parlato, et anco inteso quando altri li hanno parlato, à
tempo che il carceriero hà aperto la porta dela carcere dove stà
per darli da mangiare, et ogni volta che hà parlato con altri hà
parlato molto spropositatamente come soleno parlare li pazzi, et
quando io, ò altri lhavemo dimandato qualche cosa non ha risposto
à proposito, uscendo à diversi raggionamenti, che non ci era
proposito, et hò visto che quando parla fà atti di pazzo, non stà
fermo in un loco dela carcere, mà passeggia, è si hà soluto
affacciare alla fenestra dela sua carcere, è chiamare dicendo ò
Jaconi del convento, che si fà, venete quà che ci mancano cavalli,
è dice che vole fare lo confaloniero, et che vole fare la
cruciata, et chi vole fare capitano, è chi alfieri, è sargente
maggiore, et che il Papa lhave scritto che metta in ordine li
cavalli, e li soldati, tal che sempre lhò inteso parlare al
sproposito, e fuori di raggione come soleno parlare li pazzi, et
dicontinuo dice di simili cose, et quando parla fa molti segni con
la bocca, è con li occhi, et con le mani, et alle volte piglia lo
terreno dall'astraco dela carcere, è la butta in faccia di quelli
che li parlano, et quando piglia li suoi scarponi che porta in
piedi, è con quelli dà, et sequita quelli che sono ne la sua
carcere...; da tutti quà in castello è tenuto per pazzo... et à
giudicio mio dico che è pazzo, che si non fusse tale qualche volta
parlaria al proposito". - Marco Antonio Stanganella, oltre le
solite cose, disse: "alle volte salta, alle volte gioca di mano ad
alcuno, e con li suoi scarpuni dà à quelli che li parlano, e li
tira mò ad uno, et mò ad un altro, et alle volte hà detto che
aspetta il Papa, e che voleva far confaloniero il Sig.r Cesare, et
alle volte si accosta ala fenestra dela sua carcere, è gridando,
dice ò Jaconi Jaconi del convento mettetivi in ordine che viene il
Papa, e così sempre io lhò visto fare atti al sproposito, è
parlare al sproposito...; è tenuto da tutti li carcerati per
pazzo, ed anco da altri che vengono in castello che lo sentono
parlare, et io lo tengo per pazzo". - Da ultimo Tommaso Tirotta
disse: "sempre vole parlar esso, et hà udito che ha detto parole
al sproposito, et dice che vole fare la Cruciata, et che aspetta
il Papa, et diceva ò là scopati bene, acconciati le stantie per il
Papa, et che have tanta migliara di cavalli, et vole fare soldati,
et che vole fare confaloniero il Sig.r Cesare Spinola che stà quà
carcerato, et à me disse una volta che mi voleva fare artiglieri,
che havesse cura dell'artegliarie, et chiama li Jaconi del
convento, et per nome sole chiamare frà Giovannello, e fra luca, e
fra nicodemo, e sole chiamare Scannaribecco(232), e così di
continuo hà parlato, e sole menare à quelli che li parlano terreno
in faccia, li scarpuni che porta in piedi, et và saltando per le
carceri, e fà altri atti al sproposito, et parla
spropositatamente, giusto come li pazzi, et quando ebbe la corda
quà ultimamente, non si lamentava dela corda, ma diceva solo che
li forasciti lhavevano tirato delle archabusciate, e dato delle
bastonate, e che ne voleva scrivere al Papa, et mai hà parlato ne
risposto à proposito, et hieri per ultimo lo viddi e fece il
medesimo...; a giudicio mio lo tengo per pazzo, et così è tenuto
dalli altri, et in quanto à me non lo posso passare per sapio,
mentre parla al sproposito e risponde al sproposito, e fatti atti
(sic) spropositatamente, come ho ditto". - Adunque tutti e dieci i
testimoni affermarono che il Campanella era realmente pazzo; quasi
tutti poi affermarono la sua mira verso il Papa, che doveva essere
Monarca secondo la testimonianza dello Spinola, che doveva fare la
Crociata secondo la testimonianza della massima parte; e si
conosce che questo disegno della Crociata era una delle idee fisse
di Clemente VIII, e si comprende che essa conveniva molto al
Campanella accusato di connivenza col Turco. I carcerati
accorrevano presso di lui quando il carceriere ne apriva la
prigione, e così pure coloro i quali solevano venire a visitare i
carcerati, per la curiosità di vedere il pazzo.
Esauriti gli Atti pe' tre inquisiti principali, si sarebbe dovuto
passare a quelli per gli altri frati; ma per essi non si fece
nulla. Probabilmente i Giudici ritennero che le difese di costoro
si trovavano incluse in quelle de' principali; tuttavia non ne
abbiamo veramente alcuno indizio. Abbiamo soltanto una comparsa di
fra Pietro di Stilo, il quale, col suo squisito buon senso,
esponeva "che li giorni passati essendoli stati à bocca dichiarati
dal Sig.r Avvocato Scipione Stinca alcuni capi sopra li quali li
fu da quello, come anco dalle SS.rie V.re detto che si volesse
difendere.... hà risoluto, conoscendo penitus la sua innocentia
sensa niuna culpa, renuntiar dette sue defese... havendo per rato,
fermo, et valido quanto faranno le ss.rie loro". Ciò in data 17
novembre, vale a dire immediatamente dopo terminati gli Atti pe'
principali.
Nello stesso giorno 17 novembre una copia degli Atti, formata a
misura che essi si compivano, fu inviata con una lettera del
Vescovo di Termoli al S.to Officio di Roma, secondochè rilevasi da
un'annotazione inserta nel processo originale ed anche da una
lettera del Nunzio al S.ta Severina in pari data(233). Certamente
insieme con la copia degli Atti dovè essere inviata anche una
copia de' documenti che fra Dionisio avea presentati, e così pure
de' documenti che aveva indicati e che il Vescovo di Termoli si
era dato a raccogliere con la più viva premura. Il Vescovo avea
raccolto dall'altro tribunale la copia dell'indulto concesso al
Soldaniero e a Valerio Bruno da Carlo Spinelli per opera di fra
Cornelio, le copie dell'esame del Pizzoni, delle confronte del
medesimo Pizzoni col Campanella e con fra Dionisio, del primo e
secondo esame del Petrolo, delle cartoline trovate sulla persona
del Campanella quando ebbe il tormento del polledro; e così ci
sono pervenuti questi preziosi documenti inserti nel processo
dell'eresia(234). Egli aveva chiesto pure una copia delle lettere
inviate dal Lauriana a fra Dionisio, che avrebbero dovuto trovarsi
egualmente nel processo fatto dall'altro tribunale; ma, come si
rileva da quanto ne scrisse a Roma e fu rammentato ne' Sommarii
de' processi, le lettere non vi si trovavano ed erano state forse
perdute. Aveva inoltre chiesto il Breviario del Pizzoni, che
recava la corrispondenza scritta tra esso Pizzoni e il Campanella,
ed ebbe a sapere che questo Breviario nemmeno si trovava ed era
stato sicuramente perduto. Non potendo rassegnarsi a questa
perdita, il buon Vescovo pensò allora di rivolgersi a fra Dionisio
medesimo, dimandandogli a nome del tribunale una relazione
particolareggiata sulla faccenda del Breviario; e la relazione,
trascritta da fra Pietro Ponzio, venne anch'essa inserta nel
processo tra' documenti a difesa di fra Dionisio(235). Diciamo qui
di passaggio che molto più tardi a questa massa di documenti fu
aggiunta anche una fede di alcuni frati carcerati, compreso il
Lauriana, e di alcuni laici, attestanti che il Pizzoni più volte,
e segnatamente tre giorni prima della sua morte, avea dichiarato
di essere debitore di fra Dionisio degli scritti dell'Apocalisse
da lui presi (confessione del furto fatto) del valore di D.i 10,
come pure di D.i 4 avuti in prestito, commettendo al Lauriana di
notificare a fra Dionisio dove si trovavano le sue robe in
Calabria acciò sopra quelle fosse soddisfatto; inoltre, sempre più
tardi, una fede del clero di Fiumefreddo, attestante le ottime
qualità di fra Dionisio dimostrate due volte in quel paese con la
predicazione cattolica, la bontà della vita e il fervore di
carità, e questa fede potè essere inserta solamente nel 4° volume
del processo. Aggiungiamo pure che il Vescovo di Termoli provvide
che fosse interrogato di ufficio fra Pietro Ponzio sulla asserta
domanda di perdono fattagli dal Lauriana in Gerace, ed egualmente
che fosse istituita una perizia calligrafica sulla lettera che era
stata presentata come scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio; e
furono questi gli ultimi Atti processuali complementari, che si
fecero durante la commissione tenuta da quel rispettabile Prelato.
Il 21 novembre, d'ordine de' Signori Giudici, il Prezioso riceveva
in Castel nuovo la deposizione di fra Pietro Ponzio(236), il
quale, con molte particolarità e citando i testimoni, espose la
comunicazione fattagli dal Lauriana in Gerace nella carcere detta
la Marchisa; l'inquietudine da lui mostrata perché si trovava "in
mano del diavolo" avendo deposto molte falsità in materia di S.to
Officio contro fra Dionisio e il Campanella, ad istanza del
Pizzoni e parimente del Visitatore e compagno dietro minacce e
promesse; la determinazione del Lauriana di volersi ritrattare con
la dimanda del come dovesse procedere, e il rifiuto fattogli da
esso fra Pietro di volersene occupare, per non trovarsi intrigato
in queste faccende dubitando di commettere errore; la consegna di
una lettera scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio per dimandare a
costui il consiglio rifiutatogli da esso fra Pietro, e l'invio di
detta lettera al suo destino; la non avvenuta ritrattazione del
Lauriana in Gerace per paura dello Spinelli e dello Sciarava, e la
dimanda di perdono avuta da lui in tale occasione; la nuova
comunicazione fattagli in Napoli di volersi ritrattare, con
l'invio di un'altra lettera a Ferrante Ponzio, la quale ultima
lettera era stata presentata nella causa della congiura, mentre la
prima, passata nelle mani di fra Dionisio, era stata presentata
nella causa dell'eresia.
Il 3 e 4 dicembre furono raccolte le deposizioni di due periti
calligrafi su questa lettera dal Vicario napoletano Ercole Vaccari
"congiudice" nella Curia Arcivescovile. Gio. Antonio Trentacapilli
"scrittore" disse che "essendo prattico, et versato nel scrivere
diverse sorte di lettere cossi cancellaresche, come tonde, et
corsive, potria conoscere per qualche similitudine di tratti, e di
sillabe et di ligature di sillabe, et conietturare si fussero
scritte da una mano istessa"; e mostratagli la lettera del
Lauriana in data di Gerace 10 ottobre 1599 ed alcune
sottoscrizioni del Lauriana medesimo agli Atti processuali, disse:
"fatta la comparatione da lettera à lettera, da sillaba à sillaba,
da tratto à tratto, e da carattere à carattere della lettera, et
sottoscrittioni di fra Silvestro da Lauriana, dico che la sudetta
lettera è stata scritta con inchiostro bianco, et con penna
accomodata sottile, et le sottoscrittioni... sono state scritte
con inchiostro più negro, et con penna accomodata più grossa, et
per tale differentia non si può conoscere chiaramente che siano
scritte di una istessa mano, però come esperto et al mio giudicio
giudico et dico che alcune lettere delle sottoscrittioni... hanno
similitudine in parte colle lettere della sottoscrittione della
lettera sudetta". - Di poi Alfonso Peres esercitato in tenere la
scola di scrivere et di abbaco", interrogato, egualmente, col
formulario medesimo conchiuse: "dico et confermo come esperto et
prattico di diverse sorte di lettere scritte à mano, che tanto la
sottoscrittione che stà in piedi di dette lettere... come anco le
sottoscrittioni che dicono lo frà Silvestro de lauriana hò deposto
ut supra sono state et sono scritte da una stessa mano". Così
mentre uno de' periti rimaneva in dubbio, l'altro affermava che la
lettera in quistione era veramente del Lauriana.
Dopo tutto ciò non sapremmo dire quale fosse stata, intorno a'
meriti della causa, l'opinione formatasi dal Vicario Arcivescovile
e dall'Auditore del Nunzio, mentre della persona stessa del
Nunzio, tenutasi così a lungo lontana, non accade dover parlare
per ora; ma in quanto al Vescovo di Termoli sappiamo benissimo che
rimase sempre più perplesso e dubbioso, né soltanto sull'eresia,
ma di rimbalzo anche, e maggiormente, sulla congiura; lo sappiamo
da' cenni della sua corrispondenza con Roma, inserti negli ultimi
Sommarii del processo compilati in Napoli, e parimente da un brano
di lettera del Nunzio scritta più tardi. Il Nunzio, in una
circostanza in cui ebbe a parlare di fra Marco Visitatore, disse
di sapere che costui "era mal sodisfatto del Vescovo di Termoli...
per l'opinione che teneva, et se ne lasciava intendere, che
l'essamine fatte da lui et da fra Cornelio in Calabria fussero
state fatte più per sodisfattione de Ministri Regii che per la
verità"(237); e realmente anche più di questo troviamo ne' cenni
delle lettere scritte dal Vescovo a Roma, de' quali è tempo oramai
di tener parola. Abbiamo già avuta altrove (vedi pag. 126)
occasione di dire che il Vescovo diede continuamente ragguagli al
Card.l di S.ta Severina di ciò che veniva rilevando negli esami
de' frati, e di ciò che gli riusciva di sapere anche per vie
estragiudiziarie: così il 19 maggio, due giorni dopo che il
Campanella erasi nell'esame mostrato pazzo, diè ragguagli su
questa pazzia, sulle ragioni che l'aveano fatta nascere, su'
motivi che c'erano per crederla simulata, sulla necessità di
adoperare la tortura. Egualmente intorno al Pizzoni, mostratosi
con la spalla lesa, fece conoscere che era rimasto storpio per la
tortura avuta nell'altro tribunale; intorno a fra Dionisio,
mostratosi anche impossibilitato a sottoscrivere i processi
verbali, fece sapere in qual modo atroce fosse stato tormentato.
né mancò poi di scrivere, "non sembra verosimile che fra Dionisio,
senza grande familiarità col Soldaniero giovane a 22 anni, avesse
voluto comunicargli tante eresie"; e d'altra parte, Aloisi
spagnolo già Fiscale in Calabria (lo Sciarava) mi hà detto, che
fra Gio. Battista da Pizzone non voleva confessare contro il
Campanella avanti il visitatore, ma che esso li disse non hai tu
detto la tale, è tale cosa d'heresia? et che all'hora testificò".
Ancora non mancò di far sapere che "quando Cesare Pisano fu
esaminato, il 19 ottobre 1599, già il Campanella era carcerato". E
circa il processo di Calabria scrisse senza esitazione: "questo mi
pare malissimamente fondato, et primo per quel che spetta à tutto
il processo non si vede fondamento alcuno, et quella scrittura,
che è stata posta inanzi al processo (l'elenco delle 36
proposizioni ereticali), è un compendio fatto di tutto il processo
dopo che è stato finito, come mi hà detto à bocca frà Cornelio e
dalla scrittura istessa appare". Circa poi la congiura fece sapere
avergli fra Cornelio detto "che Fabio di Lauro di anni 20 fu il
primo che gli rivelò il capitolo della ribellione, il quale Fabio
riferì ad esso Vescovo medesimo avergli fra Dionisio manifestato
che il Papa voleva il Regno di Napoli e molte altre cose
inverosimili, dalle quali si desume essere il primo fondamento di
tale Ribellione molto tenue anzi falso". Non mancò nemmeno di far
rilevare la nessuna delicatezza de' primi Giudici scrivendo: "si
fecero dar molti denari per provedere à questi carcerati et non
gli è stato provisto, mà frà Cornelio li ha spesi in venir à Roma,
et si come intendo ne diede conto alli superiori in
Calabria"(238). Passando al processo di Napoli e toccando i fatti
accaduti prima del suo arrivo, fece conoscere che le due lettere
scritte dal Lauriana a fra Dionisio circa l'esame fatto in
Calabria, e sorprese da' carcerieri, non si trovavano nel processo
della congiura, e che D. Pietro De Vera gli riferì che erano state
forse perdute giacchè erano state portate al Vicerè"; e così pure
che il Breviario in cui si conteneva la corrispondenza del Pizzoni
col Campanella nemmeno si trovava, come "gli riferì il notaro
della causa", aggiungendo che del pari "D. Pietro De Vera gli
disse che il detto Breviario era stato perduto, giacchè dato al
Vicerè ed all'Arcivescovo di Taranto" (fratello confidente del
Vicerè); le quali ultime notizie su' danari di Calabria, sulle
lettere e sul Breviario, in fondo venivano a mostrare tutta
l'incuria del Nunzio, al quale, e come Nunzio e come Giudice della
causa della congiura, incombeva l'obbligo di guardare alle cose
de' frati con ogni diligenza. La conclusione del Vescovo presso il
Card.l di S.ta Severina fu questa: "i frati carcerati debbono
essere tradotti alle carceri del S. Officio in Roma per cavarne la
verità"; e su tale conclusione insistè anche con altre lettere,
scrivendo: "questi rei non furono ben difesi, perché furono
perdute due lettere e il Breviario di cui diè notizia fra Dionisio
Ponzio, e perché non fu trovato un Dottore che avesse voluto
scrivere in dritto a favor loro, e credo che in questa causa i
testimoni habbiano deposto per isfuggire il foro secolare, per li
essempi quotidiani che havevano avanti all'occhi, il qual timore
si vede che persevera in essi mentre sono nelle forze de i
ministri Regii, ma tengo per cosa certa che se fussero fatti
venire à Roma si scopriria la pura verità dei negocii passati, et
parmi apunto che questo negocio sia simile a quello di
bitonto"(239). Aggiungiamo che il Vescovo trasmise pure a Roma un
memoriale di fra Dionisio intorno alla causa della congiura,
concepito negli stessi sensi. Il memoriale, di cui ci dànno
notizia egualmente i Sommarii de' processi, era diretto a S. S.tà,
e fra Dionisio vi diceva essere innocentissimo tanto per l'eresia
quanto per la ribellione, credere di averlo abbastanza provato per
l'eresia, ma dubitare di poterlo pienamente provare per la
ribellione allegando le molte ingiustizie patite da parte de'
Ministri Regii, a' quali importava grandemente che non si
scovrisse la sua innocenza, e il non aver potuto trovare un
procuratore che non gli fosse sospetto. Faceva conoscere che molti
condannati all'ultimo supplizio aveano disdette le cose deposte
contro gli altri tanto in materia di ribellione che di fede, ma i
Ministri Regii aveano proibito che si mettesse in iscritto qualche
cosa intorno a ciò; esponeva la crudelissima tortura avuta e le
inumanità sofferte in sèguito; conchiudeva supplicando il SS.mo si
degnasse comandare che gli fosse data opportuna facoltà di potersi
legittimamente difendere, che fosse rimosso dalle carceri secolari
e tradotto nelle ecclesiastiche poichè in tal modo avrebbe potuto
difendersi, che la causa della ribellione non fosse spedita sul
processo sin'allora fatto come nullo ed invalido, appellandosi al
SS.mo e protestando della nullità di tutta la causa e di
qualsivoglia Atto di essa.
Senza alcun dubbio i frati non avrebbero potuto avere un Giudice
più del Vescovo di Termoli benigno verso di loro, pur essendo ad
un tempo severo applicatore della giurisprudenza inquisitoriale.
La sua benignità emerge da tutti gli esami fatti e rifatti con
tanta diligenza, e massime dalle diverse sue dimande d'ufficio
rivolte agl'inquisiti; ma rifulge straordinariamente nel giudizio
che si permise di enunciare intorno alla congiura, e nella
conclusione alla quale si dichiarò pervenuto intorno a tutta la
causa. Egli giudicò il primo fondamento, su cui era stata poggiata
la faccenda della congiura, "molto tenue, anzi falso", ciò che per
altro disse unicamente a riguardo delle ciarle che Fabio di Lauro
riferiva essergli state manifestate da fra Dionisio, e ci preme
assai che non rimangano equivoci su tale punto; ma il vedere quel
fatto messo in rilievo da lui, che non aveva l'obbligo di
occuparsene, mostra bene qual fosse l'animo suo verso
gl'inquisiti. E sempre meglio ancora lo mostra la conclusione da
lui palesata, che cioè i rei dovessero essere tradotti nelle
carceri di Roma, sottratti al terrore delle forze de' Ministri
Regii, "che se fossero fatti venire a Roma si scopriria la pura
verità de i negocii passati"; con la quale conclusione egli non
disse già que' frati innocenti, degni di essere liberati, ed anche
qui ci preme che non rimangano equivoci, ma accolse appieno i
desiderii loro, i desiderii adombrati da fra Dionisio nel suo
memoriale e abbastanza apertamente espressi anche dal Campanella,
che nella sua pazzia e durante la tortura gridava "al Papa al
Papa, quà bisogna che venga il Papa". Senza dubbio il Vescovo di
Termoli, ignaro de' riguardi e delle transazioni abituali tra le
due Corti, onde talora giungevasi fino a conculcare la giustizia e
a sacrificare gl'innocenti, non teneva conto delle difficoltà che
si opponevano all'adempimento della sua conclusione; dovea quindi
di necessità trovarsi in un ordine d'idee ben diverso da quello
del Nunzio, che già abbiamo visto esclusivamente tenero della
buona amicizia tra il Papa e il Vicerè, condiscendente alle
richieste Vicereali purchè si salvasse l'apparenza, incurante non
solo degl'interessi degl'imputati ma perfino del buono andamento
della giustizia verso di loro, e, come vedremo in sèguito, censore
singolarissimo dell'opera del suo collega, ciò che per certo
rappresenta il migliore elogio di costui. Animato dal puro e
semplice amore per la verità, il Vescovo di Termoli dovea sentirsi
imbarazzato vedendo quante circostanze aveano concorso ad
ottenebrarla, la prepotenza ed immanità de' Giudici Regii, la
nequizia de' primi Giudici ecclesiastici, la ferocia degli odii
frateschi, lo spirito di profitto da una parte, la sete di
vendetta dall'altra, il terrore incusso agl'inquisiti da tutti i
lati; e dovea soffrirne pure non poco, amiamo crederlo, per quel
sentimento di affetto che il Campanella avea saputo da lungo tempo
ispirargli, e che se non giunse mai a farlo deviare un solo
momento da' suoi doveri d'Inquisitore, lo rese certamente sempre
più caldo nella ricerca della verità. Ma la morte venne a
toglierlo da tanta inquietudine, e venne anche a togliere a' frati
inquisiti l'unico sostegno, su cui potevano contare nella loro
infelice condizione.
III. L'anno 1601 s'iniziava con tristi auspicii pe' poveri
frati. Il 1° gennaio il Vescovo di Termoli moriva nel convento di
S.ta Caterina a Formello, presso la porta Capuana, convento del
suo ordine, in cui si era negli ultimi mesi recato, abbandonando
quello di S. Luigi, e il 2 gennaio era sepolto nell'attigua Chiesa
di S.ta Caterina. Nessuna memoria speciale ricorda il buon
Prelato, ma in una lapide posta non lungi dalla sacristia,
rilevata dall'Engenio(240) e poi, a quanto pare, dispersa, si
leggevano i "Nomi e Cognomi dell'Illmi Cardinali, e Rev.mi
Arcivescovi et Vescovi che sono sepolti in questa venerabil
Chiesa, come quivi di sotto sono scritti, e la maggior parte sono
sepolti con li Padri sacerdoti", e l'ultimo dell'elenco, l'11°,
era "il Rev.mo Maestro Alberto di Firenzuola del medem' ordine
Vescovo di Termoli, morì à 3 di Gennaio 1601" (sic). Le
circostanze della sua morte ci sono interamente ignote finora. Nel
Carteggio del Nunzio una lettera del 3 gennaio, dopo notizie di
tutt'altro genere, reca anche questa: "hieri si diede sepoltura al
Vescovo di Termoli in S.ta Caterina à Formello, dove si era
ritirato come frate di quella Religione di S. Domenico"(241); né
si trova una parola sola di chiarimento e anche meno di compianto
per la perdita del collega Giudice in una causa di tanto rilievo!
La Narrazione del Campanella poi, a proposito di questa morte,
reca qualche parola che ha tutto l'aspetto di una insinuazione,
oltre le solite affermazioni spinte che il Campanella sapeva ben
trovare a sua difesa: "Sendo per la causa del S. Officio venuto
dal Papa per Commissario il Vescovo di Termoli M. Alberto
Tragagliola, e si scoperse la falsità del processo di ribellione
per le molte ritrattation che fur fatte dalli testimoni vivi e
morendo; e per le contradittioni, e sconvenienze, e manifeste
scolpationi dell'heresie trovate per schifar la pena della finta
ribellione, el detto Vescovo si fè intendere, che volea liberar
tutti, anche che il Vicerè e Fiscali con promesse e minacce lo
voleano levar di questo proposito, e venne a morte, Dio sà perché,
e disse morendo "mi dispiace ch'io moro, e non ho liberato questi
frati" e lo scrisse al Papa". Adunque la morte del Vescovo sarebbe
stata forse procurata nientemeno che dal Vicerè e da' fiscali: ma
nulla veramente autorizza ad accogliere un sospetto sì grave, né
quel Vescovo avea propriamente scoperta la falsità del processo
della congiura, il quale trovavasi fuori la sua ingerenza, né
volea propriamente liberare tutti i frati; e se avesse scritto al
Papa in questo senso, i Sommarii de' processi ecclesiastici non
avrebbero mancato di riferirlo. Ben potè rincrescergli che morendo
rimanevano i frati senza alcuno appoggio; e dal complesso delle
affermazioni del Campanella deve anche conchiudersi che il Vescovo
effettivamente non faceva un mistero assoluto delle opinioni che
su que' negozii si avea formate, e "se ne lasciava intendere",
come il Nunzio scrisse più tardi a Roma.
Naturalmente un'interruzione si verificò nel corso del processo,
non solo perché dovè sostituirsi un nuovo Giudice al Vescovo di
Termoli, ma anche perché doverono in Roma studiarsi gli Atti
processuali fin allora compiuti per mandare a Napoli istruzioni su
quanto rimanesse a farsi ulteriormente. E frattanto il Governo
Vicereale raddoppiò le sue insistenze, perché si terminasse una
volta la causa dell'eresia, e si potesse così spedire quella della
congiura. Già abbiamo visto che fin dall'8 settembre, nel mandare
a Roma la copia del processo offensivo e ripetitivo, il Nunzio
avea partecipato le premure fattegli dal Vicerè e da' suoi
Ministri; ma dopo di aver mandata la copia anche del processo
difensivo, non cessò mai di sollecitare una risoluzione, e di far
conoscere le vive istanze dei Ministri Regii e de' "Deputati
insieme seco nella causa della ribellione", vale a dire anche di
D. Pietro de Vera certamente dietro doglianze del Vicerè. Così
nella lettera stessa di annunzio della morte del Vescovo di
Termoli, e in molte altre successive, del 19 e 26 gennaio, del 2,
16 e 23 febbraio e del 15 marzo, non si trova altro che una serie
di comunicazioni nello stesso senso, leggendosi: sono stato
sollecitato "né solo hora ma infinite altre volte per il passato,
si che hò havuto et hò che disputare"...; "vengo di nuovo
sollecitato molto per la speditione della causa de' frati"...;
"son di continuo molestato da questi Ministri Regii per la
speditione della causa della ribellione" etc.(242). Queste
lettere, non pubblicate dal Palermo, son rimaste ignorate; ma vede
ognuno quanta importanza esse abbiano per raddrizzare certi
giudizii molto inesatti, che sono stati proferiti sulla condotta
del Governo spagnuolo nella faccenda del Campanella.
Il 24 marzo (non maggio come fu letto dal Palermo) il Card.l di
S.ta Severina partecipava finalmente al Nunzio la risoluzione di
S. S.tà, che Mons.r Vescovo di Caserta intervenisse nella causa
del Campanella e complici "nell'istesso modo che faceva Mons.r
Vescovo di Termoli"; oltracciò l'ordine dato, dopo aver visti i
processi, di far nuove diligenze col ripetere alcuni testimoni ed
esaminarne altri, come pure di far "diligenze sopra la simulatione
della pazzia di esso Campanella" secondo che scriveva a lungo a
Mons.r di Caserta, il quale glie l'avrebbe comunicato(243). E nel
processo dell'eresia abbiamo appunto la lettera del Card.l di S.ta
Severina al Vescovo di Caserta; ma crediamo bene dar prima qualche
notizia sulla persona del Giudice, cui doveva oramai deferirsi
ogni cosa, come già al suo predecessore. - Vescovo di Caserta era
D. Benedetto Mandina, nato in Melfi di nobile famiglia. Aveva già
prima esercitato in Napoli l'avvocatura con un certo credito, e
poi, illuminato da un grave calcio di cavallo ricevuto ad una
gamba mentre cavalcava con gran sèguito di suoi clienti, era
entrato nella Congregazione de' Chierici regolari al convento di
S. Paolo nel 1583. Successivamente trasferitosi a Roma, perché
pure in S. Paolo era sempre consultato per faccende legali, gli
accadde la cosa medesima da parte delle diverse Congregazioni,
onde venne in credito tanto maggiore, e da Clemente VIII fu creato
Vescovo di Caserta nell'ultimo di gennaio 1594(244); poco dopo,
nel 1595, fu inviato come Nunzio in Germania, in Boemia, in
Polonia, presso Massimiliano, Rodolfo, Sigismondo ed altri
Principi, a' quali fece un'orazione nel convegno di Varsavia,
determinandoli alla lega contro i turchi e a quella guerra in cui
si ebbe la famosa rotta di Agria che abbiamo già avuta occasione
di ricordare a proposito del Bassà Cicala. Al suo ritorno, dopo la
morte di Mons.r Carlo Baldino Arcivescovo di Sorrento avvenuta nel
1598, gli fu affidata anche la carica di Ministro della S.ta et
Universale Inquisizione Romana nel Regno, e però, naturalmente,
avrebbe dovuto a lui esser commessa la causa del Campanella se fin
da principio si fosse trovato presente in Napoli. Tutti questi
elevati ufficii da lui tenuti, a' quali venne poi ad aggiungersi
anche la sopraintendenza della Chiesa Arcivescovile di Napoli dopo
la morte del Card.l Gesualdo, fanno intendere l'opportunità della
sua vocazione a Chierico Regolare, e fanno anche intendere la
profusione di lodi cantategli da' suoi biografi(245). Era
caritatevolissimo, generosissimo, giustissimo; lo si disse perfino
morto in concetto di santità come il P.e Beccaria (solo pel
Vescovo di Termoli non ci fu alcuno che sentisse il menomo odore
di santità). Erasi fin dal tempo del suo laicato "esercitato in
tutte le opere di carità nel sodalizio della SS.ma Trinità de'
Pellegrini al quale avea dato il suo nome"; la generosità ed
umiltà sua l'aveano ridotto al punto che si rappezzava le vesti da
sè medesimo etc. etc. Inoltre "nell'amministrar la giustizia era
innocentissimo", ma severo co' delinquenti, ed una volta, in
Caserta, gli fu dato il veleno nel vino con cui celebrava la
Messa, ed egli se ne avvide, e perdonando chiunque glie l'avesse
dato, se ne venne immediatamente a Napoli per curarsi. Da parte
nostra non ci saremmo permesso il menomo dubbio su così splendide
virtù, se non avessimo trovato fatti assolutamente opposti nella
trattazione della causa del Campanella e socii.
Ecco ora in breve quanto il Card.l di S.ta Severina scriveva al
Vescovo di Caserta nella stessa data 24 marzo; la lettera fu
inserta nel processo, iniziando con essa la serie degli atti
compresi nel 4° volume(246). Per ordine di S. S.tà egli doveva
intervenire nella causa del Campanella "con l'istesso modo, et
autorità che faceva il Vescovo di Termole", e però gli si mandava
una copia del Sommario del processo. Dovevano farsi alcune nuove
diligenze "co' testimonii tra' quali può essere contestura, à fine
di convincere il detto Campanella, poichè degl'inditii ve ne sono
assai", ma ciò nella diocesi di Squillace, dal Vescovo di quella
diocesi che allora trovavasi in Roma e presto se ne sarebbe
tornato; si erano quindi redatti in Roma alcuni articoli
addizionali per la ripetizione de' testimoni, e se ne mandava la
copia a Napoli per farli presentare in processo e darne
comunicazione legale al procuratore del Campanella, il quale
avrebbe redatti gl'interrogatorii da doversi fare sopra i detti
articoli e da doversi mandare a Squillace. Trovandosi carcerati in
Napoli due di que' testimoni, cioè Giulio Contestabile e Geronimo
di Francesco (e ben si vede che il S.ta Severina non conosceva la
condanna all'esilio già in corso pel Contestabile), dovevano
essere egualmente esaminati, ed anche ripetuti su' medesimi
interrogatorii ed articoli laddove avessero deposto cose
rilevanti. Infine dovevano pure per ordine di S. S.tà farsi le
diligenze necessarie per scoprire la simulazione della pazzia del
Campanella a questo modo: "che si faccia visitare da Medici più
volte, et poi si habbia il loro parere in scritti, et anco se gli
dia il tormento della veglia con quella circonspettione che parerà
conveniente per scoprire, et ritrovare questa simulatione di
pazzia". Tutte queste cose egli dovea comunicare a' suoi colleghi,
al Nunzio ed al Vicario Arcivescovile.
Mandava perciò il Card.l di S.ta Severina l'elenco delle diligenze
da doversi fare in Squillace e parzialmente in Napoli,
coll'indicazione de' testimoni da doversi esaminare e ripetere su
ciascuno de' fatti che si volevano provare; inoltre gli articoli,
ne' quali si trovavano espressi i più cospicui tra codesti
fatti(247). I testimoni erano parecchi. E dapprima fra Simone e
fra Dionisio di Placanica, e fra Domenico di Riace; questi erano
stati nominati da fra Gio. Battista di Placanica, siccome presenti
alle due affermazioni del Campanella, la fornicazione non essere
peccato, e la legge dei turchi essere migliore di quella de'
cristiani. Dippiù Tiberio e Scipione Marullo, Fulvio Vua, Gio.
Gregorio Prestinace, Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco,
Giulio Presterà, Francesco Bono, Fabrizio e Paolo Campanella, fra
Scipione Politi, tutti nominati dal Petrolo come coloro a' quali
il Campanella avea comunicate diverse eresie delle quali si dava
un ricordo. Dippiù altri ed altri ancora, nominati nel primo
processo del Vescovo di Squillace, siccome presenti alle
affermazioni del Campanella, del potersi salvare anche senza il
battesimo, del non esser valida la Messa celebrata da chi si
trovasse in peccato mortale. Infine anche D. Marco Petrolo,
nominato da Cesare Pisano come presente al sermone di fra Dionisio
nella casa di Gio. Alfonso Grillo; nella quale occasione poteva
esaminarsi anche Tiberio Lamberto che avea detto volere il
Campanella predicare una nuova legge. - Gli articoli, compilati
dal solito Procuratore fiscale Rev.do Giulio Monterenzio
bolognese, furono solamente quattro, attestanti avere il
Campanella osato affermare "etiam cum pertinacia", che non valeva,
e dava solo qualche vantaggio temporale, la Messa celebrata
essendo il sacerdote o l'instante in peccato mortale, che poteva
esservi salvazione senza battesimo, che non occorrevano tante
religioni di frati, le quali cose erano notorie nella diocesi di
Squillace e qua e là nella Calabria anche prima della carcerazione
del Campanella. Il fatto di maggiore importanza in questi articoli
fu la qualificazione della causa del Campanella, che venne detta
"di eresia e di relapso"; per la prima volta non si parlò più di
ateismo e si cominciò invece a parlare giudizialmente di relapso,
ciò che era ben più grave nelle sue conseguenze, come abbiamo già
avuta occasione di mostrare altrove(248).
Avuta la lettera e gli atti or ora indicati, il Vescovo di Caserta
recatosi dal Nunzio, secondochè ci fa sapere una lettera di costui
del 30 marzo(249), disse che per allora gli occorreva andare alla
sua Chiesa, ma sarebbe presto tornato per condurre a termine la
causa. Ed intanto si provvide che fin dallo stesso giorno 30 marzo
fosse data all'Avvocato assegnato al Campanella la copia degli
articoli addizionali, col termine di due soli giorni per produrre
gl'interrogatorii; e il 2 aprile, il magnifico Gio. Battista dello
Grugno, che questa volta si nominò, produsse 11 interrogatorii,
scritti nelle solite maniere, ma meno banali, più conducenti allo
scopo, e in diversi punti non senza un certo acume. P. es. a
proposito del non essere necessarie tante religioni, egli volle
che i testimoni dicessero se ciò era stato affermato nel senso che
non fossero necessarie nelle città, ovvero nel senso che non
fossero buoni mezzi di salute; a proposito del potersi salvare
senza battesimo, egli volle che i testimoni dicessero se ciò era
stato affermato parlando del battesimo in re, ovvero del battesimo
in voto. Del resto, come Atti riguardanti la persona del
Campanella, noi ci siamo creduti in debito di riportarli tra'
documenti, e i lettori potranno giudicarli(250). - Mettiamo qui,
per non intralciare la narrazione, che gli articoli del fisco
vennero subito mandati a Squillace, ma in ultima analisi non si
potè quivi conchiuder nulla, come ci mostrano due lettere del
Card.l di S.ta Severina, l'una al Nunzio scritta il 30 marzo,
l'altra al Vescovo di Caserta scritta parecchi mesi dopo(251). I
testimoni in generale probabilmente aveano fin perduta la memoria
di quelle proposizioni; parecchi tra loro e i più importanti, come
il Vua e il Prestinace, erano irreperibili, poichè si tenevano
nascosti per isfuggire i rigori del Governo; ed oltre a tutto ciò
fra non molto tempo, nel giugno di quell'anno, il Vescovo di
Squillace se ne morì, onde la Sacra Congregazione di Roma dovè
persuadersi che non c'era più nulla a sperare da quella via. Dalla
via di Napoli poi nemmeno si potè raccapezzare qualche cosa, e il
risultamento più certo dovè esser questo, che il Governo Vicereale
rimase tanto più sospettoso ed irritato per quelle lungaggini, le
quali doveano parergli tergiversazioni.
Il 7 aprile fu esaminato Geronimo di Francesco, uno de' due
testimoni da doversi interrogare in Napoli secondo le ultime
prescrizioni di Roma. Il Vescovo di Caserta si era già istallato
in Napoli, ciò che mostra in lui molta alacrità nel compiere
l'ufficio suo, e conosciamo che prese stanza nelle case di S.
Andrea delle monache, propriamente nel palazzo posto all'angolo
tra la via di Costantinopoli e quella della Sapienza. Aggiungiamo
che il Nunzio medesimo, al contrario di quanto avea fatto durante
la vita del Vescovo di Termoli, non mancò mai più alle sedute, o
almeno alle sedute riguardanti la trattazione dell'argomento
principale. Il di Francesco, interrogato, disse di conoscere molto
bene il Petrolo e il Campanella patriotti suoi, di aver trattato
poco col Petrolo, ma aver desiderato di far amicizia col
Campanella "per la nominata che sentiva di esso, di essere
litterato, et nominata di esser dotto": ma soggiunse che fu colto
da una infermità che lo tenne a letto cinque mesi, onde non potè
trattare con lui, e poi per un cattivo ufficio fattogli da esso
Campanella presso certi suoi parenti, al punto da metterlo in
questione con loro, gli divenne nemico. Dietro altre
interrogazioni, disse di non aver mai trattato da solo a solo col
Campanella, di avergli parlato una volta di cose comuni insieme
con fra Pietro di Stilo, di averlo un'altra volta visto "in sua
cella dove legeva di filosofia" essendosi lui fermato alla porta
senza parlargli, e di avergli forse qualche altra volta parlato in
piazza, senza ricordarsi di che, presenti Marcello Dolce, morto, e
Gio. Francesco d'Alessandria (che sappiamo nascosto e
forgiudicato; sempre testimoni irreperibili). Soggiunse di non
ricordarsi che in presenza sua il Campanella avesse mai parlato di
cose di fede. Con ciò manifestamente non v'era alcun luogo a
ripetizione, e gl'interrogatorii e gli articoli doveano mettersi
da banda. - Ci sarebbe stato da esaminare anche Giulio
Contestabile; ma non si sapeva nemmeno dove si trovasse, ed è
certo che, oltre un mese dopo questo al quale siamo pervenuti, il
Nunzio non era riuscito ad averne notizia, come rilevasi da una
sua lettera al Vescovo di Squillace(252).
Fu quindi sospesa la trattazione della causa, probabilmente con la
speranza di trovare la persona del Contestabile, ed anche con la
speranza di avere qualche risultamento dalle informazioni commesse
a Squillace. Scorsero così presso a poco due mesi senza far nulla,
e può intendersi con quanta mala soddisfazione del Governo
Vicereale: ma si verificarono in questo periodo di tempo diversi
avvenimenti, de' quali andiamo a dar conto. E dapprima furono
ripigliate le sedute dell'altro tribunale per trattare la causa
del clerico Marcantonio Pittella, che le forze Regie aveano
catturato nuovamente dopo la sua fuga: ma di questo, che non entra
nell'argomento attuale della nostra narrazione, discorreremo
altrove. Un avvenimento, da doversi qui ricordare, fu l'invio di
un memoriale di fra Pietro Ponzio a S. S.tà, per reclamare un
provvedimento intorno alla sua singolare posizione. Non ci è
venuto sott'occhio il testo del memoriale, ma ne abbiamo trovato
qualche altro consimile inviato più tardi dallo stesso fra Pietro,
che non cessò mai dall'inviarne; e in sostanza egli, non vedendosi
incriminato in nulla, chiedeva di essere giudicato, e non
trattenuto in carcere solamente perché germano di fra Dionisio. Il
Nunzio, cui fu trasmesso il memoriale dal Card.l S. Giorgio, con
sua lettera del 6 aprile rispose, esser vero che fra Pietro "fu
preso come fratello di fra Dionigi Pontio capo insieme con il
Campanella della pretensa ribellione, pretendendolo informato di
essa, et non havendo trovato contra di lui cosa di fondamento, si
sarebbe liberato con molti altri che si liberarono, se egli stesso
con i ragionamenti fatti di notte con il Campanella da certe
finestre non si fosse reso sospetto d'esser informato del tutto;
et perché questa causa della ribellione resta sospesa da quella
della Inquisitione, per questo non si è passato più avanti contro
di lui; quando si tratti di nuovo di questo negotio, che potrà
esser presto, per la speditione che si deve dare ad un Clerico
(int. il Pittella), che dopo d'essere stato un pezzo latitante è
venuto finalmente in mano della Corte, et la sua causa è in
speditione, procurerò si tratti anche di spedir quella di questo
fra Pietro, che per quanto vado considerando deve essere anche lui
di mala razza"(253). Vegga ognuno se possa dirsi questo il
linguaggio di un Giudice serio e giusto: d'altronde egli non fece
nulla di quanto promise; scorso poco più di un mese il Pittella
era già fuori carcere come si rileva dalla sua lettera al Vescovo
di Squillace, e fra Pietro rimaneva a languire nel Castel
nuovo(254).
Un altro avvenimento d'importanza anche maggiore fu l'invio di un
memoriale di fra Dionisio a S. S.tà, per far conoscere che fra
Marco di Marcianise avea mandato fra Cornelio in Ispagna, la quale
circostanza poteva ben connettersi con le loro gesta in Calabria
contro i poveri frati(255). S. S.tà, per mezzo del Card.l di S.ta
Severina, ingiunse al Nunzio che s'informasse di tale partenza di
fra Cornelio per la Spagna, "da chi vi sia mandato, et à che
effetto"; ed il Nunzio, con sue lettere del 6 e del 20 aprile,
rispondeva in certi termini che meritano di essere testualmente
riferiti e ben considerati. "Quanto al particolare che mi domanda
di quel fra Cornelio, posso dirle che hò parlato à chi l'hà visto
in Genova per la volta di Spagna, et hò ritratto che è andato con
partecipatione del Sig.r Vicerè, né son lontano à credere che sia
stato di consiglio et d'ordine di quel fra Marco da Marcianise, il
quale sò che era mal sodisfatto del Vescovo di Termoli, che Dio
habbia in gloria, per l'opinione che teneva, et se ne lasciava
intendere, che le essamine fatte da lui et da fra Cornelio in
Calabria fussero state fatte più per sodisfattione de Ministri
Regii che per la verità, et Dio voglia che l'opinione in ciò di
detto Vescovo non l'habbia fatto più largo di quel che conveniva
in dar adito à quei frati di ritrattare le loro confessioni, come
mi lasciai un tratto intendere che mi pareva, et ne avvertii, se
bene lasciavo guidare à lui il negotio, come pratico et
essercitato lungo tempo in cotesto S.to officio dal quale era
stato deputato, ma per le molte occupationi non potei sempre
trovarmi à quelle lunghe repetitioni et difese che potettero fare,
vi mandai bene il mio Auditore quelle volte che non potei esser
io. Se sarà vero, come temo, che detto fra Cornelio sia andato
alla Corte per scusare tal fatto, ò per far altro officio
concernente questo interesse, lo reputerò molto errore et del
Marcianese et di lui, perché se erano mal sodisfatti dovevano
pigliare altra strada". Ed in sèguito: "Hò havuto occasione di
parlare con il Padre Fra Marco da Marcianise, il quale mi hà detto
che egli (fra Cornelio) è andato in Spagna principalmente per un
negotio del Sig.r Carlo Spinello, et che sapeva che haveva parlato
al Sig.r Vicerè avanti partisse, et che poteva esser che trattasse
là del negotio della ribellione et dell'Inquisitone, poi che si
era trovato in Calabria à quei Processi, ma che sopra di ciò non
gli haveva ordinato cosa alcuna. Come si sia, non voglio dubitar
punto che ne parlerà, et questo non sò se potrà piacere; saprà V.
S. Ill.ma quello che dovrà farsi"(256). Con ogni probabilità il
Card.l di S.ta Severina non fece nulla contro que' frati: ma ciò
che riesce ancor più interessante per noi è il vedere il Nunzio
riscaldarsi tanto, sol perché poteva essere alla Corte di Spagna
riferita sotto mala luce l'opera de' Giudici ecclesiastici di
Napoli, e con questa preoccupazione, intento solo a salvare sè
medesimo, spingersi fino a censurare l'opera del defunto Vescovo
di Termoli. Egli che non aveva forse nemmeno letto il processo di
Calabria, egli che certamente non aveva avuto cura de' più sacri
dritti degl'inquisiti nel tribunale della congiura e d'altra parte
aveva assistito ben poco alle sedute del tribunale dell'eresia,
egli osava mettere innanzi i suoi scrupoli, perché il Vescovo di
Termoli era stato largo nel dare agl'inquisiti agio di
ritrattarsi, ed aveva professata l'opinione che i processi di
Calabria fossero stati fatti piuttosto per dar soddisfazione a'
Ministri Regii. Ed era proprio bene scelto il momento per fare
queste osservazioni, mentre que' due ribaldi davano la miglior
dimostrazione che il Vescovo di Termoli era nel vero, e facevano
manifesta la loro scelleraggine, ricorrendo a Spagna d'accordo col
Vicerè e con Carlo Spinelli. Ma bisognava dunque schiacciarli
ciecamente quegl'inquisiti per non turbare le buone relazioni con
la Corte di Spagna, bisognava sacrificarli alla "ragione di
Stato", della quale ben si vede che non a torto si dolse
continuamente in versi ed in prosa il Campanella. Per verità il
Campanella e socii potevano essere molto colpevoli, ed anzi per
noi giuridicamente lo erano, ma meritavano senza dubbio Giudici
assai migliori di quelli che ebbero.
L'ultimo avvenimento, che si verificò nel periodo di tempo al
quale siamo pervenuti, fu la morte dello sciagurato fra Gio.
Battista di Pizzoni. Il 14 maggio, dopo tante sofferenze per la
spalla slogata e suppurata, dopo un'apoplessia che gli tolse la
parola per quattro giorni (circostanza da notarsi), egli spirò
nelle carceri del Castello: lo mostra un'informazione, che
d'ordine de' Giudici fu presa da Gio. Camillo Prezioso, e sulla
data della morte concorda anche la notizia che ne abbiamo trovata
ne' libri Parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo. Difatti in
un elenco di morti posto al sèguito del libro III, col titolo
"Memoria de quilli che morino in questo Castello novo dal di 23 de
giugno fatta 1597" si legge: "A di 14 de maggio 1601 morse fra
gio. batt.a calabrese". Con questa vaga indicazione, impossibile a
decifrarsi senza l'aiuto di altri documenti, trovasi registrato
l'amico intimo divenuto poi accusatore del Campanella, colui che
fornì la base principale a quei processi, onde il povero filosofo
ebbe a patire tante miserie, ed egli medesimo fu tratto ad una
precoce fine odiato e malmenato da tutti. - L'informazione su
questa morte fu presa il 1° giugno, e fu inserta nel 3° volume del
processo, al sèguito delle difese che il Pizzoni avea fatte.
Vennero esaminati Alonso Martines carceriere, Antonio de Torres
carceriere anche lui e socio del Martines, inoltre Marcello
Salerno carcerato per la ribellione, che già abbiamo conosciuto in
altri Atti precedenti. Il Martines espose la malattia e la morte
del Pizzoni a questo modo: "l'infermità sua fù che havea un
braccio guasto per la tortura che hebbe quà in questo Castello per
ordine delli Officiali Regii per la causa della ribellione (si
vede bene che il Nunzio, la tonsura di D. Pietro De Vera, il Breve
e Clemente VIII, non bastarono per far credere nemmeno al
Prezioso, che raccolse la deposizione, essere sul serio quel
tribunale per la ribellione un tribunale ecclesiastico); et per
tal causa a lo braccio se li fece una postema, et dalla postema
poi... se li fece una piaga, et li sopravenne un discenso grande
che li levò la parola, et sequitandoli quella infirmità trà
quattro giorni se morì, et morse la notte de li quattordici di
detto mese di maggio, alle cinque hore, et io lo viddi morto ad
una camera dove stava, e morse in questo regio Castello novo, et
non solo lo viddi morto ma anco lo viddi sepellire alla sepoltura
dove si soleno sepellire li preti, et di detta morte di frà Gio.
Battista de pizzone ne è stata et è publica voce et fama in questo
Castello novo trà quelli che lo conoscevano, è così è la verità".
Le cose medesime esposero in sostanza anche gli altri, con un
identico formulario; potrebbe appena rilevarsi che aggiunsero
essere stato il Pizzoni leso nel braccio destro, avere usato molti
rimedii inutilmente, avere avuta la visita di due medici etc. In
conchiusione la morte di lui risultò con siffatte testimonianze
legalmente accertata.
Intanto fin dagli ultimi giorni di maggio erano in corso i
preparativi per ripigliare il processo, in adempimento delle
diligenze ordinate da Roma a fine di scovrire la pazzia simulata
del Campanella. Si era provveduto che due medici visitassero più
volte il Campanella, come risulta da una delle fedi che costoro
scrissero e come d'altronde era stato da Roma ordinato; ma senza
attendere tali fedi, si era provveduto anche quanto occorreva pel
tormento della veglia; per questo dovè farsi venire ogni cosa
dalle carceri della Vicaria, poichè sappiamo di certo essere stato
della Vicaria uno degli aguzzini che a suo tempo vedremo entrare
in iscena. Siffatti preparativi, che non potevano tenersi
nascosti, posero in agitazione vivissima i poveri inquisiti:
apparve a tutti che specialmente o fra Dionisio o il Campanella
fossero sul punto di avere un tormento de' più gravi, e che di poi
sarebbe venuta la volta degli altri; si pensò quindi di fare
qualche tentativo capace almeno di trattenere un poco
l'amministrazione del tormento.
Il 3 giugno fra Pietro di Stilo trasmise con una sua lettera al
Vescovo di Caserta alcune carte del Campanella, sulla provenienza
delle quali, dovendo nascondere il vero, fece una narrazione
abbastanza inverosimile(257). Erano le proprie Difese con gli
Articoli Profetali, che il Campanella aveva scritte durante il
processo della congiura, e che non aveano potuto essere presentate
a tempo debito. Fra Pietro, che fin dall'inizio di questi processi
avea prescelto di far la parte dell'ignorante, mostrando di non
conoscere che cosa quelle carte rappresentassero, scriveva al
Vescovo di aver ricevuto dal Campanella già da un anno, poco dopo
il suo primo tormento (il tormento del polledro), alcune carte
scritte di sua mano, con preghiera che le facesse copiare e le
conservasse, perché erano cose di molta importanza; ed egli le
avea prese, e perché non le intendeva, le avea fatte leggere
all'olim fra Gio. Battista di Pizzoni (sempre citato il morto o
l'assente) acciò vedesse se ci fossero cose di S.to Officio da
poterlo compromettere, né avea mai più potuto riaverle, dicendogli
il Pizzoni che le avea perdute e che erano cose sospette; ma
appunto nella sera precedente le avea riconosciute tra altre carte
lasciate dal Pizzoni, e per suo discarico le consegnava a S. S.a
Ill.ma, perché vedesse se c'erano cose di eresia come il Pizzoni
avea detto, e provvedesse secondo giustizia, assicurando che
quelle carte erano "il vero trasunto di quelli scritti del detto
frà Thomaso Campanella". - Da parte sua fra Dionisio, il 4 giugno,
trasmise con una sua lettera a' Giudici, perché provvedessero come
meglio fosse loro parso di giustizia, una lettera a lui diretta
dal Petrolo fin dal 28 maggio, nella quale costui, dicendosi
infermo ed abbandonato, scriveva: "intendo che si fanno molti
preparamenti di tormenti, e dubito che non siano per V.a
Reverenza, o per il Padre Campanella, io, come hò possuto vedere
nella copia del processo suo, non m'hò esaminato contra V.a
paternità in niente, perche non ci era occasione, si bene mi hò
esaminato contra di frà Thomaso ad un certo fine, ch'io esposi in
un memoriale all'Ill.mo Sig.r vescovo di Termoli olim commissario
di questa causa (pia menzogna, sempre citando il morto), per il
quale memoriale credeva io che fossemo tutti rimessi alli nostri
superiori, ma vedo che non ha fatto effetto mentre cquà si
tormenta, dunque vostra paternità mi favorisca di avvisare li
signori superiori e protestarsi che facciano la causa nelle
carceri delli nostri superiori (ciò era stato già eseguito appunto
da fra Dionisio), ò vero che prima che procedano a cosa alcuna mi
reesaminino" etc.(258). Evidentemente questa lettera, fatta
scrivere dal Petrolo infermo, era un pretesto per pigliar tempo e
scansare il tormento almeno per qualche giorno; la lettera
medesima di fra Pietro di Stilo, senza dubbio poggiata su qualche
cosa assai più concludente, non aveva uno scopo diverso; ma i
Giudici cominciarono per fare amministrare il tormento, e di poi,
anzi durante il tormento, si occuparono di tali lettere ad essi
inviate.
Il 4 giugno dunque il povero Campanella ebbe quell'atroce tormento
detto la veglia, prolungato senza misericordia fino alla metà del
giorno successivo. E prima di tutto dobbiamo spiegare in che
consisteva la veglia, ed inoltre rammentare in che modo lo stesso
Campanella ne parlò specialmente nella sua Narrazione. Anche qui
le più esatte notizie ci sono fornite da un medico, e questa volta
de' più celebri, da Paolo Zacchia. Si conosce che la veglia fu
inventata nella 1a metà del 1500 da Ippolito de Marsiliis, famoso
criminalista bolognese e Giudice nella Valle Lugana, "avverso gli
ostinati e coloro i quali non temevano i tormenti". Egli si
serviva soltanto di uno scanno di legno su cui faceva sedere
l'inquisito per 40 ore, con due uomini a lato, i quali, ogni qual
volta l'inquisito accennava a dormire, gli davano con la mano sul
capo e glie lo sollevavano per tenerlo desto, venendo di tempo in
tempo surrogati da altri, mentre i primi andavano a riposare; e il
De Marsiliis si applaudiva molto di questo suo trovato, il quale,
come egli scrisse, eragli parso piuttosto una cosa da ridere che
un tormento, prima che ne avesse fatta l'esperienza, mentre invece
ebbe a vedere "non trovarsi alcuno tanto feroce da potervi
resistere" (era feroce l'inquisito, non il Giudice); al più tardi
in due notti ed un giorno, con la promessa del riposo, l'inquisito
confessava tutto, e però bisognava rammentarsi di questo genere di
tormento che era della massima potenza e non affliggeva il corpo,
"sicchè per esso il Giudice non incorreva mai in sindacato".
Immediatamente i suoi contemporanei e successori se ne giovarono,
accertandone tutti i vantaggi, come li accertò p. es. Paolo
Grillando nel suo trattato. Ma il progresso si fece sentire anche
in questo tormento, e si cominciò coll'aggiungervi copioso cibo e
vino in precedenza, acciò il sonno divenisse tanto più grave, e si
finì col modificare lo scanno ed associarvi altre specie di
tormenti per accrescerne l'efficacia. Così diedesi allo scanno una
maggiore altezza affinchè i piedi dell'inquisito non poggiassero a
terra, ed anche una superficie non piana ma ad angolo, denominando
perciò lo scanno capra, cavallo o cavalletto, affinchè le parti
deretane dell'inquisito ne venissero travagliate. E vi si associò
pure la sospensione dell'inquisito alla corda con le braccia torte
in dietro, nei soliti modi, ed anche con gli omeri fermati
mediante funicelli alle mura laterali della stanza, talora perfino
col petto fermato mediante una fascia al muro corrispondente al
dorso, senza dubbio per impedire che l'inquisito col dondolarsi
potesse sfuggire l'azione dello scanno. Infine vi si aggiunse lo
scostamento, e l'elevazione forzata degli arti inferiori, mediante
un lungo bastone posto per traverso, sulle cui estremità venivano
ligati i piedi con altri funicelli, mentre un terzo funicello
attaccato alla parte media del bastone lo attirava verso il muro
di fronte, senza dubbio per impedire del pari che il tormentato,
con lo stringere le cosce sullo scanno, potesse di tempo in tempo
sottrarre le sue parti deretane all'azione di esso. Prospero
Farinaceo, criminalista appunto del tempo del quale trattiamo,
volle mostrarsi umanitario rifiutandosi di descrivere il tormento
della veglia, perché, egli disse, non era "né aguzzino né birro";
ma l'Ambrosino accennò alle condizioni dello scanno, alto 7 o 8
palmi, fornito di tre piedi e a superficie angolare ottusa, su cui
doveva poggiare l'inquisito con le parti deretane nude,
aggiungendo di aver visto talvolta lo scanno ad angolo acuto, che
poteva uccidere il torturato venendogli rotte e perforate quelle
parti. Paolo Zacchia, di poco posteriore per tempo, ci diede la
descrizione completa del tormento quale allora si usava, e non è
dubbio averlo dovuto il Campanella sostenere presso a poco in
quella maniera perfezionata, che lo Zacchia descrisse e che noi
abbiamo stimato necessario riferire(259). Che al Campanella sia
stata amministrata la veglia secondo gli ultimi perfezionamenti
risulta dall'Atto del suo tormento, in cui oltre lo scanno di
legno detto il cavallo, la sospensione alla corda con le mani
ligate dietro la schiena, l'aguzzino sedutogli accanto che lo
toccava ed avvertiva di non dormire, è citato anche il funicello
applicato a' piedi, che il povero tormentato chiedeva si portasse
più in alto perché i piedi gli bruciavano; e risulta egualmente da
quanto ne lasciò scritto in ispecie nelle Quaestionum moralium,
non che dalle parole stesse della sua Narrazione, in cui i
funicelli sono ricordati in primo luogo, e sono ricordati anche i
guasti verificatisi nelle sue parti inferiori. "Al tempo del
Manini (int. Mandina) fu ad istanza del Sances Fiscale, ch'andò
fin a Roma personaliter per tal licenza, tormentato 40 hore di
funicelli usque ad ossa, legato nella corda a braccia torte,
pendendo sopra un legno tagliente et acuto, che si dice la Viglia:
che li tagliò di sotto una libra di carne, e molta poi n'uscìo
pesta et infracidata, e fu curato per sei mesi con tagliarli tanta
carne, e n'uscir più di 15 libre di sangue delle vene et arterie
rotte, et sanò delle mani, e parti inferiori contra la speranza di
medici quasi per miracolo, né confessò heresia né ribellione, è
restò per pazzo non finto come diceano". E qui non possiamo
dispensarci dal far avvertire che questa menzione del Sances,
fatta già anche nella lettera a Paolo V, ci apparisce uno de' più
spinti ripieghi del Campanella per mettere nella penombra l'opera
dei Giudici ecclesiastici e far risaltare la ferocia degli
ufficiali Regii; il ripiego gli riuscì bene, se non presso Roma,
presso il resto del mondo, poichè fino a' giorni nostri è stata
sempre attribuita agli ufficiali Regii l'amministrazione della
veglia, rimanendo pure dimenticato il canone allora vigente,
"clericus regulariter torqueri non potest per laycum". Non
intendiamo mettere in dubbio che il Governo Vicereale, e per
commissione di esso il Sances, abbia potuto insistere presso la
Curia, perché si badasse bene a provare energicamente la pazzia la
quale si avea ragione di credere simulata; ma crediamo assai
difficile poter ammettere che da tali insistenze fosse nata l'idea
di amministrare il tormento della veglia. Da un lato non si
comprende in che modo il Sances avrebbe potuto sapere, o mostrar
di sapere, lo stato della causa di S.to Officio e prendervi
un'ingerenza diretta; d'altro lato in Roma non aveano bisogno di
eccitamenti per ordinare l'amministrazione della veglia, non solo
perché era massima di giurisprudenza che agl'inquisiti finti pazzi
si potevano e dovevano amministrare i tormenti gagliardi, tanto
più che ritenevasi esservi con loro minor pericolo di morte(260),
ma ancora perché, ogni qual volta a Roma appariva necessario un
tormento gagliardo, solevasi in quel tempo ordinare
l'amministrazione della veglia. Difatti dal Carteggio del Nunzio
si rileva che, meno di un anno dopo di aver data la veglia al
Campanella, ad un altro frate Domenicano, fra Raimo dell'Olevano,
essendo stata inutilmente adoperata la corda nel tribunale della
Nunziatura, dietro licenza di Roma fu data pure la veglia e del
pari senza cavarne nulla, sì che fu poi mandato alle galere: vero
è che questo frate trovasi qualificato "Theologo et Predicatore se
bene un gran tristo", già evaso dalle carceri del Nunzio fin dal
1593, ripigliato dalla Corte nel 1601 in abito di assassino con 7
palle in tasca, stato in campagna ed imputato di 6 delitti
capitali ed un ricatto; ma l'imputazione del Campanella non era
niente meno grave per la Curia Romana(261).
Ecco ora il doloroso racconto di quanto accadde durante la veglia
data al Campanella, come risulta dall'Atto che ne fu disteso e che
pubblichiamo tra' Documenti(262). Tutti i Giudici erano al loro
posto: il Campanella introdotto dal carceriere Martines e
richiesto del giuramento disse, Juravit Dominus, Deus in
adiutorium..; ammonito su' guai a' quali andava incontro rispose,
dieci cavalli bianchi; toccato dal cursore della Curia
Arcivescovile gli disse, non mi toccare che sei scomunicato per la
bolla in coena Domini. Alle ore 7 del mattino (ora 11a) fu ligato
alla corda e sospeso sul cavalletto: nell'essere ligato diceva,
ligatemi bene, badate che mi storpiate; poi con alte grida
cominciò a dolersi, massime per la forte strettura de' polsi,
dicendo son morto, non feci niente, e tante altre cose fuor di
proposito, che era un santo, che era un Patriarca, che aspettava
il Breve della Crociata etc. chiamando uno de' Giudici Monsignore,
e il Vicario Arcivescovile "zio Arciprete". Chiese che gli si
pulisse il naso, e si dolse di nuovo fortemente quando gli furono
ligati i piedi; toccato dall'aguzzino gli disse, non mi toccare,
che sii squartato. Udì suonare le trombe sulle galere ormeggiate
al molo presso il Castel nuovo, e disse, suonate, suonate, sono
ammazzato frate; guardò la porta della camera che stava aperta e
disse all'aguzzino, aprimi, oh frate, oh frate. Poi abbassò il
capo e tacque per un pezzo, e toccato dall'aguzzino disse, oh
frate, e continuò a stare per un'ora col capo e col petto
abbassati. Richiesto se volesse discendere, giurare e rispondere,
accennò di sì, ma non volle proferire parola: lo fecero poi
discendere perché soddisfacesse a' bisogni naturali. Quindi fu
posto di nuovo al tormento (2a volta) e disse, ora mi ammazzate
ohimè, e tacque: l'aguzzino gli ricordava di non dormire, ed egli
diceva, siedi, siedi alla sedia, taci, taci, né rispose mai alle
continue ammonizioni di mettere da parte la pazzia, ed alle
diverse interrogazioni sulla sua patria, sulla sua età etc.; si
lagnava di tempo in tempo, ma alle interrogazioni non rispondeva.
Si giunse così alle 8 della sera (ora 24a) essendo questa volta
rimasto sempre nel tormento senza interruzione, né altro si udì da
lui che, ohimè, ohimè; e battute le 9 (1a ora di notte) chiese da
bere e l'ebbe, né mai rispose alle interrogazioni, ma si notò che
mostrava di udire con cura e di percepire le parole e le
ammonizioni a lui dirette, e guardava anche i circostanti. Di poi
disse, Cicco Vono l'ammazzò; e dichiarò che era di Stilo,
Domenicano da Messa, che aveva impiantato il monastero di S.
Stefano, che aveva preso l'abito alla Motta Gioiosa, e nominò
Lucrezia sua sorella e Giulio suo fratello ivi dimoranti, nominò
anche Emilia figlia di suo zio che egli aveva maritata. Più tardi
chiese da bere vino e l'ebbe, e ricominciò a lagnarsi, a dire che
chiamassero suo padre, quindi si ripose a tacere, e gli dicevano,
"Tommaso Campanella che dici? non parli?", ed egli non rispondeva,
e solo volgevasi di qua e di là guardando i vicini. Sorse così il
giorno e furono aperte le finestre e spenti i lumi, ed egli,
sempre taciturno, appena diceva qualche volta, moro, moro, non
posso più, non posso più, per Dio. Ma poco dopo parve che
svenisse, onde i Giudici ordinarono di toglierlo dal tormento e
porlo a sedere; quindi gli concessero di soddisfare a certa sua
necessità, e poco dopo batterono le 7 (erano già 24 ore di
tormento). L'infelice chiese allora qualche uovo da bere, e glie
ne furono date tre, aggiuntovi del vino; disse che sentivasi
morire, e chiestogli se volesse confessare i suoi peccati, rispose
di sì e che gli chiamassero un confessore. Ma non se ne fece nulla
essendosi ristabilito, e venne ordinato che fosse riposto nel
tormento, ed egli incominciò a dire, lasciatemi stare, aspettate
frate mio; gli fu detto allora perché mai avesse tanta cura del
corpo e non dell'anima, ed egli, "l'anima è immortale". Fu dunque
riposto nel tormento (3a volta), e rimase taciturno, ma poi chiese
all'aguzzino che portasse più in alto il funicello con cui erano
ligati i piedi, perché questi gli bruciavano; e i Giudici lo
concessero. Continuò a star quieto, gli si dimandò se volesse
dormire e disse di sì, gli si promise che avrebbe avuta comodità
di dormire dopo di aver risposto alle interrogazioni, ed egli non
parlò più, e talora si lamentò dicendo, oh mamma mia. Erano le 11
del mattino (ora 15a); i Giudici aveano profittato di quella
seduta per esaminare fra Dionisio sulle lettere che avea
presentate; gli ordinarono quindi di parlare al Campanella che
stava nel tormento, e di persuaderlo a rispondere formalmente, ad
evitare i tormenti che per lui erano affatto inutili, avvertendolo
che il S.to Officio avrebbe procurato di ottenere da lui le
risposte in tutti i modi! Fra Dionisio, come si notò nell'Atto,
"adempì l'incarico con bastante diligenza e carità", discusse,
disputò, e il Campanella gli disse che voleva rispondere alle
interrogazioni. I Giudici allora concessero che fosse deposto dal
tormento, oltrechè venisse ristorato con cibo e bevanda; intanto
gli accordarono che andasse a soddisfare certe sue necessità,
lasciandolo accompagnare da fra Dionisio, e in ciò scorse più di
un'ora di tempo (così fra Dionisio ebbe tutto l'agio di
consigliarlo, ma si può supporre in qual senso). Fecero di poi
sedere il Campanella presso il loro tavolo, l'eccitarono a
rispondere e gli dimandarono perché si trovasse carcerato nel
Castello; il Campanella rispose, che volete da me? Avendone solo
parole, lo fecero riporre nel tormento (4a volta), e il Campanella
vi rimase taciturno, insensibile, appena dicendo di tempo in
tempo, moro, moro. E quando videro che vi stava senza dire la
menoma parola, senza muoversi, senza dar segno di dolore, finirono
per ordinare che lo deponessero, gli accomodassero le braccia, lo
vestissero e riportassero alla sua carcere, dopo di essere stato
nel tormento per circa 36 ore.
La prova data dal Campanella fu certamente grande, tanto più
grande perché nel tormento del polledro non gli era riuscito di
mostrarsi forte. Quattro volte successive, con brevi intervalli,
era stato posto allo strazio e vi avea resistito un giorno e
mezzo: i suoi amici ne rimasero ammirati, e vedremo segnatamente
fra Pietro di Stilo farne gli elogi più entusiastici. Cosa ne
avessero concluso i Giudici, si può rilevarlo dal Carteggio
dell'Agente di Toscana. Era morto allora il Battaglino fin dalla
notte di Natale dell'anno precedente, ed eragli successo
Alessandro Turaminis senese, venuto nel 1592 ad insegnare con
forte stipendio il "Jus civile della sera" nello studio pubblico
di Napoli, rimanendo anche avvocato di S. Altezza il Gran Duca per
gli affari di Capestrano e in buone relazioni col Nunzio: il
Turaminis fin dal 2° giorno del tormento, essendone l'esito
tuttora ignoto, avea scritto a Firenze che il Campanella veniva
provato "nella sveglia ad istanza del S.to Officio" sul fatto
della pazzia; e il 12 giugno scrisse, che avea lasciato "dopo hore
37 di risveglia confuso ognuno, et in dubio più che mai se fosse
savio o matto"(263). Rimase dunque scossa l'opinione che la pazzia
fosse simulata, se dobbiamo credere al Turaminis, che potè
veramente saperlo dal Nunzio; ma vedremo tra poco che ad ogni modo
si ebbe presto motivo di non recedere da quella opinione, ed
intanto conviene fermarci un poco sulle lesioni riportate
dall'infelice filosofo in questo che fu l'ultimo de' suoi
tormenti. Ciò che abbiamo visto da lui scritto su tale proposito
nella sua Narrazione trovasi già riferito anche in più Lettere ed
in qualcuna delle sue opere, col ricordo che era stato "sette
volte tormentato"; e per l'ultimo tormento trovasi detto, più o
meno, che avea perduta "una libbra di carne nelle parti deretane e
diece libbre di sangue", che "era uscito sano dalla fossa (int.
dalla sua tristissima condizione) dopo sei mesi", che avea
"riacquistata la sanità per la diligenza dell'ottimo uomo, il
chirurgo Scamardelli"(264). Senza dubbio in tutto ciò deve
riconoscersi qualche esagerazione ed anche una inesattezza
tipografica. Per intendere che il Campanella sia stato sette volte
tormentato, bisogna computare ciascuna delle quattro riposizioni
nel tormento verificatesi durante la veglia, e perciò noi abbiamo
procurato di notarle: il conto torna solo col sommare le quattro
riposizioni nella veglia, la corda semplice avuta a tempo del
Vescovo di Termoli, e le due riposizioni nel polledro avuto per la
congiura; né sarà inutile ripetere ancora una volta che tutti
questi tormenti furono dati sempre da Giudici deputati dal Papa,
dietro ordine o consenso espresso del Papa, sicchè non riesce
giusto attribuirli agl'inumani spagnuoli, pur riconoscendo che
questi avrebbero fatto molto peggio se avessero potuto. Non è
dubbio poi che la veglia abbia prodotto una ferita lacero-contusa
con mortificazione ed emorragie consecutive, sebbene le
valutazioni della carne e del sangue perduto appariscano fatte con
molta larghezza: di certo vedremo risultare dal processo, che due
mesi e mezzo dopo il tormento il Campanella trovavasi pur sempre a
letto, assistito da suo padre e suo fratello ancora prigioni. Chi
era intanto l'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli che gli prestò
le sue cure? Ognuno comprenderà facilmente quale interesse egli ci
abbia destato, ma nessuno potrà mai immaginare quanti sforzi ci
abbia costato il conoscerlo, sino a che non ci venne l'idea di
consultare i libri parrocchiali della Chiesa del Castello nuovo.
Sapevamo che in ogni Castello si tenevano a que' tempi, con misero
stipendio, un medico ed un chirurgo, e pel Castello di S. Elmo ci
era riuscito di trovare che funzionava allora da medico-chirurgo
un Bonifazio del Castillo con cui senza dubbio il Campanella dovè
aver che fare quando più tardi fu trasportato a S. Elmo, ma pel
Castello nuovo le scritture di più Archivii non ci aveano rivelato
che il medico Gio. Geronimo Orabona fino all'anno 1591(265):
d'altronde nel processo attuale trovavamo, per altre cure delle
quali si parlerà in sèguito, nominato il chirurgo Scipione, e da
un pezzo ci eravamo accorti che in tutte le opere del Campanella,
non impresse sotto gli occhi suoi, le storpiature di nomi sono
abbastanza frequenti. I libri parrocchiali del Castello nuovo ci
hanno appunto mostrato che il chirurgo era Scipione Camardella (o
Cammardella), appartenente ad una famiglia da molti anni dimorante
in quella fortezza e stretta in parentela con molte persone ivi
impiegate: onore a lui, che seppe ricondurre a sanità il povero
filosofo, e meritarne la stima e la riconoscenza(266).
Come abbiamo accennato, il 5 giugno, 2° giorno del tormento del
Campanella, i Giudici vollero profittare del trovarsi riuniti, per
esaminare fra Dionisio intorno alle lettere che avea presentate.
Trattavasi di sapere se appartenesse veramente a lui la lettera o
memoriale diretto a' Giudici, se appartenesse al Petrolo la
lettera inviata con quel memoriale ed in che modo esso fra
Dionisio l'avesse ricevuta. Fra Dionisio accertò quanto si volea
sapere, dicendo di aver ricevuta la lettera del Petrolo già da
otto o nove giorni per mezzo di Felice Gagliardo carcerato per la
congiura, il quale glie l'avea data passandola per la fessura
superiore della porta del carcere, in cui si trovava egli solo e
sempre chiuso. E i Giudici non se ne brigarono ulteriormente, né
chiamarono a nuovo esame il Petrolo come costui dimandava. - Si
fecero invece, nella stessa seduta, ad esaminare fra Pietro di
Stilo intorno alla sua lettera ed alle scritture, del Campanella
con essa inviate, cioè le Difese con gli Articoli profetali(267).
Fra Pietro, sempre dietro dimande, disse che fin dall'anno scorso,
nel principio di quaresima, il Campanella gli avea mandate certe
carte scritte per mezzo di un figliuolo che serviva nelle carceri
ed egli non sapeva dire chi fosse; costui glie le passò per la
fessura inferiore della porta a nome del Campanella, dicendogli
per ambasciata che le facesse copiare e le tenesse a sua
richiesta, perché erano carte che gl'importavano. Ed egli, nella
settimana santa, fece copiare il 1° fascicolo da fra Pietro Ponzio
venuto allora a stare nel suo carcere, e diede l'altro ad un
compatriotta, Vincenzo Ubaldini di Stilo, il quale dimorava in
Napoli con un suo fratello, presso un Signore che non sapea dire
chi fosse e che avea udito essere andato alla guerra, e il detto
Ubaldini l'avea fatto copiare da un copista(268). Aggiunse che gli
originali non c'erano più, perché il copista non volle restituire
quello a lui consegnato, dicendo che era cosa curiosa, e l'altro,
consegnato a fra Pietro Ponzio perché lo copiasse, fu dato al
Pizzoni insieme con la copia, e costui non volle restituir nulla
dicendo che erano cose sospette; quando poi trovò quelle
scritture, nel cercare un foglio di carta sotto il materasso del
letto in cui era morto il Pizzoni, trovò pure l'originale
predetto, ma fatto a pezzi e ridotto in altro uso, e c'erano stati
presenti il Bitonto, fra Paolo ed anche il Petrolo ammalato.
Aggiunse che aveva bensì lette quelle scritture, ma senza capir
nulla dei profetali, e facendosi spiegare da fra Pietro Ponzio
qualche cosa del fascicolo che egli copiava: inoltre che il
martedì o un altro giorno della settimana santa, il Campanella
"che non si era ancora publicato pazzo" mandò a chiedergli le
copie fatte e se le tenne dalla mattina alla sera e poi glie le
rimandò; ed allora vi appose certe note, che riconobbe essere di
mano del Campanella ma scritte con carattere più piccolo del
solito. Aggiunse infine che non avea mostrato ad alcun altro
quelle scritture, né sapeva che alcun altro le avesse viste
all'infuori de' già nominati, e che non le avea presentate prima
perché non le avea potuto aver prima. - È superfluo dire che molte
circostanze di tale racconto erano mentite: lasciamo da parte il
non conoscere il figliuolo che a nome del Campanella avea portato
gli originali delle scritture (forse Aquilio Marrapodi) e il
copista laico che avea trascritto una di esse; lasciamo da parte
che quelle scritture erano state sempre nelle mani del Pizzoni, e
poi ancora rimaste ignorate sotto il materasso fino a circa tre
mesi dopo la morte di lui; ci limitiamo a dire esserci noto con
bastante certezza, che il Campanella attendeva a comporre quelle
scritture anche quando si era già mostrato pazzo, che di tempo in
tempo mandava qualche pagina scritta a fra Pietro di Stilo, e che
i frati vi annettevano anch'essi molta importanza, sperandone
forse un grande effetto pel buon esito de' loro processi. Abbiamo
a tempo opportuno esposto con larghezza la materia di tali
scritture, che rappresentavano le Difese del Campanella nella
causa della congiura: potrebbe sembrare che il Nunzio, uno de'
Giudici in detta causa, avesse dovuto sentir l'obbligo di
trasmetterle al tribunale proprio; ma per Verità quella causa era
finita pel Campanella, e non rimaneva a' Giudici che mettersi
d'accordo sulla sentenza da doversi pronunziare. Un Giudice
coscienzioso non avrebbe certamente mancato di occuparsene ad ogni
modo, ma tale non era il Nunzio, su cui, ben più che sul Sances,
il Campanella avrebbe fatto senza dubbio cadere i suoi
risentimenti, se non si fosse trovato nella necessità di parlarne
il meno possibile; non farà quindi meraviglia che quelle Difese
fossero rimaste inserte nel processo dell'eresia, utili solamente
a noi, che abbiamo così potuto avere la comodità di esaminarle. Ma
perché furono esse presentate al tribunale dell'eresia?
Evidentemente, nel presentarle, fra Pietro di Stilo non potè aver
altro scopo, che quello di fare un tentativo disperato per
allontanare almeno temporaneamente l'amministrazione della veglia,
senza punto sospettare ch'esse avrebbero potuto andare perdute. E
il tentativo non riuscì, ed anche la perdita non influì in alcun
modo sull'esito della causa della congiura.
Dopo il tormento della veglia si ebbero le relazioni de' medici
periti; il 7 giugno fu scritta quella del magnifico Pietro
Vecchione, il 15 quella del magnifico Giulio Jasolino. Costoro
appartenevano alla più elevata categoria de' medici allora in
voga, e non sarà inutile darne qualche notizia, onde riuscirà
manifesto che le ricerche sulla pazzia del Campanella, se vennero
condotte con precipitazione, almeno in quanto alle persone de'
periti vennero prese certamente sul serio. Pietro Vecchione da
Nola, col suo esercizio d'insegnante privato, secondo il costume
napoletano, aveasi acquistato tanta riputazione, che giovane
ancora, di circa 33 anni, sulla proposta del Cappellano maggiore
era stato dal Conte di Lemos il 15 ottobre 1599 nominato lettore
della "theorica della medicina ordinaria", cattedra fra le più
stimate, alla quale sovente si chiamavano anche i non napoletani,
e già occupata da Filippo Ingrassia (insieme con la pratica)
dal 1547 al 1553, da Giovanni Argenterio nel 1556, dal Covillas
nel 1560, da Gio. Geronimo di Cotrone da Nola (o viceversa) nel
1565, da Salvio Sclano nel 1570, da Innocenzio Canti nel 1577, da
Quinzio Buongiovanni nel 1579, da Latino Tancredi in qualità di
straordinario nel 1589, tutta una serie di uomini stimati
altamente. Esercitava poi la pratica con immenso successo, ma del
resto era uno de' molti, anzi troppi, che non avevano scritto mai
nulla, facendo parte di quella beata falange degli uomini illustri
inediti, specialità non napoletana soltanto ma italiana, ancor
oggi niente affatto estinta, e prova sciagurata che la sua è la
via meno disputabile per ottenere la pubblica stima, le alte
cariche, i primi onori: il Vecchione infatti ebbe frequentemente
accresciuto il suo stipendio, nel 7 giugno 1612 passò alla lettura
di pratica, succedendo al Buongiovanni, morì Protomedico
nell'aprile 1619. Quanto a Giulio Jasolino, Jazzolino o Azzolino,
calabrese(269), già distinto allievo dell'Ingrassia, era un
vecchio cultore di anatomia e chirurgia assai accreditato, e basta
dire che fu maestro di Marco Aurelio Severino: non ebbe lettura
pubblica essendo allora la cattedra di chirurgia ed anatomia
occupata da Giuseppe Perrotta di Fratta, che fu il primo a riunire
insieme nel pubblico studio in un modo definitivo queste due
branche d'insegnamento; ma scrisse alcuni opuscoli, tuttora
pregiati da que' pochissimi che si occupano di cose patrie, ed
anche illustrò le acque termominerali d'Ischia. Avea già circa 60
anni al tempo di cui trattiamo, e stando in Ischia dettò la sua
relazione sul Campanella; morì vecchissimo nel 1633, e fu sepolto
nella Chiesa di S.ta Chiara. - Ecco ora ciò che essi riferivano
intorno al Campanella(270). Pietro Vecchione scrisse, che invitato
a visitare più volte fra Tommaso per riconoscere se fosse davvero
desipiente e melanconico o simulasse tale malattia, per quanto
avea potuto esplorare con la mente, con la conversazione e
coll'opera, avea ben rilevato che egli aberrava nell'immaginativa,
nel discorso e nella memoria; ma poichè non avea visto alcuno de'
sintomi che sogliono trovarsi negl'infermi di tale malattia e
v'erano grandi cause per simulare, era venuto nel dubbio che
quella pazzia fosse simulata. Aggiunse che ad esplorarla con
maggiore certezza occorreva lungo tempo e gran diligenza degli
astanti, ciò che non si era potuto eseguire nelle carceri in cui
esso Campanella si trovava, ond'egli non poteva affermare nulla di
certo; ma conchiuse, "per quanto mi è dato scorgere
congetturalmente, giudico che colui simuli la malattia". D'altra
parte Giulio Jasolino, con un lungo scritto, venne nella medesima
conclusione, ricingendosi di alquanto maggiori riserve, ed
appoggiandosi ad un nugolo di citazioni d'Ippocrate e di Galeno.
Ciò che fa riuscire notevole per noi questa sua relazione si è
qualche notizia che vi si rileva intorno al modo tenuto
nell'osservare il povero Campanella, e qualche motivo di
congettura che vi si adduce intorno alla persona del filosofo. Il
Jasolino osservò fra Tommaso e gli parlò, a quanto pare, una sola
volta, ma certamente in presenza del Nunzio, del Vescovo di
Caserta e del Vicario napoletano: ne ebbe risposte non a
proposito, e lo vide "melancolico" nell'abito del corpo e nel
colore; ma dichiarò non potersi giovare di quest'ultimo fatto, non
avendo prima conosciuto il Campanella e non sapendo se tale
temperamento fosse il suo naturale ovvero "acquistato per il lungo
patimento delle carcere et per il gran timore et mestitia" (non si
parla di altre specie di sofferenze, e questo mostra che la visita
precedè la veglia). Invece notò che "essendo costui persona
malitiosa, come si dice, vafer, callidus, et astutus, se hà da
dubitare che la sua pazzia sia simulata": ma aggiunse che intorno
a ciò non intendeva affermare nulla di certo, e dichiarò che una
lunga osservazione poteva farsi da' custodi, e questa avrebbe
voluto, conchiudendo "che cossi si potrà chiarire della verità
della fitta, che io stimo ò pure vera pazzia". Adunque, tra il sì
e il no, il Jasolino stava egli pure per la pazzia simulata, e il
giudizio de' periti in questo senso riusciva uniforme.
Più tardi, il 20 luglio, un'altra circostanza venne a provare a'
Giudici che la pazzia doveva essere simulata(271). L'aguzzino che
aveva dato il tormento della veglia al Campanella e l'aveva anche
riportato nelle carceri, un Jacovo Ferraro di Trani, fu esaminato
dal Vescovo di Caserta ed interrogato sopra le "parole che si
lasciò dire fra Thomaso Campanella dopò che fu sceso dal
tormento". Ed egli rispose: "essendo io intervenuto come ministro
dela gran Corte dela Vicaria à dare lo tormento dela veglia à frà
thomaso Campanella predetto, dove io intervenni continuamente,
havendomelo posto in collo per consegnarlo allo carceriero delle
carceri di detto Castello novo, et cacciatolo cossì in collo dala
camera dove hebbe lo tormento fino alla Sala reale, detto fra
thomaso Campanella mi disse da sè le formate ò simili parole, che
si pensavano che io era co...... (int. sciocco) che voleva
parlare? et à queste parole non ci fu nessuna persona presente". A
voler giudicare la cosa secondo quel che sappiamo della natura del
Campanella, bisognerebbe senz'altro ritenerlo del tutto vera; ma
l'essersi verificata dopo un tormento di 36 ore, in quello stato
descrittoci dall'Atto che ne fu raccolto, riesce sorprendente in
modo, da potersi perfino accogliere l'opinione di chi dicesse
procurata dal Sances l'assertiva dell'aguzzino; intanto, deposta
sotto giuramento da una persona disinteressata, essa aveva ad ogni
modo un valore incontrastabile.
Ma non ostante siffatte prove ed indizii, la giurisprudenza del
tempo accordava al tormento una forza tale, da annullare tutte le
altre prove e "purgare gl'indizii"; e giacchè il tormento era
stato gagliardo e non ordinario, tanto più l'inquisito veniva a
giovarsi dell'esito avuto, secondo le dottrine de' criminalisti
più in voga. Così il Campanella dovea giuridicamente ritenersi
pazzo, quantunque tutti fossero persuasi che egli simulasse la
pazzia. E la conseguenza nel tribunale di S.to Officio non era
indifferente: come "relapso" egli anche pentito avrebbe dovuto
essere degradato e consegnato alla Curia secolare, che l'avrebbe
fatto morire; essendo pazzo, non poteva più patire condanna, e
laddove fosse stato già condannato dovevagli essere risparmiata la
pena di morte, sul riflesso che avrebbe potuto un giorno rinsavire
e pentirsi(272). Non occorre dire quanto siffatto principio sia
degno di nota, per valutare giustamente la risoluzione che da Roma
venne presa più tardi intorno al Campanella.
Le copie di tutti questi Atti processuali erano inviate mano mano
a Roma, secondochè mostrano le note di tempo in tempo inserte nel
processo dal Notaro Prezioso: ma dopo tanto movimento si ebbe una
lunga fermata, sicuramente perché i forti calori della stagione
estiva solevano tenere lontano da Napoli il Vescovo di Caserta, e
poi più tardi perché la malattia la quale afflisse il Vicerè, e
finì per trarlo alla tomba, fece mancare un assiduo ed istancabile
sollecitatore della causa. Appena un solo altro Atto fu compiuto
nel resto dell'anno, e con molta fiacchezza, per un novello
incidente sorto in questo tempo.
Il 2 agosto avveniva tra frati e laici carcerati una rissa, della
quale non si potrebbero in modo assoluto affermare le
particolarità precise, poichè fu seguita da fatti ne' quali dovè
intervenire il tribunale, e naturalmente ogni inquisito si fece a
narrare le cose a modo suo: ne diremo quanto si potè raccogliere
intorno ad essa dalle migliori testimonianze non soltanto
degl'inquisiti ma anche degli ufficiali del Castello. Quello
spirito irrequieto di Felice Gagliardo era stato dapprima in
compagnia di Orazio S.ta Croce nel Castello dell'ovo per 17 mesi,
ed ivi, oltre al mantenere corrispondenza co' banditi delle
vicinanze di Reggio, che stavano in relazioni col padrigno suo
Pietro Veronese, oltre al comporre prose e versi, un po' per
bizzarria un po' per bisogno si diede a coltivare la negromanzia:
il Castellano D. Melchiorre Mexia de Figueroa, che già l'avea
fatto rinchiudere in un criminale, avvertito da' carcerati, e tra
questi anche da Jacobo Moretto, che presso di lui si trovavano
molte carte di negromanzia e già molte altre dello stesso genere
ne avea lacerate, fece egli medesimo una ricerca e prese tutte le
carte che trovò, delle quali alcune trasmise a D. Giovanni Sances,
altre tenne presso di sè, altre lasciò prendere da Scipione Moccia
Auditore del Castello. Tradotto poi nel Castel nuovo, il Gagliardo
venne posto in una medesima camera con Orazio S.ta Croce, con fra
Paolo della Grotteria, fra Giuseppe Bitonto e Giuseppe Grillo, di
poi insieme col S.ta Croce passò a stare col Soldaniero, più tardi
fu di nuovo allogato nella camera in cui si trovavano fra Paolo e
il Bitonto, e con essi il Petrolo e fra Pietro Ponzio:
naturalmente egli si strinse subito in amicizia con fra Paolo, che
sappiamo amatore di segreti e sortilegi, e col Bitonto, che già
conosceva e che si mostrò egualmente proclive a questo genere di
cose; un altro carcerato Cesare d'Azzia napoletano, li aiutò
grandemente ne' loro studî, prestando una copia manoscritta della
così detta Clavicola di Salomone, ancor oggi tenuta in onore
dagl'imbecilli che si occupano di divinazioni segnatamente pel
giuoco del lotto, inoltre un libro manoscritto di segreti,
ricette, scongiuri ed artifizii magici(273). Il Gagliardo e il
Bitonto si diedero subito a trarre una copia di tali scritture, e
s'intesero tra loro al punto, che o per amicizia o piuttosto
dietro qualche piccolo compenso, facile ad assumere ogni maniera
di responsabilità quasi bravando i rigori del tribunale, il
Gagliardo rilasciò al Bitonto una dichiarazione scritta in
presenza del Curato del Castello ed altri testimoni; con questa
affermava non esser vero quanto in processo leggevasi deposto da
lui contro il Bitonto, cioè che costui gli avea detto di stare in
ordine perché presto vedrebbe succeder guerre, ma esservi stato
falsamente inserto da quelli che formarono il processo. Tali
scritture, con altre ancora, si conservavano in una cassa
appartenente al Bitonto, e questa cassa, non molto tempo prima
dell'avvenimento che dobbiamo narrare, fu portata dal Bitonto
nella camera di fra Dionisio, ritenutane la chiave in poter suo,
pel motivo o pel pretesto che nella camera in cui stava erasi
verificato qualche furto. Ora appunto il 2 agosto fra Pietro
Ponzio disse al carceriere che facesse uscire il Gagliardo dalla
camera dove trovavasi in compagnia di loro frati, e gli suggerì di
allogarlo in un'altra camera in cui si trovava Camillo Adimari col
Marrapodi, Conia, Soldaniero e S.ta Croce. L'Adimari uscito fuori
sulla loggetta del corridoio, se ne risentì, perché già stavano
troppi letti in quella camera, e venne alle mani con fra Pietro il
quale gli diede uno schiaffo. Accorsero allora i laici da una
parte e i frati dall'altra, gli uni in difesa dell'Adimari e gli
altri in difesa di fra Pietro: segnatamente il Soldaniero, il S.ta
Croce e il Gagliardo, si azzuffarono col Petrolo, col Bitonto ed
inoltre con fra Dionisio uscito dalla sua camera per quel rumore,
avendo i frati "sarcene alle mani e seggiolelle di paglia"
(fascetti di legna da ardere e sedie comuni), e servendosi i laici
de' loro cinturoni di cuoio come allora si usavano. I soldati del
Castello e il carceriere intervennero e separarono i contendenti,
cacciandoli nelle rispettive camere; ma fra Dionisio fu trovato
ferito alla fronte, e dapprima disse che l'aveano ferito il S.ta
Croce e il Gagliardo, poi, venuto nel Castello l'inframmettente
Padre Mendozza, disse a costui che l'avea ferito il Soldaniero.
Nella sera dello stesso giorno, da un lato il Soldaniero si
presentò al luogotenente del Castello D. Cristofaro de Moya,
d'altro lato il S.ta Croce e nientemeno anche il Gagliardo si
presentarono al sergente Francesco Alarcon, dicendo che per
servizio di Dio e di S. M.tà facessero fare una ricerca nella
camera di fra Dionisio, rovistando tutta la camera ed una cassa
che là si trovava, perché sarebbero venute fuori "scritture e
carte triste e prohibite"; e quegli ufficiali, insieme con due
soldati e col carceriere Martines, si portarono a fare la ricerca
non solo nella camera di fra Dionisio, facendolo stare presente,
ma anche nella camera degli altri frati e in quella del
Campanella. Presso fra Dionisio fu trovata qualche lettera e
segnatamente una lettera di un Sertorio del Buono da Fiumefreddo a
lui diretta; fu trovata inoltre la cassa di pioppo bianco ma senza
la chiave, e fattala trasportare alla camera del Castellano ed
avuta la chiave dal Bitonto, ne furono estratte le "carte di
fattocchiarie", la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo in
favore del Bitonto ed anche le scritture concernenti la persona di
fra Dionisio nella causa di eresia, vale a dire gli articoli del
fiscale contro di lui, gli articoli suoi in sua difesa, e dippiù
una "Consideratione dell'essamina et lettura del processo de
pretensa rebellione". Presso fra Pietro Ponzio fu trovato "dentro
uno marzapane grande tondo" (canestro tondo di vimini fornito di
coverchio) un libretto di Poesie rivestito di pergamena, "con
zagarelle di seta pavonazze e rangiate" per fermagli; erano le
poesie del Campanella che fra Pietro si occupava di raccogliere e
divulgare. Presso gli altri frati la ricerca riuscì infruttuosa,
ed unicamente sotto il capezzale del letto del Gagliardo, che
stava con loro, furono trovate scritture di magia con circoli e
segni; ma più si sarebbe trovato se la ricerca fosse stata
condotta con maggior diligenza, e difatti più tardi ne vennero
fuora altre carte di sortilegi. Infine presso il Campanella fu
trovata qualche altra cosa, e ne lasciamo il racconto al sergente
Alarcon che così si espresse quando fu poi esaminato più tardi su
tale incidente: "Andassemo ancora à cercare la camera di frà
Thomaso Campanella, et non vi trovai altro eccetto che una lettera
serrata, non mi ricordo à chi era diretta, et perche lui stava
malato in letto, ce stava un suo fratello dentro la camera, non mi
ricordo il nome, et il patre stava fuori la camera, et mentre si
faceva la cerca, se accorse lo tenente che il fratello di
Campanella era stato alla cancella, et entrò suspetto che non
havesse buttato alcuna cosa dala fenestra, et quando fummo à basso
al reveglino trà le due porte del Castello, trovassemo una
scrittura di diece ò dodici fogli in circa scritti, quali anco io
pigliai è portai al Sig.r Castellano"(274). Vedremo più tardi cosa
fosse questo scritto del Campanella: diremo intanto che il
Castellano D. Alonso de Mendozza, viste le carte, il giorno dopo
ordinò che fossero rinchiusi nel torrione del Castello, in due
criminali separati, fra Pietro Ponzio primo motore della rissa e
fra Dionisio ritenuto autore delle carte proibite; ordinò inoltre
che tutte le carte trovate nella ricerca fatta fossero portate al
Vicerè dallo stesso luogotenente De Moya. Con ogni probabilità
allora appunto, nell'essere fra Dionisio preso e tradotto al
torrione, vennero trovate ancora nella camera di costui quattro
lettere di fra Pietro di Stilo, in data del 3 agosto, scritte
pochi momenti prima da fra Pietro a persone amiche e parenti di
Gio. Gregorio Prestinace. Ecco ora quanto accadde delle carte
portate al Vicerè, secondochè narrò il De Moya quando fu poi
chiamato a deporre: "Le fici portare... à sua Eccellenza del
vicerè di questo Regno, che stava alhora à chiaya alle case è
giardino di Don Pietro di toledo, et io proprio in nome di detto
Sig.r Alonso castellano le consegnai al vicerè alla presentia di
Don Pietro Castelletta Regente di Cancellaria, è di Don Giovanni
sanges de luna, dandoli conto come si erano trovate è dove, et in
particolare dissi che alcune di quelle scritture erano state
trovate dentro di una cassetta di detto fra Dionisio pontio, et
detto Don Pietro et Don Giovanni le veddero è lessero, et alhora
medemo il vicerè ordinò fussero date sicome foro date al detto
Sig.r don Giovanni sanges de luna, il quale se le pigliò in suo
potere, e ben vero che tre à quattro di quelle carte restorno in
potere del vicerè, il quale ordinò che se notassero che scritture
fussero, et credo che don Giovanni le notasse, et quali foro
quelle che si pigliò il vicerè io non le so, è mi ricordo che io
ci viddi una carta nella quale era una mano pinta, ò fatta con la
penna et inchiostro, altro in particolare non mi ricordo, è poi io
mi licentiai dal vicerè et me n'andai"(275). Probabilmente le
scritture che il Vicerè tenne presso di sè furono quelle di
segreti, ricette e sortilegi, le quali destavano curiosità: ad
ogni modo doverono certamente destare curiosità sopra tutte le
altre quelle della difesa di fra Dionisio nella causa di eresia,
per le quali si potè avere una notizia abbastanza precisa di detta
causa. Riesce poi notevole che il Vicerè non abbia fatto
trasmettere al S.to Officio le carte che cadevano sotto il dominio
di quel tribunale: è impossibile ammettere che egli non vi avesse
dato importanza, ma si può meglio ritenere che egli non le abbia
trasmesse per evitare un motivo di ulteriori lungaggini. Invece se
ne diè moltissima cura fra Dionisio, che non quietò, finchè non
venne ordinato di pigliare informazione su questa faccenda delle
scritture.
Non appena potè, fra Dionisio mandò al Vescovo di Caserta un
memoriale, supplicandolo di venire in Castello "per cose
importantissime di S.to Officio"; e il 26 agosto, innanzi al
Vicario Arcivescovile e al Rev.do Antonio Peri, trovandosi
impedito il Nunzio ed assente il Vescovo di Caserta, fu
interrogato circa il memoriale mandato(276). Egli disse che coloro
i quali gli si erano esaminati contro, in materia di eresia e di
ribellione, avevano assaltato lui ed il germano fra Pietro,
l'avevano ferito alla fronte con effusione di sangue, e poco dopo,
fatta una ricerca nella sua camera, erano state trovate scritture
proibite in una cassa, la quale apparteneva al Bitonto, che l'avea
portata presso di lui perché la conservasse; e ne' giorni seguenti
aveva visto quelle scritture in mano del Barrese, venuto in
Castello per dimandargli se fossero sue, e credeva che il Bitonto
gli avesse "fatto il tradimento" d'accordo col S.ta Croce,
Soldaniero e Gagliardo, tanto più che fra Pietro, il quale si
trovava, come egli stesso, in un criminale, avea minacciato
costoro di volerli denunziare al S.to Officio per cose gravissime.
Chiese quindi che si pigliasse informazione intorno a quelle
scritture, che ne fossero gastigati gli autori o possessori, che
si desse a fra Pietro suo germano il modo di poter presentare i
capi di accusa contro que' suoi nemici, che fossero costoro
"separati e posti in clausura", tanto perché potesse scovrirsi la
loro perversità, quanto perché erano incorsi nella scomunica.
Dietro dimande, disse che avea conosciuto essere quelle scritture
di carattere del Gagliardo, aggiungendo che insieme con esse avea
veduto in mano al Barrese anche le sue scritture di difesa e i
capi del fisco in materia di S.to Officio (così profittava
dell'occasione, se pure non l'aveva egli stesso provocata, per
giustificare i suoi ritardi e prender tempo ulteriormente): disse
ancora che tutti e tre que' ribaldi l'aveano percosso, ma il S.ta
Croce l'avea ferito, mostrando la ferita, medicatagli "dal
chirurgo del Castello nomine Scipione" di cui non sapeva il
cognome (Scipione Camardella). Diede l'elenco de' testimoni, e
dichiarò causa della rissa l'aver voluto fra Pietro Ponzio
discacciare dalla camera sua il Gagliardo "per alcuni furti et
perche haveva inteso che andava vendendo magarie"; aggiunse che la
cassa del Bitonto era stata solamente circa otto giorni in camera
sua. - Verso lo stesso tempo, Camillo Adimari sporse querela al
Vicario Arcivescovile contro fra Pietro Ponzio, perché aveva
insultato esso querelante pacifico e quieto, e gli avea dato uno
schiaffo in presenza della maggior parte de' carcerati, onde
chiedeva una diligente informazione su questa insolenza e un
provvedimento di giustizia. Naturalmente fra Pietro non poteva
starsene tranquillo, dovea rispondere alla provocazione e già avea
mostrato, per mezzo di fra Dionisio, che non gli mancava la
materia per la risposta. D'altra parte ancora, non si saprebbe
dire perché, il Lauriana mandò al Rev.mo Vicario un memoriale,
supplicando di essere riesaminato. Ma il tribunale non si riscaldò
menomamente, non diè segno di vita per tutto il resto dell'anno,
né ripigliò poi le sedute senza una sollecitazione del Card.l di
S.ta Severina. Evidentemente le sollecitazioni efficaci dalla
parte del Governo di Napoli erano venute meno.
Come abbiamo avuta occasione di accennare, il Vicerè fu in questo
tempo afflitto da una malattia che lo condusse alla tomba. Fin dal
giugno erasi recato a Pozzuoli, con la speranza di guarire da
certi edemi che gli erano comparsi e che si dicevano "pienezza di
carne"; quindi era tornato a Napoli prendendo stanza a Chiaia. Ma
a' primi di settembre già susurravasi essere la malattia
dell'intestino retto e dover finire con una "fistola penetrante";
se ne indicava anche la cagione, attribuendola alla intemperanza
dell'infermo, per la proclività ad accettare i banchetti
offertigli continuamente da' Nobili e forse graditi alla sua
Signora più che a lui. I medici erano in moto, e come faceva
sapere il Residente Veneto al suo Governo, il 18 7bre ritenevasi
ottenuto un miglioramento, per una medicina che "una parte de'
medici si era arrischiata a dargli dopo molti dispareri". Una
insignificante relazione sullo stato dell'infermo, con richiesta
di consiglio e rimedio, fu inviata dalla casa del Vicerè al dottor
Diaz a Pisa, e leggesi in quel grande emporio di notizie che è
l'Archivio di Firenze(277): ma un medico di provincia, che abbiamo
già avuta occasione di nominare, Giacomo Bonaventura, predisse
francamente male, e questo esatto pronostico gli valse l'onore di
esser chiamato al servizio di Clemente VIII, avendo Gio. Geronimo
Provenzale dovuto recarsi all'Arcivescovado di Sorrento, che gli
era stato concesso nel 1598 e che si godè fino al 1612(278). Dopo
di aver molto penato, "con febbre, flusso, siero e fistola
penetrante", il 19 ottobre il Vicerè venne a morte; a 57 anni di
età, dopo 57 giorni di malattia, come notarono gli studiosi de'
numeri di quel tempo, calcolando il principio della malattia dal
giorno in cui pel suo aggravamento si divulgò; essi notarono
ancora che a breve intervallo venne a morte anche il fratello suo
da lui tanto stimato, l'Arcivescovo di Taranto. Il Parrino ci ha
tramandato le notizie delle pompe funebri, con l'elenco de'
distinti personaggi che portarono sulle loro spalle la salma del
Vicerè, tra i(279) quali Carlo Spinelli; così pure le lodi
dell'estinto, il compianto dei cittadini etc. etc. e questa volta
bisogna dire che abbia ragione, poichè dopo la condotta per lo
meno scempiata del Conte Olivares suo predecessore, la condotta
del Conte di Lemos apparve tanto più degna di encomio. Non
mancarono a' canti delle vie, come già in certi altri momenti del
suo governo, le così dette pasquinate e i cartelli infamatorii,
sfogo abbastanza frequente e per lo più espresso in modi goffi, ma
che pure gioverebbe e non sarebbe sempre difficile conoscere
rovistando le antiche scritture: bisogna pertanto notare che p.
es. il Residente Veneto biasimò sempre tali manifestazioni contro
il Lemos, e talora con parole estremamente acerbe(280).-Successe
come Luogotenente generale D. Francesco de Castro secondogenito
del Lemos, il quale pure altra volta, in assenza del padre andato
a Roma, avea governato il Regno con lo stesso titolo. Già sappiamo
che allora non mancò d'insistere perché il negozio de' frati
avesse un termine, ma non apparisce che avesse fatto
sollecitazioni in questo periodo del suo governo, avendo invece
cominciato a farle molto più tardi.
Intanto i frati languivano già da un pezzo e continuarono a
languire nella più squallida miseria, circostanza da notarsi per
comprendere alcune delle poesie del Campanella, che a suo tempo
dovremo passare a rassegna. Una lettera del Nunzio, scritta fin
dal 7 7bre al Provinciale de' Domenicani di Calabria(281), ci fa
sapere che da' conventi di quella Provincia erano stati una volta
mandati danari perché fossero distribuiti a' carcerati, ma che
appunto il Campanella, il quale ne avea "bisogno più che gli altri
come malato, non hebbe nulla"; e però il Nunzio aveva ordinato che
fosse risarcito con la somma che allora si diceva pronta per lo
stesso oggetto, e che tutti i danari rimanessero in mano di un
corrispondente del Campanella in Napoli, il quale l'avrebbe
provveduto di quel che gli fosse occorso, ed avrebbe badato,
"sendo mentecatto", che non gli fossero rubati; aggiungeva poi il
Nunzio che di tempo in tempo avrebbero dovuto mandarsi altre
somme. Ma non apparisce che i danari, i quali si dicevano allora
pronti, fossero stati così presto disponibili; essi doveano
passare per varie mani e poteano per lo meno incagliare per via.
Difatti vedremo più in là che una somma di D.ti 200 inviati da
Calabria, con ogni probabilità quella medesima per la quale avea
scritto il Nunzio, ebbe a patire la detta traversìa ed anche
qualche cosa di peggio. né ci mancano documenti da' quali si
desume che i poveri carcerati, nel tempo cui siamo pervenuti,
doverono reclamare più volte a Roma e poi anche a Napoli, perché
si provvedesse alle cose necessarie pel loro vitto.
IV. L'anno 1602 cominciò con una sollecitazione del Card.l di S.ta
Severina al Vescovo di Caserta, per la quale si vide presto
cessata la sospensione della causa(282). Il 4 gennaio, a nome
della Congregazione de' Cardinali colleghi il S.ta Severina
scriveva che non si era saputo più nulla intorno alla causa, che
oramai per la morte del Vescovo di Squillace, pel lungo tempo
trascorso etc. non c'era nulla da attendersi sulle informazioni
commesse in quella diocesi, che infine si voleva conoscere se
fosse stato provvisto al vitto de' carcerati, come più volte erasi
da Roma ordinato a' loro superiori. - E gli 11 gennaio i carcerati
dirigevano anch'essi un memoriale al Vescovo(283) facendogli
sapere che in quel giorno si era recato presso di loro lo scrivano
dell'Inquisizione (forse il Prezioso) per intendere i loro
bisogni, ma avea "dimostrato non troppa intentione di charità", e
quindi supplicavano che si provvedesse. Tutti i frati apposero la
loro firma a quel memoriale, ma pel Campanella l'appose il
carceriere Alonso Martines, e da ciò ben si rileva che egli
continuava sempre a mostrarsi pazzo.
Il 13 gennaio, innanzi al Vescovo di Caserta e al pro-Vicario
generale Curzio Palumbo, che a questo periodo del processo
sostituì definitivamente il Vaccari nell'assistenza alle sedute,
fu esaminato di nuovo fra Dionisio e gli fu dimandato se volesse
dire altro, poichè le risse e le inimicizie da lui deposte non
erano materia di S.to Officio. Fra Dionisio rispose che aveva
inteso deporre sulle scritture trovate in camera sua e mostrategli
dal Barrese, per le quali voleva essere punito se mai fosse
risultato colpevole. Aggiunse poi che il Soldaniero, comunque
scomunicato per averlo percosso, e già prima scomunicato anche dal
Vescovo di Tropea per violata immunità ecclesiastica, non se n'era
mai curato né se ne curava, continuando ad ascoltare la Messa
nella Chiesa del Castello. - Certamente il tribunale dovè allora
rivolgersi a S. Eccellenza per avere le scritture in quistione,
giacchè poco oltre un mese dopo, per ordine di S. Eccellenza, le
scritture gli furono inviate: ma non credè di dover ritardare per
questo la spedizione della causa principale, non si curò
dell'avere fra Dionisio esposto che gli erano state tolte anche le
scritture di difesa e i capi del fisco, procedè agli atti
ulteriori e poco dopo abilitò, come allora si diceva, il
Soldaniero ad uscire dal carcere. Fra Dionisio ebbe a sentirsene
gravemente offeso, e pensò allora di rivolgersi al S.to Officio di
Roma, dal quale vedremo in sèguito ordinato di procedere alla
debita informazione sulla faccenda delle scritture. Non meno ebbe
a sentirsene offeso fra Pietro Ponzio, il quale poco tempo prima
avea potuto finalmente presentare i suoi capi di accusa, una
denunzia formale in materia di S.to Officio contro i laici
intervenuti nella rissa e qualche loro aderente, tra gli altri
contro il Soldaniero. Entrambi i Ponzii erano stati tenuti quattro
mesi ne' criminali del torrione, e può intendersi facilmente come
fossero anche per questo divenuti furiosi.
Dobbiamo qui dire che nella stessa data, 13 gennaio 1602, fu
iniziato un processo secondario contro Orazio S.ta Croce
continuato poi contro Felice Gagliardo, sulla base appunto della
denunzia presentata da fra Pietro Ponzio, la quale veramente,
oltre il S.ta Croce e il Gagliardo comprendeva anche Giulio
Soldaniero e un Ferrante Calderon dottore spagnuolo del pari
carcerato(284). I lettori intenderanno che riuscirebbe impossibile
seguire tutti i particolari di questo processo, condotto a sbalzi
per due anni interi, senza intralciare orribilmente la narrazione
del processo principale ed anche correre il rischio di non finirla
più; ma non possiamo dispensarci dal darne alcuni cenni, i quali
veramente sono necessarii a chiarire certi fatti del processo
principale, senza contare che ci fanno apprendere come si passava
la vita nel Castel nuovo quando c'era il Campanella. La denunzia
di fra Pietro mandata al Card.le Arcivescovo di Napoli, recava le
seguenti cose, illustrate ed ampliate poi nel corso del processo a
questo modo: 1° Contro il S.ta Croce; che era un pubblico
bestemmiatore e diceva anche continuamente "santo diavolo"
(esclamazione calabrese ancor oggi comunissima); che giocando a
dadi col carceriere avea detto "Dio, non ti credo, se la prima
volta ch'io giocarò con Martines non mi farai uscire da questo
Castello con un Crocifisso alle mani et un chiappo in canna" (un
laccio al collo per essere appiccato), e poi avea seguitato a
giocare col Martines; che avea detto essere "il diavolo assai più
potente di Dio, perché Dio non aiuta gl'innocenti e il diavolo
aiuta li suoi vassalli li tristi"; che non dava alcun segno di
devozione, non andava a Messa né recitava officio né rosario, e
ne' giorni solenni era visitato da una certa Delia sua antica
concubina, con la quale stava di giorno e di notte, mangiava e
giaceva in presenza anche de' frati, ed essendogli stato ciò
proibito avea proferita una laidissima proposizione (la quale
perciò sarà meglio non ripetere); che avea ferito fra Dionisio
nella rissa, e trovandosi scomunicato non se n'era dato mai
pensiero, anzi alle osservazioni fattegli avea risposto con un
proverbio calabrese, "meglio essere scomunicato che comunicato
all'imprescia" (comunicato in fretta). 2° Contro il Gagliardo; che
era un pubblico mago e disegnava circoli con nomi di demonii, ed
un libro con circoli disegnati trovavasi nelle mani degli
ufficiali del Castello, anzi una volta un soldato con una gamba di
legno, che stava al Castello dell'ovo, venuto ad esigere danari da
lui avea detto che in quel Castello gli erano state trovate carte
contro Dio; inoltre che nel Castel nuovo un certo Marcantonio
Buono calabrese veniva a visitarlo per cose magiche, ed un giorno
rimasti soli fecero insieme suffumigi con zolfo "e una pignatella
piena di mill'imbroglie", e Geronimo Campanella entrando nella
camera se n'uscì subito spaventato e cacciato dal puzzo gridando
che là "ci erano cento mila diavoli", che in presenza de'
carcerati si era vantato di rapporti carnali avuti con la suocera
e la sorella della suocera, dicendo che era più dolce avere di
tali rapporti con le parenti, e bene avea fatto Mosè a
prescriverli; che pubblicamente ritenevasi aver lui scritto col
proprio sangue una carta al diavolo donandogli anima e corpo; che
era ladro, e in tutte le sue azioni avea sempre mostrato poco
timore di Dio. 3° Contro il Soldaniero; che da due anni
scomunicato per Cedoloni affissi alla Cattedrale di Tropea, e poi
incorso nuovamente nella scomunica per aver percosso sacerdoti
suadente diabolo non si era curato dell'assoluzione, continuando a
udir la Messa e conversare con tutti absque resipiscentia. 4°
Contro il Calderon; che avendo chiesto a fra Pietro su che si
fondava il Campanella per sostenere prossimo il dì(285) del
giudizio, ed avendo udite citazioni della scrittura e de' Padri, e
tra esse qualcuna di Esdra, si era lasciato dire essere Esdra
semplice storico e non profeta; che avendo udita la citazione di
S. Vincenzo Ferreri, cui Cristo aveva ordinato di predicare
nell'occidente la prossima ora del giudizio, come leggevasi nel
Breviario, si era lasciato dire queste essere ciarle fratesche per
accrescere onore alla religione; che discorrendo della fede ne'
beati ed in noi viatori, si era lasciato dire altro essere ciò che
noi crediamo ed altro ciò che quelli vedono, ed esservi differenza
non solo nel principio e nel mezzo, ma anche nelle conclusioni
della fede; che infine si era lasciato dire la fede vera procedere
dall'esperienza e non dall'udito, né voler credere se non ciò che
vedeva.
Co' criterii odierni non si potrebbe comprendere come mai fosse
stato tratto in iscena questo povero dottore; ma bisogna sapere
che nelle cose di S.to Officio non si transigeva facilmente in
quel tempo, ed al contrario di quanto generalmente si ritiene,
lungi dall'essere il tribunale della fede mal tollerato, vi si
accorreva molto volentieri, come lo dimostrano le "spontanee
comparse" contro la propria persona, numerose al punto da far
rimanere stupiti allorchè si esamina una collezione di scritture
di questo genere. Ad ogni modo sulla denunzia suddetta di fra
Pietro Ponzio, cui si aggiunse la querela di Camillo Adimari
contro fra Pietro per lo schiaffo che costui gli avea dato,
querela del resto malamente diretta al tribunale della fede e però
inutile, si diè principio al processo in quistione. Funzionarono
quali Giudici il Vescovo di Caserta, Curzio Palumbo ed Antonio
Peri, nella sola prima seduta; poi Curzio Palumbo e D. Manno
Brundusio Fundano, clerico, Segretario del Vescovo di Caserta,
nella 2a seduta e in qualche altra(286); più tardi funzionò il
solo Curzio Palumbo qual deputato speciale, e talvolta senza
questo titolo, che anzi in qualche decretazione figurò il
Cardinale Arcivescovo Gesualdo, e il nuovo Vicario generale
Alessandro Graziano. Un notevole elenco di testimoni fu dato da
fra Pietro ed anche dall'Adimari, e questo riesce di molta
importanza per noi. Oltre i frati, D. Francesco Castiglia, il
carceriere Martines e il sottocarceriere Antonio Ettorres (sic),
vi figuravano pure Francesco Gentile, Geronimo e Gio. Pietro
Campanella, il Marrapodi, il Conia, l'Adimari medesimo (dato da
fra Pietro); Geronimo Baldaia, Marcello Salerno: il Notaro
Prezioso, che dovea farne la ricerca, scrisse i nomi di questi
ultimi, eccetto quello di Gio. Pietro Campanella forse per
dimenticanza, e vi segnò a lato il rispettivo domicilio, onde si
legge, "Geronimo Campanella è in Stignano, Geronimo Conia à
Castellovetere, Camillo Adimari è d'altomonte non si sà dove sia"
etc; quanto a Francesco Gentile si legge, "è stato carcerato e
liberato, non se sape dove habita", e poi, "à mezzo cannone alla
banda de la fontana, sagliendo ad alto passata la fontana" (una
via di Napoli molto conosciuta). Raccomandando all'attenzione de'
lettori questa notizia sul Gentile di cui avremo ad occuparci più
in là, osserviamo per tutti i calabresi suddetti che erano già
liberi nel tempo in cui fu scritta dal Prezioso quella lista, ed
anche l'Adimari era libero, onde aggiungevasi quest'altro motivo
perché la sua querela rimanesse abbandonata: il processo della
congiura era dunque finito per essi prosperamente, né il S.to
Officio avea posta l'empara per quelli che aveva esaminati in
materia di fede, vale a dire Marrapodi, Conia, Adimari e d'altra
parte Geronimo Campanella, sicchè avea lasciato cadere le
imputazioni dapprima accolte contro di loro. Ma la data in cui fu
scritta la lista del Prezioso non è determinata; si può solamente
dire che dovè essere scritta tra il febbraio e l'aprile 1602, e
però tale sarebbe la data approssimativa del rilascio della
maggior parte di que' carcerati, mentre sappiamo che taluni di
loro, come il Baldaia ed anche il Salerno, erano liberi da un
pezzo; difatti dobbiamo ritenere essere stata scritta la lista
quando trovavasi ancora in ufficio il Martines, che dal processo
sappiamo aver patita l'esonerazione in maggio, mentre poi il
processo fu avviato realmente nel mese di marzo, e continuato a
riprese in luglio, agosto, settembre e novembre. Dapprima, il 13 e
19 gennaio, fu esaminato fra Pietro Ponzio per lo svolgimento
della denunzia presentata; di poi si attese fino al 6 marzo per
esaminare il Soldaniero, il quale già trovavasi fuori carcere e ad
ogni modo pervenne a giustificarsi, affermando che nella rissa si
era limitato a dividere i contendenti, e che in Tropea non era
stato scomunicato lui ma un Camillo di Fiore al quale egli era
subordinato; inoltre il 7 e 19 marzo furono esaminati quali
testimoni fra Pietro di Stilo e il Petrolo, che confermarono i
fatti asserti nella denunzia, e gl'illustrarono fornendo tutti i
particolari sopra esposti. Si effettuò poco dopo la pace tra i
Ponzii e il S.ta Croce, e costui, assolto dalle censure, venne
quindi esaminato intorno alla rissa (28 marzo), nella quale
affermò aver presa parte solo per dividere i contendenti, ed
essere la ferita di fra Dionisio imputabile non a lui ma al
Soldaniero. Dopo questo esame il processo rimase lungamente
interrotto, né venne ripigliato che scorsi quattro altri mesi, nel
luglio; dobbiamo dunque anche noi interromperne l'esposizione.
Dicevamo che il tribunale non credè di dover ritardare la
spedizione della causa principale per qualsiasi motivo, e difatti
il 19 gennaio 1602 ordinò che fosse condotto alla sua presenza fra
Dionisio, e gli assegnò un termine preciso e perentorio di altri
15 giorni per fare qualunque difesa se volesse farne; e fra
Dionisio espose che non aveva Avvocato, e che gli occorreva la
copia delle difese sin allora fatte. Nel giorno medesimo tenne lo
stesso procedimento col Petrolo, col Lauriana, con fra Pietro di
Stilo, con fra Paolo, col Bitonto, chiamandoli in massa alla sua
presenza, e non ricordando che fra Pietro di Stilo aveva già da un
pezzo rinunziato alle difese. - Ma il 26 gennaio fra Paolo e il
Bitonto presentarono egualmente la loro rinunzia e dimandarono di
essere spediti secondo gli Atti del processo che ritenevano
legittimamente compilato, dicendosi poverissimi ed innocentissimi,
cruciati da lungo carcere "per la tentata ribellione pretesa e
figurata in aria, con riverenza, e per l'eresia": lo stesso poi
fecero, il 29 gennaio, il Lauriana e il Petrolo, dicendosi del
pari innocenti, innocentissimi, cruciati da lungo carcere e
l'ultimo di loro anche da un lungo tormento. Il tribunale allora,
il 31 gennaio, citò questi frati compreso fra Pietro di Stilo, ed
il loro Avvocato Stinca e Procuratore Montella, perché dopo di
essere stata intimata tale citazione venissero sulle 19 ore (verso
mezzogiorno) alle case de' Giudici, per dire ed allegare su' capi
spettanti al S.to Officio ciò che volessero, tanto a voce che in
iscritto, nel diritto e nel fatto; e l'intimazione fu eseguita il
2 febbraio. Certamente non si potè fare lo stesso con fra
Dionisio, poichè bisognava prima fornirlo de' documenti che gli
mancavano e che egli aveva indicati al tribunale per poter fare le
sue difese; e così forse accadde di dover procurare dall'altro
tribunale la copia dell'esame di Cesare Pisano innanzi allo
Sciarava, copia che trovasi inserta nel processo tra gli Atti del
tempo al quale siamo giunti, senza saperne il motivo(287).
Deliberavasi intanto l'"abilitazione" del Soldaniero, e il 12
febbraio, fattolo venire alla presenza de' Giudici nel palazzo del
Nunzio, lo si avvertì che dovea tenere per carcere la città di
Napoli, in guisa da non poterne partire senza licenza ottenuta da'
Giudici in iscritto, sotto pena di D.i mille in beneficio del
fisco apostolico; e il Soldaniero si obbligò alla detta pena dando
in garanzia tutti i suoi beni, ed indicò qual suo domicilio
l'alloggio di Lucrezia la bottegaia alla Carità. - Ma i frati già
avevano concertato di far cadere interamente sopra di lui la
responsabilità delle scritture di sortilegio, e senza alcun dubbio
si diedero premura di far accedere anche Felice Gagliardo al loro
disegno. Così, fin dal 2 febbraio, fra Dionisio potè presentare al
tribunale una Dichiarazione in questo senso, scritta da Felice
Gagliardo e da fra Giuseppe Bitonto, a' quali si aggiunse inoltre
fra Pietro di Stilo e fino ad un certo punto anche il S.ta Croce:
costoro, più o meno, dichiaravano che alla loro presenza, mentre
stavano sulla loggetta del Castello e il Bitonto portava la sua
cassa nella camera di fra Dionisio, Giulio Soldaniero lo avea
pregato di conservargli certe sue scritture d'importanza, le quali
erano chiuse e suggellate, e il Bitonto per fargli servigio aveva
aperta la cassa e rinchiuse in essa quelle scritture(288). Il
Gagliardo, che n'era stato per lo meno il copista insieme col
Bitonto, con la solita disinvoltura aggiunse nella dichiarazione
sua che quando il Soldaniero, dopo la rissa, fece istanza al
luogotenente e sergente del Castello perché procedessero ad una
ricerca di carte presso fra Dionisio, disse a lui Gagliardo, "non
dubitare, ch'io cilo carricata (int. ce l'ho caricata) a fra
Dionisio, et adesso sì che lo farò bruggiare, perche quelli
scritture che me vedesti porre in quella cassa sono pieni di
negromantie et d'invocatione di diavoli, et sarà il complimento
della sua rovina, et poco li gioveranno le defensione sue ch'ha
fatte". Quanto al Bitonto, si capisce che cadendo su lui la
responsabilità principale in questa faccenda, avea tutto
l'interesse di fare e di procurare che altri facessero simili
dichiarazioni: fra Pietro di Stilo poi vi si prestava gentilmente
nell'interesse di tutti i frati, e si vede bene che i comuni
pericoli aveano in lui cancellata ogni traccia della ripugnanza
che avea sempre sentita per la persona di fra Dionisio. A questi
tre venne ad aggiungersi ancora Orazio S.ta Croce, il quale per
altro attestò solamente di aver veduto il Bitonto portare la sua
cassa in camera di fra Dionisio e là deporla: con ogni probabilità
egli dovè rilasciare questa dichiarazione, del resto veridica, a
fine di cattivarsi i Ponzii co' quali gli premeva di far la pace,
che difatti fu segnata tra loro nel seguente mese e gli procurò
l'assoluzione dalla scomunica in cui era incorso. Fecero da
testimoni nell'anzidetta dichiarazione il Curato e il Sagrestano
del Castello, D. Gaspare d'Accetto e D. Francesco della Porta,
inoltre il sergente Alarcon e due altri: essi certificarono le
firme de' dichiaranti, ma solo quelle de' primi tre, la qual cosa
dà motivo di ritenere che il S.ta Croce dovè intervenire più
tardi.
E si ebbero finalmente le scritture che si aspettavano, verso il
20 febbraio. A questa data, secondochè si legge nella prima carta
del volume in cui quasi tutte furono riunite come allegati, D.
Juan Lezcano, segretario di S. Eccellenza, partecipò al Vescovo di
Caserta che S. E. aveva ordinato a D. Giovanni Sances di
consegnare a S. S.ia R.ma le scritture trovate nella cassa di fra
Dionisio Ponzio, ed insieme con esse una relazione di Marcello
Barrese sul come erano state trovate. Questa relazione o non fu
fatta, o non rimase nel processo, ciò che riesce più probabile; ma
le scritture furono consegnate tutte, per quanto è lecito
giudicare dagli Atti processuali che ne trattarono, comprese
quelle trovate fuori la cassa, ed esclusa soltanto la lettera
trovata chiusa presso il Campanella, della quale non si fece mai
più parola. Alcune vennero senz'altro inserte tra gli Atti, e
queste furono: la lettera di Sertorio del Buono a fra Dionisio, le
quattro lettere di fra Pietro di Stilo a diversi, e la
dichiarazione di Felice Gagliardo a favore del Bitonto circa le
cose che avea deposte in materia di ribellione (ved. pag. 231);
quest'ultima scrittura, se i Giudici, e segnatamente il Nunzio,
fossero stati più teneri del loro dovere, avrebbe dovuto essere
trasmessa al tribunale della congiura, ma invece rimase nel
processo dell'eresia. Tutte le altre scritture, divise in due
gruppi, vennero sottoposte al giudizio del P.e Cherubino Veronese
Agostiniano, Teologo qualificatore della Curia Arcivescovile; nel
1° gruppo si contenevano quelle che sappiamo essere state trovate
nella camera di fra Dionisio e presso gli altri frati, e però
imputabili più o meno a' frati; nel 2° gruppo si contenevano
quelle trovate presso il Gagliardo, secondochè rilevasi dal
processo, e tale distinzione, fatta sin da principio, mostrerebbe
che ci dovè essere la relazione del Barrese, quando le scritture
furono consegnate. Vedremo che al 2° gruppo si aggiunse ancora
un'altra scrittura, composta dal medesimo Gagliardo nientemeno
mentre il tribunale procedeva agli esami su tale argomento; e poi
si formò inoltre un 3° gruppo con le scritture appartenenti del
pari al Gagliardo, trovate quando egli era rinchiuso in Castello
dell'ovo e consegnate più tardi dal Castellano D. Melchiorre Mexia
de Figueroa. Così il Padre Cherubino ebbe a fare tre relazioni
successive, le prime in data del 15 e del 17 marzo, e questa con
una aggiunta, la terza in data del 24 aprile; le scritture furono
messe insieme in un volume col titolo "Scritture o Segreti
manoscritti proibiti trovati nella cassa di fra Dionisio Ponzio in
Castel nuovo con le relazioni del Rev.do Teologo sulle loro
qualità", mentre non tutte erano state trovate in Castel nuovo e
nella cassa di fra Dionisio, e già sapevasi che la cassa non
apparteneva a fra Dionisio ma al Bitonto.
Innanzi di procedere oltre, importa dar conto di tali scritture ed
anche della qualificazione espressa dal P.e Cherubino su quelle
che egli ebbe ad esaminare. Cominciamo dalle scritture inserte
immediatamente tra gli atti del 4° volume del processo, e dapprima
dalla lettera di Sertorio del Buono di Fiumefreddo in data del 9
luglio 1601(289). Costui rilevasi un amico affettuosissimo di fra
Dionisio e del fratello Ferrante, dal quale avea pur allora
ricevuto canzonette spagnuole (anche Ferrante era virtuoso in
poesia), e promette una fede del Clero di Fiumefreddo in favore di
fra Dionisio, la quale difatti giunse e trovasi in questo volume
del processo che non brilla per l'ordine dato a' documenti in esso
contenuti: spera poi ardentemente la liberazione di tutti, manda
un abbraccio al P.e fra Pietro "et all'amico", ricorda "la
natività" e promette "alcuna cosella"; sulla soprascritta si dice
quella lettera "data in potere della S.ra Donna Ippolita
cavaniglia al castel nuovo". Vedremo che fu poi dichiarato essere
appunto il Campanella l'amico, dal quale il Del Buono si aspettava
che consultasse l'oroscopo e desse la natività di un suo
figliuolo; e vuol essere intanto notato il nome di colei alla
quale era raccomandata la lettera, D. Ippolita Cavaniglia, pietosa
Signora che troveremo esaltata nelle poesie del Campanella come
sua grande benefattrice, onde avremo ad occuparci di lei
debitamente. - Passiamo alle quattro lettere di fra Pietro di
Stilo(290). Esse risultano scritte con la data del 3 agosto e
dirette tutte a Stilo, alla Sig.ra Giulia Prestinace sorella di
Gio. Gregorio(291), alla Sig.ra Porzia Vella suocera dello stesso,
a Suora Francesca Prestinace monaca di S.ta Chiara altra sorella,
ed al P.e Domenico Caristo vecchio frate ed amico comune. In
sostanza, più o meno, con parole coperte e sentenze curiose vi si
ammonisce che l'amico (Gio. Gregorio Prestinace) non si fidi nelle
assicurazioni del fratello, partito da Napoli credendo "di haver
effettuato ogni cosa à loro sodisfattione"; aspetti che la
forgiudica sia tolta, la qual cosa solamente il giudice
Marc'Antonio di Ponte può sapere quando accadrà, e non si piglino
"viziche per lanterne" ma si ascoltino "li consigli delli mal
patiti"; e badi l'amico "che con vane speranze se ne ritorni alla
patria" e pensi che vi sono nemici "et massime nci è illoco Giuda
Scarioto" (forse Giulio Contestabile), e che nel Castello "ci sono
emoli... quali non cessano dalla loro anticha perfidia"
(certamente Geronimo di Francesco come fu poi dichiarato), e
finita ogni cosa ne darà avviso "et allora l'amico potrà far la
sua risolutione di appresentarsi". Contemporaneamente vi si dà
speranza di prossima fine della causa con buon esito, perché il
Campanella ha vittoriosamente superato un grosso tormento e deve
averne un altro, e fra Dionisio pure dovrà averne un altro per le
scritture di segreti che si scoversero, ma un altro ne avrà anche
il Petrolo, e su costui non si può contare come su' due primi, e
però bisogna stare a vedere: questi concetti che esprimono i
giudizii, le speranze e i timori, senza dubbio divisi dallo stesso
Campanella, meritano di essere testualmente conosciuti. Fiero del
suo fra Tommaso per l'ottima prova da lui data, alla Sig.ra Giulia
fra Pietro dice: "Campanella hebbe quaranta hore di tormento
chiamato viglia, che fè stupir il mondo, et basta la fè più di un
lione scatinato, et speramo haver purgato le cose della
inquisitione; adesso aspetta un altro tormento di polledro
chiamato, pessimo tormento, quale sostenuto Campanella serà
assoluto da ogni cosa, per tanto vidiamo (int. aspettiamo a
vedere) questo fine, de più si hà di tormentare frà Dionisio per
li secreti adesso si sebbero (int. le scritture di secreti che
adesso si seppero) et si scoversero per vere, et si à questi dui
non temeti come huomeni di honore, che diremo di fra Domenico di
Stignano, quale rovinò tutta questa causa, quale harà di avere uno
grave tormento?" E alla Sig.ra Porzia: "Campanella dopò lo
tormento di quaranta ore, sostenuto valorosamente come leone, si
dice per verissimo che in materia di ribellione lui et frà
Dionisio haranno à esser tormentati un'altra volta et assoluti da
ogni male, al che non dovemo certo dubbitare, lo dubbio è che ha
di esser tormentato frà Domenico petrolo, rovina della causa si
bene si hà ritrattato, et per questo hà di esser tormentato, et
per l'esperienza fatta non li dovemo haver credito". E a suora
Francesca: "Campanella... queste settimane passate sostentò uno
horribile tormento di quaranta ore non senza grande honor suo et
bene quanto alla inquisitione; ben presto per materia di
ribellione harà un altro pochetto di tormento insieme con frà
Dionisio, quali dopò questo tormento saranno liberi et assoluti
omnino da tutte le cose pretenze, et di questo non teneti dubbio;
lo dubbio è che hà di esser tormentato frà Domenico petrolo di
stignano, del quale la persona può dubitare et deve assai per la
sua mala riuscita et pazzia, ma più tosto viltà che iniquità". E
si adopera sempre a confortare ognuno, ed appunto a suora
Francesca, dopo di avere con delicata attenuazione parlato del
"pochetto di tormento" da doversi sostenere da' due principali
inquisiti, scherzosamente dice che al suo ritorno le darà gran
penitenza, perché non ha pregato Dio per lui: confortatore egli
che avrebbe pure avuto bisogno di conforto, quantunque ignaro che
un tormento era riserbato del pari alla persona sua, questo frate
dabbene non può non destare la più viva simpatia. Pertanto
interessa notare que' suoi giudizii sul Petrolo, giudizii
assolutamente confidenziali e quindi schietti: il Petrolo è
dichiarato da lui non già inventore delle cose di ribellione, ma
uomo di mala riuscita e di niuno accorgimento, vigliacco piuttosto
che iniquo. - Circa la dichiarazione rilasciata da Felice
Gagliardo in favore del Bitonto abbiamo poco da dire: essa risulta
scritta in data del 5 giugno 1601, ed oltre la firma del
dichiarante reca quella, scioccamente vergata, del Curato del
Castello, ed anche quelle de' due clerici assistenti la Chiesa.
Come abbiamo già esposto altrove, il Gagliardo con essa negava di
aver detto ciò che trovavasi da lui deposto contro il Bitonto in
materia di ribellione: ed afferma che è falsità "falsamente posta,
con reverenza, da quelli che faceano il processo"!
Veniamo alle scritture costituenti il volume di allegati e
qualificate dal P.e Cherubino. Cominciando da quelle del 1° gruppo
appartenenti a' frati o attribuite a' frati, si ha in primo luogo
la così detta Clavicola di Salomone in molti fogli e con la
seguente nota: "fatta experientia per il Re di franza, per il Gran
Duca di fiorenza et altri Signori, et hoggi in questo Regno un
solo la tiene et il Prencipe di Conca sta dando opera di far tal
arte"(292). Il carattere di tale scrittura non è da per tutto
uniforme, sia per essere stata copiata in più volte, sia per
essere stata copiata da diversi individui: vedremo che il S.ta
Croce, molto competente, la disse di mano del Gagliardo, ma costui
la disse in parte di mano sua e in parte di mano del Bitonto,
avendo entrambi alternatamente lavorato per quella copia, e così
confermò pure in punto di morte, aggiungendo che ne aveano avuto
l'originale da Cesare d'Azzia egualmente carcerato, ed aveano data
quella copia a fra Dionisio perché la conservasse nella camera
sua, dove poi fu trovata. Il P.e Cherubino, nel qualificarla,
riconosce che è una copia, e rammenta che nell'Indice Romano
allora stampato essa è notata nella prima classe delle opere
proibite di autori incerti, risultando dichiarati veementemente
sospetti di eresia coloro che la leggono, la posseggono e si
servono delle cose in essa contenute, e formalmente eretici coloro
che credono vere le cose in essa insegnate. Si hanno poi diverse
scritture di minor mole che recano quasi sempre scongiuri, per
trovare un tesoro, per rintracciare un furto, per avere uno
spirito in forma di cavallo, per rendersi invisibile etc. etc.
sovente tratti dalla Clavicola di Salomone; per taluna di esse
potrebbe dirsi che sia stata copiata dal Bitonto, ma generalmente
il carattere è quello del Gagliardo, e il P.e Cherubino appone ad
ognuna il "sapit haeresim manifeste". Inoltre si ha un opuscoletto
sulla musica evidentemente di mano del Pizzoni, rimasto in potere
di qualcuno de' frati(293). Ancora un grosso fascicolo con
moltissime ricette e "percantazioni" curiose; per non far dormire
alcuni, per non esser preso, per far divenire zoppo un cavallo,
per indurre discordia, per sciogliere un ligato o per chi non
potesse stare con la moglie etc., tutto di mano del Gagliardo e
qualificato dal P.e Cherubino nel solito modo; alla fine poi di
questo fascicolo si trova una poesia in dialetto calabrese
distinta in due parti col titolo di "Amorosa" e "Partenza", di
mano del Gagliardo e con ogni probabilità di sua composizione, non
vista o non curata dal Notaro e dal P.e Cherubino. Sono 24 stanze,
alcune sufficientemente belle, e gioverà riportarne un saggio per
conoscere le qualità dell'autore. Dell'"Amorosa" scegliamo le
seguenti:
"Quandu ti viju a sa fenestra stari
mi pari in celu un Angela vidiri
e poi mu ti viju amacciari(294)
mi piglu pena affannu e dispiaciri
ca chi raggiuni non mi voi parlari
chi ti haiju fattu lu vorria sapiri
poi ca lu mancu non mi voi guardari
fingi chi non mi vidi e non fuijri(295).
Volsi provari lu luntanu stari
forsi di menti mi potevi usciri
l'amuri a autra banda volsi dari
e ijri arrassu per non ti vidiri
st'afflittu cori dissi nun lu fari
non ti scordari di lu ben serviri
mill'anni mi paria lu riturnari
cara patruna mia per ti vidiri.
Si vidi un'ursa in silva tetra et scura
aspra silvaggia, mansueta fari
si vidi un scogliu et una petra dura
spissu cadendu l'acqua arrimollari
e vui chi siti humana creatura
non vi potiti cu piantu placari
eccu chi siti ingrata di natura
essendo amata non voliti amari".
E queste altre della "Partenza":
"Cori mi partu e mi ndi vogliu ijri
restati in guardia dilu miu sustegnu
e di lu pettu so mai ti partiri
ch'in cambiu la sua imagini mi tegnu
avisami per via dili suspiri
si illa ti tratta cu amuri o cu sdegnu
e si canusci chi mi ha da tradiri
ijetta un suspiru chi subbito vegnu.
Gula d'argentu cinta di ligustri
pettu chi si la bianca nivi equali
bucca suavi chi parlando mustri
vivi rubini e perni orientali
occhi sireni più di un suli lustri
. . . . . . . . . . . . . ."
Ma ciò basta per mostrarci l'ingegno e la fantasia del Gagliardo.
Finalmente tra le scritture di questo gruppo si ha un libretto
coperto di pergamena, contenente le poesie raccolte da fra Pietro
Ponzio, composte dal Campanella: esse si veggono, con un principio
di dedica, indirizzate da fra Pietro al Sig.r Francesco Gentile
patrizio genovese, e ci dànno un quadro de' pensieri, delle
azioni, della vita intima del Campanella nel carcere fino al 2
agosto 1601, vale a dire fino a 2 mesi dopo la veglia, laonde
meritano di essere diligentemente considerate ed illustrate; noi
l'abbiamo già fatto in parte e seguiteremo a farlo più in là,
limitandoci per ora a notare che il P.e Cherubino le qualificò in
latino ed italiano "Carmina in laudem et improperium multorum, ad
amorem alliciendum; in quibus sunt multa quae videntur sapere
idolatriam. Scrive a la donna da lui amata chiamandola Sommo bene.
Dicteria multa, quae videntur sapere libellum infamatorium".
Decisamente il P.e Cherubino era disposto a trovarvi il peggio
possibile. Dobbiamo poi aggiungere che in questo gruppo di
scritture si sarebbe dovuto avere anche quella trovata nel
reveglino del Castello, sotto la finestra del carcere del
filosofo, gettatavi dal fratello Gio. Pietro al momento in cui
venivano gli ufficiali in cerca di scritture; ma essa non vi si
trova, non essendo stata aggiunta alle altre inviate al P.e
Cherubino e nemmeno inserta puramente e semplicemente nel
processo, mentre senza dubbio fu dal Sances trasmessa a' Giudici
del tribunale di eresia, nelle cui mani si trovava il 6 marzo
1602, quando fu esaminato il sergente Alarcon! La scomparsa di
questa scrittura merita di esser notata, ma non si può
interpretarla(296) in modo plausibile, se non ammettendo in
qualcuno de' Giudici, o de' loro auditori e segretarii, il gusto
di possedere un'opera filosofica del Campanella, giacchè con la
scorta dell'unico cenno datone nell'esaminare l'Alarcon si rileva
che tale era detta scrittura. Vedremo infatti tra poco registrato
in questo esame che essa, composta di 32 fogli, in carattere
minuto e senza coperta, cominciava con le parole "Per che teco
menare la vita non posso", e finiva con le altre, "ma che ne fece
poi voi lo sapete"; donde si rileva che trattavasi delle due prime
parti dell'Epilogo di filosofia, edito poi in latino dall'Adami
nel 1623 col titolo di Philosophia realis epilogistica; e ci
rimangono tuttora due copie manoscritte, nelle quali si leggono
appunto le dette parole, ma di ciò parleremo più opportunamente in
altro luogo di questa narrazione. Qui vogliamo soltanto notare che
se i Giudici avessero avuto un vivo sentimento del proprio dovere,
senza dubbio si sarebbero guardati dal lasciar perdere una
scrittura, nella quale fin da' primi versi e da' primi capitoli si
trattava di Dio, di Dio creatore e della Provvidenza Divina,
mentre il Campanella era stato incolpato di ateismo oltrechè di
eresia: d'altra parte dobbiamo notare che il Sances e il Governo
Vicereale, nelle cui mani venne dapprima la detta scrittura,
ebbero sicuramente ad avvertire che il Campanella era tutt'altro
che pazzo, mentre si trovava occupato in un'opera simile.
Ben poco ci tratterranno le scritture del 2° gruppo, appartenenti
esclusivamente al Gagliardo presso cui furono rinvenute. Una sola,
in lingua latina, rappresenta una breve consultazione o meglio
istruzione di un dottore intorno al valore giuridico della
tortura, che è dichiarato potentissimo con l'autorità di Alberico
e di Farinacio e con l'appoggio di qualche caso pratico atto a far
vedere che la tortura immoderata, riuscendo negativa, giova sempre
anche al delitto principale malgrado la protesta del citra
prejudicium probatorum, poichè il Giudice rimane obbligato a
punirlo con pene miti: vedremo poi come il Gagliardo profittò
moltissimo di tale istruzione. Le rimanenti scritture, quasi
sempre di una sola carta ognuna ed anche costituite da piccole
cartoline, mostrano talora semplici ricette e disegni astrologici,
talora segreti e sortilegi. Vi sono ricette per fare lo stagno, la
tintura d'oro, un'acqua mirabile per la vista; vi sono figure di
circoli e pianeti, e il P.e Cherubino per queste come per la
scrittura precedente dichiara "nihil contrà fidem". Vi sono
d'altra parte segreti molto spesso ad amorem, con oscenità da non
potersi ripetere, scongiuri, evocazioni, divinazioni; una
scrittura tra le altre reca il disegno di una mano a grandezza
naturale, in più punti della quale son segnate certe parole, e qua
e là, invocazioni di demonii, abuso di nomi sacri etc.; per tutte
queste scritture il P.e Cherubino dice "sapiunt haeresim
manifeste". Tali furono le scritture dapprima raccolte, alle quali
altre se ne aggiunsero ma un po' più tardi.
Ripigliamo ora la narrazione dello svolgimento ulteriore del
processo. Il 1° marzo 1602 il Card.l di S.ta Severina scriveva al
Vescovo di Caserta(297), che avendo fra Dionisio presentato
memoriale, con cui esponeva essergli state tolte dagli ufficiali
Regii le scritture della sua causa, ed essere state trovate in
camera sua scritture cattive appartenenti al Bitonto, delle quali
doveva rispondere il Bitonto e non esso fra Dionisio, S. S.tà avea
ordinato che si procurasse di ricuperare le scritture delle cause
di S.to Officio, e che si pigliasse la debita informazione contro
il Bitonto od altri colpevoli per quelle scritture che
risultassero cattive. In verità, come abbiam visto, il tribunale
avea già procurato di ricuperare quelle scritture, ed anzi le avea
ricuperate fin dal 20 febbraio: solo non si era dato pensiero di
restituire a fra Dionisio le scritture della causa, né glie le
restituì fino a quando non ebbe ad esaminarlo sull'incidente. Ma
dietro l'ordine venuto da Roma, procedè subito all'informazione
prescritta, e dal 6 marzo al 1° maggio esaurì(298) gli esami sulle
scritture già raccolte e su qualche altra ancora presentata
durante l'informazione; al tempo medesimo non lasciò di provvedere
intorno alle ultime difese che avea da fare fra Dionisio nella
causa principale, tollerando che il termine accordatogli fosse già
scaduto. Diremo dapprima dell'informazione presa sopra le
scritture.
Il 6 e 7 marzo, e poi il 19 il 21 e 22 dello stesso mese, quasi
sempre innanzi al Vescovo di Caserta, al Vicario Curzio Palumbo e
all'Auditore Peri, si venne agli esami de' testimoni e
degl'interessati. Nella prima seduta del 6 marzo, si cominciò
dall'interrogare il sergente Francisco Alarcon(299), il quale
narrò minutamente la causa ed i particolari della ricerca fatta
dal tenente del Castello e da lui nelle camere di fra Dionisio, di
fra Pietro Ponzio e del Campanella; parlò in generale di scritture
trovate all'aperto, presso fra Dionisio e presso fra Pietro, e
della cassa di pioppo che ne conteneva altre, le quali poterono
prendersi dal Castellano dopo di avere avuta la chiave da un altro
frate, a cui, secondo fra Dionisio, quella cassa apparteneva.
Disse che tutte le scritture furono portate al Castellano e da
costui trasmesse al Vicerè Conte de Lemos bona memoria, che egli
non aveva nemmeno viste le scritture trovate dentro la cassa, ed
aggiunse, "se io vedesse quella scrittura ritrovata al reveglino
trà le due porte, menata, per quanto si potte sospettare da me et
dal tenente, dal fratello di frà thomaso, la riconosceria, l'altre
non mi confideria di conoscerle"; aggiunse ancora che, dopo la
pacificazione di fra Dionisio col S.ta Croce e col Gagliardo
dentro la Chiesa del Castello innanzi al P.e Cura chiamato D.
Gaspare d'Accetto, egli come testimone avea sottoscritta una carta
nella quale si dichiarava che fra Dionisio non avea colpa in
quella faccenda delle scritture. E mostratagli la scrittura di 32
fogli che cominciava con le parole "Per che teco menare la vita
non posso", e finiva con le altre "ma che ne fece poi voi lo
sapete", disse, "questa mi pare la scrittura che fù trovata al
reveglino trà le due porte, che risponde ala fenestra dela carcere
del Campanella, che si sospettò che fusse stata buttata dal
fratello del Campanella, et mi pare alla lettera minuta, è che non
ci era coperta, però quello che si contenga in detta scrittura non
lo sò perche non lhò letta". - Si passò quindi all'esame di fra
Pietro di Stilo(300) e mostrategli le 4 lettere che gli
appartenevano, disse che erano state scritte di sua mano nella
camera di fra Dionisio ma non ancora mandate, e riteneva essere
state prese con le altre scritture. Dietro dimande spiegò che
l'amico del quale si parlava in quelle lettere, raccomandando che
si guardasse dall'essere pigliato, era Gio. Gregorio Prestinace,
fratello di Suor Francesca e della Sig.ra Giulia, e genero della
Sig.ra Porzia Vella; che non sapeva "la causa di che era inquisito
e lo vero negocio", ma da carcerati suoi compatriotti aveva udito
"che lo detto Gio. Gregorio si era appartato per la causa dela
ribellione" (sempre nell'atteggiamento d'ignorante e d'ingenuo);
che costui gli era amico ed anche parente, ed avea scritto con
tanto calore avendo udito che Geronimo Francesco, pur suo parente
e parente di Gio. Gregorio, "procurava farlo pigliare ò vivo ò
morto, perche li era inimico, et di ciò ne havea dato memoriale al
vicere del Regno, et lhavea trattato lo fratello di Giulio
contestabile, li quali tutti erano inimici del detto" (studiata
confusione di due periodi diversi, e diffidenza non cessata mai;
nominato il fratello di Giulio, invece di Giulio Contestabile, per
riguardi facili ad intendersi). Dimandato se il Prestinace
praticava col Campanella nel convento di Stilo e se mai il
Campanella avesse parlato di cose appartenenti alla fede in
presenza di esso deponente, rispose che Gio. Gregorio vi praticava
e conversava come gli altri, e pel resto si rimise a quanto ne
avea detto negli esami anteriori. Dimandato inoltre su' segreti
de' quali avea parlato nella lettera alla Sig.ra Giulia Prestinace
rispose, "sono secreti di taverna, che ogni uno che viene porta
novelle di quello che sente, è le dicono quà in castello, et non
so veri, et di questi secreti io scriveva" (accorta confusione di
cose per non dare spiegazioni compromettenti). - Venne poi la
volta di fra Dionisio(301). Egli disse che teneva le scritture, le
quali gli furono trovate, in parte nelle sue tasche, in parte
sotto la materassa, ma le scritture della causa erano state a sua
dimanda poste nella cassa allorchè il Bitonto glie la portò in
camera; e soggiunse essersi oramai scoverto che il Soldaniero, suo
nemicissimo, avea date le scritture proibite al Bitonto per farle
trovare nella camera sua, e presentò le dichiarazioni rilasciatene
dal Gagliardo, dal Bitonto, da fra Pietro di Stilo e dal S.ta
Croce. Disse non aver viste le scritture proibite se non in mano
del Barrese, poichè la cassa in cui si trovavano fu portata chiusa
al Castellano, e le scritture tolte da essa furono poi date a D.
Gio. Sances e quindi portate in Castello dal Barrese, il quale
glie le mostrò e voleva esaminarlo sopra di esse. Presentategli
alcune scritture (quelle del 1° gruppo, escluse le poesie trovate
a fra Pietro Ponzio), le riconobbe di mano del Gagliardo, ed una
sola di esse, quella sulla musica, di mano del Pizzoni; riconobbe
anche le scritture della sua causa, ed invitato poi a dare
spiegazioni sulla lettera di Sertorio del Buono e massime sulla
"natività" che costui gli chiedeva, rispose: "mi scriveva che io
mi ricordasse dela natività di un suo figliolo, la quale mi cercò
che lhavesse fatta fare da frà Thomaso Campanella che havea inteso
che si delettava di queste cose, et me la cercò quando fù in
napoli l'anno santo del 1600 dopò pasqua che tornò da Roma, et io
per darli parole le dissi che fra thomaso non stava in cervello,
et che si mai stesse in cervello ce lhaveria fatta fare, si ben io
non so che frà thomaso ne sappia fare, è sò certo che non ne sape
fare, si ben lui diceva de sì, et cosi passa lo fatto di questa
natività, perche io non so fare tal cosa". Nel rimandarlo, i
Giudici ordinarono che gli fossero restituite le scritture della
causa. - Il giorno seguente (7 marzo) fu esaminato fra Giuseppe
Bitonto. Egli disse che non aveva mai posseduto scritture ma solo
qualche lettera, e con un poco di biancheria la teneva in una
cassa, la quale portò presso fra Dionisio, perché nella camera di
costui, che stava solo, poteva essere meglio custodita; che mentre
portava detta cassa, Giulio Soldaniero lo pregò di conservargli in
essa un pacco di carte legato e suggellato con pasta od ostia,
dicendo essere un suo processo che gl'importava più di 1000 o 1500
ducati, presenti fra Pietro di Stilo, il Gagliardo ed altri; che
fra Dionisio volle pure conservare in detta cassa certi scritti
concernenti la sua difesa. Dietro dimande poi narrò come la cassa
fu presa dagli ufficiali del Castello, esponendo la rissa nella
quale il Soldaniero, il Gagliardo e il S.ta Croce vennero contro
di loro frati "et li maltrattorno assai, con pugni, et con lo
stregneturo (stringitoio, cinturone) et roppero la testa à frà
Dionisio", la ricerca di scritture proibite fatta ad istanza de'
tre sopramenzionati, come gli fu riferito da molti "et in
particolare da Scipione medico di questo Castello" (già nominato
anche da fra Dionisio altra volta), e quindi la presa della cassa
che gli fu più tardi restituita. Aggiunse di aver poi saputo che
in detta cassa erano state trovate "la Clavicola di Salomone et
altre cose di magarie", le quali il Gagliardo gli avea confessato
esser sue, ed averlo saputo dal Marrapodi e dal Conia, i quali gli
dissero che avendo fatta quistione tra loro il Soldaniero e il
Gagliardo, costui gli rinfacciava di aver dovuto fare questo
tradimento a' frati per servir lui, oltrechè il Gagliardo medesimo
avea loro detto che era stato fatto concerto di porre le dette
scritture sotto il capezzale del letto di fra Dionisio, ma poi
aveano potuto riporle nella cassa (un mucchio di menzogne e una
doppiezza veramente fratesca). Infine citò anche la dichiarazione
rilasciata dal Gagliardo su tale proposito (ma nella dichiarazione
il Gagliardo non diceva che quelle scritture fossero sue proprie).
I Giudici vollero allora che riconoscesse dette scritture, e
mostratagli la copia della Clavicola di Salomone, disse che "alli
sigilli di pasta" che recava quella scrittura gli pareva essere
l'involto datogli dal Soldaniero; e richiesto delle qualità del
Gagliardo e della causa per cui si trovava in carcere, disse che
era di mala coscienza, ladro, bestemmiatore, odiato da' suoi
parenti medesimi, i quali l'aveano fatto carcerare ed aveano detto
ad esso deponente che si era dato al demonio mercè una carta
scritta col proprio sangue, e si trovava poi carcerato in Napoli
per conto della ribellione; aggiunse che essendo stato durante un
anno in Castello dell'ovo, il Castellano di quel tempo, a nome
Figueroa, avea pure trovato presso di lui scritture sortileghe,
come si era saputo da un soldato di detto Castello con la gamba di
legno a nome Navarro, che era venuto a riscuotere da lui certo
danaro per un letto datogli in fitto, ed avea detto di volerlo
accusare per quelle scritture. Dopo ciò riconobbe che la Clavicola
di Salomone era di mano del Gagliardo, e così pure tutte le altre
scritture sortileghe a misura che gli furono mostrate (quelle del
1° gruppo) insieme con la poesia "materno idiomate in octava
rima"; riconobbe che il trattatello di musica era di mano del
quondam Pizzoni "quale si delettava di musica et ne sapeva molto";
e richiesto se nella camera sua fossero state trovate scritture,
disse che alcune furono trovate sotto il capezzale del letto del
Gagliardo, altre in un canestro tondo appartenente a fra Pietro
Ponzio, ma più tardi, nell'accomodare il letto comune ad esso
deponente e a fra Paolo, trovarono entrambi "un libro stampato
grande, in quarto foglio, di astrologia, con molti caratteri, et
un pezzo di carta dentro, nel quale erano scritti secreti contra
la corda con nomi di demonii, et ci era il nome di felice
gagliardo, et questo libro e foglio, overo pezzo di carta,
restorno in potere di fra Pietro Pontio". Infine gli fu mostrato
anche il libretto di poesie "lingua paterna" (le poesie del
Campanella), e riconobbe che era di mano del suddetto fra Pietro.
Il 19 marzo, con un ritardo verosimilmente prodotto dalla
necessità di trovare il Figueroa e il Navarro, vennero esaminati
Felice Gagliardo e fra Pietro Ponzio. Il Gagliardo disse essere
stato carcerato in Castelvetere per un colpo di fucile tirato in
rissa ad un suo cognato, e poi essere stato tradotto in Napoli per
la causa della ribellione, dopochè Cesare Pisano, venuto nelle
stesse carceri di Castelvetere e quivi visitato da fra Dionisio e
dal Campanella, lo avea nominato in tortura qual complice nella
detta ribellione. Chiesero allora i Giudici di che aveano parlato
al Pisano il Campanella e fra Dionisio; ed egli rispose che aveano
parlato segretamente, e non ne sapeva nulla, ma che fra Dionisio
gli aveva poi detto che avesse dato credito a quanto gli diceva
Cesare Pisano, e soggiunse, "io credo che mi volesse significare
che havesse credito à quello mi diceva detto Cesare à prestarli
dinari, di che ne hò fatto fede à detto frà Dionisio" (ben si vede
che rilasciava fedi senza difficoltà, e senza nemmeno curarsi
delle contradizioni in materie tanto gravi). Dietro altre dimande
disse che de' frati avea conosciuto solo il Bitonto venuto a
predicare in Condeianni; e fattagli l'obiezione, come mai, non
avendo prima conosciuto né visto fra Dionisio, costui avesse
potuto dirgli che prestasse danaro a Cesare Pisano, rispose, "lo
detto Cesare havea detto che io era felice gagliardo gentilhomo di
hierace, et cossì detto fra Dionisio me disse quelle parole"! Ma
infine si venne alla faccenda delle scritture, e dietro varie
dimande rispose, che ciascuno de' frati carcerati, co' quali si
trovava di camera, aveva una cassa, ma egli non aveva né cassa, né
scritture, né libri, e solamente qualche lettera; che in luglio
"perché in detta camera ci entrava ogn'uno et non so che si
perdío.... frà Paolo portò la sua cassa alla camera di Geronimo
Campanella patre di frà thomaso Campanella, e frà Gioseppe
(Bitonto) portò la sua cassa in camera di fra Dionisio pontio";
che il Soldaniero diede allora al Bitonto un involto di scritture
sigillate perché glie lo conservasse, ed egli non sapeva che
scritture fossero, ma poi il Soldaniero gli avea detto che erano
scritture proibite, senza manifestargli altri particolari sopra di
esse, e che le avea fatte trovare in camera di fra Dionisio per
rovinarlo, ond'egli ne avea rilasciata una fede, alla quale si
rimetteva. Mostratagli questa fede, la ratificò, negando di sapere
che specie di scritture fossero state trovate nella cassa.
Chiesero allora i Giudici se il Pisano avesse parlato con lui di
cose ereticali e se egli ne avesse fatta denunzia a' superiori
come era obbligato; ed egli rispose che il Pisano ne avea parlato
anche in presenza dell'Adimari, del Conia e del Marrapodi, e
consigliatosi col suo confessore D. Pietro Manno, dietro ordine di
costui egli scrisse e mandò per D. Pietro medesimo un memoriale al
Principe della Roccella, il quale lo partecipò al Vescovo di
Gerace, e il Vescovo quando poi vennero "li rumori universali di
Calabria" mandò un Commissario che l'esaminò. Così finì la sua
deposizione, con un nuovo garbuglio, per lo quale venne poi
commesso dalla Sacra Congregazione di Roma e sollecitato dal
Vescovo di Caserta l'esame di D. Pietro Manno in Gerace. - Fu
quindi esaminato fra Pietro Ponzio(302), ed egli narrò il
trasporto della cassa del Bitonto presso fra Dionisio, per furti
verificatisi nella camera in cui si trovavano e dovuti al
Gagliardo, la sua istanza al carceriere che ponesse costui in
altra camera e la rissa avvenuta per questo, la voce corsa che il
Soldaniero e il S.ta Croce si erano concertati di far trovare le
scritture proibite presso fra Dionisio, la ricerca fatta anche in
camera sua con la scoverta di un libretto di poesie che egli
teneva sul letto, e di altre scritture che stavano sotto la
materassa del Gagliardo. Riconobbe il libretto di poesie e disse,
"è scritto di mano mia et è intitolato (int. dedicato a) francesco
gentile, e son sonetti del Campanella e di diversi altri autori,
che sono andato radunando, et vanno per tutta questa città di
napoli". Fece avvertire che il Gagliardo soleva scrivere con
caratteri di diverse maniere, ed aggiunse che avea visto presso il
Bitonto una carta con un circolo e un segreto "per havere una
donna", che il Gagliardo avea rilasciato ad un paggio carcerato in
Castello a nome Nicolò, ottenendone per compenso un vestito di
velluto. Confermò inoltre che, dopo la ricerca delle scritture,
fra Paolo avea trovato un libro stampato di astrologia con un
circolo e un segreto contro la tortura di mano del Gagliardo, e
disse averlo letto insieme con gli altri frati e poi consegnato al
luogotenente del Castello. Scovrivasi per tal modo un nuovo fatto
e sempre a danno del Gagliardo, contro il quale non agiva soltanto
fra Pietro per iscagionare suo fratello, ma si erano rizelati
senza ritegno principalmente i già suoi complici in materie
sortileghe per iscagionare le persone proprie, e la quistione
delle scritture proibite veniva ad allargarsi sempre più.
Il 21 marzo fu di nuovo esaminato il Bitonto per quest'altra
scrittura del Gagliardo da lui scoverta, e disse che ne' giorni
scorsi avea veduto il Gagliardo scrivere una carta e poi darla
segretamente a un paggio di D. Andrea de Mendozza figlio della
Marchesa della Valle, carcerato per ordine della Marchesa e
chiamato Nicolò, il quale avuta la carta venne a farla leggere ad
esso Bitonto per sapere se poteva starci bene in coscienza, e
udito che la carta recava la scomunica a chi la teneva, glie la
lasciò. Ed esibì la strana scrittura a' Giudici, i quali la fecero
unire con le altre scritture proibite. Dietro altra domanda poi
disse, che pure un Marc'Antonio Bruno di Condeianni, dimorante in
Napoli alla piazza dell'olmo, era venuto più volte nel carcere, ed
avea avuto segreti dal Gagliardo, e si era lamentato che gli avea
fatto spendere 10 ducati senza alcun profitto, aggiungendo che
spesso si chiudevano in camera e scrivevano, ed una volta "haveano
fatto non sò che pignatello al foco, pieno di capelli et ossa,
cera et altre forfantarie che il fuoco ce havea immorbati tutti,
et questo lo vedde ancora fra Paolo della grottaria e fra Domenico
di stignano" (ma c'è ragione di credere che costoro, e massime il
Bitonto, fossero consenzienti a queste prove di suffumigi).
Aggiungiamo che la novella scrittura fu subito mandata al P.e
Cherubino, che la qualificò col "sapit haeresim manifeste", e fu
unita con le altre costituenti il 2° gruppo o gruppo delle
scritture appartenenti al Gagliardo(303). - Frattanto venne subito
chiamato Nicolò Napolella, giovane a venti anni, nativo di Napoli
e paggio come sopra si è detto, il quale credè opportuno mettersi
in assoluta negativa, onde il suo interrogatorio ci risulta un
modello di pervicacia nell'inquisito e di pazienza ne' Giudici.
Sempre dietro dimande disse aver conosciuto il Gagliardo nel
Castello, ma non aver mai trattato di segreti con lui; averlo
visto sei o sette giorni prima, ed avergli parlato in frotta con
molti, "e si raggionò come stai, come la passi, e vi bascio la
mano"! Disse aver conosciuto anche il Bitonto, ma non avergli mai
parlato di scritture né chiesto consigli, aggiungendo, "faccionosi
li fatti loro, è mi lascino stare, è non mi vadano inbrogliando à
queste cose". E i Giudici, "che dica chi sono quelli che lo voleno
inbrogliare, et in che"; ed egli si fece allora a narrare che la
sera precedente fra Pietro l'avea chiamato in disparte, dicendogli
di avere informato il tribunale del segreto per amore dato al
Gagliardo e raccomandandogli di deporre che era vero, ed egli avea
risposto "buono" (int. "bene", espresso alla spagnuola); poi
l'avea condotto presso il Bitonto che gli disse e gli raccomandò
la cosa medesima, ed egli avea promesso, ma nella notte ci avea
pensato meglio e si era deciso a non farne nulla, dicendo, "mi
sono risoluto di non dannare l'anima mia". E i Giudici, "in che
cosa si pensava di dannare l'anima sua": ed egli, "in dire una
falsità; avanti voglio che si perda tutta la Calabria che dire una
falsità"! E i Giudici dimandarono chi fosse stato presente alla
chiamata di fra Pietro, e l'ammonirono di nuovo di dire la verità
sul fatto del segreto; ed egli nominò Ferrante Caldarone e Simone
Garzia spagnuoli, ed anche fra Paolo; ma sul fatto del segreto
disse, "non è vero niente". - Immediatamente vennero esaminati i
tre testimoni indicati dal Napolella. Simone Garzia disse che in
quel momento medesimo il Napolella gli avea parlato della chiamata
avuta da fra Pietro nella sera precedente, ed egli avea risposto
che non sapeva tal cosa. Il dottore Calderon della città di Pax,
di anni trenta, disse che nel passeggiare sulla loggetta col
Garzia e col Napolella avea veduto fra Pietro accompagnato da un
altro frate, chiamare il Napolella in disparte, parlargli
segretamente e poi condurlo alla camera in cui stavano il Petrolo
e il Bitonto. Infine fra Paolo accertò egli pure la stessa cosa. -
Fu allora interrogato fra Pietro, e costui disse che veramente
avea chiamato il Napolella in presenza di fra Pietro di Stilo, e
l'aveva avvertito che dietro la sua deposizione intorno al segreto
sarebbe stato certamente esaminato, e però attendesse a dire la
verità; che il Napolella si era mostrato dolente del Bitonto,
perché avea divulgato il fatto del segreto, che egli non volea si
sapesse da alcuno e specialmente dalla Marchesa della Valle; che
allora lo condusse dentro la camera in cui stava il Bitonto, il
quale gli fece intendere che trattandosi di cosa di S.to Officio
era stato obbligato di agire come aveva agito. - Ed ecco in iscena
fra Pietro di Stilo, il quale confermò ogni cosa, spiegando essere
il Napolella dolentissimo che il Bitonto avesse pubblicata la
faccenda del segreto, perché "stando lui male con la Sig.ra
Marchesa dela valle che havesse fatto casare lo figlio per via di
magarie, si saria confermata in questa opinione et non l'haveria
mai fatto escarcerare de Castello"(304). Aggiunse aver visto la
carta del segreto in mano al Bitonto, ed aver avuto preghiere da
fra Paolo e dal dottore Calderon perché facesse buono ufficio
verso il Napolella acciò non fosse rovinato presso la Marchesa;
aver avuto inoltre preghiera dal medesimo fra Paolo, perché non
facesse cattivo ufficio verso il Gagliardo e il S.ta Croce,
considerando che erano calabresi (tutto ciò dava forza grandissima
al fatto in quistione, rimasto vacillante per l'assoluta negativa
del Napolella). - Infine fu esaminato anche il Bitonto, il quale
confermò che il Napolella era venuto con fra Pietro presso di lui,
ed avea detto che quando fosse stato interrogato sul fatto del
segreto, avrebbe manifestato la verità.
Ma non erano ancora scorse 24 ore, e il Napolella, riflettendo
meglio sul caso suo, mediante il carceriere Martines mandò al
Vescovo di Caserta un memoriale, con cui esponeva che per essere
stato esaminato all'improvviso aveva avuta tanta paura da non aver
saputo cosa si dicesse (eppure avea mostrato di saperlo molto
bene); laonde supplicava Monsignore, che si degnasse "di restar
servita di novo venirlo a saminarlo, che dirra la ystessa e pura
verità come passa chi li ha dato detti scritti".
Così il giorno seguente, 22 marzo, innanzi al Vescovo di Caserta
assistito dal suo segretario D. Manno Brundusio, fu esaminato
dapprima il Napolella, che riconobbe il memoriale mandato e
confessò di aver narrato al Gagliardo che "amava una donna ma non
sapeva se si era dismenticata" di lui, onde il Gagliardo gli volle
dare quel rimedio perché la donna non se ne scordasse; e riconobbe
lo scritto avuto e attestò di averlo mostrato al Bitonto e di
averlo poi lasciato nelle mani di lui quando udì che recava la
scomunica. Dietro dimande, disse che non in questa circostanza, ma
fin da tre mesi scorsi, il Gagliardo gli avea chiesto "un paro di
calzoni usati per amor de Iddio" ed esso glie l'avea donati; che
dopo il suo esame avea udito tenere il Gagliardo "mala fama di
queste poltronerie". Infine scusò il non aver detto prima la
verità, allegando l'essere "giovanetto di poca età... è
travagliato di carcere longo tempo", e l'aver dubitato che
accettando quel fatto ne sarebbe venuta la rovina sua. - Si passò
allora all'esame di Orazio S.ta Croce, il quale, sempre dietro
dimande, disse che era stato già carcerato in Siderno e a
Castelvetere il 22 luglio 1599, per aver bastonato un tale che gli
aveva uccisa una giumenta, e poi era stato incolpato della
ribellione e tradotto in Napoli; che nelle carceri di Castelvetere
udì esservi già venuti il 2 luglio il Campanella e fra Dionisio
per far liberare Cesare Pisano; che costui parlava di cose contro
la fede e tutti i carcerati ne presentarono memoriale al Principe
della Roccella per mezzo di Mario Scadova carceriere. Inoltre che
conosceva Felice Gagliardo, gentiluomo di Gerace, che non aveva
mai udito dir male di lui, e solo da pochi giorni aveva udito che
veniva processato "per fatochiaro". Ed avendo detto che era in
grado di conoscerne il carattere, gli furono mostrate le solite
scritture (tanto del 1° che del 2° gruppo), e le riconobbe tutte
di mano del Gagliardo, eccettuandone quella sulla musica che gli
veniva mostrata insieme con le altre, ed includendovi quella
contenente la poesia in dialetto calabrese, a proposito della
quale disse crederla di mano del Gagliardo "tanto più che lui fà
professione di fare versi è sonetti volgari" (non gli fu mostrata
la scrittura contenente il segreto dato al Napolella, forse perché
era stata trasmessa al P.e Cherubino, ma intanto per tutte le
altre potea dirsi decisivo il giudizio del S.ta Croce, uomo
competentissimo e non sospetto). - Si continuò ancora
l'informazione esaminando fra Pietro Ponzio(305). Si volle sapere
da lui se conosceva il carattere del Gagliardo e se era a sua
notizia che si dilettasse di far versi; ed egli rispose che lo
conosceva, e che veramente il Gagliardo si piccava di far versi e
sonetti, tanto che nei giorni scorsi avea fatto versi a fra
Dionisio, cercando di pacificarsi con lui e chiedendogli perdono.
Gli furono quindi mostrate tutte le scritture che si reputavano di
mano del Gagliardo (come si era fatto pel S.ta Croce), ed egli
confermò che veramente lo erano, escludendone solo quella sulla
musica che disse di mano del Pizzoni: poi gli si chiese conto
delle poesie trovate a lui, quelle del Campanella, ed in ciò
importa conoscere la dimanda e la risposta testualmente. "Et
dimandato alcuni sonetti che stanno scritti al libro n.° septimo,
che sono maledicenti, altri che trattano di cose oscene (sic), et
ci sono alcune cose scritte à donne amate che sapiunt idolatriam,
da chi sono stati composti detti sonetti. Resp.t io un altra volta
me ricordo di havere deposto che ad instantia di francesco Gentile
haveva io radunato questi sonetti insiemi, deli quali parte mene
havea dato esso gentile di mano sua, li quali non so l'authore, et
alcuni altri me li hà dato il Sig. Cesare Spinola, et
particolarmente li sonetti che sono dedicati alla Sig.ra Maria et
alla Sig.ra donna Anna et uno à se stesso, et io ne hò avuto la
maggior parte che sono più di venticinque lhò avuti da altri
carcerati, li quali dicevano che erano stati composti da frà
thomaso Campanella, et che il Campanella lhavesse dati à Mauritio
de rinaldo calandoli con uno filacciolo dala fenestra del
torrione, et che depoi la morte di Mauritio lhavea dati alli altri
carcerati uno Cesare forse che havea servito detto Mauritio, et
altri ne hò havuto da fra Giovan Battista de pizzone" (il Vescovo
di Caserta ne dava il giudizio del Qualificatore peggiorato, e fra
Pietro si schermiva almeno per quelli più scabrosi, massime perché
composti nel tempo della pazzia, mettendo perfino in dubbio
l'autore ed al solito traendo in iscena gli assenti e i morti).
Infine gli si chiese pure conto del come avesse parlato al
Napolella delle cose che avea deposte, mentre gli era ingiunto
l'obbligo del silenzio: e fra Pietro si scusò, allegando il suo
zelo di carità, e il desiderio di accertarsi che il Bitonto gli
avesse detto il vero intorno alla scrittura data dal Gagliardo al
Napolella. - Da ultimo fu esaminato anche fra Paolo della
Grotteria il quale disse di non conoscere il carattere del
Gagliardo, non avendo avuto mai amicizia con lui, comunque egli
dimorasse in una medesima stanza e scrivesse tutta la notte
(negativa tirata un po' troppo). Dietro dimande, attestò che il
Gagliardo avea pessima fama, dicendo, "et ognuno se ne lamenta e
ne dice male, et mò inganna uno et mò un altro, et dà ad intendere
molte cose de fattochiarie"; attestò ancora che la cassa trovata
nella camera di fra Dionisio vi era stata portata dal Bitonto,
"che nella ricerca fatta dagli ufficiali in camera sua molte
scritture furono trovate sotto il capezzale del Gagliardo, e
andati via gli Ufficiali il Bitonto trovò a terra un libro e disse
dover essere quello il libro che il Gagliardo dolevasi di avere
perduto. Così mentre il Bitonto deponeva che il libro era stato
trovato da fra Paolo, costui deponeva essere stato trovato dal
Bitonto, e tutto induce a far ritenere che il libro stava nelle
mani di entrambi, come pure che il Gagliardo avea bensì copiate di
sua mano le più notevoli tra quelle scritture, ma in servigio
specialmente del Bitonto, il quale vi annetteva molto interesse e
le teneva suggellate e chiuse nella sua cassa. Pertanto si riuscì
a far cadere ogni cosa sulle spalle del Gagliardo, ed anche, fino
ad un certo punto, se ne trasse profitto per la difesa della causa
principale, mostrando nel Soldaniero un fatto di animosità ed
inimicizia, che costui non avea nemmeno sognato.
Rimanevano tuttavia ad esaminarsi il Moya già luogotenente del
Castello a tempo della ricerca delle scritture, oltrechè il
Figueroa già Castellano del Castel dell'uovo, e il Navarro soldato
del medesimo Castello, per le altre scritture ivi trovate al
Gagliardo anteriormente. Il Moya, divenuto capitano e non più
dimorante nel Castel nuovo, fu citato più volte a voce ma non si
curò di comparire; laonde il 28 marzo fu ordinato dal Vescovo di
Caserta ed intimata dal cursore una nuova citazione in iscritto
esistente in processo, con monitorio di dover comparire l'indomani
personalmente sotto pena di scomunica ipso facto incurrenda, e
malgrado ciò anche questa volta egli non comparve. Ma comparve il
Navarro e poi il Figueroa (20 e 22 aprile). Francesco Navarro, di
Montbeltran nella nuova Castiglia, disse aver conosciuto il
Gagliardo fin dall'anno precedente carcerato nel Castello
dell'uovo, essergli state trovate dal Castellano di quel tempo
certe scritture che furono date a Scipione Moccia Auditore e
potersene avere più distinta notizia dal detto Castellano
Figueroa. - D. Melchiorre Mexia de Figueroa, di Messico nella
Nuova Spagna(306), disse di aver tenuto carcerato nel Castello
dell'uovo il Gagliardo, e perché era molto inquieto, avere
ordinato che fosse chiuso in un criminale lui ed anche Orazio S.ta
Croce; narrò la ricerca di scritture fattagli dietro avviso di
altri carcerati, e la scoverta di molte carte di negromanzia, per
le quali fece relazione a D. Gio. Sances, non nascondendo che
alcune di quelle scritture furono prese dall'Auditor Moccia, ed
altre rimasero presso di lui, le quali offrì di esibire al
tribunale dopo di averne fatto parola al Sances. Dietro altra
dimanda disse che il Gagliardo avea "molta mala fama e di huomo
pessimo, et in particolare di essere necromante et fattochiaro, e
di essersi dato al demonio in anima et in corpo, et che ne li
havea fatta una scritta col suo sangue". - Venne poi finalmente
ridotto anche il Moya a comparire. Il 26 aprile il Vescovo di
Caserta ordinò contro di lui una nuova citazione per sentirsi
dichiarare scomunicato coll'affissione de' cedoloni, e non avendo
il Moya neanche questa volta obbedito, il 29 aprile lo dichiarò
scomunicato, ordinando che fosse come tale pubblicato mediante i
cedoloni affissi ne' luoghi pubblici della città, dandone all'uopo
la relativa bozza(307). Ed ecco, affissi i cedoloni,
immediatamente il Moya innanzi al Vescovo di Caserta, il 1°
maggio, a scusarsi, dichiararsi pronto a deporre, dimandare
l'assoluzione; e nella stessa data, raccolto l'esame ed emanato il
decreto di assoluzione, venendo questa commessa al Curato di S.
Anna di Palazzo, che senza perdita di tempo assolvè il Moya ed
anche i domestici di lui, accorsi a chiedere egualmente
l'assoluzione per avere parlato con lui ne' due giorni ne' quali
egli trovavasi scomunicato. Ben poco intanto ci tratterrà il suo
esame che fu raccolto dal solo Notaro Prezioso(308). D. Cristofaro
de Moya, della città di Mensiner nella nuova Castiglia, narrò
l'istanza fattagli da un carcerato calabrese, di cui non si
rammentava il nome, perché avesse proceduto ad una ricerca di
scritture proibite nella camera e cassa di fra Dionisio; la
ricerca eseguita alla sua presenza dal sergente Alarcon, dal
carceriere Martines ed altri; la scoperta di scritture in quella
camera ed anche in altre camere di frati delle quali non si
rammentava in particolare; la presa della cassa che fu portata al
Castellano; e la scoperta di altre scritture in essa contenute;
infine la sua andata al Vicerè con le scritture raccolte, per
ordine del Castellano, e tutti i particolari che su questo
proposito abbiamo a suo tempo esposti. Dietro dimande, disse di
non aver lette quelle scritture, e solo ricordarsi di avervi visto
disegnata una mano, come pure certe ruote o circoli, e di avere
udito nel Castello, e forse anche dal Vicerè, "che erano cose di
fattochiarie"; ricordarsi inoltre che la ricerca di quelle
scritture venne fatta dietro una rissa tra carcerati nella quale
fra Dionisio fu ferito nel capo. Mostrategli le scritture,
riconobbe i circoli e la mano disegnata che altra volta avea
visto, e cadendogli sott'occhio il libretto di poesie (le poesie
del Campanella) disse, "et questo libro ancora riconosco che
portai al vicere con l'altre scritture, et lo riconosco alla
coperta, et alle zagarelle, benissimo". Notiamo che nulla egli
accennò intorno alla scrittura trovata sotto la finestra della
camera del Campanella, non essendone stato nemmeno interrogato, e
però deve ritenersi che a questa data essa era già scomparsa.
Intanto il Figueroa, ottenuto certamente l'assenso del Sances,
avea subito consegnate al tribunale le carte trovate al Gagliardo
nel Castello dell'ovo e rimaste presso di lui; il P.e Cherubino le
aveva immediatamente qualificate con una sua relazione in data del
24 aprile, e il tribunale, costituendone un 3° gruppo, le avea
fatte riunire alle altre. Esse vennero in tal guisa ad aumentare
indebitamente il volume delle così dette scritture proibite
trovate nella cassa di fra Dionisio Ponzio, tanto più
indebitamente perché non erano punto proibite, riguardando
tutt'altro che negromanzia. Forse il Figueroa si studiò di non
consegnare quelle che potevano farlo trovare alle prese
coll'autorità ecclesiastica come sciente e non rivelante od anche
come semplice detentore di carte proibite, avendo già altra volta,
e precisamente nell'anno al quale si riferiva la sua deposizione,
sperimentato i rigori dell'autorità ecclesiastica(309).
Gioverà non di meno occuparci di queste carte, perocchè quantunque
riguardino materie comuni, servono bene a mostrare in tutta la sua
luce il Gagliardo, e di costui c'interessa molto acquistare una
piena conoscenza, a motivo di certe altre rivelazioni da lui avute
in sèguito. Per ordine di data precede una lettera di Pietro
Veronese padrigno del Gagliardo scritta da Gerace il 3 gennaio
1600; con essa il Veronese gli dà notizia della salute della
moglie, sorelle e madre, lo eccita "a far cose honorate", e
riverisce il Signor Orazio (S.ta Croce) dal quale ha avuta una
lettera, come pure i due fratelli Moretti. Segue una lettera di
Marcello Gagliardo, scritta da Gerace il 12 9bre 1600 forse ad
Orazio S.ta Croce (manca la carta della soprascritta); e in essa
si parla pure di Felice Gagliardo, si tratta di un invio di
danaro, si fa sperare la dimanda di remissione da parte del
Principe (il Principe della Roccella che era Signore di
Condeianni) etc. Segue un'altra lettera di Pietro Veronese scritta
da Gerace il 14 10bre 1600, quando egli tornava in patria dopo di
aver visitato il figliastro in Napoli: con essa il Veronese gli dà
notizia della salute de' parenti, ossequia i due Moretti, il Sig.
Orazio (S.ta Croce) "et tutti quelli Signori", e gli partecipa che
a Gerace "fu amaczato gelonardo regitano come vile". Questo
disgraziato verosimilmente apparteneva alla famiglia del cognato
di Felice Gagliardo a nome Francesco Regitano, che il Gagliardo
avea ferito con un colpo di fucile, causa della sua carcerazione;
l'essere stato ammazzato come vile, nel gergo de' facinorosi ancor
oggi in uso, vuol dire che era stato ammazzato per non aver saputo
tacere sulle mosse loro. Pertanto a siffatto annunzio esulta il
Gagliardo e scrive una poesia in dialetto calabrese, intitolata
"Capitolo delo scaduto", che rappresenta un'altra delle scritture
raccolte. Son 25 strofe, e ne riportiamo le prime per saggio:
"Piangia Geraci, hor ridarà eterno,
per ch'e guarito delo antiquo mali,
hora che Gio. lonardo iju a lo inferno.
Ridi Siderno, che Matteo Spetiali
dessi li cunti à lo amaro scaduto
ridimu tutti, riditi ho (sic) Casali.
Non darà parapezzi(310) lu tributu,
no sarà chiu Brombaci assassinatu
hora che fu amazatu stu fallutu.
Tu Condianni statti arritiratu
e fa allegriza d'ogni cantu e locu
chi li frutti anderanno à bon mercatu.
E' vui massari fati festa e giocu
cu li sacculli vostri sempri chini (int. pieni),
hora che Riggitan' e intra lu focu" etc.
E continua così fino all'ultima strofa, con vituperii ed insolenze
contro il povero morto, terminando coll'accertare che lo scaduto è
andato all'inferno e che sarà da tutti ringraziato colui che l'ha
ucciso; e il P.e Cherubino, che in tutte le scritture del presente
gruppo non trova "nihil contra fidem vel bonos mores" definisce la
detta poesia "una facetia ridiculosa", mostrando bene che pure i
Teologi qualificatori sottostavano all'influenza de' gusti del
tempo. Seguono due lettere di un Don Gioseppe di Capoa al
Gagliardo, l'una scritta "dala per me oscura selva li 22 di xbre
1600", l'altra da Reggio, convento di S. Francesco, gli 11 gennaio
1601: sono due lettere brigantesche, atte a chiarire molto bene i
procedimenti de' fuorusciti di que' tempi, e massime a tal fine ci
è parso bene riportarle tra' documenti(311). D. Giuseppe di Capoa,
come si rileva dalle lettere, era un capo di fuorusciti con 43
compagni, tra' quali Luzio fratello del Gagliardo ed altri "amici
sui et del Sig.r Veronese che li comanda", tutti del resto in
relazioni strette col Veronese, alla cui chiamata, dopo il 12
10bre, partivano sotto il comando di D. Giuseppe per Gerace senza
saperne la causa; e D. Giuseppe, che avea pure nella banda un suo
parente Andrea, unitosi con lui per avere ucciso Carlo Barone e
figlio, teneva molto a non diventare un ladrone di strada, onde
scriveva al Gagliardo, "ho dato licenza a Caporale Giulio et
compagni per haver fatto un atto brutto, che si unirno con
minichello et lutio il vostro, et hanno boscato molti migliara di
scuti et volevano dar parte a me, ma per nessuno modo la volse,
che tant'anni sono in campagna ho vissuto con le mie intrate, ne
habbia dio ordinato tal furfanteria". Poi agli 11 gennaio, dietro
la persecuzione da parte di un Auditore che faceva ogni sforzo per
prendere que' fuorusciti, D. Giuseppe con tutti i 48 compagni
erasi rifugiato nel convento di S. Francesco in Reggio, di dove
scriveva la sua seconda lettera; ed avea già raccomandato al
Gagliardo di scrivergli dirigendosi al cognato, ed allora
raccomandava la lettera propria ad un tale, che non è nominato,
con queste parole caratteristiche, "la gentileza d' V. S. et la
protetione che come Cavaliere Cristiano tine (sic) de miseri
gentilhuomeni travagliati attortamente dalla fortuna et dalla
giustitia ne danno animo". Il Gagliardo avea scritto a D. Giuseppe
che presto sarebbe uscito dal carcere, che un Cavaliere suo amico,
in procinto di ottenere la commissione di capitano, aveva offerta
a lui l'insegna (il posto di alfiere) per arrolar gente, che tutta
la banda avrebbe potuto andarsene con lui alla guerra; e D.
Giuseppe si dichiarava in ordine con tutti i suoi compagni,
aspettandosi di essere guidato per questo, come allora si usava, e
faceva esibizioni al Gagliardo, e si disponeva a mandargli sei
canne di tabbì per un vestito da dovergli servire all'uscita dal
carcere, ma anche con la franchezza del bandito gli diceva, "tutto
quello che V. S. ha patuto lo meritava, per haver corso con il
cervello suo balzano et non con consiglio di amici"; poi,
all'ultima data, s'impazientiva e dichiarava di ritirare la sua
parola se fra un mese il Gagliardo non avesse l'insegna,
sottoscrivendo la lettera insieme con altri compagni, "Lutio
Gagleardo suo fratello, Caporal Antonio Bregandi alias il
Siciliano, Gio. bennardo Sdragona et Minichello Mullura"(312). Non
sapremmo dire se la proposta di andare alla guerra, fatta dal
Gagliardo a D. Giuseppe fosse stata un'invenzione del cervello suo
balzano, ovvero un disegno fondato sopra un fatto positivo; ma
dobbiamo attestare esserci noto da altri fonti che a quel tempo si
trovava pure carcerato nel Castello dell'ovo Alessandro
Piccolomini, 5° Duca di Amalfi, il quale dopo avere avuto già 12
anni di carcere per parte del Governo Vicereale ed una condanna a
10 altri anni da doversi espiare nel Castello di Aquila, dopo di
avere avuto anche un processo di S.to Officio, per bestemmie
ereticali e ricerche di segreti e sortilegi, finito con la
condanna all'abiura e ad un anno di carcere, chiedeva allora
appunto la grazia di uscire dal carcere coll'obbligo di andare a
servire nelle guerre di Fiandra; ed ebbe questa grazia dal Conte
di Lemos e gli fu commutata la pena da Clemente VIII con rescritto
del 6 gennaio 1600, sicchè riesce probabile aver lui appunto
offerto il posto d'alfiere al Gagliardo(313). Ad ogni modo riesce
maravigliosa la fiducia del Gagliardo nella sua prossima
liberazione, mentre nulla veramente poteva fargliela supporre. In
ciò bisogna vedere un effetto della sua fantasia, della quale sono
egualmente un parto le sue poche altre scritture di questo gruppo
che dobbiamo ancora menzionare. E dapprima vi sono due prologhi di
commedie (oltre una storia di S. Agata e S.ta Dorotea e un
principio di racconto mitologico), che si mostrano infiorati di
concetti non ispregevoli, certamente raccolti da trattati di
siffatta materia, e che potrebbero pure rappresentare semplici
ricordi di prologhi composti da altri e da lui recitati, ma sempre
scritti col colore locale e con que' suoi curiosi modi
calabresi(314). Vi è poi una Lettera in versi italiani, in cui
finge una Lucrezia o Cieca, (forse volea dire Ciecia da doversi
intendere Zeza, vezzeggiativo di Lucrezia) innamorata di lui per
averla udita recitare in una commedia, adoperatasi a trarlo in
libertà, e finalmente rimastane ingannata, perché egli con la
scusa di andare a visitare le antichità di Pozzuoli se n'è partito
per la Calabria; una specie di Didone abbandonata, invano
confortata dalla sua nutrice Tolla (a que' tempi vezzeggiativo di
Vittoria), che sfoga il suo affanno, e narra e rampogna e prega il
seduttore che ritorni, stemperandosi in oltre 300 endecasillabi,
qualche volta zoppi, non di rado privi di senso ovvero sconnessi,
ma quasi sempre più o meno sonori, e diretti "Al S. F. G. dela C.
di G." (evidentemente Al Sig.r Felice Gagliardo dela Città di
Gerace).
"Questi mesti sospiri è questi versi
da le mie proprie man vergt' e scritte (sic)
coss' cantando, e sospirando muore
del bel Meandro in su l'herbose rive
il bianco Cigno à la sua morte appresso
se cancellanti (sic) e malamente intesi
seranno i tristi miei dolenti versi
fia solo (oime) perche sarà la carta
dal proprio sangue mio machiata e lorda
allor dovean l'invidiose parche
che dispensan l' vite de i mortali
haver finito d'avoltare il fuso
lo stame di mia vita all'hor potei (sic)
chiudere in bella et honorata sera
i miei sì belli et honorati giorni
quando te vidi in quella Real Sala
rapresentare in detti versi belli
il pastor Ergasto".......
E così via via, prendendo raramente fiato e non giungendo neanche
a dire l'ultima parola con tanto diluvio di versi. Il P.e
Cherubino dichiarò questa scrittura "litera amorosa... simpliciter
enarratur amor unius ad alterum, neque miscentur aliqua, quae
aliquo modo sapiant haeresim". Ci resta infine a menzionare ancora
un'altra lettera che dovè essere stata scritta al Gagliardo, in
caratteri molto grossi segnati con la matita o forse col carbone,
da uno che stava nella segreta, in questi termini: "Patron mio V.
S. me mandi per il Carceriero il suo pastor fido et la fida ninfa
che non so quello mi fare il giorno, mandatime si avete alcuno
altro spassatempo, il grinto voli ch'io amo scosse che vostra
Matri ami o la cara del Carpio et il carniero del barone (gergo di
convenzione tra carcerati), avisatime alcuna cosa et dite al Sig.
Scipione (Scipione Moccia Auditore del Castello), e al sig. Gio.
Paulo (ignoto) che si adattano al favorirme con il Sig. Castellano
farne uscire de qua o farme unire con mio Compare" (notiamo che
Orazio S.ta Croce dicevasi compare del Gagliardo e trovavasi
allora egli pure in segreta). - Così uno de' "passatempi" del
Gagliardo era la poesia, un altro la negromanzia, e tutto ciò che
di lui abbiamo potuto conoscere ci mostra che questo giovane a 22
anni, audace, pieno d'ingegno e di fantasia, potè poi realmente,
nel trovarsi a contatto col Campanella in Castel nuovo, di
venirgli accetto, guadagnarne la confidenza, averne comunicazione
di cose le più intime che posteriormente si fece a rivelare in
punto di morte; ma pur troppo senza ombra di coscienza, capace di
tutte le improntitudini, egli può ispirarci fede limitatamente, e
le sue assertive dovranno sempre essere vagliate con la più grande
circospezione.
Non essendo le ultime scritture suddette del dominio del S.to
Officio, con le deposizioni del Figueroa e del Moya chiudevasi la
lunga e noiosa informazione sulle scritture proibite. Noi abbiamo
voluto esporla in tutti i suoi particolari, non solo per dar
notizia di tutti gl'incidenti verificatisi durante il processo,
singolarmente poi di questo che ci fece avere le Poesie del
Campanella, ma anche per mettere in luce tutti gli elementi capaci
di farci intendere le qualità del Gagliardo. Aggiungiamo che i
colpevoli delle scritture proibite pervennero con le loro
deposizioni a far cadere ogni cosa sulle spalle precisamente del
Gagliardo, sicchè costui ebbe a darne conto egli solo: fu dunque
stralciato questo carico dal processo principale e riunito agli
altri della ferita inflitta in rissa a fra Dionisio e delle
proposizioni eretiche, onde abbiamo veduto istituito quel processo
secondario contro il S.ta Croce e lo stesso Gagliardo, che avrebbe
dovuto comprendere anche il Soldaniero e Ferrante Calderon (cfr.
pag. 239-240). E per finirla intorno a questo processo, notiamo
qui, che contro il Calderon dovè aprirsi un processo speciale,
poichè non lo troviamo esaminato ulteriormente; contro il
Soldaniero, non avendo lui osservato l'obbligo di rimanere in
Napoli ed essendosene partito per la Calabria, si prescrisse una
apposita informazione, si confiscò la cauzione data, si ordinò a'
Cursori quarumvis Curiarum di citarlo a comparire fra tre giorni,
sotto pena di essere dichiarato scomunicato oltrechè confesso e
convinto del delitto appostogli, e fu carcerato di nuovo in
Calabria ma dopo qualche tempo, sicchè avremo agio di parlarne con
comodo; relativamente poi al Napolella, essendo stato perdonato
dalla Marchesa della Valle, supplicò il Vescovo di Caserta per la
sua liberazione, impedita dall'empara interposta dal S.to Officio,
e l'ottenne (9 luglio 1602) con la fideiussione di 25 once d'oro
prestata da un Michele Cervellone palermitano(315). In tal guisa
rimasero sotto il processo già istituito i soli S.ta Croce e
Gagliardo. Si ripigliarono dunque gli esami, il 12 luglio,
cominciando dal S.ta Croce, il quale si ricorderà che fin dal
marzo era stato già esaminato intorno alla rissa e alla ferita
inflitta a fra Dionisio (ved. pag. 241-42). Egli fu questa volta
esaminato intorno alle cose della fede, e disse che si trovava "lo
più maravegliato huomo del mondo" per tale imputazione, negando ad
uno ad uno tutti i capi di accusa e qualificandoli invenzioni de'
suoi nemici, vale a dire de' frati ed anche del Martines, al quale
egli avea "fatto perdere le chiavi" perché convivea pubblicamente
con la cognata nel Castello ed angariava i carcerati con le
estorsioni; d'altra parte fece intendere che sebbene in Calabria
"li villani e rustici sogliono dire questa parola Santo diavolo,
tutta volta li gentil homini e persone civile non lo dicono", ed
espose i buoni principii che professava e le divozioni che faceva,
ed affermò che prima della rissa pagava cinque grana alla guardia,
come le pagavano anche gli altri carcerati, per essere condotto
alla Messa. Ma nel giorno medesimo fu esaminato qual testimone il
Bitonto, che ribadì la maggior parte delle accuse e diè pure
cattive informazioni sul Gagliardo. Con tutto ciò il S.ta Croce
fu, come allora dicevasi, "abilitato" ad uscire dal carcere,
coll'obbligo di tenere per carcere il domicilio che avrebbe
indicato in Napoli e di dare per questo una cauzione di 25 once
d'oro, che fornì un Rev.do D. Marcello Palermo (18 e 23 luglio):
in sèguito trovò più comoda per lui una casa "nel fondico d'Eliseo
alla carità dove si dice la pigna secca", e si rinnovò l'obbligo
impostogli e la fideiussione del Palermo; deve dunque dirsi che
per lui era finito egualmente con un'assolutoria il processo della
congiura. Gli fu poi dato per Avvocato, a sua richiesta, il solito
D. Attilio Cracco, e gli furono dati i capitoli del fisco col
termine di due giorni per formare gl'interrogatorii (29 agosto):
ma egli espose che tutto procedeva dalle inimicizie capitali
contratte, con Alonso Martines per avergli fatto perdere
l'ufficio, co' frati in generale a motivo della rissa, col Bitonto
in particolare "perché mandato da fra Dionisio alla casa di esso
comparente fu, insieme coll'altro, autore di farlo trovare
inquisito di ribellione"; e però dava la ripulsa a tutti i
testimoni e chiedeva essere spedito secondo gli Atti medesimi (12
settembre). Ad istanza del fisco fu esaminato ancora il Martines
già carceriere, il quale confermò le accuse principali, senza
punto mostrarsi nemico del S.ta Croce. Ma costui, prima che la
causa fosse spedita, pensò bene di partirsene per la Calabria,
come spessissimo facevano gli "abilitati", lasciando i fideiussori
alle prese col fisco, e dando a questo, per siffatta via, un
cespite ragguardevole di entrata. Furono allora esaminate dal
Prezioso, per commissione del Vicario, Lucrezia Papa
l'albergatrice con altre due donne (17 novembre), ed accertata la
fuga del S.ta Croce venne "incusata" la cauzione e carcerato D.
Marcello Palermo, il quale, per la fideiussione prestata e per
qualche altro conto che dovea saldare, riuscì appena a liberarsi
nel principio dell'anno successivo, sborsando D.ti 30, avuti, come
egli disse, "per carità d'alcuno timoroso d'Iddio". - Quanto al
Gagliardo, le cose andarono molto più in lungo, poichè si era
commesso al Vescovo di Gerace l'esame di quel D. Pietro Manno, che
egli avea nominato qual suo confessore pel tempo in cui trovavasi
nel carcere di Castelvetere, (ved. pag. 255) e gli Atti relativi a
tale commissione, benchè compiuti con la maggior sollecitudine,
giunsero nelle mani del Vescovo di Caserta non prima del 1603, ed
il processo potè proseguirsi e terminarsi stentatamente dal maggio
1603 al marzo 1604. Per tutto questo tempo non breve, il Gagliardo
continuò a rimanere in mezzo a' frati; intanto la commissione data
a Gerace risultò negativa, ed egli, esaminato dal Vicario Curzio
Palumbo per delegazione dei Commissarii della causa principale,
non mancò di profittare del trovarsi già fuori carcere, a quel
tempo, fra Dionisio e il Bitonto, e scovrendo specialmente
quest'ultimo cercò di scusarsi mercè una serie di garbugli
sostenuti con una improntitudine singolare(316). Narrò che al
tempo del suo primo esame que' due frati gli consigliarono di
negare ogni cosa, perché altrimenti sarebbe stato bruciato dal
S.to Officio, ma volendo ora manifestare la verità, riconosceva
che quelle scritture erano di mano sua nella più gran parte,
avendole copiate per conto del Bitonto ed anche del Pizzoni (il
morto), i quali gli davano in compenso un carlino al giorno e gli
dicevano che erano cose di filosofia; e mostrategli le scritture,
indicò specificatamente quali di esse, ed anche quali parti di
esse, erano state copiate da lui e quali dal Bitonto, affermando
di non sapere da chi fosse venuto ed a chi fosse stato poi
restituito l'originale; ammise che la carta data al Napolella era
stata scritta da lui, ma sotto la dettatura del Bitonto, il quale
diceva essere un segreto contro la corda che volea mandare ad un
suo amico, e poi gli "fece il tradimento" col sedurre il Napolella
e suggerire a costui un secondo esame in contradizione del primo,
acciò apparisse che era un segreto di tutt'altro genere avuto da
esso Gagliardo, aggiunse che il Bitonto gli era divenuto nemico,
perché amoreggiava con una donna la quale stava sotto la loro
carcere e corrispondeva con loro per un buco fatto al pavimento,
ed egli aveva anche lui le sue pretensioni verso quella donna, e
infine tutto era stato inventato da' frati, perché egli si era
esaminato contro fra Dionisio, il Campanella e il Bitonto, nella
causa della ribellione. Negò poi di essersi vantato di aver
segreti per corrompere le donne, di aver conosciuto carnalmente la
suocera e la sorella della suocera trovando più dolce il concubito
con le persone parenti, di aver lodato per questo la legge di Mosè
(giusta le accuse originate dalla denunzia di fra Pietro Ponzio);
negò inoltre di aver mai aderito alle eresie che da Cesare Pisano
erano state annunziate nelle carceri di Castelvetere. Ed ebbe i
capitoli del fisco, e gli fu assegnato il solito Avvocato Cracco;
ma rinunziò alle difese, ed innanzi al Nunzio ed a' due Vicarii,
Graziano e Palumbo, sostenne un'ora di corda senza rivelar nulla,
onde fattane relazione a Roma, coll'assenso della Sacra
Congregazione fu decretata per lui l'abiura de levi, l'imposizione
di alcune penitenze salutari, e il rilascio in libertà dietro
fideiussione, obbligandosi di non partire dalla città di Napoli.
Tutto ciò fu eseguito; diedero per lui cauzione di 50 once d'oro
Sigismondo Campo di Oppido e Tarquinio Granata di Tortorella, e
così il 2 marzo 1604 potè uscire dal Castello nuovo, dovendosi
dire già assoluto circa la congiura nel principio del 1602, dietro
la grave tortura sofferta con esito egualmente favorevole. È quasi
superfluo dire che senza licenza se ne partì per la Calabria. Ma
avendo poi là commesso un omicidio, fu ricondotto in Napoli e
quivi giustiziato due anni dopo, e in tale occasione venne a
trovarsi di nuovo alla presenza del S.to Officio, avendo voluto
fare una deposizione in disgravio della sua coscienza; questa
deposizione, molto importante per noi, ci darà ancora motivo di
parlare di lui.
Possiamo oramai tornare a' frati, e innanzi tutto ci conviene
dire, che durante l'informazione sulle scritture proibite giunse
per loro la sovvenzione prescritta da Roma a' conventi di
Calabria, ed attesa fin dal settembre dell'anno precedente; ma non
ci volle poco per ricuperarla, e ne fu pure distratta una parte.
Si era in marzo 1602; sapevasi che 200 Ducati erano giunti a
Napoli con lettera di cambio nelle mani di un frate del convento
di S. Domenico, e questo frate non compariva: il Vescovo di
Caserta, in data 23 marzo, mandò un precetto al P.e Arcangelo da
Napoli priore di S. Domenico, perché sotto pena di privazione del
suo ufficio nel presente, e d'inabilità a qualunque altra dignità
e prerogativa nell'avvenire, carcerasse in quel medesimo giorno il
frate che avea ricevuto il danaro, e mandasse una fede
dell'eseguita carcerazione da doversi trasmettere a S. S.tà in
Roma. Con tutto ciò non risulta che il danaro fosse stato
immediatamente ricuperato, giacchè, malgrado l'urgentissimo
bisogno che se ne sentiva, si cominciò a disporne solamente il 23
maggio. A questa data il Vescovo di Caserta emise i primi ordini
di pagamento, ed il Notaro Prezioso li eseguì, essendo stata a lui
girata tutta la somma, posta in deposito nel Banco del Sacro Monte
della Pietà; nella stessa guisa continuò a farsi di tempo in tempo
fino al 9 giugno 1604, giorno in cui stava ancora in cassa un
piccolo residuo della somma, e i frati reclamavano, il Vescovo
ordinava, Prezioso nicchiava, e vi fu bisogno di un ordine al
Prezioso sotto pena di scomunica ipso jure incurrenda! Tutti gli
ordini di pagamento, le copie delle polizze di Banco, i ricevi di
ciascuno de' frati co' nomi de' testimoni presenti, ed anche i
memoriali de' frati medesimi ogni qual volta reclamavano la
sovvenzione, furono riuniti in un fascicolo allegato al processo,
che rappresenta il conto reso dal Prezioso ed è per noi di
un'importanza grandissima: poichè esso non ci mostra solamente
come e quando il danaro sia stato distribuito, ma anche ci fa
conoscere le miserevoli condizioni de' frati e la condizione
speciale del Campanella, il quale fu sempre riguardato qual pazzo,
sicchè dapprima fra Pietro Ponzio e poi fra Pietro di Stilo
riceverono per lui la rata che gli spettava; inoltre ci fa
conoscere la data delle vicende successive de' frati rimasti in
Castel nuovo, e così rilevare quando fra Dionisio e il Bitonto
riuscirono a mettersi in salvo, quando fra Pietro Ponzio fu
rilasciato, quando il Campanella fu segregato e posto in carcere
duro. Circa la distribuzione del danaro, dobbiamo dire che esso
non fu veramente impiegato tutto nei bisogni de' frati: per la
massima parte fu loro distribuito, dando a ciascuno dapprima 8
ducati, poi 2, 3, 1 ducato etc., e nella distribuzione di 1 ducato
fra Pietro Ponzio non volle ricevere tale miseria dicendo di non
averne bisogno; fu anche pagata in due rate una somma per
medicinali forniti a fra Dionisio infermo dallo speziale del
Castello Ottavio Cesarano, ma una somma di D.ti 14 e tarì 2 fu
data al Prezioso per la copia degli Atti offensivi e difensivi
mandati a Roma, ed anzi il primo ordine di pagamento fu per questa
somma. Un ordine simile da parte del Vescovo di Caserta risulta
indubitatamente biasimevole sotto tutti gli aspetti: egli non
prese in benefizio suo, come avea già fatto altra volta fra
Cornelio del Monte, ma destinò in benefizio altrui una somma che
doveva esser sacra e non mai distratta dallo scopo pel quale era
stata raccolta; d'altronde trasgredì le prescrizioni categoriche
di un decreto Papale, che era stato emesso appena nell'anno
antecedente. Le prescrizioni erano: che per le cause del S.to
Officio non si esigesse nulla da nessuno, e che si mandassero
anche gratis a Roma gli Atti de' Segretarii, Cancellieri etc.; il
Vescovo di Caserta non poteva ignorarlo(317).
Ma veniamo al processo, al cui compimento occorreva solo esaurire
le ultime difese di fra Dionisio. Abbiamo già detto che il
tribunale non lasciò di provvedere intorno a queste difese durante
l'informazione sulle scritture proibite: esso fin dal 19 gennaio
1602 aveva assegnato a fra Dionisio un nuovo termine perentorio di
15 giorni; ma fra Dionisio chiese che gli fossero prima date le
copie degli esami de' testimoni, come pure che gli fosse assegnato
un Avvocato e procuratore, che fosse esaminato di nuovo il
Petrolo, che fosse presa informazione sulla ritrattazione fatta
dal Pizzoni in punto di morte. Il 6 marzo, quando fu chiamato
all'esame sulle scritture proibite, egli rinnovò tali dimande con
una comparsa e protesta scritta esistente in processo, dimandando
di più che prima si vedesse nel tribunale "caritativo e santo
dell'inquisitione" la falsità de' testimoni a suo carico, avendo
questi medesimi deposto falsamente nella causa della ribellione,
ciò che egli non avea potuto dimostrare in quella causa per la
potenza del fisco. Così dicendo egli alludeva anche al Soldaniero,
contro cui nella stessa seduta presentava le dichiarazioni scritte
del Gagliardo, del Bitonto, di fra Pietro di Stilo e del S.ta
Croce, attestanti quasi tutte, che le scritture proibite erano
state fatte trovare nella camera di fra Dionisio per astuzia del
Soldaniero. Il 27 marzo, il tribunale assegnò per Avvocato il
Rev.do Attilio Cracco, ordinò la consegna della copia degli esami
testimoniali fatti in difesa di fra Dionisio e prescrisse al
Cracco un termine di 10 giorni per venire innanzi a' Giudici, nel
palazzo del Nunzio, ad dicendum. Il 30 marzo, non appena intimato
questo decreto a fra Dionisio, costui mandò un memoriale a'
Giudici, supplicando che facessero andare il Cracco presso di lui,
poichè altrimenti il termine passerebbe invano, trovandosi infermo
e povero, e non essendosi ancora vista la sovvenzione ordinata ai
conventi di Calabria. Ma senza dubbio l'informazione sulle
scritture proibite, riuscita più lunga di quanto potevasi credere,
impedì a' Giudici di andare innanzi speditamente; d'altra parte
fra Dionisio, il 15 aprile, presentò una nuova comparsa, per
chiedere copia di altri esami che non trovava fra quelli
consegnatigli (l'esame del Soldaniero in Gerace, e quelli del
Priore e del Lettore di Soriano), come pure "lettere e monitorii
contro coloro che tenevano o in qualsivoglia modo conoscevano la
ritrattatione fatta dal Pizzoni"; né prima del 19 aprile furono da
lui presentati gli ultimi articoli di difesa scritti di sua mano,
ma senza l'elenco de' testimoni da doversi esaminare sopra questi
articoli(318). L'indomani, 20 aprile, i Giudici ordinarono che fra
Dionisio, o il suo Avvocato, tra due giorni presentasse la copia
degli esami consegnatigli, perché verificata la mancanza di quelli
nuovamente richiesti ne fosse provveduto; inoltre che del pari fra
due giorni presentasse l'elenco de' testimoni, pe' quali avea
dimandate le lettere e i monitorii. Questo elenco fu presentato il
24 aprile, e con esso dovè presentarsi ancora la copia degli esami
già consegnati e trovarsi vera la mancanza di quelli indicati:
infatti si vede nel processo registrata la consegna de' documenti
mancanti, tra' quali pure la confessione ultima di Cesare Pisano
in punto di morte, che fra Dionisio richiese posteriormente, ed
inoltre si vede registrata una seconda consegna finale di tutti
gli esami raccolti a tempo del Vescovo di Termoli; la prima
consegna reca la data del 31 aprile, la seconda quella del 18
maggio, sicchè solamente a tale data si potè davvero esser pronti,
e il 21 maggio si potè passare agli esami testimoniali.
Gli ultimi articoli presentati da fra Dionisio non furono più di
tre(319). Col 1.° egli affermava che il Pizzoni venendo a morte,
per disgravio di sua coscienza, avea detto in presenza di più e
diverse persone aver deposto il falso contro fra Dionisio ed altri
in materia di S.to Officio e di ribellione, ed avere solamente
aspettato, per ritrattarsi, che fosse posto in carceri
ecclesiastiche. Col 2.° affermava che il Petrolo avea dichiarato
ad infinite persone volersi ritrattare su quanto avea deposto
contro fra Dionisio ed altri in materia di S.to Officio, voler
mostrare tutta la radice della falsità del processo, ed avere
perciò fatto due volte istanza a' Sig.ri ufficiali di essere
riesaminato. Col 3.° affermava che Giulio Soldaniero "per dar
credenza alle falsità da lui deposte contro esso fra Dionisio"
avea fatto mettere scritture proibite in una cassetta dentro la
sua camera e poi fatta fare la ricerca dagli ufficiali, onde egli
era stato chiuso in un torrione per sei mesi e il Soldaniero
l'avea diffamato dovunque. Con questi tre articoli semplicissimi
evidentemente fra Dionisio giocava una grossa partita; ed ecco i
testimoni che egli dava per comprovarli. Sul 1.°, Alonso Martines
olim carceriere (era stato licenziato, come si è detto altrove,
appunto nel maggio), il dot.r Michele Caracciolo, D. Francesco di
Castiglia, il clerico Masillo Blanco (Gio. Tommaso Blanch), il
clerico Cesare d'Azzia, Gio. Francesco d'Apuzzo: ma il D'Azzia era
stato già liberato dal carcere, e con diversi altri fu scartato
dal Vescovo di Caserta, rimanendo solo il Castiglia, il Blanch, il
D'Apuzzo, ai quali vennero poi aggiunti d'ufficio il Curato del
Castello D. Gaspare d'Accetto e il Sagrestano D. Francesco della
Porta, che aveano dovuto vedere il Pizzoni vicino a morire. Sul
2.° articolo, oltre i suddetti, erano dati fra Antonio Capece (il
cav.re gerosolimitano), il Bitonto, fra Pietro di Stilo e il
Petrolo; ma tra questi ultimi il Vescovo di Caserta accolse
solamente il Petrolo e il Capece. Sul 3.° articolo era riprodotta
la dichiarazione scritta di Felice Gagliardo ed altri,
coll'istanza che fossero esaminati i dichiaranti nel caso in cui
non lo fossero stati ancora; ma il Vescovo di Caserta li ritenne
già esaminati (la qual cosa era vera per alcuni e non per tutti)
sicchè di tale articolo non si parlò più. - Vogliamo intanto,
giusta il nostro costume, dar qualche notizia delle persone de'
testimoni accettati, ciò che riesce indispensabile in questo
momento di tanta importanza: trasanderemo quelli altra volta
conosciuti, e diremo qualche cosa del Blanch e del D'Apuzzo, come
pure del D'Accetto e del Della Porta che abbiamo bensì conosciuti
ma un po' troppo alla sfuggita. Cominciando da D. Gaspare
d'Accetto, le scritture della Cappellania maggiore che si
conservano nel Grande Archivio, ed egualmente i libri parrocchiali
della Chiesa del Castel nuovo, ci fanno conoscere i punti più
notevoli della sua vita. Era di Massa Lubrense nel Sorrentino, ed
a 50 anni, nel 1591, ebbe l'ufficio di Sagrestano della Chiesa del
Castello, ufficio perduto da un D. Cesare Boffa, dietro un
processo fattogli nel tribunale della Cappellania maggiore col
titolo De raptu et fuga uxoris Francisci Alugia militis: pertanto
nell'anno medesimo D. Gaspare fu sottoposto anch'egli a processo,
per l'omicidio in persona di un D. Gio. Carlo Coppola, che dovea
sposare una nipote di D. Gaspare, non avea voluto più sposarla e
fu trovato ucciso; ma ne riuscì assoluto, e nel 1592 trovasi già
in funzione di P.e Cura ne' libri parrocchiali. D'intelletto molto
limitato, come lo mostrano gli Atti del processo del Campanella
ne' quali prese parte, non apparisce punto inframmettente, e nel
tempo di cui trattiamo tirava innanzi con una licenza annuale di
poter confessare e amministrare gli altri sacramenti nel Castel
nuovo, al pari di tutti gli altri ecclesiastici dello stesso
ordine, mentre anche il Cappellano maggiore, D. Gabriele Sances
fratello di D. Giovanni, sottostava a riconoscimenti temporanei da
parte di Roma, in seguito di una fiera lotta giurisdizionale
allora sorta. D. Gaspare tenne l'ufficio fino all'anno seguente,
anno in cui morì. Quanto a D. Francesco della Porta, costui era
della Diocesi di Oria, più svelto di D. Gaspare, e forse per
questa ragione meno gradito: infatti non divenne P.e Cura che
verso il 1609, mentre alla morte di D. Gaspare, per decreto del
Cappellano maggiore in data del 3 agosto, lo divenne D. Alessio de
Magistro napoletano, "precedente (dice il decreto) la nomina
nobis fatta da Maria de Mendozza moglie e procuratrice di D.
Alonso de Mendozza Castellano del d.° Castello"; fino a tale punto
si estendevano le ingerenze delle mogli de' Castellani(320).
Veniamo a Masillo Blanco ossia Gio. Tommaso Blanch, come leggesi
sotto la sua deposizione. In questa egli si disse figlio del
Barone di Olivito (int. Oliveto) dell'età di 19 anni, carcerato da
oltre 13 mesi per un "preteso insulto" in persona di Ottavio
Stinca (l'insigne avvocato che abbiamo avuto occasione di
menzionare in questa narrazione); gli scrittori di cose nobiliari
e sopratutto il Carteggio del Nunzio, ci dicono il resto(321). Era
uno de' più giovani figli di Francesco Blanch, 2° Barone di
Oliveto, e di Lucrezia Capecelatro, la cui discendenza brillò
moltissimo nella carriera militare: il terzogenito di costoro,
Alfonso Blanch, si distinse più di tutti nelle guerre del Piemonte
e morì in Fiandra, nell'assalto di Capelle, avendo sotto i suoi
ordini il fratello Mario cavaliere gerosolimitano, che fu poi
ucciso da' vassalli in Oliveto; il De Lellis non parla di questa
brutta fine di Mario, ma ne parla il Nunzio nel suo Carteggio,
perocchè il principale tra gli uccisori fu un clerico, ed
opponendo le solite difficoltà delle prerogative ecclesiastiche il
Vicario della diocesi non volle consegnarlo per più anni, finchè
il Governo, stanco delle tergiversazioni, lo fece prendere e
sommariamente impiccare. Forse nella difesa di questo clerico ebbe
parte lo Stinca, onde i due fratelli Vincenzo e Gio. Tommaso
Blanch, entrambi clerici per poter godere delle prerogative
ecclesiastiche, gli fecero "un brutto assassinamento con ferite et
in casa propria" secondochè scrisse il Nunzio a Roma; e il
disgraziato dottore, un po' troppo tardi, si munì di licenza
d'arme "con 4 suoi creati" come si legge ne' Registri
Sigillorum(322). Vincenzo Blanch riuscì a mettersi in salvo, ma
Gio. Tommaso fu preso, e penò molto ad ottenere la remissione al
foro ecclesiastico. Aggiungiamo che tanto Vincenzo, quanto Gio.
Tommaso medesimo ed anche l'altro fratello Michele, finirono con
abbracciare la carriera militare e vi si distinsero tutti.
Vincenzo morì in Fiandra alla presa di Ostenda, Gio. Tommaso,
divenuto Capitano d'infanteria, si segnalò nell'assedio di
Vercelli, fu promosso Sergente maggiore nel Barese e sposò D. Anna
Gattola: ma al tempo del quale trattiamo, essendo giovanissimo e
spensierato, non farebbe meraviglia se si fosse accordato co'
frati per assumere la parte che rappresentò nell'informazione
della quale andiamo ad occuparci. Rimane a parlare di Gio.
Francesco d'Apuzzo. Egli era di Acerra, avea 23 anni, trovavasi
imputato nientemeno che di parricidio, ed avea già due volte avuta
la tortura: nel Grande Archivio non manca intorno a lui un
documento che conferma la specie dell'imputazione fattagli, la
quale imputazione senza dubbio non lo raccomandava presso i
Giudici menomamente(323).
Il 21 maggio, dal Vescovo di Caserta e dal Peri vennero esaminati
tutti i testimoni(324). D. Francesco di Castiglia depose aver
veduto il Pizzoni poco prima che morisse, chiamato dal carceriere
Martines insieme col Blanch e con un altro (il d'Apuzzo), ed avere
udito dal Pizzoni che volea sgravare la sua coscienza, essendosi
esaminato contro fra Dionisio e il Campanella perché così
gl'impose un monaco di cui esso deponente non ricordava il nome
(fra Cornelio), a fine di declinare la giurisdizione laica e
liberarsi; che perciò ne avessero fatta testimonianza scritta,
avendone lui già discorso col Curato e con altre persone, ma esso
deponente non volle intrigarsi in questa faccenda, tanto più che
il Pizzoni diceva esservi altre persone che lo sapevano. Dietro
dimande aggiunse che non era stato ricercato da fra Dionisio né da
alcuno de' fratelli Ponzii per tale testimonianza, e non ignorava
quanto importasse far testimonianza falsa specialmente in materia
di S.to Officio. Nulla gli fu dimandato intorno alle dichiarazioni
di volersi ritrattare fatte dal Petrolo. - Si passò al Blanch, il
quale depose esser andato presso il Pizzoni infermo, richiesto dal
Martines insieme con Gio. Francesco dell'Acerra, perché il Pizzoni
volea dichiarare di aver deposto il falso in Calabria e in Napoli
contro fra Dionisio e il Campanella per sottrarsi al foro
temporale; aver trovato nella camera del Pizzoni il Castiglia, ed
aver udito dal Pizzoni che erano attesi perché volea si facesse
detta scrittura, la quale fu distesa da Gio. Francesco (d'Apuzzo)
e sottoscritta da lui, dal Martines e dallo stesso Pizzoni ma con
la mano sinistra, essendo storpiato a destra. Dietro dimanda
aggiunse aver conosciuto il Petrolo, che più volte gli avea
dichiarato voler ritrattare le sue deposizioni contro il
Campanella e fra Dionisio, le quali erano false, ed aver
presentato per questo un memoriale al Nunzio ed un altro al Papa;
aggiunse pure esser morto il Pizzoni pochi giorni dopo fatta
quella scrittura, la quale rimase in potere dello stesso Pizzoni,
che volea darla al suo confessore perché fosse presentata. È da
notarsi che i Giudici non lo interrogarono sul contegno del
Castiglia in quella circostanza. - D. Gaspare d'Accetto depose non
aver mai trattato nulla col Pizzoni né prima né dopo l'infermità
da cui fu colto; essere stato a Massa (suo paese nativo) ed al
ritorno aver trovato il Pizzoni senza la favella; esser possibile
che Don Francesco della Porta, il quale lo sostituì nell'ufficio
di Curato, sapesse qualche notizia della dichiarazione per cui
veniva interrogato. - Gio. Francesco d'Apuzzo disse essere stato
condotto dal Martines presso il Pizzoni insieme col Blanch, e non
ricordarsi bene se il Castiglia fosse venuto con loro o si fosse
trovato già nella camera del Pizzoni; avergli il Martines detto
che il Pizzoni si volea ritrattare per disgravio di coscienza e
che ne facesse scrittura, ond'egli si pose a scrivere quanto il
Pizzoni diceva, ed infatti diceva di ritrattare ciò che avea detto
contro il Campanella e fra Dionisio, così in materia di eresia
come di ribellione, avendolo detto per isfuggire il foro
temporale; essere stata quella carta sottoscritta da lui, dal
Blanch e dal Pizzoni (non più anche dal carceriere), "atteso
francesco de Castiglia non ci si volse intromettere", ed essere
rimasta quella carta in potere del Pizzoni, che diceva volerla
dare al suo confessore. Dietro dimande aggiunse essersi lui
offerto di fare questa deposizione, ed esserne stato quindi
ricercato da fra Dionisio; aggiunse inoltre avere più volte udito
dire dal Petrolo che si volea ritrattare di quanto avea deposto, e
che avea dato più volte memoriali a questo fine. - D. Francesco
della Porta disse aver confessato il Pizzoni solamente pochi
giorni prima che morisse, avergli anche amministrata l'estrema
unzione, ma non essersi mai parlato di ritrattazione tra loro,
essersi invece parlato pel Castello di una scritta fatta dal
Pizzoni vicino a morire; aggiunse aver udito che il confessore di
questi frati Domenicani era un Domenicano vecchio. - Fu poi
esaminato il Petrolo circa la sua pretesa volontà di ritrattarsi,
espressa e comunicata a più persone, ed ecco l'importantissima
deposizione che egli fece: "Signori, la verità è che io non posso
vivere in queste carceri alle persecutioni che mi fanno li frati,
non solo li carcerati, et altri dela religione, mà hanno sollevato
tutta la Calabria contra di me, con dire che io habbia infamata la
provintia è la religione con quello che hò deposto, et che per ciò
io per defendermi et mantenermi, vado dicendo con li carcerati è
con altri per posser vivere con poco di quiete, et per non essere
offeso, che mi voglio retrattare sempre che haverò commodità, per
mantenerli così in speranza perche non mi offendano, mentre stò
quà, et anco che non facciano offendere li miei in Calabria, mà la
verità è che non lhò ditto mai con animo di volerlo mettere ad
effetto, perche quanto hò deposto avanti di Monsignor Vescovo di
termole bona memoria è stata la pura è semplice verità. Et per
questo non hò di che retrattarmi, et per amore di Iddio vi prego
che questo negotio stia secreto, perche altrimente pericolaria
dela vita et dell'anima". E i Giudici ordinarono che di questa
deposizione non si rilasciasse copia(325). - Infine fu esaminato
il Capece sul 2° articolo, sul quale era stato dato per testimone,
vale a dire sulla volontà di ritrattarsi espressa dal Petrolo a
più persone; e il Capece depose non saperne nulla.
Così quest'ultima difesa di fra Dionisio, che sarebbe stata
utilissima egualmente al Campanella, non riusciva punto bene. Il
3.° articolo non era neanche messo in discussione; il 2.° articolo
provocava la deposizione del Petrolo tanto brutalmente esplicita;
il 1.° articolo veniva infermato notabilmente dalle deposizioni
del Curato e del Sagrestano male a proposito citati dal Castiglia.
Da questo lato dobbiamo rilevare che il Castiglia, il quale
veramente avrebbe potuto fare impressione su' Giudici, si mostrò
abbastanza impacciato nella sua deposizione; ma ad ogni modo
attestò il fatto essenziale, e non si comprende come i Giudici non
si fossero creduti in obbligo di udire su quel fatto il Martines
ed anche il Domenicano confessore del Pizzoni, che avrebbero
potuto recarvi luce grandissima. Tuttavia bisogna ricordare che si
era avuta una dichiarazione scritta per conto del Pizzoni vicino a
morire, avendo lui voluta sgravare la sua coscienza per quegli
scritti di fra Dionisio che si aveva appropriati (ved. pag. 200);
e non avrebbe dovuto allora sgravare la sua coscienza, se
veramente questa gli rimordeva, sul fatto tanto incomparabilmente
più grave che era la sua falsa deposizione? E non avrebbe dovuto
fra Dionisio dare per testimone quel Domenicano confessore del
Pizzoni, che dicevasi avere avuta la dichiarazione scritta intorno
a quel fatto? Relativamente al Petrolo, ben si apponeva fra Pietro
di Stilo, che ne dubitava in modo assoluto nello scrivere alle
persone di casa Prestinace; il Petrolo non ebbe neanche bisogno
del tormento per confermare quanto avea deposto. Temè d'incorrere
nell'accusa di falsa testimonianza col disdirsi, o veramente la
sua coscienza non gli permise di disdirsi? Tutto sommato, riesce
difficile non abbracciare questa seconda opinione; ad ogni modo
egli non si disdisse né sulla ribellione né sull'eresia come si
era sperato. Quando le copie degli esami raccolti furono date a
fra Dionisio, costui, non trovando quella dell'esame del Petrolo,
potè capire come la cosa fosse andata: non di meno il Campanella,
dapprima nelle sue Lettere tanto spesso citate, più tardi nella
Narrazione ed anche nell'Informazione, scrisse che "fatto poi
processo nel S. Officio... tutti li testimoni si ritrattaro in
utraque causa", come pure che "li monaci fur in S. Officio
ritrattati o convinti di falsità". Per lo meno il Campanella non
fu bene informato: solamente il Lauriana fu sufficientemente
provato falso testimone, ma il Pizzoni e il Petrolo, i due
testimoni davvero gravi per lui, non si poterono dimostrare
ritrattati niente affatto, ed è superfluo notare quanto la cosa
debba dirsi importante.
Il 24 maggio, il Vescovo di Caserta decretò che fossero consegnate
a fra Dionisio le copie degli ultimi esami, ma tale consegna non
fu eseguita prima del 18 giugno(326). Per l'abitudine poi di quel
Vescovo di trattenersi fuori Napoli durante i forti calori estivi,
la causa de' frati non progredì nel luglio e nell'agosto. Soltanto
si procedè a qualche Atto per Valerio Bruno, il quale con un primo
memoriale al Vicario Palumbo, e poi con un secondo al Vescovo di
Caserta (20 e 28 agosto) reclamò contro l'empara interposta dal
S.to Officio alla sua liberazione mentre era stato "liberato dalle
altre cause", e supplicò di essere spedito e abilitato. Il Vicario
emise l'opinione che fosse di nuovo interrogato e poi spedito, e
il Vescovo emanò da Caserta un decreto per l'abilitazione, la
quale fu accolta anche dal Nunzio e dal Vicario generale Graziano
e subito eseguita, con la fideiussione prestata dal padre del
Bruno, e con l'obbligo di non partire da Napoli sotto pena di D.i
mille e della galera ad arbitrio de' Giudici: nella quale
fideiussione una circostanza degna di nota si è, che dal Bruno
venne indicata per domicilio legale la casa di Carlo Spinelli a
S.ta Lucia a mare, donde si scorge che lo Spinelli non abbandonava
coloro i quali gli aveano reso servigi. E stando pur sempre in
Caserta, il 30 agosto, il Vescovo spedì un ordine in nome suo e
dei suoi colleghi, perché fosse citato fra Dionisio ad dicendum
nel palazzo del Nunzio, dove coll'Avvocato di lui sarebbe stata
spedita la causa nella sua prossima venuta a Napoli(327).
Quest'ordine singolare, con l'assegno di un giorno non
determinato, era un modo di mostrarsi obbediente alle ingiunzioni
che venivano da Roma dietro le sollecitazioni che il Nunzio
riceveva in Napoli dal Vicerè. Abbiamo infatti dal Carteggio del
Nunzio che il Governo Vicereale non cessava di tener d'occhio
l'andamento del tribunale di S.to Officio, ed ogni qual volta ne
vedeva sospese le sedute, ricominciava le sue lagnanze. Così il 2
agosto il Nunzio scriveva al Card.l Borghese (successo nelle cose
dell'Inquisizione al Card.l di S.ta Severina morto il 1.° giugno
1602), che più volte il Vicerè gli avea ricordata la spedizione
de' frati inquisiti di eresia "per che poi si potesse spedir anche
il negotio della Ribellione trattato son già circa due anni", e il
giorno precedente gli avea pure fatto scrivere dal suo Segretario
Lezcano un biglietto in tale proposito; laonde pregava che si
desse ordine a Mons.r di Caserta di mandare a Roma le scritture e
quanto si era fatto per la spedizione della causa. Il 9 agosto
ripeteva le istanze, dietro sollecitazioni avute da D. Gio. Sances
"Fiscale di permissione di N. S.re nella causa della rebellione di
Calabria"; e nella stessa data il Card.l Borghese gli facea
sapere, che scriveva contemporaneamente al Vescovo di Caserta di
mandare "il resto delle scritture co' voti de' signori
Congiudici", sicchè verso la metà di agosto pervenivano finalmente
gli ordini di concludere, e il Vescovo di Caserta era obbligato ad
occuparsene senza ritardo.
Dobbiamo aggiungere che in questo tempo fra Pietro Ponzio supplicò
di nuovo S. S.tà perché la sua causa fosse spedita, non essendosi
in lui trovata alcuna colpa(328). Il 17 agosto il Card.l S.
Giorgio lo partecipava al Nunzio, richiedendolo a nome di S. S.tà
che desse informazione sul caso di fra Pietro, e mandandogli
perciò una copia del memoriale. In esso fra Pietro dolevasi di
aver sofferto innocentemente tre anni di carcere, di essere più
volte ricorso al Vicerè, al Nunzio, a D. Pietro de Vera senza aver
mai ottenuto nulla, di trovarsi in carcere solamente perché
fratello di fra Dionisio, concludendo col supplicare S. S.tà che
si degnasse "ordinare à Mons.r Nuntio, et altri Giudici, che
debbano con effetto provederlo di giustitia, giudicandolo secondo
la sua propria colpa ò innocenza, et non secondo la ragion di
Stato di Ministri temporali, la quale dopo tanto tempo dovria
cessare". E il Nunzio, il 23 agosto, rispondeva come già altra
volta (ved. pag. 212), che veramente fra Pietro era stato
carcerato "più per essere fratello di fra Dionisio... che per
delitto che si pretendesse contra di lui", ma "pe' suoi
ragionamenti molto domestici" avuti di notte col Campanella, era
stato ritenuto conscio del fatto e quindi da dover rimanere in
carcere fino a che la causa fosse spedita: "intanto (egli
aggiungeva) il Campanella si scoperse matto, et si fermò il
negotio ne termini che si trovava, che veramente è alla fine, et
si potrebbe ogni volta spedire, ma si è soprasseduto per la causa
dell'Inquisitione"; questa si era protratta tanto che i Ministri
Regii ne aveano molte volte fatto rumore, ma già al Vescovo di
Caserta era stato ingiunto di procurarne la fine, e alla venuta di
lui in Napoli dovea ripigliarsi, ed allora egli avrebbe procurata
la spedizione di fra Pietro(329).
In fondo pel povero fra Pietro non c'erano che buone parole. Come
già una prima volta nell'anno precedente, così anche questa volta
il Nunzio promise e non attenne: benchè riconosciuto innocente,
fra Pietro aspettò invano un provvedimento speciale per lui, e
dovè rassegnarsi a vedere prima terminata la causa di eresia per
tutti gl'inquisiti, tra' quali apparve egli pure compreso, mentre
neanche il Nunzio nella sua lettera a Roma avea mostrato di
essersene mai avveduto! Fortunatamente si era già ordinato di
venire alla conclusione intorno all'eresia, per poi passare alla
conclusione intorno alla congiura, ciò che ci resta appunto a
narrare esponendo gli esiti de' processi.
V. Sarà bene pertanto occuparci delle opere scritte dal Campanella
in questo lungo periodo di tempo, che comprende oltre due anni,
dal maggio 1600 al settembre 1602: potremo così dare anche un
qualche sollievo all'infinita noia inflitta a' lettori
coll'esposizione del processo di eresia, inflitta veramente non
per colpa nostra, ma per colpa de' Giudici. Come avea cominciato
fin da' primi momenti dell'arrivo nelle carceri di Napoli, egli
continuò a comporre poesie e prose, e per determinare nel miglior
modo la data rispettiva, sarà bene dividere in due il periodo
anzidetto. Nel 1°, che va dal maggio 1600 al 2 agosto 1601, data
della ricerca di scritture fatta dagli ufficiali del Castello,
egli senza dubbio compose tutte le Poesie che furono trovate
presso fra Pietro Ponzio, all'infuori di quelle che abbiamo veduto
costituire un primo gruppo riferibile al periodo antecedente;
inoltre compose o meglio ricompose il libro della Monarchia di
Spagna. Nel 2°, che va dal 2 agosto 1601 in poi, egli pose mano
alle opere filosofiche, cominciando dal portare a compimento
l'Epilogo di Filosofia, o la Filosofia epilogistica, che si
ricorderà essere stata trovata sotto la finestra del suo carcere,
buttata giù al momento in cui vi entravano gli ufficiali del
Castello.
Al libro della Monarchia di Spagna egli attese certamente con la
maggiore assiduità, avendolo ritenuto molto giovevole per la
difesa della causa della congiura: dopo gli Articoli profetali,
probabilmente dalla 2a metà del maggio 1600, dovè esser questa la
sua unica occupazione seria, onde potè poi aggiungere di seconda
mano il ricordo del libro nelle Difese già ricopiate. Noi ci siamo
spiegati a lungo altrove intorno alla data della composizione
della Monarchia (ved. vol. 1°, pag. 146-47) e ne abbiamo anche
detto qualche altra cosa parlando delle Difese (ved. qui pag. 99 e
113); non sentiamo quindi la necessità di discorrerne
ulteriormente. Solo diremo, che prima del giugno 1601, data in cui
fra Pietro di Stilo presentò le Difese al tribunale, il libro dovè
essere stato già scritto e mandato a Stilo, per farlo trovare in
quel posto e farne menzione appunto nelle Difese. né ci
dissimuliamo che siffatto termine di un anno, impiegato nella
ricomposizione di un libro da parte di un uomo come il Campanella,
sapendosi non averne allora scritto alcun altro, riesce
estremamente lungo, sicchè tanto più si avrebbe motivo di pensare
che il libro sia stato davvero composto, non già ricomposto nel
carcere; ma ricordiamo pure che per tutto l'anno il Campanella fu
guardato di molto a causa della sua pazzia, finchè poi non ebbe a
provarla col tormento della veglia. Del resto, come abbiamo già
fatto notare altrove, importa poco che il libro sia stato composto
nella fine del 1598 o nel 2° semestre del 1600, non essendovi gran
differenza tra l'essere stato scritto quando si meditava una
congiura o quando si voleva dimostrare che non c'era stata
congiura; importa solo sapere che non fu composto dopo dieci anni
di prigionia, e che fu ad ogni modo un libro di occasione,
destinato ad addormentare od a placare la Spagna, onde non gli si
può dare la significazione che gli è stata data, e bisogna
trattenersi dal vedervi il saggio di una delle grandi aspirazioni
del Campanella.
L'autore poi dovè certamente rivedere in sèguito questo libro, e
per lo meno ritoccarne il proemio e la conchiusione, là dove,
negli esemplari manoscritti che tuttavia se ne hanno in gran
copia, esso reca l'indirizzo ora semplicemente a un D. Alonso, ora
al Reggente Marthos Gorostiola, ed ora è sfornito di provenienza e
di data, ora reca la provenienza dal conventino di Stilo e la data
del dicembre 1598, aggiuntavi talvolta anche l'età dell'autore.
Nel Syntagma de libris propriis troviamo registrato che egli
compose la Monarchia dapprima in italiano, e poi essa "giunse
nelle mani di tutti, nella lingua italiana e nella latina, dalle
collezioni di Gaspare Scioppio e di Cristoforo Flugio". Vedremo
più in là che il Flugio fu presso di lui nel 1603 e ne ebbe
certamente la Filosofia che il Campanella finì di scrivere dopo la
Monarchia; non ci sembra quindi arrischiato l'ammettere che abbia
avuta anche la Monarchia in siffatta occasione; lo Scioppio poi
ebbe egli pure la Monarchia con diverse altre opere verso la metà
del 1607. Volendo prestar fede al Syntagma, bisognerebbe dire che
il Campanella abbia voltata in latino la Monarchia innanzi il
1607: ad ogni modo ci pare che le due date diverse della consegna
di questo libro, il 1603 e il 1607, dieno la ragione del trovarlo
indirizzato una volta semplicemente a D. Alonso, e un'altra volta
al Reggente Marthos con tutte quelle altre sfolgoranti circostanze
della provenienza e della data. Giacchè appunto nel frattempo,
alla fine del gennaio 1604, come si rileva anche dal Carteggio del
Residente Veneto, era trapassato il Marthos; avea quindi potuto il
nome di lui esser posto in luogo di quello di D. Alonso, rimanendo
così eliminata ogni reminiscenza del De Roxas, e fornita una prova
più limpida dell'affezione dell'autore agli spagnuoli, se non
presso il Governo Vicereale che lo conosceva bene, presso la Curia
Romana, l'Imperatore, gli Arciduchi di Austria e il medesimo Re di
Spagna, presso tutti i potenti Principi a' quali il povero
filosofo ebbe a rivolgersi. Ma non vennero fatte nel libro altre
innovazioni, e si può dire che le piccole varianti introdottevi
sieno piuttosto dovute a' cattivi amanuensi, giacchè per lungo
tempo l'opera, assai ricercata, corse solamente manoscritta tra
gli eruditi; del resto un confronto qualunque de' diversi
esemplari non è stato mai fatto, e varrebbe la pena di farlo così
per questa come per ogni altra opera del Campanella rimasta
lungamente manoscritta, poichè nelle varianti potrebbe rilevarsi
meglio la mano dell'autore e scoprirsene anche l'animo o piuttosto
i bisogni ne' diversi tempi successivi. Si conosce che la
Monarchia fu pubblicata per le stampe dapprima in tedesco, senza
indicazione di luogo, nel 1623, a cura di Cristoforo Besoldo, il
quale l'ebbe certamente dal suo amico Tobia Adami cui fu
consegnata dal Campanella con le altre opere sue nel 1613; molto
più tardi fu pubblicata in latino, scorso un anno dalla morte
dell'autore, in due luoghi e con più edizioni a breve intervallo
(Hardevici 1640, Amsteleodami 1640 e poi ancora 1641 e 1643);
quindi fu tradotta anche in inglese da Ed. Chilmead con pref. di
Wil. Prinae in Londra 1649, ma nell'originale italiano fu
pubblicata solamente a' giorni nostri a cura del D'Ancona in
Torino 1854(330). Una lettera inedita del Campanella, che noi
pubblichiamo, ci mostra che l'autore fino agli ultimi anni della
sua prigionia desiderò vivamente che l'opera, insieme con un'altra
analoga, fosse data alle stampe, e ne fece dimanda al Vicerè(331);
ma sicuramente, allorchè fu libero, non dovè più gradirne la
pubblicazione. Pertanto in Italia, durante la vita dell'autore ed
anche dopo, se ne fecero molte copie manoscritte, ed ancora ne
rimangono parecchie in varie Biblioteche, non meno di quattro in
Napoli (tre nella Bibl. naz. ed una nella Bibl. de' PP.
Gerolamini), una in Firenze, una in Lucca; e non meno di tre ne
passarono a Parigi (Bibl. Naz. Ital. num. nuov. 875, 984 e 985) e
una ne giunse pure a Londra (Mus. Brit. Egerton-collection n°
10,689) che reca essere stata eseguita "anno 1634 a quinto di
Septembre". Non paia eccessiva tutta questa discussione,
trattandosi della Monarchia di Spagna, che per lo meno riguarda
troppo da vicino l'argomento nostro.
Aggiungiamo che si potrebbe credere essersi il Campanella in
questo periodo occupato pure della revisione de' "Discorsi a'
Principi d'Italia" etc. che tanta attinenza aveano col libro della
Monarchia di Spagna e che furono menzionati egualmente nella sua
Difesa. Ma ricordiamo che egli ne fece menzione dicendoli inviati
a Massimiliano, e d'altronde, così come li possediamo, offrono la
citazione di qualche opera scritta ancora più tardi; bisogna
quindi rimandarne l'avvenimento della revisione a una data
posteriore.
Venendo alle Poesie, innanzi tutto dobbiamo dire che non può non
recar maraviglia la loro quantità con indirizzi anche a persone
diverse, taluna delle quali persona veramente ufficiale, come p.
es. la Sig.ra D.a Anna che vedremo dover essere stata una parente
di D. Alonso il Castellano, in un tempo in cui il Campanella
mostravasi pazzo! Possiamo in verità rimandare le poche poesie con
siffatto indirizzo al tempo posteriore all'amministrazione della
veglia; ma neanche possiamo rimandarle tutte come vedremo, e
dobbiamo ricordare che quel tempo non raggiunse due mesi, essendo
circoscritto dal 4 giugno al 2 agosto, e la Musa doveva mostrarsi
allora ben riluttante, sicchè un numero molto tenue è lecito
assegnarne al detto bimestre; d'altronde sono anche troppe le
poesie indirizzate a persone, specialmente del bel sesso, in
rapporti più o meno diretti con la famiglia del Castellano, né poi
il Campanella dopo la veglia avea peranco cessato di mostrarsi
pazzo. Bisogna dunque conchiudere che nel Castello, perfino presso
il ceto autorevole, non mancarono persone pietose e ben disposte
verso il prigioniero; né egli mancò di procurarsene la benevolenza
e mostrarsene grato, esaltandone le virtù, carezzandone anche la
vanità, abbandonandosi perfino al genere erotico e lascivo, sempre
col gusto de' tempi, non senza comporre versi egualmente per conto
di altri, spesso per procurarsene qualche favore e sovvenzione
nella squallida miseria in cui si trovava. Non farà quindi
maraviglia se queste poesie riescano quasi tutte scadenti, di niun
valore letterario, ma in compenso di molto valore storico; né farà
maraviglia se in quelle poche, le quali trattano soggetti più
elevati, si notino principii politici e religiosi comuni, mentre
l'autore avea bisogno di giustificarsi, e le sue poesie doveano
circolare tra persone sovente attaccate al Governo, più sovente
attaccate alla religione nel senso volgare. Si comprende
agevolmente, che non potremmo fare una rassegna minuta di tutte
queste poesie senza allungar troppo la nostra narrazione, ma si
comprende pure che non possiamo passarcela di volo, dovendo
rilevarne specialmente ciò che può chiarire la vita intima del
Campanella, ed anche la vita riposta per quanto è possibile, in
questo notevole periodo della sua prigionia.
Poniamo in primo luogo alcuni Sonetti profetali, che si trovano
disseminati nel presente gruppo di poesie, come ne abbiamo visto
disseminati anche nel gruppo appartenente al periodo anteriore, e
menzionati nel Syntagma quali Ritmi consolatorii, diretti a dar
vigore agli amici. Uno di essi comincia col verso
"La scola inimicissima del vero"
e l'altro col verso
"Mentre l'aquila invola e l'orso freme"(332).
Entrambi ebbero l'onore della stampa per cura dell'Adami, ma non
senza mende, come del pari l'ebbe un terzo, che mostra quanto il
Campanella tornasse volentieri su questo tema, per ricordare "il
fine instante delle cose umane": esso fu dettato ad occasione di
una richiesta avuta di scrivere qualche Commedia, e comincia col
noto verso
"Non piaccia a Dio che di comedie vane" etc.(333).
Chi mai potè fare tale richiesta al Campanella? Oseremmo dire
Felice Gagliardo, che si è visto avere scritti più Prologhi di
Commedie. Un altro Sonetto consolatorio di genere diverso è quello
poco convenientemente intitolato "Al Principe di Bisignano", che è
veramente un ricordo dell'essere stato il Principe rinchiuso nella
medesima prigione, e dell'esserne poi finalmente uscito, onde il
poeta ha motivo di dire
"Gran forza e speme tanto essempio adduce"(334):
vi si possono fare varie osservazioni circa il numero di anni
passati dal Principe in prigione, circa i motivi della prigionia,
ed anche circa i motivi del ritorno in libertà, ma a' poveri
calabresi la sola "cessata ragione di Stato" dovea sembrare un
motivo soddisfacente.
Passando alle Poesie politiche, ne troviamo solamente cinque,
intitolate all'Italia, a Genova, a Venezia, a Roma, e "Roma a
Germania"(335). Le tre prime furono poi pubblicate, le altre due
furono scartate; ma quella all'Italia fu pubblicata sotto la forma
di Canzone, mentre originariamente era stata composta in forma di
Sonetto con appendici, e fu anche intitolata "Agl'italiani che
attendono a poetare con le favole greche", mentre originariamente
non aveva titolo determinato; né sarà superfluo far avvertire, che
le prime notizie delle proprie Poesie date dal Campanella nella
lettera al Card.l Farnese del 1606, seguita dalle altre al Card.l
S. Giorgio e al Re di Spagna, poi anche nel Memoriale al Papa del
1611, fanno distinta e principale menzione di tali poesie
politiche(336).
Quella all'Italia può dirsi un vero Inno al primato italiano, nel
quale son pure notevoli diversi concetti generali e particolari:
l'essere cioè "sepoltura de' lumi suoi, d'esterni candeliere", il
ferir sempre di nuovi affanni "lo stilense" il quale "quella
patria honora che poi lui dishonora", il non cessar mai "di servir
chi la paga d'ignoranza, discordia e servitute" alludendo
certamente a Spagna ed a' Principotti italiani. Non parliamo poi
del Sonetto a Genova né di quello a Venezia, permettendoci
solamente di ricordare ancora una volta, che da quest'ultimo, e
non da ciò che dovè scrivere in certi momenti tristissimi,
conviene desumere i convincimenti del Campanella intorno a quella
mirabile repubblica, fondata sul sapere e sul potere, condotta
senza fiacchezze sentimentali, e perciò durata tanti anni. Circa
il Sonetto a Roma, conviene notarvi quel concetto osservabile
"Deh non pianger l'Imperio, Italia mia,
ch'hoggi l'hai vie più certo e venerando",
mentre nel primissimo Sonetto all'Italia, composto in altre
circostanze, il poeta si era doluto che non si vedeva già più
"vergognarsi per l'onor di Dina" né Simeone né Levi. Ecco dunque
uno spiccato ritorno indietro, e non di poco momento: ma non deve
sfuggire che il Sonetto fu scartato quando si venne alla
pubblicazione delle poesie, e si può anche osservare, che mentre
ne' versi originarii della poesia menzionata più sopra e diretta
"Agl'italiani" etc. si leggeva
"...... la gran Roma
dove anche ha Dio suo tribunal costrutto",
ne' versi rifatti posteriormente e così dati alle stampe si lesse
"E del cielo alle chiavi alfin pervenne";
cioè a dire, fu sostituito un encomio di abilità politica ad un
riconoscimento di dono soprannaturale. Circa il Sonetto "Roma a
Germania", esso segna il passaggio alle poesie religiose,
rappresentando una tirata contro la riforma, e questo veramente
non è affatto nuovo nell'ordine delle idee del Campanella, cui la
dissociazione nella fede cristiana riuscì sempre assai molesta: ma
è nuovo quel tuono da pergamo accompagnato da vaticinii
d'immancabile rovina, e bisogna tener presente che questo Sonetto
fu pure scartato, e manifestamente uno studio dello scarto fatto
riescirebbe davvero istruttivo. - Citiamo qui, al sèguito degli
anzidetti, il Sonetto "Sovra il monte di Stilo"(337), poesia di
niun valore, ma espressione di un caro ricordo del povero
prigioniero, e passiamo subito a' Sonetti religiosi. Essi sono al
numero di sei, de' quali furono poi pubblicati quattro, e
riflettono la morte di Cristo, il sepolcro di Cristo, la Croce,
l'Ostia consacrata(338). In tutti brilla la professione di
cristianesimo senza riserve, il concetto di Cristo vero figliuolo
di Dio, ciò che il processo mostrava essere stato da lui negato;
intorno alla Croce, egli spiega la sua poca simpatia verso la
tendenza a mettere in mostra Cristo crocifisso invece di Cristo
trionfante, ed anche in ciò si trova una giustificazione
riferibile alle cose emerse dal processo. De' due, che non furono
poi pubblicati, l'uno tratta ancora del sepolcro di Cristo ma in
tuono assolutamente predicatorio, l'altro rappresenta un fervorino
sull'Ostia consacrata, e risulta esso pure una giustificazione. Si
direbbero tutti questi Sonetti composti nella Pasqua del 1601.
Giungiamo alle poesie con indirizzo o menzione di persone diverse,
talora non determinate, talora più o meno determinate, delle
quali, potendo, c'ingegneremo sempre di dare qualche notizia,
massime allorchè si tratti di persone benefattrici del povero
prigioniero. Ci liberiamo dapprima di due Sonetti, l'uno per
l'entrata di un alunno incognito nell'ordine monastico de'
Somaschi, l'altro per l'entrata di un'Artemisia del pari incognita
in un convento(339). Citiamo poi due Sonetti indirizzati a due
persone delle quali già abbiamo fatto conoscenza(340): l'uno al
Sig.r Cesare Spinola "splendor d'Italia, difensor di virtù", che
l'autore encomia e ringrazia
"Del Campanella per la defensione
contro lo stuol traditoresco e rio",
e manifestamente esso deve dirsi scritto poco dopo il 15 novembre
1600, giacchè a questa data lo Spinola lo difese mentre era
chiamato qual testimone dal Pizzoni; l'altro, senza dubbio di pari
data e per la stessa circostanza, indirizzato a D. Francesco di
Castiglia, che l'autore loda molto anche come poeta, cantore di
donne sante, di cocenti amori, e perfino di Antiochia vinta. E
forse egualmente al Castiglia, seguace del Tasso, deve dirsi
indirizzato il Sonetto che nella Raccolta vien subito dopo(341):
esso rappresenta una gentile ammonizione al seguace del Tasso, cui
addita una meta più alta e abbastanza notevole per l'argomento
della nostra narrazione, quella meta per la quale, il poeta dice,
gioverebbe avere a guida Dante e Petrarca, scaldarsi al "fuoco de'
lor petti", sentirsi il cuore punto "da giuste ire", elevarsi ed
elevare
"Al degno oggetto dell'umana mente".
Ricordiamo inoltre qui il Sonetto indirizzato a un Sig.r
Aurelio(342), un "canoro Cigno" tra' molti che si riunivano nelle
Accademie napoletane, tanto più pullulanti quanto più avversate da
Spagna. Non sapremmo, tra' mille Accademici di quel tempo, chi
abbia potuto essere questo Sig.r Aurelio: ad ogni modo egli dovè
vedere il Campanella ed eccitarlo a cantare di Cesare, e il
Campanella se ne scusò adducendo le sue tristi condizioni,
"Che in atra tomba piango i miei dolori
sol pianto rimbombando il ferro e il sasso".
Ecco ora un Sonetto al Sig.r Troiano Magnati(343), un cavaliere
del quale possiamo dare qualche notizia sicura. Primogenito di D.a
Ippolita Cavaniglia, che vedremo tra poco celebrata egualmente,
egli faceva parte della Compagnia de' così detti Continui, una
specie di Guardia del corpo del Re, e per esso del Vicerè,
composta per metà di spagnuoli e per metà di napoletani, scelti
sempre tra le persone nobili, e ne' primordii dell'istituzione tra
le persone nobili di prim'ordine: una cedola di pagamento del
soldo per l'anno 1596, ed una dimanda di licenza al Vicerè per
l'anno 1610, che si leggono nelle scritture dell'Archivio di
Stato, ci hanno fatto conoscere questa sua condizione di
Continuo(344). Il Campanella, dopo lodi enfatiche e seicentesche,
gli chiede umilmente protezione per sè e pei suoi compagni:
". . . . . . vendichi l'onte
fatte a tanti virtuosi e a me meschino".
Veniamo a D.a Ippolita Cavaniglia, la più alta benefattrice del
Campanella e de' frati; a lei sono indirizzate non meno di tre
poesie(345). Un documento, da noi rinvenuto nell'Archivio di
Stato, ci mostra questa Signora esser figliuola di D. Garzia
Cavaniglia Conte di Montella, ma forse figliuola naturale, già
vedova fin dal 1593 di Fabio Magnati, e madre di Troiano,
Flaminio, Gio. Battista e Geronimo(346). Si sa che i Cavaniglia,
gente valorosa e fida e di sangue regio, vantavano l'essersi
stabiliti nel Regno col 1.° D. Garzia, venuto da Valenza in Napoli
con Alfonso d'Aragona, fatto Conte di Troia nel 1445 e celebrato
dal Sannazzaro (la Contea di Montella sopraggiunse più tardi, nel
1477, con D. Diego, l'amante della sorella di Ferdinando
Aragonese): ne abbiamo un trattato scritto dal Sarrubbo, oltre le
notizie registrate dal De Lellis nei suoi ms. che si conservano
nella Bibl. nazionale di Napoli; ma le donne non figurano mai nel
Sarrubbo, e il De Lellis ricorda solamente, quali figlie del 2.°
D. Garzia, Cornelia e Fulvia monache; e tuttavia il documento
suddetto non lascia dubbio sulla origine di D.a Ippolita, mentre
d'altra parte i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo
fanno spesso menzione di lei e de' suoi(347). Quanto a Fabio
Magnati, il Capaccio mostra la famiglia de' Magnati proveniente da
Bologna, dove essa era una delle 40, venuta in Napoli con Carlo
1.°, e dichiara Fabio "dottore di leggi, gentil'huomo
virtuosissimo"(348): non è improbabile che egli fosse Auditore del
Castel nuovo, ma ad ogni modo là abitava con la sua famiglia. Nel
corso di questa narrazione abbiamo visto raccomandata a D.a
Ippolita la lettera inviata da Sertorio del Buono a fra Dionisio,
che fu poi trovata il 2 agosto 1601 dagli ufficiali del Castello.
Nelle poesie, oltre la sua nobiltà affermata con le nozioni
storiche suddette, oltre la maestosa bellezza e tanti altri pregi,
vediamo esaltata la sua
"Generosa pietà, man liberale"
e sempre col maggior rispetto, e con una impronta di serietà
sovente lasciata da parte nelle altre poesie dirette al bel sesso;
onde si vede che effettivamente il Campanella sentiva per lei
quanto le esprimeva nel verso
"L'altre femine son, tu donna sei".
Ma nella terza delle poesie, che è un Madrigale, il Campanella
rivela tutta l'intensità della sua gratitudine:
"...mille grazie e benefizii farmi
volesti ancor; felici ferri e sassi,
che stringete i miei passi,
ringraziar non poss'io
né gioir del sol mio,
ringrazio voi e di voi più non mi doglio" etc.
Abbastanza analoga a codeste poesie, comunque meno fervorosa, è
l'altra seguente, indirizzata a una Sig.ra Olimpia(349): non ci è
riuscito interpretare(350) chi abbia potuto esser questa Signora e
parrebbe che non abitasse nel Castello, poichè i libri
parrocchiali non fanno alcuna menzione di un nome simile; il
Campanella ne loda essenzialmente "l'umanità". Lo stesso dobbiamo
dire della Sig.ra Maria, della quale il Campanella esalta la
grande bellezza ed invoca la cortesia e la pietà, mostrando pure
che glie ne avesse dato prova una volta e poi si fosse posta in
contegno(351): tali circostanze ci hanno fatto per un momento
pensare che potesse trattarsi della Castellana medesima, cugina e
moglie di D. Alonso, che varii documenti e perfino il Carteggio
dell'Agente Toscano attestano sovranamente bella, e che per la sua
posizione sarebbe stata veramente in grado di giovare il
Campanella con la pietà; ma non può ritenersi punto consentaneo
all'indole de' tempi veder chiamata la Castellana di casa Mendozza
col nome di "Sig.ra Maria", e difatti "D.a Maria" o semplicemente
"Maria" si trova sempre chiamata ne' libri parrocchiali del
Castello. Potrebbe essere stata una Maria Gentile o una Maria
Spinola, e piuttosto quest'ultima, poichè le si vede anche
indirizzato ad istanza del Sig.r Francesco Gentile un Madrigale
tutto smancerie e peggio secondo il gusto de' tempi; e vi sarebbe
una Maria Spinola Centurione da potersi supporre quella di cui qui
si tratta, ma non vale la pena di sciupare il tempo in
supposizioni troppo vaghe. Giungiamo alla Sig.ra "D.a Anna". Qui
il titolo è tale da dover fare ammettere senz'altro una Signora di
casa Mendozza, ma, secondochè insegnano i libri di materie
nobiliari e i libri parrocchiali del Castello, vi furono non meno
di tre Signore di questo nome; 1.° D.a Anna di Toledo figlia di D.
Pietro il Vicerè, maritata a D. Alvaro di Mendozza già Castellano
e madre di D.a Maria la Castellana moglie di D. Alonso, rimaritata
a D. Lope di Moscoso Osorio 4.° Conte di Altamura, onde ne' libri
parrocchiali trovasi anche detta "Anna Moscosa"; 2.° D.a Anna
sorella del predetto D. Alvaro, quindi zia di D.a Maria ed anche
dello sposo di lei D. Alonso il Castellano che le era cugino,
maritata a Lelio Carafa e rimaritata al Conte di S. Angelo,
lungamente vedova e fondatrice della Chiesa di Pizzofalcone,
spesso detta ne' libri parrocchiali Contessa di S. Angelo; 3.° D.a
Anna ultima sorella di D. Alonso il Castellano, malamente detta
Claudia dal De Lellis, maritata nel 1594 a D. Ferrante de Bernaudo
e dimorante senza dubbio nel Castello, detta sempre "D.a Anna" ne'
libri parrocchiali(352). Forse a quest'ultima, forse anche meglio
alla prima D.a Anna, la quale era tuttavia una delle belle, fu
indirizzato il Sonetto dal filosofo; ma a qualunque delle dette
Signore sia stato esso indirizzato, si tratterebbe sempre di
persone in parentela stretta col Castellano, ed in ciò
precisamente risiede la singolarità del fatto, mentre il filosofo
mostravasi a quel tempo nel colmo della sua pazzia. Quanto ai
concetti espressi nel Sonetto, vi si trova lodata la bellezza e
nobiltà di D.a Anna, se ne vede invocato l'amore, con quegli
spasimi a freddo che è maraviglioso come abbiano potuto regnare in
poesia tanti e tanti anni senza nauseare(353): lo stesso si trova
egualmente in più composizioni del Campanella, delle quali
dobbiamo ancora discorrere, onde si rileva che pure da questo lato
egli abbia sacrificato al gusto e alla necessità de' tempi senza
esitazione.
Ed eccoci all'ultimo gruppetto di poesie, nelle quali generalmente
il pessimo gusto signoreggia sovrano. Le facciamo cominciare dal
Sonetto che fra Pietro Ponzio trascrisse senza titolo, ma che
mostrasi indirizzato ad un Gentile(354). Non è dubbio che si
tratti qui del Sig.r Francesco Gentile, per conto del quale fra
Pietro raccoglieva le poesie del Campanella nel libretto che gli
fu poi trovato dagli ufficiali; e possiamo affermare di non aver
risparmiato assolutamente nulla per sapere chi fosse questo Sig.r
Francesco Gentile, ma pur troppo senza esservi riusciti. Dalle
poesie egli apparisce parente di una Sig.ra Giulia Gentile, alla
quale il Campanella non manca di scrivere un Sonetto e un
Madrigale, innamorato di una Flerida, alla quale il Campanella
scrive poesie per conto di lui e poi anche per conto proprio, e
spesso e vivacemente: ad istanza di lui ancora il Campanella
scrive il Madrigale alla Sig.ra Maria già ricordato qui sopra, e
crediamo che per conto egualmente di lui sieno state composte
molte poesie di amore anche lascivo, mentre alcune altre dello
stesso genere appariscono pure indubitatamente scritte dall'autore
per conto proprio. Avevamo dapprima pensato che potesse essere
Francesco Gentile da Barletta, nipote della Sig.ra Giulia Gentile,
presso la quale stava ritirata D.a Ilaria Sifola sposata a D.
Andrea de Mendozza figlio di D.a Isabella Marchesa della Valle con
grandissimo sdegno di costei (confr. pag. 258): questo D.
Francesco, nobile di prim'ordine ed amico delle buone lettere come
lo provano due Commedie che di lui ci rimangono(355), avea potuto
venire con la sua zia in Napoli, per placare la Marchesa e cercare
un accomodamento nella lite di nullità intentata da lei a
proposito del matrimonio di suo figlio. Ma al tempo del quale
trattiamo egli doveva essere molto giovane, e la Marchesa
trovavasi nel maggior colmo de' suoi furori: abbiamo infatti visto
che il povero Nicolò Napolella ne soffrì le conseguenze fino ad
una parte del 1602, e i libri parrocchiali del Castel nuovo ci
mostrano D.a Ilaria riunita a D. Andrea non prima del 1618.
D'altronde fra Pietro Ponzio nel principio di dedica della
Raccolta delle poesie lo dice Patrizio Genovese, e il processo
dell'eresia ci mostra nel 14 novembre 1600 dato per testimone dal
Pizzoni nelle sue difese un D. Francesco di Genova che
verosimilmente è il Gentile, inoltre ci mostra dopo il 2 agosto
1601 dato per testimone da fra Pietro nella denunzia contro gli
offensori de' frati il Sig.r Francesco Gentile, di cui il
Mastrodatti dice, "è stato carcerato e liberato..." etc. (ved.
pag. 241). Dovè dunque essere compagno di carcere de' frati, forse
uno della famiglia de' Gentili che tenevano Banco in Napoli, del
quale Banco esistono tuttora nel Grande Archivio tre libri che
vanno dal 1592 al 1599; e ne' libri parrocchiali della Chiesa del
Castel nuovo egli figura qual padrino in un Battesimo del 18
aprile 1601. Ad ogni modo egli non era persona volgare, e nel
Sonetto già citato, dicendosi pazzo, il Campanella gli chiede
aiuto per sè e pe' suoi in nome dell'amore che egli porta a
Flerida,
"Ond'io m'inchino a lei e per lei ti priego
ch'a lei, et a te, et a noi Gentil ti mostri
il fatal pazzo Campanella aitando".
Ma alla Sig.ra Giulia il poeta chiede né più né meno che amore e
in un Sonetto la dice
"Gioia, idea, vita, luce, idolo, amore",
e in un Madrigale ne loda la bellezza al punto, che dichiarandola
superiore a Lia e Rachele egli si compiacerebbe di essere schiavo
per sette e sette anni(356). Intanto ad istanza del Sig.r
Francesco Gentile scrive un Madrigale per Flerida, forse anche il
Sonetto che segue, più probabilmente ancora un altro Sonetto posto
nella Raccolta dopo quello indirizzato a lui(357); e scrive
inoltre il Madrigale alla Sig.ra Maria, dal quale si vede che il
Gentile si compiaceva di fare il cascante a dritta ed a
manca(358). Vogliamo credere che egualmente per lui egli indirizzi
a Flerida un Madrigale, da cui si rileverebbe essere stati
ammalati entrambi ed essere ciò accaduto alla fine dell'anno,
naturalmente alla fine del 1600(359); dippiù il Sonetto col quale
ne loda i néi sul labbro e sul ginocchio, da' quali il poeta si
lascia trasportare perfino
". . . . . sul consecrato fonte
dell'immortalitate all'appetito"(360),
onde poi riesce di comprendere quel Madrigale, in cui si accenna a
un certo fiasco fatto e spiegato non senza sufficiente
industria(361); finalmente anche il Sonetto in cui ringrazia
Amore, l'altro sull'inestricabile laberinto d'Amore, e poi le
Ottave e il Sonetto di sdegno, che dinotano una rottura completa e
perfino villana(362). Ma non siamo sicuri che tutte le
poesie amorose dirette a Flerida siano state scritte per conto del
Gentile, e una parte di esse ha potuto essere stata scritta per
conto dell'autore, massime dopo la rottura anzidetta: è certo
d'altro lato che l'autore credè egli pure dilettevoli o piuttosto
comodi simiglianti passatempi, onde abbiamo almeno sei Sonetti di
relazioni amorose indubbiamente sue, non mancando nemmeno nel
titolo di alcuni fra essi indicato specificatamente "l'Autore".
Forse presso Flerida ed anche qualche altra fanciulla egli trovò
distrazioni, come di sicuro ne trovò presso una Dianora, al cui
indirizzo la Raccolta ci offre un Sonetto; vedremo poi, nel
sèguito della nostra narrazione, attestato da lui medesimo in una
sua lettera il ricordo di scherzi a' quali certe donzelle lo
invitavano dalle finestre, ed attestato dal Gagliardo in alcune
sue deposizioni il ricordo di una certa Oriana, o secondo l'uso
del paese D. Oriana, nome ingarbugliato che risponde bene a quello
di Dianora, la quale abitava sotto la prigione e gli conservava
libri e scritti, fornendoli ad ogni sua richiesta mediante una
cordicina. La Dianora parrebbe una suora francescana, a giudicarne
da' versi co' quali comincia il Sonetto
"Donna che in terra fai vita celeste
sotto la guida di colui che in Cristo
amando trasformossi":
a lei il Campanella fa ringraziamenti, ma si dichiara nel tempo
stesso devoto abbastanza intimo co' versi
"Stella DIAN, ORA al mio fragil legno
che solca un mar d'affanni, onde non parte
l'occhio del mio desire e della mente";
né ci manca ne' Reg.i Partium la notizia di una "Sore Elionora
Barisana", e, ciò che vale dippiù, ne' libri parrocchiali del
Castel nuovo la notizia di una "Sore Dianora Barisciana di
Barletta"(363). Per questa donna, che potrebbe supporsi
appartenente alla famiglia del "torriero" come allora si diceva il
guardiano della torre, o per Flerida e altre fanciulle che
potrebbero supporsi appartenenti alla bassa famiglia de' Mendozza,
egli dovè scrivere i rimanenti cinque Sonetti ne' quali canta il
suo intrigo amoroso, un laccio di capelli da lui dimandato ed
avuto, un presente di pere inviatogli, un bagno fornitogli in
sollievo de' suoi dolori, ed anche una scena erotica abbastanza
vivace accaduta a traverso il muro della prigione(364). Mettendo
da parte siffatta scena che i lettori potranno rilevare col loro
comodo, notiamo quella singolare dichiarazione che il Campanella
fa nel Sonetto sul presente di pere
"Che solo Amor può darci il sommo bene
lo qual filosofando io non trovai"(365);
notiamo poi con tanto maggiore interesse la circostanza, che
l'avvenimento del bagno fornitogli dalla sua donna si deve
riferire al tempo che scorse dopo il tormento della veglia, onde
il povero filosofo si sentì ristorato ed anzi poeticamente
risanato,
"Tolsi l'acqua, applicaila al corpo mio
già fracassato dopo lunga guerra
per gran tormento ch'ogni forte atterra,
del medesmo liquor bivendo anch'io"(366).
Abbiamo dunque un Sonetto composto certamente dopo la veglia, a
tempo de' bagni, vale a dire in luglio secondo il costume del
paese: ma esso non fu il solo, e possiamo con ogni probabilità
aggiungervi anche con precedenza due altri Sonetti indirizzati a
un "Sig.r Petrillo"; né ci trattiene il rinvenirli a capo di tutto
il gruppo delle poesie appartenenti al periodo di cui discorriamo,
giacchè questo potrebbe significare solamente una speciale
distinzione(367). Dal primo de' due Sonetti questo Sig.r Petrillo
apparisce un fanciullo, o più verosimilmente un giovanetto,
leggiadro e riservato, che consola il povero filosofo con la sua
presenza, e l'eccita a scrivere nuovamente qualche poesia,
"Il vecchio canto a ripigliar m'invita";
e il filosofo dicendosi pazzo ed incapace di poetare con gusto,
apparisce addolorato e affranto addirittura,
"Carme ti rendo d'ogni gusto parco,
ch'esce da bocca di dolcezza lungi,
ch'agli ultimi sospiri è fatta varco";
ci parrebbe impossibile riferire simiglianti espressioni, e tutto
il resto, ad un tempo diverso da quello che seguì immediatamente
la veglia. Con l'altro Sonetto il filosofo loda la bellezza del
fanciullo e gli comunica eccellenti riflessioni morali, ma
continua sempre ad apparire profondamente mesto, ed anche oppresso
dal pensiero dei tradimenti che nella vita si patiscono; e chi era
dunque questo Sig.r Petrillo? I libri parrocchiali del Castel
nuovo ci dànno un po' di luce anche in questa come ce l'hanno data
in altre circostanze: vi era un "Petrillo" figlio dello speziale
del Castello Ottavio Cesarano e di Polissena Cammardella; nato nel
1583, egli morì nel 1603, ed avea quindi poco più di 17 anni
allorchè comparve al filosofo, e doveva essere leggiadro come uno
di que' fiorellini i quali, al vederli, fanno temere che ben
presto piegheranno il capo(368). Grande meraviglia ci avea recato
il non trovare qualche poesia diretta dal filosofo al suo migliore
aiuto, al chirurgo Scipione Cammardella; ma ecco che lo vediamo
onorato in persona del nipote, il quale verosimilmente
l'accompagnò in taluna delle prime visite e poi più tardi, quando
il filosofo era sempre assai sofferente, e in principio tuttora
non fiducioso al punto da fargli comprendere la simulazione della
pazzia, in sèguito divenuto fiducioso in modo da mostrarglisi un
vero e buono sapiente.
Furono queste le poesie che il Campanella compose dal maggio 1600
al 2 agosto 1601, e tutt'al più una sola di esse potrebbe dirsi
apocrifa nella Raccolta fattane da fra Pietro, quella intitolata
"Sonetto di Horatio di G." etc.(369). Sicuramente dopo il detto
periodo egli non cessò dal poetare, ed anzi allora appunto compose
le maggiori sue poesie, che si leggono nella Scelta pubblicatane
più tardi dall'Adami: cercheremo a tempo e luogo di determinare,
se sarà possibile, la data almeno di taluna di esse.
Veniamo alle opere alle quali il Campanella attese
consecutivamente, e per ora a quelle composte dall'agosto 1601 fin
verso la fine del 1602, cioè fino a che si compì il processo
dell'eresia. Gioverà qui avvertire una volta per sempre che i
fonti migliori, per determinare in un modo meno fallace le date di
quanto egli compose negli anni più difficili della prigionia,
saranno sempre le sue Lettere del 1606-1607 a' Card.li Farnese e
S. Giorgio e al Re di Spagna, alle quali egli annesse l'elenco
delle opere fin allora composte; meglio ancora la lettera allo
Scioppio, egualmente del 1607, posta come proemio all'"Ateismo" e
pubblicata dallo Struvio, nella quale citò ad una ad una con un
certo ordine, ma nemmeno con un ordine cronologico esatto, le
opere che realmente teneva a sua disposizione e che infatti gli
mandò, avendole rivedute, ritoccate, ovvero composte di pianta, e
facendo menzione anche di taluna che avea composta e perduta o
stava componendo e non potea mandare ancora; inoltre il Memoriale
del 1611 al Papa pubblicato dal Baldacchini, al quale fu pure
annesso un elenco delle opere, e in generale tutte le lettere del
Campanella scritte durante la prigionia. Ma ad un grado
limitatissimo potrà servire il Syntagma de libris propriis,
pubblicato tanti anni dopo su note confusamente raccolte dal
Naudeo, e manifestamente disordinato intorno alle opere scritte
nel carcere, come si può rilevare dalle notizie che fornisce il
processo dell'eresia, da quelle che forniscono i documenti
anzidetti, non che dalla lettura medesima del libro(370). Pel
momento il processo dell'eresia è ancora il fonte certo, su cui si
può contare senza riserva, e da esso sappiamo che il 2 agosto 1601
il Campanella già metteva mano a compiere l'Epilogo di Filosofia,
o la Filosofia epilogistica.
Rammentino i lettori il manoscritto buttato giù dalla finestra del
carcere del Campanella il 2 agosto, mentre venivano a visitarlo
gli ufficiali del Castello. Oggi ancora vi sono in Italia due
Manoscritti col titolo di "Epilogo..." o "Epilogo magno di quello
che della natura delle cose ha filosofato e disputato fra Thomaso
Campanella servo di Dio": analogamente al manoscritto buttato giù
dalla finestra del carcere, l'uno, della Magliabechiana, comincia
con le parole, "perché teco menar la vita non posso Signore, come
il desiderio suo grande della virtù vorrebbe", l'altro, della
Casanatense comincia con le parole, "perché menar teco la vita non
posso Signore" etc.; entrambi finiscono con le parole, "quel che
ne fece poi voi lo sapete", alle quali parole nell'esemplare della
Magliabechiana succede un epigramma latino in lode del Campanella,
e nell'esemplare della Casanatense succede un piccolo numero di
brevissime note e postille. L'opera poi in latino, stampata a cura
dell'Adami nel 1623 col titolo di "Philosophiae realis
epilogisticae partes quatuor", comincia con le parole, "Quoniam
tecum vitam ducere, charissime, non datur, ut avidissime cupis"
etc., e nella sua 2a parte, che rappresenta l'Etica, finisce con
le parole tradotte alquanto liberamente, "quid autem subinde
fecerit, historia docet". Come si vede, trattasi qui dell'opera
che sappiamo cominciata in Roma verso la fine del 1594 col titolo
di "Compendio di Fisiologia", quando il Campanella non potea
"menar la vita" con Mario del Tufo cui la mandò, continuata poi in
Napoli nel 1598 con l'aggiunta anche dell'Etica. Dopo due mesi dal
tormento della veglia, stando sempre a letto, il Campanella già
attendeva a rivedere quest'opera e ne meditava il compimento:
perduta la copia che ne aveva avuta senza dubbio da Mario del
Tufo, è naturale ammettere che se n'abbia procurata un'altra, ma
intanto, senza sospendere il suo lavoro, compose gli Aforismi
politici e l'Economica, poi ritoccò l'Etica e compose ancora la
Città del Sole menando così a termine tutta l'opera. Questi
particolari del modo in cui il lavoro fu condotto si rilevano dal
Syntagma, e fino ad un certo punto riescono confermati da ciò che
mostrano intorno all'opera gli elenchi annessi alle lettere del
1606-1607 ed anche del 1611, come ancora da ciò che mostra il
confronto dei Manoscritti in italiano con la parte corrispondente
dell'opera stampata in latino. Gli elenchi del 1606-1607 mostrano
l'opera col titolo di "Epilogo magno di ciò che ha filosofato"
etc., e quello del 1611 la mostra col titolo di "Epilogismo delle
scienze naturali e morali e politiche" etc., citando poi
separatamente i libri degli Aforismi e della Città del Sole o "De
propria Republica"; il confronto degli esemplari manoscritti in
italiano coll'opera stampata in latino mostra nell'Etica molte
varianti, sebbene vi si serbino interi lunghi tratti della
composizione originaria non che la chiusura; e potremmo dare molti
altri ragguagli, ma per lo scopo nostro ci pare che queste poche
cose bastino. Così l'"Epilogo" o "Epilogo magno", come sono
intitolati i Manoscritti della Magliabechiana e della Casanatense,
sebbene con titolo rinnovato, rappresentano sempre l'opera quale
fu continuata il 1598 in Napoli, e ci manca un manoscritto in
italiano con l'Etica nel modo in cui fu ritoccata verso la fine
del 1601 nel carcere; abbiamo bensì(371) gli Aforismi e la Città
del Sole in italiano separatamente, quali furono composti nel
detto tempo ma con precedenza, mancandovi ancora l'Economica.
Tutte queste circostanze mostrano in pari tempo che veramente al
Syntagma si può aggiustar fede in quanto a' particolari della
composizione, se non in quanto alle date, mentre vi si legge:
"Scrissi inoltre gli Aforismi politici, che poi distinsi in
capitoli, e così composi la scienza politica; e vi aggiunsi
l'Economica, utilissima; ed instaurai nuovamente l'Etica secondo
la dottrina delle Primalità, e vi posi in ultimo un'idea di
Repubblica che chiamo Città del Sole, molto più eccellente della
Platonica e di qualunque altra" etc.
Adunque gli Aforismi politici, al numero di 150, furono composti
con molta probabilità nel medesimo mese di agosto, sicuramente non
più tardi del mese di settembre o ottobre 1601, mentre il povero
filosofo stava ancora a letto col corpo lacerato dal tormento
della veglia! Di poi fu scritta l'Economica, ed avuta forse
un'altra copia dell'"Epilogo" fu rimaneggiata l'Etica. Degli
Aforismi intanto molte copie si diffusero, prima che venissero
ricomposti in capitoli e tradotti in latino. Se ne hanno tuttora
in Napoli, nella Biblioteca nazionale, due copie, una delle quali
è la copia già inviata allo Scioppio che ha note e postille
autografe del Campanella, con citazioni di altre opere sue
posteriori, come la Monarchia del Messia e i libri Astronomici; ce
n'è una in Lucca nella Bibl. pubblica (cod. 2618), una in Firenze
già nella Magliabechiana ed ora nell'Archivio di Stato tra le
scritture Medicee miscellanee(372), una in Torino nella Bibl.
dell'Università; ed anche a Parigi ne pervenne una copia nella
Bibl. dell'Arsenale. Le due copie napoletane, al pari della
fiorentina, hanno qua e là piccole aggiunte e specchietti in
latino per taluni aforismi; ed offrono poi un piccolo garbuglio di
distribuzione della materia, onde apparisce un numero di Aforismi
un po' minore de' 150, mentre la materia c'è tutta. Si conosce che
siamo debitori al D'Ancona della stampa degli Aforismi in
italiano, così come furono composti originariamente dal
Campanella: egli si potè servire solamente di una copia tratta da
due Manoscritti parigini entrambi scorrettissimi, e dovè lavorare
di molto a ridurla; le copie napoletane potrebbero ottimamente
servire per qualche altra edizione.
Relativamente alla Città del Sole, la più importante per noi, di
certo essa non fu composta dal suo autore "avanti che entrasse nel
carcere" come è sembrato al Berti(373): era bensì nella mente e
nel cuore di lui in quel tempo, ed anche sulle sue labbra a
sprazzi, ma fu posta in iscritto solamente nel carcere, durante il
1602. Con ogni probabilità fu cominciata a' principii del 1602,
scorsi i 6 mesi di cura che sappiamo essergli stati necessarii
dopo la veglia, quando il suo corpo era tornato florido e il suo
spirito trovavasi grandemente confortato; giacchè sostenuta bene
la veglia, provata giuridicamente la sua pazzia, egli poteva
reputarsi salvo, in forza di quel principio che registrò di poi in
una delle note annesse alle sue poesie, cioè che "de jure gentium
i pazzi son salvi"(374); ed oltracciò, vedendo condotto così in
lungo il processo dell'eresia, donde un ritardo sempre maggiore
nella conchiusione del processo della congiura, dovea trarne la
conseguenza che la ragion di Stato, della quale egli ritenevasi
vittima, si sarebbe trovata verso di lui già calmata. E per
verità, senza ammettere queste rosee speranze, non si potrebbe
comprendere il suo ritorno a' cari sogni di un tempo, nel quale
doveva allora sentirsi rivivere; non si potrebbe spiegare la sua
audacia nel dar fuori, anche nascostamente e in mano di fidi
amici, l'idea "della propria Repubblica" come egli l'intitolò di
poi nelle sue Lettere a' Cardinali e al Re ed egualmente nel suo
Memoriale al Papa; imperocchè grande davvero fu l'audacia sua
nello scrivere un libro simile, mentre era in carcere e la sua
sorte pendeva tuttora indecisa. Anche i biografi Campanelliani
restii ad ammettere che il Campanella si fosse mai spinto a
cospirare, segnatamente il Berti, hanno riconosciuto che nella
Città del Sole sia stata da lui adombrata la Repubblica che si
sarebbe fatta in Calabria, "nella quale esso si riprometteva non
poca autorità"(375); il Nunzio, che tenea sott'occhio al tempo
medesimo i processi puramente ecclesiastici come p. es. quello di
Squillace, ove erano registrate tante particolarità ammesse poi
nella Città del Sole, potea formarsi un criterio gravissimo della
colpabilità del Campanella intorno alla congiura e intorno
all'eresia, né occorre dire come dovesse ad ogni modo formarselo
il Governo Vicereale, nel caso in cui gli fosse rimasto qualche
dubbio intorno alla congiura. Ma l'indole del Campanella era
appunto tale, da offrire una pieghevolezza eccessiva ed una
temerità a tutta prova. - Il libro, come tutti gli altri finquì
detti che vennero a costituire la "Filosofia epilogistica", fu
scritto in italiano secondo il costume adottato dal Campanella già
da qualche tempo, e fu da lui tradotto in latino più tardi, verso
il 1613, quale si vede nella pubblicazione fattane dall'Adami il
1623; più tardi ancora fu ripubblicato egualmente in latino a cura
dell'autore ormai libero in Parigi il 1636. Ma si comprende che
esso dovè eccitare la curiosità al più alto grado, onde ne furono
sin da principio fatte molte copie, delle quali ne rimangono
tuttora alcune, sovente annesse agli Aforismi. In Napoli ve ne
sono due, una delle quali è la stessa già data allo Scioppio, non
corretta dall'autore ma abbastanza buona, e l'altra è d'altra mano
e molto buona; una copia ve n'è pure in Roma nella Casanatense,
un'altra in Firenze, parte di un codice Riccardiano, un'altra in
Lucca parte del codice sud.to della Bibl. pubblica; ed anche in
Madrid rammentiamo di aver preso nota di un'altra copia là
esistente senza il nome dell'autore. Le copie di Napoli, che
abbiamo avuto tutto l'agio di esaminare, ci hanno mostrato due
fatti importanti, non ancora avvertiti per quanto sappiamo: 1°,
che esse rappresentano la composizione originaria del libro in una
forma molto rozza, ma robusta e ad ogni modo caratteristica; 2°,
che varii ritocchi successivi furono fatti al libro quando venne
tradotto in latino nel 1613, e perfino quando ne fu preparata la
ristampa, ciò che deve riferirsi a dopo il 1629. E poichè questo
libro offre un saggio notevolissimo delle opinioni
politico-religiose riposte dell'autore, meritano di essere
ponderate le modificazioni successive introdottevi in tre date
diverse, corrispondenti agli anni 1602, 1613, 1629; l'esame di
tali modificazioni, mentre rivela l'animo dell'autore nelle dette
date, rivela in pari tempo che le opinioni espresse in quel libro
non furono da lui abbandonate giammai non ostante tutte le
apparenze in contrario, come del resto si desume egualmente dalle
Quistioni sull'ottima repubblica scritte in difesa della Città del
Sole tanto più tardi, e fino ad un certo punto anche dalla dedica
della 2a edizione del libro De Sensu Rerum fatta nel 1637 al
Card.l Richelieu, dal quale, niente meno, l'autore disse di
attendersi l'edificazione della Città del Sole(376). Facciamo voti
che questo libro, di cui si sono eseguite diverse traduzioni e
edizioni, sia pubblicato anche con le varianti delle diverse date
suddette. Più edizioni sono totalmente esaurite: l'ultima del
Daelli (Bibl. rara, Milano 1863), che abbiamo non ha guari potuto
avere, è stata condotta sulla 2a ediz. di Lugano 1850,
analogamente a quella più diffusa del D'Ancona, il quale non potè
servirsi del codice Riccardiano perché scorrettissimo. Entrambe
quindi rappresentano un volgarizzamento dal latino, e per verità
non ritraggono nel miglior modo la fisonomia del Campanella, de'
suoi tempi e de' suoi luoghi, come lo farebbe l'italiano
originale; basterebbe avere di esso almeno alcuni tratti, e
possono sotto tutti i rispetti servire molto bene per una nuova
edizione i codici napoletani.
Dopo la Città del Sole il Campanella attese certamente a comporre
la sua Metafisica; e conoscendo essere stata questa un'opera
voluminosa possiamo ritenere che ebbe a lavorarvi per tutto il
resto del 1602. Essa andò poi perduta, almeno per un certo tempo
come vedremo, e non avendo altro fonte dal quale trarne maggiori
notizie, dobbiamo ricorrere al Syntagma, il quale per fortuna
apparisce esatto in tale circostanza. Ecco quanto vi si legge:
"Poco di poi a Napoli scrissi una Metafisica in italiano, distinta
in tre parti e quindici libri, ove trattai de' principii
dell'essere, del conoscere e dell'operare, e posi allora le cause,
i principii e le primalità dell'ente, sopra la Necessità, il Fato
e l'Armonia escogitati prima da me: e questa ricevè dalle mie mani
Geronimo Tufo Marchese di Lavello nell'anno 1603, né me la
restituì più mai". Adunque il Marchese di Lavello ebbe a fargli
una visita in Castel nuovo il 1603, ed è verosimile che glie
l'abbia fatta ai principii dell'anno, quando il processo
dell'eresia era finito, ed anche la sentenza era stata comunicata
al Campanella, ciò che vedremo accaduto in gennaio 1603; non
sarebbe quindi arrischiato l'ammettere che a tale data la
Metafisica fosse stata già menata a termine. Circa il non essergli
stata restituita la detta opera, vedremo che egualmente nella
lettera del 1607 allo Scioppio il Campanella si dolse di "un
Marchese discepolo ingrato" che se la riteneva, e quindi non a
Gio. Geronimo, ma al figliuolo di lui che avea dovuto essergli
discepolo, il Campanella credevasi in dritto di muover rimprovero;
difatti nel Syntagma medesimo si trovano registrate le peripezie
sofferte dal libro "essendo morto il Marchese", peripezie le quali
con ogni probabilità il Campanella non conosceva ancora allorchè
scriveva la lettera allo Scioppio.
Ci fermiamo qui per contenerci nel periodo che ci siamo prefisso.
Aggiungiamo solamente che di tempo in tempo il Campanella dovè
scrivere ancora altre poesie dopo quelle già menzionate, e fuori
ogni dubbio una gran parte di esse, di natura intima, dovè essere
eliminata quando si fece la scelta che fu poi pubblicata a cura
dell'Adami: intanto, con un poco di buona volontà, si può
pervenire a riconoscere qualcuna delle rimaste appartenente al
periodo attuale. Ne indichiamo p. es. una che si rivela del tempo
in cui l'autore scriveva la Città del Sole; è il Sonetto
annoverato tra' Profetali che ha quella chiusa:
"Se in fatti di mio e di tuo sia il mondo privo
nell'util, nel giocondo e nell'onesto,
cangiarsi in Paradiso il veggo, e scrivo:
E il cieco amor in occhiuto e modesto,
l'astuzia ed ignoranza in saper vivo,
e 'n fratellanza l'imperio funesto"(377).
CAP. VI.
ESITI DE' DUE PROCESSI, FINE DELLA PAZZIA E CONCHIUSIONE.
(dal settembre 1602 al novembre 1604 e seg.ti)
I. Nel settembre 1602, ritornando a Napoli, il Vescovo di Caserta
giusta gli ordini avuti dovè riunirsi col Nunzio e col Vicario
Palumbo, procedere con loro a' voti su ciascuno de' frati, e poi
partecipare questi voti a Roma. Egli avea fatto redigere un
completo "Sommario del processo", sulla base di quello formato in
Roma dal Monterenzio con l'aggiunta delle cose raccolte
posteriormente, ed anche un "Riassunto degl'indizii" per ciascuno
degl'inquisiti, in fine del quale si registrò di poi il voto di
ciascun Giudice. Queste scritture, composte quasi tutte dal
Segretario del Vescovo D. Manno Brundusio, insieme con le bozze e
con le copie de' Riassunti fornite di numerose postille di
carattere del Vescovo, sono pervenute in mano nostra: esse non
fanno parte del processo propriamente detto, ma ne compiono molto
bene la conoscenza(378). Il Vescovo medesimo scrisse di suo pugno
un elenco de' giudicabili in testa delle Copie de' Riassunti, e
segnò queste con un numero progressivo in corrispondenza
dell'elenco suddetto: naturalmente dobbiamo credere che
nell'ordine medesimo si procedè alle votazioni; e siccome troviamo
in primo luogo fra Pietro Ponzio, sul quale certamente nella 2a
metà di agosto non si era votato ancora (ved. pag. 282), possiamo
desumere che le votazioni cominciarono al più presto in settembre,
verosimilmente nella 2a metà di settembre.
Si votò dunque dapprima su fra Pietro Ponzio. Il Riassunto contro
costui recava: non essere stato nominato nel processo di Calabria
ma carcerato d'ordine del Visitatore e per detto di D. Carlo Ruffo
come germano di fra Dionisio: essere stato più volte accusato dal
Pizzoni di minacce fatte nelle carceri da parte del Campanella,
perché esso Pizzoni si ritrattasse, ma avere ciò negato fra Paolo
citato per conteste; essere stato sorpreso in colloquio notturno
col Campanella che fingevasi pazzo, dal quale colloquio risultava
"non lieve sospetto di familiarità lasciva e disonestissima tra di
loro, sebbene fra Pietro fosse innanzi negli anni, rilevandosi
dalla sua deposizione, e dall'aspetto, di maggiore età, di anni
trenta"; infine non essere stato né reputato né esaminato come reo
dal Vescovo di Termoli e da' colleghi (si sarebbe dunque potuto e
dovuto lasciarlo in pace da molto tempo). Il Nunzio, il Vescovo
medesimo ed il Vicario Palumbo, a voti uniformi giudicarono dover
essere rilasciato per ciò che spettava al S.to Officio, ma con
fideiussione, potendo forse risultare qualche cosa contro di lui
nel progresso delle cause del Campanella e fra Dionisio. - Da
questo primo Riassunto può già rilevarsi l'animo e l'andamento del
Vescovo di Caserta; preciso nella esposizione de' fatti, come del
rimanente ci consta per tutti i Giudici di S.to Officio la cui
opera abbiamo potuto studiare, ma feroce e senz'ombra di carità
nella valutazione ed interpetrazione de' fatti esposti, ad un
grado che ben raramente ci è accaduto d'incontrare. I lettori
conoscono il colloquio notturno del Campanella e fra Pietro che il
Vescovo citava (ved. pag. 88); come mai costui potè dargli quella
brutale interpetrazione? È la cosa che più ci offende da parte di
questo Vescovo, e che mostrerebbe veramente in lui un'anima
abietta al maggior segno: si può solo perdonargli, conoscendo come
fra tutte le grandi soddisfazioni, che altrettali soggetti possono
godere, è del tutto negata loro quella di una tenera e sentita
amicizia, onde debbono finire col perderne assolutamente ogni
senso.
Si venne poi a fra Paolo della Grotteria. Recavasi contro di lui
essergli stato trovato un libercolo di segreti e sortilegi,
scritto non di sua mano, pel quale avea prodotto scuse varie e non
mai accertate; essere stato nominato tra' complici del Campanella
dal Pizzoni, dal Soldaniero, dal Petrolo, ma da una parte averlo
poi fra Dionisio negato, e d'altra parte avere il Pizzoni chiarito
che non dovea dirsi complice ma familiare, ed anche avere il
Petrolo chiarito che lo conosceva amico del Campanella solo per
detto altrui. Considerando che il libercolo, per relazione del P.e
Cherubino, conteneva semplici superstizioni soltanto, e per
diretta ispezione, appena due volte mostrava abuso di parole
sacre, tutti e tre i Giudici, a voti uniformi, decisero doversi
fra Paolo rilasciare con fideiussione, pel medesimo motivo detto
innanzi, valutando qual pena il carcere sofferto. - Così verso
questo frate de' più fangosi, e già galeotto, il tribunale fu
piuttosto benigno, tanto che vedremo la Sacra Congregazione di
Roma giudicare necessaria per lui qualche pena spirituale.
E si passò al Bitonto. Ricordavasi per costui la sua amicizia
intrinseca col Campanella e fra Dionisio attestata da diversi, la
visita da lui fatta al Campanella, la dichiarazione del Pizzoni di
essere complice del Campanella; inoltre l'essere stato preso in
abito secolare, l'avere conversato con secolari di pessima vita,
tra gli altri con Cesare Pisano; principalmente poi venivano messe
in mostra le ripetute deposizioni del Pisano, il viaggio fatto con
lui a Messina e le molte eresie formali dette in tale occasione,
rilevate anche nell'altro foro innanzi allo Sciarava, senza
sapersi con quale autorità raccolte da costui, confermate poi in
punto di morte, ratificate col tormento, e non invalidate da una
deposizione di Giuseppe Grillo. I Giudici, del pari a voti
uniformi, decisero doversi al Bitonto amministrare la tortura per
un'ora, e non risultando altro doversi rilasciare con
fideiussione. - Venne poi notato, dopo la discussione sul Bitonto,
che gl'indizii medesimi constavano tutti anche per fra Giuseppe di
Jatrinoli, contro cui non erasi mai proceduto ad Atto alcuno,
forse perché non si trovava preso, ignorandosi anche se ne fosse
stata mai ordinata la cattura o la citazione; e però i Giudici
emisero il voto che fosse carcerato e si procedesse contro di lui.
Contro fra Pietro di Stilo rammentavasi la sua familiarità ed
amicizia intrinseca col Campanella fin dalla puerizia; la
testimonianza del Lauriana, che il Campanella ne faceva gran
capitale e parlava con lui delle eresie; la testimonianza del
Soldaniero che fra Pietro era venuto presso di lui a sollecitarlo
perché andasse a visitare il Campanella; l'aver lui portata una
lettera al detto Soldaniero, ciò che lo dimostrava consapevole de'
segreti del Campanella. Inoltre il non aver denunziato il
Campanella, mentre ne conosceva alcune eresie, e come religioso e
come Vicario del convento era strettamente obbligato a denunciarlo
e a fuggirlo; averlo invece continuato a commendare per uomo dotto
e sapiente, ed essersi poi negato a deporre, nel 1° processo, ciò
che egli ne conosceva. E qui, accennate le divergenti opinioni de'
dottori intorno al doversi o no ritenere veementemente sospetto di
eresia lo sciente e non rivelante, concludevasi per l'affermativa,
aggiungendo che tale veemente sospetto di eresia veniva comprovato
dall'avere fra Pietro più volte dichiarato di volere ammogliarsi,
benchè si fosse poi scusato allegando di averlo detto in via di
scherzo. E però il Vescovo di Caserta emetteva il voto che gli si
dovesse amministrare la tortura per purgare gl'indizii: ma il
Vicario Palumbo opinò che dovesse prima sottostare ad un nuovo
interrogatorio più diligente e poi darglisi una lieve tortura, e
non risultando nulla, dovesse abiurare come lievemente sospetto di
eresia ed essere rilasciato, ma col bando dalla Calabria; il
Nunzio, da parte sua, si uniformò al voto del Palumbo. - Così
questa volta la maggioranza del tribunale non seguì la foga del
Vescovo di Caserta, il quale evidentemente potea riuscire
tollerabile come accusatore ma non come Giudice. Egli confondeva
nel più basso modo curialesco i fatti concernenti la ribellione
con quelli concernenti l'eresia, non teneva conto dell'essere
stato il Lauriana dimostrato falso testimone, non teneva conto
dell'essere stato il Soldaniero dimostrato di pessime qualità e
forzato da fra Cornelio a dire quel che disse, non teneva conto
degli esecrabili procedimenti di fra Cornelio, onde fra Pietro non
avea creduto di dover rispondere nell'esame al quale costui l'avea
chiamato. I Sommarii de' processi offrivano capitoli speciali
contro il Lauriana, contro il Soldaniero, contro fra Cornelio e lo
stesso Visitatore, ma questi capitoli pel Vescovo di Caserta
rimanevano inavvertiti. Eseguita poi la votazione, il Vescovo
aggiungeva che le lettere di fra Pietro ultimamente scoverte (le
lettere alle Sig.re Prestinaci etc.) aumentavano i sospetti contro
di lui (quasi che quelle lettere alludessero ad eresie)! Poteva e
doveva fra Pietro ritenersi colpevole, ma molti degli argomenti
addotti dal Vescovo potevano e dovevano tralasciarsi.
Contro il Petrolo allegavasi l'amicizia, conversazione intrinseca
e confidenza col Campanella, di cui era discepolo; la fuga insieme
presa in abito secolare; la comunicazione fattagli dal Campanella
di più e diverse eresie oltrechè del segreto della ribellione,
come esso Petrolo avea confessato, senza mai allontanarsene e
senza denunziarlo, avendo appena deposto tali cose sotto le
minacce e i terrori da parte del Visitatore. Inoltre la
confessione ultima di Cesare Pisano ratificata in tortura, che
rivelava molte eresie dette da fra Dionisio essere state
confermate dal Petrolo; la testimonianza del Lauriana che egli
fosse complice nella ribellione; la sua stessa condotta variabile
tenuta nell'affermare, nel ritrattarsi, nel dichiarare falsa la
sua ritrattazione. Laonde il Vescovo di Caserta opinava che gli si
dovesse amministrare due volte la tortura, e non risultando altro,
si dovesse farlo abiurare come veementemente sospetto di eresia e
bandirlo dalla Calabria rilasciandolo sotto fideiussione; il
Nunzio si uniformò a questo voto, ma il Vicario Palumbo votò per
una tortura sola bensì gagliarda, accettando tutto il resto. -
Come si vede, erano sempre messe in fascio la ribellione e
l'eresia; e quantunque ciò accadesse ora in un campo più generale
e più comportabile, non si può non riconoscere che il tribunale
sconfinava, ed ammetteva un fatto, il quale non gli constava
direttamente, e non era nemmeno passato ancora in cosa giudicata
nelle persone de' frati. D'altronde pel Petrolo bastavano le
proprie confessioni, rivedute e corrette con quelle del Pisano, ma
il Vescovo di Caserta si credeva in obbligo di raccogliere tutto
il peggio possibile, senza curarsi troppo di farne la scelta.
Contro il Lauriana ponderavasi la sua qualità di discepolo e
confidente del Pizzoni "indiziato e quasi convinto delle eresie e
degli altri delitti del Campanella"; la testimonianza del
Soldaniero, che fosse uno degli eletti a predicare; l'avere udite
eresie dal Campanella e dallo stesso Pizzoni senza averle
rivelate; l'aver suonato la campana all'armi quando si andò a
carcerarlo, con che mostrava "aver avuto coscienza e
partecipazione de' delitti del Campanella". Inoltre il non aver
deposto in giudizio se non dopo di essergli state comminate pene
più gravi; e poi l'aver variato nelle deposizioni, l'aver cercato
per lettere intorno ad esse consigli al Pizzoni e scuse a Ferrante
Ponzio, negando in sèguito questi fatti e rimanendo convinto di
mendacio; l'aver menato vita criminosa con costumi riprensibili
etc. E però il Vescovo di Caserta espresse anche per lui il voto
che gli si dovesse dare due volte la tortura, e non risultando
nulla, dovesse abiurare come veementemente sospetto di eresia ed
essere rilasciato con fideiussione: il Nunzio acconsentì a questo
voto, ma il Vicario Palumbo votò per una tortura sola e per
l'abiura come lievemente sospetto. - Senza dubbio contro questo
abietto frate si sarebbe stato assai più nel vero procedendo per
falsa testimonianza; ma non si usava, senza evidentissime ragioni,
passar sopra alla quistione dell'eresia.
Con la votazione sul Lauriana chiudevasi la discussione sui frati
i quali aveano rinunziato alle difese, e per tutti costoro i
Giudici concordemente emisero pure il voto, che dovessero essere
esiliati da entrambe le provincie di Calabria, e tenuti in
monasteri ne' quali i loro Superiori potessero osservarne la vita
e i procedimenti. Notiamo qui che non ci è pervenuta alcuna
notizia di votazione fatta intorno al Campanella, e che
verosimilmente non ce ne fu, a motivo della sua pazzia legalmente
accertata, la quale facea sospendere ogni Atto ulteriore contro di
lui. Ma non deve sfuggire che ne' Riassunti degl'indizii sopra
riferiti, e basta guardare quello del Lauriana, trovasi espresso
in termini non equivoci il giudizio di colpabilità sul Campanella,
e così pure sul Pizzoni defunto. Notiamo ancora che in tutte le
votazioni fatte il Nunzio non mostrò mai un'opinione propria,
mentre pure egli che sedeva al tempo stesso nel tribunale della
congiura, e conosceva intimamente molte e molte cose
estragiudiziali, avrebbe potuto e dovuto tenerla; ma
indubitatamente egli non avea studiato né seguito con premura lo
svolgimento del processo, fu quindi obbligato a rimettersene a'
colleghi, e pur troppo preferì quasi sempre uniformarsi al voto
del collega peggiore. Invece il Vicario Palumbo mostrò sovente
un'opinione propria: i motivi da lui addotti per sostenerla non
furono registrati, ma possono intendersi agevolmente da quanto
sappiamo intorno al processo, e bisogna dire che questa opinione
riuscì molto più giusta; vedremo che la Sacra Congregazione di
Roma la preferì costantemente.
Non rimaneva che procedere alla discussione e votazione su fra
Dionisio. Il 20 settembre i Giudici emisero l'ordine di citarne
l'Avvocato D. Attilio Cracco, perché l'indomani comparisse nelle
case loro a dire ed allegare quanto volesse, a voce ed in
iscritto, avvertendolo che avrebbero spedita la causa anche senza
la sua comparsa. E subito dopo doverono imprendere la discussione
de' meriti della causa, poichè nel Riassunto degl'indizii troviamo
affermato essersi i Giudici più volte riuniti a tale oggetto, e
nel processo troviamo registrata la loro decisione in data del 24
settembre(379).
Ben lungo e circostanziato fu il Riassunto degl'indizii, scritto
interamente dal Vescovo di Caserta, contro fra Dionisio: e poichè
esso da tanti lati riguarda anche la persona del Campanella,
contro cui non abbiamo un'analoga scrittura, lo riporteremo per
quanto è possibile minutamente, accompagnandolo pure con qualche
appunto; del resto raccomandiamo di consultare il documento
originale(380). Rammentavasi contro fra Dionisio la 1a deposizione
del Pizzoni in Calabria ed anche la ripetizione del medesimo in
Napoli; la deposizione del Lauriana, e quelle del Soldaniero, del
Pisano, del Conia; la sua fuga dal convento di Pizzoni mentre
procedevasi all'arresto del Pizzoni, e la sua cattura avvenuta in
Monopoli mentre cercava mettersi in salvo con Maurizio; la sua
amicizia strettissima e piena confidenza col Campanella, durata
anche dopo che lo zio P.e Pietro Ponzio glie l'aveva inibita sotto
pena di maledizione; la sua lettera al P.e Vincenzo Rodino, in cui
parlava di molti segreti che non conveniva affidare alla penna, la
sua qualità e i suoi costumi di poco buono odore, le vanterie di
brutti peccati commessi, l'irrequietezza e il continuo vagare per
la provincia anche "in compagnia de' giovanetti Cesare Pisano e
Alfonso Grillo" (evidentemente il Vescovo aveva una speciale
tendenza a vedere certi vizii da per tutto); infine l'ultima
rivelazione di Maurizio, che non avendo mai confessato nulla con
70 ore di tortura, volle poi sgravare la sua coscienza, e
"comportandosi abbastanza sobriamente, disse soltanto ciò che avea
saputo dal suo cognato Gio. Battista Vitale" (era proprio certo
che dovesse saperne di più). Allegavasi poi e combattevasi ciò che
fra Dionisio si era sforzato di dimostrare nelle sue difese contro
le persone e i detti de' testimoni a suo carico. E circa il
Pizzoni, notavasi che gli era stato nemico e gli avea rubati
alcuni scritti, ma osservavasi che già si erano riconciliati tra
loro onde conversavano sempre insieme e si trovarono riuniti anche
nel momento dell'arresto del Pizzoni; notavasi che il Pizzoni avea
pessimi costumi, ma con una classica frase osservavasi che in ciò
"nulla avea da dire Catilina a Cetego"; notavasi che era stato
vario in certi fatti ed avea osservato molte cose essere state
inserte falsamente negli esami da fra Cornelio, ma osservavasi che
si erano avute "correzioni piuttosto che varianti", e si dovea
credere a quel testimone tanto più, perché in fondo avea sempre
persistito nella prima deposizione malgrado i tanti esami fatti e
rifatti dal Vescovo di Termoli (e qui un calcio d'asino al suo
predecessore); né doveasi prestar fede all'ultima assertiva di
ritrattazione scritta dal Pizzoni in punto di morte e consegnata
al suo confessore, poichè questa non s'era trovata e il confessore
P.e Pietro Peres (forse Gonzales) non era di buoni costumi ed avea
confessato di nascosto, senza il permesso de' Commissarii e del
Curato, e poi per comune sentenza de' dottori non si dovea tener
conto delle dichiarazioni de' morenti, estorte da confessori e
confortatori, non essendo neanche ogni morente un S. Giovanni
Battista (ma in tutti i modi, lasciando in pace S. Giovanni
Battista, bisognava cercarla quella confessione e non essere verso
i costumi del confessore più severo che verso quelli del Pizzoni,
del Lauriana e del Soldaniero). Circa il Lauriana notavasi esserne
stata messa in mostra l'intima amicizia col Pizzoni, la mala vita,
l'opinione acquistata di testimone falso; ma osservavasi che
queste ragioni erano frivole, e bisognava tener conto della
diffamazione procuratagli da' Ponzii medesimi e dagli altri frati;
che anzi le sue deposizioni erano assai verosimili, mentre già da
un pezzo prima, quando non vi era sospetto d'inquisizione, per
iscrupolo egli aveva attestato qualche cosa contro fra Dionisio, e
poi non risparmiò neanche il suo maestro Pizzoni, e catturato con
lui all'improvviso, senza precedente concerto, si trovò d'accordo
con lui, né cedè alle minacce de' Ponzii, "i più furbi ed astuti
tra' calabresi" (e le suggestioni di fra Cornelio provate per
tante vie? e le incertezze posteriori e i mendaci provati dallo
stesso Pizzoni?). Circa il Soldaniero notavasi essere stata
allegata la seduzione per parte de' Polistina, sotto promessa
dell'indulto che poi gli fu concesso dallo Spinelli, le sue molte
varianti con sè medesimo e con Valerio Bruno suo domestico, il
mendacio provato con le deposizioni del priore e lettore di
Soriano sulla circostanza dell'aver fatto cacciare fra Dionisio e
il Pizzoni dal convento: ma osservavasi che nulla constava della
pretesa seduzione (pertanto il nome di fra Cornelio figurava
nell'indulto), e il Soldaniero era stato dichiarato dal Pizzoni
già anteriormente consapevole di tutto, per comunicazione fattagli
dal Campanella mediante fra Dionisio, ciò che era del pari provato
dal priore e lettore di Soriano, e poi il Campanella medesimo gli
avea mandato per fra Pietro di Stilo una lettera, come era
confessato da fra Pietro ed attestato dal priore e dal lettore che
la videro (ma la lettera non parlava di eresia, e si trovano qui
sempre studiatamente confuse l'eresia e la congiura); né le
differenze tra lui e Valerio Bruno erano sostanziali, e Valerio,
scorso un anno, avea potuto dimenticare qualche cosa ed anche
mentirla, sussistendo non di meno una conformità tra il Soldaniero
ed altri testimoni non sospetti. Circa il Pisano, si era allegata
un'antica inimicizia per la parte da lui presa nella causa di fra
Dionisio contro i Polistina, e la deposizione del Bitonto e del
Petrolo, come pure di Giuseppe Grillo, attestanti non essersi
fatti discorsi di eresia nella casa del Grillo: ma l'inimicizia
era senza dubbio estinta, mentre fra Dionisio era andato col
Pisano fino a Messina, e più tardi, insieme col Campanella, era
andato a visitarlo nelle carceri di Castelvetere, per procurarne
la liberazione, come aveva anche scritto al P.e Rodino; né poteva
tenersi conto delle deposizioni negative del Bitonto e del
Petrolo, essendo costoro complici e socii nel delitto, né di
quella del Grillo, essendo inverosimile che i frati avrebbero
parlato di cose tanto gravi in presenza di persone non sicure, e
d'altronde la deposizione del Pisano era stata convalidata pure in
punto di morte e ratificata in tortura. Circa il Caccìa, si era
allegata una fede del Cappellano della galera su cui fu confortato
a ben morire, attestante aver dichiarato false le cose da lui
deposte contro monaci, in materia di ribellione e di eresia,
essendogli state estorte con le torture dategli dallo Sciarava: ma
questa fede non aveva alcun valore, perché non rappresentava una
deposizione giurata, perché citava come contesti i P.i Ministri
degl'infermi ed uno di essi nella sua fede parlò del Vitale e non
del Caccìa, perché riguardava le deposizioni fatte innanzi allo
Sciarava e non quelle fatte spontaneamente innanzi al Vescovo di
Gerace etc. Aggiungevasi che erano state pure prodotte fedi di
alcune università che attestavano avervi fra Dionisio predicato
con edificazione dottrine cattoliche, ma, naturalmente, ciò non
bastava. E ricordata una quistione trattata dal Pegna nelle sue
aggiunte all'Eimerico, che cioè essendo i testimoni legittimi e
degni di fede, ma diversi per luogo e per tempo, non si aveva una
convinzione piena e tale da fare assegnare la pena ordinaria per
l'eretico negativo ed impenitente (vale a dire la degradazione e
la morte), ricordata d'altro lato la gravità degl'indizii,
presunzioni e congetture, segnatamente la circostanza del trovarsi
"pienamente convinto nella connessa causa della ribellione", si
veniva a' voti. Ed uniformemente tutti e tre i Giudici votarono la
doppia tortura, seguita dall'abiura per veemente sospetto di
eresia, aggiungendovi la relegazione, dopo scontata la pena per la
causa della ribellione che doveva ancora essere spedita, in un
convento fuori la provincia, a scelta de' Sig.ri Cardinali supremi
inquisitori, con l'obbligo di alcune penitenze salutari vita
durante.
Gli appunti sparsamente fatti nell'esporre questo Riassunto ci
dispensano da ogni ulteriore commento sopra di esso.
Principalmente fra Dionisio era più che colpevole in eresia, ma il
Vescovo di Caserta spiegava contro di lui insinuazioni su tutto e
su tutti, equivoci volontarii, interpetrazioni doppie, giudizii
benignissimi sui testimoni a carico e severissimi su' testimoni a
discarico, premura nel trovare la colpa più che la verità,
indifferenza per gli odii ferocissimi delle fazioni fratesche e
per la nequizia de' primi inquisitori, che avevano tanto influito
nella formazione del processo: insomma, l'abbiamo detto altra
volta, i frati erano colpevoli, ma meritavano migliori Giudici; un
solo ne ebbero veramente buono, il Vescovo di Termoli, e fu tolto
loro dalla morte, e il Vescovo di Caserta non risparmiò le
insinuazioni nemmeno verso di lui. Giova conoscere testualmente
ciò che egli ne disse: "ognuno che si faccia a guardare rettamente
il modo tenuto dal predetto Vescovo nel ripetere tante volte i
testimoni del processo offensivo, benchè debba piamente credere
che il Vescovo l'abbia usato per investigare e ricercare la
verità, pure vi trova non saprebbe dirsi quale umano desiderio di
voler cogliere in falso i testimoni del fisco e distruggere il
processo di Calabria". Non era umano ma divino desiderio quello di
legger chiaro in un processo nato sotto tanti maligni influssi e
brutto per tante irregolarità; il Vescovo di Caserta, scrivendo a
quel modo, mostrava bene che il senso della giustizia non era in
lui molto sviluppato. Il Campanella, nella sua Narrazione, come
deplorò la morte del Vescovo di Termoli così giudicò il Vescovo di
Caserta, e disse che costui "con dar tormenti et esser troppo
fiscale non provò altro": la qualità di "troppo fiscale" era il
meno che potesse dire, e bisogna tener presente che nelle sue
condizioni il Campanella dovea mostrare i più grandi riguardi alle
persone e alle cose di S.ta Chiesa.
Esaurite le discussioni e le votazioni, doverono mandarsi a Roma i
Riassunti degl'indizii co' voti de' Giudici, ed una copia, con le
relative bozze, ne rimase presso il Vescovo, ed è quella a noi
pervenuta: ma dobbiamo notare che il Riassunto contro fra Dionisio
vi si trova solamente in bozza, non ricopiato, donde si
desumerebbe che tutto questo lavoro durò fin oltre il 16 ottobre,
e che il Riassunto contro fra Dionisio forse non fu mandato, come
non dovè essere mandato nemmeno quello contro il Bitonto, poichè
costoro a quella data riuscirono a mettersi in salvo. - Intanto
deve notarsi che nel processo fu registrata la decisione presa su
fra Dionisio con la data de' 24 settembre: questo fatto riesce
singolare, poichè i voti de' Giudici servivano solamente per
proposte da sottomettersi alla Sacra Congregazione Romana de'
Cardinali Inquisitori, dalla quale poi veniva presa la risoluzione
che doveva essere seguìta da' Giudici nella spedizione della
causa. Noi crediamo assai verosimile che la decisione su fra
Dionisio sia stata inserta nel processo molto più tardi, quando
tutto fu esaurito, per far trovare un ricordo e non lasciare
addirittura senza conclusione la causa di un soggetto
principalissimo, su cui si aggirava la più gran parte del
voluminoso processo.
Come dicevamo, fra Dionisio ed il Bitonto riuscirono a mettersi in
salvo il 16 ottobre; essi fuggirono dal Castello insieme col
carceriere, e senza dubbio tale fuga dovè essere preceduta da
lunghi concerti, pe' quali probabilmente occorsero tutte quelle
tergiversazioni, tutti quegl'incidenti fatti nascere da fra
Dionisio negli ultimi tempi, non esclusa forse la rissa medesima
con tutte le sue conseguenze prevedute e calcolate. Il Nunzio, il
Vescovo di Caserta, e parimente il Card.l Gesualdo Arcivescovo di
Napoli, tutti mandarono a Roma la notizia della fuga, che appunto
dal Carteggio del Nunzio si rileva nella sua data e qualità
precisa. In Roma se n'ebbe dispiacere, come si rileva da una
lettera del Card.l Borghese in risposta a quella del Nunzio, al
quale fu raccomandato caldamente di adoperarsi per riavere nelle
mani i frati fuggiaschi(381). In Napoli se n'ebbe "universale
meraviglia", come si rileva da una lettera del Residente Veneto
Anton Maria Vincenti(382); e sicuramente il Vicerè dovè ordinare
un'apposita inchiesta, ma di tale ordine non c'è riuscito trovare
alcuna traccia. Abbiamo bensì trovato ordini vigorosi in questo
senso, venuti da Madrid non appena vi giunse la notizia della
fuga, e con essi menzionata una carta di avvertenze da doversi
tener presenti, la quale carta per altro non fu trasmessa
all'Archivio di Stato: con ogni probabilità le avvertenze
principali riflettevano la convenienza e la maniera di conoscere
se Roma avesse tenuto mano in tale faccenda. Abbiamo trovato
inoltre che lo Xarava, recatosi a Madrid per sollecitare la sua
nomina a Consigliere, profittò dell'avvenimento per offrirsi ad
"impinguare", come allora si diceva, l'inchiesta, e finquì la cosa
riesce naturale: ma ciò che riesce strano si è l'essersi offerto
pure nientemeno che a procedere nella causa di eresia tanto di fra
Dionisio quanto del Campanella, siccome bene informato di tutti i
loro disegni, e l'essersi da Madrid ordinato al Vicerè di vedere
cosa convenisse fare circa l'intervento dello Xarava; decisamente
la fuga di fra Dionisio avea fatto volgere la più viva attenzione
verso Roma. Questo si può argomentare da due Lettere Regie
esistenti nell'Archivio di Stato(383); ma anche senza di esse, si
comprende che, dopo le lungaggini verificatesi nello svolgimento
della causa, il Governo Vicereale dovè rimanerne tanto più
diffidente e sospettoso. Nulla poi conosciamo intorno a'
particolari della fuga, la quale del resto non era un fatto
assolutamente straordinario; basta ricordare che ne abbiamo già
citato un altro esempio in persona del cav.re gerosolomitano fra
Antonio Capece. Non potremmo nemmeno dire con certezza chi fosse
stato il carceriere che se ne andò co' fuggiaschi. Senza dubbio
non fu il Martines, che avea già da un pezzo perduto l'ufficio; ma
tutto induce a credere che sia stato Antonio de Torres detto
"sotto-carceriero" nella denunzia e ricorso di Camillo Adimari
contro fra Pietro Ponzio, e successo interinalmente al Martines,
perché ne' libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo, dopo
di aver figurato più volte a motivo di paternità dal 7 8bre 1587
al 4 7bre 1601, egli scomparisce affatto senza lasciare alcuna
traccia di sè, e d'altra parte Onofrio Martorel, che
dovrebb'essere l'Onofrio sotto-carceriere citato nel processo e
nella Narrazione del Campanella, dopo di avervi figurato del pari
assai sovente fin dal 1583, è registrato nell'elenco de' morti in
data del 14 gennaio 1605; aggiungiamo poi che nel processo, fin
da' primi giorni del 1603, poco dopo la data di cui qui si tratta,
incontrasi il nome di un nuovo carceriere, Martino Sances.
Conosciamo per altro che fra Dionisio se ne andò a Costantinopoli
e quivi abbracciò la fede Maomettana: ma le ricerche da noi
istituite nell'Archivio Veneto, rovistando il grandioso Carteggio
de' Baili, ci han fatto sapere che egli giunse a Costantinopoli
nel maggio dell'anno seguente, essendosi trattenuto segretamente
sulle galere di Malta, ed avendole lasciate nel trambusto di una
fazione vittoriosa di quelle galere contro il castello di Lepanto.
Avremo campo di parlarne più in là: per ora notiamo che questo
incidente faceva peggiorare moltissimo la causa del Campanella.
Apparve allora un ordine di cattura "a' cursori, aguzzini ed
inservienti di qualsivoglia Curia, tanto ecclesiastica quanto
secolare, in qualsivoglia luogo, ecclesiastico, secolare, regolare
ed anche di Monache comunque dotato di esenzione, non ostante
qualunque privilegio", venendo dal tribunale accordate le veci e
le voci proprie, ed inculcato a tutti e singoli, ecclesiastici e
secolari, di dare aiuto, consiglio e favore necessario ed
opportuno all'effetto predetto(384). Quest'ordine si trova in
processo senza data, ma non è dubbio che dovè essere emanato
propriamente il 17 ottobre; poichè vi si rileva questa
circostanza, che al momento in cui fu scritto, vi si parlò
solamente della cattura di fra Dionisio fuggito, e poi, con una
postilla in margine, vi si aggiunse anche il Bitonto; e non ci
manca nemmeno un documento fuori il processo, che attesta essere
dapprima venuta al Vescovo di Caserta la notizia della fuga del
solo fra Dionisio(385). Un'altra circostanza dobbiamo notare
nell'ordine suddetto. Esso fu emanato a nome del Nunzio, del
Vescovo di Caserta e del Vicario Alessandro Graziano: era costui
il nuovo Vicario generale successo al Vaccari, e da questo momento
in poi trovasi in quasi tutti gli Atti co' quali ebbe termine il
processo principale.
Ma finalmente con lettera del 29 novembre il Card.l Borghese
partecipava la risoluzione della Sacra Congregazione de'
Cardinali(386), ed ecco quanto alla presenza di S. S.tà si era
risoluto. Pel Campanella, "che sia condannato alle carceri di
questo santo Uffitio (int. di Roma) ove perpetuamente sia ritenuto
senza speranza alcuna di esserne liberato"; pel Lauriana e fra
Pietro di Stilo, "che si dia loro la corda moderatamente... et non
sopravenendo cosa che gli aggravi, si facciano abiurare come
leggiermente sospetti di heresia, con impor loro alcune penitenze
salutari"; pel Petrolo, "che se gli dia la corda più acremente...
et non risultando altro, si faccia abiurare come sospetto
vehementemente di heresia con imporgli alcune penitenze salutari";
e si aggiungeva per questi ultimi tre frati "l'essilio da tutto
cotesto Regno" e l'assegnazione "da' loro superiori" in conventi
ne' quali si vivesse con maggiore osservanza, notando essere
"mente di N. S.re che per le dette pene... non si pregiudichi né
si ritardi la speditione della causa della pretensa ribellione da
farsi da' giudici sopra ciò deputati da S. S.tà". Quanto a fra
Paolo, si era risoluto: "che sia rilasciato con imporgli alcune
penitenze salutari"; e quanto a fra Pietro Ponzio, "che sia
rilasciato liberamente dalle carceri per quello che spetta al
santo Uffitio".
Ben si vede che in Roma furono accolti i voti de' Giudici nel
senso più mite; solo per fra Paolo furono aggiunte le penitenze
salutari, e per gli altri fu accolto propriamente il voto del
Vicario Arcivescovile, che si era mostrato mite più di tutti. Ma
pel Campanella, pel quale non vi furono o non giunsero fino a noi
i voti de' Giudici, si prese una risoluzione abbastanza difficile
a spiegarsi. Secondo la giurisprudenza del S.to Officio che
abbiamo già altra volta avuta occasione di ricordare, come pazzo,
quale era legalmente riuscito a dimostrarsi col tormento della
veglia, il Campanella non avrebbe dovuto essere condannato, ma
ritenuto in carcere, fino a che o rinsavisse o morisse, potendo
solo in uno di questi due casi avere una condanna (è noto che in
materia di eresia anche i morti non venivano risparmiati); invece
come sano di mente, per la sua qualità di relapso, avrebbe dovuto
essere condannato alla degradazione e consegna alla Curia
secolare, dalla quale sarebbe stato giustiziato. Il carcere
perpetuo ed irremissibile, ovvero la così detta "immurazione" che
avea lo stesso significato, era la pena dell'eretico pentito, e
più propriamente, secondo una prescrizione del Concilio Tolosano,
la pena dell'eretico, che pel timore della morte o per qualunque
altro motivo, ma non di spontanea sua volontà, era tornato in
grembo alla Chiesa: posto che pel timore della morte il Campanella
si fosse finto pazzo, egli non avea però dato alcun segno di
ritorno in grembo alla Chiesa. D'altronde la condanna al carcere
perpetuo avrebbe dovuto sempre essere preceduta dall'abiura
pubblica ed anche dalla degradazione, almeno verbale se non
attuale, come ordinava un rescritto di Urbano IV; e di ciò, a
proposito del Campanella, non si fece alcuna parola, né realmente
si vide poi alcun Atto in sèguito. Bisogna del resto ricordare
ancora che né il carcere perpetuo, né l'irremissibile, importavano
assolutamente la ritenzione vita durante, come dalla loro
denominazione si potrebbe inferire; il S.to Officio non
isconosceva del tutto la massima del foro laico, che cioè il
carcere doveva servire a custodia e non a pena, e quindi soleva
condonare il carcere perpetuo dopo tre anni, ed il carcere
irremissibile dopo otto anni(387). - Queste considerazioni non
poterono certamente sfuggire al Governo Vicereale, che a simili
argomenti attendeva con molta premura in que' tempi, ma non ci
pare che siano state fatte da coloro i quali si sono occupati del
Campanella; e però si sono avuti giudizii veramente un po' strani
sullo spirito della condanna che il Campanella ebbe da Roma,
sull'atroce condotta del Governo Vicereale verso di lui, sulla
stessa determinazione presa in Roma, quando, dopo tanti anni di
ritenzione in Napoli, il Campanella giunto nelle carceri Romane
finì per acquistare la libertà. Certamente il Campanella fu da
Roma giudicato colpevole in eresia, e non sapremmo punto ammettere
che il S.to Officio gli avesse dato una condanna al carcere
irremissibile senza motivo, o per semplice finzione con lo scopo
di trarlo a Roma: se i compagni del Campanella furono sottoposti a
tortura ed obbligati ad abiurare come sospetti leggermente o
veementemente di eresia, come mai si può concepire che egli non
sia stato giudicato eretico? Forse potè non essere ritenuto
plenariamente convinto, come si era riconosciuto dai Giudici per
fra Dionisio; ma anche ammesso ciò pel Campanella, il cui caso era
veramente più grave di quello di fra Dionisio, rimane sempre a
spiegarsi come mai potè avere la condanna che ebbe. Se ci è lecito
esprimere una nostra opinione, essa è, che da Roma si volle dare a
questa faccenda un termine ad ogni costo, poichè con la semplice
ritenzione nel carcere, per aspettare il rinsavimento o la morte
del Campanella e poi venire alla condanna, la faccenda sarebbe
durata indefinitamente, e questo era divenuto impossibile: si mutò
quindi la ritenzione continua in carcere perpetuo sine spe, senza
prescrivere l'abiura e la degradazione, che nello stato in cui il
Campanella si trovava, o più veramente fingeva di trovarsi, non si
sarebbe nemmeno riusciti ad effettuare, e con tale ripiego si
apriva la via di dare un termine anche alla causa della congiura,
essendo esaurita quella dell'eresia. La condizione poi del doversi
la pena scontare nel carcere di Roma non fu nemmeno speciale,
perocchè trattandosi del giudizio di un tribunale non diocesano,
l'andata a Roma era di regola, e se si credè conveniente di
esprimerla nella risoluzione, ciò si fece per evitare ulteriori
controversie col Governo Vicereale, oltrechè per affermare quella
"superiorità ecclesiastica" sempre ambita da Roma più di ogni
altra cosa e non del tutto riconosciuta dal Governo in tale
faccenda: d'altronde l'andata a Roma si sarebbe effettuata dopo la
spedizione della causa della congiura, che non doveva essere "né
pregiudicata né ritardata", e se per questa causa il Campanella
avesse riportata la condanna della degradazione e consegna alla
Curia secolare, come D. Giovanni Sances avea già chiesto, egli non
sarebbe andato a Roma certamente. Adunque la risoluzione della
Congregazione Romana non avea punto lo scopo di trarre il
Campanella da Napoli a Roma: essa facilitava solamente, e di
molto, ciò che il Governo Vicereale bramava, la spedizione della
causa della congiura; essa dava modo di far proferire una condanna
in quella causa, come una condanna era stata proferita nella causa
dell'eresia, senza tener conto della pazzia legalmente accertata!
Con ciò non diremo che il Governo Vicereale avesse dovuto
rimanerne contento e soddisfatto. Si comprende che esso avrebbe
preferita una condanna di degradazione e consegna alla Curia
secolare, essendo il Campanella relapso in eresia, come D.
Giovanni Sances non avea mancato di ricordare nella sua
Allegazione: d'altronde non poteva fargli un'ottima impressione
quella condanna di ripiego ad un carcere irremissibile che tale
non era di fatto, quel ricordo di doversi codesta pena scontare in
Roma, dopo "la speditione della causa della pretensa ribellione da
farsi da' giudici sopra ciò deputati da S. S.tà", quasi che tale
causa potesse terminare con una condanna a pena insignificante o
con un semplice rilascio. Quando vi erano già state tante ragioni
od occasioni di sospetti e diffidenze, riesce ben naturale
ammettere che tutto ciò venisse ad aggiungere qualche cosa a'
sospetti e alle diffidenze. Eppure non abbiamo alcuno indizio che
il Governo Vicereale fosse rimasto irritato dalla risoluzione di
Roma: se ne rinverrebbe qualche traccia nel Carteggio del Nunzio,
come la si rinviene ogni qual volta vi era stato un positivo
scontento da parte del Governo. Invece se dovessimo credere a ciò
che ne disse poi il Campanella nella sua Narrazione, tutto fu
fatto per compiacere il Governo; e per verità, quanto a sè, egli
aveva ragione di dirlo, poichè Roma avea mostrato di non ritenerlo
pazzo, mentre egli avea comprovata col più solenne de' tormenti la
sua pazzia. Non sarà inutile ricordare qui le parole del
Campanella. "Dopo questo (dopo il suo tormento) fuggio F. Dionisio
dalli carceri, e li altri fur liberati; ma solo li frati furo
esiliati dal regno per soddisfar alli regi Fiscali, el Campanella
in perpetuo carcere del S. Officio in Roma sine spe. Ma perché li
frati condannati a compiacenza d'officiali regi subito in Napoli
et altri in Roma fur aggratiati e diventaro priori et officiali
nella Religione, e si vide che questa condanna era ad
ostentationem fatta dalli ecclesiastici; e sapendo ch'il
Campanella senza esser esaminato fu condannato, e la sentenza è
nulla per questo e per le appellationi secrete che prima e poi
mandò a Roma, non volsero mai permettere che andasse alli carceri
di Roma; né che si facesse la causa sua di ribellione a Napoli"
etc. Ma i frati, nella più gran parte, furono liberati dopo
tortura e solenne abiura, e se furono di poi graziati dell'esilio,
ciò accadeva sempre nelle condanne del S.to Officio, e sarebbe del
pari accaduto per lo stesso carcere perpetuo del Campanella: e
dopo tutto quello che abbiamo visto, potrebbe mai ritenersi che le
condanne con le torture fossero state date a compiacenza degli
officiali Regii e ad ostentationem? A noi basta assodare che non
vi fu, come non vi poteva essere, una grave dispiacenza del
Governo Vicereale per quella specie di condanne, e che esso non ne
rimase irritato più di quanto lo era già per molti altri fatti, ed
in ultimo luogo pel lunghissimo tempo impiegato nello svolgimento
della causa e per la fuga di fra Dionisio; vedremo in sèguito che
la sua irritazione crebbe veramente più tardi per qualche altro
fatto, il quale esacerbò la diffidenza e il sospetto,
aggiungendovi il risentimento e il puntiglio della peggiore
specie.
Pervenuta in Napoli la risoluzione di Roma, non rimaneva che
spedire la causa secondo il dettato di essa. Si sarebbe potuto
farlo in pochissimi giorni, ed invece, non sapremmo dire per quale
motivo, scorse oltre un mese, e le sentenze e gli atti ultimi non
si compirono che al principio dell'anno seguente: lo stesso fra
Pietro Ponzio, per lo quale era stato ordinato il rilascio
semplice, e già il Nunzio avea più volte dato a Roma promesse
formali di sollecita spedizione, non si vide libero e dovè
attendere ancora. Il Nunzio si limitò a partecipare al Card.l
Borghese di aver ricevuta la risoluzione presa intorno alla causa
del S.to Officio, e di aver fatto sapere al Vescovo di Caserta,
che era sempre pronto ad intervenire nella spedizione di detta
causa(388).
L'8 gennaio 1603 si venne finalmente alla spedizione della causa.
Secondo lo stile del S.to Officio, le sentenze furono prima
scritte, e quindi promulgate e lette dal Notaro della causa
agl'interessati, non essendo lecito fare altrimenti sotto pena di
nullità. Si cominciò dal Campanella(389). La sentenza,
sottoscritta da' tre Giudici, diceva che, viste le informazioni e
gli Atti, visto il tenore della lettera del Card.l Borghese
scritta il 29 novembre 1602 d'ordine de' Cardinali sommi
Inquisitori, in esecuzione di detta lettera essi Giudici
provvedevano e decretavano, che per le cause di eresia per le
quali trovavasi carcerato e detenuto il Campanella doveva essere
condannato, come con quel decreto era condannato, sua vita durante
alle carceri formali della S.ta Inquisizione in Roma etc. etc.,
ripetendo la condanna e la pena ne' termini precisi da Roma
trasmessi. Nel medesimo giorno suddetto il Prezioso, chiamato il
Campanella con l'intervento di due testimoni, i Rev.di D. Antonio
Peri e D. Vincenzo Pagano, gl'intimò e lesse la sentenza audiente
et intelligente, e ne rogò un Atto appunto in questi termini.
Dunque il Campanella udiva e comprendeva, e non tenevasi più conto
della sua pazzia, circostanza di cui non avea da dolersi
certamente il Governo Vicereale: intanto, in una ricevuta di
piccolo sussidio tratto dalla somma venuta di Calabria, alla data
del 30 marzo 1603, trovasi che la parte spettante al Campanella
era ancora esatta da fra Pietro di Stilo, il quale dichiarava di
aver "pensiero" della persona del Campanella, naturalmente perché
pazzo(390). Si venne poi a fra Paolo della Grotteria, per lo quale
la sentenza, scritta con lo stesso formulario, decretava il
rilascio dalle carceri con l'indicazione delle penitenze
impostegli (recitare in giorni determinati l'ufficio de' morti, il
Credo, i Salmi penitenziali e le Litanie, recitare ogni giorno il
Rosario, digiunare il sabato) "riservatane la moderazione, la
mitigazione e la commutazione a' Cardinali sommi Inquisitori". Ed
egualmente il Prezioso, con le cautele medesime, gli lesse la
sentenza audiente et bene intelligente, et omnia acceptante; più
tardi poi, scorse oltre due settimane, gli consegnò la copia delle
dette penitenze salutari, rogandone un altro Atto innanzi a due
altri testimoni, uno de' quali era Martino Sances carceriere. Ma
bisogna notare che il rilascio di fra Paolo rifletteva le cause di
S.to Officio, e poichè egli era inquisito anche della ribellione,
continuò a rimanere in carcere. - Si passò quindi a fra Pietro
Ponzio, cui fu decretato il rilascio per le cause spettanti al
S.to Officio, sempre in esecuzione della lettera di Roma; e il
Prezioso gli lesse la sentenza audiente et intelligente. Fra
Pietro fu veramente posto in libertà: non abbiamo notizia della
data precisa in cui uscì dalle carceri, ma verosimilmente ciò
accadde senza molto ritardo, non essendovi empara per lui;
possiamo solamente dire con certezza che nell'ordine di pagamento
del piccolo sussidio menzionato sopra, alla data del 22 marzo,
egli non era più computato tra' frati esistenti in Castello e non
figurava di poi nella ricevuta. Lo troveremo in sèguito nel suo
convento di Nicastro, poichè ci darà ancora occasione di parlare
di lui.
Nello stesso giorno 8 gennaio, innanzi al Nunzio, al Vescovo di
Caserta e al Vicario Graziano, si amministrò la tortura, prima a
fra Pietro di Stilo e poi a fra Silvestro di Lauriana(391),
tortura moderata, di poco più di mezz'ora, dimandando loro se
fossero vere le cose che aveano deposte contro gli altri, e se
avessero aderito all'eresie che avevano udite (precisamente come
in Roma era stato risoluto). Possiamo dire che l'uno e l'altro si
mostrarono quali li abbiamo visti finora in tutto il processo. Fra
Pietro di Stilo, lettogli il testo della sua deposizione fatta in
Gerace, dichiarò vere le cose che avea deposto avere udite dal
Campanella in Calabria, e quanto all'avervi aderito, disse che
egli non avea nemmeno capito tutto quello che il Campanella
diceva, anche perché come Vicario del convento non gli riusciva
star sempre fermo e poter udire tutto il discorso: incalzato dalle
domande, se avesse creduto a ciò che aveva udito intorno a'
miracoli, che era manifesta eresia, e se sapesse che un cristiano
avea l'obbligo di farne denunzia a' superiori ecclesiastici, disse
che non vi aveva mai creduto, che non aveva nemmeno immaginato
essere quella un'eresia, che aveva appreso l'obbligo della
denunzia solamente dopo di essere stato carcerato (sempre la parte
dell'ignorante). Posto allora alla corda, fra le solite grida di
dolore confermò ad una ad una le risposte date, ed avendogli i
Giudici domandato se volesse scendere per poter dire più
comodamente la verità, disse "io non voglio scendere et non sò
altro che dire, è la verità è detta". Poi oppresso dall'atrocità
del dolore si fece a dire, "scenditimi, scenditimi che dirrò la
verità"; ma mentre i Giudici ne davano l'ordine gridò, "non mi
scenditi, non mi scenditi, perché la verità l'hò ditta" (il povero
fra Pietro diffidava di sè medesimo, e si sforzava in tutti i modi
di non lasciarsi andare a dire cose compromettenti). Infine non
potè più resistere e volle scendere, ma disse "per Dio che non hò
da dire niente, né posso dire altro per Dio"; e più volte
mantenuto in alto, più volte sceso, dicendo sempre che la verità
l'avea detta, con segni di grandi sofferenze, essendo scorsa oltre
mezz'ora, fu lasciato definitivamente. - Quanto al Lauriana,
lettogli il testo della deposizione fatta in Monteleone alla
presenza di fra Cornelio, e dimandatogli se le cose quivi deposte
erano vere, disse, "io sono stato essaminato un'altra volta in
Napoli dinanzi al Vescovo di Termoli" (sempre un appello a
deposizioni anteriori); circa poi l'avere aderito all'eresie, lo
negò con gravissimi giuramenti; dimandatogli se sapesse che c'era
l'obbligo della denunzia, disse di sì, ed osservatogli che non
avea subito fatta la denunzia a' superiori disse "mi riferisco
all'essamine". Posto alla corda, emettendo le solite grida,
deplorando di aver conosciuto quelle persone che aveano proferito
eresie, rispondendo sempre di aver detto la verità, fra le angosce
del suo dolore esclamò, "Monsignore aiutatemi, Frà Campanella è
luterano marcio, abrusciatelo"! Ed allora gli venne domandato in
che fosse luterano fra Tommaso Campanella, ed egli "me rimetto
alle mie essamine" (sempre ignorante e brutale). Infine, essendo
anche per lui trascorsa mezz'ora e più, fu fatto scendere.
Gli 11 gennaio, del pari innanzi a tutti e tre i Giudici, si
amministrò la tortura a fra Domenico Petrolo, secondo le
prescrizioni di Roma, più acremente e rivolgendogli le solite
dimande(392). Con molti particolari, come era suo costume, egli
disse avere udito le cose deposte non tutte in Stilo, dalla bocca
del Campanella, ma averne udite anche in Castelvetere, quando fra
Tommaso gli persuase di imitare il Pizzoni, di farsi leggere la
deposizione di costui e deporre alcune delle cose che costui avea
deposte ad oggetto di scampare dalle mani de' secolari: ond'egli
così fece, e fra Cornelio scrisse aggravando la deposizione, ed
egli non si curò di questo aggravamento perché fra Tommaso gli
avea detto che così gli piaceva; ma poi, innanzi al Vescovo di
Termoli, avea corretto il primo esame, spogliandolo di tutto ciò
che fra Cornelio aveva aggiunto. E lettegli le deposizioni fatte
innanzi al Vescovo di Termoli, egli dichiarò che le cose in esse
contenute erano vere, ed aggiunse che non aveva mai aderito alle
proposizioni eretiche, ed aspettava che il Campanella le avesse
proferite alla presenza di altri, per poterlo denunziare e far
constare le cose da testimoni. Fu allora posto alla corda, sempre
in esecuzione di quanto era stato ordinato con la lettera di Roma,
che venne costantemente ricordata in tutti questi Atti. Le sue
sofferenze furono vivissime, le sue esclamazioni strazianti
continue: rivolgevasi al Nunzio, rivolgevasi al Vicario, diceva
loro che si sentiva aprire il petto e si protestava che moriva; al
Nunzio ricordò pure che compivano appunto allora tre anni, ed era
egualmente giorno di sabato, quando aveva altra volta avuta la
corda (per la congiura). Del rimanente confermò sempre che le cose
deposte erano vere, e che non aveva aderito all'eresie udite: ed
essendo scorsa un'ora intera, fu ordinato, come per tutti gli
altri, che lo scendessero, lo slegassero, gli accomodassero le
braccia, lo rivestissero e lo riponessero nel suo carcere.
Immantinente si passò a dar fuori le sentenze già scritte, e a
promulgarle e leggerle, procedendo anche alla consegna delle copie
delle penitenze, agli Atti dell'abiura e a quelli dell'assoluzione
dalla scomunica, tanto pel Petrolo quanto per fra Pietro di Stilo
e pel Lauriana successivamente; sicchè tutto venne esaurito nello
stesso giorno 11 gennaio 1603(393). Le sentenze furono questa
volta, secondo il rituale, scritte con maggiore solennità ed in
lingua volgare. I Giudici, dichiarandosi speciali delegati de'
Cardinali sommi Inquisitori, e rivolgendo la loro parola
all'inquisito, gli ricordavano la sua causa: trovarsi lui nel
tribunale del S.to Officio per avere udito "da alcuni religiosi"
proferire eresie formali e non averle denunziate, avere avuto un
termine per le difese senza averle fatte, essersi proposta e
discussa la causa e fattane relazione a' Cardinali sommi
Inquisitori, e dietro loro risoluzione essersi proceduto all'esame
rigoroso (la tortura) con le debite proteste del Procuratore
fiscale, e visti e considerati i meriti della causa, essersi
deliberato di venire alla spedizione e alla sentenza anche
d'ordine particolare di detti Cardinali. Invocato quindi il nome
di Gesù Cristo e di Maria Vergine, nella causa vertente tra il
Procuratore fiscale e lui "reo, inquisito et processato", sedendo
pro tribunali, dicevano, pronunziavano, sentenziavano e
dichiaravano essere stato lui giudicato sospetto di eresia
(veementemente o lievemente) e perciò incorso nelle censure: ed
affinchè togliesse dalle menti loro e di altri fedeli questo
sospetto contro di lui concepito, ordinavano che avanti di loro,
nella Chiesa del Castello, pubblicamente e in giorno festivo
abiurasse, maledicesse, detestasse ed anatemizzasse questa ed ogni
altra eresia nella forma che da loro sarebbe stata data,
contentandosi, dopo ciò, di assolverlo dalla scomunica incorsa. E
per non far rimanere que' gravi errori totalmente impuniti e dare
esempio agli altri, lo condannavano all'esilio fuori Regno vita
durante o pel tempo che parrebbe a' detti Cardinali, e alla
permanenza in un convento assegnato dal suo superiore regolare,
dando cauzione di 25 once d'oro per l'osservanza dell'esilio, e in
difetto obbligandosi a servire "per un remigante alle galere della
S.ta Sede" per un tempo ad arbitrio di detti Cardinali.
Gl'imponevano poi per penitenze salutari la confessione una volta
la settimana, la frequente celebrazione della Messa e il Rosario
ogni giorno, dichiarando che questa condanna non dovea ritardare
né impedire la spedizione della causa della ribellione, e
riservando la moderazione, commutazione e mitigazione delle dette
pene e penitenze a' Cardinali sommi Inquisitori. Conchiudevano:
"Et così dicemo, pronontiamo, sententiamo, condanniamo,
penitentiamo, et riserviamo in questo et in ogn'altro miglior modo
et forma che di raggione potemo et dovemo", sottoscrivendosi
ognuno col suo titolo e con la qualità di Commissario Apostolico.
- Una simile sentenza di veemente sospetto fu dal Notaro della
causa promulgata e letta dapprima al Petrolo, audiente et
intelligente, alla presenza di 7 testimoni, e subito dopo, avuta
anche la copia delle penitenze salutari impostegli, tutto
addolorato com'era, il Petrolo fu tradotto nella Chiesa del
Castello, ed ivi inginocchiato innanzi ai Giudici pronunziò la
solenne abiura, secondo la scritta già preparata, e vi appose la
sua firma. L'abiura conteneva la notizia della causa e della
condanna, calcata sul formulario della sentenza. L'inquisito
dichiarava che, inginocchiato innanzi a' Giudici e toccando i
Santi Evangeli, confessava e si doleva di avere gravemente errato
contro la Chiesa, perché avendo da alcuni religiosi udito
proferire eresie formali non li aveva denunziati; ed essendo stato
giudicato veementemente sospetto di eresia, per rimuovere dalla
mente di tutti i fedeli questo veemente sospetto abiurava etc.
etc., promettendo e giurando di non mai più ascoltare eretici, di
denunziarli subito qualora gli accadesse di conoscerli e udirli
per l'avvenire, di adempiere a tutte le pene e penitenze
impostegli, ed infine ricercando il Notaro là presente di scrivere
quella cedola di abiura recitata parola a parola, non sapendo lui
bene scrivere (!) e di fare d'ogni cosa pubblico istrumento (ciò
che per altro era stato già preparato). Da ultimo il Curato D.
Gaspare di Accetto, con le solite cerimonie, procedeva alle
assoluzioni dalla scomunica, censura e pene incorse; ed anche di
questo fu rogato un Atto. - Allo stesso modo si fece di poi per
fra Pietro di Stilo e pel Lauriana colpiti di lieve sospetto:
l'uno dopo l'altro adempirono agli Atti e formalità di cui si è
finora discorso.
Rimaneva intanto a compiersi ancora la parte più difficile pei
poveri frati, la fideiussione di 25 once d'oro per ciascuno.
Naturalmente, nella loro condizione, era quasi impossibile trovare
anche uno degli strozzini i quali solevano fare questa specie di
affari, e i Giudici l'aveano preveduto nella loro sentenza.
Mandarono dunque un memoriale con cui diceano volersi obbligare
alla pena della galera invece di dare la fideiussione, giacchè
"per essere forastieri" non aveano fideiussori. E il 16 marzo il
Notaro Prezioso, andato in Castel nuovo, rogò un Atto
coll'intervento di cinque testimoni, e tra essi Felice Gagliardo,
pel quale i tre frati, "sciolti da' ceppi e dalle catene e
costituiti in libera libertà" secondo la formola solita in questi
casi, spontaneamente dichiararono che non avendo trovato
fideiussori si obbligavano a servire da remiganti sulle galere
della S.ta Sede, per un tempo ad arbitrio de' Cardinali sommi
Inquisitori, nel caso di contravvenzione all'esilio fuori Regno
vita durante, e alla permanenza in un convento assegnato dal loro
superiore giusta la sentenza(394). Il 21 marzo la copia delle
sentenze, decreti, abiure, ed obbligo della galera fu mandata a
Roma.
Così nel marzo 1603 ebbe veramente termine il processo di eresia
del Campanella e socii, durato, soltanto in Napoli, poco meno di
tre anni, dal 10 maggio 1600 al marzo 1603, e finito con sole
quattro condanne di frati propriamente per l'eresia: ve ne
sarebbero state sei, qualora fra Dionisio e il Bitonto non fossero
riusciti a fuggire, e computandovi anche il Pizzoni morto nel
carcere, si sarebbero in tutto avuti, dopo tanto scalpore, sette
frati solamente più o meno eretici. Ecco a quali proporzioni si
riducevano le cose circa l'eresia, ed essendoci note le condizioni
di taluni di questi frati, sopratutto del Lauriana ed anche del
Petrolo, di fra Pietro di Stilo e del Bitonto, dobbiamo
assolutamente ridurre le cose sempre più, accordando a' soli tre
nominati nel processo in modo più spiccato, Campanella, fra
Dionisio e Pizzoni, la possibilità di una opera efficace nel senso
di una riforma religiosa, e riconoscendo unicamente nel Campanella
la capacità di concepirla ed insinuarla. - Pertanto i frati
rimasti in carcere, cioè il Campanella, il Petrolo, fra Pietro di
Stilo, il Lauriana ed anche fra Paolo della Grotteria, erano in
grado oramai di saldare il loro conto col tribunale per la
congiura: ma vedremo che vi furono altri incidenti e si andò
incontro a lungaggini egualmente da questo lato, né si potè
cominciare a prendere una risoluzione a loro riguardo che nel
luglio dell'anno seguente!
Dobbiamo aggiungere che il tribunale per l'eresia ebbe ancora a
compiere qualche altro Atto circa il Soldaniero e Valerio Bruno,
mentre per Orazio S.ta Croce e Felice Gagliardo avea provvisto con
quello speciale processo secondario affidato al tribunale
diocesano, le cui vicende abbiamo anche già narrato. Circa Valerio
Bruno, rammentiamo che dietro due suoi memoriali, favorevolmente
accolti dal Vicario Palumbo e dal Vescovo di Caserta, egli fu
abilitato con fideiussione e coll'obbligo di non partire da
Napoli, legalmente domiciliato presso Carlo Spinelli, avendo il
Vicario Palumbo opinato che dovesse essere interrogato di nuovo e
poi spedito. Fu quindi, il 19 luglio 1603, decretato un nuovo
esame pel Bruno, ad oggetto di sapere se veramente il Soldaniero
avesse chiesta al priore e al lettore di Soriano l'espulsione di
fra Dionisio e del Pizzoni da quel convento, per l'eresie che
aveano manifestate. Costretto a ripresentarsi in tribunale, il 19
agosto fu esaminato dal Vicario Palumbo "sostituto e deputato", e
nell'esame si ricordò solamente di aver conosciuto fra Dionisio e
il Pizzoni in Soriano, ma pel resto mostrò non ricordarsi più di
nulla, dicendo, "dopò che hebbi la corda (int. per qualche
incidente od anche per la sola ratificazione delle cose deposte
nella causa della congiura) hò persa la memoria, è da quà ad un
Credo non mi ricordarò di quello che V. S. me hà dimandato"(395).
Così il 19 novembre fu emanato per lui un decreto di rilascio ma
pur sempre con fideiussione; e questa volta, il 28 gennaio 1604,
si trovarono due disgraziati, un tessitore ed un calzolaio, che si
obbligarono a presentarlo ad ogni richiesta nelle carceri
Arcivescovili sotto pena di 50 once d'oro, obbligandosi il Bruno
medesimo alla pena della galera, e tutti e tre indicarono per
domicilio legale la casa di Carlo Spinelli, onde si vede che
costoro erano tutti dipendenti dallo Spinelli. - Circa il
Soldaniero, rammentiamo che essendo nel marzo 1602 partito per la
Calabria in contravvenzione all'obbligo assunto di rimanere in
Napoli, accertato il fatto con una informazione, venne confiscata
la cauzione data e prescritta la citazione a comparire fra tre
giorni sotto pena di essere dichiarato scomunicato oltrechè
confesso e convinto del delitto appostogli, onde finì poi per
essere carcerato di nuovo in Calabria. L'informazione eseguita dal
Prezioso nel domicilio del Soldaniero in Napoli, esaminando la sua
albergatrice Lucrezia Marmana bottegaia alla Carità, Beatrice
d'Avanno maritata ad un genovese e divenuta amante del Soldaniero,
inoltre anche Agostino S.ta Croce clerico, fratello di Orazio ed
albergato del pari in casa della Marmana, avea fatto conoscere che
il Soldaniero se n'era andato in Calabria per arrolare soldati,
avendo avuto l'ufficio di alfiere dal capitano Gio. Paolo de
Corduba; poichè i banditi davano un contingente notevole
all'esercito, come del resto dovunque, e nelle occorrenze il
Governo concedeva anche indulti agli assassini coll'obbligo di
servire alla guerra per un numero di anni determinato, facendo
desolare segnatamente le provincie di Fiandra e facendo maledire
il nome napoletano con altrettali soggetti. Il Soldaniero si
schermì per non breve tempo, ma cadde finalmente in potere delle
forze Regie, e venne chiuso nelle carceri dell'Audienza di
Calabria a disposizione del Vescovo di Caserta. Carlo Spinelli
s'interessò allora anche per lui, lo raccomandò a voce e scrisse
di poi una lettera al Vescovo, che fu perfino inserta nel processo
e ne mostra la firma autografa, presentando i nomi di varii
individui capaci di fornire la cauzione pel Soldaniero, tra' quali
nientemeno che il nome di Valerio Bruno(396). La lettera fu
scritta il 23 gennaio 1604, e il 26 il Vescovo di Caserta emanò un
decreto di rilascio pel Soldaniero dalle carceri della R.a
Audienza di Calabria, con la cauzione di 50 once d'oro e l'obbligo
di presentarsi fra quindici giorni nelle carceri Arcivescovili di
Napoli. Una significatoria di tale decreto fu subito spedita al
Governatore e alla R.a Audienza di Calabria, ma senza aspettarne
l'esecuzione, il 28 gennaio 1604, nella stessa data in cui
rogavasi la fideiussione per Valerio Bruno, fu rogata anche quella
pel Soldaniero, rimanendo accettato per fideiussore, insieme con
due altri individui, appunto Valerio Bruno, e sempre indicata per
domicilio la casa di Carlo Spinelli presso la Chiesa di S. Lucia a
mare. Evidentemente lo Spinelli e il Vescovo di Caserta erano due
anime fatte per intendersi senza la menoma difficoltà: abbiamo
motivo di ritenere che il Soldaniero sia stato lasciato in pace,
non trovandosi alcun altro esame di lui, e conviene dire che con
tanta benignità verso due furfanti quali il Soldaniero e il Bruno,
dopo tanto rigore verso i poveri frati, il Vescovo di Caserta
nella fine della causa abbia emulato la condotta tenuta nel
principio da fra Cornelio. Ma conviene anche dire che non dal
tribunale, bensì dal solo Vescovo di Caserta, furono compiuti
questi ultimi Atti, co' quali rimase definitivamente chiuso il
lungo processo dell'eresia.
II. Passiamo all'esito del processo della congiura; e qui
esporremo dapprima le poche altre notizie che ci è riuscito
raccogliere intorno agli Atti ulteriori del tribunale pe' laici,
il quale non cessò mai di funzionare durante il lungo tempo in cui
funzionò il tribunale dell'eresia, ed anzi si tenne ancora aperto
per qualche anno dopo. Abbiamo già detto altrove, che secondo il
costume del tempo si sentenziava separatamente e successivamente
per ciascuno inquisito e per gruppi speciali d'inquisiti; vi
furono quindi, di tratto in tratto, sentenze non solo pe'
catturati, ma anche pe' contumaci che con pubblico bando erano
stati dichiarati "forgiudicati". Possiamo dire con certezza che
non si ebbero altri supplizii, poichè conoscendo i nomi de'
principali inquisiti, li avremmo senza dubbio ravvisati ne'
Registri dell'Archivio de' Bianchi di giustizia: si ebbero invece
gravi condanne a parecchi anni di carcere, come per taluno
degl'inquisiti ci risulta da documenti che abbiamo trovati nel
Grande Archivio; e si ebbero ancora più numerose assoluzioni e
rilasci, come ci risulta dalle notizie autentiche, registrate nel
processo dell'eresia, circa coloro i quali figurarono egualmente
in tale processo o vi furono semplicemente nominati.
Cominciando da quest'ultima categoria, non abbiamo che a
riassumere le notizie sparsamente apprese dal processo di eresia.
Ricordiamo dunque, che verso la fine di settembre 1600 erano stati
abilitati e si trovavano pronti a partire per la Calabria tutti o
quasi tutti gl'inquisiti di Catanzaro, segnatamente Geronimo
Marra, Francesco Salerno, Nardo Rampano, e con costoro
probabilmente anche il Franza, il Flaccavento, gli Striveri etc.,
onde a tale data nel processo dell'eresia fra Dionisio chiedeva
che fossero interrogati di urgenza, prima che partissero.
Ricordiamo che Felice Gagliardo, già torturato una prima volta in
Calabria, ebbe un'altra tortura per la ribellione, un po' prima
del 19 marzo 1602, quando fra Pietro Ponzio ne fece menzione come
di un fatto non remoto(397); e la tortura fu acre, verosimilmente
tamquam in cadaver come allora si soleva prescrivere ne' delitti
gravi, onde il Gagliardo medesimo disse di aver avuto "a morire",
ma non confessò nulla e dovè essere assoluto, poichè non trovò
alcuno ostacolo all'uscita dal carcere quando finì di saldare i
suoi conti col S.to Officio. Ricordiamo inoltre che tra il
febbraio e l'aprile 1602 erano già stati assoluti il Conia, il
Marrapodi, l'Adimari, probabilmente anche il S.ta Croce, tutto il
gruppo degl'inquisiti che insieme col Gagliardo e col Pisano si
trovarono rinchiusi nelle carceri di Castelvetere; e i primi tre
aveano pure fatto ritorno in Calabria subito dopo l'assoluzione,
mentre il S.ta Croce rimase in carcere essendo implicato nelle
materie di S.to Officio. Ricordiamo infine che nel tempo medesimo
era stato egualmente assoluto Geronimo Campanella e forse anche
Gio. Pietro Campanella (ved. pag. 241): l'ultima notizia avuta
intorno a Geronimo si fu l'assistenza che egli faceva insieme con
Gio. Pietro, il 2 agosto 1601, al povero fra Tommaso ancora
ammalato pel grave tormento sofferto; più tardi, tra il febbraio e
l'aprile 1602, egli era già tornato a Stignano.
Relativamente a' contumaci forgiudicati, dallo stesso processo di
eresia abbiamo appreso che Gio. Gregorio Prestinace nell'agosto
1601 voleva presentarsi, e fra Pietro di Stilo vivamente
raccomandava che se ne astenesse: né altro sappiamo intorno alla
fine di questo amico intimo del Campanella, come pure dell'altro
egualmente fuggiasco, Fulvio Vua, mentre intorno a Tiberio e
Scipione Marullo possiamo ritenere che non patirono gravi
molestie, poichè troviamo Scipione registrato tra coloro i quali
si dottorarono nell'aprile o maggio 1604, e però bisogna ammettere
che egli abbia potuto fare i suoi studii negli anni
precedenti(398). Abbiamo appreso poi da documenti, che ci è
riuscito del pari trovare nel Grande Archivio, talune altre
notizie sul Baldaia, sul Dolce, sull'Alessandria, sul Tranfo,
inscritti, come si è veduto a suo tempo, in una lunga lista di
forgiudicati.
Geronimo Baldaia di Squillace verso la fine del 1603 scorreva la
campagna con comitiva di fuorusciti, ed aveva pur allora commesso
un omicidio, d'accordo, a quanto pare, col capitano di Petrizzi
(tanta era la confusione e corruzione amministrativa a que'
tempi): la Corte del Principe di Squillace lo catturò, e pretese
di farne essa la causa, ma l'Audienza di Calabria ultra si diede a
raccogliere contro di lui informazioni "de più delitti"; nel
luglio poi 1604 il Vicerè ordinò che queste informazioni gli
fossero trasmesse, come pure che il Baldaia fosse dalle carceri di
Squillace tradotto a Napoli, senza per altro fare alcun cenno
della sua condizione di forgiudicato per la causa della congiura,
sicchè dovrebbe dirsi essere stata quella condizione affatto
dimenticata(399). Quanto a Tolibio Dolce di Satriano, nel giugno
1604 il Capitano di Stilo aveva già catturato un Gio. Antonio
Lucano, che gli avea dato ricetto mentre trovavasi "forgiudicato
per la causa di ribellione", e poi finì per essere catturato egli
medesimo, nell'ottobre di quell'anno, per opera di D. Carlo di
Cardines Marchese di Laino, Governatore di Calabria ultra in quel
tempo: il documento che lo riguarda non fa menzione di altri
delitti da lui commessi, ma lo dichiara solamente "forgiudicato
nella causa della pretensa ribellione", ed inviato a Napoli perché
quivi "in detta causa... si procede per delegatione", onde il
Vicerè loda molto nel Marchese "la diligentia de un cossì
accertato et signalato servitio"(400). Da ciò rilevasi che al
cadere del 1604 il tribunale speciale della congiura pe' laici era
sempre aperto; ed aggiungiamo che un altro documento ci mostra il
Dolce tuttora nelle carceri del Castel nuovo nel 1610(401).
Passando a Gio. Francesco d'Alessandria, dobbiamo dire che egli
continuava nella sua mala vita di fuoruscito in compagnia pure di
Antonio suo padre, e nel 1605 venne finalmente catturato: un
reclamo contro di lui lo dichiara "carcerato inquisito per la
causa della Rebellione", sottoposto ad informazione per un
omicidio in persona di un Antonio Lapronia e per "altri homicidii
et enormi delitti"; un reclamo poi contro l'Auditore Ferrante
Barbuto, successo all'Auditore Hoquenda come delegato a tale
informazione, rivela che il Barbuto ebbe per mezzo di Carlo di
Paola, nostra vecchia conoscenza, D.ti 200 "acciò guastasse
l'informatione presa"(402). Entrambi questi documenti meritano di
essere consultati per acquistare una nozione de' tempi sempre più
esatta, ma principalmente il secondo, scritto dal figlio di Gio.
Geronimo Morano, altra nostra conoscenza, merita di essere
consultato in tutta la sua estensione: poichè esso, oltre
l'Alessandria, menziona diversi inquisiti, tra' quali Paolo e
Scipione Grasso figli di Jacovo, presi con bando che concedeva
indulto a chi li consegnasse vivi o morti; ed anche Gio. Domenico
Martino famoso fuoruscito, probabilmente "il figlio di Nino
Martino", che insieme co' "figli di Jacovo Grasso" il Campanella
nominò nella sua Dichiarazione scritta come individui sui quali i
Contestabili facevano assegnamento per la ribellione. Nessuno di
costoro trovasi qualificato "inquisito per la causa della
ribellione" come s'incontra in persona del D'Alessandria; e
notiamo qui che la cosa medesima accade pure per altri fuorusciti
egualmente nominati dal Campanella come amici di Maurizio disposti
alla ribellione, cioè per Carlo Bravo e pe' Baroni di Reggio,
secondochè ci mostrano altri documenti dello stesso tempo, onde si
può dire che essi nemmeno vennero perseguitati per questa
causa(403). Infine quanto ad Alessandro Tranfo, un documento del
Grande Archivio ce lo mostra nel 1606 nella sua Baronia di
Precacore, ma non perseguitato, sibbene in conflitto con un altro
individuo di nostra conoscenza, quel furfantello di Aquilio
Marrapodi figlio di Gio. Angelo (ved. pag. 129). Verosimilmente
egli si presentò e riescì ad opporre qualcuna delle eccezioni
consentite dalla giurisprudenza del tempo anche a' forgiudicati, e
dovè difendersi in modo da rimanere assoluto: così, trovandosi nel
luglio 1606 in compagnia del Capitano] di Precacore, ed essendogli
passato arrogantemente dinanzi Aquilio Marrapodi già divenuto
contumace per cause criminali, diede ordine che fosse preso, ma ne
ebbe immediatamente minaccia di morte e dovè lasciarlo andare; né
manca qualche documento che accenna alle violenze ed omicidii
commessi così da Aquilio come dal medesimo Gio. Angelo Marrapodi
suo padre(404). Di Marcantonio Contestabile, del Famareda,
dell'Joy etc. non c'è riuscito trovare altra traccia; non ci
farebbe meraviglia che, dopo un'ecclisse durante qualche tempo,
abbia ognuno ripigliata la sua solita maniera di vivere, rimanendo
nella mala vita coloro i quali vi erano abituati; senza dubbio
questo s'incontra per parecchi già imprigionati e tormentati per
la congiura, con essersi in loro verificato un peggioramento di
vita dietro i travagli sofferti(405). Ma in somma, per quanto
finora sappiamo, col 1605 cessano le notizie intorno al processo
della congiura pe' laici, e non abbiamo motivo di ritenere che
siasi ulteriormente proceduto per essa. Ci resta solo la notizia
di una relegazione del D'Alessandria all'isola di Capri nel 1615,
senza alcun cenno della causa; ma verosimilmente fu questa una
mitigazione della pena negli ultimi anni che dovevano ancora
scontarsi, secondo il costume del tempo(406).
Veniamo ora all'esito del processo della congiura per gli
ecclesiastici. Anche da questo lato dobbiamo dire innanzi tutto,
che il tribunale Apostolico non solo rimase aperto, ma tenne pure
altre sedute, dopo che ebbe liberati i 12 inquisiti presi per
sospetti senza fondamento, e trattate le cause di tutti gli altri
ecclesiastici incriminati, riservando la spedizione di esse fino a
che ciascuno, o come principale o come testimone, avesse esaurito
il suo còmpito nel processo dell'eresia. Così per Giulio
Contestabile, visto nel corso di quest'ultimo processo che egli
risultava non più incriminabile come principale ed era stato già
più volte interrogato qual testimone, dopo il suo ultimo esame del
15 novembre 1600 il tribunale dovè immediatamente riunirsi per
spedirne la causa della congiura, e sappiamo che emanò una
sentenza di condanna a cinque anni di esilio da Napoli e da
entrambe le provincie di Calabria. Tale esito della sua causa
trovasi notato in coda del Riassunto degl'indizii compilato contro
di lui(407); e che la sentenza abbia dovuto essere pronunziata
appunto nel novembre 1600, si desume da' documenti relativi
all'espiazione della pena assegnatagli. Infatti una lettera del
Card.l S. Giorgio al Nunzio, in data del 15 novembre 1602, fa
conoscere che il Contestabile avea supplicato S. S.tà di
rimettergli per grazia tre anni di esilio che gli rimanevano da
scontare, avendone già scontati due, e S. S.tà volea sapere qual
fosse l'opinione del Nunzio intorno a ciò(408). Fermandoci un
momento a questo punto, dobbiamo indispensabilmente notare che
circa tale condanna il tribunale non chiese a Roma la risoluzione
da doversi prendere, ed anzi non ne diede nemmeno partecipazione
alla Curia, come si può desumere dal non vederne fatto alcun cenno
in questo senso nel Carteggio del Nunzio: eppure il Breve avea
prescritto di procedere "usque ad sententiam exclusive"; sicchè
bisogna dire esservi stato un tacito abuso da parte del tribunale
e una tacita acquiescenza da parte di Roma. Ciò forse diè poi
motivo o pretesto al Campanella di credere che il Breve avesse
prescritto di procedere "usque ad sententiam inclusive", come egli
scrisse in una Lettera del 1624 a Cassiano del Pozzo pubblicata
dal Baldacchini, dolendosi perché nella persona sua non aveano
neanche osservato il Breve che così prescriveva: ma invece è certo
che il Breve avea la parola exclusive (noi l'abbiamo riscontrata
tanto nella copia che se ne conserva in Firenze quanto nella copia
che se ne conserva in Simancas), e bisogna pur dire che
coll'abbandono di tale riserva divenne tacitamente compiuto in
fatto, mentre non stava in dritto, l'abbandono degli ecclesiastici
all'influenza del Governo Vicereale, essendo questa predominante
per l'apatia del Nunzio verso di loro. Tornando ora alla grazia
chiesta dal Contestabile a S. S.tà, dobbiamo dire che il Nunzio,
in data del 22 novembre 1602, rispondeva che non stimava
conveniente alcuna grazia prima che il negozio fosse finito,
"perché, diceva, come viene rimproverato da questi Ministri Regii
la tardanza in tale speditione, non ne venisse rimproverato anche
questo"(409): e per verità in Roma non si teneva abbastanza conto
dell'irritazione non del tutto ingiusta del Governo Vicereale, e
deve anzi notarsi che nella stessa Lettera suddetta del Card.l S.
Giorgio il Contestabile era indicato al Nunzio quale "bandito da
V. S. di Calabria et di Napoli", come se D. Pietro De Vera non
fosse esistito. né l'opinione del Nunzio valse a nulla. Non appena
deliberata da Roma la sentenza da doversi pronunziare nella causa
dell'eresia, il Card.l S. Giorgio nella data medesima scrisse al
Nunzio essere cessato il rispetto che si opponeva alla grazia
chiesta dal Contestabile, poichè nella Congregazione del S.to
Officio era stata "spedita la causa del Campanella"; il Nunzio
naturalmente rispose, che quando non si era mostrato favorevole
alla grazia perché il negozio non era finito, aveva inteso dire
che dovesse aspettarsi la fine del processo della congiura, nel
quale il Contestabile era stato condannato, ma che poi se ne
rimetteva a quanto in Roma si stimasse meglio(410). E si può
ritenere per fermo essersi in Roma stimato meglio accordare la
grazia, poichè troppo vive furono le insistenze del Card.l S.
Giorgio, troppo potenti le raccomandazioni delle quali godeva il
Contestabile; né occorre dire come il Governo Vicereale dovesse
rimanere disgustato ed anche sospettoso relativamente agli altri
giudicabili, massime relativamente al Campanella, vedendo che da
un momento all'altro poteva esser concessa da Roma una grazia la
quale rendeva frustranea ogni condanna, mentre esso avea tanto
penato perché alla determinazione di questa condanna avesse preso
parte un Giudice di sua fiducia.
Dopo il Contestabile venne la volta di D. Marco Antonio Pittella,
che scappato già in Calabria fu poi ripigliato e tradotto a Napoli
verso il marzo del 1601: in tale data il tribunale dovè riunirsi
di nuovo e procedere allo svolgimento di questa nuova causa, la
quale compì nell'aprile seguente, come rilevasi da una lettera del
Nunzio che abbiamo pure avuta altrove occasione di
menzionare(411). Potremmo dire in breve che questa causa procedè e
finì come quella del Contestabile, cioè con una tortura e con una
condanna a 5 anni di esilio; ma appunto perché si tratta di una
causa finita con una condanna, gioverà sapere come e perché essa
si ebbe. Oltre il Riassunto degl'indizii contro il Pittella, ci è
pervenuta pure la Difesa scritta per lui dallo stesso Regio
Avvocato de' poveri Gio. Battista de Leonardis che difese il
Campanella: questa Difesa del Pittella non solo ci fa intendere le
accuse del fisco, ma anche rischiara tutto lo svolgimento della
causa(412). Si ricorderà che il Pittella a Davoli accoglieva in
casa sua Maurizio e poi il Campanella ed altri incriminati di
congiura. Esaminato affermò che Maurizio veniva in una casa la
quale egli avea data in fitto ad un Astolfo Vitale parente di lui,
e quanto al Campanella egli non lo conosceva: fu sottoposto ad
oltre un'ora di corda e non confessò nulla; infine ebbe il decreto
per le difese. Il fisco pretese che dovea dirsi colpevole di
conversazione con Maurizio e col Campanella e di ricetto di
Maurizio, sciente la ribellione e preparato a prendervi parte
dietro la testimonianza del Vitale, convinto sciente e non
rivelante dietro le testimonianze del Vitale e di Maurizio; e
questa volta il Leonardis, avendo una buona causa per le mani, fu
piuttosto audace nel farne la difesa. Dopo di aver ricordato che
la conversazione e il ricetto si effettuarono in agosto e che il
Bando proibitivo fu emanato il 17 e 18 settembre, il Leonardis
fece anche notare che quel Bando, emanato da un Giudice laico, non
poteva colpire il Pittella clerico; che la deposizione del Vitale,
testimone unico e socio nel delitto, non provava nulla e non
avrebbe dovuto neanche bastare a far dare la tortura, tanto più
che era stata fatta innanzi ad un Giudice laico, tanto più che era
controbilanciata da un'altra testimonianza in contrario fatta da
Maurizio capo di quella fazione; che per altro il Pittella con la
tortura sofferta si era scolpato di tutto; che il Vitale e
Maurizio, socii nel delitto ed infami, non potevano convincere
nemmeno nel delitto di lesa Maestà, tanto più che erano stati
esaminati in un foro laico ed incompetente, non ripetuti nel foro
ecclesiastico, né poi il Pittella, clerico, era obbligato a
rivelare la ribellione contro il Principe di cui non era suddito.
Malgrado tutte queste ragioni, il tribunale lo condannò a cinque
anni di esilio da Napoli e da entrambe le provincie di Calabria,
come avea fatto pel Contestabile, verosimilmente ritenendolo del
pari sospetto di complicità nella progettata ribellione. Ognuno
troverà senza dubbio un po' grave questo giudizio e la relativa
condanna, poichè il Pittella avea per sè la testimonianza decisiva
di Maurizio in punto di morte, attestante che egli non era nella
congiura come gli altri, né mostrava di goderne come gli altri; si
vede bene quindi che il tribunale Apostolico non avea punto smesso
il suo rigore, comunque il tempo trascorso avesse dovuto calmare i
furori primitivi. né occorre dire che esso riteneva sempre la
tentata ribellione qual fatto vero ed indiscutibile, mentre
condannava il Contestabile e il Pittella a quel modo, donde è
facile desumere abbastanza chiaramente come avrebbe trattato il
Campanella e gli altri frati più compromessi. E possiamo oramai
occuparci appunto di costoro.
Il Campanella e gli altri frati, avuta la condanna per l'eresia ed
esauriti tutti gli Atti relativi a questa condanna, nel febbraio o
tutt'al più nel marzo 1603 avrebbero potuto vedere spedita la loro
causa della congiura. Ma da una parte avvenne allora un mutamento
di Vicerè, succedendo il 3 aprile a D. Francesco de Castro D.
Alonso Pimentel d'Herrera Conte di Benavente, e sempre, fin dalle
prime notizie di prossima mutazione, gli affari d'ogni genere
solevano rimanere più o meno incagliati; d'altra parte
sopraggiunse direttamente, nello stesso tribunale per la congiura,
una difficoltà inaspettata. D. Pietro de Vera, già divenuto sin
dall'aprile 1601 pro-Presidente del Sacro Regio Consiglio per
morte di Vincenzo de Franchis, poi dal 16 10bre 1602 passato a
Presidente per la promozione di Fulvio Costanzo a Reggente di
Cancelleria(413), comunque in età più che matura, era preoccupato
del non aver discendenza e trattava un matrimonio. Non era questa
veramente la prima volta che a D. Pietro fosse venuto tale
pensiero; il Residente Veneto, che non si lasciava sfuggir nulla
ed anche di siffatte cose teneva informato il suo Governo, nel
1598 (25 7bre) scriveva che D. Pietro era sul punto di sposare la
figlia di D. Hernando Mayorca già Segretario di più Vicerè, il
quale, egli diceva, "prima non avea che la penna" ed allora,
morendo, lasciava alla figlia 50 mila duc.ti di dote, ad un figlio
15 mila duc.ti di entrata. Ma poi non se ne fece nulla, ed al
tempo al quale siamo pervenuti, come accade col progresso
dell'età, D. Pietro non andava più in cerca di ricca dote ma di
bellezza e gioventù, ed aveva intavolate trattative con la
figliastra appunto del Reggente Fulvio Costanzo, D.a Livia
Sanseverino, sorella di D. Scipione che abbiamo visto Marchese e
poco dopo Duca di S. Donato (confr. pag. 115): era questa, come
dice un manoscritto di Ferrante Bucca che l'aveva probabilmente
conosciuta, "la più bella e bizzarra dama dell'età sua", e quasi
non occorre dirlo, D. Pietro fu tutto occupato a vagheggiare la
sua Diva andando allegramente incontro alle solite
conseguenze(414). Un altro motivo tenne pure distratto D. Pietro
in questo tempo, la morte di suo zio Francesco de Vera,
Ambasciatore di Spagna a Venezia, ond'egli dovè partire per quella
città: un documento rinvenuto nel Grande Archivio ci fa conoscere
che D. Pietro sottoscrisse il contratto di nozze il 29 aprile, ed
una lettera rinvenuta nel Carteggio del Residente Veneto ci fa
conoscere che partì per Venezia il 30 aprile(415). Con queste
circostanze e queste date si può intendere una lettera del Nunzio,
nientemeno del 18 luglio 1603, nella quale faceva sapere a Roma
(dove non apparisce punto che si pensasse tuttora al Campanella)
che subito dopo la spedizione della causa di S.to Officio egli non
aveva mancato di sollecitare il suo collega D. Pietro per la
spedizione della causa della congiura, ma senza riuscirvi mai; che
avendo avuta notizia della partenza di lui per Venezia, l'aveva
sollecitato di nuovo ed aveva pure sollecitato il Vicerè, tanto
più che i frati ne facevano istanze continue, ma gli si era
risposto non essere possibile far nulla prima dell'andata, bensì
tutto si sarebbe fatto al ritorno; che infine essendo D. Pietro
tornato, e trovandosi prossimo a sposare, fra 10 o 12 giorni, la
figliastra del Reggente Costanzo, egli non avea mancato di
muovergli il dubbio che siffatta mutazione di stato poteva recare
impedimento alla funzione di Giudice de' frati, e gli si era
risposto che non dicendo il Breve dover essere clerico non
coniugato, non appariva impedimento alcuno. Ora su tale quistione
il Nunzio chiedeva gli ordini di S. S.ta(416).
Gli ordini, al solito, tardavano a venire da Roma, e per
sollecitarli il Nunzio scrisse ancora il 1°, il 15, il 29 agosto,
inoltre il 12 settembre, e a quest'ultima data aggiunse esser
venuta nuova che fra Dionisio trovavasi coll'armata turca; ma poi
ebbe a sapere che in Roma già aveano avuta da altro fonte una tale
nuova, ed anzi l'avevano partecipata al Duca di Sessa Ambasciatore
di Spagna ed Agente di Napoli(417). Il fatto merita bene di essere
considerato, ed importa fermarci alquanto sopra di esso: un
dispaccio del Bailo Contarini, da noi trovato nell'Archivio di
Venezia, ci mostra che n'era rimasto anch'egli colpito, e torna
impossibile immaginare che non ne dovesse rimanere colpito il
Governo Vicereale. Il Contarini scriveva, che col Cicala si erano
imbarcati due uomini del Regno, concertatisi con lui per guidarlo
a "svaligiare" un posto di quel paese; inoltre era venuto un frate
già carcerato col Campanella per complicità nella congiura e poi
fuggito di prigione. Costui, trattenutosi segretamente sulle
galere di Malta, nella fazione di Lepanto avea trovato modo di
venirsene a Costantinopoli, avea preso l'abito di turco "come
haveva anco il cuore", avea "havuto ricapito in casa del Cicala",
diceva di conoscere in Calabria oltre 300 affiliati alla setta
maomettana e tra essi alcuni di conto, predicava in italiano a'
giovani rinnegati "facendo assai danno con la sua lingua",
affermava "che presto uscirà anco di prigione il predetto Frate
Campanella et ch'ancor lui venirà qui; il che se riuscirà, per
esser anch'esso molto litterato, risulterà à grandissimo
prejudicio della religione christiana"; aggiungeva poi il
Contarini, che "oltre di questi" si erano imbarcati pure due
soldati di Malta fuggiti in Lepanto, i quali fattisi turchi
offerivano al Cicala l'isola di Gozo etc.(418). È agevole
comprendere quanto siffatte notizie dovessero aumentare nel
Governo Vicereale il sospetto e l'avversione pel povero
Campanella. Possiamo affermare con sicurezza, che il Governo
Veneto trasmise a Napoli, come era solito, le notizie della
prossima venuta dell'armata turca con due uomini del Regno
accordatisi col Cicala, e non disse una sola parola del frate già
carcerato col Campanella, del quale d'altronde il Bailo non avea
distintamente detto che si era imbarcato del pari: questo abbiamo
rilevato dagli ordini de' Savii del Consiglio, registrati ne' così
detti Codici-Brera che si conservano nell'Archivio Veneto(419). Ma
il Governo Vicereale avea pure informazioni proprie direttamente
da Costantinopoli e in brevissimo tempo, onde non si può affatto
dubitare che gli fossero egualmente pervenute le notizie relative
a fra Dionisio, tanto più che era già preoccupato dell'amicizia
intima di lui col Cicala, siccome ci mostra una Lettera Regia da
noi rinvenuta nel Grande Archivio di Napoli(420); né occorre dire
come per siffatte cose dovesse sentirsi rimescolato. Esso era
stato sempre persuaso che questi frati aveano già iniziati i loro
disegni di ribellione e di eresia col mettersi d'accordo co'
turchi, segnatamente col Cicala, ed è facilissimo intendere
l'impressione che dovea fargli il contegno di fra Dionisio dopo la
fuga, la sua andata tra' turchi, l'apostasia, l'intimità col
Cicala, la venuta con l'armata nell'ordinaria escursione di essa
verso il Regno, l'annunzio misterioso della prossima libertà del
Campanella che sarebbe andato del pari a Costantinopoli. Come fin
da principio, così anche adesso il Campanella era danneggiato
dall'imprudenza, dalla loquacità, dalle vanterie di fra Dionisio,
il quale non si smentì mai in tutta la sua vita; e bisogna sommare
anche queste circostanze con tutte le altre, per intendere il
contegno del Governo Vicereale verso il povero frate, ritenuto
sempre pericoloso per la sicurezza e la fede del Regno. Vedremo
più in là che fin dal momento in cui giunse la notizia
dell'imbarco di fra Dionisio sull'armata turca, il Campanella fu
rinchiuso in un carcere molto più duro. - Poniamo intanto qui che
il Cicala in quest'anno, come ne' tre precedenti, non potè
compiere alcuna impresa contro la Calabria, ed anzi fu
notevolmente disgraziato: gioverà conoscere quanto avvenne tra
napoletani e turchi in detto periodo di tempo. Dopo l'inutile
venuta in Calabria nel 1599, egli uscì di nuovo da Costantinopoli
in luglio 1600 con 30 galere, portando scale, zappe e badili, con
l'intenzione, per quanto fu riferito, di scendere a Cotrone,
sicchè venne spedito a quella volta il Priore di Capua D. Vincenzo
Carafa: e il Cicala mandò, come allora si diceva, "due lingue"
cioè due galere a prender lingua, a ricevere e dare notizie in
Puglia e in Calabria, e scrisse anche al Vicerè, il 14 settembre,
che passerebbe nella fossa di S. Giovanni, "quando non per altro,
per sbarcare il Sig.r Carlo suo fratello escluso dal possesso del
Ducato di Nixia"; ma un grosso temporale lo colse alla Vallona, e
lo costrinse a ritirarsi in Costantinopoli, dove rientrò a' primi
di dicembre. Anche Arnaut Memi, in settembre, apparve con tre
galere in vista di Brindisi, ma forse per la ragione medesima non
si mostrò più: invece Amurat Rais, uscito da Biserta più presto,
ebbe a soffrire la perdita di una galera presagli da D. Garzia di
Toledo, e tornò per vendicarsene e se ne vendicò pur troppo in
Calabria. D. Garzia, a' primi di agosto, scorrendo con sei galere
le coste del capo Bianco vi aveva incontrate tre galere di
Biserta, ne aveva presa una facendo 110 schiavi e liberandone
altrettanti, e secondo lui avrebbe preso anche la capitana se i
suoi artiglieri avessero fatto fuoco a tempo: Amurat, tornato con
sei galere e con una scorta di rinnegati calabresi, a' 23
settembre sbarcò a Cetraro presso Scalèa, vi uccise il Principe di
Scalèa nostra vecchia conoscenza con altre 27 persone, e rimbarcò
a suo comodo portando con sè 30 prigioni e il corpo del
Principe(421). Nel 1601 poi, al 1° di luglio, il Cicala uscì da
Costantinopoli con 35 galere che giunsero per via fino a 60, e con
queste potè prendere qualche nave; ma avendo, il 22 ottobre,
spedito da Navarino verso la Calabria tre galere per lingua, ed
essendo stato informato che la costa era molto ben munita, alla
fine di dicembre rientrò in Costantinopoli senza aver nulla
tentato. Nel 1602, parimente in luglio, uscì con 37 galere che
sempre si accrescevano per via, col proponimento di danneggiare la
Calabria o la Puglia, e però senza ritardo, fin da' primi di
luglio fu mandato per Governatore di Calabria ultra D. Garzia di
Toledo: alla fine di agosto apparve al capo di Otranto l'armata
divisa in due squadre e diretta verso la Calabria, ed a' primi di
settembre, giunta nella fossa di S. Giovanni, ne sbarcarono circa
tre mila uomini, ma furono respinti con la perdita di 5 de' loro;
poi l'armata si diresse a Reggio e vi perdè circa 100 uomini, si
rivolse indietro e tentò di sbarcare al Bianco, luogo del Principe
della Roccella, e vi soffrì la perdita di circa 100 morti e 30
prigioni, infine spiccò 10 galere da quest'altra parte della
Calabria e vi furono incontrate dalle galere di Genova, sicchè
doverono anch'esse desistere da ogni impresa. Se ne tornò quindi
il Cicala anche prima del solito a Costantinopoli, in novembre, e
vi fu universalmente biasimato, tanto più che al tempo stesso
giunse la nuova che i napoletani aveano fatta una diversione in
Algieri e presa Bugia nell'ottobre. Da ultimo nell'anno presente
1603 egli uscì di nuovo in luglio con 37 galere che poi si
accrebbero sino a 60, ma dovè in agosto liberarsi di parecchie di
esse andate a male per vetustà, ed impazientito le fece vendere in
Negroponte, rinunziando a tutti i suoi progetti e contentandosi di
rimanere nell'Arcipelago a dar la caccia alle navi che andavano in
cerca di grani: così fra Dionisio non giunse nemmeno a vedere le
coste della Calabria, e il Cicala, compiuti i servizii annuali in
Salonicco, in Scio, in Alessandria, rientrò a' primi giorni
dell'anno seguente in Costantinopoli. Aggiungiamo che quivi era
pur allora morto il Gran Signore "senza precedente male", come
scrisse il Bailo Contarini, e succeduto Achmet giovanetto a 13
anni; e con suo dispiacere il Cicala dovè abbandonare il
capitanato marittimo, inviare la moglie e la suocera al Serraglio
e recarsi come generalissimo in Persia.
Giungeva frattanto, il 19 settembre, la risoluzione di S. S.tà
circa il dubbio sorto pel matrimonio di D. Pietro de Vera(422). S.
S.tà non credeva conveniente che un coniugato giudicasse cause di
persone ecclesiastiche; ordinava quindi al Nunzio che "per sè
solo" conoscesse, spedisse e terminasse per giustizia le dette
cause, ma contentavasi che D. Pietro lo assistesse nel conoscerle
e spedirle, rimanendo "la totale giuridittione" presso il Nunzio.
Pur troppo Roma mostrava di non avere il sentimento esatto della
situazione, o piuttosto dava un'altra fra le tante prove di voler
mantenere senz'altro riguardo "la superiorità ecclesiastica", con
quella insistenza che sovente è stata detta fermezza, ma che
evidentemente si sarebbe dovuta dire incorreggibilità. Vi era
prima di tutto una notevole contradizione con la teorica ogni
giorno professata dai Vescovi e sostenuta sempre da Roma, che i
clerici coniugati dovessero ritenersi quali veri e pretti clerici,
con tutte le immunità e prerogative ecclesiastiche; il Governo non
aveva mai voluto riconoscerlo, ed avrebbe avuto torto a
pretenderlo in tale circostanza; ma poteva Roma sconoscerlo? In
fin de' conti poi, dopo sforzi non lievi, bene o male, da Roma si
era ottenuto che una persona di fiducia del Governo sedesse e
giudicasse nel tribunale Apostolico per la congiura; ed ora, nel
momento decisivo, profittando di una circostanza che non poteva
punto menare a tale conseguenza, si ordinava che quella persona
sedesse ma non giudicasse, mentre uno de' principali imputati,
fuggito dalle carceri senza sapersi come, si era unito a' turchi e
veniva con essi ad offesa del Regno, strombazzando che l'altro
imputato sarebbe uscito dalle carceri egualmente e presto! Ma
qualora al Nunzio fosse parso bene assegnare al Campanella una
pena relativamente mite, si dovea perfino sottostare al ludibrio
che l'uomo di fiducia del Governo si trovasse presente a tale
decisione? Ci affrettiamo a dirlo: se il Governo si fosse
seriamente preoccupato di questa ipotesi, avrebbe avuto torto. Il
Nunzio, come si rileva da tutto il suo Carteggio, era pronto a
dare mille volte il Campanella al braccio secolare. Egli era
convinto che il Campanella fosse colpevole e non aveva per costui,
al pari di Roma, il menomo sentimento di pietà: gli fosse pure
apparso innocente, per un Nunzio il bisogno supremo era quello di
mantenere le buone relazioni tra i due Stati, attendere al
ricupero delle grosse entrate della Camera Apostolica e al
riconoscimento della "superiorità ecclesiastica" senza guardare
troppo pel sottile in tutto il resto. Ma gli uomini di Stato
professavano allora strettamente la massima che abbiamo vista
enunciare dal Conte di Lemos, "per non errare, fa mestieri ritener
sempre il peggio". Il Campanella era pure una forza potente, come
avea ben dimostrato col riuscire ad eccitare in tanto poco tempo
gli animi di molta gente in Calabria; a Roma poteva essersi
formato il pensiero di tenere viva ed in mano sua questa forza per
ogni evenienza futura, e poteva esser questo il significato del
volere che la pena inflitta al Campanella per l'eresia fosse da
lui scontata nell'alma città. Varie altre ipotesi avrebbero potuto
ancora affacciarsi alla mente del Governo Vicereale, ammesso che
faceva mestieri ritener sempre il peggio. Ma poi, in ultima
analisi, perché doveva esso rinunziare alla sua influenza con
tanti sforzi conquistata in tale causa? Come potea riconoscere in
modo assoluto la superiorità ecclesiastica anche pe' delitti di
lesa Maestà, ciò che si era sempre negato a riconoscere? Senza
alcun dubbio, agl'incessanti motivi di sospetto e di diffidenza
venivano ad aggiungersi il risentimento e il puntiglio
giurisdizionale, e bisognerebbe dimenticare tutta la storia
napoletana per credere che questo risentimento e puntiglio
avrebbero potuto rimanere senza conseguenze; evidentemente c'era
più che non bisognasse per far ricorrere il Governo a' propositi
più atroci, a fine di non lasciarsi sfuggire di mano il
Campanella.
Il Nunzio non tardò a comunicare al Vicerè la risoluzione di S.
S.tà, ed il 26 settembre potè ragguagliare il Card.l Borghese su
quanto avea fatto(423). Egli avea mostrato a S. E., che la
risoluzione presa "non alterava quello che era stato fermato co'
suoi antecessori in tal negotio"; D. Pietro de Vera "doveva
intervenire a tutto quello che si trattava in detta causa; solo si
voleva che non apparisse più come giudice". Arrestandoci un
momento su queste parole del Nunzio, osserviamo che egli non
interpretava(424) fedelmente la risoluzione Papale, e la rendeva
nel fatto assai meno amara; poichè ammetteva che D. Pietro sarebbe
intervenuto a tutto e bastava che non apparisse giudice, mentre S.
S.tà avea ritenuto non conveniente che giudicasse, ed ordinato al
Nunzio che conoscesse spedisse e terminasse la causa per sè solo.
Il Vicerè, che sicuramente avea avuto notizia della risoluzione
originale di S. S.tà, mediante gli ufficii non mai interrotti
della fazione Cardinalizia attaccata a Spagna, potè mostrarsi
sereno, ma nel tempo medesimo dovè sentirsi preso sempre più da
diffidenza; d'altronde era per lui molto facile vedere che a nulla
avrebbe giovato il rinfocolare una quistione già pregiudicata da
un solenne pronunciato del Papa, e conveniva meglio farlo cadere
senza strepito, opponendovi la forza d'inerzia: ciò spiega il suo
contegno nel momento, quale lo espresse il Nunzio nello scrivere a
Roma, ed anche il suo contegno ulteriore, quale lo vedremo nello
svolgimento successivo della faccenda. Secondochè scrisse il
Nunzio, egli "mostrò di restare in pace", ma per non essere
informato del fatto richiese che glie ne fosse lasciata memoria;
rappresentava dunque la parte dell'ingenuo, e voleva intanto poste
in iscritto le parole del Nunzio che già costituivano un guadagno.
Da parte sua il Nunzio potè ancora scrivere a Roma, "non vedendo
in questo quello che si possa opporre, spero che il negotio andrà
per i suoi piedi": con ciò egli mostravasi ingenuo davvero, mentre
pure ricordava quale fiera lotta giurisdizionale vi era stata per
costituire il tribunale, e sapeva che il Governo Vicereale non era
punto avvezzo a cedere facilmente in queste lotte; ma forse
rappresentava egualmente la parte dell'ingenuo con Roma, dando
larghe speranze per non avere richiami sul modo in cui aveva
interpetrata la risoluzione di S. S.tà. E quasi sentisse il
bisogno di far bene intendere la sua interpetrazione, conchiudeva,
che con D. Pietro aveva fin allora trattato unitamente e così
procurerebbe di trattare per l'avvenire, acciò il negozio si
tirasse avanti. Dalle quali parole può rilevarsi che egli
intendeva un po' meglio le circostanze, e può rilevarsi ancora che
avrebbe fatto terminare la causa condannando senz'altro il
Campanella, giacchè D. Pietro non si sarebbe certamente
pronunziato per un'assoluzione.
L'indomani, 27 settembre, il Nunzio scrisse la memoria chiestagli
dal Vicerè: nel suo Carteggio n'è rimasta la minuta che noi
pubblichiamo(425). Dopo di aver fatta la storia particolareggiata
di tutti i precedenti, egli terminava con lo specificare sempre
meglio che S. S.tà si contentava che D. Pietro intervenisse ad
ogni cosa "eccetto che al sententiare" aggiungendo, "il che alla
sustanza del negotio non vuol dir nulla, perche saremo d'accordo
come siemo stati sin'adesso, et quello che concordemente si
fermarà si esseguirà, sì che l'effetto sarà il medesimo come le
dissi à bocca; desidero dunque che ella commetta al medesimo che
intervenga quanto prima". Da tutto ciò il Vicerè potea desumere
anch'egli ben chiaramente, che per parte del Nunzio il Campanella
sarebbe stato senza alcun dubbio condannato; ma o si serbò
diffidente o non volle passar sopra alla quistione
giurisdizionale, e veramente si ha motivo di ritenere l'uno e
l'altro concetto, per intendere l'ultimo periodo del processo.
Così tanto nel Vicerè quanto in D. Pietro de Vera si vide una
mollezza, una fiaccona, da doversi dire che già si era deciso di
opporsi a Roma col non far nulla: e non è dubbio che D. Pietro
trovavasi nello stadio più acuto dell'"attender solo a star
allegramente innamorato della propria moglie" come ci lasciò
scritto il Bucca; ma se il Vicerè avesse voluto, D. Pietro avrebbe
adempito all'ufficio suo.
Il 3 ottobre, e poi il 9, e poi ancora il 17, il Nunzio faceva
sapere a Roma, che il Vicerè avea commesso a D. Pietro di andare a
vederlo, che D. Pietro non era venuto ed il Vicerè avea detto che
vi sarebbe andato ad ogni modo, che poi D. Pietro avea mandato a
fare le sue scuse con l'assicurazione che sarebbe venuto nella
prossima settimana(426). - Ma in che modo fu appresa in Roma
l'interpetrazione data dal Nunzio alla risoluzione di S. S.tà? Il
24 ottobre il Card.l Borghese, partecipando al Nunzio che la
lettera del 26 settembre era stata letta in Congregazione innanzi
a S. S.tà, diceva laconicamente, "in risposta non mi occorre
altro, se non ch'ella si regoli conforme a quel che sopra di ciò
per ordine della S.tà sua le fù scritto". Riesce impossibile
vedere in queste parole un consentimento; tutt'al più vi si
potrebbe vedere un'acquiescenza, ma vi si trova ad ogni modo
ripetuto l'ordine di adempiere alla risoluzione quale era stata
trasmessa(427).
Finalmente in data del 7 novembre il Nunzio fece sapere a Roma
essersi dato ordine che i frati, i quali avevano avuto il termine
alle difese avessero l'Avvocato e il Procuratore, per poter poi
finire il negozio coll'intervento del Sig.r D. Pietro de
Vera(428). Non apparisce qui chiaramente che D. Pietro abbia preso
parte nella decisione di dare quell'ordine, ma parrebbe piuttosto
di no. È superfluo intanto ripetere che l'Avvocato e il
Procuratore occorrevano solamente per intimar loro la citazione ad
dicendum, necessaria nel momento in cui il tribunale dovea
riunirsi per sentenziare; ma le difese erano state già fatte pel
Campanella, rinunziate dagli altri rimanenti frati. Si potrebbe
credere che allora veramente l'Avvocato avesse dovuto cominciare
l'adempimento dell'ufficio suo, e perfino che la Difesa scritta
del De Leonardis abbia a ritenersi composta nel periodo al quale
siamo pervenuti: ma oltrechè la procedura del tempo non
giustificherebbe tale credenza, il titolo di advocatus pauperum
aggiunto al nome del De Leonardis basta ad eliminarla; poichè
abbiamo già visto l'Avvocato De Leonardis promosso a Fiscale, e
successivamente anche a Consigliere il 3 aprile 1602, sicchè egli
era già Consigliere in tal tempo, e qui possiamo aggiungere che
l'ufficio di Avvocato de' poveri si teneva da Gio. Geronimo di
Natale, con esecutoria di Privilegio notata il 21 giugno
1602(429). Adunque, come è stato detto altrove, le difese doveano
dirsi compiute, e l'intervento dell'Avvocato rappresentava una
quistione di forma più che di sostanza(430).
Dopo il 7 novembre 1603 si verificò una lunga interruzione perfino
nelle notizie riguardanti la causa: e questo non può spiegarsi in
altro modo, che ammettendo un'assoluta noncuranza di D. Pietro de
Vera nell'adempimento del suo ufficio, naturalmente col consenso
segreto del Vicerè. Le lettere del Nunzio non offrono più alcun
cenno del Campanella fino al 23 luglio 1604; manca veramente un
registro ossia un fascicolo di queste lettere, ma la mancanza si
estende appena dal 4 maggio al 5 luglio 1604, e la lettera del 23
luglio, nella quale si ricomincia a parlare del Campanella, è
concepita in modo da fare intendere che non se n'era mai più
parlato da lungo tempo. Anche le lettere di Roma non offrono nulla
per tutto il suddetto periodo; né può supporsi che nella raccolta
di esse vi sia qualche lacuna concernente il Campanella, poichè se
da Roma fosse venuta la menoma richiesta di notizie intorno a lui
od intorno alla causa de' frati in generale, il Nunzio non avrebbe
potuto mancare di rispondere, e nel modo in cui sono registrate le
lettere o meglio le minute delle lettere del Nunzio, la risposta
si sarebbe dovuta trovare. Ciò mostra bene quanto pensiero si
davano del Campanella in Roma, e quanto siano andati lungi dal
vero i biografi, i quali hanno ritenuto che in Roma volevano
assolutamente trarre il Campanella da Napoli, e che il S.to
Officio con la sua condanna, concepita nel senso che conosciamo,
aveva avuto principalmente quello scopo. Frattanto è certo che un
nuovo aggravamento si era verificato nelle condizioni del
Campanella. Il silenzio serbato per tanto tempo dal Nunzio, e poi
la solita necessità d'ingarbugliare taluni fatti da parte del
filosofo, hanno contribuito del pari a rendere oscuro questo
periodo della sua prigionia: ma le deposizioni di Felice Gagliardo
in punto di morte, e un altro documento da noi trovato in altre
scritture d'Inquisizione, ci mostrano indubitatamente che il
filosofo venne separato da' frati suoi compagni e rinchiuso con
maggiore durezza nel torrione del Castel nuovo; altri documenti
poi, allegati al processo di eresia, ed anche alcune notizie date
in sèguito dal filosofo medesimo, ci fanno argomentare che tale
trattamento più duro dovè essergli inflitto nel luglio o agosto
1603, sebbene egli, per procurarsi la commiserazione di Roma e
dissimulare varie circostanze sfavorevoli, abbia esposte le cose
in modo da far intendere che l'avessero tradotto nel Castello di
S. Elmo in una fossa, la qual cosa accadde veramente più tardi,
con ogni probabilità appunto nel luglio dell'anno successivo.
Ecco distintamente quanto era avvenuto al Campanella da che
l'abbiamo lasciato, cioè dagli 8 gennaio 1603, giorno in cui gli
fu letta la sentenza avuta nel processo di eresia. Egli continuò a
rimanere per circa sei mesi nelle carceri comuni del Castel nuovo,
in relazione co' frati, e segnatamente con fra Pietro di Stilo,
unico suo confidente oramai dopo la liberazione di fra Pietro
Ponzio, in relazione del pari con Felice Gagliardo, che da molto
tempo bazzicava anche troppo co' frati: ed abbiamo avuta
occasione(431) di dire che ebbe una visita del Marchese di Lavello
cui consegnò la sua opera della Metafisica, ma dobbiamo aggiungere
che dal 25 febbraio al 15 aprile di quest'anno ebbe anche
occasione di far la conoscenza di alcuni Signori tedeschi venuti
nelle carceri del Castello, uno de' quali divenne da tale data suo
amicissimo e caldo protettore. Il Conte Giovanni di Nassau avea
fatta in incognito un'escursione a Napoli per curiosare la città,
seguito da due gentiluomini, Cristoforo Pflugh e Geronimo Tucher,
e dal domestico Giovanni Winckes, inoltre accompagnato da Gio.
Ottavio Gonzaga che aveva al suo sèguito Uberto Caroni di Bozzolo.
Visitata la città i viaggiatori si trovavano oramai in partenza,
quando un dispaccio da Roma del Duca di Sessa avvertì erroneamente
che un figlio, o nipote, o fratello del Conte Maurizio di Fiandra
ribelle al Re di Spagna, con un sèguito di Cavalieri francesi era
venuto in Napoli; il Vicerè diede immantinente ordine di
catturarli. Il Conte col suo domestico era già partito in
precedenza e fu raggiunto a Sessa, gli altri furono rinvenuti
ancora in Napoli, tutti furono tradotti nel Castel nuovo(432). Al
Gonzaga, parente del Duca di Mantova, che dimostrò essersi
accidentalmente trovato in compagnia de' tedeschi fu concesso di
tenere per carcere, insieme col Caroni, la casa del Principe di
Conca; al Nassau col suo domestico fu assegnata nel Castello una
carcere separata, agli altri furono assegnate le carceri comuni,
ma certificato l'equivoco mediante un'informazione presa da D.
Pietro de Vera, furono poi rilasciati con molte cortesie
equivalenti a scuse(433). Durante la prigionia il Campanella si
strinse in grande amicizia sopratutto con Cristoforo Pflugh,
latinamente Flugio, il quale parrebbe che appartenesse alla
celebrata ed opulenta famiglia de' Fuggers negozianti di Augusta e
divenuti Baroni di Kirchberg e Veissenhorn, più conosciuti in
Italia col nome di Fuggheri e Foccari; ma avrebbe dovuto
rabberciare il suo cognome e dichiararsi Sassone per rimanere
incognito, e riesce allora notevole che perfino dopo molti e molti
anni, a tempo della redazione del Syntagma il Campanella abbia
continuato a chiamarlo "Flugio", come riesce notevole che a tempo
della prigionia in Castel nuovo sia stato di religione
protestante. Da alcune parole che leggonsi nel Carteggio del
Turaminis, Agente Toscano, parrebbe che al pari degli altri suoi
compagni di carcere egli dimorasse allora in Siena, forse ad
oggetto di studio, e questo nemmeno si accorderebbe troppo
coll'età del Cristoforo Fugger che conosciamo dall'opera del
Custos(434). Ad ogni modo non sembra dubbio che egli appunto abbia
fatto conoscere il Campanella a' Fuggers, come certamente lo fece
conoscere a Gaspare Scioppio, onde queste poche notizie su'
Fuggers non saranno state inutili, avendo ancora ad incontrarli
nel corso della nostra narrazione. Una lunga lettera posteriore
del Campanella diretta allo Pflugh e da noi pubblicata, riferibile
all'anno 1607, ci fa conoscere che tanto lo Pflugh quanto il Conte
Giovanni s'interessarono molto della sua sorte, e promisero di
aiutarlo presso i Principi di Germania, che lo Pflugh specialmente
si affezionò a lui, ascoltò le sue meditazioni filosofiche e
religiose chiamandolo Mastro, gli giurò che avrebbe avuto pensiero
della sua libertà, ne ebbe l'opera della filosofia (senza dubbio
l'Epilogo, e probabilmente anche altre opere tra le quali la
Monarchia di Spagna); mostrò poi una volta al Campanella un libro
di spiriti che il Campanella derise, e videro anche insieme certe
donzelle, che dalle finestre invitavano il Campanella a scherzi
più che egli non avrebbe voluto (certamente le donzelle abitanti
ne' piani superiori del Castello, a taluna delle quali il
Campanella avea diretto e forse dirigeva ancora poesie più o meno
vivaci); infine liberato dalla carcere ed andato a Roma si
convertì al Cattolicismo, onde al Campanella balenò la speranza
che glie ne sarebbe derivato un gran bene presso la Curia, avendo
lui influito su tale conversione, e poi, col procurargli l'aiuto
di altri suoi potenti amici e più tardi anche quello dello
Scioppio, diè motivo di fargli concepire speranze sempre
maggiori(435). Le deposizioni di Felice Gagliardo, fatte al S.to
Officio in punto di morte, compiono la conoscenza di questo
incidente. Lo Pflugh ed il Tucher andarono a stare nella camerata
del Gagliardo, il quale insegnò loro le orazioni cattoliche poichè
dubitavano di essere stati presi come eretici; ma fecero anche,
tutti insieme, certe pratiche di negromanzia per rendersi
invisibili ed uscire così dal Castello, secondo i precetti di Gio.
Wierio, avendone procurato il libro De Menomachia daemonum (sic) e
trattane anche una copia(436). Fu questo certamente il "libro di
spiriti", che lo Pflugh mostrò al Campanella, e, come si vede, il
Gagliardo trovavasi già molto avanti negli sperimenti di
negromanzia e nella evocazione de' demonii.
Ma dopo circa sei mesi il Campanella dovè essere separato dagli
altri frati e posto nel torrione del Castello, come risulta da più
documenti. In primo luogo le medesime deposizioni anzidette del
Gagliardo ce ne danno notizia precisa, rivelandoci in pari tempo
fatti della maggiore importanza, capaci d'illustrare non solo tale
periodo della prigionia ma anche il tema difficilissimo delle
credenze riposte del Campanella con qualche tratto della sua vita
intima: e sebbene al Gagliardo non si possa menomamente accordare
una cieca fede, massime poi nelle condizioni in cui si trovava al
momento di deporre questi fatti, vedrà ognuno se essi non
concordino con le notizie che abbiamo da altri fonti
indubitabili(437). Il Gagliardo disse, che essendosi già dato alla
negromanzia, esercitata pure con taluni de' frati prigioni ed
egualmente con altri, avea conosciuto il Campanella nel Castello,
e nella carcere dove il Campanella stava, "al torrione", aveva
appresa da lui segretamente l'astrologia, studiandola nelle
Effemeridi del Magino, nell'Almanach, nel Cardano, libri che con
altri ancora, e con gli scritti, un'amica a nome Oriana, dimorante
sotto le carceri, con la quale il filosofo "faceva all'amore",
conservava e poi porgeva mediante una cordicina dietro segnali
convenuti, allorchè il filosofo li voleva: aggiunse, riportandosi
evidentemente ad un periodo anteriore, che il Campanella non era
affatto pazzo, ma tale si era finto per salvare la vita, che
quando veniva gente estranea egli faceva pazzie, e poi con lui e
con fra Pietro di Stilo, il quale gli era compagno, ridevano che
avesse fatto credere di esser pazzo. Riferì inoltre che avendo più
volte discorso da solo a solo col Campanella del testamento
vecchio e del miracolo di Mosè al mare rosso, egli avea detto "che
ne credesse solo quello che havea potuto essere naturalmente, et
che l'altre cose che non potevano essere naturalmente non
bisognava crederle, ancor che fussero scritte alla biblia" etc.;
che poi gli aveva pure insegnato in Castello come dovesse adorare
Dio, facendoglielo scrivere ed anche scrivendoglielo di sua mano,
cioè a dire in piedi, col capo scoperto o coperto a volontà,
guardando al cielo e recitando alcuni determinati salmi (ved. nel
d.to Doc.) ma senza terminare col Gloria Patri etc., non credendo
alla 2a e 3a persona della Trinità, ed invece dicendo: "Deo optimo
maximo, potentissimo et sapientissimo, io te prego è supplico per
lo fato armonia et necessità, per la potentia sapientia et amore
et per te medemo, et per il cielo è per la terra et per le stelle
erranti è fisse...". E gli aveva insegnato egualmente come dovesse
adorare il sole e la luna, guardando in piedi, coperto o scoperto,
fissamente il sole al nascere o al tramontare, e dicendo, "O sacro
santo sole, lampa del cielo, patre della natura, portatore delle
cose à noi mortali, conduttieri dela nostra Simblea" etc. per poi
dimandare ciò che desiderava; ed alla luna, "Matre di tenebre"
etc. etc. facendo lo stesso anche verso ciascun pianeta, le
quattro parti del mondo e gli angeli che ad esse presedevano.
Conchiuse poi il Gagliardo affermando, che con tali preghiere non
aveva mai ottenuto nulla, che le eresie apprese dal Pisano e dal
Campanella erano "capricci di huomini bestiali, dissoluti, senza
fondamento di ragione alcuna", che il Campanella talora gli diceva
certe cose e talora il contrario, e quando egli dimandava il
motivo di queste contradizioni, gli rispondeva non essere stato
inteso bene la prima volta. Naturalmente il Campanella, con la
solita astuzia, faceva la parte del distratto: ci toccherà poi di
vedere che alcuni cenni, datici da lui in qualche lettera ed anche
in qualche opera, confermano sufficientemente le notizie deposte
dal Gagliardo; ma già fin d'ora ognuno avrà senza dubbio ravvisato
il riscontro che esse offrono con la legge naturale lodata dal
Campanella, co' suoi principii metafisici, con le cose esposte
nella Città del Sole ed anche cantate nelle Poesie(438). Si ha
quindi un gravissimo argomento per non dubitare del racconto del
Gagliardo, della relazione del filosofo con D.a Oriana, la quale
evidentemente sarebbe la Dianora che abbiamo visto celebrata da
lui con un Sonetto, non che dell'essere stati insieme
contemporaneamente il Campanella e il Gagliardo "al torrione";
gioverà d'altronde ricordarsi che il Gagliardo dovè passare nel
torrione appunto nel secondo semestre del 1603 e rimanervi fino al
2 marzo 1604, essendo stato quello il tempo delle sue strette col
S.to Officio, sicchè non ci manca nemmeno l'indizio della data.
Abbiamo poi anche un documento notevole raccolto in altre
scritture d'Inquisizione, che attesta del pari essersi il
filosofo, nel periodo anzidetto, trovato nel torrione del Castel
nuovo separato dagli altri frati: è la deposizione di un carcerato
della Vicaria in una Informazione presa contro fra Pietro di Stilo
quando era già uscito dal carcere. Un Ciommo ossia Girolamo
dell'Erario, dimandato se fosse mai stato in altre carceri oltre
quelle della Vicaria, rispose di essere stato, precisamente verso
il marzo 1604, nel Castel nuovo; e "prima (egli disse) fui posto
in una fossa dove stetti per otto giorni, dopoi fui levato da la
fossa, et fui messo alo torrione dove stava uno che si diceva
fusse Campanella, et portava la chierica come portano li frati,
non intesi di che ordine fusse, et il Carceriero, et Campanella
dicevano che era Calabrese, et per un mese in circa dimorai à
quello torrione con lo Campanella, è ci venevano altri carcerati,
è poi ne erano levati. Et essendo stato con lo Campanella da un
mese, fui messo dopoi ad un altra carcere di castello, dove trovai
uno monaco che andava vestito da monaco con le veste bianche, che
si chiamava frà Pietro, uno mastro Marco scarpellino... etc., et
alla carcere di frà Pietro dimorai da un mese in circa, dopoi fui
tormentato in castello per la causa mia, è fui messo al civile del
castello, dove stavano diversi carcerati, tra li quali ci erano
tre frati vestiti di bianco, che uno havea nome frà Paolo, deli
altri non mi ricordo lo nome" etc.(439). Questa separazione anche
di fra Pietro di Stilo, questa differenza di trattamento, più duro
per fra Pietro e meno duro per gli altri frati, meritano del pari
di essere avvertite. Sorge naturalmente il pensiero che fra
Pietro, l'amico intimo del Campanella, avesse dato motivo di
richiamare sopra di sè l'attenzione del Governo: rimanga intanto
assodato che nel marzo 1604 il Campanella trovavasi nel torrione,
e non sembri puerile se facciamo avvertire che egli vi si trovava
tuttora in abito laicale, riconoscibile solo pel suo capo raso e
per la sua "corona"; qualunque fatto anche minimo della persona
sua ci apparisce sempre memorabile.
né questo è tutto. Rammentino i lettori que' duc.ti 200 inviati
da' conventi di Calabria in sussidio de' frati, e la stentata
distribuzione che ne faceva il Prezioso dietro ordini successivi
del Vescovo di Caserta: un ordine del 2 settembre 1603 assegna
duc.ti due a ciascuno de' quattro frati carcerati, non più 5,
mancandovi il Campanella: questo stesso si verifica in due altri
ordini posteriori (27 febbraio e 9 giugno 1604). Non sarebbe
impossibile che specialmente nel 1° ordine del 2 settembre 1603
fosse corsa una pura e semplice dimenticanza del Campanella da
parte di quel Vescovo, che se ne curava così poco e così male:
egli vi dimenticò certamente fra Paolo della Grotteria, ma ve
l'aggiunse subito come il documento mostra, e così avrebbe potuto
aggiungervi nel tempo stesso il Campanella; laonde bisogna dire
che il 2 settembre era già accaduto qualche cosa di nuovo per il
povero filosofo, e non abbiamo bisogno di far notare come questa
data collimi più che sufficientemente con quella del luglio o
agosto che vedremo or ora da lui accennata. L'ultimo ordine di
pagamento poi, l'ordine del 9 giugno 1604, fu provocato da due
memoriali de' frati, e segnatamente uno di essi reca che "li
poveri quattro frati di S.to Domenico carcerati nel Regio Castello
novo" si trovano ignudi ed affamati, senza il denaro della Corte
da più mesi e senza alcuno indizio di prossima spedizione, onde
supplicano che si dia loro quel poco danaro rimasto e si parli a
S. E. per la spedizione della loro causa(440); adunque nemmeno da
questo lato figura più il Campanella, e parrebbe veramente che
soli quattro frati fossero rimasti in Castel nuovo e che il
Campanella non vi si trovasse più. Ma non è possibile passar oltre
alla deposizione di Ciommo dell'Erario sopra riportata; e quindi
persistiamo nel ritenere che il Campanella alle date suddette
trovavasi anch'egli nel Castel nuovo, bensì ristretto nel
torrione, toltagli qualunque comunicazione con gli esterni ed
anche co' frati suoi compagni; questi non ne parlarono ne'
memoriali presentati, essendo loro vietato di comunicare con lui,
e forse pure avendo dovuto persuadersi, che a voler fare causa
comune con lui non sarebbero mai più venuti a capo di nulla.
Vi sono infine i cenni datine dal Campanella medesimo in più
lettere ed anche nell'opera dell'Atheismus triumphatus, che
scrisse dopo questo periodo, sebbene, come abbiamo già detto, egli
siasi ingegnato di fondere insieme il passaggio al torrione e
quello alla fossa di Castel S. Elmo. In una sua lettera al Papa,
in data del 13 agosto 1606, egli scrisse così: "Hor sono tre anni
(e quindi verso il luglio o l'agosto 1603) havendo interrogato il
demonio che si faceva angelo, e compariva ad una persona da me
instrutta a pigliar l'influsso divino, al qual mi pareva disposto
per la sua natività che mirai, rispose di tutti i regni che
dimandai... (seguono molte rivelazioni singolari specialmente
intorno a Venezia e a Roma). Io accorto che era diavolo in molti
segni, et avvisando quella persona dicendoli che dimandasse
segnali come Gedeone et altre industrie, promesse il diavolo darli
poi; ma comparse ad un signore in uno specchio, che trattava farmi
fuggire, e lo fè che mi tradisse e rivelasse; e fui posto in
questa fossa pur dal diavolo predettami". Ecco qui un disegno di
evasione trattato e scoperto, che vedremo affermato anche dal
Nunzio e che, naturalmente, ci occuperà di proposito; ma per ora
lo mettiamo da parte. Al Card.l Farnese, pochi giorni dopo, il
Campanella scrisse pure: "M'occorse ver la natività d'una persona,
li dissi ch'era inclinata alla profezia, li donai il modo di
disponersi all'influsso divino, e perché egli era scelerato, li
comparse il diavolo e dicea esser angelo, e ci donò avviso di
molte cose future in molti regni del mondo e del Papato e di
Venetia ch'ha a rovinare. Io poi dimandai segni come Gedeone;
s'era Dio o angelo, ci li promesse, e perché non insegnassi a
colui a scoprir il diavolo, esso diavolo mi fece ponere in questa
fossa con stratagemma stupenda che non posso scrivere". Egualmente
al Card.l S. Giorgio riferì la cosa medesima, con poca differenza
di parole e con questa circostanza di più, che il diavolo "fè
capitar male quel pover'huomo", senza dirne altro(441). Non
occorre poi riportare testualmente i brani dell'Atheismus
triumphatus allusivi allo stesso fatto, avendo avuta già da un
pezzo occasione di riportarli (ved. vol. 1.° pag. 21 in nota). Il
Campanella in essi parla di "un astrologo moderato" spinto dalla
superstizione di Aly Aben ragel, avido di sperimentare la dottrina
de' Santi, che istruì un giovane incolto nel modo di pregare gli
Angeli de' pianeti, lo dispose con le orazioni e le cerimonie, e
il giovane cominciò a vedere cose mirabili, apparendogli uno
spirito che si fingeva Angelo o luna, o sole, o Dio: l'astrologo
per mezzo di costui ebbe risposte su cose gravissime, ma essendosi
accorto che si trattava del demonio, si vide il falso angelo con
inganni incredibili separare il giovane dall'astrologo e condurlo
a morte violenta, oltrechè si vide un altr'uomo, che aspettava
certe promesse fatte prima del caso del giovane, condotto a
malanni atrocissimi etc. etc. Avremo in sèguito a commentare tutto
questo garbuglio, ma già si vede manifestamente che si tratta qui
delle relazioni passate tra il filosofo e il Gagliardo, con le
preghiere al sole, alla luna, alle stelle, e con tutte le altre
cose insegnategli mentre componeva appunto la sua opera di
Astronomia, essendo l'astrologo e l'altro uomo, posti in iscena
nell'Atheismus, una persona sola, il Campanella. Le lettere
chiariscono i racconti dell'Atheismus, ed esse, come abbiamo
veduto, ci menano al luglio o agosto 1603 quanto alle pratiche
astrologiche fatte dal Gagliardo con l'assistenza del Campanella;
d'altro lato il processo del Gagliardo ci mena al 2 marzo 1604
quanto alla separazione di lui dal Campanella, giacchè appunto in
tale data egli fu liberato dal carcere, per poi tornarvi di nuovo
ed essere condannato all'ultimo supplizio due anni dopo.
Manifestamente quindi la data del luglio e agosto 1603 è quella
del passaggio "nel torrione del Castello" dove il Campanella di
certo si trovava tuttora il 2 marzo 1604, giacchè il Gagliardo
difficilmente avrebbe mancato di dirne qualche cosa laddove ne
fosse stato tolto prima: risulta perciò ben giustificata anche
l'affermazione di Ciommo dell'Erario, d'averlo visto nel torrione
in marzo 1604 separato dagli altri frati, e come il non trovare il
Campanella contemplato negli ordini di pagamento della sovvenzione
ai frati in data del 2 settembre 1603, e 27 febbraio 1604, non
implica che egli fosse stato già tradotto a S. Elmo, così non
l'implica nemmeno il non trovarsi contemplato in quello del 9
giugno 1604. Vedremo poi che non mancano altri argomenti per farci
dire che il Campanella dovè essere tradotto dal torrione nella
fossa di S. Elmo appunto verso il luglio 1604. E se vogliamo
indagare perché sia stato posto nel torrione in luglio o agosto
1603, ne troviamo facilmente il motivo, ricordando che appunto in
tal tempo giunse la notizia dell'imbarco di fra Dionisio
sull'armata turca, con le sue ciarle già narrate della prossima
liberazione del Campanella. Il fatto della conversione di fra
Dionisio alla fede maomettana, che recava un aggravio manifesto a'
giudizii già gravi intorno alle imprese disegnate in Calabria, fu
sentito dal Campanella al punto, da vederlo schermirsene con tutti
gli argomenti, possibili ed impossibili, in ciascuna delle lettere
che scrisse nel 1606-1607, non appena vide la necessità di far
udire la sua voce direttamente ai personaggi altolocati. Il fatto
poi egualmente grave dell'imbarco sull'armata turca, veleggiando
verso il Regno, fu dissimulato dal Campanella costantemente, e col
proposito suo di volerlo dissimulare si spiega benissimo l'aver
confuso il passaggio al torrione del Castel nuovo, il disegno di
evasione scoperto, il trasporto a Castel S. Elmo, tre avvenimenti
affatto distinti e verificatisi in tre tempi diversi.
Veniamo appunto alla faccenda del disegno di evasione scoperto e
del passaggio a S. Elmo. Come dicevamo, il Nunzio ne fece menzione
egli pure nelle sue lettere a Roma. Dopo circa otto mesi di
silenzio, ripigliando la sua corrispondenza, nella lettera del 23
luglio 1604 egli ritesseva la storia delle peripezie avvenute per
la spedizione della causa; riproduceva il fatto del matrimonio di
D. Pietro de Vera, ricordava la risoluzione presa da S. S.tà per
tale circostanza, esponeva le sue sollecitazioni continue per
venire a qualche conclusione". E soggiungeva: "Ma l'essersi
scoperto quà un certo Greco che praticava di fare scappare di
Castello Fra Tommaso Campanella, come scappò Fra Dionisio Pontio
et un'altro suo compagno, hà tenuto il negotio sospeso in modo,
che non si è potuto trattar della sua speditione. Finalmente
sabato passato fummo insieme, et quanto al detto Campanella S. E.
l'hà fatto condurre nel Castello di S. Elmo, et non vuole che per
ancora si tratti della sua speditione, crederò io, per quanto
scuopro, per non haver interamente chiarito questa pratica che si
teneva per la sua liberatione. Trattammo degli altri quattro che
restavano" etc.(442). Se non c'inganniamo, dal contesto della
lettera del Nunzio appariscono due fatti non contemporanei, la
scoperta di certe pratiche per far fuggire il Campanella, la quale
avea per qualche tempo tenuto sospesa la spedizione della causa, e
il trasporto del Campanella a S. Elmo del tutto prossimo alla data
della lettera, per un motivo che il Nunzio mostra di supporre e
che difficilmente persuaderà alcuno, giacchè per continuare a
chiarire le pratiche dell'evasione non occorreva tradurre il
Campanella a S. Elmo; dovè quindi esservi un altro motivo che il
Nunzio volle dissimulare, e la cosa riuscirà confermata da quanto
saremo per dire. Innanzi tutto cerchiamo d'indagare chi mai abbia
potuto avere tanta pietà pel povero prigioniero da intavolare
trattative di evasione, chi mai abbia potuto essere quel Greco che
praticava di farlo fuggire, come pure in che data potè questo
accadere.
Sappiamo dalle notizie sparse nel processo di eresia che molti
venivano nel Castel nuovo, ed entravano col carceriere nella
stanza del Campanella per vederlo quando era pazzo; ma
evidentemente bisogna guardare un po' in alto per la faccenda in
quistione. Senza dubbio ebbe a visitarlo più o meno spesso il
Marchese di Lavello Gio. Geronimo del Tufo, ed abbiamo visto che
"nel 1603" ci fu una sua visita ricordata nel Syntagma. Pertanto
il Residente Veneto, in data del 3 febbraio 1604, riferiva al suo
Governo, che pareva si andassero "risvegliando novi pensieri del
Campanella che si trova in Castello per li trattati da lui
maneggiati in Calabria", che era stato ultimamente di ordine del
S.r Vicerè "carcerato il Marchese di Laviello, di casa del Tuffo,
sospetta alla Ecc.za sua che tenesse le mani in simili negotii", e
che ad essi si attendeva con molta diligenza etc.(443). Ecco un
nome ed una data che fanno volgere a buon dritto la mente sul
progetto di evasione stato scoperto: il Residente potè non essere
informato della cosa a fondo, e tutto il suo Carteggio mostra che
davvero non lo fu mai; ma non gli mancò la notizia di diligenze
che si facevano, e di una carcerazione, che riesce del tutto
naturale credere motivata da qualche indizio o sospetto di
maneggio in tale faccenda. Anche il Gagliardo nelle sue ultime
deposizioni ricordò l'avvenimento senza accennare a' motivi, ciò
che mostra essere stato da lui pure ignorato il progetto di
evasione e la scoperta fattane: ma riescono sempre notevoli i
termini ne' quali si espresse, avendo ricordato che il Marchese
"per un tempo stette carcerato in detto Castello"(444).
Considerando che il Gagliardo ne uscì nel marzo 1604, bisogna
conchiudere che il Marchese ne fosse già uscito a questa data, e
però vi fosse rimasto un mese o poco più: naturalmente tale
circostanza mena a ritenere essersi avuto per lui un semplice
sospetto ben presto chiarito senza solida base, oppure aver lui
avuta una parte del tutto secondaria ed anche inconsapevole ne'
maneggi per l'evasione. Chi dunque potè provvedervi? La mente
ricorre subito a Cristoforo Pflugh, ed a' Fuggers de' quali
abbiamo già dato notizia a proposito dello Pflugh; le promesse di
Cristoforo, ed anche una parola del Naudeo, il quale nel
Panegirico ad Urbano VIII, enumerando i tentativi fatti per la
liberazione del Campanella, citò i "tot evanidos Fuggerorum
ausus", ci aveano indotto a ritenere che con ogni probabilità i
potenti mezzi di questa famiglia avessero potuto preparare
l'evasione; le notizie poi dell'Epistolario del Fabre ora
pervenuteci col nuovo libro del Berti, mostrando che in
particolare Giorgio Fugger, dopo questo tempo, fissò perfino una
somma di 10 mila ducati per aiutare la liberazione del Campanella,
convalidano sempre più tale opinione(445). Aggiungiamo inoltre che
non deve recar meraviglia l'intervento pure di quel certo Greco
che praticava di farlo scappare, secondo la notizia datane a Roma
dal Nunzio. Il Carteggio Veneto ci mostra che da un pezzo
trovavasi nel Castel nuovo un Pietro Lanza, bandito di Corfù, al
quale facevano capo i parecchi Greci che venivano in Napoli con
progetti di imprese da corsari contro i turchi. Il Lanza, già capo
delle spie del Levante per conto del Governo Vicereale, si era
dilettato di simili imprese perfino nell'Adriatico, che la
Serenissima considerava come suo Golfo: dietro richiami del
Residente il Vicerè Conte di Lemos lo rinchiuse nel Castel nuovo
(6 novembre 1599), ma dandogli tutto il Castello per carcere e
speranza di prossima libertà. Egli propose allora alla Viceregina,
e costei accettò, di mandare due feluche in corso alla Vallona
"nelle viscere de i stati da mare di quella Serenissima
repubblica", come diceva lamentandosi il Residente, e nel marzo
1600 fu liberato per tentare l'impresa, essendo stato il suo
ufficio già dato a un Jeronimo Combi: fatti i preparativi, il
Lanza si unì con un Michele Protetri, egualmente bandito di Corfù
e corsaro, venuto in Napoli a rilevarlo, e con lui si partì di
notte segretamente (7 maggio 1602). Cercarono insieme
d'impadronirsi di una nave Buduana nelle marine di Otranto, ma non
riuscirono: il Lanza tornò a Napoli e dovè rientrare nel Castel
nuovo (7 agosto 1602). Quivi egli non cessò mai di far progetti
contro i turchi, lusingando le cupidigie spagnuole, e giunse a
prevalere su Jeronimo Combi e ad avere diversi incarichi di
spedizioni segrete: né gli mancarono mai collaboratori levantini,
specialmente Greci, che venivano in Napoli e si dirigevano appunto
a lui nel Castel nuovo, con disegni di sorprendere senza pericolo,
sicuramente, il tale o tal altro Castello turco e farvi ottima
preda(446). Riesce quindi del tutto verosimile che qualcuno di
costoro siasi preso l'incarico di procurare la fuga del
Campanella, e che inoltre rappresenti quel Signore il quale poi
finì per tradirlo e rivelarne i disegni, secondo ciò che ne lasciò
scritto il Campanella medesimo.
Volendo dunque determinare la data della scoperta delle pratiche
di evasione, non ne avremmo altra più verosimile che quella della
carcerazione del Marchese di Lavello, cioè il gennaio 1604; e
sarebbe pure, naturalmente, di poco anteriore la data della
comparsa del diavolo con le sue rivelazioni, e dello spavento
incusso a quel Signore che rivelò il disegno della fuga. Potrebbe
sembrare una grossa obiezione la difficoltà di una riunione di più
individui, perfino con qualcuno estraneo, in una carcere dura: ma
bisognerebbe non aver mai conosciuto la curiosità de' carcerieri,
prigioni e visitatori di ogni genere, in fatto di cose
soprannaturali, sempre supposte feconde di grandi guadagni, in
grazia de' quali non c'è né compromissione né rischio che valga a
trattenere. E se è certo che nel marzo 1604 il Campanella
trovavasi tuttora nel torrione del Castel nuovo, bisogna dire che
la scoperta delle pratiche di evasione non abbia avuta influenza
sul mutamento di Castello, e bisogna trovare un altro motivo per
ispiegare il passaggio a Castel S. Elmo. Ritenendo che questo
passaggio sia avvenuto nel luglio 1604, in un tempo del tutto
prossimo alla data della lettera con la quale il Nunzio faceva
conoscere la avvenuta riunione del tribunale Apostolico, troviamo
facilmente il motivo del trasporto a S. Elmo nell'essersi voluto
dal Governo che il tribunale si riunisse per la spedizione della
causa degli altri frati senza potersi occupare del Campanella,
tanto più dopochè il Nunzio aveva insistito nel voler sentenziare
egli solo; con ciò ci spieghiamo pure che il Nunzio abbia voluto
dissimulare questo avvenimento rincrescevole, compiuto in
dispregio di lui e della Curia. È chiaro infatti che dovendo il
tribunale riunirsi, qualora il Campanella fosse anch'egli rimasto
nel Castel nuovo, non si sarebbe potuto evitare, senza
recriminazioni e contrasti, che il Nunzio lo avesse fatto almeno
venire alla sua presenza, mentre egli trovavasi là rinchiuso qual
suo prigione, a sua istanza e sotto la sua autorità, secondochè
fin da principio era stato convenuto con Roma. C'imbatteremo poi,
nel progresso di questa narrazione, in parecchie circostanze che
riescono a confermare la data del luglio 1604, e non mancheremo di
notarle a misura che si presenteranno. Vogliamo intanto far
avvertire che la scoperta del progetto di evasione non diede
propriamente motivo di far finire il processo del Campanella nella
barbara guisa in cui finì, ma diede soltanto occasione di
giustificare in qualche modo il sistema dell'inerzia che era stato
deciso ed attuato già da molto tempo; quando vi fu pericolo di
vedere questo sistema compromesso, si venne nella determinazione
di allontanare il Campanella ordinandone il trasporto a S. Elmo.
Come abbiamo avuta occasione di dire, i quattro frati minori, mal
ridotti, insistevano vivamente per la spedizione della loro causa,
e tolta di mezzo la persona del Campanella, vennero finalmente i
Giudici a riunirsi e ad occuparsene nella 2a metà di luglio 1604.
D. Pietro de Vera, che per tanti e tanti mesi non si era prestato,
si decise allora a prestarsi, ma sarà bene rilevare dalle parole
testuali del Nunzio in qual modo: "Trattammo degli altri quattro
che restavano, et l'uno, Fra Domenico da Stignano, come più
colpevole, fummo d'accordo che si condennasse per tre anni in
Galera, gli altri che restavano, attesa la purgatione fatta da
loro con li tormenti, si licentiassero, con questo però che non
potessino tornare in Calabria per tempo à beneplacito di S. S.tà
Et quando si cominciorono à dettare le sentenze, scoprendo che in
esse il Sig.r D. Pietro di Vera voleva esser nominato come prima,
contradissi, et gli mostrai la lettera che tenevo. Rispose che non
voleva risolversi sopra questo, senza parlarne prima con S. E., et
se bene gli replicai che questo non serviva à niente, toccando à
N. S.re il risolver sopra ciò, stette pur nel proposito, e mi
chiese copia della lettera, et io glie la diedi, parendomi
necessario metterla anche nel processo". Così veramente D. Pietro
discusse e fu d'accordo col Nunzio, il quale si attenne
all'interpetrazione che avea data alla risoluzione Papale; e fra
Domenico Petrolo fu condannato a tre anni di galera "come più
colpevole", sicchè fino all'ultimo momento venne ammessa la colpa;
gli altri poi furono rilasciati solamente coll'obbligo dell'esilio
dalla Calabria, ad arbitrio di S. S.tà "attesa la purgatione fatta
da loro con li tormenti". Si vede qui ancora una volta con quanto
poca attenzione il Nunzio si era occupato e si occupava di questa
causa: per la congiura il solo Petrolo aveva avuto il tormento,
gli altri non ne avevano avuto punto, siccome mostrano anche due
loro comparse altrove ricordate (ved. pag. 242); l'avevano bensì
avuto per l'eresia e neanche tutti, essendone rimasto esente fra
Paolo, ed il Nunzio confondeva insieme l'una e l'altra causa. Ma
riesce notevolissimo quell'atteggiamento di D. Pietro nel voler
figurare come Giudice, dopo che si era tanto parlato della
risoluzione contraria di S. S.tà, come del pari l'atteggiamento
del Nunzio nel volerglielo impedire. D. Pietro, Commissario
Apostolico, per tanto tempo non si era curato di leggere la
risoluzione Papale che lo riguardava, ed in ultima analisi volle
prender consiglio dal Vicerè intorno ad essa: in tal modo egli
mostravasi quello che realmente era, e che un Breve Papale non
valeva a far cessare di essere, il rappresentante del Governo. Ed
il Nunzio continuava a dar prova di una sorprendente ingenuità,
obiettandogli che il parlarne al Vicerè "non serviva a niente,
toccando a N. S.re il risolver sopra ciò". Fin allora dunque il
Nunzio non aveva capito ancora, che i vincoli effettivi di D.
Pietro col Governo erano ben superiori a quelli fittizii col Papa
creati dal Breve, e tanto meno avea capito che le tergiversazioni
di D. Pietro, negli ultimi tempi, non erano state spontanee ma
prescritte dal Vicerè.
Quale fosse davvero l'opinione del Vicerè su quell'incidente, non
si potè sapere prima di un altro paio di settimane. D. Pietro non
si affrettò a parlare al Vicerè, o forse meglio, sollecitato dal
Nunzio, il Vicerè diede ad intendere che D. Pietro non gli avea
parlato ancora, e giunse fino a promettere, che non appena gli
avrebbe parlato, la spedizione della causa sarebbe stata commessa
"conforme a quello che comanda S. S.tà"; ma intorno al Campanella
disse di nuovo, "bisogna lasciarlo star così per buon rispetto,
per il tempo che sarà necessario". - Queste notizie trasmesse a
Roma non vi fecero punto cattiva impressione; bastava che il
comandamento di S. S.tà fosse per trionfare, il resto non
importava nulla. Il 30 luglio(447) il Card.l Borghese partecipava
al Nunzio, che a S. S.tà era piaciuta la risoluzione sua di non
ammettere a congiudice il de Vera e farne capace il Vicerè, che
ordinava si regolasse tuttavia conforme alle lettere scritte ne'
mesi passati, né gli occorreva altro. E pel Campanella? né S.
S.tà, né alcuno de' Cardinali componenti la Sacra Congregazione,
innanzi a' quali la lettera del Nunzio era stata letta, si diedero
il menomo pensiero di lui: al contrario di quanto si è finoggi
creduto, a nessuno di loro importava che quell'infelice rimanesse
a languire nelle carceri di Castel S. Elmo e la spedizione della
sua causa fosse sospesa indefinitamente. Se vi era qualche ragione
per la quale non conveniva tenerlo nel Castel nuovo, perché mai
non poteva il tribunale riunirsi nel Castel S. Elmo?
Ma verso il 7 agosto, dietro nuove sollecitazioni del Nunzio, il
Vicerè non tenne più oltre nascosta la sua vera opinione
sull'incidente. A questa data(448) il Nunzio faceva sapere a Roma,
che avendo parlato di nuovo al Vicerè, l'avea trovato "diverso" da
quello di prima, perché gli avea detto che non potendo D. Pietro
de Vera intervenire come Giudice, avrebbe scritto a Roma e
nominato un altro il quale potesse intervenire. Aggiungeva che
invano egli avea replicato al Vicerè non esser questo necessario,
"perché il fine principale di N. S.re era stato che intervenisse
qualch'uno de' Ministri di S. M.tà acciò vedesse come passava la
causa, la qual cosa era fatta" (!); dimandava quindi nuovo ordine,
poichè aveva saputo dal Notaro della causa che gli Atti, le minute
e le sentenze erano in mano del medesimo D. Pietro, né egli poteva
andare oltre "senza qualche turbatione", che non gli era parso di
dover eccitare mentre la faccenda poteva avere altro rimedio. - Ma
il rimedio non poteva essere altro oramai che quello di cedere,
poichè si aveva manifesto torto: e nessuno vorrà ritenere che il
Vicerè fosse stato mai diverso in cuor suo. Il Conte di Benavente
aveva adottato un modo di procedere del tutto opposto a quello del
suo antecessore Conte di Lemos. Per quanto costui si era mostrato
attivo, insistente, premuroso, personalmente impegnato,
altrettanto egli aveva preferito mostrarsi freddo, inerte,
distratto, poco informato; e lusingando a tempo la vanità della
Curia, mezzo di riuscita sempre sicuro, avea scansato i richiami
sulla gravissima decisione da lui presa intorno al Campanella, e
fatta anche essenzialmente terminare la causa per gli altri frati,
rimanendo perfino le minute delle sentenze nelle mani della
persona di sua fiducia. Così, salvata la sostanza, occorreva solo
provvedere alla forma, ed egli poteva finalmente scovrirsi ed
anche non aver fretta, mentre al Nunzio non rimaneva che zittire.
Costui avrebbe potuto e dovuto gridare quando il Campanella venne
tradotto al Castel S. Elmo a sua insaputa, ed avrebbe potuto e
dovuto ricordarglielo la Curia vedendo che egli non se n'era dato
pensiero: ma per appellarsi alle convenzioni stabilite col Governo
Vicereale, bisognava non pretendere di trasgredirle.
I frati non cessavano d'insistere per la spedizione della loro
causa, ed il 20 agosto(449) il Nunzio ne dava conto a Roma,
partecipando essergli stato detto dal Vicerè, in risposta alle sue
sollecitazioni, che avrebbe fatto nominare in Roma la persona che
desiderava in luogo di D. Pietro de Vera.
E qui, nel Carteggio del Nunzio, cessa ogni altro documento
intorno alla causa ed intorno alla persona del Campanella. Vero è
che bisogna ammettere senza esitazione qualche lacuna nelle
Lettere di Roma, e notare una lacuna evidente di tre registri
delle Lettere di Napoli, da' primi di ottobre 1604 al 14 gennaio
1605. I soli documenti di questo periodo, che ci rimangono, son
quelli pervenutici con gli Atti processuali inserti nel noto
Codice Strozziano: 1° il Breve Papale del 27 ottobre 1604, calcato
sull'altro precedente, col quale si ricorda la concessione fatta
già al Conte di Lemos, si menziona la lettera ricevuta dal Conte
di Benavente circa il matrimonio di D. Pietro de Vera, che "lo
stesso Nunzio pretende" aver fatto spirare la facoltà
accordatagli, e si nomina D. Giovanni Ruiz de Baldevieto in luogo
del De Vera, accordandogli identica facoltà(450); 2° le note
marginali, apposte nell'Elenco degl'incriminati a' nomi de'
quattro frati de' quali si dovea spedire la causa, ed esprimenti
le sentenze per loro emesse, cioè pel Petrolo un triennio in
galera, per gli altri il rilascio(451). - Si può dunque ritenere
che il Vicerè presentò direttamente a Roma il nome di colui che
volea sostituito al De Vera, onde il Nunzio non ebbe ad
occuparsene nel suo Carteggio, e che venuto il Breve potè il
tribunale tener seduta tutt'al più a' primi di novembre, e senza
discussione emettere le sentenze secondo le minute già fatte e ne'
termini stabiliti fin dal luglio precedente. Aggiungiamo qui che
D. Giovanni Ruiz de Baldevieto o Baldeviescio (come si trova
talvolta nominato nelle scritture dell'Archivio di Napoli) era
anch'egli membro del Sacro Regio Consiglio al pari di D. Pietro de
Vera e di D. Giovanni Sances, ma entrato in ufficio da più fresca
data, nel 1602(452). È superfluo poi far avvertire che doveva
esser clerico; ed avendo di certo funzionato coll'apporre solo il
suo nome alle sentenze, possiamo dispensarci dal discorrere
ulteriormente di lui. Intanto la causa del Campanella rimase
tuttavia sospesa. Non sappiamo se, ad occasione delle sentenze
emesse per gli altri frati, il Nunzio si sia tenuto obbligato di
spendere qualche parola col Vicerè intorno a lui: la lacuna
sopraindicata, esistente nel suo Carteggio, non ci permette di
affermar nulla su tale proposito, ma è un fatto notevolissimo che
dal 14 gennaio fino al 16 dicembre 1605, data in cui egli lasciò
il suo ufficio, nessuna parola fu spesa intorno al Campanella,
sicchè bisogna dire che il povero filosofo rimase e dal Nunzio e
dalla Curia Romana affatto dimenticato.
Invece sappiamo che se ne ricordarono gli aderenti suoi, ai quali
egli stava realmente a cuore: essi presentarono al Nunzio un
memoriale che cominciava con le parole "Ill.mo e Rev.mo Signore,
Noi amici, e parenti e discepoli di Fr. Tommaso Campanella
Sacerdote della Religione di S. Domenico carcerato in S. Ermo".
Questo documento citato dal Nicodemo, e così pure dal Cipriano,
dietro una nota rimessa loro dal Magliabechi intorno alle opere
manoscritte del Campanella a quel tempo esistenti nella
Magliabechiana, può dirsi oramai irreparabilmente perduto(453); e
la perdita non sarà mai abbastanza deplorata, massime perché le
sottoscrizioni apposte al memoriale, oltre al far conoscere i nomi
de' coraggiosi cittadini che soli si diedero pensiero del
Campanella, avrebbero anche fatto rilevare il primo nucleo di
quella scuola, che andò crescendo più tardi e rappresentò in gran
parte la cultura napoletana del secolo 17°, secolo più calunniato
che conosciuto. Ignorando la data del memoriale, non si saprebbe
nemmeno dire se esso sia stato presentato poco dopo il luglio
1604, allo scopo di reclamare contro i pessimi trattamenti che il
Campanella soffriva senza ragione, ovvero sia stato presentato
nella fine di ottobre 1604 ed anche più tardi, quando il tribunale
era prossimo a riunirsi o si era già riunito per la definitiva
spedizione della causa de' quattro frati, allo scopo di ottenere
che la causa del Campanella fosse egualmente spedita. Ma
quest'ultima ipotesi è la meno plausibile, ed anzi veramente da
rigettarsi. Avremo infatti occasione di vedere più in là che a
questa data, e fin qualche anno dopo, il Campanella non voleva
menomamente che la sua causa terminasse in Napoli, e i suoi
aderenti non avrebbero mai agito in controsenso. Ad ogni modo il
memoriale rimase tra le carte inutili del Nunzio, verosimilmente
con esse andò poi a Firenze, di dove è in sèguito scomparso.
Adunque mentre i frati uscivano di carcere, all'infuori del
Petrolo che dovè essere tradotto nello Stato ecclesiastico per
servire sulle galere di S. S.tà, il Campanella rimaneva in Castel
S. Elmo, indefinitamente carcerato. Nella Narrazione egli disse,
che i frati "subito in Napoli et altri in Roma fur aggratiati e
diventaro priori et officiali nella religione..." mentre in quanto
a lui "non volsero mai permettere che andasse alli carceri di
Roma, né che si facesse la causa sua di ribellione a Napoli,
perché non poteano condannarlo in altro, e perché non andasse a
Roma dove sapean c'havea d'esser liberato. Però con crudeltà et
astutia grande lo posero in Castel Santelmo dentro a una fossa
oscura 23 gradi sottoterra, sempre alla puzza oscuro et acqua, et
quando piovea s'empia d'acqua, e mai ci entrava luce, stava
inferrato sopra uno stramazzo bagnato con appena mezzo reale di
vitto malamente". Che il Petrolo abbia dovuto essere graziato
della galera in Roma, e gli altri dell'esilio in Napoli, bisogna
ritenerlo senz'altro, tale essendo il costume della Curia in quel
tempo, e ne abbiamo pure veduta qualche cosa in persona di Giulio
Contestabile. D'altronde le anzidette deposizioni ultime del
Gagliardo, in data del 12 luglio 1606, ci danno notizia che fra
Pietro di Stilo nella 1a metà di quell'anno era già nel suo
convento in Stilo, non sappiamo se in carica o no; ed
un'Informazione presa contro fra Pietro Ponzio in Nicastro in data
di dicembre 1604, ci dà notizia che fra Pietro trovavasi allora
nel convento dell'Annunziata di Nicastro ed era divenuto
abbastanza audace, avendo in Chiesa, ed in presenza del Vicario
capitolare, del Clero e di un numerosissimo pubblico, osato
d'interrompere e protestare durante la predica di un Cappuccino
che sosteneva la credenza dell'Immacolata Concezione(454). Che poi
il Campanella sarebbe stato liberato in Roma non possiamo
menomamente dubitare: abbiamo veduto qual era la giurisprudenza
del S.to Officio intorno a ciò, ed abbiamo fatto avvertire che il
Governo Vicereale non poteva non preoccuparsi di questa
circostanza, e tanto più ricorrere ad ogni mezzo per non lasciarsi
sfuggire di mano l'infelice filosofo. Ma che non sia stato
permesso di far la causa della congiura, "perché non poteano
condannarlo in altro", deve ritenersi un assurdo, e nel tempo
stesso una delle tante affermazioni equivoche, alle quali il
Campanella fu troppo sovente obbligato a ricorrere nel resto della
sua vita: la causa era stata già fatta, rimanendo solo il dover
formulare la sentenza; e dopo la condanna da lui avuta per
l'eresia, con la quale egli non era stato riconosciuto pazzo, dopo
la condanna per la congiura avuta dagli imputati di second'ordine,
dal Contestabile, dal Pittella ed in ultimo luogo dal Petrolo, il
Nunzio non avrebbe potuto non condannarlo, né occorre dire che
l'altro Giudice, compagno del Nunzio, non avrebbe esitato un
momento ad emettere un voto conforme. Infine quanto all'essere
stato così duramente trattato in Castel S. Elmo, ed anche
all'esservi stato tradotto con crudeltà ed astuzia grande, bisogna
accettarlo pienamente. Senza dubbio si diè prova di una grande
astuzia, per riuscire a tenere il Campanella nelle mani eludendo i
dritti di Roma, e di altrettanta crudeltà nel farlo macerare in
quella specie di carceri senza un motivo ragionevole, mentre anche
il disegno di evasione era un fatto già vecchio di alcuni mesi. né
si può dubitare delle pessime condizioni in cui egli ebbe a
trovarsi, poichè qualche notizia contemporanea intorno alle
carceri gravi di Castel S. Elmo ce le mostra appunto a quel modo.
In sostanza quindi, menzionando i suoi patimenti, egli non esagerò
di molto, così nelle poesie e nei libri, che sappiamo aver sempre
continuato a comporre coll'assistenza di fra Serafino di Nocera
malgrado i rigori che soffriva, come pure nelle parecchie lettere,
che conosciamo avere scritte al Papa, a' Cardinali ec. dopochè si
era già da qualche tempo deciso a smettere apertamente la sua
pazzia: non esagerò menzionando "il Caucaso" in cui si trovava
qual Prometeo novello, la fossa nella quale era sepolto, l'acqua
che lo bagnava ne' giorni di pioggia, il giaciglio fradicio, il
puzzo e il freddo, il vitto poco e sporco da provvedersi con 17
tornesi (40 centesimi), l'inverno e la notte continua "con tre
hore sole di luce la sera et il giorno un poco a 22 hore per dire
l'officio" sicchè invidiava "alle mosche et a' serpi la mirabile
gratia della luce"(455). Egli mostrò allora di attribuire questi
crudeli trattamenti al Capitano del Castello amico de' suoi
nemici, cioè Carlo Spinelli, Principe della Rocella, Barone di
Gagliato, Barone di Bagnara e D. Loise Sciarava, amico de'
"Satrapi" che avevano tanto guadagnato coll'ammettere la congiura.
Sappiamo che Castellano di S. Elmo era D. Garzia di Toledo, già
tornato in quel tempo dalla missione di Governatore di Calabria
ultra, e poi, nell'aprile 1605, mandato a Porto Longone qual
Commissario della fabbrica di una fortezza, onde talvolta il
Campanella si dolse non più del Capitano ma del Luogotenente del
Castello(456). D. Garzia dunque, co' suoi "50 leopardi" (i soldati
spagnuoli) si sarebbe permesso di trattare così male il
Campanella, impedendogli anche di parlare al Vicerè, com'egli
avrebbe voluto, e ciò per suggestione de' Satrapi, i quali
consigliavano il Vicerè "di non darlo al Papa e non lasciare che
si difendesse secondo i canoni e la ragion naturale": ma è chiaro
che D. Garzia obbediva agli ordini ricevuti, e verosimilmente li
eseguiva con un eccesso di zelo, facendo egli pure, secondo la
curiosa espressione del Campanella, "come quelli che son pagati a
piangere i morti, che gridano più che li figli e mogli che si
doglion davero"; né c'era da fare col Vicerè nuove difese secondo
i canoni e la ragion naturale, quando un Breve del Papa aveva
definito il modo di trattare la sua causa e questa era stata già
trattata, oltrechè una decisione egualmente del Papa avea mostrato
chiaramente che non c'era da ritenerlo pazzo.
III. Nel Castel S. Elmo si chiuse finalmente alla scoperta
il periodo della pazzia del Campanella, e si chiuse col suo
rivolgersi dapprima al Vicerè per mezzo di fra Serafino di Nocera,
mandando ad esporgli taluni suoi concetti che costituivano
promesse mirabili pel bene del Regno e quindi in favore del Re;
poi col rivolgersi al Nunzio e al Vescovo di Caserta, procurandosi
una visita di costoro ed esponendo in essa gli studii fatti e
certi suoi concetti intorno alla fine del mondo, gl'inganni avuti
dal diavolo e poi le grazie avute da Dio con le rivelazioni vere,
onde potea far cose mirabili ad utile del Cristianesimo, delle
quali cose presentava l'elenco in un memoriale. A queste prime
mosse tenne poi dietro più tardi il suo rivolgersi al Papa, ad
alcuni Cardinali ed anche all'intero Senato Cardinalizio, quindi
al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria,
segnatamente dopochè gli venne procurato l'aiuto di Gaspare
Scioppio, inviando lettere che ritessevano la storia delle cose
sue, giustificavano la pazzia pregressa, ripetevano le promesse
delle cose mirabili in vantaggio della Chiesa e dello Stato,
presentavano l'elenco delle opere fin allora scritte,
conchiudevano col supplicare che fosse udito e posto alla prova.
Indubitatamente ciascuna delle dette mosse del Campanella fu
coordinata a certi suoi pensieri, che egli andava esprimendo in
varie e successive opere di occasione, alle quali attese col
maggiore impegno comunque sepolto in una fossa tanto orribile; e
diciamo opere di occasione, perocchè esse furono scritte con lo
scopo manifesto di procurarsi grazia presso gli arbitri della sua
sorte, presso il Vicerè e gli Agenti del ramo temporale e
spirituale della Curia Romana, infine anche direttamente presso la
Curia e tutti i potenti capaci di aiutarlo, sforzandosi di far
acquistare di sè un miglior concetto nel campo politico e nel
religioso, di mostrare quali e quanti servigi egli avrebbe potuto
rendere laddove fosse posto in libertà. Riuscirà quindi utilissimo
vedere in precedenza le opere che compose, con tutti gli accidenti
della composizione di esse, in questo periodo che comprende gli
esiti de' processi e che dalla fine del 1602 può protrarsi al
1605-1606, data almeno del termine della pazzia, giacchè il
termine del processo della congiura non si vide per lui mai più.
Cominciamo dunque dal ricordare che il 1602 era stato impiegato
dal Campanella per una piccola parte nella composizione della
Città del Sole, e per la massima parte nella composizione della
Metafisica, la quale verosimilmente fu compiuta ne' primi mesi del
1603 (ved. pag. 305). D'allora in poi egli dovè subito metter mano
a' 4 libri di Astronomia contro Aristotile, Tolomeo, Copernico e
Telesio, indicati anche col titolo De motibus astrorum juxta
physica nostra e forse indirizzati alla memoria di Giulio Cortese,
come abbiamo detto altrove potersi desumere da un brano dell'opera
"Del Senso delle cose" che ha richiamata la nostra
attenzione(457). Sulla data di composizione dell'Astronomia non
cade dubbio: la troviamo infatti registrata fra le altre opere
negli elenchi inviati il 1606 a' Card.li Farnese e S. Giorgio; la
troviamo del pari nell'elenco inviato il 1607 al Re di Spagna
coll'altro titolo De nova astronomia libri 4 etc., aggiuntovi che
erano rimasti "imperfetti", la quale ultima circostanza, motivata
con ogni probabilità da' nuovi travagli sopravvenuti, dovè
impedirgli di mandare l'opera allo Scioppio nel 1607. D'altra
parte la cosa ci è confermata abbastanza dalle deposizioni ultime
del Gagliardo, per le quali abbiamo già veduto che nel 1603 il
filosofo si occupava di Astrologia e certamente ancor più di
Astronomia, avendo per le mani, con quel singolare ripostiglio, il
Magino, l'Almanach, il Cardano, senza il quale aiuto non avrebbe
in verità potuto trattare una materia simile; e secondo lo stesso
Gagliardo ne avrebbe trattato così nel carcere ordinario come nel
torrione, vale a dire dal febbraio o marzo al luglio o agosto 1603
ed anche da questa data in poi, fin verso il tempo dell'uscita del
Gagliardo dal carcere, vale a dire fin verso il marzo 1604. È
verosimile poi, che se non all'entrare nel torrione, almeno quando
vide scoperto il disegno di evasione, carcerato il Marchese di
Lavello e poi protratta tanto la spedizione della causa della
congiura, penetratosi delle circostanze evidentemente aggravate,
egli abbia interrotto la composizione della pura Astronomia, e
posto mano al trattato De Symptomatis mundi per ignem interituri;
infatti questo trattato si vede sempre menzionato come annesso a'
libri di Astronomia nelle lettere del 1606-1607 e seguenti, e fu
inviato esso solo allo Scioppio nel 1607, senza i libri di
Astronomia, col titolo di Prognosticum astrologicum de his quae
mundo imminent. Il Campanella poteva servirsene per difesa,
essendo ricominciato ad apparire il bisogno di ulteriori difese, e
così come già si è visto aver fatto altre volte, egli passava
immediatamente a comporre opere adatte a' suoi bisogni:
aggiungiamo che il trattato potrebbe ancora trovarsi in qualche
Biblioteca, essendo stato mandato allo Scioppio, ma per l'autore
andò certamente perduto insieme co' libri di Astronomia, che gli
furono tolti dietro una perquisizione ordinata dal Nunzio il 1611,
come apparisce dal Syntagma, nel quale per altro la data di
composizione di questi libri si mostra esposta in una maniera
impossibile. S'intende poi che il Campanella in tutto questo tempo
continuò a comporre poesie, e che esse ci furono conservate
solamente in parte, rimanendo eliminate le poesie confidenziali. È
molto verosimile che debbano assegnarsi alla prima metà del tempo
trascorso nel torrione le tre Salmodie, che vennero riportate in
ultimo luogo nella scelta data alle stampe, dicendosi nel Syntagma
che ve ne furono di quelle servite a rinvigorire gli amici ne'
tormenti; esse sarebbero state composte a' primi del gennaio 1603,
quando tre de' frati suoi compagni furono tormentati, e bisogna
dire che veramente poterono servire pel solo fra Pietro di Stilo.
Negli elenchi delle opere inviati a' Cardinali ed al Re si trova
anche citata tra le Rime la "Salmodia della legge naturale e
divina in tutte cose", ma essendo stati quegli elenchi compilati
il 1606-1607, parecchie altre Salmodie poterono essere indicate
sotto quella dicitura così generale; tuttavia le tre sopradette
appariscono Inni suggeriti dalla speranza di un termine de'
travagli, che a quella data poteva sembrare davvero imminente.
Al tempo trascorso nella fossa di Castel S. Elmo appartengono di
certo molte opere e la massima parte delle poesie che furono
pubblicate; né si può dubitare che fin dal primo momento il
Campanella abbia dovuto porre mano alla composizione delle opere,
giacchè il numero di esse riferibile a' primi anni della dimora in
S. Elmo è davvero sorprendente; e però crediamo che egli abbia
dovuto ben presto trovar modo di ottenere da' "leopardi" un
maggior numero di ore di luce, alla qual cosa provvidero
verosimilmente gli aiuti di fra Serafino di Nocera ed anche le
risorse sue proprie, essendo stato sempre stimato tale da
comandare al diavolo. Una delle poesie, che apparisce la prima di
questo periodo, ce lo mostra rassegnato, come d'altronde era
naturale, dovendosi stare a vedere dove la cosa andrebbe a
riuscire: alludiamo al "Sonetto nel Caucaso", in cui il Campanella
professa inutile il credere la morte un rimedio a' guai, giacchè
"per tutto è senso", e conchiude:
"Filippo in peggior carcere mi serra
or che l'altr'ieri: e senza Dio no 'l face,
stiamci come Dio vuol, poichè non erra"(458).
Non abbiamo bisogno di dire che il carcere dell'"altr'ieri"
sarebbe il torrione del Castel nuovo. Ma la fossa non consentiva
una calma rassegnazione: ben presto egli dovè comporre ancora la
"Lamentevole orazione profetale" e un po' più tardi le "Quattro
Canzoni in dispregio della morte", così indicate nell'edizione
Adami. Infatti la Lamentevole orazione tra gli altri dolori
esprime quello per la separazione dagli amici tuttora in carcere,
ciò che può riferirsi solamente a' frati lasciati nel Castel
nuovo, ed ancora esprime l'apparizione di mostri e di draghi, ciò
che fino ad un certo punto accenna all'apparizione de' diavoli,
da' quali in più luoghi il Campanella affermò di aver ricevuto
travagli nella fossa:
"Qui un mar di guai confuso
pien di mostri e di draghi
sopra di me si aduna,
e 'l tuo furor spirando aspra fortuna".
. . . . . . . . . . . . . .
"Da gli amici disgiunto
sono, e obbrobrio al mio sangue".
. . . . . . . . . . . . . .
"La gente del mio seme
m'allontanasti, e preme
duro carcer gli amici,
altri raminghi vanno ed infelici"(459).
Nelle Canzoni poi in dispregio della morte c'è l'affermazione
esplicita di aver visto il diavolo, di gustare già la dottrina di
Cristo, di essersi fatto certo dell'immortalità dell'anima, de'
futuri premii e pene etc., e nelle note si dice che allora
l'autore compose questa Canzone (la 4a) e "scrisse
l'Antimachiavellismo", la qual cosa vedremo avvenuta in una data
non molto lontana da quella dell'entrata nella fossa:
"Or ch'han visto i miei sensi
non più opinante son ma testimonio,
né sciocche pruove ho di secreti immensi,
già gusto quel che sia di Cristo il pane.
Deh sien da noi lontane
quelle dottrine che 'l celeste conio
non ha segnato; ch'io vidi il Demonio.
Credendosi i Demon malvagi e fieri
indiavolarmi con l'inganni loro,
benchè con mio martoro,
m'han fatto certo ch'io sono immortale,
che sia invisibil più d'un concistoro,
che l'alme uscendo van co' bianchi e neri" etc.(460).
Ben si rileva che il Campanella s'infervorava assai nelle dottrine
della Chiesa, e come nelle poesie così vedremo pure nelle prose;
ma il lato singolare del fatto è che questo venne determinato
propriamente dal diavolo, e potrebbero anche dirsi abbastanza
singolari i modi usati da lui nell'esprimere i concetti nuovamente
acquistati; vale la pena di farvi attenzione. Non apparisce
intanto che egli abbia scritte altre Salmodie nel periodo in
esame. La Salmodia metafisicale è assai posteriore, giacchè vi si
parla di "sei e sei anni" di pena, di "dodici anni d'ingiurie e di
stenti"(461); e per verità le prose l'occupavano anche troppo.
Nel tenersi rassegnato ed in aspettativa, egli non rimase
certamente in ozio, e ben presto dovè attendere alla
ricomposizione dell'opera Del Senso delle cose, che questa volta
scrisse in italiano, come ci mostrano i Codici della Nazionale di
Napoli e della Casanatense, la lettera del 1607 allo Scioppio da
noi pubblicata, nella quale disse voler tradurre in latino il
Senso delle cose e la Metafisica(462), da ultimo anche un brano
dell'opera medesima, riprodotto del pari nella traduzione fattane,
che venne poi stampata il 1620(463). È verosimile che il
Campanella siasi deciso a questo lavoro, perché era di semplice
reminiscenza, avendolo già una prima volta fatto in Napoli il
1590, né esigeva essenzialmente l'aiuto di altri libri. Ad ogni
modo non dubitiamo di assegnargli la data dell'ultimo quadrimestre
1604, poichè vedremo or ora il Campanella nel gennaio 1605
occupato in un lavoro di altro genere, poi lo vedremo ancora
occupato in altri lavori, ed intanto troviamo il Senso delle cose
già inserto negli elenchi delle opere compilati il 1606, quindi lo
troviamo pure inviato allo Scioppio il 1607; d'altro lato,
percorrendo l'opera, vi troviamo citata principalmente la
Metafisica e i libri Astrologici, le ultime opere composte
dall'autore, ma non l'Antimachiavellismo e del pari i
Machiavellisti, citati in due brani dell'opera che fu poi
stampata, d'onde si rileva che l'Antimachiavellismo fu composto
veramente più tardi. Così un confronto tra i manoscritti e l'opera
stampata, mentre ci conduce a determinare la data di questa
ricomposizione in un modo abbastanza esatto, ci mostra pure che i
manoscritti debbono dirsi realmente la ricomposizione originaria
dell'opera, non una traduzione dal latino fatta per conto di
qualcuno poco versato nelle lingue antiche. Abbiamo detto che ci
son due manoscritti di quest'opera, in Napoli e in Roma;
aggiungiamo che del 4° libro di essa, costituito dalla "Magia
naturale", vi sono inoltre più copie, una in Firenze nella
Magliabechiana, due ancora in Parigi, nella Bibl. dell'Arsenale
n.° 14 e in quella di S.ta Genoveffa n.° 15. La dicitura italiana
vi si mostra oltremodo rozza; alcune parole esprimenti gli organi
sessuali e gli atti generativi non si potrebbero ripetere, e si
direbbe aver l'autore sentita l'influenza del linguaggio
dell'ergastolo nel torrione e in S. Elmo. Il Berti, ispiratosi
senza dubbio alla lettura della Monarchia di Spagna, degli
Aforismi etc., ha giudicato che "queste versioni italiane... fatte
per lo più con correzioni e purgatezza si potrebbero raccogliere e
pubblicare"(464); ma si tratta in realtà di composizioni
originarie, ed alcune tra esse, in particolare quella Del Senso
delle cose, sono tutt'altro che purgate. Notiamo poi nell'opera,
sotto il punto di luce del nostro argomento, il ricordo di fra
Pietro di Stilo più volte e quasi sempre in termini affettuosi; il
ricordo analogo di D. Lelio Orsini due volte; fino ad un certo
punto il ricordo anche de' Ponzii, là dove, recando un esempio,
dice, "et così nel senso che quando vedo Pietro mi pare vedere
Dionisio perché simigliano". Notiamo ancora il ricordo indiretto
del trovarsi carcerato, là dove, parlando della calamita, dice,
"non sò se miri al polo antartico, che non mi lice parlare a'
naviganti" (nella trad. lat. "non licet misero navigantes
interrogare"); dippiù il ricordo dell'essere a lui pure riuscito,
come all'Orsini, di atterrire con lo sguardo e con la voce coloro
i quali lo teneano preso, alludendo con ogni probabilità ai
momenti più acuti della sua pazzia; e da ultimo il ricordo che "li
profeti hoggi si chiamano brabanti (leg. birbanti) et sciagurati
dall'empio volgo", alludendo in modo chiarissimo alle condizioni
proprie. Ma sopratutto crediamo notevoli varie affermazioni che si
direbbero ostentati ripudii delle accuse mossegli nel processo di
eresia, e in ispecie le ripetute affermazioni dell'esservi angeli
e diavoli indubitatamente, dell'essere "empia" l'opinione che non
esistano demonii ma solo esorbitanze d'umore melanconico,
dell'essere "una sfacciataggine" negare che l'uomo comunichi con
gli angeli e demonii e con Dio; alle quali affermazioni si trovano
associate le altre, che "per esperienza propria" avea conosciuto
solamente diavoli, i quali gli erano apparsi e si erano sforzati
di fargli credere la trasmigrazione delle anime e la mancanza di
libero arbitrio, oltrechè gli avevano predette cose vere e false,
ed egli avea pregato Dio che gli facesse vedere angeli buoni e non
l'avea "mai impetrato", ma era diventato per la malignità del
diavolo "più huomo da bene". Taluna di queste proposizioni, così
spinte, fu poi alquanto smussata nella traduzione, e così "la
sfacciataggine" fu detta "imprudentia": ma l'essere "divenuto più
huomo da bene" si elevò a "sanctior evasus"; e in tutti i conti il
Campanella aggiunse con asseveranza, "né questa è esperienza de
sciocco né(465) di bugiardo, che dell'uno et dell'altro sempre mi
guardai più che del diavolo stesso", ciò che fu tradotto "nec
experientiam narro imperiti, timidi, vel mendacis hominis,
utrumque enim vitavi semper sicut pestem diram". Intanto
nell'ultimo libro dell'opera si trova notata un'altra circostanza,
ma in modo assai oscuro: "Porfirio e Plotino aggiungono che vi
siano gli Angeli buoni et perversi, come ogni dì si vede
esperienza et io ne ho visto manifesta prova, non quando la
cercai, ma quando pensava ad altro (lat. non quando investigatione
avida id tentavi sed quando aliud intendebam); però non è
meraviglia se al curioso Nerone non sono comparsi": ignoriamo a
quale momento il Campanella alluda, ma parlandosi della curiosità
di Nerone non soddisfatta, e sapendosi che Nerone volle vedere i
diavoli senza potervi riuscire, è certo che finqui il Campanella,
ripetendo quanto cantava nelle Poesie, non aveva ancora progredito
al punto da essergli comparsi angeli, come poi gli comparvero più
tardi, essendosi sempre più ingolfato nelle dottrine de' Santi. Da
ciò rimane anche chiarita la data di questa ricomposizione in
italiano dell'opera Del Senso delle cose(466).
In gennaio 1605 abbiamo ragione di credere che il Campanella siasi
occupato de' due opuscoli intitolati Del Governo del Regno e
Consultazione per aumentare le entrate del Regno. Lo argomentiamo
dal fatto che in questo tempo appunto, dopo di avere aspettato
invano qualche provvedimento intorno alla sua persona, dovè uscire
dal raccoglimento, non far più un mistero delle sue buone facoltà
intellettuali, e sotto gli auspicii di fra Serafino di Nocera
trasmettere proposte e promesse mirabili al Vicerè, naturalmente
per conquistarne la grazia ed essere chiamato innanzi a lui.
Certamente le proposte doverono essere analoghe a quelle espresse
negli opuscoli, e naturalmente questi non si potevano ancora
presentare, senza svelare e compromettere la comodità di scrivere
di cui il prigioniero godeva; mentre poi era pure necessario che
fra Serafino, il quale dovea presentare tali proposte, ne avesse
avuto un cenno scritto, vale a dire avesse avuto gli opuscoli, i
quali ne trattavano. D'altronde sappiamo che almeno la
Consultazione fu poi data allo Scioppio separatamente dalle altre
opere, ma nello stesso periodo di tempo, un poco prima o un poco
dopo della data in cui le opere furono inviate, come apparisce da
una delle lettere del Campanella pubblicate da noi(467); sicchè
laddove sia corso un qualche intervallo tra l'aver ventilate le
proposte e l'averle scritte, esso sicuramente non fu molto lungo.
L'opuscolo Del Governo del Regno non è pervenuto sino a noi; la
Consultazione col titolo di Arbitrio o Discorso primo sopra
l'aumento dell'entrate del Regno di Napoli, fu scoperta dal
Dragonetti nella Casanatense e poi con accurato lavoro pubblicata
dal D'Ancona. Quantunque relativa ad un tema niente affatto
biblico, il Campanella, pur facendo proposte non indegne di
considerazione, vi fa campeggiare la Bibbia largamente e vi si
mostra un fervido religioso: e dev'essere notato che malamente nel
Syntagma fu scritto essere stata diretta "al Conte di Lemos", ciò
che rimanderebbe la cosa al 1610. Fin dalle prime parole
dell'opuscolo si vede che l'autore si dirige ad un Vicerè
tenerissimo dell'annona, e sappiamo che il Conte di Benavente se
ne occupò davvero con un'attività e severità straordinarie:
nell'ultima pagina poi, evidentemente aggiunta con alcune altre
dopo che si riuscì a far accogliere l'opuscolo dal Vicerè, è detto
che il Torres Segretario di S. E. lesse l'opuscolo; e sappiamo dal
Capaccio, come dal Parrino, che D. Baldassare Torres fu Segretario
del Conte di Benavente con autorità eccessiva, tanto che le
popolazioni assai se ne dolsero, ma assai più si dolsero poi di
averlo perduto. - Lo stesso dobbiamo dire di due altri Discorsi,
qualificati secondo e terzo, che abbiamo trovato nella Casanatense
al sèguito del precedente e che diamo oggi alla luce, essendo
parte integrante della Consultazione, siccome mostra anche il
cenno fattone dallo Scioppio in una delle sue lettere pubblicate
non ha guari dal Berti(468). Mentre il primo tratta propriamente
dell'annona, il secondo tratta della moneta scadente o falsa, e il
terzo della pena di morte. Da ognuno di questi articoli il
Campanella intende trarre un utile di 100 mila ducati pel Governo,
300 mila in tutto, mercè provvedimenti benefici in pari tempo alle
popolazioni; ma l'aumento dell'entrate è il suo scopo principale,
sicchè le sue proposte riescono vere proposte di occasione, fatte
per rendersi propizii i potenti, come già abbiamo annunziato fin
da principio verificarsi ampiamente nelle opere del periodo
attuale. Il Dragonetti non pose mente a questo fatto nel giudicare
il Discorso primo relativo all'annona, e però tanto più crediamo
necessario farlo rilevare.
In sèguito, dal febbraio al luglio 1605, rivolgendo i suoi sguardi
al Papa, dopo di averli inutilmente rivolti al Vicerè, il
Campanella dovè porre mano alla Monarchia del Messia coll'annesso
capitolo De' dritti del Re di Spagna sul nuovo mondo, ed ancora
alla Ricognizione della Religione secondo tutte le scienze contra
l'anticristianesimo machiavellistico, cui lo Scioppio volle poi
dare invece il titolo di Atheismus triumphatus. Lo argomentiamo
dal fatto che appunto nel luglio 1605 o qualche mese più tardi
secondo i nostri còmputi che più sotto esporremo, il Campanella si
procurò la visita del Nunzio e del Vescovo di Caserta dicendo di
volersi accusare, e manifestò in essa i principii che andava
svolgendo nelle dette opere, essere sicuramente venuto il tempo di
"far una greggia et un Pastore", avere "esaminato la fede con la
filosofia Pitagorica, Stoica, Peripatetica, Platonica, Telesiana e
di tutte sette antiche e moderne" etc. etc., ed avere "con tutte
le scienze finalmente humane e divine assicurato se stesso et gli
altri che la pura legge della natura è quella di Christo a cui
solo li Sacramenti son aggiunti" etc.; con singolari affermazioni
di aver ottenuto da Dio rivelazioni e potestà di difendere il
Cristianesimo dopo di essere stato con altri ingannato dal
diavolo, potestà perfino di far miracoli etc. La Monarchia del
Messia fu scritta in italiano, messa da parte una volta e
ripigliata tra mano più tardi; molto più tardi poi fu tradotta in
latino. Ne esistono ancora in italiano una copia in Lucca, nel
codice 2618 più volte citato, due in Parigi, nella Bibl. nazionale
n.° 985, e nella Bibl. di S.ta Genoveffa n.° 3, inoltre una in
Londra, nel Brith. Mus. n.° 2255. Il non trovarsene alcuna nelle
Bibl.e di Napoli ci ha tolto di poter vedere se e quali differenze
vi siano tra il manoscritto in italiano e il libro che fu poi
stampato in latino a Jesi nel 1633; ma crediamo bene che non vi
siano differenze contemplabili, sapendo per prova che il
Campanella nelle traduzioni è stato sempre fedele alle
composizioni originarie (salvo il caso in cui qualche brano fosse
riuscito troppo spinto in un senso o in un altro), forse perché le
composizioni originarie si trovavano sempre già diffuse nel
pubblico ed egli non volea mostrare di aversi a correggere.
Naturalmente nella Monarchia del Messia la Bibbia campeggia in
modo quasi esclusivo. Allorchè la diede alle stampe, disse in una
prefazione che il libro si connetteva agli altri anteriori della
Monarchia del Messia; e così dicendo ci pare che abbia alluso alla
"Monarchia de' Cristiani" e al "Governo della Chiesa", mentre
quando cita la prima di queste due opere nell'elenco mandato il
1606 al Card.l S. Giorgio, dice che essa offre i soli primi
fondamenti, poichè egli "anchora non haveva proceduto nelle leggi
e profezie, ma solo per historia politica e natura", e quando la
cita nella lettera latina al Papa, la chiama addirittura
"Monarchia del Messia". Ma la Monarchia del Messia di cui qui
parliamo non si trova registrata negli elenchi mandati il
1606-1607 a' Cardinali e al Re di Spagna, e si trova poi
nell'elenco mandato in giugno o luglio 1606 allo Scioppio: ciò
vuol dire che essa fu condotta a termine solamente verso
quest'ultima data, né deve sorprendere che non si trovi
nell'elenco mandato al Re, che è quasi contemporaneo, poichè
conveniva poco nominarla al Re, al quale si vede anche la
"Monarchia universale de' Cristiani" annunziata col titolo di
"Monarchia universale alli Principi Christiani". - Quanto
all'Ateismo debellato (lo chiamiamo fin d'ora così pel vantaggio
della brevità), esso dovè essere scritto fin dall'origine in
latino, ovvero, se fu cominciato in italiano, dovè essere presto
tradotto e poi compiuto in latino acciò potesse meglio servire
allo Scioppio, per cui fu compiuto ed a cui fu dedicato; e può
dirsi che precisamente al tempo nel quale fu menato a termine, il
Campanella abbia abbandonato il costume di comporre dapprima in
italiano per poi tradurre in latino. Sicuramente fu menato a
termine del pari verso la metà del 1607, essendo rimasto
interrotto per qualche tempo: difatti esso si trova già
chiaramente indicato nelle lettere del 1606 a' Cardinali, ma quasi
in un poscritto, non figurando negli elenchi delle opere ad essi
mandati, ed invece figura nell'elenco del 1607 mandato al Re, col
titolo "La esamina di tutte le sette del mondo a paragon del
Vangelio con la ragion comune e di tutte scole" etc.; la qual cosa
contribuisce a dimostrare quanto abbiamo sostenuto nella nostra
precedente pubblicazione sul Campanella circa la data della
lettera al Re, assegnandole probabilmente quella del giugno 1607,
mentre appunto verso tale data l'Ateismo fu certamente compiuto e
mandato allo Scioppio con tutte le altre opere disponibili.
Dovrebbe anzi dirsi che il Campanella vi abbia lavorato fino
all'ultima ora, se si trovasse realmente esatto quanto affermò lo
Struvio, che cioè nella copia mandata allo Scioppio tutta la
materia dal cap. 7° all'11° fu scritta di mano dell'autore. Senza
pretendere menomamente di dare un cenno qualunque di tale opera,
meravigliosa per essere stata scritta in una fossa e lungi dal
corredo opportuno di libri che ad ogni altro sarebbero stati
indispensabili, ci limiteremo a far avvertire che essa era
destinata a mostrare come l'autore oramai, perfino co' soli lumi
della filosofia e della critica, fosse giunto a convincersi
profondamente della verità della fede di Cristo, e si sentisse
tutto fuoco e fiamme contro gli Atei, contro gli Anticristiani,
contro i Machiavellisti e il Machiavelli; che al tempo medesimo
essa era destinata a rappresentare la confutazione e la condanna
delle tante accuse mosse all'autore col processo di eresia, la sua
professione di fede ardente, in modo da farlo stimare capacissimo
d'imprendere e conseguire cose grandi, qualora, s'intende, fosse
stato posto in libertà. Dedicata poi allo Scioppio, che appariva
l'unico aiuto possibile e che era noto per la rabbia fanatica ed
insolente contro i suoi antichi correligionarii, l'opera riuscì
forse anche per questo assai piccante, e però venne a procurare
giudizii molto ostili all'autore da parte degli Acattolici, senza
nemmeno conciliargli la benevolenza del Capo del Cattolicismo. Per
noi riescono notevoli sopratutto alcune parti di essa, che offrono
la confutazione di cose particolarmente addotte nel processo di
eresia e contemplate con molta puntualità: così accade p. es. a
proposito dell'Eucaristia, ove si parla della "contumelia vermium,
muscarum et murium", e si muove la quistione "cur irrisa
Eucharistia miracula non facit semper"; egualmente a proposito
della "religio colendi imagines", del "colere Crucem in qua
repraesentatur crucifixus", del "peccatum Adae", del "transitus
maris rubri", etc. etc. Notevoli riescono inoltre le narrazioni
circostanziate, ma pur sempre oscure, di quel tale astrologo che
istruì un giovane incolto ad invocare gli angeli de' pianeti,
d'onde si ebbe la comparsa di diavoli e una quantità di
rivelazioni, con la conclusione che essi separarono poi il giovane
dall'astrologo e lo trassero a morte violenta: non può qui non
colpire che il Campanella parli di un astrologo, e taccia delle
posteriori comparse di angeli con le rivelazioni e facoltà
ottenute, mentre, al tempo in cui il libro fu compiuto, già con le
sue lettere del 1606 al Papa e a' due Cardinali aveva affermato
essere stato quel giovane istrutto da lui medesimo, ed avere poi
lui medesimo visto altri diavoli e da ultimo angeli; si direbbe
che nell'opera egli avesse avuto ritegno di esprimere apertamente
quanto si era permesso di esprimere nelle lettere
confidenziali(469). E si sa che lo Scioppio non tradusse in
tedesco l'opera né la pubblicò, come l'autore desiderava, e dovè
l'autore medesimo pensare a pubblicarla quando divenne affatto
libero, nel 1630, ma fu obbligato ad aggiungervi in alcuni punti
le autorità de' S.ti Padri, mutando lo stile filosofico in
teologico; che più tardi, perfino dopochè l'opera era stata
ampiamente approvata e pubblicata, vi si trovarono altri appicchi
né si consentì che fosse ripubblicata, e in somma Roma finì per
non rimanerne contenta. Si sa d'altro lato che presso gli
Acattolici l'avere spiattellato tutti gli argomenti
degl'increduli, come pure l'averla tirata troppo contro il
Machiavelli, diè motivo di far dubitare della sincerità
dell'autore. Ma basta aver chiarita l'occasione nella quale
l'opera fu scritta, meritando senza dubbio tale occasione di
essere molto bene considerata.
Diremo ora in breve delle altre opere appartenenti a questo stesso
periodo, scritte fra le interruzioni delle precedenti, secondochè
le circostanze le facevano apparire all'autore più o meno atte a
procurargli la libertà. Dopo l'agosto 1605 egli ebbe
verosimilmente ad occuparsi de' due trattati, de' quali si trova
fatta menzione negli elenchi delle opere mandati a' Cardinali
Farnese e S. Giorgio, col titolo Cur sapientes et prophetae
Nationum omnium in magnis temporum articulis fere omnes
rebellionis et heresis tamquam proprio simul crimine notentur ac
morti violentae subjaceant, et postmodum cultu et religione
reviviscant": l'esito del suo colloquio col Nunzio e col Vescovo
di Caserta spiega ad un tempo l'interruzione dell'Ateismo e la
convenienza de' detti trattati; pertanto è notevole che essi non
si trovino registrati nell'elenco mandato in sèguito al Re. Forse
l'autore stimò più conveniente metterli da parte dirigendosi
all'Autorità civile, mentre vi si parlava della "morte violenta
de' filosofi" come di un affare ordinario e consueto; forse anche
egli li fece presentare appunto al Nunzio e al Vescovo di Caserta
non appena li compose, e così potrebbe pure spiegarsi che siano
andati perduti; infatti non li troviamo nemmeno nell'elenco delle
opere mandate allo Scioppio. - Il titolo medesimo de' detti
trattati ci mena a ritenere che subito dopo egli abbia posto mano
alla ricomposizione degli Articoli profetali con una maggiore
ampiezza, quali son pervenuti, tuttora manoscritti, fino a noi:
essi figurano negli elenchi mandati così a' Cardinali come al Re
con la nuova intestazione, De eventibus praesentis saeculi
Articuli prophetales 18. La nuova intestazione e il numero degli
Articoli mostrano bene che non si tratta qui degli Articoli
primitivi; il numero medesimo mostra che al tempo in cui l'autore
redigeva i detti elenchi, gli Articoli non erano compiuti ancora,
poichè egli credeva che dovessero raggiungere il n.° di 18, ed
invece non oltrepassarono il n.° di 16, come si trovano in più
Biblioteche(470). D'altronde sappiamo che nel giugno o luglio 1607
il Campanella non potè o non volle ancora mandarli allo Scioppio,
il quale vivamente li desiderava trovandosi impegnato in una
quistione circa l'Anticristo, provocata da una sua opera su tale
argomento; e una lettera posteriore del Campanella, da noi
pubblicata, mostra che in novembre 1608 erano già pronti, sicchè
per essi bisogna contare un anno iniziale 1605-1606 e un anno
finale 1608. - Ma ecco ancora un'altra opera, per la cui
composizione dovè rimanere interrotta egualmente quella degli
Articoli, vogliamo dire i tre libri intitolati Antiveneti, a'
quali è del tutto naturale assegnare la data della fine di agosto
e mesi seguenti 1606, non appena l'autore ebbe notizia
dell'interdetto lanciato dal Papa Paolo V contro Venezia, come si
desume dalla 1a e 2a lettera al detto Papa pubblicate dal
Centofanti: a questa data il Campanella diè fuori febbrilmente le
rivelazioni del diavolo e quelle dell'angelo, alle quali i fatti
di Venezia si prestavano in un modo magnifico; gli Antiveneti
doverono essere composti con ottima vena in un tempo relativamente
breve, e si trovano registrati nell'elenco delle opere mandate
allo Scioppio. - Inoltre, un po' più tardi, egli dovè senza dubbio
ricomporre ed ampliare i Discorsi a' Principi d'Italia, che
dapprima verosimilmente erano in una forma più ristretta; lo si
può argomentare anche vedendo che gli elenchi inviati a' Cardinali
recano "Un discorso a' Principi" etc., mentre le copie manoscritte
che tuttora ci rimangono in gran numero sono abbastanza voluminose
recando 11 o 12 discorsi, e, ciò che più monta, citano tutte assai
spesso non solo la Monarchia di Spagna, ma anche la Monarchia del
Messia, il Discorso de' dritti del Re Cattolico sul nuovo mondo,
gli Articoli profetali; né vi manca (alla fine del disc. 7° od 8°
secondo le diverse copie) una menzione dell'"empio Machiavello"
che ricorda troppo l'Ateismo debellato appena compiuto e forse non
ancora compiuto(471). La data di siffatto lavoro può dirsi quella
de' primi mesi del 1607, quando Cristoforo Pflugh fece acquistare
al Campanella la conoscenza dello Scioppio, che appunto allora fu
nominato Consigliere Austriaco e designato dal Papa ad andare
invece del Nunzio al Congresso di Ratisbona. Tutte queste
circostanze di tempo di luogo e di persone, che si vedranno
giustificate più in là, fanno intendere le opinioni manifestate
dal Campanella ne' Discorsi, i quali doveano servire a rendergli
propizii il Re di Spagna, l'Imperatore e gli Arciduchi di Austria.
Aggiungiamo che specialmente dopo di avere acquistata la
conoscenza di Gaspare Scioppio, ed anche del medico Gio. Fabre di
Bamberga residente in Roma, nel corso del 1607 e in parte nel
1608, il Campanella ebbe a scrivere diversi opuscoli epistolari,
come quello Sul modo di evitare il freddo, quello Sulla sordità e
l'ernia, e gli altri tutti da noi pubblicati, cioè Sulla peste di
Colonia, Sul modo di evitare il calore estivo, Sul
Peripateticismo, Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo,
Sul Pieno e sul Vacuo; avremo occasione di parlarne nel corso
della nostra narrazione(472).
Possiamo oramai venire al racconto de' particolari di ciò che il
Campanella imprese per uscire dalla fossa di Castel S. Elmo e
riacquistare la libertà: egli medesimo ne parlò segnatamente nelle
lettere che scrisse più tardi, in agosto 1606, al Papa Paolo V e
al Card.l Farnese; e da questi fonti possiamo attingere le
principali notizie ed anche argomentare le date approssimative
degli avvenimenti, alle quali siamo sempre usi di annettere molta
importanza(473). "Dopo 5 mesi di stento" (così egli si espresse)
propose al Vicerè di fare in servizio del Re cose mirabili, che
importavano più che tre regni con aver parole del cielo, ma il
Principe non volle ascoltarlo né cavarlo da quella fossa orrenda,
né dargli agio di scrivere quelle cose né di difendersi; "dopo 6
mesi" ottenne con arte di parlare al Nunzio e al Vescovo di
Caserta, dicendo che si voleva accusare (vedremo tra poco in qual
maniera si accusò e quali risposte ne ebbe), ed erano scorsi già
"10 mesi" senza che potesse trovar credito (tale è il significato
della espressione volgare da lui adoperata, "aver udienza").
Fermandoci dapprima alle date, ammesso il trasporto del Campanella
a S. Elmo nel luglio 1604, abbiamo che egli si sarebbe rivolto al
Vicerè nel gennaio 1605, e poi avrebbe ottenuto di poter parlare
al Nunzio e al Vescovo di Caserta nel luglio dello stesso anno;
così il 13 agosto 1606 erano scorsi all'incirca dieci mesi, e
diciamo "all'incirca" perché vi sarebbe una differenza di poco
oltre due mesi, i quali del resto avrebbero potuto essere scorsi
dalla data dell'assentimento ad una visita alla data della visita
fatta; tenuto conto della stagione la cosa riuscirebbe
naturalissima, ed allora il colloquio dovrebbe dirsi avvenuto in
settembre od ottobre 1605. D'altronde non deve sfuggire che se si
ammettesse il trasporto a S. Elmo avanti il luglio 1604, il conto
non potrebbe tornare in alcun modo, e però le date anzidette sono
le approssimative unicamente possibili. In qual modo il Campanella
abbia fatte le sue proposte al Vicerè, emerge precipuamente da ciò
che sappiamo intorno a' suoi opuscoli Del Governo del Regno, e
Consultazione sopra l'aumento delle entrate. Dovè presentarsi fra
Serafino di Nocera, esporre principalmente i rimedii escogitati
intorno all'annona, che tanto teneva occupato il Conte di
Benavente, poi anche quelli intorno alla moneta scadente e alla
pena di morte nel senso di far guadagnare altri 200 mila ducati,
ed indicare la provenienza di ciò che aveva esposto mettendo fuori
il nome del Campanella, capace di queste e di molte altre cose
mirabili; ma non dovè trovare buona accoglienza, e così il
Campanella potè poi dire che il Principe non volle ascoltarlo.
Parrebbe che fra Serafino avesse anche sollecitato pel Campanella,
ed inutilmente, il permesso di porre in iscritto le sue idee; ma
se così passarono realmente le cose, non potrebbe trarsene la
conseguenza che il Campanella non avesse già scritti questi
rimedii intorno alle entrate, ed anche altri libri, poichè
conveniva tenere tale fatto nascosto. Le sue "cose mirabili"
furono ricordate egualmente nelle lettere del 1606 ai Cardinali,
nella lettera del 1607 al Re, e tanto più tardi ancora nel
Memoriale del 1611 al Papa che pubblicò il Baldacchini, non senza
un qualche miglioramento ed accrescimento ulteriore: a capo di
esse nel 1606-1607 troviamo sempre, e sotto pena della mutilazione
di una mano nel caso di menzogna, il far aumentare le rendite nel
Regno di 100 mila scudi oltre l'ordinario, appunto ciò che si
legge ne' primi versi della Consultazione; poi vengono altre
promesse, far guadagnare per una volta 500 mila scudi per una
impresa importantissima a tutti i negozii d'Europa, fare un libro
ove si mostri venuto il tempo di riunire tutte le genti sotto una
sola legge ed un principato felicissimo etc., fare un altro libro
segreto al Re ove si mostri il modo di arrivare a questa
monarchia, e così tante altre cose atte ad eccitare l'estro del
soprannaturale e l'ingordigia terrena(474). Molte di queste cose
erano evidentemente "parole di cielo", e del resto la
Consultazione medesima si vede saper tanto di cielo che è un
piacere. Malgrado ciò, non fu possibile piegare l'animo del
Vicerè, come non fu possibile nemmeno di piegar l'animo del Papa
in sèguito. Intanto il Campanella mostrava che la sua pazzia era
finita; e siamo in grado di esporre l'esito finale delle dette
pratiche, poichè dagli ultimi brani di ciascun Discorso della
Consultazione, aggiunti come poscritti più tardi, se ne può
rilevare qualche notizia. Solamente dopo alcuni anni l'opuscolo
venne accolto in Palazzo, ove fu portato dal P.e Pegna (un P.e
Gaspare Pegna forse Domenicano, del quale non ci è riuscito finora
saper altro), e il Segretario Torres, che lo lesse, approvò taluni
mezzi in esso suggeriti, contro altri fece varie obiezioni alle
quali il Campanella rispose. In particolare circa l'annona il
Torres comandò che l'autore scrivesse sopra un altro punto: ma il
Campanella fece sapere che ne avea scritto nella Monarchia già
mandata al Re, appellandosi al Vescovo di Monopoli il quale l'avea
letta, e si rifiutò di scriverne ancora volendo essere "inteso a
bocca" da S. E., costante desiderio che non fu mai esaudito.
L'appello al Vescovo di Monopoli ci mostra che tutto ciò dovè
accadere non prima del 1608, quando già al Campanella erano state
procurate molte commendatizie presso il Vicerè, come sappiamo da
altri fonti, e il Vescovo di Monopoli P.e Gio. Lopez Domenicano,
rinunziata la sua Chiesa per grave età, e giunto in Napoli, vi era
trattenuto dal Vicerè qual suo Consigliere intimo, sino a che gli
fu concesso di ritirarsi a Valladolid sua patria(475).
Fermandoci alle mosse del Campanella nel 1605, riuscita inutile
quella fatta in gennaio presso il Vicerè, dicevamo che in luglio
ne fece un'altra presso il Nunzio e il Vescovo di Caserta: e qui
innanzi tutto dobbiamo avvertire che Nunzio era ancora
l'Aldobrandini, ma Vescovo di Caserta era fra Diodato Gentile,
successo già al Tragagliolo nel Commissariato generale del S.to
Officio in Roma, e poi successo al Mandina defunto nel Vescovato
di Caserta, con exequatur del 24 luglio 1604, occupando del pari
la carica di Ministro della S.ta Inquisizione nel Regno. Senza
dubbio per far uscire il Nunzio dalla sua apatia verso di lui, il
Campanella disse di volersi accusare, onde il Vescovo di Caserta
fu chiamato ad intervenire egli pure; e così il Campanella potè
anche dire di averli chiamati "con arte". Naturalmente, più o meno
presto, essi doverono recarsi a S. Elmo, ed ivi in qualche sala
ascoltare il Campanella, ma non videro la sua prigione: questo
leggesi in un altro brano della lettera a Paolo V, ove il
Campanella racconta che Mons.r Nunzio vide il carcere di fuori, e
per non avere a contradire al Vicerè non entrò né mandò a vederlo,
e disse che era buono, "nel modo ch'ogni sepoltura par buona di
fuori". Ecco ora il discorso del Campanella e le osservazioni de'
due Vescovi; sarà meglio far parlare il Campanella medesimo:
"M'accusai come, per mancanza dello spirito, che trovai tra'
Cristiani molto difformi dell'antichità e profession nostra, mi
risolsi ad esaminar la fede con la filosofia Pitagorica, Stoica,
Epicurea, Peripatetica, Platonica, Telesiana e di tutte sètte
antiche e moderne, et con la legge delle genti antiche e d'Ebrei,
Turchi, Persiani, Mori, Chinesi, Cataini, Giaponesi, Bracmani,
Peruani, Messicani, Abissini, Tartari, et com'ho con tutte le
scienze finalmente humane e divine assicurato me stesso et gli
altri che la pura legge della natura è quella di Christo, a cui
solo li Sacramenti son aggiunti per aiutar la natura a ben operare
con la gratia di chi l'ha dati; et che son pur simboli naturali et
credibili: et vidi come Dio lasciò tante sètte caminare, e la
mancanza dello spirito in noi, e lo scompiglio della natura e suo
fine. Onde son fatto possente a difensar con tutto il mondo il
Christianesmo; che fui sentinella fin mò dell'opere di Dio. E come
la divina Maestà disegna in questo tempo far una greggia et un
Pastore, e 'l giudicio dell'errore di tante nationi, e quel che
soprastà al Christianesmo: e li sintomi celesti et terrestri del
mondo morituro per fuoco, contra li filosofi con S. Pietro et
Heraclito. La difficoltà del mondo nuovo, e dell'incarnatione et
altri articuli difficultosi, l'esamina delle profetie e miracoli
veri e falsi d'ogni setta. Et com'io et altri fummo ingannati dal
diavolo aspettando scienza e libertà da lui, credendoci che fosse
Angelo, e poi Dio, secondo si fingeva; e come, dopo lunga dieta,
Dio benigno condescese al mio desiderio, che mai non fu maligno,
se fu erroneo: e presentai memoriale di questa, e molti capi di
cose faciende ad utile del Christianesmo. Nondimeno Monsignore
Nuntio rispose ch'io era poco humile. Non so se l'ha fatto per
provarmi: perché ben so ch'è scritto nella Sapienza: Qui intuetur
illam permanebit confidens: et che l'humiltà è magnanima et non
vile, et io certo so che mai non ho bramato dignità né honori, et
a tutti vilissimi servitii ho posto mani. Sed neque me ipsum
judico. Monsignor di Caserta fece conseguenza, ch'havendo io
vagato per tante sètte, e cercato li miracoli veri e falsi, e le
profetie e la novità del secolo, com'egli lesse nel mio processo
in Roma, non havevo cattivato me ad ossequium Christi: e che mò
voglio far miracoli falsi per scampare o allungar la vita. Ben
fanno a non creder subbito; ma negarmi l'esperienza, o scriver a
V. B. che "non la voglia vedere, è un negar lo spirito di Dio, che
ubi vult spirat, et seguir lo spirito degli huomini: Venite
cogitemus adversus Jeremiam" etc. Così il Campanella mostrava
anche da questo lato che la sua pazzia era finita e già da qualche
tempo, tanto che avea visto anche con altri il diavolo, e poi,
dopo lungo aspettare in penitenza, Dio l'aveva esaudito ed oramai
si sentiva in grado di far cose mirabili ad utile del
Cristianesimo. Quali abbiano dovuto essere queste cose, delle
quali diè "molti capi", si può comprenderlo dagli elenchi più
volte indicati, estraendo da essi i capi relativi appunto
all'utile del Cristianesimo: dovè quindi promettere di far il
libro in dimostrazione della prossima fine del mondo coll'unione
di tutte le genti costituendo una gregge ed un solo pastore, far
il libro contro i politici e Machiavellisti, un libro per
convertire i Gentili delle Indie orientali, un libro contro i
Luterani, ed andare in Germania ottenendovi la conversione di due
Principi protestanti e il discredito completo di Calvino, fare al
ritorno 50 discepoli contro gli eretici etc. etc. Di certo egli
dovè promettere anche di far miracoli, come non cessò poi di
prometterli più o meno esplicitamente fino al 1611; ed anche nella
sua prima lettera al Papa e in una lettera posteriore allo
Scioppio, pubblicate entrambe dal Centofanti, si dolse che il
Nunzio e il Vescovo di Caserta avessero chiamato finzioni, delirii
od astuzie, per uscire dal carcere, i suoi presagi, i suoi segni
nel sole, luna e stelle, e i miracoli che avrebbe fatto per
costringere ogni anima a riconoscere il Vangelo. Questo d'altronde
emerge dalle osservazioni medesime fatte da costoro, quali il
Campanella le narrò al Papa, da doversi dire in verità rispondenti
a quanto sappiamo del carattere dell'Aldobrandini, che ci è
abbastanza noto, e del Gentile, che parecchi documenti ci mostrano
spietato ed esorbitante non meno del Mandina(476). Secondo il
nuovo Vescovo di Caserta, il Campanella voleva "far miracoli falsi
per scampare od allungar la vita"; sicchè, nel concetto di questo
Vescovo, pel disgraziato filosofo si trattava sempre di avere a
perdere la vita più o meno presto. Dobbiamo intanto dire che il
Vescovo di Caserta, per parte sua, ebbe a scrivere qualche cosa a
Roma intorno a tale colloquio, ma il Nunzio non scrisse certamente
nulla, come ci mostra il suo Carteggio del 1605, ultimo anno di
ufficio per lui: che anzi in una sua lettera del 24 agosto 1605 al
Card.l Valenti, tenuto allora provvisoriamente da Papa Paolo "nel
luogo che si sogliono adoperare i proprii nipoti", passando a
rassegna, per sua giustificazione, i casi di torto giurisdizionale
da lui trattati, egli non citò punto il caso del Campanella, e
quindi dalla parte del Nunzio, non meno che dalla parte di Roma,
rimaneva non curato il torto ricevuto in persona del povero
filosofo, contentandosi che la sua causa non fosse spedita. Dalla
parte del Campanella poi ognuno avrà notato come, tanto presso il
Vicerè, quanto presso il Nunzio, egli non fece la menoma richiesta
che la sua causa fosse spedita; né veramente espresse mai più un
desiderio simile per lungo tempo, se non sotto certe condizioni.
Scorsero non meno di 10 mesi dal detto colloquio, e il 13 agosto
1606 il Campanella si spinse a rivolgersi direttamente al Papa,
moltiplicando anche questa volta i reclami e le lettere in più
sensi e non trovando requie per molto tempo. Sicuramente tanto
ritardo non provenne dall'essersi rassegnato, e lo dimostrano i
gridi di dolore che sovente erompono nelle dette lettere; ma
bisogna dire che egli non nutriva alcuna speranza di essere
ascoltato, e però non si mosse di nuovo se non quando avvenne un
fatto tale da tenere in agitazione vivissima l'animo del Papa; fu
questo l'interdetto scagliato a Venezia, seguito dalla superba
resistenza del Governo Veneto, e dall'abbandono del Papa in una
pessima condizione da parte di coloro medesimi che gli aveano
offerto aiuto. Allora appunto il Campanella tentò di profittare
dell'occasione e scrisse la sua lettera, nella quale comincia col
giustificarsi degli stratagemmi usati durante la causa (e
certamente del principale tra essi che era stato la pazzia, come
risulta dal veder citata l'autorità di S. Geronimo), si appella
mostrando la necessità di venir tradotto a Roma e l'impossibilità
di consentire che il giudizio della congiura ed anche dell'eresia
termini in Napoli, fa un racconto delle cose di Calabria e degli
avvenimenti posteriori come può farlo un giudicabile, riconosce
commessa da lui la colpevole imprudenza di aver servito alla
"revelation presente" ed esservi stato un "voluto, non fatto,
eccesso", chiede per giudici il Bellarmino e il Baronio ma non in
Napoli, coll'affermare che ha cose grandi, parole di cielo, da
dire al Papa e alla Chiesa, ed aggiunge un poscritto in cui
dichiara avere avuto nuova delle cose di Venezia, occorrere una
guerra spirituale e la chiamata di tutte le persone sante a Roma,
per parte sua obbligarsi a mostrare con miracoli stupendi la
verità del Vangelo ed allungare le profezie laddove sia
necessario. Questo poscritto apparisce l'occasione vera della
lettera, la quale è seguita poi da un'altra, o, se piace meglio,
da un allegato, in cui pel fatto di Venezia insiste sempre più
sulla necessità di venir tradotto a Roma, narra le rivelazioni
avute dal diavolo fintosi angelo tre anni prima, e per esse la
caduta di Venezia nel 1607 con la perdita di gran parte
dell'autorità del Papa, la caduta della dignità Pontificale e del
Senato Cardinalizio dietro uno scisma dopo il 1625; narra poi la
comparsa successiva di altri diavoli che l'afflissero, e in
sèguito, dietro preghiere a Dio, le rivelazioni vere che ebbe con
gli avvertimenti da dover dare a S. S.tà, e suggerisce consigli, e
cita profezie, e dichiara di voler parlare a S. S.tà e poi morire
etc. etc.
Importa commentare quest'altra mossa del Campanella, sempre più
degna di attenzione comunque rimasta senza il menomo effetto. Non
a torto dovè sembrargli molto opportuna l'occasione per rivolgersi
al Papa. Fin da' primordii del suo Pontificato Paolo V si era
mostrato assolutamente deciso a far rispettare ad ogni costo
l'immunità ecclesiastica, e dopo di aver fatta e facilmente vinta
una quistione con Lucca e poi con Genova in condizioni davvero
esorbitanti, avea voluto farne un'altra anche con Venezia, che non
si era mai adattata a riconoscere l'immunità ecclesiastica negli
Stati suoi(477). Annunziato dapprima con un Breve fin dal dicembre
dell'anno precedente, emanato dappoi nel solenne Concistoro del 17
aprile 1606 il gran Monitorio, che dichiarava incorsi nelle
scomuniche il Doge e il Senato Veneto per essersi rifiutati a
consegnare al Nunzio due scellerati malfattori, il Canonico
Saracino e il Conte Brandolino Abate di Narvese, Venezia si era
mostrata inflessibile, si che il Papa avea stimato opportuno
radunare un grosso esercito, e Venezia avea dovuto fare
altrettanto. Napoli, così vicina, non poteva rimanersi
indifferente, e dal Carteggio del Residente Veneto Agostin Dolce
si rilevano, con le rispettive date, i fatti avvenuti allora nella
città. I Gesuiti, irritati anche per essere stati espulsi da
Venezia i frati del loro ordine insieme co' Teatini e Cappuccini
ossequenti al Papa, gridavano nelle scuole contro Venezia e
diffondevano per la città alcuni presagi tratti specialmente dal
libro di M.° Antonio Arquato medico (in ciò i Gesuiti
s'incontravano col Campanella). Il Nunzio Mons.r Guglielmo Bastoni
Vescovo di Pavia, successo all'Aldobrandini fin dal dicembre
passato, benediceva pubblicamente la capitana delle galere che
partivano sotto il comando del Marchese di S.ta Croce per fare una
dimostrazione ostile a Venezia, mentre un inviato, Ugo de Moncada,
andava a Roma per dichiarare il Vicerè pronto a vendicare con la
persona e col Regno le offese che fossero fatte a S.ta Chiesa,
emulando le offerte del Conte di Fuentes Governatore di Milano e
de' Duchi di Modena e di Urbino. Ma appunto a' primi di agosto si
venne a sapere che il Marchese di S.ta Croce si era limitato a
veleggiare nelle acque di Brindisi, ciò che in realtà non era
tollerato da' Veneziani, ma avea finito poi col rivolgersi contro
i pirati di Durazzo ed espugnare questa città; che per armare le
galere si era preso il danaro de' privati dal Banco di S. Eligio;
che bisognava pensare a provvedersi di grano poichè quello
promesso, da doversi estrarre dalla Marca d'Ancona, non sarebbe
più venuto; che mancando il danaro, ed essendo le gabelle divenute
insopportabili, già si pensava di sospendere il pagamento degli
interessi agli assegnatarii (creditori dello Stato) come poi si
verificò; che per tutte queste ragioni non si sarebbe passato alle
armi, e in ultima analisi da Spagna erano venuti anche ordini di
non passare alle armi(478). Naturalmente il Campanella dovè
giudicare che oramai poteva provarsi presso un Papa tanto
attaccato all'immunità da pretenderla anche là dove non c'era mai
stata, e tanto poco avveduto da compromettere a quel modo
l'autorità Pontificia, riducendosi poi a supplicare almeno l'invio
da Napoli di un'Ambasciata a Venezia per trattare la pace, ciò che
fu commesso a D. Francesco de Castro accompagnato dal Duca di
Vietri, due nostre vecchie conoscenze.
Egli credè pertanto necessario rannodare la sua mossa alle
precedenti, dare alla sua lettera l'impronta di un "appello", che
secondo lui dovea render nullo il giudizio compiuto, siccome disse
tanti anni dopo nella sua Narrazione, e credè anche necessario
rifare la storia delle cose di Calabria, spingendosi ad
affermazioni che crediamo inutile dimostrare insussistenti dopo
tutto ciò che abbiamo visto nel corso della narrazione nostra.
Basterà citar quelle, che l'eresia fu trovata da' frati, che il
negozio de' turchi fu inventato da lui per non morire, che furono
appiccati sul molo uomini per altra causa, che fecero confessare a
Maurizio sub verbo regio mille bugie, che tutti morendo si
ritrattarono. Ma gioverà notare due cose: l'una, il bisogno che
sentì sempre di non essere messo a fascio con fra Dionisio
divenuto maomettano, "di cane fatto lupo pe' gridi di mali
pastori"; l'altra il nessun desiderio ed anzi il rifiuto di vedere
spedita la sua causa in Napoli. Su quest'ultimo punto egli si
espresse recisamente: non consentirebbe in Napoli a giudizio
alcuno, perché era odiatissimo, perché non vi erano aequa jura,
perché avrebbero detto al Nunzio che era finita la causa e lo
condannasse senza ascoltarlo (così difatti avrebbe dovuto
accadere). né si trattenne dallo scrivere: "questi giudici anche
ecclesiastici più tosto mi vorrebber trovar nocente che innocente,
perché... non si fidano né ponno difensarmi la innocenza, se in me
la trovano, come Nicodemo non difese Christo; ma sendo colpevole
senza briga ponno starsi e gratificarsi con questi Signori",
mentre "non hanno alcuna autorità se non di farmi male, perché son
ligati al farmi bene". In somma la sua causa era straordinaria e
dovea trattarsi in Roma, annullando, s'intende, ciò che si era
fatto sin allora, ed egli volea che si dimandasse la persona sua,
anche con l'obbligo di restituirla a Napoli qualora fosse trovata
in falso. Più tardi poi disse che non aveano potuto conchiudere la
causa della congiura in Napoli, perché non aveano in che
condannarlo: questa contradizione non ha bisogno di commento.
Ma un po' di commento occorre al fatto della comparsa del diavolo
tre anni prima, invocato da una persona che egli aveva istrutta a
pigliar l'influsso divino (sicuramente il Gagliardo), delle
rivelazioni avutene anche circa Venezia e il Papato, e poi della
comparsa di altri diavoli nella fossa, col sèguito delle grazie
ottenute per via di flagelli e di studii, dell'avere avute altre
rivelazioni, dell'esser divenuto capace di far miracoli, o,
secondochè disse poco dopo, dell'aver visto angeli ed avuto
autorità come quella di S. Giovanni a' farisei e potestà di far
miracoli più stupendi che quelli di Mosè(479). La frequenza ed
asseveranza, con le quali il Campanella parlò in prosa ed in versi
della comparsa del diavolo, delle rivelazioni avute e delle
conseguenze di esse, non possono non fare un certo peso; e la cosa
riesce di tanto maggiore interesse, in quanto che segna il punto
di partenza del suo passaggio definitivo, reale o simulato, nel
campo delle credenze cattoliche pure, e quindi riflette il vero
problema difficilissimo della vita del Campanella, cioè l'essenza
delle sue intime convinzioni religiose. Potrebbe ammettersi
un'allucinazione, ma non mai la "lunga aberrazione mentale", che
il Centofanti ha invocata e che si vede ricordata ancora da altri,
mentre il Campanella medesimo non fece poi un mistero che la sua
pazzia era stata simulata, e lo ripetè egualmente in prosa ed in
versi troppe volte, sebbene in qualche determinata circostanza
siasi contraddetto(480). Ci sembra pertanto che invece
dell'allucinazione riesca più verosimile trattarsi di un fatto
molto semplice, dell'evocazione de' diavoli esercitata dal
Gagliardo, amplificata e messa innanzi dal Campanella così per
premunirsi contro qualche nuova denunzia al S.to Officio
specialmente da parte del Gagliardo, come per procacciarsi qualche
via di uscita nelle sue tristissime condizioni, giustificando il
suo ritorno nel retto sentiero con un evento straordinario, ed
eccitando la curiosità e l'interesse del Papa, mentre poi, alla
peggio, avrebbe potuto tutt'al più acquistarsi una riputazione di
stravagante, che sarebbe sempre riuscita giovevole alla
conclusione della sua causa. Benchè si possa dire aver lui
veramente professata l'esistenza di spiriti buoni e rei, o "più o
meno buoni", custodi de' pianeti e delle stelle ed anche vaganti
pel mondo, dal processo di eresia conosciamo che con gli amici
suoi avea sempre riso del diavolo nelle condizioni e forme
comunemente ammesse; e conosciamo che il Gagliardo si era occupato
realmente di diavolerie, con ogni probabilità sotto gli occhi del
Campanella, ma nemmeno possiamo dire che l'avesse fatto con quella
larghezza e serietà che dalle affermazioni del Campanella
emergerebbero, poichè egli non si sarebbe trattenuto dal farne
parola nelle sue ultime deposizioni in S.to Officio, almeno per
tentare di allungar la vita; forse egli attese alle scene di
comparsa del diavolo, secondo il suo solito, per profitto, non che
per acquistarsi la considerazione e l'ossequio de' carcerieri, e
fu in questo agevolato dal Campanella che ne avea bisogno
egualmente, laonde non dovè poi dare a quelle scene tanta
importanza, e riesce un po' duro ad accettare che invece abbia
dovuto darcela sul serio il Campanella. Conosciamo poi che non
appena pose mano a comporre poesie ed opere nella fossa di S.
Elmo, il Campanella attestò dapprima il fatto puro e semplice
dell'apparizione evidente di diavoli a lui occorsa, ma con la
circostanza un po' singolare nel fondo e nella forma, che per quel
fatto era divenuto più uomo da bene (come abbiamo visto in qualche
poesia e nell'opera Del Senso delle cose); più tardi,
nell'Ateismo, tornò sul fatto corredandolo di molti particolari
misteriosi già più volte menzionati, né si trattenne
dall'affermare nelle lettere che gli era stata con inganno
promessa dal diavolo scienza e libertà, e dall'affermare nelle
poesie che gli era stato pure promesso che "sarebbe esaudito", che
"si canterebbe Viva Campanella nel fine del suo carcere"(481);
d'altronde in un brano dello stesso Ateismo debellato, lasciando
chiaramente intendere essere stato lui medesimo in relazione co'
diavoli per mezzo del Gagliardo, reca un'altra delle risposte
avute là dove dice, "Astrologo per juvenem interroganti de multis
dixerunt, quod ipse scripsisset de libero arbitrio, sed rectius
Calvinum". Dopo tutto ciò si ammetta pure che tra le bizzarrie del
Gagliardo, durante l'evocazione de' diavoli, vi sia stata quella
di far pronostici su Roma e su Venezia; ma nessuno vorrà credere
che il Campanella abbia prese sul serio altrettali visioni, e non
le abbia rivedute e corrette, aggiungendovi del suo tante
singolari particolarità oltrechè una coda non indifferente, in
vista de' suoi gravi bisogni. né ci sembra punto temerario il
ritenere che le visioni consecutive degli angeli, e le facoltà
ottenute da Dio, siano del medesimo stampo; e tutto il garbuglio
ci apparisce consentaneo all'indole del Campanella, perpetuamente
motteggiatrice anche nelle circostanze più terribili, rimanendo
vero soltanto che Dio gli avea concesse facoltà intellettive ed
operative straordinarie, atte a costituirlo, secondo il suo
concetto, condottiero della umanità con un migliore indirizzo.
Ma dunque il Campanella potè mentire a tal segno? Eh sì, non c'è
da farne le meraviglie, e c'è da farle invece perché si sia
mancato di riconoscerlo, mentre egli non mancò di dichiararlo,
segnatamente nelle sue Poesie; né adoperò alcuna circumlocuzione
nel dichiararlo, e se i posteri non hanno voluto capirlo, la colpa
senza dubbio non fu sua. Egli disse nettamente che era "bello il
mentire" in determinate circostanze, appellandosi agli esempî
della storia sacra e profana, e non meno nettamente pure disse che
i savii, per schifar la morte, "furon forzati a dire e fare e
vivere come gli pazzi, se ben nel lor segreto hanno altro
avviso"(482). né fu propriamente lui che inventò la trista massima
"intus ut libet, foris ut moris est", bensì egli fu costretto a
seguirla; né ci sorprenderebbe che si gridasse allo scandalo,
comunque pur oggi si tolleri con la più grande indifferenza che
quella massima sia seguita gloriosamente da tanti e tanti, senza
pur l'ombra delle condizioni del Campanella; basta considerare il
numero grandissimo degli spiriti forti in religione, e de'
partigiani de' così(483) detti grandi principii in politica, che
quasi sempre "nel lor segreto hanno altro avviso" per onta e
malanno dell'umanità. Ma bisogna anche guardarsi dal comparare le
cose grandi alle meschine, e però aggiungiamo di non credere che
possa rimanerne vulnerata la fama del Campanella presso le persone
non volgari. A niuno è venuto in mente mai che la fama di Galileo
Galilei sia rimasta vulnerata dall'avere, con la sua abiura,
affermato il contrario di ciò che pensava: l'infamia è ricaduta su
coloro che ve lo costrinsero, e pel Campanella, travolto in un
abisso di miserie che non ha riscontro nella storia de' nostri
uomini di lettere, non è possibile avere un concetto diverso senza
manifesta ingiustizia. Aggiungasi che egli si credeva nato per una
missione altissima, per "debellare i tre mali estremi, tirannide,
sofisma, ipocrisia", né semplicemente con lo scriver libri, come
potrebbe supporsi dietro monche notizie della sua vita; ed ebbe
poi a provare, nel modo più efferato, "il senno senza forza de'
savii esser soggetto alla forza dei pazzi" non solamente
dall'alto, ma anche dal basso, non solamente da parte de' grandi,
ma anche da parte del popolo le cui sorti egli si era sforzato di
rialzare, ciò che gli diede amarezza infinita, come si rileva da
più punti delle sue poesie. Eppure non disperò né si arrestò mai,
ciò che prova la ricchezza e la nobiltà della sua natura; ma
necessariamente tutte le maniere di astuzia doverono sembrargli
accettevoli, anche quelle che agli animi nostri, tanto distanti
dal suo, recano molto dolore. Così coloro i quali ebbero
l'opportunità o la sagacia di saperne o penetrarne i pensieri
intimi, lo apprezzarono maggiormente o lo vituperarono secondo i
proprii umori diversi; e son note certe qualificazioni denigranti
assegnate specialmente a talune delle sue opere più
caratteristiche, certi epiteti ingiuriosi affibbiati alla sua
persona, quando non si volle o non si seppe intendere che egli
aveva idee riposte, nemmeno tenute addirittura sepolte ed
erompenti sempre, perfino mentre era obbligato ad esternare idee
di tutt'altro colore per uscire dalla sua tristissima condizione.
Egli non tacque le sue idee riposte in politica e in religione,
che trovò modo di esporre con un vero stratagemma, secondo una
maniera non nuova ma più che ardita nello stato suo, facendo la
descrizione della immaginaria Città del Sole; e poichè nella sua
estrema vecchiezza ne curò la ristampa e vi aggiunse ancora le
Quistioni sull'ottima repubblica, composte veramente da un pezzo e
poi messe da parte, si ha motivo di ritenere che a queste idee,
con poche varianti, egli sia stato attaccato fino alla morte.
Intanto è costretto a salvarsi dall'ira universale, è costretto a
mostrarsi diverso da quel che è; non giunge per questo a
nascondere le sue interne credenze, e più volte anzi s'ingegna di
farle rilevare almeno a' savii, ma pur troppo i savii riescono
vigilanti solo tra' suoi avversarii o sonnecchiano affatto.
Perfino nella lettera che egli scrive in appello al Papa, lo si
vede deplorare "l'ecclisse di spirito" e che "bisogna credere o
andar prigione", lo si vede annunziare che il Cristianesimo è "la
pura legge della natura, a cui solo li sacramenti son aggiunti per
aiutare la natura a ben operare", non lodando così certamente lo
spirito della Curia, ed attribuendo a Dio creatore una parte
affatto preponderante su Dio salvatore. Nelle opere poi, nello
stesso Ateismo debellato, destinato a rappresentare la sua
rumorosa professione di fede atta a salvarlo, sia quando impiega
la maniera di esposizione ad utramque partem, sia quando adotta la
maniera di esposizione ordinaria ed obiectionibus occurrit, lo si
vede produrre con tanta larghezza gli argomenti degli avversarii,
da aggiungerne perfino molte volte taluni non prodotti mai e
suggeriti propriamente da lui. Il fatto trovasi notato da un pezzo
quasi come una scoperta, mentre, se fossero state sempre lette con
attenzione le cose del Campanella, si sarebbe visto che da lui
medesimo non era stato taciuto(484): pertanto esso ti rimane molte
volte incerto se l'autore abbia veramente voluto convincerti
appieno sull'opinione che sostiene, o invece illuminarti meglio su
quella che combatte; sempre poi ti obbliga a riflettere su quello
che espone e su quello che non può esporre, su quello che spesso
accenna doversi fare e che s'intende non poter fare. Ma il nostro
assunto ci trattiene dall'affisare lo sguardo in questo orizzonte
elevato, e ci richiama al penoso viaggio pedestre che abbiamo
intrapreso: solo dimandiamo di poter dichiarare ancora una volta,
che a nostro modo di vedere è indispensabile farlo questo viaggio
prima di librarsi a volo, in caso contrario si correrà il rischio
di una falsa strada(485).
IV. Noi potremmo fermarci qui, bastandoci di aver mostrato non
senza una certa larghezza le tre principali occasioni e maniere,
nelle quali il Campanella, dando un termine manifesto alla sua
pazzia, tentò successivamente ed infruttuosamente, presso lo Stato
e presso la Chiesa, di essere ascoltato per non rimanere sepolto
nella fossa di S. Elmo. Ci parrebbe tuttavia di non avere esaurito
il nostro còmpito, se non narrassimo anche il sèguito de'
tentativi da lui fatti ulteriormente ed a breve intervallo, non
solo presso la Curia Romana, ma anche presso la Corte di Madrid e
presso le Corti Cattoliche di Germania, con tutte quelle lettere e
mediante tutte quelle persone che abbiamo avuto bisogno di citare
più volte.
Nello stesso anno 1606, quasi immediatamente dopo di essersi
rivolto al Papa, egli invocò l'aiuto del Card.le d'Ascoli (fra
Girolamo Bernerio Domenicano, protettore dell'Ordine), e poi anche
quello de' Card.li Farnese e S. Giorgio. Non è pervenuta fino a
noi la lettera diretta al Card.le d'Ascoli, ma n'è rimasta
soltanto la notizia nelle altre dirette agli altri Cardinali.
Queste furono scritte in data del 30 agosto 1606, cioè 17 giorni
dopo che era stata scritta la lettera al Papa, ed offrono gli
argomenti medesimi addotti al Papa, con poche varianti ed un cenno
fugace delle rivelazioni intorno a Venezia. Sempre rifacendo la
storia delle cose di Calabria in una maniera adattata alla sua
difesa, dichiarando di essersi salvato con la stoltezza dove era
odiosa la virtù e di aver finto contro la violenza dietro
l'esempio di David, annunziando grandi rivelazioni avute e le
grazie de' miracoli per beneficio della Chiesa, supplicò che fosse
ascoltato de jure e che l'aiutassero a farlo chiamare a Roma anche
condizionatamente; aggiunse l'elenco delle promesse fatte ad utile
del Re e della Chiesa, come pure l'elenco dei libri fin allora
composti per dimostrare che egli era in grado di mantenere le sue
promesse(486). È superfluo dire che non ottenne nulla;
probabilmente non ebbe nemmeno una risposta da qualcuno de'
Porporati suddetti.
Ma ne' primi mesi del 1607 nuove e più forti speranze si destarono
nel Campanella, avendo già potuto acquistare la conoscenza di
Gaspare Scioppio oltre quella di Giovanni Fabre, spinti da'
Fuggers in aiuto suo. Qui alle notizie dell'Epistolario che diremo
napoletano, pubblicato in parte dal Centofanti e in più gran parte
da noi, son venute or ora ad unirsi le notizie dell'Epistolario
romano del Fabre dateci dal Berti, ma è a deplorarsi che la massa
dei documenti di quest'ultimo Epistolario giaccia pur sempre
inedita, sicchè nemmeno si è in grado di parlare del periodo in
quistione con tutta l'esattezza che si richiede(487). Cristoforo
Pflugh, che aveva eccitato in favore del Campanella i Fuggers e
tra essi principalmente Giorgio, eccitò pure lo Scioppio, avendo
con ogni probabilità già prima impegnato il Fabre. La lettera
autografa del Campanella allo Pflugh, da noi pubblicata, ci mostra
fuori contestazione che lo Scioppio venne eccitato da Cristoforo:
e possiamo ben dire che le relazioni tra il Campanella e lo
Scioppio cominciarono non prima del 1607. Per certo il brano di
lettera del Campanella allo Scioppio, posto dal Centofanti innanzi
tutte le lettere Campanelliane da lui pubblicate, perfino innanzi
a quella del 13 agosto 1606, fu così posto arbitrariamente, e non
può servire a dimostrare una relazione tra' due personaggi
anteriore al 1607: parlandosi, in quel brano, dell'impresa di
convertire due Principi non che di allettare i savii di Germania
mercè le nuove dottrine, risulta abbastanza chiaro che debba
riferirsi al 1607, al tempo in cui lo Scioppio era destinato a
partire per la Germania in missione presso la Dieta di
Ratisbona(488). Gaspare Scioppio di Neumark, giovane grammatico
eruditissimo, se ne stava da 8 o 9 anni in Roma, dove aveva
abiurato il Protestantismo, e spiegando un fervore rabbioso contro
gli antichi correligionarii, scrivendo successivamente panegirici
al Papa e al Re di Spagna, Commentarii sulla verità Cattolica,
sull'Anticristo, sul primato del Papa ed anche su' Priapei, era
venuto in fama e al tempo stesso in molto favore presso la Curia
Romana, tanto che dovendosi mandare qualcuno invece di un Nunzio
alla Dieta di Ratisbona, Paolo V decise mandarvi lui con la veste
di Consigliere di casa d'Austria; e possiamo affermare che già nel
febbraio 1607 era Consigliere Austriaco, poichè con questo titolo
lo troviamo nominato appunto nella Disputa del Fabre "De Nardo et
Epithimo adversus Scaligerum, Rom. 1607" a lui diretta in data del
1° febbraio di tale anno. Quanto a Giovanni Fabre di Bamberga,
domiciliato in Roma dal 1600, egli era medico dell'Ospedale di S.
Spirito, lettore di Anatomia alla Sapienza, inoltre Prefetto
dell'Orto Vaticano onde s'intitolava Semplicista di N. S.re; è
noto poi che venne più tardi ascritto alla famosa Accademia dei
Lincei insieme col Persio (1611), e divenutone Cancelliere (1614)
ebbe a scrivere le "Praescriptiones Lynceae" etc. etc. Lo scopo di
Giorgio Fugger nel proteggere tanto vivamente il Campanella, era
sopratutto quello di adoperarlo a' servigi del Cattolicismo in
Germania, giudicandolo per la sua dottrina, eloquenza ed attività,
il più capace di combattere con successo i Protestanti. Si sa che
nelle feroci dissensioni religiose di Germania i Fuggers erano
tra' Cattolici più caldi, e che un Ottone Enrico Fugger,
giovinetto al tempo del quale trattiamo, distintosi poi in molte
fazioni militari sotto le bandiere di Spagna, fu quello che in
ultima analisi prese Augusta, vi depose il Senato Luterano e ve ne
istituì uno Cattolico. Non fa quindi meraviglia l'ardore di
Giorgio per liberare il Campanella, non conosciuto da lui come
colpevole di eresia ed invece stimato vittima di malevoli, onde
lungamente tentò tutti i mezzi per averlo in Augusta, lo soccorse
in danaro e in commendatizie, lo protesse e lo fece proteggere, lo
fece visitare e lo visitò egli medesimo, destinò una forte somma
per farlo fuggire o liberare: le promesse di miracoli, le
affermazioni di possedere segreti meravigliosi, le esagerazioni di
ogni maniera, che il Campanella avea poste innanzi per acquistarsi
la grazia e l'interesse de' potenti, non destavano allora le
diffidenze di oggidì se non presso i ben pochi spregiudicati; si
può dire che esse giovarono più che nocquero, e forse
contribuirono sopra ogni altra cosa ad infervorare i Fuggers nella
protezione del Campanella. Lo Scioppio riusciva pel filosofo un
uomo provvidenziale, essendo confidente della Curia Romana e
destinato ad avvicinare l'Imperatore Rodolfo, l'Arciduca
Massimiliano di Baviera, l'Arciduca Ferdinando di Austria e tutti
que' Principi di Germania che erano impegnati con Spagna a
sostenere gl'interessi del Cattolicismo; il Fabre poi riusciva
sempre un buono assistente ed un utile intermediario per la
corrispondenza, la quale era già avviata da un pezzo tra i Fuggers
residenti in Augusta e il Campanella, venendo le lettere dirette a
un Marco Velsero gentiluomo di molta levatura ed influenza e non
a' Fuggers, e d'allora in poi doveva allargarsi comprendendo anche
le lettere dello Scioppio. Motori di tutte queste pratiche erano,
come ben si vede, i Fuggers, e di essi specialmente Giorgio,
mentre in Napoli si prestava con tenera sollecitudine fra Serafino
di Nocera, che il Campanella chiamava suo "tutore"; per altro
Giorgio mandò talvolta anche qualche suo agente particolare,
dapprima forse un Sigismondo, che trovasi nominato
nell'Epistolario napoletano ma che potrebb'essere veramente un
incaricato dello Scioppio, più tardi poi un Daniele Stefano di
Augusta, che trovasi nominato nell'Epistolario romano e che deve
dirsi con sicurezza un agente di Giorgio.
Parrebbe che lo Scioppio avesse già letto qualche opera del
Campanella, con ogni probabilità avuta da Cristoforo Pflugh, e che
ne fosse rimasto altamente sodisfatto: così, dietro le
sollecitazioni de' Fuggers, che doveano equivalere a comandi
atteso l'enorme credito ed influenza di quella famiglia,
dirigendosi al Campanella gli manifestava ammirazione per la
prestanza sua apparsagli ne' libri suoi, gli prometteva di
adoperarsi per la sua liberazione presso i Principi del
Cristianesimo, gli esprimeva il desiderio di averlo a socio contro
gli eretici; questo si può argomentare da un brano della lettera
pubblicata poi dallo Struvio, con la quale più tardi il Campanella
accompagnò l'invio di una copia delle sue opere dimandate dallo
Scioppio. Naturalmente costui apparve al Campanella un Angelo, un
Liberatore, un Redentore, e così trovasi chiamato sempre nelle
lettere del filosofo. I nuovi documenti rinvenuti dal Berti
mostrano che il 26 aprile 1607 egli era in Napoli, e scriveva al
Fabre, "De Campanella in bona spe sum fore ut ei loquar, et quae
velim ab eo auferam: interque coetera disputationem adversus
Venetos, quam Pontifici gratissimam fore confido". Questa è la
sola notizia datane finoggi, e da essa non risulta che lo Scioppio
abbia visto il Campanella, ma risulta che sperava di vederlo e di
carpirne tutto ciò che volesse, accennando agli Antiveneti che
diceva dover riuscire assai graditi al Papa, e mirando senza
dubbio agli Articoli profetali che sarebbero riusciti graditissimi
a lui medesimo; troveremo infatti che egli li desiderò e li chiese
per lungo tempo e per tutte le vie, mentre il Campanella,
tutt'altro che facile ad essere superato in avvedutezza, l'aveva
ben capito e se ne schermì fin da principio. Lo Scioppio si era
impegnato nell'astrusa quistione dell'Anticristo e de' futuri
eventi della fine del mondo(489), e ciò forse, più di ogni altra
cosa, gli fece apparire il Campanella tanto interessante; poichè,
quanto agli scritti contro Venezia, il Papa trovavasi già in via
di accomodamento per mezzo del Card.l di Gioiosa, che mandato da
Errico IV era stato in Venezia ed era poi giunto a Roma fin dal 22
marzo, la qual cosa lo Scioppio non poteva ignorare. È posto
intanto fuori controversia che lo Scioppio sia venuto in Napoli
nell'aprile 1607, non già nel 1608; ma è posto in pari tempo fuori
controversia che egli sia venuto per parlare al Campanella e
carpirne le opere, d'accordo col Fabre, e che non abbia
menomamente avuta una missione del Papa per trattare la libertà
del prigioniero, come finora si era creduto dietro una delle tante
erronee notizie registrate nel Syntagma, che noi abbiamo
recisamente oppugnata; ci riserbiamo per altro di tornare più in
là su tale quistione, di cui ognuno intende la grande importanza.
Come dicevamo, rimane tuttora ignoto se in Napoli lo Scioppio
abbia visto il Campanella; ma non sarebbe meraviglia che non
avesse potuto vederlo, mentre era tanto rigorosamente guardato, e
le premure di un noto faccendiere della Curia Romana doveano
piuttosto riuscire a farlo guardare maggiormente. Forse in tale
occasione, se pure la cosa non sia accaduta un po' prima per via
epistolare, lo Scioppio ebbe le copie delle lettere già dirette
dal Campanella al Papa ed a' due Cardinali nell'agosto 1606, acciò
rimanesse informato de' passi fatti, ed ebbe poi quella lettera al
Papa da noi pubblicata; la quale mostra bene di essere del 1607,
dicendovisi il Campanella carcerato da otto anni, ed oltrechè
attesta l'invio delle lettere antecedenti con le parole "scrivo
tremando et altre lettere mandai", accenna pure in modo manifesto
allo Scioppio che si era offerto a favorirlo con le parole
abbastanza notevoli, et mò io stava piangendo com'Helia sotto il
Junipero, dimandando la morte, et ecco venir quest'Angelo
Samaritano, dopò che mi sprezzaro li Leviti e li Sacerdoti, e me
tradiderunt in manus tribulantium et in animam inimicorum meorum,
questo dico mosso da spirito di Sapienza... et vult alligare
vulnera mea". Tutta la lettera rappresenta un 2° appello al Papa,
come è attestato fin dalle prime parole, "Io di novo appello la
causa mia al Tribunal proprio di V. B." etc.; e del resto vi si
trovano ripetute le solite cose, essersi in procinto di veder le
meraviglie, avendo parlato di segni e profezie essere stato
ritenuto ribelle, aver sofferto tormenti e malanni gravissimi,
voler essere ascoltato nel tribunale romano, poter mostrare cose
mirabili, aver visto e toccato ne' suoi guai i misteri della fede
e le cose celesti(490). Ma ancora in data del 7 aprile 1607, non
sapremmo dirne il motivo, scrisse quella lettera latina solenne al
Papa ed a tutto il Senato de' Cardinali che fu pubblicata dal
Centofanti, e in essa, tra umili supplicazioni e audaci rampogne,
si dolse che non aveano voluto ascoltarlo, mentre "spesso li avea
avvertiti di voler mostrare innanzi a' Principi del suo popolo ed
alle tribù d'Israele secondo le sacre decretali, mercè le autorità
della Scrittura come Giovanni Battista, e con miracoli da non
potere essere imitati dal diavolo, come quelli di Mosè alla
presenza di Faraone, che per volontà di Dio egli era chiamato alla
salute de' popoli"; e dicendo che "se era pazzo lo liberassero"
(proposizione degna di esser notata), ricordando le imputazioni
ingiustamente sofferte per l'addietro e poi quelle degli ultimi
tempi, accennando alle opere che avea composte, esponendo i segni
della prossima fine del mondo e le relative profezie, difendendosi
dalle accuse, mostrò la necessità di esser tradotto a Roma, citò i
casi analoghi ne' quali si era fatto lo stesso, si dolse di non
vedere esaltata la giustizia. Lo Scioppio avrebbe dovuto
presentare questa lettera, ma da' documenti che finora possediamo
emerge essersi rifiutato a presentarla, consigliando che non si
parlasse di miracoli e si facessero semplici supplicazioni, al
quale consiglio il Campanella non si piegò; e forse apparve per
questo uno stravagante, come del resto apparve anche a parecchi in
sèguito, mentre i tanti garbugli prodotti in sua difesa, le scene
non brevi di simulazione di pazzia, gli sforzi continui per farsi
credere ispirato, e le vicende tutte di una così lunga prigionia
doverono fargli acquistare un portamento tale da rendere
plausibile un giudizio di quella fatta. Ma si converrà che
specialmente presso Paolo V, il quale negli ultimi tempi del suo
Cardinalato avea tenuto il suggello dell'Inquisizione, e presso il
Card.l S. Giorgio, il quale avea tenuto il suggello dello Stato, e
però buoni conoscitori entrambi degli avvenimenti di Calabria e
relativi processi, il Campanella nel 1606 non avrebbe potuto
sperar nulla senza prendere un atteggiamento straordinario; e
naturalmente presolo una volta, egli non si poteva più smentire
senza suo danno, e doveva ad ogni costo mantenersi nella
condizione d'ispirato. Lo Scioppio non poteva capacitarsene,
perché in realtà non conosceva ancora, o meglio conosceva
solamente in parte lo stato vero delle cose del Campanella: per
altro continuò a mostrargli stima grandissima, si attendeva di
poter apprendere molto da lui in poco tempo, oltrechè di ottenere
la spiegazione delle cose più recondite intorno all'Anticristo, né
cessò mai di dirigergli di tratto in tratto quesiti, perfino dopo
che avvenne qualche cosa per la quale lo vedremo essersi ritenuto
offeso: e il Campanella prometteva che gli avrebbe insegnate tutte
le scienze durante un solo anno, si offriva a fargli la natività,
ne secondava ed ampliava i disegni di voler convertire i
Protestanti e i Gentili, dava sollecite risposte a' quesiti di lui
non appena gli pervenivano, affaticandosi anche a menare a termine
l'Ateismo e que' Profetali che erano sommamente desiderati da lui.
L'Epistolario napoletano ci mostra tutte queste cose, e ci mostra
pure che lo Scioppio inviava al Campanella qualche sussidio, o del
suo o del danaro de' Fuggers, per gli alimenti e per la
trascrizione delle opere, la quale, come abbiamo dimostrato con
l'esame delle copie pervenute fino a noi, venne fatta da un
amanuense non napoletano.
Secondo una notizia tratta dall'Epistolario romano, il Fabre
avrebbe accompagnato lo Scioppio o meglio sarebbe venuto poco dopo
lo Scioppio in Napoli, e, nientemeno, avrebbe ottenuta l'uscita
del Campanella dalla fossa di S. Elmo! Egli lo fece sapere a Marco
Velsero, e costui, in data del 9 maggio 1607 gli scriveva,
"grand'obbligo debbe tener il Campanella a V. S. di essere stato
trasferito et accomodato come lei dice". Siamo tentati di credere
che per lo meno debba esservi qui un errore di data, parendoci
molto strano che il Fabre abbia potuto far credere una cosa
simile, mentre non solo sappiamo che il Campanella il 26 giugno e
l'8 luglio 1607 (nella sua lettera sulla peste di Colonia e
nell'altra a Mons.r Querengo) disse trovarsi ancora nella fossa in
ceppi, ma sappiamo pure dal medesimo Epistolario romano che vi fu
bisogno di far scrivere al Vicerè dall'Arciduca Ferdinando, nel
gennaio 1608, che volesse far trasferire il Campanella "dalla
fossa di S. Elmo, dove giaceva, nel Castel Nuovo" (così si esprime
il Berti). Vi fu poi un'altra venuta del Fabre abbastanza più
tardi, dopo che avea pubblicata la disputa "De Nardo et Epithimo"
e coll'occasione di dover raccogliere piante per l'Orto Vaticano:
queste due circostanze si trovano ricordate da Giulio Cesare
Capaccio che vide il Fabre in Napoli(491), e ci fanno comprendere
lo scopo della venuta ed anche la data di essa; poichè basta
guardare la disputa anzidetta, per vedere che questa fu diretta
allo Scioppio in data del 1° febbraio, ma fu dedicata
all'Archiatro Pontificio Vittorio Merolli in data del 1° agosto
1607. Vedremo che la venuta di cui parliamo si deve riportare
propriamente all'anno 1608. Notiamo pertanto non essere dimostrato
davvero che il Fabre e lo stesso Scioppio, venendo a Napoli, si
siano adoperati in favore del Campanella nel senso di avere
direttamente procurato dal Vicerè mitigazione di custodia,
miglioramento di vitto, e tanto meno avviamento alla libertà: in
obbedienza alle premure di Giorgio Fugger essi doverono recar
sussidii e procurare facilitazioni per questa via; ma finoggi
possiamo affermare che realmente il solo fra Serafino, il meno
nominato, si presentò una volta al Vicerè per parlargli del
Campanella.
Assai più del Fabre, per quanto sappiamo, lo Scioppio diresse
quesiti al Campanella. Ve ne furono Sul modo di evitare il freddo,
come pure Sulla sordità e l'ernia, a' quali il Campanella rispose
prima che agli altri, secondochè rilevasi dal Syntagma e in parte
anche da qualcuna delle risposte a' quesiti successivi; ma le
risposte a' detti quesiti non sono pervenute fino a noi. Ve ne fu
un altro Sul modo di far cessare la peste in Colonia, trasmesso
mediante fra Serafino, e il Campanella vi rispose il 24 giugno
1607: un esemplare della risposta si trova anche nella
Magliabechiana, ma scorrettissimo e senza data; quello che fu da
noi pubblicato è sodisfacente, e dobbiamo notarvi la premura del
Campanella anche presso i Coloniesi per essere chiamato colà a
curarvi la peste, offrendosi perfino ad essere lapidato nel caso
d'insuccesso! Ancora ve ne fu un altro Sul modo di evitare il
calore estivo, e la risposta, da noi pubblicata, fu fatta l'8
luglio 1607: in essa si notano anche varie precauzioni da doversi
adottare durante il viaggio, accennandosi abbastanza al viaggio
che lo Scioppio dovea intraprendere, ed oltracciò si parla di
lettere commendatizie avute e di altre aspettate, a cura dello
Scioppio; ci riserbiamo di dirne i particolari più sotto,
limitandoci qui a stabilirne la data. Altri quesiti, come quello
Sul Peripateticismo che il Campanella condannava, l'altro Sul
tempo successivo alla morte dell'Anticristo, che si riteneva dover
essere di soli 45 giorni, così pure un altro Sul Pieno e sul Vacuo
nell'interesse del Fabre, parrebbe che veramente fossero stati
diretti al Campanella nell'anno 1608: noi abbiamo pubblicate le
risposte, che recano la data del 13 giugno e del 7 novembre senza
indicazione di anno, e vediamo ora tra i nuovi documenti del Berti
una lettera dello Scioppio, senza indicazione né di luogo né di
tempo, che rappresenta indubitatamente la proposta de' quesiti
suddetti; ma alludendosi in essa ad una lettera che il Campanella
avrebbe dovuto scrivere particolarmente all'Arciduca Ferdinando,
bisogna riferirla al 1608 e con ogni probabilità alla fine di
maggio di tale anno. - Dobbiamo intanto dire, che terminata oramai
la trascrizione delle opere, potè farsene l'invio allo Scioppio
con quella lettera notevolissima anche pel ricordo delle
persecuzioni sofferte, posta qual Proemio all'Ateismo e pubblicata
dallo Struvio con la data del 1° giugno; se non che trovandosi
nella lettera citate come già mandate le risposte circa il freddo,
il calore e la peste di Colonia, è evidente che la data di essa,
quale fu letta dallo Struvio, riesce errata, e invece del 1°
giugno si dovrebbe forse leggere p. es. 10 luglio 1607(492). Ecco
l'elenco delle opere trasmesse allo Scioppio in tale data,
essendogli stata la Consultazione per aumentare i tribuni
consegnata separatamente: la Monarchia di Spagna, i Discorsi a'
Principi d'Italia, il Dialogo contro i Luterani, l'opera Del Senso
delle cose, l'Epilogo magno di Fisiologia seguito dagli Aforismi
politici e dalla Città del Sole, la Monarchia del Messia col
discorso De' dritti del Re di Spagna etc., il libro De Regimine
Ecclesiae, gli Antiveneti, e la Recognitio verae Religionis detta
poi Atheismus triumphatus: possiamo aggiungere ancora che talune
copie furono dal Campanella corrette ed altre no, come si rileva
da quelle pervenuteci, l'una degli Aforismi politici fornita di
correzioni autografe, l'altra della Città del Sole rimasta senza
correzioni. All'Ateismo il Campanella diede la massima importanza,
evidentemente per le sue condizioni infelicissime: lo dichiarò
"suo monumento", lo dedicò allo Scioppio, mostrò desiderio che
egli lo traducesse in tedesco insieme col Dialogo contro i
Luterani. Si dolse pure di non poter mandare la Metafisica, perché
"un certo Marchese discepolo ingrato la riteneva ad istigazione di
Satana", alludendo senza dubbio a Francesco del Tufo successo al
padre Gio. Geronimo, che le scritture dell'Archivio di Stato, da
noi ricercate appositamente, ci mostrano defunto il 17 luglio
1606. E dobbiamo dire che a torto egli credè effetto
d'ingratitudine il non aver avuta la Metafisica, poichè essa,
morto il Marchese Gio. Geronimo, era stata rubata da un domestico
cognominato Gallo e venduta a Gio. Battista Eredio Pisano di
Puglia, come il Campanella medesimo dovè sapere più tardi onde se
ne trova il ricordo nel Syntagma; dobbiamo dire inoltre che
verosimilmente reclamò l'opera sua quando seppe l'accaduto, alcuni
anni dopo, e così essa potè capitare nelle mani del Reggente della
Vicaria e del Vicerè, secondochè risulta da un documento che
abbiamo rinvenuto del pari nell'Archivio di Stato(493). Ma non
mandò gli Articoli Profetali e disse che li avrebbe mandati
in sèguito: forse non aveva potuto compierli, o invece volle
tenerli in serbo (e difatti non li mandò neanche quando poi disse
di averli già pronti), acciò lo Scioppio, rimanendo
nell'aspettativa, non cessasse dal favorirlo. Egli se ne attendeva
l'adempimento delle promesse, cioè "essere suo liberatore presso i
Principi del Cristianesimo, e dargli modo di essere suo
commilitone contro le eresie de' figli di Abaddon". Questo gli
ricordò nella sua lettera, e fatta la rassegna delle opere che
gl'inviava soggiunse: "vedi, ho consegnato tutto nelle tue mani;
poichè mi prevenisti co' tuoi beneficii, non volli apparire
ingrato". Ma inoltre lo avvertì che molti, ricevute le opere,
trascrivevano da esse le proprie, e gli raccomandò di badare a non
cadere con gli altri, "poichè questo furto è peggiore di quello
della fortuna e dell'onore e di ogni altro delitto, venendo
sottratti i figli non del corpo ma dell'anima, e figli
perenni....", ed allora potrebbe "volerlo estinto, e il diavolo
subito gli direbbe nel cuore bastare quanto avea fatto intorno a
ciò che avea promesso con giuramento, bastare averlo tentato,
essendo impossibile procurare la salvezza del Campanella... di cui
ogni male gli parrebbe provenire dalla giustizia di Dio". E finiva
dicendo: "Tibique commendo libros, sicut me Deus tibi, si forte
non simulas, ut coeteri"! Pare impossibile che un uomo come lo
Scioppio non sia rimasto offeso da simili parole; ma sappiamo con
certezza che se ne mostrò irritato in sèguito allorchè il
Campanella, non vedendo pubblicare le sue opere, gli fece
intendere di nuovo la sua preoccupazione che egli volesse
servirsene, e non gli mandò i Profetali che egli desiderava sempre
più. Per altro c'è motivo di ritenere che lo Scioppio siasi
mostrato tollerante verso il Campanella molto al di là del solito
suo, per deferenza a' potenti Fuggers, che non cessavano di
proteggerlo accanitamente.
Abbiamo visto che il Campanella, nell'inviare le opere, diceva di
farlo per non sembrare ingrato. Egli ritenevasi obbligato allo
Scioppio, perché era condisceso a favorirlo e si era impegnato a
patrocinare la sua causa: d'altronde sappiamo avergli lo Scioppio
procurato alcune lettere commendatizie dirette al figlio del
Vicerè, altre averne sollecitate mediante Mons.r Querengo dal
Card.l Borghese dirette egualmente al figlio del Vicerè, che le
cronache ci dicono essersi recato a Roma insieme coll'altro suo
fratello non appena eletto Paolo V, e però doveva essere stato
conosciuto da molti della Curia; forse lo Scioppio medesimo
sollecitò le lettere dell'Ambasciatore Cattolico e
dell'Ambasciatore Cesareo, che il Campanella nella lettera dell'8
luglio 1607 diceva di attendere. Ma nessuna sollecitudine egli
mostrò presso il Papa; e non deve nemmeno sfuggire che egualmente
Mons.r Querengo non si adoperò presso il Papa, mentre non solo era
suo Prelato domestico assai ben veduto, ma anche, secondo
l'Eritreo, precettore ed aio del nipote di lui Gio. Battista
Vittorio. Sicuramente al Papa non dovea piacere di udire a parlare
del Campanella, e niuno osò affrontarne il disgusto; ma è chiaro
che vennero grandemente ridotte le promesse di aiuto fatte dallo
Scioppio, per le quali il Campanella era condisceso a dargli nelle
mani tutte le opere sue. Poniamo qui che ad occasione delle
commendatizie promesse dal Querengo dietro le istanze dello
Scioppio, il Campanella scrisse al Querengo una lettera di
ringraziamento notevolissima, con molti cenni della sua vita
passata, de' suoi studii e del suo modo di filosofare: verso il
tempo medesimo scrisse una lettera non meno notevole a Cristoforo
Pflugh, per rimoverlo da una tresca lasciva alla quale si era
abbandonato in Siena, ed eccitarlo ad andarsene con lo Scioppio
che preparavasi a partire per la Germania(494). - Ma
importantissime riescono per la nostra narrazione le lettere che
in questo periodo il Campanella scrisse al Re di Spagna,
all'Imperatore, agli Arciduchi d'Austria, e che lo Scioppio dovea
far ricapitare o presentare personalmente. Esse vennero scritte
senza dubbio nel 1607, come risulta dal vedere che il Campanella
vi si dichiara sempre carcerato "da 8 anni"; e può dirsi anche
essere state scritte tra il giugno e il luglio, poichè quella
diretta al Re, scritta prima delle altre, reca nell'elenco delle
opere "La esamina di tutte le sètte" etc. ossia l'Ateismo
debellato allora appunto condotto a termine. La lettera al Re fu
scritta prima, giacchè trovasi menzionata nelle altre. Prendendo
sempre le mosse da' futuri eventi, lusingando con la Monarchia
universale che dovea verificarsi, rifacendo come altre volte la
storia delle cose di Calabria, non negando ed anzi giustificando
la simulazione della pazzia, dichiarando di trovarsi aggravato dai
vassalli di S. M.tà che non volevano né udirlo né consegnarlo al
Papa, perché "temevano che lo liberasse subito", si appellava a S.
M.tà, e per la solenne occasione della nascita del felicissimo
Principe (intend. della futura nascita del Principe che accadde in
ottobre, venendo alla luce l'Infante Ferdinando che fu poi il
Card.le Infante) chiedeva la grazia di essere ascoltato secondo la
legge. Ricordava di avere scritto la Monarchia di Spagna, i
Discorsi ai Principi d'Italia, la Tragedia della Regina di Scozia,
annunziava di avere autorità come S. Giovanni e miracoli più
grandi di quelli di Mosè; pregava quindi che lo facesse venire
innanzi a lui e al suo Consiglio, terminando con l'elenco delle
promesse anche accresciute, come pure con l'elenco delle opere che
avea composte, ed aggiungendo che lo lasciasse dar prove celesti
degli avvisi celesti almeno in Roma(495). Poi dovè scrivere ancora
le due lettere latine all'Imperatore e agli Arciduchi di Austria,
che lo Scioppio avrebbe presentate mostrando in pari tempo le
opere da lui avute, non che le copie della lettera scritta al Re e
di quella scritta al Papa e a tutti i Cardinali, "da doversi
consegnare, se il timore non trattenga pure l'Angelo suo" (non
aveva mai cessato di sperare che lo Scioppio l'avrebbe consegnata,
smettendo il "timore" che lo tratteneva). In entrambe queste
lettere egli press'a poco ripeteva le cose stesse tante volte
dette, i segni da lui studiati, le opere composte per tale
circostanza, le imputazioni avute di "volere usurpare il Regno" e
di essere eretico, l'aver trovato salvezza con la pazzia, l'essere
stato posto in una fossa, l'avere scritto cose mirabili e il
doverne dire a voce molte di più. In ultima analisi poi,
all'Imperatore chiedeva che lo facesse venire in ceppi innanzi a
lui, dannandosi al fuoco se si fosse trovato mendace, ovvero
procurasse di farlo andare presso il Papa o almeno presso il Re
Cattolico; agli Arciduchi chiedeva di adoperarsi presso il Re,
perché volesse udirlo o farlo udire dal Papa o dall'Imperatore,
sempre dannandosi al fuoco se fosse trovato mendace, ed additando
lo Scioppio che avrebbe mostrato le opere e le lettere da lui
scritte, e molte altre cose avrebbe esposte a voce. Ognuno avrà
notato, che dalla prima all'ultima sua mossa la dimanda continua
del Campanella fu sempre quella di essere ascoltato: anche dopo di
avere scritto tante opere che potevano farlo ben conoscere nel
senso in cui voleva essere conosciuto, egli non rifinì dal voler
essere ascoltato; e perfino in una delle sue lettere allo
Scioppio(496), dopo di avergli detto che i proprii libri di
Metafisica gli sarebbero parsi scritti da un Angelo e non da un
uomo, essendo superiori a tutti gli altri "che aveva già
ricevuti", soggiungeva, "ma quando mi udrai faccia a faccia,
terrai a vile anche gli stessi miei libri di Metafisica" (ciò che
prova pure non aver mai avuto lo Scioppio tale occasione). Per
intenderlo, bisogna ricordarsi della prepotente efficacia del suo
discorso, attestata in ogni tempo e dalle persone più diverse, a
cominciare dal povero Maurizio, che lo provò in Calabria e disse,
"quando parla, ritira ognuno dove vuole", a finire a Vincenzo
Baronio, che lo conobbe negli ultimi anni in Parigi e scrisse,
"maior fuit impetu ingenii, quod in conversationibus eminebat, et
in libris obscurum est et pene extinctum"(497).
Nell'agosto o forse nel settembre 1607 lo Scioppio partiva per la
Germania fermandosi un poco in Venezia: l'Epistolario romano ha
una sua lettera da Venezia in data del 22 settembre d.to anno, e
poi ne ha anche un'altra posteriore da Ratisbona, in cui egli dice
aver portato dall'Italia una malattia dell'intestino retto
cagionatagli dall'aver mangiato troppo melloni ed altre frutta in
Roma; da ciò si desume chiaramente che partì da Roma al cadere
dell'està. In Venezia egli affermò aver patito fastidii dal
Magistrato de' Dieci avendo portato nella sua valigia le opere del
Campanella, e più volte poi ripetè di averle tutte date al libraio
Gio. Battista Ciotti per farle stampare, senza che costui avesse
voluto più né stamparle né restituirle, sicchè dovè poi reclamarle
per mezzo dell'Ambasciatore Cesareo, né potè ricuperarle che dopo
molto tempo(498); ed inutilmente anche reclamò gli Antiveneti, e
dovè esserne inviata da Napoli un'altra copia, e il Governo Veneto
fece proposte volendo acquistar l'opera acciò non si stampasse. Ma
su questi fatti, asserti dallo Scioppio e rilevati dal Berti ne'
documenti dell'Epistolario romano, accade di dover fare qualche
osservazione. È notissimo che in Venezia lo Scioppio fu
imprigionato per due giorni ed obbligato a sfrattare, sia perché
tentò di sedurre o spaventare fra Paolo Sarpi, sia perché venne
accusato di essere l'autore di un libello a favore del Papa contro
Venezia intitolato "Nicodemi Macri Romani cum Nicolao Crasso
Veneto disputatio", siccome leggesi in una Vita di lui pubblicata
da lui medesimo col nome di Oporino Grabinio(499): ponendo in
rapporto tale avvenimento co' fastidii avuti per le opere del
Campanella, c'è da sostenere che lo Scioppio abbia compromesse
queste opere, assai più che queste opere abbiano compromesso lui.
né riesce facile intendere il suo desiderio di dare alle stampe le
opere del Campanella appunto in Venezia e la sua determinazione di
lasciarle lì, mentre si era impegnato di mostrarle all'Imperatore
e agli Arciduchi, e il Campanella ne avea fatta menzione nelle sue
lettere a questi personaggi. Finchè altri documenti non
chiariranno tutte queste cose, avremo sempre il dritto di dire che
il Campanella aveva ben capito lo Scioppio, e non a torto si
doleva di lui, avendolo in sospetto circa le opere consegnategli.
- Intanto nell'ottobre il Fugger avea mandato in Italia Daniele
Stefano di Augusta, perché cercasse di far liberare o far evadere
da S. Elmo il Campanella a qualunque spesa. Il Fugger dovea
professare l'opinione dell'onnipotenza del danaro, e in ciò questa
volta s'ingannava. Lo Scioppio, meglio avveduto, stimava che
siffatti tentativi avrebbero potuto nuocere, e in realtà il
Governo Vicereale non era composto di dormienti; esso aveva le sue
informazioni a tempo e luogo, né sarebbe arrischiato lo spiegare
il tanto protratto rigore di custodia del Campanella per qualche
sentore di maneggi di altrettali Papalini accaniti. Ma giova
conoscere ciò che lo Scioppio avrebbe preferito: come ci narra il
Berti, egli "proponeva che venissero espugnati i segretari col
denaro, facendo forza sul loro animo affinchè lo assolvessero, od
anche, se non volessero venire fino all'assoluzione, lo
proscrivessero dal Regno, purchè finita la causa non fosse poi
consegnato all'Inquisizione". Da ciò si vede che lo Scioppio avea
già saputo essere stato il Campanella condannato nel tribunale
dell'Inquisizione, ma non avea punto capito da chi dovesse venir
sentenziato nel tribunale di Stato; poichè non i Segretarii
Vicereali avrebbero dovuto sentenziarlo, ma il Nunzio e il
Consigliere Baldovieto, né il Nunzio avrebbe poi lasciato andare
il Campanella altrove che nelle carceri dell'Inquisizione di Roma.
In Germania lo Scioppio potè presentare all'Imperatore le lettere
del Campanella ma non le opere, per la semplice ragione che non le
aveva; poi disse che pure avendole non gli sarebbe stato possibile
presentarle, per le proposizioni che contenevano; ma veramente le
proposizioni, che a lui parevano compromettenti, si trovavano
nelle lettere più che nelle opere. Ad ogni modo dovè persuadersi
che l'Imperatore era informato di cose gravi intorno al
Campanella, e però egli scrisse da Ratisbona il 19 10bre 1607, e
ripetè il 27 febbraio 1608, che poco o nulla doveva attendersi da
quel lato. Forse l'Imperatore avea avuto notizia dell'esservi
stato certamente un disegno di ribellione coll'aiuto del Turco; e
secondo lo Scioppio, gl'italiani medesimi residenti in Praga gli
aveano dato cattive informazioni sul Campanella (miseria, come si
vede, non nuova). Andò poi ad Oetingen e presentò la lettera del
Campanella all'Arciduca Massimiliano, il quale scrisse una
commendatizia al Vicerè; e non potendo ancora recarsi a Grätz,
mandò là la lettera del Campanella all'Arciduca Ferdinando, il
quale dapprima si negò, ma otto giorni dopo scrisse anche lui una
commendatizia al Vicerè. Questo affermò lo Scioppio, ed affermò
pure di aver mandata la lettera al Re, facendola presentare alla
Regina insieme coll'opera della Monarchia di Spagna. Ma si dolse
che le promesse fatte in quelle lettere toglievano credito al
Campanella, parendo favolose, e se non bugiarde, almeno dettate
dalla tetraggine del carcere; né mancò di rammentare che egli le
avea sconsigliate. Maggior fiducia mostrò di avere nelle
commendatizie dell'Arciduca Ferdinando, che diceva "suo patrono";
ma conchiuse che non dovesse concepire speranze, che non dovesse
confidare, come soleva, più nell'aiuto umano che nel divino; se
Dio non voleva esaudirlo, si uniformasse e gli dimandasse la
morte! Queste cose lo Scioppio scrisse al Campanella in data del
27 febbraio 1608, e ci sembra veramente che a siffatta lettera
abbia dovuto seguire quella del Campanella al Fabre da noi
pubblicata, che comincia con le parole, "Mi scrisse il mio Angelo
Scioppio ch'io attendessi all'oratione, che più devo sperar in Dio
che negli huomini...; ho fatto a Dio questa oratione, che le mie
peccata non sieno impedimento all'attioni Scioppiane" etc.(500);
ci sembra pure che ad una lettera del Fabre allo Scioppio,
esprimente il dolore e il timore del Campanella per le dette
parole, abbia dovuto seguire quella dello Scioppio al Fabre
pubblicata or ora dal Berti, che evidentemente è del marzo 1608 e
non 1607, leggendovisi tra le altre cose, "Quod meum officium, quo
ut ad mortem aequo animo subeundam se compararet monui, sic
interpetratur quasi qui charitatem et opem ei praecidere ac negare
voluerim, suo more facit". Lo Scioppio, nella lettera di cui
parliamo si mostra ristucco del Campanella e de' suoi sospetti,
perocchè il Campanella tornava a dolersi del non essere state le
sue opere né date alle stampe né presentate all'Imperatore (la
qual cosa pur troppo era vera); e ripete ciò che egli ha fatto, e
manifesta che il suo patrono Ferdinando ha scritto più
efficacemente di quanto era lecito sperare, avendo chiesto al
Vicerè non il trasferimento ma la libertà del Campanella. Aggiunge
per altro che l'invio della lettera è stato ritardato; che tutti
dubitano se sia bene farlo mettere in libertà, essendo lui andato
tanto innanzi con la sua pazzia, da credersi un nuovo legislatore
del mondo e perfino da anteporsi a Cristo, "perocchè Cristo ebbe
soli 5 pianeti ascendenti ed egli ne ha 6; queste cose son
ventilate dagli amici suoi nelle aule medesime de' Principi, e non
può dirsi quanto abbiano alienato da lui gli animi loro". Infine
non dispera, e vuole che sieno trascritte compiutamente le opere
della Metafisica e de' Profetali, acciò possano mandarsi quanto
prima al suo patrono, in cui ecciterà il desiderio di vederle,
proponendosi intanto di presentargli la Consultazione per
aumentare i tributi del Regno, che egli, lo Scioppio, ha gustato
molto. - Ognuno avrà qui notata la proposizione de' pianeti
ascendenti favorevoli, e si sarà rammentato di fra Pietro di
Stilo, che deponeva averlo il Campanella saputo da un astrologo
delle parti di Germania, conosciuto nel S.to Officio di Roma: la
cosa riesce quindi confermata, ma risulta anche chiarito che il
Campanella l'aveva invece detto lui a quel tale astrologo (Gio.
Battista Clario), forse dopo di essere stato messo sulla via di
farne la scoperta dall'astrologo Abramo in Cosenza ed Altomonte.
Gio. Battista Clario era tuttavia il Protomedico della Stiria,
residente in Grätz presso Ferdinando come si rileva dal libro de'
suoi Dialoghi, stampato nel 1606; riesce quindi naturalissimo
ammettere che costui principalmente tra gli amici del Campanella
abbia manifestate le dette cose nell'aula del Principe, e che
molto abbia agito egli pure nel determinare Ferdinando a scrivere
in favore del Campanella, mentre conosciamo che alle prime istanze
dello Scioppio Ferdinando si era già negato. Sarebbe puerile il
credere che costui, il quale attendeva egualmente la sua stella
per ascendere al soglio Imperiale, abbia davvero provato disgusto
pel Campanella tanto protetto da' pianeti, e non invece curiosità
di fargli indagare anche i pianeti Arciducali: vedremo tra poco lo
Scioppio raccomandare al Campanella di volergli manifestare
qualcuno dei segreti suoi utili a Ferdinando, perché questo
avrebbe giovato non poco alla sua liberazione, e vedremo anche
Ferdinando stesso scrivere al Vicerè di farsi dire dal Campanella
questi segreti; era dunque stato tutt'altro che balordo il
Campanella a far tante promesse, come lo Scioppio diceva.
D'altronde gli Arciduchi solevano annettere molta importanza ai
frati predicanti nelle guerre contro i Maomettani, ed anche in
questi ultimi mesi, a proposito della canonizzazione del P.e
Lorenzo da Brindisi, ci venne rammentato che costui, fondatore de'
conventi cappuccini in Praga, Vienna e Grätz, predicò
nell'esercito guidato dall'Arciduca Massimiliano contro i turchi,
e nella sua lettera agli Arciduchi il Campanella non mancò di
dire, "jam paro libellum ad Pannoniae filios contra Macomethum".
Aggiungasi che in Grätz gli eretici aveano pure dato molto da fare
a Ferdinando, sicchè egualmente da questo lato il Campanella
poteva essergli utile come e quanto il Fugger stimava che sarebbe
riuscito utile a tutta la Germania; e da un brano di una delle
lettere dello Scioppio al Campanella, per verità non molto chiaro,
si avrebbe motivo di ritenere che Giorgio Fugger temesse di non
poter avere con sè il Campanella qualora fosse stato liberato da
Ferdinando(501). In somma un'idea di tornaconto non mancava in
tutti questi protettori, e il Campanella l'avea calcolato con la
sua solita avvedutezza, come avea pure previsto che durando a
lungo il gioco sarebbe sfumato; ciò forse aumentava la sua
impazienza anche più del giusto.
La 1a lettera dell'Arciduca Ferdinando al Vicerè, almeno finoggi,
non ci è nota testualmente: sappiamo solo che l'Arciduca scrisse
nel principio dell'anno 1608 da Ratisbona, avendolo ricordato egli
stesso nella 2a lettera, e che dimandò la liberazione del
Campanella, ma l'invio della lettera fu ritardato da un tale che
non conosciamo. Tutto induce a credere che in conseguenza di essa,
o forse meglio in attesa di essa per prevenire le sollecitazioni,
il Campanella sia uscito dalla fossa, rimanendo per altro sempre
in S. Elmo. Una lettera dello Scioppio al Campanella senza
indicazione di luogo né di tempo, ma evidentemente riferibile
all'aprile o maggio 1608 come vedremo, comincia col dire, "Godo
che le tue cose vadano un pochino meglio", ciò che indica essere
avvenuto un cambiamento nelle condizioni del prigioniero in
febbraio o marzo. Continua poi col suggerire che scriva
particolarmente all'Arciduca Ferdinando, rendendo grazie dell'aver
cominciato a gustare il frutto delle sue commendatizie, pregando
di richiederlo in ceppi al Re di Spagna, con la promessa di
restituirlo quando e dove al Re piacerebbe, e dichiarando che in
tre mesi avrebbe fatto molte e così grandi cose a vantaggio
dell'Arciduca e di casa d'Austria, da dover confessare che a niun
altro egli era tanto debitore quanto allo Scioppio che glie l'avea
raccomandato. Aggiunge inoltre voler essere spiegate due opinioni
sue che venivano censurate: come mai il Peripateticismo, che avea
messo tanta radice nella Chiesa, poteva dirsi empio al punto da
ritenere Aristotile precursore dell'Anticristo; perché mai
bisognava affaticarsi a propagare la Monarchia Austriaca, se
l'Anticristo era prossimo, e per opinione di molti, poggiata sopra
alcune parole di Daniele, appena 45 giorni doveano passare tra la
morte dell'Anticristo e il giudizio universale. Aggiunge da ultimo
che assai avrebbe giovato comunicargli qualcuno de' segreti che
egli possiede in beneficio dell'Arciduca. Come ben si scorge, lo
Scioppio riconosceva finalmente che le grandi promesse non
alienavano niente affatto gli animi de' Principi, ed anzi, furbo
com'era, si disponeva a gustarne lui pure i frutti, espilando
sempre; coglieva al tempo stesso destramente l'occasione per
essere illuminato sulle maggiori quistioni relative
all'Anticristo, suo tentativo continuo di espilazione. In fondo
poi, il consiglio che dava al Campanella, circa il modo di
scrivere all'Arciduca Ferdinando, era identico a quello che il
Campanella aveva posto in atto presso l'Imperatore; non avea
potuto riuscire presso l'Imperatore, ma conveniva tentarlo presso
Ferdinando. - A questa lettera dello Scioppio dovè certamente
seguire quella che reca la data del 13 giugno senza l'anno, e poi
ancora l'altra in data del 7 novembre egualmente senza l'anno,
entrambe da noi pubblicate(502); giacchè vi si trovano riprodotte
intere frasi dello Scioppio, vi si parla del doversi ricorrere del
tutto all'aiuto del patrono Ferdinando, vi si risponde a' quesiti
proposti. Nella 1a lettera il Campanella dà la spiegazione de'
tempi dell'Anticristo e del Peripateticismo che considera come uno
de' capi dell'Anticristo medesimo, distinguendo in questo 7 capi,
7 corna, ed anche una coda rappresentata da Gog e Magog, con molte
altre particolarità atte a solleticare maggiormente la curiosità
dello Scioppio: ma non si occupa della quistione de' 45 giorni,
che interessava personalmente il suo interrogante come si vide in
sèguito e come egli avea capito fin da principio; si duole del
resto di non aver potuto mandare i Profetali, facendone nascere
sempre più vivo il desiderio, e cerca infine qualche sussidio per
gli alimenti e la trascrizione de' libri. Ma l'importante per noi
è che riconosce doversi riporre ogni speranza in Ferdinando, per
opera del quale solamente vede farsi sempre più sereno, mentre da
niun altro c'è da sperare; e ripete che deve ottenersi da
Ferdinando il suo trasferimento in ceppi presso di lui per tre
mesi, manifestando che il Papa non aveva potuto ottenere né il
trasferimento suo a Roma né la terminazione della causa de jure in
Napoli (la quale notizia non saprebbe dirsi donde gli fosse
venuta). Nell'altra lettura poi si rileva qualche cosa di più. Lo
Scioppio, irritato, non rispondeva già a molte lettere del
Campanella, principalmente perché il filosofo sospettava sempre
che egli volesse farsi bello con le opere sue; ma gli premeva di
sapere come dovesse interpetrarsi la faccenda de' 45 giorni
successivi alla morte dell'Anticristo, poichè il Re d'Inghilterra
lo aveva confutato e deriso circa tale fatto; si era quindi
rivolto a fra Serafino di Nocera perché procurasse una risposta
dal Campanella, dicendo con furberia che la confutazione cadeva
meno sopra di sè che sopra lo Squilla, il quale ammetteva doversi
verificare dopo l'Anticristo la Monarchia de' Santi, e però,
laddove non producesse argomenti capaci di sodisfare, egli ne
avrebbe deriso i Profetali (è manifesto che i Profetali gli aveano
toccato il cuore). Questa lettera a fra Serafino era stata scritta
il 23 ottobre e giunse nelle mani del Campanella il 7 novembre,
d'onde si potrebbe desumere che lo Scioppio si trovasse pur sempre
in Germania; ma forse qualche circostanza estranea impedì un
sollecito arrivo della lettera, essendo ad ogni modo indubitabile,
per notizia tratta da una lettera dello stesso Scioppio scritta
assai più tardi a Cassiano del Pozzo e da noi pubblicata, che il
1608 egli tornò a Roma in qualità di Ambasciatore Cesareo per
menare innanzi la lega Cattolica, e siffatta circostanza non deve
sfuggire. Il Campanella, nella sua risposta, si duole della
freddezza dell'amico, e soggiunge, "abbastanza in addietro hai
fatto per me, se non vuoi far altro, nessuno ti costringerà"; ma
avendo lo Scioppio affermato essere facilissimo e spontaneamente
offerto dal suo patrono il trasferimento "ad urbem", dice che lo
gradirebbe assai, amando meglio morire in grembo alla Chiesa che
essere ben nudrito in mano di nemici, e soggiunge, "non dire di
non poterlo fare, poichè altrimenti riterrò essere stato uno
scherzo quanto hai professato di aver fatto per me" (forse si
alludeva al trasferimento da S. Elmo nella città di Napoli, ma
piuttosto a quello da Napoli a Roma, essendo oramai certo che lo
Scioppio non credeva utile quest'ultima maniera di trasferimento,
perché il Campanella sarebbe stato rinchiuso nelle carceri del
S.to Officio, e ne sarebbe rimasto contrariato il Fugger che lo
voleva presso di sè). Del resto, quanto alla Curia Romana, il
Campanella dice con disdegno ed alterigia, cessino di augurarmi il
peggio in Roma; la terra tollera più facilmente un Sole che due"
(parrebbe che in Roma avessero conosciuto gli sforzi che si
facevano in Germania per averlo colà, ma non li avessero punto
approvati, e il Campanella avea dovuto persuadersi non esservi per
lui alcuna simpatia nella Curia, ma invece una decisa avversione).
Chiarisce poi la quistione de' 45 giorni successivi alla morte
dell'Anticristo, ed accenna che per lui questo tempo è di molti
secoli, facendo avvertire la necessità di distinguere i capi e la
coda dell'Anticristo, la necessità di bene interpetrare i tipi e i
postipi, il trigono nel tetragono, i fini latenti negli esordii
(un mucchio di particolarità astruse); ed aggiunge, "i Profetali
potrebbero ora servire, dì al Papa che comandi si portino a lui, e
forse io pure sarò trasferito con essi"; quindi cerca di
rabbonirlo e dice, "ti aspetto fra breve ed avrai ciò che desideri
da me" (le quali circostanze menerebbero tutte a far ritenere che
lo Scioppio già si trovasse in Roma), ed infine chiede che gli
mandi il libro del Re d'Inghilterra, perché risponderebbe egli
medesimo, e questo forse gli profitterebbe di più (ma non manda
niente affatto i Profetali).
Non conosciamo finoggi altre lettere del Campanella allo Scioppio,
comunque apparisca possibile che ve ne siano state ancora.
Aggiungiamo poi che nell'intervallo scorso tra gl'invii delle due
lettere suddette, nell'autunno 1608, dovè accadere la venuta del
Fabre a Napoli, nella quale egli "lasciò" al Campanella un quesito
Sul Pieno e sul Vacuo; e il Campanella vi rispose, e in fine della
sua risposta, che fu da noi pubblicata, disse che stava "più
stretto di prima quanto allo scrivere" e che sperava venisse una
lettera da Ferdinando, per la quale potesse andare presso di lui;
tale circostanza fa determinare con esattezza la data che nella
risposta manca, e giova tener presente che a tale data i rigori
verso il Campanella non erano del tutto cessati(503). Bisogna
anche dire, secondo le notizie tratte dall'Epistolario romano, che
tanto lo Scioppio in Germania quanto il Fabre in Roma aveano
cominciato ad occuparsi della traduzione delle opere del
Campanella: il Fabre faceva tradurre in latino e in tedesco il
Dialogo contro i Luterani, e lo Scioppio, che ne sollecitava
l'invio al Fugger, faceva tradurre in latino i Discorsi a'
Principi d'Italia ed anche il primo libro degli Antiveneti; ma di
tutte queste traduzioni non si vide mai la fine. Del pari non si
vide mai la conchiusione della mossa del Campanella presso
Ferdinando così come era stata concertata con lo Scioppio, vale a
dire che Ferdinando scrivesse al Re di Spagna di lasciar venire il
Campanella in ceppi presso la persona sua per tre mesi: invece se
ne ha una lettera al Vicerè in data di Grätz 3 ottobre 1608, con
la quale, accennando all'altra sua precedente inviata nel
principio dell'anno, dice che, sebbene non gli sia nota la causa
della continuazione della prigionia del Campanella, essendo
informato che questo soggetto "per la sua rara dottrina può far
gran profitto nella religione Cattolica, si come massime in questi
tempi simili persone sono molto necessarie", prega S. E. "di fare
gratia al nominato Campanella, liberandolo quanto prima della sua
ritentione", ciò che sarà a lui "et a' principali altri, che fanno
la medesima instanza, di molto gusto". Come mai Ferdinando desistè
dal chiedere il trasferimento del Campanella presso la persona
sua? Forse egli seppe che questo non piaceva punto a Roma, dove
per lo meno si dovea pretendere che il prigioniero venisse a
scontare nel S.to Officio la condanna riportata, onde il
Campanella ebbe poi a dire "cessino di augurarmi il peggio in
Roma"; forse anche il progetto di far dimandare quel trasferimento
fu un semplice artificio dello Scioppio per indurre il Campanella
a rivelargli qualcuno de' segreti, de' quali avea dapprima
biasimata la promessa. Forse vi fu l'una e l'altra cosa insieme,
ma privi della lettura di tutti i documenti noi non siamo in grado
di tentarne l'interpetrazione: solo possiamo dire che il Berti
assicura essersi dalla lettera ottenuto il semplice trasferimento
del Campanella dal Castel S. Elmo al Castel nuovo. Dobbiamo poi
aggiungere che vi fu ancora un'altra lettera di Ferdinando al
Vicerè, scritta ad istigazione di Giorgio Fugger in data di Grätz
10 maggio 1609, e in questa non si parlò più di liberazione del
Campanella, ma invece di due altre cose ben diverse, che meritano
di fermare l'attenzione. Ferdinando pregò S. E. in questi termini:
"di dar ordine et procurare affine che detto Campanella finisca
senza impedimento e dimora i suoi libri della Matematica,
d'Articoli profetali et anco della Metafisica. E tanto maggiore
sarebbe l'appiacere se mi fossero mandati essi libri, come spero
non l' sarà contrario. E poichè molti degni di fede rendono
testimonianza et affermano che l'istesso Campanella habbi per il
rarissimo suo ingegno et sottil intelletto molte cose di palesare
che ridondano in utile et beneficio della M.tà Cat.ca mio sig.
cognato, e della nostra casa d'Austria, sarebbe ben fatto che V.
Ecc.za lo facesse venir avanti di sè, et intendesse quelli suoi
secreti; si come la prego a farlo per amor mio, et comunicarmi poi
quel tanto che l' parerà necessario". A questa lettera il Vicerè
avrebbe risposto "che non era in sua facoltà di far uscire il
Campanella": come ognuno vede, tale risposta non ha alcuna
relazione con la proposta, e potrebbe intendersi meglio in
relazione con la lettera antecedente. Ma ad ogni modo, con
l'ultima lettera, a che riducevasi infine la protezione accordata
da tutti questi Signori al Campanella? Ad una pura e semplice
espilazione e su tutta la linea, col riconoscimento di qualità
superiori nell'uomo di cui s'intendeva carpire le opere e i
consigli; e ciò forma il più grande elogio del Campanella, e
dovrebbero riflettervi coloro i quali trovano in lui tanti
difetti, e cercano sparger dubbî perfino sulla sua capacità e
sulla sua dottrina. Con tanti difetti, con tanto poca capacità e
dottrina, per sì lungo tempo e con sì grande ardore egli fu
stimato in Germania quasi indispensabile per tener fronte agli
eretici di quell'età: non è a nostra notizia che parecchi
individui siano stati stimati altrettanto(504).
È inutile oramai per la nostra narrazione vedere come anche il
Fugger dopo altri tentativi presso la Corte di Madrid, venuto egli
medesimo in Napoli nel 1610, si fosse raffreddato definitivamente,
e il Fabre e lo Scioppio si fossero persuasi che il Campanella
"stava bene dove stava", con accompagnamento anche di dileggi
villani e spudorati da parte dello Scioppio: la nozione chiara del
disegno di congiura d'accordo col Turco, e il convincimento che
varie cose, e tra le altre le apparizioni dì diavoli, fossero
state simulate per uscire dalla prigione, tolsero al Campanella
ogni appoggio; ed è indubitabile che cessato questo appoggio, i
rigori del carcere furono per lui sempre più mitigati dal Governo
Vicereale. A noi importa qui principalmente mettere in luce, che
in tutti i maneggi per la liberazione del Campanella non vi fu la
menoma partecipazione della Curia Romana. Nella nostra precedente
pubblicazione sul Campanella avevamo combattuta la pretesa
"missione Papale avuta dallo Scioppio per trattare la liberazione
del prigioniero", ed anche negata la venuta dello Scioppio in
Napoli che dicevasi effettuata nel 1608, essendoci costui apparso
senza dubbio un protettore del Campanella ma col fine recondito di
espilarne le opere: i nuovi documenti datici dal Berti hanno
provato che vi fu una venuta dello Scioppio, ma nel 1607, ed hanno
confermato appieno che la Curia Romana non contribuì per nulla a'
tentativi di liberazione ma forse li contrariò, ne hanno affatto
smentito che lo Scioppio fu principalmente un espilatore. La
missione Papale avuta dallo Scioppio fu già affermata dal Naudeo,
il quale nel Syntagma, a proposito de' libri inviati allo
Scioppio, fece dire dal Campanella "omnes jam dictos libros
Scioppius a me accepit anno 1608, cum venit missus a Paulo V meam
tractaturus libertatem, dedi etiam et Atheismum triumphatum": e
rimarrà sempre un esempio di grande distrazione l'aver voluto
trovare nella lettera del Campanella con la data del 1607, posta
qual Proemio dell'Ateismo e pubblicata dallo Struvio, la conferma
di una venuta che dicevasi effettuata nel 1608; così pure l'avervi
voluto trovare la conferma della missione favorevole data allo
Scioppio da Paolo V, mentre vi si legge, "Levitae et Sacerdotes
pertransierunt me absque benedictione..., jacebam prastolans
mortem sicut Elias sub junipero, tu autem tanquam Angelus me ad
vitam excitasti, sed subcineritium panem non attulisti, in cujus
fortitudine me usque ad Oreb faceres ambulare". Il Campanella in
una prefazione a nome del tipografo, apposta alla ristampa
dell'opera De Sensu rerum fatta in Parigi il 1637, disse che al
pari di Tobia Adami e Rodolfo di Bima venuti in Napoli il 1613,
anche lo Scioppio si aveva procurate dagli amici tutte le opere
che egli avea composte "in anno 1608"; ma in una data più vicina a
questa di cui trattiamo, nel 1631, quando potè pubblicare per la
prima volta in Roma l'Ateismo debellato, nella prefazione disse,
"misi hunc libellum amico ut proficeret in Germania, anno Domini
1607, multosque libros meos"; né in alcuno di questi due brani
parlò mai della missione data allo Scioppio da Papa Paolo. Il
Naudeo, che fu il vero redattore del Syntagma, venne forse tratto
a scrivere ciò che scrisse, rilevando l'anno dal primo de' due
brani suddetti, ed aggiungendo la circostanza della protezione del
Papa pel gusto inopportuno di recar gloria al Papato e vantaggio
alla riputazione del Campanella: egli avea già fatto lo stesso
scrivendo il celebrato Panegirico ad Urbano VIII, in cui non solo
esaltò questo Papa qual protettore del Campanella, ma anche
Gregorio XV, Paolo V, e perfino Clemente VIII, che aveva
certamente inaugurato l'abbandono del filosofo nelle mani degli
spagnuoli. Ma, al solito, lo stesso Naudeo parlò nuovamente della
venuta dello Scioppio a Napoli in una lettera privata diretta
appunto a lui, che fu pubblicata dopo la sua morte e che noi non
mancammo di ricordare; e in questa lettera parlò ben diversamente
dello scopo della venuta a Napoli, riducendolo alla semplice
voglia di vedere il Campanella, senza alcuna missione Papale.
"Neapolitanum iter, quod ejus tantum invisendi gratia susceptum a
te fuit"; e del resto per non mancare all'abitudine dell'elogio
continuo, vero o falso, il Naudeo aggiunse essere stato dallo
Scioppio procurato al prigioniero l'assegno di una non mediocre
quantità di danaro per vitto e la concessione di una somma
libertà, i quali beneficii sappiamo veramente essere stati goduti
dal prigioniero alcuni anni dopo(505). - Non paia eccessivo questo
trattenerci a lungo sul fatto della missione Papale: se ci fossero
elementi capaci di accreditarlo, il fatto riuscirebbe
sufficientemente grave; e per esso appunto siamo entrati ne' tanti
e tanti particolari di ciò che avvenne dal 1607 in poi, giacchè
altrimenti ci sarebbe bastato dire che il Campanella non trovò
ascolto favorevole alle sue dimande né in Roma né in Spagna, in
nessuna delle due parti che avrebbero potuto realmente dare un
termine a' suoi guai. Qualora avesse dovuto accogliersi il fatto
di una missione di Paolo V "per trattare la libertà del
Campanella" od anche una partecipazione di Paolo V a' maneggi
altrui per farlo uscire in libertà, sarebbe apparso molto naturale
essere state mandate buone al Campanella le ragioni da lui addotte
in difesa presso la Curia, circa la congiura e l'eresia, essersi
riconosciuta ne' guai del Campanella una pura e semplice
soperchieria di Spagna: per verità questo non avrebbe scosso dalle
fondamenta ciò che abbiamo esposto massime intorno alla congiura,
mentre la Curia mille volte pretese essere stati calunniati i
delinquenti sol perché clerici; ma avendo spesso abbandonato
gl'imputati ecclesiastici anche appena sospetti, ogni qual volta
trattavasi d'imputati politici, sarebbe sempre rimasto un motivo
di dubbî e di perplessità. Invece è chiaro che Paolo V, già
guarito della mania dell'immunità ad ogni costo dopo la faccenda
di Venezia, avrebbe potuto solamente reclamare dal Governo
Vicereale che si pronunziasse una volta la sentenza nella causa
della congiura in persona del Campanella, la qual cosa nemmeno il
filosofo desiderava, ma non mai trattare perché egli fosse posto
in libertà. Essendo stato dal suo antecessore, con un Breve in
piena regola, istituito un tribunale ecclesiastico speciale in
Napoli, non avrebbe potuto seriamente esigere che il Campanella
fosse stato giudicato dal tribunale Romano com'egli dimandava: è
superfluo poi dire quanto grave sarebbe riuscito l'accogliere
l'altra dimanda del Campanella, l'annullamento di un giudizio di
eresia, menato innanzi con tutta la solennità possibile, sotto
l'ingerenza continua della rispettiva Congregazione Cardinalizia
preseduta dal medesimo Papa antecessore. Ed appunto perché vi era
stata una condanna in siffatto giudizio, riesce chiaro che il Papa
avrebbe sempre dovuto esigere che il Campanella, non appena uscito
dal carcere di Napoli, l'espiasse, e non andasse già a predicare
contro gli eretici, mentre con quella condanna egli medesimo era
stato implicitamente dichiarato un eretico: sotto tale rispetto è
pure da notarsi che lo Scioppio, consapevole della condanna e
tanto svisceratamente attaccato al Papa e alle istituzioni
Cattoliche, vi si sia mostrato davvero tanto poco ossequente; ma
vediamo anche oggi dove vada per solito a parare lo sviscerato
attaccamento al Papa e alle istituzioni Cattoliche.
Inutili dunque riuscirono gli appelli, le suppliche, le lettere
del Campanella, e gli sforzi de' suoi protettori, compresi quelli
attuati per mezzo dello Scioppio, non approdarono a nulla: egli
rimase nel carcere, dove i rigori furono ulteriormente mitigati
sempre, ma non si venne mai più alla sentenza, essendosi poi col
tempo perfino disperso o bruciato il processo, sicchè, anche
volendo, non si sarebbe potuto sentenziare. E vogliamo dire che
egli non cessò mai di serbare viva gratitudine verso coloro i
quali si adoperarono per lui, verso lo stesso Scioppio, sebbene
avesse avuto ragione di convincersi che si era servito delle opere
trasmessegli per comporre le proprie. Appunto nella prefazione
dell'Ateismo debellato stampato nel 1631, ricordando di aver
mandato "ad un amico" quel libro con molti altri, il Campanella
aggiunse, "quibus ad suorum compositionem profecit", ed augurò
all'Ateismo "meliores fructus apud veritatis et non propriae
gloriae cultores": nella prefazione poi della ristampa parigina
dell'opera De Sensu rerum, nel 1637, lodando Tobia Adami che gli
si era mostrato fedele nell'aver procurata la pubblicazione delle
opere avute, e menzionando lo Scioppio ed altri tedeschi e
francesi, che avute le opere "nulla fecero per la gloria
dell'autore", aggiunse "nisi Scioppius pro vita in principio".
Così fino agli ultimi anni suoi il Campanella, ricordando il male,
non dimenticò il bene, e ciò prova la bontà della sua natura, la
quale del rimanente è attestata anche da varii altri fatti
memorabili: basta considerare la difesa di Galileo Galilei, che
scrisse mentre si trovava tuttora nel carcere di Napoli, e la
difesa di Girolamo Vecchietti, che sostenne con pieno successo
quando se lo trovò a lato nel carcere del S.to Officio in
Roma(506). Le speranze di prossima liberazione lo tennero inerte
per molto tempo. Dopo di aver menato a termine febbrilmente le
opere da doversi trasmettere allo Scioppio, scrisse soltanto gli
opuscoli epistolari che abbiamo menzionati: gli ultimi tra questi,
riferibili al 1608, furono gli opuscoli Sul Peripateticismo e Sul
tempo successivo alla morte dell'Anticristo, che forse
rappresentano le risposte al Re d'Inghilterra delle quali si trova
fatta menzione nel Syntagma, ed inoltre quello Sul Pieno e sul
Vacuo diretto al Fabre. Al sèguito di essi si può mettere quello
Per l'Abate Persio sull'uso della bevanda calda, che dovè essere
di maggior mole e vedesi già preconizzato nell'opuscolo
antecedente Sul calore estivo: esso apparisce riferibile a questo
periodo, nel quale certamente il Campanella trovavasi in assidua
corrispondenza col Persio, come mostra l'ultima sua lettera al
Fabre tra quelle da noi pubblicate; ma bisogna anche dire che vi
furono molti opuscoli e lettere all'indirizzo de' Fuggers,
secondochè risulta dalla menzione fattane nel Syntagma. Compose
inoltre senza dubbio molte poesie di dolore o di sdegno pubblicate
poi dall'Adami, delle quali riesce di poter determinare talvolta
la data precisa e più sovente la data approssimativa, sia dietro
qualche circostanza che vi si vede notata, sia dietro qualche
riproduzione di pensieri che si trovano espressi nelle lettere e
nelle opere di data conosciuta. P. es. non si può dubitare che
l'"Elegia al Sole", composta quando stava ancora nella fossa,
debba dirsi della fine di marzo 1607, poichè vi si parla del sole
in ariete e del tempo in cui Gesù risorse, ciò che ci mena alla
Pasqua di risurrezione del 1607, sapendosi che in quest'anno
veramente la Pasqua si celebrò col sole in ariete il 26 marzo,
mentre nell'anno anteriore e nel posteriore si celebrò in aprile;
dippiù vi si trova quel pensiero che fu poi riprodotto nella
lettera a Mons.r Querengo del luglio 1607:
"Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive,
invidio misero tutta la schiera loro".
Ancora il pensiero che trovasi nella stessa lettera, l'esser cioè
il povero prigioniero "un meschino condannato dall'opinione
popolare e di Principi, come il più empio e malvagio che fosse mai
stato nel mondo", ci apparisce quello che ispirò i Sonetti "Della
plebe" ed "A certi amici, ufficiali e Baroni" etc.; ma perfino le
lettere al Papa, oltrechè l'Ateismo debellato, recano pensieri
posti del pari in versi quasi letteralmente, né possiamo far altro
qui che indicare tale criterio per la ricerca delle date. E poichè
abbiamo citati que' due Sonetti, vogliamo pur dire che nell'uno
"Della plebe" il sentimento di un legittimo disgusto ci apparisce
fin dal titolo predominante su quello della compassione, e
nell'altro "A certi amici" il contesto di tutta la proposizione,
là dove si dice che "un piccol vero gran favola cinge", non rende
queste parole applicabili propriamente alle imprese tentate in
Calabria, come è parso ad un egregio storico; né sappiamo poi
resistere alla tentazione di ricordare qui l'aurea sentenza che vi
si legge, e che non è riferibile propriamente alla plebe, da cui
il Campanella professava non potersi trar nulla, bensì riferibile
a coloro che vanno per la maggiore:
"né il saper troppo come alcun dir suole,
ma il poco senno degli assai ignoranti
fa noi meschini e tutto il mondo tristo".
Ma ciò che qui principalmente c'interessa di ricordare si è, che
tutte queste poesie insieme con le altre scritte posteriormente
fino al 1613, come pure le note delle quali vennero corredate
dallo stesso Autore, sebbene fossero state soggette ad una scelta
e non col solo criterio del merito filosofico e letterario,
bensì(507) con quello pure della convenienza politica e
giudiziaria, costituiscono pur sempre un fonte prezioso di
ricerche sugli atti e sugl'intendimenti veri del Campanella, le
notizie de' quali doverono sottostare a tanti garbugli. Come da un
lato la Città del Sole mostra le idee riposte del Campanella, così
questa Scelta delle Poesie filosofiche con l'esposizione, studiata
con amore ed accorgimento, rivela notizie importanti e
testimonianze autentiche ben capaci di stare a fronte alle
testimonianze del pari autentiche ma in senso affatto diverso:
nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella, a proposito
della edizione Adami da noi trovata e studiata nella Biblioteca
de' PP.i Gerolamini, ci si è offerta l'occasione di fare alcune
considerazioni su tale proposito, e ad esse rimandiamo i nostri
lettori(508).
Abbiamo detto che secondo le notizie tratte dall'Epistolario
romano il Campanella sarebbe uscito dalla fossa di S. Elmo,
rimanendo sempre in quel Castello, verso il febbraio o marzo 1608,
dopo che era stata scritta la 1a lettera dall'Arciduca Ferdinando
nel gennaio: noi eravamo pervenuti allo stesso risultamento con
calcoli fatti sopra una notizia, per altro poco chiara, che
trovasi nella nota posta in coda alla Canzone "Della Prima
Possanza"(509). Quivi si legge che egli uscì dalla fossa, in cui
stava quasi disfatto, otto mesi dopo di avere scritta quella
Canzone, "sebbene ci stette tre anni ed otto mesi": il "sebbene"
rende poco chiara la notizia, ma ritenendo l'entrata nella fossa
avvenuta in luglio 1604 secondo i còmputi altrove esposti, e
aggiungendovi tre anni ed otto mesi, abbiamo che, mentre la
Canzone fu scritta in luglio 1607, l'uscita dalla fossa dovè
accadere verso il marzo 1608; ed è superfluo fare avvertire come
rimanga provato sempre meglio che la data dell'entrata nella fossa
deve dirsi quella da noi stabilita. Importerebbe poi conoscere con
precisione la data del trasferimento dal Castel S. Elmo al Castel
nuovo, e finora si ha in modo vago che il trasferimento sarebbe
accaduto dopo la 2a lettera di Ferdinando, vale a dire dopo
l'ottobre 1608: dal Syntagma si ha dippiù che nel 1611 era già
accaduto un altro trasferimento dal Castel nuovo al Castello
dell'uovo. La conoscenza della data precisa del 1° trasferimento,
dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, importerebbe anche per fermare
una circostanza fondamentale, capace di contribuire al chiarimento
di un fatto della vita intima del Campanella, che è affermato
dalla tradizione ma che potrebb'essere piuttosto leggendario.
Alludiamo alla nascita di quel grande che fu Gio. Alfonso
Borrelli, alla cui memoria si vedrebbe già elevato in Napoli un
monumento, se vi fosse, come vi dovrebb'essere, il culto della
dottrina e della virtù; è noto che verso questo tempo egli nacque
nel Castel nuovo, e che una tradizione vorrebbe fosse nato dal
Campanella(510). Aggiungiamo poi che tanto nel Castel S. Elmo,
quanto nel Castel nuovo e del pari nel Castello dell'uovo, il
Campanella, assomigliandosi a Prometeo, continuò sempre a dire di
trovarsi "nel Caucaso"; altre volte disse di trovarsi "nella
Ciclopèa caverna"; questo rilevasi dalle Lettere e dalle Poesie.
perché mai il Campanella si assomigliava a Prometeo? In molte sue
lettere egli si riconobbe colpevole di aver voluto servire alla
rivelazione de' tempi, e così essendo le cose dovrebbe intendersi
avere avuta la sorte di Prometeo per aver voluto scrutare ed
annunziare agli uomini i pensieri di Dio, gli eventi ordinati da
Dio. Ma nella lettera allo Scioppio pubblicata dallo Struvio parlò
esplicitamente della sua condizione di Prometeo, consegnando
l'opera dell'Ateismo debellato con queste parole: "Eia mi Scioppi,
cape facellam hanc, in pectoribus hominum interclude, si forte ex
ruderibus fiant animalia, ex animalibus homines; tibi debetur hoc
munus, qui hujus saeculi es aurora; ego tanquam Prometheus in
Caucaso detineor, quoniam non rite hoc functus sum munere, abusus
sum donis ejus, ebibi indignationem ejus". Intanto nella lettera
medesima lo Scioppio era sospettato tutt'altro che l'aurora del
secolo, e quindi ognuno, tenendo presente l'alto concetto che il
Campanella aveva di sè e della sua missione nel mondo (principale
ragione di fargli desiderare la vita), ammetterà piuttosto che
siasi rassomigliato a Prometeo nel senso della trilogia di
Eschilo: aver concepito disegni divini, riflessi del Primo Senno,
ed essersi sforzato d'infonderli ne' petti umani; venir punito
"per avere troppo amato gli uomini"; aspettarsi un giorno la
liberazione e il trionfo. Su questo ultimo fatto non cade dubbio,
sapendosi dalle sue Poesie che egli sperava doversi al termine del
suo carcere gridare "Viva, Viva Campanella"; sicchè da tutti i
lati emerge abbastanza chiara anche la vera condizione sua per la
quale ritenevasi punito, conforme a quella dichiarata dal Prometeo
d'Eschilo:
[...]
Certamente poi bisogna del pari intendere con le nozioni dateci da
Omero (quell'arguta versione tra le tante, che lo stesso
Campanella fornì circa il termine della sua condizione di Prometeo
o l'uscita dalla Ciclopèa caverna: tale versione si legge nella
sua lettera a Pietro Seguier, posta innanzi all'opera intitolata
Disputationum Philos. realis lib. quatuor Paris. 1637, ed essa, a
parer nostro, avrebbe dovuto fermare moltissimo l'attenzione de'
biografi del filosofo. Parlando degli ergastoli, ne' quali i
persecutori, "gl'ingrati padroni", l'aveano tenuto "gratis", il
filosofo dice che non avrebbe mai pubblicato le opere in essi
composte, "nisi Deus per miraculum longe mirificentius quam
astutum facinus Ulyssis, quod de antro Polyphemi fecit ut exiret,
me liberasset". Si comprende che il titolo d'"ingrati" dato a'
padroni, naturalmente tanto laici quanto ecclesiastici, è
consentaneo all'atteggiamento preso dal filosofo dopo la
carcerazione e mantenuto per tutto il resto della sua vita; ma in
ultima analisi questi padroni rappresentavano per lui Polifemo, e
coll'aiuto di Dio egli ne scampò mediante un "astutum facinus
longe mirificentius" di quello di Ulisse, vale a dire che
astutamente, e in una sfera ben più elevata, egli li ubbriacò, li
accecò, e riuscì a salvarsi ponendosi in branco tra le pecore,
aggrappato bravamente agli egregi velli del pecorone massimo
(storia che non ha bisogno di commenti e che dice anche troppo):
[...]
Una simile proposizione, anche figurata, emessa quando già non
c'era più nulla a temere e tanto meno a sperare da tutti i lati,
riesce degna di fede incomparabilmente più di tutte le altre
emesse in tempi ben diversi: e questo criterio vale senza dubbio
per giudicare le cose dette sì dal Campanella che da' suoi più
intimi amici circa le cause delle sue sciagure; poichè non mancano
neppure proposizioni di qualche suo intimo amico, attestanti piena
innocenza quando gravi riguardi imponevano di parlare in tal modo,
ed attestanti tentativi di nuovo Regno e di nuova religione quando
non c'era da usare riguardi e poteasi dire la verità senza danni.
Il nostro compito è esaurito; dobbiamo solamente fermarci ancora
un poco su due quistioni, che senza dubbio saranno sorte
nell'animo de' lettori, i quali per avventura abbiano seguito con
interesse il corso di questa narrazione. perché mai il Governo
Vicereale volle comportarsi così brutalmente col Campanella,
costituendosi anche dal lato del torto, mentre avrebbe potuto
ottenerne dal tribunale Apostolico la condanna all'ultimo
supplizio? perché mai il Governo Vicereale volle far soffrire al
Campanella il martirio di oltre un quarto di secolo, e la Curia
Romana, tanto lesta ed ardita nell'esigere il rispetto delle
prerogative degli ecclesiastici, non ebbe alcun sentimento o per
lo meno alcun sentimento efficace della tutela di queste
prerogative in persona del Campanella?
Circa la prima quistione, a noi sembra evidente che sulla
determinazione del Governo abbiano avuto ad influire dapprima il
sospetto e la diffidenza, poi anche il puntiglio giurisdizionale,
in sèguito la sconvenienza assoluta di un supplizio tanto
ritardato. Coi criterii d'oggidì sarebbe quasi impossibile
intenderlo, ma è necessario riportarsi a' criterii del tempo. Il
sospetto e la diffidenza, che aveano sempre campeggiato in questa
causa per una lunga serie d'incidenti, doverono al termine di essa
destarsi con maggiore intensità. C'era il gusto della soverchieria
anche tra' Governi, e l'abilità si faceva consistere nel
soverchiare. Poteva darsi il caso, veramente improbabile ma non
impossibile, che all'ultima ora da Roma fosse stato insinuato al
Nunzio il risparmio della vita del Campanella, con la condanna p.
es. alla galera in vita; l'altro Giudice, compagno del Nunzio, si
sarebbe invece pronunziato per la pena di morte; chi avrebbe
allora dovuto risolvere la discrepanza? E risoluta la discrepanza
nel senso della galera in vita, come si sarebbe scansata la
richiesta dell'invio del condannato a Roma, per remigare sulle
galere di S. S.tà? Quanto al puntiglio giurisdizionale, bisogna
considerare le tendenze del tempo veramente incredibili in tale
materia, la lotta vivissima e continua, benchè non sempre
appariscente, tra Napoli e Roma. In questa lotta, anche più degli
spagnuoli, si distinguevano i napoletani, e il Vicerè medesimo,
trattandosi di quistioni giurisdizionali, difficilmente riusciva a
sottrarsi all'influenza loro nel Consiglio Collaterale; se si
avesse, come sarebbe a desiderarsi grandemente, una storia di
questo Consiglio, riuscirebbe manifesto che i Consiglieri
napoletani, serbando tutte le possibili forme di devozione e di
ossequio, in sostanza erano i più diffidenti e puntigliosi verso
Roma; tra le scene di servilismo più abietto, le quistioni con
Roma avevano il potere di far lampeggiare in essi il patriottismo
più rovente. Così a ragion veduta, anche a proposito degl'indegni
trattamenti a' quali il filosofo venne sottoposto, noi abbiamo
parlato di Governo Vicereale più che di spagnuoli e Corte di
Spagna, contro cui sono stati sempre esclusivamente diretti i
biasimi e i vituperii, sapendo che il Vicerè dovè udire l'avviso
del Consiglio Collaterale negl'incidenti della causa del
Campanella(511). E pur troppo Roma avea data occasione a'
puntigli: durante la causa, i superbi "comandamenti di S. S.tà"
erano venuti in campo abbastanza sovente, ma l'ultimo di essi,
quello di far sentenziare dal solo Nunzio in una causa di Stato
mentre si era pure convenuto altrimenti, sorpassava davvero ogni
limite. Bisognava dare una risposta a Roma, e la risposta fu
atroce, quantunque in forma più che modesta e affatto calma. Roma
la comprese perfettamente e non parlò più, ma bisogna pure
ammettere che essa venne ad accomodarvisi di buon grado:
riuscirebbe altrimenti inesplicabile l'aver potuto tollerare in
pace, né per breve tempo bensì per anni, la violazione perfino di
quanto si era convenuto fin da principio, di doversi cioè tenere
il Campanella in carcere, egualmente che tutti gli altri
ecclesiastici, a nome ed istanza del Nunzio, come prigione di lui;
e ciò mentre quotidianamente per ogni menomo clerico, ancorchè
malfattore de' più feroci, fioccavano i suoi reclami laddove si
fosse verificata la più lieve infrazione dell'immunità
ecclesiastica. Non occorre poi spendere molte parole per
dimostrare, che essendo scorsi già varii anni dal momento del
reato e della cattura del reo, al Governo doveva ripugnare
l'esecuzione di una pena capitale, massime in persona di un
ecclesiastico. Trattandosi di reati gravi, non appena il voluto
reo era caduto nelle mani della giustizia, per canone
indeclinabile si abbreviavano i termini in modo spietato, e si
preferiva di andare incontro ad una condanna meno giusta, anzichè
ad una condanna tardiva: la prontezza ed esemplarità della pena
era ritenuta una condizione tanto necessaria, che quasi non
occorreva più pensare alla pena allorchè quella condizione
mancava. Un cumulo di circostanze, non provocate ma deplorate dal
Governo Vicereale, aveano prodotto un ritardo notevole, ed oramai
alla pena capitale non si poteva più pensare: si devenne a ciò che
dapprima il Campanella medesimo avea proposto come il migliore
espediente, il carcere per un tempo indefinito, il quale fu poi
anche mitigato, sia pure dietro le potenti commendatizie, e
mitigato di certo ulteriormente in modo niente affatto ordinario,
ma senza dubbio facendo rimanere negata la giustizia, calpestata
ogni maniera di dritto. Tuttavia non deve sfuggire che se in
dritto il non essersi proceduto alla sentenza fu una solenne
ingiustizia, nel fatto solamente in tal guisa il Campanella riuscì
ad aver salva la vita, non potendo dubitarsi che la sentenza del
tribunale Apostolico, anche col nuovo Nunzio e col nuovo
Consigliere, sarebbe stata sempre la degradazione e la consegna
alla Curia secolare e quindi l'ultimo supplizio. Così bisogna pure
guardarsi dal maledire l'interruzione della causa, e bisogna
piuttosto esser grati alla lotta giurisdizionale, alle superbie,
alle pretensioni, alle diffidenze, a' puntigli, all'abbandono;
perfino all'abbandono, poichè se Roma avesse insistito su ciò che
era veramente un suo dritto, la cosa non sarebbe andata affatto
meglio pel povero Campanella, e si è visto che egli medesimo si
protestava energicamente che la sua causa non doveva terminare in
Napoli.
Circa la seconda quistione, non ci pare dubbio che i due fatti
egualmente notevoli, cioè la pervicacia e crudeltà del Governo
Vicereale nel non desistere da un'ingiustizia, e l'indolenza e
mollezza della Curia Romana nel non reclamare seriamente un suo
dritto per anni ed anni, si spieghino solamente con l'opinione
divenuta comune ad entrambe le parti, che il Campanella fosse un
uomo pericoloso per lo Stato e per la Chiesa. Possiamo aggiungere
senza esitazione, che più si mostrava la rigogliosa vitalità del
prigioniero, più si veniva a manifestare la sua dottrina, la sua
energia, la sua versatilità, la sua vena inesauribile, più doveva
egli essere giudicato pericoloso. La cosa merita di essere ben
valutata, e gioverà trattenervisi qualche momento.
Lo Stato, che avea veduto sorgere in breve tempo un disegno non
lieve di ribellione per la sola parola efficace del Campanella,
non potè mai rimanere tranquillo sul conto di lui; e per quanto
egli si stemperasse in proteste di devozione, e spiegasse nelle
sue opere un grande attaccamento a Spagna, non gli accordò mai
fede. Vedendolo poi rivolto a Roma assiduamente, con la teorica
del dovervi essere una sola greggia ed un solo pastore Sacerdote e
Re al tempo medesimo, sospettò sempre che una volta liberato
avrebbe potuto riuscire nelle mani del Papa una forza notevole.
Così dopo una diecina di anni al più, sebbene il Campanella avesse
continuato a dire che si trovava nel Caucaso, in realtà sappiamo
che il Governo Vicereale lo tenne in carcere da potersi veramente
chiamare cortese, come il Baldacchini chiamò il carcere di S.
Officio sofferto più tardi in Roma, e con ragione
incomparabilmente maggiore, vista la qualità del Governo che a
tanto si piegava e il tempo in cui vi si piegava; ma di mandarlo
via non volle mai udire a parlare, presago che avrebbe avuto a
pentirsene. Gli concesse perfino di tenere insegnamento privato
nelle carceri, oltrechè scrivere a sua volontà, porsi in
corrispondenza con chi gli piacesse, ricever visite anche da
illustri viaggiatori di passaggio per Napoli, e quanto alle opere
che componeva, si vide il Nunzio nel 1611 fargli fare una
perquisizione ed impossessarsi di quello che gli si trovarono,
mentre nulla di simile si vide da parte del Governo. I Vicerè che
si successero, il Conte di Lemos figlio, il Duca d'Ossuna, infine
anche il Duca d'Alba, ebbero per lui stima e riguardi, più che non
ne ebbero i Vicerè ecclesiastici, il Card.l Borgia e il Card.l
Zapatta, e fin dal 3 novembre 1616, certamente pe' favori
dell'Ossuna, il Campanella potè scrivere al Galilei "sto quasi in
libertà"; ma l'uscita dal Castello non gli venne accordata, se non
dopo che scorse oltre un quarto di secolo, dopo che il processo si
era già perduto da un pezzo, ed un'ulteriore custodia del
prigioniero non sentenziato né sentenziabile si potea dire, più
che inumana, vergognosa. La preoccupazione del Governo fu sempre
che il Campanella avrebbe potuto riuscire una forza notevole nelle
mani del Papa: ce lo ha dimostrato tutto l'atteggiamento da esso
preso durante i processi, e ce lo conferma un prezioso documento
da noi rinvenuto in Madrid. Perfino poco tempo prima che il
Campanella fosse liberato, il Card.l Trexo spagnuolo, ammiratore
suo e giudice competentissimo della posizione, gli ricordava le
condizioni del Regno a fronte di Roma, gli faceva riflettere che
troppo sovente egli aveva ne' suoi scritti lodato l'insolito
governo di un Principe che fosse Re e Sacerdote ad un tempo, e
soggiungeva: "poni mente a cancellare quest'articolo, o almeno a
spiegarlo in un senso tale, che l'animo del Re, il quale non è né
può essere Sacerdote, e le orecchie de' suoi ministri non se ne
offendano e ti abbiano ancora in sospetto". Nessuno intanto,
speriamo, vorrà supporre in noi l'intenzione di scusare il Governo
Vicereale, adducendo le concessioni fatte al Campanella e la
preoccupazione che gli vietava di accordargli la libertà: noi,
forse più di chiunque altro, siamo convinti che il procedimento
del Governo fu non solo iniquo ma anche letale segnatamente pel
Napoletano; poichè il colpo gravissimo, inflitto alla cultura e al
carattere di un uomo portentoso, ricadde sulla cultura e sul
carattere del paese. Colui che aveva iniziato la sua carriera con
la "Filosofia dimostrata co' sensi", ed aveva osato concepire un
più che audace progetto di riscossa nei campi dello Stato e della
Chiesa, non potè appunto profittare dei suoi sensi, dovè abbondare
in fantasie, abbondare anche pur troppo in simulazioni; e parecchi
i quali emersero di poi sulla folla degl'ignoranti, essendo
accorsi al suo privato insegnamento non appena mitigati i rigori
del carcere, ne riportarono naturalmente i molti pregi ma anche i
gravi difetti. A noi però incombe il debito di spiegare la
condotta del Governo e di mostrare che essa non fu capricciosa. Il
Campanella era giuridicamente colpevole verso lo Stato, e venne
ritenuto inesorabilmente un pericolo continuo per la Spagna: fu
questa la maggiore delle sue glorie, e il Governo vi provvide con
quella ferocia che era la sua forza.
Ma al martirio del Campanella non contribuì solamente lo Stato. La
Chiesa aveva avuto occasione di conoscerlo già da un pezzo, né
poteva non tener conto degli antecedenti; dapprima un grave
sospetto di eresia finito con una solenne abiura, poi varie altre
imputazioni dello stesso genere ma riuscite a vuoto, da ultimo un
disegno di ribellione d'accordo col nemico del nome Cristiano e un
mucchio di eresie, accertati con un processo Apostolico ed un
processo Inquisitoriale; c'era più di quanto occorresse, per
rimaner sorda alle proteste di devozione, e guardare con
diffidenza le opere del prigioniero ancorchè riboccanti di fervore
religioso. Come abbiamo dimostrato, la condanna pronunziata dalla
Chiesa nel processo di eresia non fu benevola pel Campanella, ma
al contrario, e le ripetute istanze fatte perché si sentenziasse
nel suo processo di congiura, dopo di aver dato termine a quello
di eresia, non erano dirette a salvarlo. Ignoriamo quali pratiche
Roma abbia veramente fatte dopo un lungo, lunghissimo silenzio, a
fine di ottenere il passaggio del Campanella almeno sotto
l'autorità del Nunzio, come essa esigeva per ogni ordinario
delinquente ecclesiastico, e come erasi convenuto fin da
principio. Conosciamo soltanto con sicurezza, che pur quando si
seppe indubitatamente che il processo della congiura non si
trovava più essendo stato disperso o bruciato, come accadde nel
1620 a tempo del Vicerè Card.l Borgia il quale volea vederlo e non
lo potè avere, nessun reclamo efficace fu sporto da Roma per
uscire da una posizione tanto scandalosa. Conosciamo inoltre che
perfino dopo 25 anni di carcere, durante il Pontificato di Urbano
VIII, il Campanella chiedeva istantemente che il P.e Generale
dell'Ordine facesse una dimanda al Re perché lo concedesse a'
Superiori, come da Spagna si desiderava per uscire dall'imbarazzo:
e non avendo potuto ottenerlo, ed essendosi fatto raccomandare al
potentissimo Card.l Barberini per questo, ebbe a provare che il
Cardinale si acquetò facilmente alla negativa del P.e Generale, e
ripetendo una proposizione emessa già dal Fabre e dallo Scioppio
disse che il Campanella "stava meglio dove stava"(512). Conosciamo
infine che dietro le insistenze di Mons.r Massimi Nunzio in
Ispagna, fautore particolare del Campanella e carissimo al Re,
venne una lettera Regia per lui, e sopra un memoriale da lui
presentato si decretò in Consiglio Collaterale non la consegna al
Nunzio ma la libertà provvisoria con l'obbligo di risedere nel
convento di S. Domenico in Napoli; che di poi, in barba del
Governo Vicereale, se ne fuggì travestito a Roma, e quivi scontò
tre anni di pena nel carcere del S.to Officio, come era solito
farsi pe' condannati al carcere perpetuo, senza che fossero
veramente computati i 26 anni di carcere sofferti in Napoli; né
per quanto mite sia stato il carcere di Roma, si può dirlo più
mite di quello di Napoli negli ultimi quindici anni, mentre in
quest'ultimo era stato permesso fin l'insegnamento, che non fu mai
permesso in Roma, non solo dentro, come era naturale, ma neanche
fuori del carcere, consecutivamente. Tutto ciò mena a far ritenere
che durante la prigionia di Napoli l'abbandono del Campanella
fosse dipeso anche dalla sua condizione di delinquente politico,
giacchè di simili abbandoni si ebbe pure un altro esempio più
spaventoso sotto lo stesso Pontificato di Papa Urbano: è noto come
finì l'allievo del Campanella fra Tommaso Pignatelli, reo di Stato
in un ordine incomparabilmente inferiore a quello del suo maestro,
abbandonato al giudizio di un ecclesiastico gradito al Vicerè
nominato dal Nunzio per delegazione avutane dal Papa; egli fu
atrocemente strangolato, dopochè quell'ecclesiastico, con la
semplice assistenza di un Consigliere Regio, lo sentenziò reo di
lesa Maestà, e bisogna tenerlo presente quando si discute de' casi
del Campanella. Del resto la sola condizione di condannato per
eresia bastava a far sì che Roma si curasse poco o niente del
Campanella prigione, e sarebbe strano il pretendere che avesse
dovuto mostrare tenerezze per lui. Qui dunque, speriamo, nessuno
vorrà attendersi da noi vederci ingrossar la voce contro Roma: noi
invece siamo dolenti di ciò che accadde più tardi e che è da tutti
glorificato, della benevolenza mostrata al Campanella da Papa
Urbano, la quale per verità non fu punto disinteressata, e in
ultima analisi finì con la compromissione, con l'esilio, con
l'abbandono spietato del filosofo nella più affliggente miseria.
Ma pel nostro assunto ci preme ora solamente rilevare e spiegare
la condotta di Roma verso il Campanella durante la prigionia. Il
Campanella era non solo giuridicamente colpevole ma anche
condannato dalla Chiesa, né giunse ad ispirare fiducia per
l'avvenire, e Roma si comportò con lui non diversamente da quanto
doveva attendersi da essa. Così lo Stato e la Chiesa vennero a
trovarsi tacitamente d'accordo nel far soffrire al disgraziato
filosofo un martirio efferato.
In conclusione ci si permetta ancora di dire, che non solamente
due tribunali in regola, entrambi istituiti da Roma, aveano
verificata e punita la congiura e l'eresia ne' pochi ecclesiastici
più indiziati e non isfuggiti al Fisco, onde rimaneva del pari
giustificata l'opera del tribunale pe' laici, ma tutti veramente
in quel tempo ammisero esservi state pratiche dirette dal
Campanella per fondare, aiutandolo anche il Turco, un nuovo ordine
di cose in Calabria, con nuove istituzioni politiche e religiose.
né solo pel tempo degli avvenimenti, ma anche per più anni
consecutivi questa fu l'opinione generale, partecipandovi del pari
senza riserva Agenti di altri Stati perfino in momenti di forte
irritazione verso Spagna, come si può rilevare da' Carteggi de'
Residenti Veneti che si successero nel Regno: se qualche volta si
disse, come il Campanella medesimo affermò, che la Calabria era
stata macchiata di falsa ribellione e straziata per questo, si
volle intendere che tutta quella regione era stata tenuta
responsabile di un fatto concepito e preparato da un gruppo
d'individui, e con tale falso giudizio se n'era abusato
scelleratamente. Ma, oltrechè negli avversi a Spagna, negli
indifferenti medesimi non del tutto inetti, venne mano mano a
destarsi la più profonda pietà verso un uomo tanto straordinario,
che si vedeva indefinitamente prigione di Stato senza alcuna
condanna, mentre, dopo i primi supplizii e le estese carcerazioni,
già tutti i complici e in ispecie i frati si trovavano in libertà.
Vennero quindi le voci de' pietosi e degli ammiratori ad unirsi
alle franche denegazioni ed agli amari lamenti del prigioniero,
massime dopo che, mediante l'insegnamento, gli fu permesso un più
largo contatto co' migliori, e le corrispondenze, le visite, e
sopratutto le opere che si diffondevano manoscritte o si citavano
con meraviglia, diedero motivo a far parlare di lui diversamente
dalla maniera in cui se n'era parlato prima. Talora in buona fede,
più sovente con lo scopo di giovare al prigioniero, lo si disse
candido ed ingenuo, vittima del suo spirito d'innovazione
scientifica, avversato dagl'invidiosi; si accreditarono le sue
discolpe, e fu agevole dimostrarle giuste nominando certe opere da
lui scritte; si diffuse che Spagna gli negava la libertà per
errore e per tirannia, che Roma l'avrebbe voluto e l'avea voluto,
che il Papa era tutto per lui. Cominciò quindi a ritenersi,
press'a poco come fino ad oggi i più gravi biografi del Campanella
hanno mostrato di ritenere, che egli avea solamente fatto presagi
e raccolto profezie per dimostrare la imminente fine del mondo e
il secolo d'oro da doversi godere prima di essa, che della
congiura era affatto innocente, che il Papa con la sua condanna in
materia di S.to Officio aveva inteso trarlo a Roma per toglierlo
dalle mani di Spagna, che Spagna lo teneva violentemente prigione
in Napoli non avendo potuto trovare tanto che bastasse a farlo
condannare, che era infine stato disperso, celato o bruciato il
processo, per impedire che l'innocenza fosse riconosciuta e
l'analoga sentenza fosse pronunziata. Le denegazioni del
Campanella sempre più spinte nel conoscere che il processo non si
trovava più, l'interesse spiegato per lui dal Massimi Nunzio del
Papa a Madrid, quindi la sua fuga a Roma non appena uscito dalle
mani del Governo Vicereale, la sua prigionia nel carcere del
S.{to} Officio in Roma per soli tre anni e non perpetuamente
giusta le consuetudini non a tutti note, di poi la benevolenza
mostratagli da Urbano VIII senza essersene capiti i veri motivi,
tutti questi fatti suggellarono l'opinione che egli era stato
davvero innocente, oppresso da Spagna, protetto da Roma; e vi
furono allora, come vi sono stati di poi e vi sono ancor oggi,
ammiratori del filosofo credutisi in obbligo di purgarlo dalle
calunnie sofferte e di cantare le glorie del Papato che spiegò
tanto favore verso di lui(513). Sappiamo che perfino un cronista
calabrese contemporaneo, Gio. Angelo Spagnolio la cui conoscenza
si deve al Capialbi, mentre avea dapprima, nel 1599, affermata la
congiura di Calabria e la parte presavi dal Campanella, si fece
poi a revocare almeno quanto concerneva il filosofo nel 1642(514).
Già in Napoli Antonino Marzio fin dal 1626 aveva scritta un'Elegia
e un Discorso a proposito della liberazione del Campanella
facendone la dedica a Urbano VIII e forse in buona fede, ma alcuni
anni più tardi in Roma Gabriele Naudeo scrisse uno sfolgorante
Panegirico ad Urbano VIII a proposito de' favori accordati al
Campanella, e senza dubbio artificiosamente; poichè in un'altra
opera posteriore, destinata a rimaner segreta, egli ingenuamente
narrò che a breve intervallo il Postel in Francia e il Campanella
in Calabria aveano tentato di fondare un nuovo stato di cose, ma
non erano riusciti per non avere avuto forze, "condizione
necessaria a tutti coloro i quali vogliono stabilire qualche nuova
religione"; ed aggiunse, che "quando il Campanella ebbe il disegno
di farsi Re dell'alta Calabria, scelse molto a proposito per
compagno della sua impresa un fra Dionisio Ponzio che si era
acquistata riputazione del più eloquente e del più persuasivo uomo
del suo tempo"(515). Questa testimonianza di un disegno del
Campanella di voler fondare una nuova religione e farsi Re in
Calabria, con l'indicazione del modo prescelto e del motivo per lo
quale non riuscì, da parte del Naudeo stato in intime relazioni
col Campanella nell'anno 1631 e seguenti, poi anche le lettere del
Campanella pubblicate in piccola parte dal Baldacchini e in più
gran parte dal Berti, avrebbero dovuto richiamare le menti a più
esatti giudizii, far ricercare con diligenza i documenti
dell'accusa e non soltanto quelli della difesa, far guardare un
po' più addentro sulla condotta vera del Papato in genere e di
Urbano VIII in ispecie verso il Campanella.
Su quest'ultimo punto, ed anzi su tutte le tribolazioni patite dal
Campanella dopochè uscì dalle mani degli spagnuoli, nemmeno ci
pare che siasi profittato davvero de' documenti del tempo,
studiandoli da tutti i lati e con la necessaria equanimità. Si è
riconosciuto oramai che il Campanella non finì col godere un
tranquillo ed agiato riposo, come del tutto erroneamente era stato
ammesso; ma si è posta anche troppo in mostra la sua
irrequietezza, la sua imprudenza, la sua testardaggine, senza
porre in altrettanta mostra la condotta di coloro che dapprima lo
trattarono con benevolenza pel gusto de' dispetti politici e pel
desiderio di trarne vantaggiosi consigli, e poi lo abbandonarono,
lo sprezzarono, lo lasciarono perseguitare fino alla morte da due
ribaldi invidiosi, il P.e Generale dell'Ordine e il Maestro del
Sacro Palazzo, d'accordo con un altro ribaldo, il Card.l Nipote, i
quali tutti avrebbero voluto vederlo assolutamente annullato. È
certo che Papa Urbano, quando gli parve giunto il momento di
scovrirsi partigiano di Francia, mostrò benevolenza ed accordò uno
stipendio al Campanella, per far dispetto a Spagna ed anche per
averne conforti nelle vive apprensioni circa la propria salute,
essendo rimasto scosso dalle varie predizioni astrologiche venute
fuori contro di lui, e poi dalle sciocche malie che Giacinto
Centini con l'assistenza di un frate e di un eremita eseguì per
affrettarne la morte: allora egli sentì il bisogno delle
conversazioni del Campanella ed anche delle sue contro-predizioni
astrologiche, benchè avesse solennemente condannata l'astrologia,
onde molto si mormorò in Roma per questo, e il Card.l Nipote vide
necessario allontanare un poco il Campanella dal Palazzo
Apostolico. È certo inoltre che quando i Card.li di casa Barberini
crederono conveniente di non tirarla troppo con la Spagna, la
quale anche venne a rilevarsi di molto con la vittoria di
Nordlinga, e d'altro lato Papa Urbano giunse a rinfrancarsi
intorno alla sua salute mediante gli esorcismi del rinomato frate
della Trinità de' monti, e le predizioni astrologiche di un ebreo
Abramo che gli assicuravano 24 anni di regno avendo il Sole nella
9.a casa, il Campanella fu abbandonato all'avarizia e alla
perfidia del Card.l Nipote, che desiderava risparmiare lo
stipendio accordatogli ed era collegato col Generale de'
Domenicani, il cui fratello Ludovico già trattava segretamente col
Vicerè di Napoli per conto de' Barberini: così, alla richiesta del
Vicerè che voleva riavere il Campanella nelle mani, si facilitò
l'andata di lui in Francia donde non sarebbe più tornato, invece
dell'andata a Venezia dove egli avrebbe voluto recarsi, e mentre
il povero esule era ancora in viaggio, il Card.l Nipote commetteva
al Mazarini, Nunzio straordinario in Francia, di
"screditarlo"(516). È certo ancora che il Re di Francia lo accolse
con benevolenza e gli accordò una pensione per far dispetto a
Spagna, ed anche per averne consigli politici, come lo affermò un
testimone irrecusabile, il Foerstner, che vide più volte il
filosofo in colloquio col Re e col Card.l di Richelieu su materie
di Stato; ma poi la pensione non fu più pagata, e rimasero i
dileggi del Richelieu ed anche del Mazarini, atti solo a provare
una volta di più che in essi non c'era alcun senso di onestà e di
giustizia. È certo infine che ben presto gli fu intimato da Roma
di non stampare alcuna opera senza il permesso romano, il quale
non veniva mai, altrimenti lo stipendio gli sarebbe stato tolto,
esigendo pure che si fosse "quietato" a vedersi sospeso il
publicetur per le opere già approvate e stampate, come l'Ateismo,
la Monarchia del Messia, i Discorsi della libertà e felice
soggezione etc., e a vedersi sospeso l'imprimatur per altre opere
da doversi stampare, come il Reminiscentur, il Cento thomisticus
de Praedestinatione etc., con la circostanza aggravante del non
vedersi restituiti i manoscritti né significate le proposizioni
censurabili in essi rinvenute. Insomma egli avrebbe dovuto
annullarsi, veder soppresse le opere sue benchè non condannate,
vedersi trattato peggio del Galilei, il quale assistè
all'abbruciamento del suo libro ma dopo che era stato condannato.
E il Campanella non vi si piegò, e dategli appena 900 lire-tornesi
fino al 15 marzo 1636 lo stipendio gli fu tolto, ed invano il
povero vecchio, con una continua serie di lettere, fece conoscere
le sue condizioni infelici esclamando, "mi muoio di necessità..;
egestate premor..; non mi levate la lemosina che S. B. mi donò
perché la levate a Dio crocifisso..; sono uscito della memoria di
V. B. in manera che mi lascia morir di fame e di necessità..;
crepo di fame..; sto mendicando". Qual meraviglia se in una
persecuzione simile siasi mostrato irrequieto, riottoso,
imprudente? Sarebbe tempo oramai di non guardare taluni portamenti
del Campanella senza tener conto degli strazii che gli furono
inflitti, di non accogliere quasi con compiacenza certi giudizii
sul conto di lui emessi perfino da chi non si fece scrupolo di
trattarlo in un modo tanto abominevole, di riconoscere che tutta
la sua vita fu un martirio continuato, e che ben pochi meritano
quanto lui l'ammirazione e la gratitudine dovute a coloro i quali
fortemente vollero e grandemente patirono.
FINE.
INDICE DEL VOL. II.(517)
CAP. IV. - Processi di Napoli e pazzia del
Campanella.
A. - Processo della congiura (primi mesi del
1600).
I. Arrivo delle quattro galere co' prigioni in Napoli; per ordine
del Vicerè, all'entrare in porto ne sono impiccati quattro alle
antenne, ed anche squartati due in mezzo alle galere, il Caccìa e
il Vitale, ma dopo di averli fatti soffocare; ultimi atti di
costoro (1). Notizie esagerate che ne dava il medesimo Vicerè; sua
istanza che il Vescovo di Mileto si rechi a Napoli, e che nella
causa dei frati e clerici intervenga un suo ufficiale; fra
Cornelio consegna al Nunzio il processo di Calabria (4). Scelta
de' componenti il tribunale pe' laici ed istruzioni relative;
Marcantonio de Ponte Giudice commissario, D. Giovanni Sances
Avvocato fiscale assistito dallo Xarava, Giuliano Canale
Mastrodatti; notizie sul De Ponte e sul Sances (5). Difficoltà
incontrate dal Nunzio per riconoscere i carcerati ecclesiastici;
fra Cornelio, dopo di averne visitato qualcuno, parte per Roma,
dove non riesce a sodisfare il S.to Officio che l'interroga; non
per tanto Roma accetta che oltre il Nunzio intervenga nella causa
degli ecclesiastici un ufficiale Regio (7). Ricognizione de'
carcerati ecclesiastici nel Castel nuovo eseguita dall'Auditore
del Nunzio; il Castellano D. Alonso de Mendozza; ricognizione del
Campanella e socii; si trovano al n.° di 23 i carcerati
ecclesiastici detenuti a nome del Nunzio di S. S.ta (11).
Trattative per la costituzione del tribunale per gli
ecclesiastici; Roma accorda che uno de' Delegati Apostolici venga
nominato dal Vicerè, purchè non sia coniugato, ed abbia o pigli la
prima tonsura; il Vicerè nomina D. Diego De Vera, mantenendo il
Sances come fiscale anche per gli ecclesiastici; giudizio su tale
determinazione di Roma (15). Vita del Campanella nel carcere; il
Castel nuovo, i suoi torrioni, le sue carceri, le sue fosse; il
Campanella è posto nel 2° piano del torrione detto del Castellano;
nel 1°, sotto di lui, trovasi Maurizio; parole tra' carcerati
dalle finestre e cartoline scambiate tra loro (20). Il Campanella
sollecita il Petrolo e più ancora il Pizzoni perché si ritrattino;
scambia col Pizzoni cartoline in un breviario; inoltre si occupa a
scrivere poesie (23).
II. Comincia il processo della congiura o "tentata ribellione" pe'
laici, venendo sostituito al Canale per Mastrodatti Marcello
Barrese; nuovi e terribili tormenti a Maurizio de Rinaldis che non
confessa nulla; se ne conferma la condanna a morte, condanna che
fu poi attribuita dal Campanella ad altre cause (26). Si conferma
la condanna anche del Pisano già confesso, e si fanno i
preparativi per le due esecuzioni; ma il Nunzio interviene e fa
sospendere l'esecuzione del Pisano che era clerico; invece
Maurizio è condotto al patibolo dirimpetto al torrione in cui
stava il Campanella, ma sotto la forca, dietro l'ingiunzione
avutane dal confessore, dichiara di voler rivelare ogni cosa a
scarico della sua coscienza e ne rimane quindi sospesa
l'esecuzione (30). Motivi inaccettabili addotti poi dal Campanella
per la spiegazione di tale fatto; sunto delle rivelazioni di
Maurizio; dopo di averle fatte ratificare con una nuova tortura si
decide di ritardare ancora la morte di Maurizio per farne la
confronta col Campanella e co' complici (32). Tormenti a molte
altre persone; provvedimenti contro i contumaci; forgiudicazione
di parecchi secondo i documenti raccolti (39). Giunge da Roma
l'assoluzione della scomunica pel P.pe di Scilla, pel Poerio e per
lo Xarava, richiesta dal Vicerè e dagl'interessati; giunge da
Calabria il Vescovo di Mileto ed ha un colloquio col Vicerè:
giunge infine anche il Breve del Papa circa la costituzione del
tribunale per gli ecclesiastici, ed allora il Vicerè, di sorpresa,
fa procedere all'esecuzione di Cesare Pisano (42). Ultimi atti del
Pisano; sue dichiarazioni innanzi a' Delegati del S.to Officio e
discolpe innanzi ai Bianchi di giustizia; particolari del
supplizio e delusione del Nunzio (43).
III. Si costituisce il tribunale della congiura per gli
ecclesiastici; analisi del Breve Papale, risulta che con esso
creavasi un tribunale Apostolico (48). Si esamina il Campanella,
che nega anche il contenuto della sua Dichiarazione scritta in
Calabria; si procede alla confronta di lui con Maurizio e poi col
Franza, Cordova, Tirotta, Gagliardo, Conia, fra Silvestro di
Lauriana; il fisco chiede che si venga alla tortura, ma il Nunzio
esige che se ne chiegga licenza al Papa (50). Si esamina fra
Dionisio, che nega; si esamina quindi il Pizzoni, che forse
dapprima si ritratta ed è posto in una fossa, ma finisce col
confermare quanto ha deposto in Calabria con poche varianti; si
esamina quindi il Petrolo, che certamente comincia col ritrattarsi
ed è posto nella fossa, e poi non solo conferma ma anche sviluppa
i disegni del Campanella; si procede quindi alla confronta tra
loro due (53). Il Campanella è posto nella fossa del miglio per
una settimana; intanto si fa la confronta di fra Dionisio con
Maurizio, si esaminano il Bitonto ed altri, tra' quali fra
Scipione Politi (56). Si conduce Maurizio ad esortare fra Pietro
di Stilo che confessi e poi si procede all'esecuzione di esso; sue
ultime rivelazioni innanzi a' Delegati del S.to Officio;
particolari dell'esecuzione; ottima riputazione che lascia di sè;
i suoi beni sono distribuiti in tre parti, a' monasteri, alla
vedova e alla figliuola (57). Sono esaminati il Flaccavento e il
Sanseverino, e inoltre Lauro e Biblia che sono pure confrontati
con fra Dionisio; venuta la licenza da Roma si dà al Campanella il
tormento del polledro; particolari di questo tormento (61). Nello
svestire il Campanella gli sono trovate cartoline scrittegli dal
Pizzoni, e una carta scrittagli dal Lauriana; sono consegnate al
Sances; non reggendo alla tortura egli confessa aver voluto fare
la repubblica, ma sotto certe condizioni (62). Confessione del
Campanella in tormento secondo i brani che ne rimangono; complici
da lui nominati; commenti; non senza ragione è dichiarato
"confesso" (66). Gli si dà la copia degli atti esistenti contro di
lui con un termine per le difese, e gli si assegna difensore Gio.
Battista de Leonardis avvocato de' poveri; notizie intorno a
costui; il Sances fa anche dettare dal Campanella molti articoli
profetali sui quali egli si fondava per sostenere l'avvenimento
delle mutazioni (71). Si dà lo stesso tormento del polledro a fra
Dionisio, che non confessa nulla; si dà la corda aggravata dalle
funicelle per due ore al Pizzoni con lo stesso risultamento, ma
rimane leso in una spalla (73). Si esamina il Cortese e il Milano:
si dà la corda per due ore al Petrolo che nemmeno confessa; si
esamina Giulio Contestabile; si dà la corda al Bitonto e poi anche
al Contestabile, i quali risultano parimente negativi (ib.). Sono
rilasciati dapprima 8 e poi altri 4 tra frati e clerici imputati
di minor conto; Giulio Contestabile presenta subito documenti,
testimoni e la Difesa scritta da un avvocato proprio; particolari
di questa Difesa (74). Difesa del Campanella scritta dal
Leonardis; commenti; Allegazione scritta dal Sances in replica;
non è nota la Difesa di fra Dionisio (77). L'attività del
tribunale si rallenta per l'andata del Vicerè a Roma e poi per le
feste di Pasqua; il Sances dimanda che si spediscano le cause del
Campanella e di fra Dionisio, ma il Nunzio prevedendo che la fine
delle cause sarebbe stata la loro condanna a morte, mentre non
ancora si era fatto nulla circa l'eresia, si oppone per attendere
gli ordini del Papa; intanto continuano le difese per gli altri
frati (80). Durante le feste di Pasqua si manifesta nel Campanella
un subitaneo e violento accesso di pazzia; particolarità e motivi
del fatto; il Sances, alcuni giorni dopo, fa spiare il Campanella
da due scrivani, i quali sorprendono due volte il Campanella in
dialoghi notturni con fra Pietro Ponzio; relazione di questi
dialoghi (84). Vita intima del Campanella nel carcere fin da
principio della sua venuta in Napoli; poesie da lui composte per
dare animo agli amici, le quali oggi si pubblicano per la prima
volta; rassegna di queste prime poesie, cercando di ognuna la data
e rilevandone l'importanza (89). Difese da lui scritte che non
giunge in tempo a presentare, "1.a Delineatio" e "2.a Delineatio,
Articuli prophetales"; analisi di esse e commenti; inoltre
l'"Epistola ad amicum pro apologia" con ogni probabilità diretta a
fra Dionisio per giustificarsi; infine la ricomposizione del libro
della Monarchia di Spagna, eseguita mentre rimaneva sospesa la
spedizione della causa della congiura ed il filosofo continuava a
mostrarsi pazzo (97). Premii dati frattanto a Lauro e Biblia;
concessioni fatte e posto di Consigliere del Collaterale dato più
tardi al P.pe della Roccella; posto di Capitano della cavalleria
pesante dato allo Spinelli, avendo per aggiunto e successore il
suo nipote Marchese di S. Donato poco dopo nominato Duca;
promozione di D. Carlo Ruffo da semplice Barone a Duca di Bagnara;
nomina dello Xarava a Consigliere, e pensione accordata a fra
Cornelio; la nomina del Leonardis a Consigliere, avuta dopo il
passaggio a Fiscale, non reca alcun cenno del servizio prestato
nella causa della congiura (113).
CAP. V. - Sèguito de' processi di Napoli e della pazzia del
Campanella
B. - Processo dell'eresia (maggio 1600 a settembre 1602)
I. Viene risoluto da S. S.tà che il processo dell'eresia si faccia
in Napoli dal Nunzio, dal Vicario Arcivescovile e dal nuovo
Vescovo di Termoli, che è il Tragagliolo già Commissario del S.to
Officio in Roma; notizie sul Tragagliolo e sul Vicario (119). La
parte principale è deferita al Vescovo di Termoli, e il Nunzio
spesso manda in voce sua alle sedute il Rev. Antonio Peri
fiorentino suo Auditore; Mastrodatti è Gio. Camillo Prezioso,
Notaro della Curia Arcivescovile; comincia il processo offensivo
coll'esame del Pizzoni, che dichiara di avere avuto minacce dal
Campanella, conferma le cose già deposte in Calabria, con varianti
di minor conto, e sostiene avere già prima denunziato il
Campanella per lettere al P.e Generale, e di persona a fra Marco e
fra Cornelio (121). Sono esaminati fra Marco e fra Cornelio che
negano quanto ha asserto il Pizzoni; è interrogato per lettere il
P.e Generale Beccaria che risponde negando del pari; è esaminato
il Petrolo, che conferma le cose già deposte con poche varianti e
dichiara di avere anche avute minacce dal Campanella (122). Si
esamina il Campanella che sèguita a mostrarsi pazzo ed è rinviato;
si esamina fra Pietro di Stilo che attenua le cose già deposte; si
esamina il Lauriana che dice occorrergli soltanto di manifestare
che ha continue minacce dal Campanella, ed attenua di molto
unicamente le cose già deposte contro il Pizzoni, evidentemente
per concerti presi tra loro; si esaminano inoltre fra Paolo della
Grotteria e il Bitonto che fanno deposizioni negative (123). È
presentata una denunzia contro il Campanella da fra Agostino
Cavallo circa le sue passate relazioni con l'ebreo Abramo; sono
esaminati per questo il denunziante ed anche fra Giuseppe Dattilo
(125). Il Vescovo di Termoli privatamente raccoglie informazioni
anche presso fra Cornelio, Xarava, Fabio di Lauro, D. Pietro de
Vera, e le comunica al Card.l di S.ta Severina; ritiene che al
Campanella debba amministrarsi la tortura, ma sa che non la teme;
da Roma gli si mandano i sommarii de' processi di Calabria cioè di
Monteleone, di Gerace, di Squillace (126). Sono riesaminati fra
Paolo, il Bitonto, il Petrolo, fra Pietro di Stilo e il Lauriana;
fra Pietro Ponzio invia al Vescovo una lettera del Lauriana al
Pizzoni sorpresa da fra Dionisio; sono esaminati diversi su tale
incidente; il Lauriana nega con giuramenti, ma risulta indubitato
che egli ed il Pizzoni agivano d'accordo ed in falso (128). Sono
riesaminati il Pizzoni, il Lauriana ed il Petrolo, su varie
circostanze; il Nunzio, tornando dalla sua Chiesa di Troia, si
convince per via della pessima vita de' frati in relazione co'
banditi e ne scrive a Roma (130). Sono ancora riesaminati
nuovamente il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il
Pizzoni e poi anche il Bitonto; cominciano a rivelarsi i modi
iniqui usati da fra Marco e fra Cornelio in Calabria, ma le cose
deposte non sono smentite (133). Quattro esami successivi di fra
Dionisio, che nega di avere avuto mai scandalo dal Campanella per
cose di eresia, parla di dimanda di perdono direttagli dal
Lauriana, fornisce ampie spiegazioni e cerca di ribattere tutte le
accuse; esame di Giulio Contestabile, che sostiene essergli il
Campanella divenuto nemico per aver lui divulgato che era stato
già condannato all'abiura (135). Esame di Giulio Soldaniero, fatto
venire da terra d'Otranto ove si era ritirato ed era stato
carcerato ad istanza del S.to Officio; egli ha già dimenticate
troppe cose e si contradice su varie circostanze (138). Avuto
l'assenso da Roma si dà un'ora di corda al Campanella che continua
a mostrarsi pazzo; poi sono esaminati suo padre Geronimo e suo
fratello Gio. Pietro; poi è ricondotto il Campanella innanzi a'
Giudici, e mostrasi sempre pazzo (139). Nuovo esame del
Soldaniero, cui si fanno notare le contradizioni nelle quali è
caduto; esame di Giuseppe Grillo; nuove dimande a fra Dionisio e
al Pizzoni circa la loro andata a Soriano (141). Il tribunale
emana i decreti occorrenti per passare al processo ripetitivo; ma
sono ancora esaminati il priore e il lettore di Soriano come pure
Valerio Bruno, ed inoltre fra Gio. Battista di Placanica e fra
Francesco Merlino fatti venire da Calabria per chiarimenti; al
tempo stesso in Squillace si compie un supplimento d'informazione
commesso dal Vescovo di Termoli (142).
II. Processo ripetitivo; maniera di farlo; il fiscale della Curia
Rev.do Andrea Sebastiano dà gli articoli solamente contro i tre
imputati principali, il Campanella, il Pizzoni e fra Dionisio; il
Rev.do Attilio Cracco è assegnato quale avvocato di officio;
particolari degli articoli del fiscale e degl'interrogatorii
presentati dall'avvocato (149). Si comincia dalle ripetizioni
contro il Campanella, e sono esaminati il Soldaniero, il Pizzoni,
il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo; riescono attenuate
le deposizioni del Soldaniero, false quelle del Lauriana, sempre
gravi quelle del Pizzoni e del Petrolo, più favorevoli quelle di
fra Pietro di Stilo; unanimi le dichiarazioni di mala condotta de'
primi processanti (153). Seguono gli esami ripetitivi contro il
Pizzoni; sono esaminati il Soldaniero, il Lauriana, il Bruno e il
Petrolo; le accuse riescono attenuate, e rimane il grave sospetto
contro di lui principalmente per le troppe rivelazioni fatte e le
sue stesse discolpe trovate false (157). Esami ripetitivi contro
fra Dionisio; sono esaminati il Bruno, il Soldaniero, il Pizzoni,
il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo: anche per lui le
accuse riescono attenuate, e sempre son posti in rilievo i modi
iniqui di fra Marco e fra Cornelio (159). Perplessità del Vescovo
di Termoli, quali si rilevano da una lista di varianti e di
contradizioni da lui compilata; sollecitazioni del Governo perché
si possa terminare la causa della congiura; i Giudici per l'eresia
deliberano di venire alla spedizione; maniera di procedervi (163).
Assegno del termine di 8 giorni per le difese; avvocati Grimaldi e
Montella, il quale ultimo è sostituito poi dallo Stinca: Gio.
Battista dello Grugno avvocato pel Campanella; notizie intorno a
costoro (166). Processo difensivo; esami difensivi per fra
Dionisio; alcuni articoli vengono presentati in fretta, acciò
siano esaminati sopra di essi alcuni de' carcerati per la congiura
che stanno per uscire in libertà; 18 interrogatorii dati dal
fiscale: sono così esaminati Geronimo Marra, Francesco Paterno e
Minico Mandarino, ma infruttuosamente (168). Articoli completi per
fra Dionisio al n.° di 58, con oltre 60 testimoni e varii
documenti in suo favore; notizie su' testimoni Spinola, Castiglia,
Capece e Giustiniano (170). Sono esaminati dapprima il Castiglia e
il Contestabile, poi il Capece, Cesare Forte, lo Spinola, il
Giustiniano e il Grillo; ne risulta che il Lauriana era stimato
falso testimone, come pure il Bruno, e che il Soldaniero medesimo
avea fatto intendere le cose passate tra lui, il priore di Soriano
e fra Cornelio (176). Sono ancora esaminati il carceriere
Martines, Nardo Rampano, Marcello Salerno, Cesare Bianco, Geronimo
Campanella, Gio. Bat. Ricciuto e Tom. Tirotta; di poi fra Paolo,
fra Pietro di Stilo, il Petrolo e il Bitonto; infine il Barone di
Cropani e Geronimo di Francesco: ne risultano sempre più messe in
rilievo le tristi qualità del Lauriana, del Bruno, del Soldaniero
ed anche del Pizzoni, oltrechè la malvagità de' primi Inquisitori
(179). Contemporaneamente si menavano innanzi gli esami difensivi
pel Pizzoni, che avea presentato 34 articoli con molti testimoni
scelti senza alcuna avvedutezza: erano esaminati dapprima fra
Paolo, il Petrolo, il Lauriana: poi fra Pietro di Stilo, il
Bitonto, lo Spinola, il Contestabile, il Castiglia e il Di
Francesco; ne risulta il Pizzoni niente affatto difeso, e circa le
qualità sue abbastanza aggravato (187). Pel Campanella, avendo il
suo procuratore dichiarato non potersi compilare gli articoli
difensivi perché pazzo, ed avendo anzi dimandato un termine per
provare detta pazzia, si procede a una informazione, e 10
testimoni, compreso il carceriere, attestano il Campanella esser
pazzo; particolari della pazzia(196). Fra Pietro Ponzio comunica
le istanze fattegli già dal Lauriana per essere perdonato delle
falsità deposte, e consegna anche una lettera analoga scritta dal
medesimo a suo fratello Ferrante: perizia calligrafica circa la
lettera (201). Il Vescovo di Termoli non nasconde le sue
perplessità circa i meriti della causa, fa note a Roma le tante
irregolarità commesse e finisce con dichiarare che dovrebbero
gl'inquisiti esser tradotti a Roma per potere scoprire la verità;
trasmette anche un memoriale analogo di fra Dionisio, mostrandosi
animato dalle più caritatevoli intenzioni (202).
III. Morte del Vescovo di Termoli con grave danno de' frati;
insistenze continue del Governo perché la causa dell'eresia abbia
termine; è nominato Giudice il Vescovo di Caserta D. Benedetto
Mandina; notizie intorno a costui (206). Istruzioni del Card.l di
S.ta Severina a nome di S. S.tà; si prescrivono visite mediche e
il tormento della veglia per chiarire la pazzia del Campanella,
inoltre nuove diligenze in Squillace; articoli del fiscale ed
interrogatorii dell'avvocato per esse: è esaminato Geronimo di
Francesco in tal senso (209). Le sedute del tribunale son sospese;
fra Pietro Ponzio dimanda inutilmente di essere giudicato o
rilasciato: fra Dionisio fa sapere a Roma che fra Cornelio era
partito per Madrid; il Nunzio è costretto a confermarlo, dolendosi
di lui ma dolendosi anche de' giudizii molto severi che avea
sempre manifestato il Vescovo di Termoli contro di lui e contro
fra Marco (212). Il Pizzoni, rimasto leso nel braccio dietro la
tortura avuta, muore nel carcere; i preparativi per la veglia da
darsi al Campanella mettono in agitazione i frati; fra Pietro di
Stilo manda a' Giudici alcune carte già dategli dal Campanella,
che sono le proprie Difese con gli Articoli profetali scritte per
la causa della congiura; fra Dionisio manda una lettera del
Petrolo che chiede di essere riesaminato (215). Senza aspettare le
fedi de' medici si dà al Campanella il tormento della veglia;
notizie intorno a questo tormento; particolari del tormento
sofferto per 36 ore; durante l'amministrazione di esso si
prescrive a fra Dionisio che consigli il Campanella a rispondere
adeguatamente, ma il Campanella persiste a mostrarsi pazzo (217).
Conseguenze del tormento sofferto: il chirurgo Scipione
Cammardella curante di fra Tommaso (222). Esami di fra Dionisio e
poi di fra Pietro di Stilo circa le comunicazioni fatte a'
Giudici; fedi de' medici Vecchione e Jasolino, che sebbene
perplessi inclinano a ritenere essere la pazzia simulata; esame di
un aguzzino che fa conoscere alcune parole dette dal Campanella
dopo il tormento; condizione giuridica del Campanella in sèguito
di tutte queste prove (225). Nuova sospensione delle sedute del
tribunale; accade una rissa tra i Ponzii, il Bitonto e il Petrolo
da una parte, e il Soldaniero, il S.ta Croce, il Gagliardo e
l'Adimari da un'altra parte, risultando ferito fra Dionisio;
dietro denunzia de' laici si procede dagli ufficiali del Castello
ad una ricerca di carte, e si trovano scritture di sortilegi
presso fra Dionisio, ma non appartenenti a lui, diverse lettere
appartenenti a fra Pietro di Stilo, una raccolta di poesie del
Campanella presso fra Pietro Ponzio, uno scritto del Campanella
che il fratello di lui buttò dalla finestra al momento della
venuta degli officiali (230). Le carte sono portate al Vicerè; fra
Dionisio, rinchiuso in un torrione al pari di fra Pietro Ponzio,
scrive a' Giudici di voler essere esaminato circa le carte trovate
nella sua cassa, e prega che si dia agio a fra Pietro di poter
presentare capi di accusa contro i feritori; l'Adimari si querela
di uno schiaffo avuto da fra Pietro, ed anche il Lauriana reclama
di voler essere riesaminato (233). Il Vicerè si ammala e muore; il
suo secondogenito D. Francesco de Castro rimane Luogotenente
generale: la causa dell'eresia languisce; languiscono anche i
frati in desolante miseria, e il Nunzio chiede nuovi sussidii per
loro da' conventi di Calabria (235).
IV. Dietro sollecitazioni del Card.l di S.ta Severina si
ripigliano le sedute del tribunale; si riesamina fra Dionisio
circa le carte trovate nella sua cassa; si fa richiesta delle
carte al Governo; fra Pietro Ponzio denunzia i feritori e qualche
altro loro compagno in materia di S.° Officio (237). S'inizia un
processo secondario specialmente contro il S.ta Croce e il
Gagliardo; dall'elenco dei testimoni presentati per questa causa
si rileva che parecchi carcerati, tra gli altri il padre e
probabilmente anche il fratello del Campanella, erano stati allora
rilasciati; cominciano gli esami pel detto processo, ma poi questo
è interrotto per dar termine al processo principale (240).
S'intima a fra Dionisio un termine perentorio per le difese; così
pure agli altri frati i quali vi rinunziano; si abilita il
Soldaniero a starsene in una casa in Napoli loco carceris, e i
carcerati, frati e laici, dichiarano appartenere a lui le carte
trovate nella cassa di fra Dionisio (242). Il Governo manda le
carte richieste; rassegna di queste carte; le lettere di fra
Pietro di Stilo mostrano in che maniera i frati giudicassero le
cose loro; carte di sortilegi e poesie in dialetto calabrese del
Gagliardo; come il Teologo qualificatore abbia giudicate le poesie
del Campanella; lo scritto buttato dalla finestra del Campanella
risulta essere una copia della Filosofia epilogistica su cui
l'autore lavorava (243). Dietro ordine del Card.l di S.ta Severina
il tribunale si occupa delle carte avute; esami del sergente
Alarcon, di fra Pietro di Stilo, di fra Dionisio, del Bitonto; si
viene a conoscere che vi sono altre carte trovate presso il
Gagliardo fin da che stava nel Castello dell'uovo (250). È
esaminato il Gagliardo, e poi fra Pietro Ponzio e il Bitonto, il
quale esibisce una nuova carta di sortilegio scritta dal Gagliardo
per un Napolella carcerato; il Napolella ed alcuni testimoni sono
interrogati per questo, e poi sono esaminati di nuovo fra Pietro
Ponzio, fra Pietro di Stilo, il Bitonto e il Napolella medesimo a
sua richiesta (254). Continua l'informazione sulle carte avute,
con gli esami del S.ta Croce e poi di fra Pietro Ponzio circa la
provenienza delle poesie del Campanella trovate presso di lui,
inoltre con l'esame anche di fra Paolo della Grotteria; da ultimo
sono esaminati il Figueroa e il Navarro circa le carte trovate nel
Castello dell'uovo; rassegna di queste carte; un'altra poesia del
Gagliardo in dialetto calabrese, due lettere di un capo di
fuorusciti, tre prologhi di commedie, molti versi sciolti sempre
del Gagliardo (259). Rimangono in causa solamente il S.ta Croce e
il Gagliardo, a' quali si fa un processo separato che è commesso
al Vicario Arcivescovile; brevi cenni su questo processo: il S.ta
Croce finisce per essere abilitato ad uscire dal carcere e se ne
parte per la Calabria senza licenza; il Gagliardo è sottoposto a
tortura, e finisce egli pure per essere abilitato e partirsene
senza licenza, venendo poi, due anni dopo, ripigliato e
giustiziato in Napoli per un omicidio commesso in Calabria (269).
Circa il processo principale, si provvede alle miserie de' frati
col danaro venuto di Calabria, ma se ne dispone di una parte per
pagare il Mastrodatti; nel tempo medesimo, facendo cessare le
tergiversazioni, s'intima a fra Dionisio un brevissimo termine per
le nuove difese (272). Tre nuovi articoli difensivi di fra
Dionisio, attestanti le ritrattazioni fatte dal Pizzoni in punto
di morte, i replicati desiderii di ritrattarsi mostrati dal
Petrolo, l'aver fatto il Soldaniero porre scritti proibiti nella
sua cassa per rovinarlo definitivamente; varii testimoni esaminati
sopra di ciò, e notizie sopra di loro; gli esami non riescono
vantaggiosi a fra Dionisio; in ispecie il Petrolo dichiara di aver
detto volersi ritrattare per sottrarsi alla persecuzione de'
frati, ma non aver nulla a ritrattare (275). Nuovi ritardi del
tribunale per la stagione estiva, con raddoppiate lagnanze del
Governo Vicereale; Valerio Bruno è abilitato a stare fuori carcere
per essere poi nuovamente interrogato e quindi spedito; fra Pietro
Ponzio fa nuove istanze perché la sua causa sia spedita, ma
inutilmente (281).
V. Opere composte dal Campanella in questo lungo periodo di tempo:
dopo gli Articoli profetali, composizione o meglio ricomposizione
della Monarchia di Spagna; fasi e successo di questo libro (283).
Al tempo medesimo Poesie; esse rivelano la vita intima del
Campanella, e conviene ricercare la data almeno delle principali:
sonetti profetali, ed anche al P.pe di Bisignano, all'Italia, a
Genova, a Venezia, a Roma; commenti (285). Altri sonetti sul monte
di Stilo e su temi religiosi; altre poesie indirizzate a persone
dimoranti nel Castello ed anche fuori, come lo Spinola e il
Castiglia carcerati, il Sig.r Troiano Magnati, D.a Ippolita
Cavaniglia, la Sig.ra Olimpia, D.a Anna; notizie circa queste
persone (288). Sonetti al Sig.r Francesco Gentile, alla Sig.ra
Maria, alla Sig.ra Giulia, a Flerida, a Dianora; sonetti composti
dopo il tormento della veglia, specialmente quelli al Sig.r
Petrillo; commenti (293). Ritorno alle opere filosofiche;
compimento della Filosofia epilogistica o Epilogo magno, con
l'aggiunta degli Aforismi politici e dell'Economica, istaurata
anche l'Etica; poco dopo, al cominciare del 1602, composizione
della Città del Sole, quindi composizione della Metafisica, con
altre poesie di tempo in tempo (297).
CAP. VI. - Esiti de' due processi, fine della pazzia e
conchiusione (dal 7bre 1602 al 9bre 1604 e
seg.ti).
pag. 306.
I. Giusta gli ordini avuti, il tribunale per l'eresia procede
finalmente alla discussione de' meriti della causa e alla
votazione; Sommarii del Processo e Riassunti degl'indizii co' voti
de' Giudici per fra Pietro Ponzio, fra Paolo, il Bitonto, fra
Pietro di Stilo, il Petrolo e il Lauriana: lo stesso per fra
Dionisio un po' più tardi; commenti (ib.). Fuga di fra Dionisio e
del Bitonto dal Castello insieme col carceriere; ordini da Roma e
poi da Madrid perché i fuggiaschi siano ripigliati; inchiesta
ordinata dal Governo, e singolare profferta dello Xarava per tale
inchiesta; ma il tribunale non avea mancato di decretare
provvedimenti (314). Viene da Roma la risoluzione presa dalla
Sacra Congregazione al cospetto di S. S.tà nella causa di eresia
del Campanella e socii; il Campanella è condannato al carcere
perpetuo ed irremissibile nel S.to Officio di Roma; altri frati
sono condannati all'abiura dopo un tormento; per fra Paolo è
ordinato il rilascio con penitenze salutari; per fra Pietro Ponzio
il rilascio senza condizioni; commenti in particolare sulla
condanna riportata dal Campanella (316). Il tribunale spedisce la
causa secondo la risoluzione venuta da Roma; la sentenza è
partecipata al Campanella; sono tormentati e fatti abiurare fra
Pietro di Stilo, il Lauriana e il Petrolo (320). Non potendo dare
fideiussione, i frati si obbligano invece a tre anni di galera e
così possono andar via rimanendo in carcere il Campanella; poco
dopo anche Valerio Bruno, e più tardi il Soldaniero, carcerato di
nuovo in Calabria, sono rilasciati con fideiussione eleggendo il
loro domicilio in casa di Carlo Spinelli; in tal modo finisce il
lungo processo di eresia (325).
II. Il tribunale della congiura pe' laici è tenuto sempre aperto,
anche dopo finita la causa di eresia; primo gruppo di carcerati
abilitati a tornare in Calabria si conosce essere stato quello de'
carcerati di Catanzaro; secondo gruppo quello de' già carcerati in
Gerace col Pisano, dietro torture anche atroci; con esso fu
abilitato egualmente il padre del Campanella e con ogni
probabilità anche il fratello, ma restarono in carcere il S.ta
Croce e il Gagliardo per conto del S.to Officio (327). Intorno a'
forgiudicati, si hanno notizie del Baldaia, del Dolce, del
D'Alessandria, del Tranfo; pel solo Del Dolce, catturato insieme
con Desiderio Lucano suo ricettatore, si conosce che fu condannato
a parecchi anni di carcere e trovavasi ancora carcerato il 1610;
notizie circa gli altri anzidetti e circa diversi già rilasciati
che ripigliarono la mala vita (328). Quanto al tribunale della
congiura per gli ecclesiastici, dopo la liberazione di molti e lo
svolgimento delle cause degli altri lasciandone sospesa la
spedizione, finisce per condannare Giulio Contestabile a 5 anni di
esilio, e poi tratta la causa del Pittella nuovamente carcerato;
particolari di questa causa, difesa del Leonardis, condanna
egualmente a 5 anni di esilio (333). La spedizione della causa
degli altri frati è impedita definitivamente dal matrimonio di D.
Pietro De Vera con la sorella del Duca di S. Donato; opposizioni
del Nunzio, tergiversazioni del De Vera; giunge intanto la nuova
che fra Dionisio, capitato a Costantinopoli in casa del Cicala e
fattosi maomettano, erasi imbarcato sull'armata turca che veniva
verso il Regno; ciarle di fra Dionisio in Costantinopoli nocive al
Campanella; fatti dell'armata turca dal 1600 in poi, e sua
rinunzia ad ogni impresa nell'anno in corso pel cattivo stato
delle navi (336). S. S.tà ordina che il Nunzio dia termine per sè
solo alla causa, rimanendo il De Vera qual semplice assistente;
impossibilità di tale pretensione; il Nunzio si sforza di farla
accettare, il Vicerè finge, il De Vera temporeggia; s'intima a'
frati un ultimo termine per le difese, ma il Campanella era stato
già da un pezzo separato dagli altri frati e posto nel torrione
(341). Fatti del Campanella dopo la sua condanna per l'eresia;
visita avuta dal Marchese di Lavello cui consegna la sua
Metafisica; relazioni acquistate col Conte Giovanni di Nassau,
Cristoforo Pflugh e Geronimo Toucher venuti prigioni nelle carceri
del Castello; lo Pflugh, o Flugio, è da lui convertito al
Cattolicismo, gli rimane amico, e più tardi poi gli procura il
patrocinio de' Fuggers e di Gaspare Scioppio (346). Posto, dopo 6
mesi, nel torrione, il Campanella si occupa a scrivere
l'Astronomia, e più tardi De' Sintomi della futura morte del mondo
per fuoco; testimonianze che lo provano; suoi importanti colloquii
col Gagliardo in questo tempo, credenze che gli svolge ed orazioni
che gl'insegna con riscontro delle cose scritte nella Città del
Sole; altre testimonianze; scene di evocazione di spiriti (348).
Essendosi poi scoperto un disegno di evasione, è trasportato nel
Castel S. Elmo; indagini su questo disegno di evasione; il
Marchese di Lavello è carcerato probabilmente per esso (354). Il
Nunzio e il De Vera vanno in Castello per la spedizione della
causa, e si trovano d'accordo nel condannare il Petrolo a tre anni
di galera, e rilasciare fra Pietro, fra Paolo e il Lauriana con
l'esilio dalla Calabria per un tempo a beneplacito di S. S.tà; ma
il De Vera vuol continuare a figurare come giudice, il Vicerè
interpellato s'infinge, Roma insiste, il Campanella rimane
dimenticato in S. Elmo; il Vicerè fa poi sapere che nominerà
un'altra persona invece del De Vera, ed essa fu il Ruiz de
Baldevieto che approvato da un altro Breve ebbe a sottoscrivere la
sentenza; ma pel Campanella dice doversene pel momento sospendere
la spedizione (358). Gli amici, parenti e discepoli del Campanella
presentano un memoriale al Nunzio per lui; indagini su questo
documento oggi perduto; affermazioni equivoche del Campanella
circa questo periodo importante della sua vita; durissimi
trattamenti sofferti in S. Elmo (361).
III. Fine palese della pazzia del Campanella in S. Elmo; dopo 5
mesi egli manda a far proposte al Vicerè, dicendo aver concetti
tali da dare vantaggi mirabili al Regno ed al Re, ma non trova
ascolto; dopo altri 6 mesi manda a dire al Nunzio e al nuovo
Vescovo di Caserta di volersi confessare, ed espone loro studii
fatti, visioni avute, concetti capaci di difendere il
Cristianesimo in tutto il mondo, facoltà di far miracoli etc.;
quanto a' concetti, egli si riferiva ad opere che diceva dover
comporre e forse stava già componendo a fine di uscire dalla sua
trista posizione (365). Rassegna di queste opere; lasciando
imperfetta l'Astronomia, e continuando a comporre di tempo in
tempo poesie come il Sonetto nel Caucaso, la Lamentevole orazione
profetale e poi le Canzoni in dispregio della morte, egli
ricompone l'opera del Senso delle cose; poi compone gli opuscoli
Del Governo del Regno e la Consultazione per aumentare le entrate
del Regno, in tre discorsi, de' quali si dànno gli ultimi due
finora inediti (367). In sèguito, rivolgendosi a Roma, compone la
Monarchia del Messia, aggiuntovi un capitolo Dei dritti del Re di
Spagna sul nuovo mondo, inoltre la Ricognizione della vera
religione, detta più tardi Ateismo debellato; considerazioni su
queste opere e specialmente sull'ultima; composizione di un altro
opuscolo e poi ricomposizione ampliata degli Articoli profetali;
ancora gli Antiveneti, e poi i Discorsi a' Principi d'Italia del
pari ampliati, tutte opere di occasione; infine parecchi opuscoli
specialmente a richiesta di Gaspare Scioppio e Gio. Fabre da lui
conosciuti in tal tempo (373). Racconto particolareggiato delle
mosse del Campanella presso il Vicerè, poi presso il Nunzio e il
Vescovo di Caserta, poi ancora presso il Papa; sue promesse
mirabili ed esito delle proposte fatte con le Consultazioni;
discorso fatto al Nunzio e al Vescovo di Caserta in S. Elmo,
promesse sue anche in tale circostanza; non gli si crede e dopo
altri 10 mesi scrive lettere al Papa Paolo V, a modo di appello,
con affermazioni di comparsa del diavolo e rivelazioni avutene
circa Venezia e l'avvenire del Papato (378). Commenti su
quest'ultima mossa del Campanella, e principalmente sulla comparsa
del diavolo che si rannoda alle evocazioni di spiriti fatte dal
Gagliardo; essa è una delle parecchie sue finzioni, e fra le altre
quella della pazzia sofferta, a proposito della quale non mancò
poi di dichiarare che egli ammetteva il mendacio quando trattavasi
di un alto fine; onde malamente la sua riputazione è stata
bistrattata da coloro i quali non hanno voluto darsi la pena di
studiarlo bene (384).
IV. Sèguito de' tentativi del Campanella per uscire dalla fossa di
S. Elmo;, scrive anche a' Card.li D'Ascoli, Farnese e S. Giorgio,
e manda l'elenco delle promesse fatte e de' libri composti; poco
dopo acquista la protezione de' Fuggers, e con essa quella di
Gaspare Scioppio e Gio. Fabre, mediante Cristoforo Pflugh; notizie
intorno a costoro (392). Lettere tra lo Scioppio e il Campanella;
venuta dello Scioppio a Napoli per favorirlo, certamente non per
missione del Papa come si disse di poi; richiesta da lui fatta di
tutte le opere del Campanella; costui scrive un'altra lettera al
Papa, a guisa di un 2.° appello, poco dopo scrive una lettera
latina al Papa ed a' Cardinali da doversi presentare dallo
Scioppio, il quale non la presenta perché vi si dicea di voler
fare miracoli (395). Venuta anche del Fabre a Napoli; parecchi
quesiti sono diretti da lui e dallo Scioppio al Campanella, e
danno occasione a parecchi opuscoli epistolari; finita la
trascrizione delle opere, il Campanella ne fa l'invio con una
lettera premessa all'Ateismo debellato, ma non manda gli Articoli
profetali maggiormente desiderati dallo Scioppio (398).
Commendatizie procurate dallo Scioppio al Campanella, ma non
presso il Papa; lettera del Campanella a Monsig.r Querengo in tale
occasione; lettere a Cristoforo Pflugh e poi al Re di Spagna,
all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria, da doversi presentare
dallo Scioppio facendo anche vedere le sue opere, ad occasione
della andata di lui in Germania qual Consigliere di casa d'Austria
presso la Dieta di Ratisbona; in queste lettere ai Sovrani il
Campanella, narrando i suoi guai a modo suo, chiede di essere
ascoltato (401). Partenza dello Scioppio per la Germania con
fermata a Venezia, dove consegna le opere del Campanella al Ciotti
perché le stampi e costui non se ne cura; è poi imprigionato per
due giorni ed obbligato a sfrattare, venendo sequestrata dal
Consiglio de' Dieci l'opera degli Antiveneti del Campanella; invio
di Daniele Stefano in Napoli da parte di Giorgio Fugger per fare
evadere il Campanella a qualunque spesa; nocumento di questi
tentativi preveduto dallo Scioppio (403). In Germania lo Scioppio
presenta la lettera del Campanella all'Imperatore, che trova mal
prevenuto; manda la lettera al Re di Spagna e confida meglio
nell'Arciduca Ferdinando, ma si duole de' sospetti continui del
Campanella, il quale a sua volta si duole di non vedere le sue
opere né stampate né presentate (405). Ferdinando scrive più volte
a favore del Campanella dimandandone perfino la liberazione; in
fondo egli, come il Fugger, riponeva grandi speranze nella
dottrina e nel fervore del filosofo per propugnare in Germania la
causa Cattolica contro gli eretici, oltrechè ne attendeva ottimi
consigli nelle cose di Stato; ma alla fine, abbandonando la
persona del filosofo, chiede al Vicerè che gli faccia compiere i
libri della Matematica, de' Profetali e della Metafisica, gli
faccia dire anche qualche segreto che ha in favore di Spagna ed
Austria, e mandi a Grätz libri e segreti (407). Si raffredda il
favore di Giorgio Fugger pel Campanella, dopo di aver conosciute
le cause vere della prigionia sua, e i garbugli da lui messi
innanzi per acquistare la libertà; lo Scioppio e il Fabre
finiscono per dileggiarlo, dopo di averne espilate le opere; deve
poi dirsi smentito che la Curia Romana abbia partecipato a'
tentativi di liberazione, i quali non potevano neanche esser visti
da essa di buon occhio (412). Malgrado l'abbandono da parte de'
suoi protettori, il Campanella continuò sempre a mostrarsi grato
verso di loro; sua inerzia di qualche anno durante gli ultimi
tentativi infruttuosi di liberazione; pochi opuscoli scritti in
tal tempo e diverse poesie di dolore e di sdegno, di alcune delle
quali è possibile determinare la data; importanza delle sue Poesie
in complesso e delle note aggiuntevi in sèguito, rivelatrici de'
casi del filosofo da lui ingarbugliati per necessità in altre sue
opere; ricerca della data in cui uscì dalla fossa rimanendo in S.
Elmo, per poi passare al Castel nuovo e quindi al Castello
dell'uovo; interpetrazione del suo rassomigliarsi a Prometeo nel
Caucaso (415). Si discute perché il Governo Vicereale abbia voluto
comportarsi così brutalmente col Campanella, e la Curia Romana non
si sia curata di esigere il rispetto dell'immunità ecclesiastica
in persona di lui; ragioni abbastanza chiare che spiegano questi
fatti; lo Stato e la Chiesa contribuirono egualmente al martirio
del Campanella risparmiandone la vita (420). Due tribunali in
regola, entrambi istituiti da Roma, aveano trovato il Campanella
colpevole verso lo Stato e verso la Chiesa; le denegazioni
posteriori sorsero abbastanza tardi dietro un sentimento di pietà
e varii apprezzamenti inesatti; la benevolenza di Urbano VIII
cominciò sol quando costui piegò verso Francia e volle far
dispetto agli spagnuoli, oltrechè ebbe bisogno de' consigli e
conforti del Campanella per la sua salute, ma cessate o modificate
tali condizioni il Campanella fu abbandonato alla persecuzione de'
suoi rivali e alla più desolante miseria in terra straniera; così
ben pochi meritano quanto lui la nostra ammirazione e gratitudine
(426).
ERRATA(518).
pag. 264; vers. 9: fior ridarà eterno - leg. hor ridarà eterno
NOTE:
(1) Così nel Carteggio del Residente di Venezia; ved. Doc. 184,
ag. 94.
(2) Ved. nel Carteggio Vicereale il Doc. 36, pag. 42.
(3) Ved. Doc. 382, pag. 395.
(4) Ved. Doc. 307, pag. 256.
(5) Ved. Doc. 373, pag. 383.
(6) Ved. Doc. 61, pag. 53.
(7) Ved. Doc. 209, pag. 109.
(8) La serie de' Notamentorum che si è salvata dalle tante
sciagure dell'Archivio di Stato comincia appena col 1610, e non vi
manca la risoluzione presa quando, dopo 26 anni, il Campanella fu
liberato; così avremmo avute egualmente tutte le altre risoluzioni
prese ogni volta intorno a' principali imputati e a' diversi
gruppi degl'imputati minori.
(9) Pel De Ponte come Consigliere, ved. Reg. Sigillorum v. 30. a.
1594, a 17 10bre; come Deputato della pecunia, ved. Reg. Curiae v.
43, fol. 11, let. del 18 giugno 1598. Intorno alla famiglia o alle
notizie biografiche ved. Santanna, Della Storia genealogica della
famiglia del Ponte, Nap. 1708, pag. 98 etc.
(10) Ved. Registri Privilegiorum vol. 141, fol. 120.
(11) Ved. per tutte le notizie sul Sances, De Lellis, Discorsi
delle famiglie nobili del Regno di Napoli, Nap. 1654-71, voi. 2.°
part. 3a p. 390; pel parentado co' Morano ved. specialmente Della
Marra Duca della Guardia, Discorsi delle famiglie estinte,
forastiere, o non comprese ne' Seggi di Napoli, Nap. 1642 p. 264.
(12) Ved. Doc. 54, pag. 51.
(13) Ved. Doc. 52, pag. 50.
(14) Ved. Doc. 365, pag. 365.
(15) Ved. Doc. 394, pag. 455 e seg.ti.
(16) Ved. Doc. 62 e 65, pag. 54 e 55.
(17) Ved. Registri Sigillorum vol. 31 (an. 1595) 1° 10bre; vol. 32
(an. 1596) 9 7bre e 16 7bre. Inoltre De Lellis, Discorsi delle
famiglie nobili etc. Nap. 1654 vol. 1°, pag. 399.
(18) Cons. Doc. 304, pag. 246.
(19) Ved. Doc. 64, pag. 54.
(20) Ved. Doc. 67, pag. 56.
(21) Ved. Doc. 37, pag. 42.
(22) Ved. Doc. 39, pag. 13.
(23) Ved. Toppi, De origine omnium tribunalium, Neap. 1655-66,
vol. 2°, pag. 187.
(24) Il Nunzio gli era anche molto amico, siccome si rileva da
un'altra sua lettera del 1° giugno 1601, dove si legge: "Fra tutti
i Ministri che son qua di S. M.tà Cattolica non ho maggiore
domestichezza che con il Consigl. Pietro di Vera d'Aragonia, che
mi fu dato per Collega da N. S.re nella causa della rebellione".
(25) Ved. Doc. 38, pag. 43.
(26) Ved. Doc. 325, pag. 276.
(27) Ved. la nostra Copia ms. de' processi ecclesiast. tom. 2°
fol. 173-1/2.
(28) Un ms. posseduto dal Minieri-Riccio dà notizie delle fosse
oscure, delle iscrizioni, delle ossa "rinvenute ne' sotterranei
della torre Aragonese in occasione della fabbrica di una stufa per
la nuova fonderia, di cannoni di ferro". La qualificazione della
torre è uno sbaglio del raccoglitore delle iscrizioni, poichè la
fonderia esiste sempre ed è facile vedere dove corrispondano i
suoi fornelli. Le iscrizioni trovate leggibili rimontano solo al
1660; una del 1698 è di un tale che da 27 giorni vi si trova per
essere andato incontro al Cardinale Principe di Savoia;
spaventevole è quella di un tale, che impreca a' suoi parenti, i
quali, per salvarsi, l'hanno fatto menare in quel posto, senza
luce e tutto nudo, ove cerca la morte per finire di penare, e
residui di scheletro ivi giacenti fanno pensare che vi trovò la
morte. Ved. Catalogo de' MS. della Bibl. di Minieri-Riccio voi. 3°
Nap. 1869, pag. 158.
(29) Ved. Doc. 421, pag. 527. Quivi specificatamente si notano
tutte queste cose, attestate da fra Pietro Ponzio; e fra Pietro,
per sua scusa, potè bene inventare che il Campanella trasmettesse
i suoi Sonetti a Maurizio, calandoli giù dalla finestra, ma non
inventare che la finestra di Maurizio si trovasse sotto quella del
Campanella. D'altronde anche nella confessione ultima di Maurizio
vedremo fatta menzione di parole scambiate tra lui e il Campanella
nelle carceri di Napoli, e questo non potè accadere che dalle
finestre.
(30) Ved. Doc. 376, pag. 386.
(31) Rimanga ben chiaro che il processo fu propriamente intitolato
"di tentata ribellione"; solo pel vantaggio della brevità noi
diciamo "processo della congiura", la quale maniera di esprimerci
è del resto consentanea all'altra anzidetta, e certamente
preferibile a quella che troviamo pure usata negli Atti e ne'
Carteggi, cioè "processo di ribellione".
(32) Ved. i Doc. 441 e 442, pag. 551.
(33) Abbiamo fatto avvertire altrove (vol. 1.° p. 303) che
potevano i Giudici, pe' delitti di lesa Maestà servirsi de' più
gravi tormenti, ma non di tormenti nuovi. Qui aggiungiamo che lo
stesso Farinacio cita la veglia, aggravata da successive
modificazioni, col precetto "non habeatur nisi in vere
atrocissimis ut laesa Majestate, assassiniis famosis et similibus"
(De indiciis et tortura Ven. 1649 p. 348). Aggiungiamo ancora che
Maurizio, malgrado fosse nobile, poteva essere sottoposto a
tortura trattandosi di lesa Maestà, ed anzi a tortura più atroce,
perché "Nobilitas saepe auget delictum" secondo la massima del
Gigante (De crimine les. Majest. Ven. 1588 fol. 67).
(34) Nell'originale "mascola". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(35) 1.° Ne' Reg.i Curiae, vol. 46, (an. 1599-1601) fol. 10 si
legge: "All'Audientia di Calabria ultra. Per alcune cause et degni
rispetti moventi nostra mente ce è parso provedere et ordinare che
D. Camilla morano figlia del q.m Barone di Gagliati di questa
città di Catanzaro non sia amossa dal Mon.io di S.ta Chiara di
detta città, dove al presente se ritrova per ordine di quessa R.a
Audientia.... 18 julii 1601". - 2.° Ibid. vol. 49. (an. 1599-1601)
fol. 114 t.° si legge: "All'Auditor don Sancio di miranda. Per
lettera delli 15 del passato mese de luglio havemo visto quanto
per voi è stato provisto nel particolare del matrimonio di donna
Camilla Morana figlia del barone di Gagliano havendola posta nel
monasterio di S.ta Chiara di quessa città che il tutto sta molto
ben fatto. et circa quello che ci dite che donna Anna sancez matre
di detta donna Camilla tiene per sospetto il detto monasterio et
per darli satisfatione l'haveti offerto un altro, già che le parte
senne contentano, vi dicimo che debbiate dar sodisfatione à detta
donna anna circa il mutare detta donna Camilla sua figlia in altro
monasterio come vi parerà meglio, non obstante l'ordine nostro che
non si dovesse mutare da detto monasterio senza altro ordine che
tale è mia voluntà et intentione. Datum neap. die 4 augusti 1601".
- Il primo figlio di Gio. Geronimo Morano, Gio. Antonio, invece di
D.a Camilla sua cugina sposò D.a Cornelia Ricca de' Signori
dell'Isola (ved. Duca della Guardia. Discorsi delle famiglie
nobili etc. Nap. 1641 pag. 264).
(36) Il feudo di Burgorusso, già difesa per le razze de' cavalli
di Corte sotto gli Aragonesi, concesso poi al Conte di S.a
Severina, era passato fin dal cadere del 1400 a Geronimo de
Connestavulo subfeudatario del d.to Conte, e Francesca de
Connestavulo lo recò in dote a Gio. Francesco Morano fin dal
principio del 1500; era quindi già da un secolo posseduto da'
Morano, onde poi con D.a Camilla Morano passò al Sances sud.to che
divenne anche Marchese di Gagliato (ved. Reg.i delle
Significatorie de' Relevii vol. 4.° fol. 112 t.°, e confr. Id.
vol. 32.° fol. 154 t.°, inoltre Quinternioni n.° 175, fol. 191).
Non c'è notizia che qualche porzione del feudo di Burgorusso fosse
stata concessa in subfeudo a' De Rinaldis, e si sa che le notizie
de' subfeudi si possono trovare solo accidentalmente nell'Archivio
di Stato. Eppure, secondo il cenno datone dal Campanella, non
avrebbe nemmeno dovuto trattarsi di quella specie detta subfeudum
planum o de tabula, giacchè in altrettali suffeudi, tanto della
varietà militare quanto della varietà rustica, per le costituzioni
di Federico II succedevano anche le donne; avrebbe dovuto invece
trattarsi di quella specie detta subfeudum quaternatum secundum
quid, che veniva concessa col consenso anche del Re, giacchè in
tal caso veramente, per estinzione di linea maschile od anche per
solo crimine, succedeva il Barone sotto cui il feudo era tenuto.
Ma rimane sempre che Burgorusso apparteneva a D.a Camilla, e che
agli zii Gio. Geronimo, Scipione e Pietro, secondogeniti di Gio.
Battista, spettava solamente la vita-milizia in D.ti 72, come
risulta dal sud.to vol. 32.° delle Significatorie, fol. 154 t.°.
Piuttosto Gio. Geronimo avrebbe potuto pretendere ed ottenere in
mercede qualche feudo appartenente a' De Rinaldis dopo la confisca
fattane, ma è singolare che non si abbiano notizie di feudi de De'
Rinaldis per tutto il 1500, né se ne abbiano di Gio. Geronimo
Morano e figli per l'anno 1600 e seguenti. Per la fine del 1400
abbiamo trovato notizia del feudo di S. Marco in Calabria citra
(detto anche S. Maoro nell'anno 1488) "concesso per la M.ta del
S.or Re a Mosca de Raynaldo regio cavallarizo" e i feudi di Prato
e di Cocchiato "concessi ad Michelangelo de Ranaldo"; ma in
sèguito questi feudi si trovano tutti restituiti al Principe di
Bisignano, e i due ultimi venduti da lui ad altri. In Stilo e
Guardavalle poi verso i primi anni del 1600, oltre Burgorusso, si
trova il feudo di Ragusa appartenente a' Tomacelli, da Lucrezia
2.a figlia di Geronimo e d'Ippolita Ruffo portato in dote a D.
Filippo Colonna, che per morte del fratello Marcantonio divenne
Duca di Paliano e Tagliacozzo e Gran Contestabile del Regno (amico
del Campanella più tardi, e forse con l'occasione del feudo). Si
trova inoltre il feudo di Arcamone, disputato tra Salvatore
Reycitano e Cesario Salerno; e si trova infine il feudo Colicestra
ed Agapito, acquistato da Berto Presterà. Il nome di Gio. Geronimo
Morano non vi s'incontra affatto. Ciò darebbe ragione di creder
vera la destinazione de' beni di Maurizio nel modo che vedremo
affermato dal Residente Veneto.
(37) Ved. Doc. 78, pag. 59.
(38) Ved. Doc. 79, pag. 59. Questa copia di biglietto Vicereale
senza data e senza indirizzo, ma inserta fra le lettere del
periodo di cui trattiamo nel Carteggio del Nunzio, ci pare appunto
che rappresenti la risposta del Vicerè alla lettera anzidetta.
(39) Così scrisse poi il Nunzio a Roma con la sua lettera del 21
gennaio 1600; ved. Doc. 83, pag. 60.
(40) Ved. Doc. 239, pag. 125. Chi conosce Napoli sa che la Chiesa
di Monserrato trovasi all'ingresso dell'attuale Strada di Porto e
di rimpetto alla torre del Castellano.
(41) Ved. Doc. 307, pag. 256.
(42) Ved. Doc. 84, pag. 61.
(43) Nell'originale "interpretazione". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
(44) Per ciò che è scritto nella Difesa, ved. Doc. 401, pag. 484.
Per ciò che è scritto nelle Lettere, ved. Archivio Storico
Italiano an. 1866, pag. 24, 59, 68 e 90.
(45) Facevano parte della Compagnia quasi sempre il Card.l
Arcivescovo della città, molti Vescovi, Nobili titolati, Signori,
Dottori, Sacerdoti, e per istituto un numero determinato di P.i
Gesuiti e P.i dell'Oratorio, non che P.i di altri ordini. Ne
faceva allora parte anche D. Gabriele Sances Cappellano maggiore,
fratello di D. Giovanni; lo Stinca vi si era ascritto fin dal 6
gennaio 1585; più tardi, nel 1603, vi si ascrisse lo stesso Nunzio
Jacopo Aldobrandini Vescovo di Troia. Annualmente uno de' fratelli
era eletto all'ufficio di "scrivano". Costui registrava le
relazioni delle giustizie, con la lista de' parenti del
giustiziato, che la Compagnia aveva il carico di assistere e
soccorrere, e con le discolpe e ritrattazioni se ve ne erano,
oltrechè raccoglieva in altri libri i testamenti dei giustiziati,
gli originali delle Autorità che ordinavano od invitavano la
Compagnia alle giustizie etc. etc. Secondo l'attività dello
scrivano e l'importanza del caso, si ha qualche notevolissima
relazione, come quella della giustizia di fra Tommaso Pignatelli
allievo del Campanella, che fu scritta da D. Antonio d'Aytona, e
che trovata in copia nella Biblioteca Brancacciana dal chiar.
prof. De Blasiis servì di base al suo bel lavoro intitolato Una
seconda congiura del Campanella (ved. Giornale Napoletano di
filos. e lett. giugno 1875). Nella Biblioteca dell'Abate Cuomo,
ora Municipale, si hanno parecchie relazioni di giustizie,
segnatamente de' tempi di Masaniello, che trascrisse da' Registri
della Compagnia lo stesso compianto Abate.
(46) Nell'originale "Ecco o". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(47) I suddetti ordini di Spagna rappresentano senza dubbio una
delle voci diffuse allora ad arte; abbiamo altrove riferita la
lettera del Re, che mostra gli ordini veri e ben diversi.
Rappresenta del pari una voce diffusa ad arte quella che il
Residente avea già trasmessa in un dispaccio anteriore (ved. Doc.
185, pag. 94) e che fornì al Mutinelli l'occasione di una nota sul
tono di un idillio. Da' Registri Sigillorum di quel tempo si può
vedere come S. M.tà di Spagna avesse pietà della borsa de'
napoletani, facendo diluviare le grazie co' diversi titoli, di
pensioni, avantagii, intertenimienti, piazze morte, sempre
nell'interesse degli spagnuoli; e il fatto è illustrato assai bene
da un'affannosa lettera del Vicerè che noi pubblichiamo (ved. Doc.
41, pag. 45). Si comprende poi che non si può fare alcuno
assegnamento su quanto il Residente dice che Maurizio avrebbe
confessato, trattandosi di un atto processuale del tutto segreto;
e non abbiamo veramente notizia che fossero "cominciati" allora
altri processi e catture dietro le confessioni di Maurizio.
(48) Ved. Doc. 40, pag. 44.
(49) Ved. Doc. 244 pag. 141-142-143; D. 247 pag. 159; D. 248 p.
160-161; D. 250 p. 163; D. 252 p. 166; D. 263 p. 175; D. 265 p.
182; D. 266 p. 184.
(50) Ved. Doc. 40, pag. 44.
(51) Ved. la Lett. al Card.l Farnese e quella latina al Papa e
Cardinali, Arch. Storico Italiano 1866 p. 59 e 82.
(52) Ved. Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.° fol. 132.
(53) Nell'originale "seppeliti". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(54) Ved. Doc. 217, pag. 115.
(55) Ved. Doc. 218, pag. 115.
(56) Nella Numerazione de' fuochi di Tropea per l'anno 1595, vol.
1398 della collezione, si legge: "n.° 60. M. Jacovo Giovanne
Tranfo a. 65; M. Ipolita Barone moglie a. 56; (*) M. Alessandro
f.° a. 15; Isabella f.a a. 18; Cassandra f.a a. 11; Caterina
schiava a. 30; Pietro schiavo an. 35; Giovanne schiavo a. 10;
Fabritio schiavo a. 5. Barone de la terra de crepacore (sic) et
del Casale de sant'Agata" etc. - Per la successione di Alessandro
Tranfo al padre ved. i Rog. delle Significatorie de' Relevii. - Un
altro documento intorno a lui troverà posto nel sèguito della
narrazione.
(57) Ved. D'Amato, Memorie historiche dell'illustr.ma famos.ma e
fedel.ma città di Catanzaro, Nap. 1670.
(58) Ved. i nostri Doc. 83, 86, 89, pag. 61, 63, 64; e le notizie
date nella nota a pag. 127 del vol. 1° di questa narrazione.
(59) Ved. Doc. 81, pag. 59.
(60) Ved. Doc. 306, pag. 248.
(61) Ved. Doc. 238, pag. 124.
(62) Ved. nell'Arch. Mediceo, filz. 4087, Let.ra del Battaglino
del 18 gennaio 1600: "Horrendo spettacolo hebbi hieri nella mia
loggia col veder perire inesorabilmente sette navi con quantità di
marinari, fra esse è il galeone di Giorgio d'ulista carico di
grani di Puglia come le altre cinque navi; il settimo fu un
vascello Brettone chiamato da' nostri Vecchietti c'havea
cominciato a caricar alberi et remi per andar in Spagna" etc.
Un'altra del Turamini, ibid. stessa data, lo ripete. Inoltre ved.
la Lett. dello Scaramelli, stessa data; Doc. 188, pag. 96.
(63) Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 2.° fol.
236.
(64) Ved. il Doc. anzid.to
(65) Ved. Doc. 85 pag. 62, e Doc. 88 pag. 63.
(66) Ved. il Breve e gli altri Atti suddetti ne' Doc. 242 e 243
pag. 129; le Lett. del Nunzio degli 11 e 21 gennaio, Doc. 81 e 83,
pag, 60 e 61; la Let. Vicereale de' 18 gennaio, Doc. 40 pag. 44; e
l'altra Let. scritta d'ordine del Vicerè egualmente il 18 gennaio,
Doc. 216 pag. 115.
(67) Ved. in Baldacchini la Lett. a Cassiano del Pozzo del 25
giugno 1624.
(68) Nell'originale "quando". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(69) Ved. Doc. 244, pag. 143.
(70) Ved. Doc. 84, pag. 61.
(71) Loc. cit. Doc. 244, pag. 143.
(72) Ved. Doc. 247, pag. 160.
(73) Ved. Doc. 376, pag. 387.
(74) Ved. Doc. 401, pag. 485.
(75) Ved. Doc. pag. 389. 378, 389, 378.
(76) Ved. Doc. 379, pag. 390.
(77) Ved. Doc. 380, pag. 391.
(78) Ved. Doc. 252, pag. 167.
(79) È questo uno de' punti della Narrazione che gioverebbe
rivedere. Il Capialbi lesse niglio, ed aggiunse in nota "niglio,
coccodrillo", citando l'Afflitto (Scrittori del Regno di Napoli,
pag. 46, art. Acquaviva) che avrebbe forse alluso alla medesima
fossa. Ma non ci è noto che la parola plebea niglio corrisponda a
coccodrillo, bensì sappiamo che corrisponde a nibbio, sparviero; e
l'Afflitto dice fossa del miglio, ed egualmente dice il
Confratello de' Bianchi di giustizia che ci lasciò il ricordo
degli ultimi momenti di fra Tommaso Pignatelli.
(80) Ved. Doc. 254, pag. 170.
(81) Ved. Doc. 256, pag. 172.
(82) Ved. Registri Curiae vol. 38.° (an. 1595-99) fol. 13, Let.
Vicereale del 23 febbr. 1596.
(83) Ved. Doc. 307, pag. 254.
(84) Ved. Doc. 247, pag. 160.
(85) Ved. Doc. 87, pag. 62; ma bisogna notare che la data del 24
gennaio, quivi assegnata alla lettera in quistione, potrebb'essere
errata, poichè il 4 febbraio essa era ancora attesa.
(86) Ved. Doc. 381, pag. 394.
(87) Sarno (Anelli de) Novissima praxis civilis et criminalis,
cura observationibus... ac singulari tractatu inscripto Il Medico
fiscale pro optima cognitione delictorum in genere, videlicet
cadaveris venenati, virginis defloratae, pueri constuprati et
aliorum consimilium Doctoris Horatii Graeci Medici phisici Regiae
Curiae etc. Neap. 1717.
(88) Ecco il fac-simile del disegno del polledro datoci dal Greco
(op. cit. pag. 499). Non rifuggano i lettori dal contemplarlo,
specialmente quelli, che per caso menassero vanto di principii
repubblicani; vedranno cosa costava a' padri nostri il
professarli, e rileveranno bene la differenza:
(89) Ved. Doc. cit. 381, pag. 394.
(90) Ved. Doc. 250, pag. 163.
(91) Ved. Doc. 87 e 88, pag. 62 e 63.
(92) Ved. Doc. 245, pag. 145-46; Doc. 247, pag. 160; Doc. 248,
pag. 161; Doc. 253, pag. 169; Doc. 250, pag. 163; Doc. 251, pag.
165; Doc. 252, pag. 167; Doc. 265, pag. 183; Doc. 263, pag. 175, e
Doc. 264, pag. 176.
(93) Ved. Doc. 192, pag. 97.
(94) Ved. Doc. 241, pag. 127, e Doc. 244, pag. 143.
(95) Alludiamo a' Doc. 244-266, pag. 129-183. Il Notamentum (Doc.
241, pag. 127) dovè essergli trasmesso o nell'inizio del processo,
o piuttosto nel periodo di cui trattiamo, essendovi poi stato
aggiunte a lato di ciascun nome le annotazioni relative all'esito
del giudizio mano mano che questo si compiva per ciascuno
inquisito.
(96) Ved. Doc. 394, pag. 456.
(97) Il Toppi (De Origine omnium tribunalium etc. Neap. 1655-66,
vol. 2.° pag. 319), nel dare le notizie del Leonardis, non riesce
esatto intorno alla data della nomina di lui ad Avvocato de'
poveri, indicando per essa il 30 luglio 1601, che urta con la
cronologia del processo del Campanella, nel quale si sa avere il
Leonardis funzionato. Invece abbiamo trovato ne' Registri
Privilegiorum le date sopraindicate pel Privilegio di nomina ad
Avvocato de' Poveri (Ved. Privileg. vol. 120, an. 1599-600 fol.
188), e ne' Reg.i Sigillorum la data 30 luglio 1601 come quella
del pagamento per l'esecutoria del Privilegio col quale venne poi
nominato Avvocato fiscale della Vicaria (Ved. Sigil. vol. 38, an.
1601, introiti del 21 novembre). A complemento della
rettificazione aggiungiamo che negli stessi Reg.i Sigillorum
abbiamo trovato l'esecutoria del Privilegio di Avvocato de' poveri
pel Catalano in data 16 febbraio 1594 (vol. 29), poi la nomina
provvisoria di Jo. Vincenzo Cavaliero "mentre sua M.tà e sua Ecc.a
provederà" in data 25 gennaio 1599 (vol. 35), infine l'esecutoria
del Privilegio pel Leonardis in data 29 febbraio 1600 (vol. 37).
Indubitatamente questo modo di successione, ed inoltre la data
stessa del Privilegio del Leonardis "Metimnae coeli 30 7bris
1599", mostrano che il Leonardis non dovè essere nominato a bella
posta nell'occasione di questo processo: sarebbe stato necessario
un periodo di tempo molto maggiore per far giungere in Ispagna la
proposta ed avere la decretazione di essa nella data suddetta.
(98) Naturalmente furono i Giudici quelli che ordinarono la
consegna degli Atti al Campanella e gli assegnarono anche
l'Avvocato; ma il Campanella parimente qui si studia di mettere
nell'ombra i Giudici e di far comparire il Sances.
(99) Ved. Doc. 247 pag. 160; e risc. l'Illustr.ne II, pag. 619,
per tutti gl'inquisiti che seguono.
(100) Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.°, fol.
377.
(101) Il dottor Orazio Greco, che abbiamo citato a proposito del
polledro, ci fa conoscere a proposito delle funicelle che se ne
applicavano quattro, due ai carpi con uno o più nodi, le quali
sempre recavano un'incisione della cute più o meno superficiale, e
due alle braccia, a quattro dita sotto i capi degli omeri:
preparato in tal guisa il paziente era poi elevato in alto con la
corda, e finiva per rimanervi in uno stato orribile, che il Greco
descrive minutamente.
(102) Ved. Doc. 93, pag. 65.
(103) Ved. Doc. 241, pag. 127.
(104) Ved. Doc. 264, pag. 175.
(105) Si avverta questa osservazione fatta dall'Avvocato, che si
accorda con quanto avea già detto il Nunzio (ved. pag. 66) e che
vedremo poi accordarsi anche con le affermazioni del Fiscale e
infine con le affermazioni del Campanella medesimo nella sua
Difesa; quattro affermazioni parallele emerse co' processi di
Napoli. né si creda un'esagerazione curialesca il notatus infamia
con le sue conseguenze. Era massima del S.to Officio che la sola
carcerazione per delitto di eresia apportasse "notabile infamia"
al carcerato, e i confessori, i medici, i maestri di scuola, i
quali avessero abiurato come veementemente sospetti d'eresia, non
solevano restituirsi o abilitarsi a' loro primitivi ufficii se non
di espresso ordine e grazia del sommo Pontefice (Ved. Masini,
Sacro Arsenale overo Pratica della S.ta Inquisitione, Roma 1639,
pag. 309). La condanna poi in eresia formale colpiva d'infamia, di
privazione di ufficio ed anche di successione i discendenti, e il
potere civile in Napoli lo riconosceva. Ecco un breve documento in
proposito, molto significativo e appunto del tempo del quale
trattiamo: esso leggesi ne' Registri Sigillorum vol. 34, an. 1598,
sotto la data 26 settembre: "Lettera per la quale se reintegra
hercole miglionico a la dignità del dottorato et altri honori e
officii publici e successione per lo delitto del eresia de suo
avo"!
(106) Ved. Doc. 245, pag. 144.
(107) Ved. Doc. 246, pag. 149. Le parole, dalle quali risulta che
questa Allegazione sia stata scritta in risposta a quella
dell'Avvocato, si leggono a pag. 151: - "nos non instamus puniri
eum, quod iam ejecerit Regem a Regno, Rempublicam fecerit, quod
dicit se facturum procurasse, et hoc sub conditione et spe futuri
eventus, ut advocatus partis fatetur" etc.
(108) È bello conoscere l'atteggiamento de' giuristi napoletani e
del Consiglio Collaterale, fin dalla prima notizia di questo passo
della Corona di Spagna verso Roma: ce l'insegnano due brani di
dispacci del Residente Veneto scritto il 14 7bre e 26 8bre 1599. -
1.° "Intorno alla investitura del Reame persistono tuttavia quelli
che nelle materie feudali sono stimati più intendenti, che non
dovesse la M.tà Cattolica condescender mai a dimandarla, poichè il
Re suo padre, nell'atto che allhora era necessario per la rinuncia
fatta vivendo dall'Imperator Carlo, fù investito da Papa Giulio
terzo per sè et legitimi heredi, et discendenti secondo l'obligo
et uso delle antiche et moderne infeudationi". - 2.° "Il Consiglio
non può accomodarsi che sia la persona sua (int. del Vicerè) che
faccia l'atto di prestar l'obedientia al Papa, facendo in ciò
molte considerationi, et movendo consequenze importanti per gli
interessi di questo Regno con la Sede Apostolica, le quali tutte
sono state con esso corriero rappresentate alla M.tà Cattolica". -
Ma le rimostranze furono vane, e al Vicerè fu rinnovato l'ordine
di recarsi a Roma.
(109) Confr. vol. I.° pag. 70.
(110) Ved. nell'Archivio Storico Italiano an. 1866 la Lett. latina
al Papa, a pag. 82, e la Lett. al Re di Spagna a pag. 91.
(111) Ved. le Poesie ediz. d'Ancona p. 100. Anche nelle Lettere
più volte accenna a riconoscere che la pazzia fosse simulata.
(112) Ved. il Carteggio del Nunzio filz. 231, Lett. del 13 aprile,
25 maggio e 15 giugno.
(113) Ved. Doc. 392, pag. 416.
(114) Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.° fol.
362-1/2. Dal brano della lettera del Vescovo risulterebbe che il
Nunzio avesse fatto molti giorni prima osservare il Campanella, e
gli fosse stato riferito che in segreto egli parlava
assennatamente: ma fu questa senza dubbio una piccola vanteria del
Nunzio, mentre l'osservazione del Campanella venne ordinata dal
Sances, il quale dovè poi discorrerne al Nunzio; difatti le
relazioni avute dal Sances si raccolsero in sèguito nel processo
di eresia, non le relazioni avute dal Nunzio, il quale si curava
ben poco del Campanella e de' frati.
(115) Ved. Doc. 350, pag. 327.
(116) Ved. Doc. 361, pag. 356. Ma non è sicuro che questo d'Assaro
fosse carcerato per la congiura: un Cesare d'Assaro, clerico,
trovasi nominato qual prigione nel Carteggio del Nunzio; egli era
incriminato di assassinio, con la tortura avea purgato gl'indizii,
e non vedendosi liberato fuggì di Castello in compagnia del cav.r
Capece ma fu ripigliato. Ved. Lett. da Roma, filz. 210 e 211, let.
del 18 8bre 1597, 13 marzo 1598 etc. etc.
(117) Si dia uno sguardo all'indice delle poesie che pubblichiamo.
E ci si permetta di aggiungere che quando fra Pietro fu poi
interrogato circa le poesie, tra le diverse provenienze, indicò
"per la maggior parte che sono più di 25" quella da altri
carcerati, i quali dicevano averle avute da Maurizio, cui
sarebbero state date direttamente dal Campanella etc. Non ci
fermiamo su questa scusa di fra Pietro che cita il morto, scusa
manifestamente inventata anche perché sarebbe difficile riferire
tante poesie al breve periodo in cui Maurizio rimase nelle grazie
del Campanella, vale a dire dal 9 9bre al 19 10bre, o poi gli
argomenti di molte fra esse alludono fuori ogni dubbio a
circostanze posteriori a tale periodo; ma notiamo la distinzione
di questo numero di "più di 25" poesie, che rappresenterebbero un
gruppo speciale più antico.
(118) Ved. Doc. 436, pag. 549, e i seguenti.
(119) Ved. Doc. 441, pag. 551, e i seguenti.
(120) Ved. Doc. 459, pag. 558.
(121) Le favole da una parte, gli scismi dall'altra. Vedi Doc.
456, pag. 556.
(122) Ved. Doc. 452, 453 e 457, pag. 555 e 557.
(123) Ved. Doc. 489, pag. 569.
(124) Ved. Doc. 447, pag. 553.
(125) Ved. Doc. 451, pag. 554.
(126) Ved. Doc. 439, pag. 550.
(127) Ved. Doc. 440, ib.
(128) Ved. Doc. 449 e 450, pag. 554; dippiù gli anteriori 444-46,
e 448, pag. 552-53.
(129) Ved. Doc. 464, pag. 559.
(130) Ved. Doc. 455, pag. 556.
(131) Ved. Doc. 400, pag. 475.
(132) Ved. Doc. 268, pag. 188.
(133) Anche nella stampa di questi documenti ci siamo ingegnati di
riprodurre le postille e le aggiunte in modo da poterle
distinguere dallo scritto primitivo impiegandovi altro carattere:
preghiamo i lettori di guardarli, in riscontro a quanto stiamo per
dire; ved. Doc. 401, pag. 478.
(134) Nell'originale "le". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(135) Nell'originale "un obiezione". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
(136) Allude manifestamente alla perdita delle navi che si ebbe al
tempo in cui si fece morire il clerico Cesare Pisano.
(137) Intendi Niccolò Tedeschi, Benedettino Catanese, Arcivescovo
di Palermo, poi Cardinale, detto anche l'Abate Palermitano. Di lui
si hanno molte opere; morì nel 1445.
(138) Ved. per Ferrante la Numerazione de' fuochi riportata nella
nota alla pag. 10 del vol. 1.°; per fra Pietro ved. la sua prima
deposizione innanzi al Vescovo di Gerace (Doc. 294, pag. 226).
(139) Ved. Capaccio, Il Forastiero, Nap. 1634, pag. 503.
(140) Ved. Doc. 229 pag. 120. Il poter "nominare" delinquenti, per
farli indultare, era uno de' diversi modi di compensi pro meritis:
nel caso del Lauro la nominazione fatta non è espressa, ma
s'intende, mentre in altri casi è espressa. Ne citiamo uno
relativo ad un soggetto del quale anche si è parlato in questa
narrazione: "a 17 de marzo 1594 indulto et gratia facta à Prospero
morales de peczolo per l'homicidio commesso in persona de mutio
costantino stante lo servitio facto per battista de amicis
d'havere dato in mano dela corte Marco sciarra e nominatione facta
in persona de decto prospero". Ma generalmente era questa una
delle concessioni minori, che si accompagnavano ad altre di
maggiore entità.
(141) Ved. i Reg. Sigillorum vol. 40 e 42. - 1.° "3 Gennaro 1602.
Licentia de arme in persona de Fabio de Lauro, pietro de lauro,
mauritio spina et ferrante de lauro". - 2.° "3 de aprile 1604.
Licentia de arme in persona de fabio de lauro, pietro de lauro,
mutio spina (sic) et ferrante de lauro".
(142) Ved. i Reg. Sigillorum vol. 31 (an. 1595) e vol. 37 (an.
1600); in quest'ultimo si legge: "A dì 16 xbro, Privilegio del
off.° di perceptore della seta della città di Catanzaro in persona
de Gio. Battista Biblia".
(143) Ved. Doc. 231, pag. 120.
(144) Ved. i Reg. Litterarum S. M.tis vol. 12, (an. 1602-1610)
fol. 545. Re Filippo dice al Vicerè che approva la transazione
proposta dal Principe, ed aggiunge: "y por obligar le mas, he
tenido por bien de le honrrar y hazer merced de una plaça del
Conseio Collateral de que se le embiara su Titulo como se lo
dereis de mi parte, y que en lo de la Compania de gente de armas
que pide, en las ocasiones que se offroscieren se tenra con su
persona y meritos la cuenta que es razon para hazer le la merced
que huviere lugar". La lettera è in data del 12 luglio 1606.
(145) Ved. Doc. 232, pag. 121.
(146) Ved. i Reg. Privilegiorum vol. 125 (an. 1602) fol. 13. t.°;
e confr. i Reg. Officiorum Suae Maj.tis vol. 1.° fol. 202.
(147) Reg. Privilegiorum vol. 123 (an. 1602-1603) fol. 128.
(148) Ved. Doc. 233, pag. 122.
(149) Ved. Doc. 235, pag. 123. Il suo viaggio a Madrid è ricordato
in una delle sue lettere al Gran Duca di Toscana, che abbiamo già
citata altrove; ved. vol. 1.° pag. 127 in nota.
(150) Ved. i Reg. Mercedum, vol. 2°, fol. 203. La pensione dicesi
data pe' "multa grataque obsequia... per spacium triginta quatuor
annorum singulari fide, vigilantia et integritate tam in dicto
Consilio quam in officio Advocati fiscalis nostri Provintiae
Calabriae ac interim in rebus magni ponderis nobis praestita".
(151) Ved. nell'Arch. di Stato in Torino Lettere Ministri Due
Sicilie, maz. 2.°, let. del 4 e del 14 giugno 1613, dell'8
novembre 1616 e 6 gennaio 1617; inoltre Lettere Ministri Roma maz.
27, fasc. 2°, let. del 26 novembre 1616.
(152) Per le esecutorie di entrambi i Privilegi successivamente
avuti, ved. i Registri Sigillorum vol. 38 e 39 alle date suddette.
Pel Privilegio della nomina a Consigliere, ved. i Reg.i
Privilegiorum vol. 123 fol. 168: quivi i meriti della sua persona
sono espressi ne' seguenti termini, "cuius nobis et eruditio ac
diligentia, et quidem probitas atque prudentia probantur, quandiu
hactenus officium Advocati fiscalis nostrae Magnae Curiae Vicariae
et alia munia cum laude exercuisti". Per la comunicazione fattane
al Consiglio, ved. i Reg.i Notamentorum S. R. C. ab anno 1599
usque et per totum annum 1609, data suddetta.
(153) Questa lettera del S.ta Severina non si trova nel Carteggio
esistente in Firenze, ma è citata nelle due lettere del Nunzio al
S. Giorgio e al S.ta Severina degli 11 febbraio (ved. Doc. 87 e
88, pag. 63). L'assenza del Vescovo di Caserta dal Regno rilevasi
dalla lettera precedente del Nunzio del 16 novembre 1599 (vedi
Doc. 54, pag. 51).
(154) Fontana, Sacrum Theatrum Dominicanorum, Rom. 1666, pag. 589
e 544.
(155) Ughelli, Italia Sacra, Venet. 1720. t. 8, p. 37. - Quétif et
Echard, Scriptores ordinis Praedicatorum, Lutet. Parisior. 1721,
t. 2, p. 343-44.
(156) Nella sua Narrazione il Campanella lo nomina due volte,
dicendolo Tragagliola, e il Capialbi lo corregge sempre dicendo
"leg. da Firenzuola"; inoltre il Capialbi lo dice di Firenzuola in
Toscana, ma anche l'Ughelli l'avea già dichiarato "Insuber".
(157) Vedi i Registri Comune vol. 29 (an. 1599-1603) fol. 28 t.°,
dove il Vescovo è cognominato "tragaiolo", e i Registri Sigillorum
vol. 37 (an. 1600), data 8 marzo, dove si legge: "Exequotoria de
bulle apostolice del Vescovato della città di termole in persona
del Rev. frate Alberto tragarola taxato nihil solvat" etc. Anche
nel processo del Campanella non di rado il cognome del Vescovo
trovasi scorretto; ma nel Carteggio del Nunzio (Lettere dal 1597
al 1598, Filza 210) può vedersene la firma autografa sotto una
Fede rilasciata per aver ricevuto un frate prigione inviato da
Napoli, e del pari se ne legge molto esattamente il cognome ne'
preziosi documenti del processo di Giordano Bruno raccolti dal
Berti.
(158) Vedi Doc. 308, pag. 256.
(159) Anche nel Carteggio del Nunzio si trovano parecchie notizie
sul Prezioso, ma posteriori al periodo di cui ci stiamo occupando.
Egli era in continui contrasti con Giacomo Protonotaro, altro
Mastrodatti della Curia, invadendone senza posa le attribuzioni; e
fu precisamente lui, che alcuni anni più tardi, per una quistione
intorno a un processo di bigamia, essendosi negato di consegnare
il processo all'autorità civile, fu senz'altro preso e mandato in
galera, onde ne nacque la scomunica al Reggente de Ponte ed una
delle più rumorose controversie giurisdizionali.
(160) Ved. Doc. 309, pag. 258.
(161) Ved. Doc. 310, pag. 260.
(162) Ved. Doc. 331, pag. 284.
(163) Ved. Doc. 311, pag, 261.
(164) Ved. Doc. 312, pag. 263.
(165) Ved. Doc. 313, pag. 264.
(166) Ved. Doc. 314, 315, 316, pag. 265 e 266.
(167) P.e Fiore, Della Calabria illustrata, Nap. 1691, vol. 2.°,
pag. 394.
(168) Ved. Doc. 328 e 329, pag. 281 e 282.
(169) Si rilevano dalla risposta del Card.l di S. Severina; ved.
Doc. 330, pag. 284.
(170) Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. I.°, fol.
111-1/2.
(171) Ibid. fol. 362-1/2-63.
(172) Ved. Doc. 317 a 321, pag. 268 a 273.
(173) Ved. Doc. 322 a 326, pag. 274 a 277.
(174) Ved. Doc. 327, pag. 279.
(175) Ved. la nostra copia ms. de' processi eccles. tom. I.° fol.
96-1/2.
(176) Ved. Lett. del Nunzio del 16 giugno 1600 filz. 230.
(177) Cioè al Monastero di Monte Vergine propriamente detto, sul
monte Partenio presso Avellino. Chi scrive questa narrazione serba
dolorosissimi ricordi familiari di fatti dello stesso genere,
avvenuti in questi nostri tempi sul detto monte.
(178) Ved. la nostra Copia ms. de' processi eccles. tom. 1.° fol.
98-1/2; così pure per gli esami seguenti.
(179) Ved. Doc. 332, pag. 284; quivi anche gli esami seguenti di
fra Dionisio.
(180) Nell'originale "sottocrivere". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
(181) Ved. Doc. 333, pag. 295.
(182) Nella Numerazione de' fuochi di Stilo (vol. 1385 della
collez.) fasc. dell'anno 1636, l'elenco "veteris numerationis
(1596) per comprobationem", oltre Giulio figlio di Paulo
Contestabile di an. 26 sotto il n.° 200, reca anche: "n.° 256,
Giulio Contestabile a. 35, Caterina uxor an. 20, Lucretia filia a.
2". Ne' Registri Partium vol. 1390 fol. 28 (an. 1596) si trova
"Giulio Contestabile de Theseo"; invece nel processo leggesi "di
Lucio".
(183) Ved. Let. del Nunzio al Vescovo di Nardò, del 28 giugno, e
Let. del Nunzio al Vicerè del 4 luglio; Doc. 103 e 104, pag. 67.
(184) Ved. Doc. 334, pag. 296.
(185) Per la lettera del S.ta Severina ved. Doc. già cit.to 330,
pag. 284. Per l'atto del tormento del Campanella ved. Doc. 335,
pag. 298.
(186) Ved. Doc. 336 e 337, pag. 300 e 301.
(187) Ved. Doc. 338, pag. 301.
(188) Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 1.° fol.
130 e seg.ti.
(189) Pel D'Amico ved. la nostra Copia ms. de' processi tom. 1.°
fol. 134 e 137; pel Polistina ved. Doc. 339 pag. 302.
(190) Ved. Doc. 340, pag. 303.
(191) Ved. Doc. 351 a 355, pag. 329 a 337.
(192) Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 1° fol.
308 e seg.ti
(193) Ved. Doc. 341, pag. 306.
(194) Ved. Doc. 343, pag. 309.
(195) Ved. Doc. 342, pag. 306.
(196) Ved. Doc. 344 a 349, pag. 311 a 326.
(197) Nell'originale "crocifissso". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
(198) Ved. Doc. 358, pag. 340.
(199) Ved. nel Carteggio del Nunzio, Doc. 105, pag. 68.
(200) Ricordiamo che questa odiosità o inimicizia capitale avea
sempre una importanza particolare nelle cause di S.to Officio;
ved. la nota a pag. 260 del 1° volume di questa narrazione.
(201) Quando negli esami difensivi si vede interrogato un
testimone sopra una serie di articoli, e poi sopra altri,
saltatine alcuni con la formola "omissis aliis de voluntate
producentis", s'intende che questa omissione non è fatta per
volontà di persona presente, ma per volontà espressa
dall'inquisito, d'accordo col suo Avvocato, nel dare la lista de'
testimoni, avendo indicato che quel testimone doveva essere udito
sopra determinati articoli. L'Avvocato dunque non era presente
agl'interrogatorii. Circa le Difese scritte, anche tra' MS. della
Biblioteca Nazionale di Napoli c'è una così detta "Collezione di
processi per carcerati nel S.to Officio della Curia Napolitana"
(XI, B, 34), che veramente è una Collezione di Difese per
carcerati nel S.to Officio e in piccola parte anche per cause
civili e criminali del foro ecclesiastico. Naturalmente in ogni
Difesa, spesso intitolata "Tutamen pro..." etc., la "enucleatio
facti" dà una certa contezza sommaria del processo. Le Difese per
cause di S.to Officio, riunite in quella Collezione, vanno dal
1673 al 1680 ed appartengono quasi tutte a un D. Clemente Ferrelli
avvocato de' poveri: i testimoni vi si veggono indicati con
lettere A, B, C, talora anche l'inquisito, specialmente se è
sacerdote, è indicato con N. N. Possediamo poi una Difesa anche
stampata per causa di S.to Officio, ed è la sola che abbiamo
incontrata fra tanti opuscoletti da noi veduti.]
(202) Ved. la Copia ms. tom. 1°, fol. 267. Il Memoriale, scritto
dal Lauriana e degno di lui, vedesi firmato appunto da' frati
affidati alle difese del Montella e poi dello Stinca, ed attesta
la bontà del Vescovo di Termoli per que' frati. Fu inserto nel
processo a lato di una comparsa di fra Pietro di Stilo del 17
novembre, con la quale fra Pietro rinunziava alle difese. Ma
essendovi nel memoriale, con cui si dimandava un Avvocato, la
firma anche di fra Pietro di Stilo, è chiaro che la data di tale
scrittura deve riferirsi a un periodo anteriore, e verosimilmente
a' primi di ottobre.
(203) Ved. Doc. 357, pag. 339.
(204) Ved. Toppi, De origine omnium tribunalium etc. Neap.
1655-66, vol. 3° p. 29.
(205) Questo elenco annuale de' Cappellani Regii fu redatto in
quel tempo per la franchigia del pagamento del "grano a rotolo" ed
inviato a' Deputati della pecunia dal Cappellano maggiore. Vi si
legge: "Rev. dot.r Scipione stinca con doi servitori". Notiamo che
dall'anno 1604 in poi non fu inviato un elenco nominativo, e però
non si trova più registrato il nome dello Stinca.
(206) Ved. i Certificati de' lettori, che il Cappellano maggiore
inviava allo Scrivano di razione pe' pagamenti. La provvisione
raddoppiata, concessa al Dello Grugno, raggiungeva appena D.i 80
annui; così poco costava a que' tempi un buon lettore.
(207) Ved. Doc. 359 e 360, pag. 341 e 342.
(208) Ved. Doc. 362, pag. 359.
(209) Ved. Doc. 356, pag. 339.
(210) Ved. Doc. 361, pag. 344.
(211) Questo è il significato della espressione che si legge
nell'art. 53, che cioè "non l'aveva mandato a Roma per penitenza",
modo volgare ancor oggi abbastanza usato nel mezzogiorno d'Italia.
(212) Ved. Doc. cit. pag. 356.
(213) Costoro sappiamo certamente essere stati già carcerati,
poichè se ne fa menzione in diverse parti del processo. Su molti
altri, compresi nella medesima categoria de' testimoni dimoranti
in Napoli, non abbiamo uguale certezza: potrebbe supporsi che
fossero stati anche carcerati, poichè fra Dionisio li dà per
testimoni precisamente sull'art. 58, vale a dire sulla sua
condotta "da tutto il tempo in qua che è stato carcerato"; ma
riesce notevole che non abbia dato alcuno di loro per testimone
anche su qualche fatto avvenuto nel carcere, come si verifica in
persona di quelli che sappiamo essere stati certamente carcerati.
È più probabile quindi che si tratti di frequentatori del carcere
per ragione di visite, come si ha per Aquilio Marrapodi compreso
nella stessa categoria, frequentatore del carcere per ragione di
servizii; e così ci è parso doverli escludere dall'elenco de'
carcerati che ci siamo ingegnati di compilare (ved. nel vol. III,
Illustraz. IV, pag. 644). Diamo tutte queste spiegazioni perché la
cosa rifletterebbe individui di conto, tra gli altri il Dot. Gio.
Vincenzo Serra e il Dot. Ottavio Serra, sul quale ultimo dal
documento inserto nel processo si ha che trovavasi Sindaco di
Nicastro quando fra Dionisio fu inviato al Papa per la faccenda
dell'interdetto, e molti altri documenti potremmo produrre
esistenti nel Grande Archivio.
(214) Ved. Doc. 382, pag. 395.
(215) Ved. i Reg.i Partium vol. 1165 bis e 1181 fol. 126; 1244 bis
fol. 6; 1271 fol. 193; 1275 fol. 205 etc. etc. Inoltre i Reg.i
Privilegiorum vol. 91 folio 137; e gli stessi Reg.i Partium vol.
1317 fol. 100 t.°, e vol. 1508 fol. 133.
(216) Ved. Reg. Sigillorum vol. 35 (an. 1599), sotto la data 21
giugno. Quivi si legge: "Licentia d'arme a Cesare Spinola
affittatore de S.to Nicola, Massari e garzoni, taxato tarì uno".
(217) Ved. Reg. Officiorum Viceregum vol. 6 (an. 1593-96) fol. 75,
e vol. 7 (an. 1595-98) fol. 155. Quivi si legge: "Expedita fuit
provisio Patens officii Capitaneatus. Hostuni in personam mag.ci
Don Francisci de Castiglia pro uno anno integro, et deinde in
antea ad beneplacitum, cum provisione, lucris, gagiis, et
emolumentis solitis, et consuetis, et cum clausulis in forma
Regiae Cancellariae, qui etiam praestitit Juramentum in posse
mag.ci et circumspecti D. Petri de Castellet regii Collateralis
Consilii ac Regiam Cancellariam Regentis. Neapoli die 31 mensis
Januari m.° d.° nonagesimo octavo. El Conde de Olivares". - Per
l'esecutoria ved. Reg.i Sigillorum vol. 34 (an. 1598) sotto la
data 20 febbraio.
(218) Non mancavano frattanto in favore di questo pessimo soggetto
commendatizie perfino da Cardinali come il Bellarmino; ed il
Nunzio, dopo la fuga e la ripresa di lui in Gaeta, scriveva che il
suo negozio era "aggravato con intiera sua colpa, che s'è lassato
ripigliare", né seppe far di meglio che consegnarlo nel 1605 alla
Religione di Malta che lo reclamò. Il Vicerè fin da principio avea
fatto istanza che fosse giudicato dal Nunzio coll'intervento di un
ufficiale Regio (come si fece pel Campanella più tardi), ma S.
S.tà non volle concederlo, benchè si trattasse di un così volgare
assassino. Ved. il Carteggio del Nunzio in Firenze: Lett. da Roma
del 5 maggio 1595, 8 novembre 1600, 14 giugno 1602, 12 novembre
1604; e Lett. da Napoli 3 marzo 1598, 17 marzo e 5 maggio 1600, 17
maggio e 22 giugno 1602, 14 e 30 luglio e 28 ottobre 1605. Inoltre
i Reg.i Curiae in Napoli: vol. 40 (an. 1595-99) fol. 181, 12 marzo
1598; e vol. 47 (an. 1599-600) fol. 15 t.°, 31 agosto 1599.
(219) Ved. Doc. 363 e 364, pag. 360 e 361.
(220) Ved. Doc. 365, pag. 364.
(221) Ved. Doc. 366, pag. 366.
(222) Ved. Doc. 367, pag. 367.
(223) Ved. Doc. 368, pag. 369.
(224) Nell'originale "dela". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(225) Ved. Doc. 369, pag. 370.
(226) Ved. Doc. 370 a 372, pag. 371 a 379.
(227) Esclamazione comunissima tra' calabresi.
(228) Ved. Doc. 373, pag. 381.
(229) Ved. Doc. 384, pag. 397.
(230) Ved. Doc. 385 a 391, pag. 402 a 414.
(231) Ved. Doc. 392, pag. 415.
(232) Intendi Scanderbeg; nel volgare napoletano dicevasi
Scannaribecco, e del resto "Scannalibec" e "Scandalibechi" leggesi
anche in molte scritture pubbliche, p. es. ne' processi della
Sommaria.
(233) Ved. Doc. 106, pag. 68. La ricevuta del processo fu da Roma
annunziata il 16 10bre, ved. Doc. 107, ibid.
(234) Ved. Doc. 377 a 381, pag. 388 a 394.
(235) Ved. Doc. 376, pag. 386.
(236) Ved. Doc. 374 e 375, pag. 383 e 384.
(237) Ved. Let. del 6 aprile 1601, Doc. 120, pag. 71.
(238) Ved. Doc. 394, pag. 448, 455, 456, 449. Per le parecchie
altre proposizioni ved. la nostra Copia ms. tom. 1°, fol. 362-1/2,
363, 380-1/2, 377, 394, 398, 392-1/2. Son questi tutti
gl'importanti brani del Carteggio del Vescovo.
(239) Ved. Doc. cit. pag. 457. - Molte ricerche abbiamo fatte su
tale negozio di Bitonto (nota città della Puglia), ed abbiamo
trovato questi tre documenti, che ci sembrano riferibili al
negozio cui allude il Vescovo di Termoli: essi si leggono ne'
Reg.i Curiae vol. 34, fol. 216, 270 e 277 t.go - 1° "Al m.co
giodice di butonto (sic). Havemo visto quanto ci scrivete per la
vostra delli 14 del mese passato intorno al particolare della
carceratione fatta per lo Rev.do Vicario di quessa città della
donna fattocchiara contra la quale pretende procedere nella sua
corte ecclesiastica prosopponendo che il sortilegio fatto per
detta donna sia hereticale et per voi si pretende procedere nella
vostra corte per le cause et raggioni che in detta vostra ci
allegate dandoci del tutto aviso acciò havessimo ordinato quello
havessivo dovuto exequire, al che respondendo vi dicimo che
essendosi per noi ben considerato quanto ci scrivete ci è parso di
ordinarvi che non vi debbiate intromettervi in quella causa ma in
quella lassarete procederci dal detto vicario nella detta sua
corte Ecclesiastica, et cossi l'essequirete non facendo lo
contrario per quanto se hà cara la gratia della predetta M.ta Dat.
neap. die 8 aprilis 1593. El c. de Miranda". - 2.° "Al m.co Jodice
de bitonto... Per la vostra de li XI de febraro che havete scritta
all'infrascritto mag.co et circumspetto Reg.te Moles havemo visto
l'aviso che li date deli sortilegii, et magarie che si fanno in
quessa terra. In resposta dela quale vi decimo che havete fatto
bene a dar l'aviso predetto et vi ordinamo che da mano in mano ci
debiate donar particolare aviso di quello che accaderà in simili
negotii acciò per noi se possa provedere et ordinare quello che
più meglio ci parerà che convenghi et cossi lo debiate exequire
che tal è nostra voluntà. Dat. neap. die 24 mens. martii 1594. El
c. de Miranda". - 3.° "Al Capitano della città de Bitonto... Nelle
carcere della Viscoval corte de questa città de Bitonto se
ritrovano ritenute alcune donne e un giovanetto vaxallo del stato
ecclesiastico per cause gravi de apostasia dalla santa fede
impietà magarie et altre cose spettanti al santo officio del
inquisitione, et per che conviene per il servitio de nostro Signor
iddio che quelli se mandino in questa fidelissima città de Napoli
nel miglior modo che si potrà, o con sicurta o pleggiaria se
l'haveranno o vorranno dare, overo non dandola o volendola dare
con farli condurre preggioni secondo sarà giudicato per il Rev.do
Vescovo de questa predetta città, per ciò ci e parso farvi la
presente per la quale ve dicimo, et ordinamo che al ricevere
d'essa parendo al d.to Rev.do Vescovo dare quella pleggiaria che
al d.to Rev.do Vescovo parirà doversi dare, la quale per quella
quantità sia buona et sufficiente de venire retto tramite et
presentarsi nelle carcere della Vicaria etc. Dat. Neap. die 23
augusti 1594. El Conde de Miranda". Sembra manifesto che
gl'imputati venuti a Napoli sieno stati mandati a Roma, dove le
imputazioni furono poi trovate insussistenti.
(240) Engenio, Napoli sacra, Nap. 1623, pag. 151-152.
(241) Ved. Doc. 108, pag. 68.
(242) Ved. Doc. 108 a 115, pag. 68 a 70.
(243) Ved. Doc. 116, pag. 70.
(244) Vedi l'Ughelli loc. cit. - La data dell'exequatur fu il 25
feb. 1594, come si rileva da' Reg. Sigillorum, vol. 27 (an.
1586-95) fol. 213 t.°.
(245) Ved. l'Engenio, Napoli sacra, Nap. 1623, p. 562; Silos,
Historiarum clericorum regularium t. 2. Rom. 1655, p. 67 e 156.
(246) Ved. Doc. 396, pag. 470.
(247) Ved. Doc. 396 e 398, pag. 461 e 473.
(248) Ved. vol. 1°, pag. 70.
(249) Ved. Doc. 117, pag. 70.
(250) Ved. Doc. 398 b, pag. 473.
(251) Ved. Doc. 118 pag. 70, e Doc. 407 pag. 507.
(252) Ved. Let. del 18 maggio 1601; Doc. 122, pag. 72.
(253) Ved. Doc. 119, pag. 71.
(254) Ved. il cit. Doc. 122, pag. 72. In questa lettera si parla
anche di patenti e licenze da trasmettersi al Pittella e al
Contestabile: non riesce agevole intendere di che si tratti, ma
parrebbe trattarsi di fornir loro i permessi di andare a deporre
in Squillace circa le nuove diligenze ordinate da Roma, poichè per
la condanna avuta essi dovevano rimanere "extra provinciam
Calabriae".
(255) Il fatto è registrato anche dal Campanella nella sua
Informazione, ed interpetrato naturalmente così: "fra Cornelio era
di mala conscienza, poi c'ha venduto il sangue di suoi fratelli,
et andò fin a Spagna per la paga allo ingannato Re". È da notarsi
che il Campanella non aggravò mai la mano sopra fra Marco e lo
disse perfino "huomo buono ingannato da loro, che stava tanquam
idolum et pastor", mentre tutto il processo, ed anche la parte del
Carteggio del Nunzio di cui ci stiamo occupando, mostrano il
contrario; parrebbe che al Campanella premesse di non tirarla
troppo.
(256) Ved. Doc. 118, pag. 70, e 120-121, pag. 71-72.
(257) Ved. Doc. 400, pag. 475.
(258) Ved. Doc. 399, pag. 474.
(259) Ved. Hippolyti De Marsiliis Bononiensis, In nonnullos ff. et
C. titulos Comment. et Repetit. etc. Venet. 1635 p. 45: "Aliud est
tormentum, quo saepe usus sum contra obstinatos et contra non
timentes tormenta, et vere nemo ita ferox invenitur qui huic
tormento possit resistere, et est tormentum non laedens corpus,
tamen est maximae potentiae, et antequam de ipso fecissem
experientiam, videbatur mihi potius res ridiculosa quam tormentum,
quod tormentum tale est. Nam ponitur reus super uno scamno ad
sedendum, et ibi adsunt duo qui eum custodiunt ut non dormiat, nec
de die nec de nocte, et cum ipse reus inclinet caput in una parte
propter somnum, ille famulus qui est ibi ab illa parte dat cum
manu sibi in capite, et excitat eum et elevat sibi caput, et idem
faciat alter famulus quando inclinat caput ab alia parte versus
eum, et quando illi duo sunt fessi et volunt dormire, alii duo
novi subrogantur in locum illorum, et non permittunt unquam dictum
reum dormire nec quiescere, in tantum quam ad tardius in duabus
noctibus et uno die, reus omnia confitebitur promissa sibi
quiete..." etc. - Grillandus Paulus Castilioneus, Tractatus de
hereticis et sortilegiis omnifariam coitus etc. Lugd. 1536 fol. 94
t.°. "Profecto vidi ea quae prius non credebam, quod illud affert
maximum tormentum et fastidium in corpore, absque aliqua membrorum
lesione". - Ambrosini Tranquilli Senogalliensis Processus
informativus; acced. Bernardini Franc. Mediolanensis Scholia, et
Farinacei Prosp. Decisiones de indiciis et tortura Venet. 1649,
pag. 348: "Quomodo haec duo tormenta dentur (ignis et Vigilia)
consule alios, ego enim non sum apparitor aut birruarius". E pag.
237: "Tormentum vigiliae est scamnum quoddam altum a terra per
septem vel octo palmos in circa tribus inhaerens hastis tanquam
fulcris, non planum sed paulum acclive et in medio elevatum,
conficiens angulum sed obtusum, super quo angulo manet reus ano
denudato. Dixi angulum obtusum, quia si esset acutus, ut quandoque
vidi, posset tortum ipsum fractis et foratis sibi inferioribus
partibus interimere". - Zacchia Paul. Quaestiones Medico-legales,
ed. 4.a Avenion. 1655, t. 1, pag. 411: "Secundum tormentum, quo in
praesentiarum utuntur, illud est quod tormentum Vigiliae nominant,
quod quidem ex nonnullis conditionibus atrocius multo videtur quam
tormentum funis; est autem hoc tormentum hujusmodi. Reus in totum
denudatus, illique pilis omnibus etiam reconditarum partium
derasis, brachiis versus spinam retro contortis, ut in tormento
chordae, alligatur tanquam fune torquendus. Tripes tum scamnum in
promptu est, quod Capram, vel Equum, vel vulgo il Cavalletto
nuncupant, sexipedalis altitudinis, cujus summitas ex
quadrangulari tabula lignea est pollicaris crassitudinis,
latitudinis undique bipalmaris: ejus tabulae superficies plana
quidom in totum non est, sed sensim paulatimque versus medium ex
singulis latibus sese elevans, in obtusum angulum desinit seu
potius obtusam planitiem efformat. Reus eo modo chordae ex
trochlea pendenti alligatus hic sedens sistitur. Lata insuper
fascia ad pectus inditur, ac retro in proximo pariete firmatur;
uterque humerus muris hic inde a lateribus existentibus longo
funiculo medius deligatur; tum ad pedes longus inditur baculus
ipsos pedes divaricans, ne eos Reus jungere possit; hic baculus
per alium funiculum, quo medius ligatur, sursum elatus pedes
etiam, et crura Rei attollit, adversoque parieti firmatur. Hoc
modo relinquitur misellus per decem, duodecim, quindecim, aut
viginti, et plures horas ad Judicis libitum, nisi delicta
confiteatur, ea tamen cautela adhibita, ne brachia retro contorta
per crassiorem funem trochleae appensam nimis extendantur; fit
enim, ut miseri Rei multum extensis brachiis de vita
periclitentur" etc.
(260) Ved. Eymerici Nicol. Directorium Inquisitorum" etc. Rom.
1578, p. 136: "Saepe contingit huic fictae insaniae remedium
afferre torturam; nam dolor non facile patitur jocum et fictionem,
atque in hoc casu nullum videtur periculum ad explorandum animi
morbum..... cum nullum hic mortis periculum timeatur".
(261) Intorno a questo fra Raimo ved. nell'Archivio di Firenze il
Carteggio del Nunzio; Lett. da Napoli 19 febb. 1593; 1° giugno e
28 10bre 1601; 25 febb.° e 20 9bre 1602; e Lett. da Roma 16 feb.°
1602; 28 mag. e 4 giugno 1604. Fra Raimo non confessò nulla
nemmeno alla veglia e fu mandato alle galere Papali; ma giunse a
farsi credere inabile e quindi a farsi liberare dal Generale delle
galere; di poi fu nuovamente carcerato per indebita liberazione.
Può servire per esempio del come andassero le cose a que' tempi.
(262) Ved. Doc. 402, pag. 498. Per le frequenti parole in dialetto
ed anche per l'abbondanza del latino, onde l'Atto potrebbe
riuscire oscuro ad alcuni lettori, ci crediamo obbligati ad
esporlo qui senza restrizioni, mentre avremmo tanto volentieri
fatto il contrario.
(263) Ved. Doc. 168 e 169, pag. 86.
(264) Nella lettera al Card.l Farnese del 30 agosto 1606
pubblicata dal Centofanti si legge: "Quello Altissimo Dio, che mi
liberò di sette tormenti horrendi"; e in quella al Papa e
Cardinali del 12 aprile 1607: "bis tormentum eculei sustinui;
semel torturam brachiorum; et 40 horas suspensus fune et funiculis
ad ossa penetrantibus, insidens acutissimo ligno quod devoravit
carnes meas ad duas libras, et sanguinem ad octo sextertia
exhausit plagis decurrentibus". - Nella Lett. al Papa del 1607
pubblicata da noi: "oltre li tormenti asprissimi di corda, e dui
polledri, et 40 hore di veglia con funicelli sin'all'ossa, et
sedendo sopra un acutissimo legno, chi mi secaro più di due libre
di carne e più che vinti di sangue in diverse volte"; e in quella
a Mons.r Querengo dell'8 luglio 1607: "per sapientiam et per
stultitiam 7 volte dalla presentissima morte il Senno eterno mi
liberò; et inanti à questi 8 anni stetti in carcere più volte, che
non posso numerar un mese di vera libertà se non di relegatione:
hebbi tormenti inusitati e li più spaventosi del mondo cinque
fiate e sempre in timore e dolore"; (non contemplandosi qui il
solo caso dell'ultima prigionia di Napoli, le cinque fiate
darebbero motivo di sospettare che vi sia stato anche un tormento
in Roma nel 1591, ma bisognerebbe ammetterne dippiù un altro in
Padova nella 1a prigionia della fine del 1592, altrimenti il conto
non tornerebbe, e non abbiamo criterii bastevoli a chiarirlo). -
Nelle Poesie filosofiche, ediz. d'Ancona a p. 110, si legge:
"Cinquanta prigioni, sette tormenti Passai..."; e a pag. 117, "Il
corpo sette volte tormentato". - Nella Lett. allo Scioppio posta
come proemio al ms. dell'Atheismus triumphatus e pubblicata dallo
Struvio, a pag. 6: "Vide quaeso simne asinus ipsorum qui quidem
jam in quinquaginta carceribus huc usque clausus, afflictusque
fui, septies tormento durissimo examinatus, postremumque
perduravit horis quadraginta, funiculis arctissimis ossa usque
secantibus ligatus, pendens manibus retro de fune super
acutissimum lignum, qui carnis sextertium in posterioribus mihi
devoravit, et decem sanguinis libras tellus ebibit. Tandem sanatus
post sex menses divino auxilio fossa demersus sum". - Nelle
Disputationum in quatuor partes suae philosophiae realis,
Quaestionum moralium pag. 8: "Id ego expertus sum 40 horis pendens
de fune tortis brachiis ligatus et funiculis simul usque ad ossa
adstrictis; super acuminatum lignum insidens, ita ut si velim
brachiis me subtinere contortis, nimis affligerentur brachia
scapulae, et pectus, et collum, si me demitterem a ligno nates
devorabantur: quae distentae usque ad vessicae collum et radices
genitalium, sanguinem multum emittebant, donec tanquam mortuum
post 40 horas torquere cessarunt. Homines alii me maledicebant, et
intendebant dolores, funem excutiendo: alii laudabant clanculum
fortitudinem". - E ne' Medicinalium juxta propria principia lib.
6, pag. 58: "Mihi autem et venas et arterias disrupit nedum carnes
laceravit cruciatus equulei in posterioribus partibus, et tamen
diligentia Chirurgi Scamardelli, optimi viri, sanitatem adeptus
sum".
(265) Nelle Cedole di Tesoreria e Cassa Militare vol. 439 (an.
1610), fol. 869 si legge: "a ultimo de maggio 1610... a Bonifatio
del Castillo medico Cirugico del r.° castello di Sant'Elmo per suo
soldo de mesi ventidue etc. a ragione de d.ti 3 il mese, D.i 72,3,
- ". Pel medico Orabona ved. segnatamente i Processi della
Cappellania maggiore.
(266) Nel Lib. I. Baptizatorum ab. an. 1544 usque 1600 si legge:
"A di 3 de Agosto 1566 Lucretia Camardella fig. de Gio. Antonio
Camardella et Mad.a lavina Camardella" etc. Nel Lib. III
Baptizatorum et Mortuorum, all'elenco de' morti si legge: "A dì 22
de febraro 1601 morse lavina madre de sipione (sic) camardella
medico"; inoltre "A dì 29 de luglio 1631 morì Scipione Cammardella
Cerusico del Castello sepolto alla sep.ra de Sacerdoti nella
Chiesa". - È facile intendere che le parole scritte da fra Tommaso
"diligentia Chirurgi S. Camardelli (Scipionis Camardelli)" sieno
state nella stampa interpetrate "diligentia Chirurgi Scamardelli".
Così nella stessa opera Medicinalium a p. 350 si parla di "Cioccio
del Tupho", evidentemente Ciccio ossia Francesco del Tufo; a pag.
378 si parla del "medicus Santarellus nolanus", alludendo senza
alcun dubbio al medico Antonio Santorelli da Nola, celebratissimo
in quell'età, lettore di pratica nello studio pubblico dopo il
Cannizales nel feb.° 1613, poi lettore di filosofia dietro il
ritiro di Latino Tancredi nell'8bre 1617 etc. etc. In somma è
difficile avere un nome senza storpiatura, ciò che s'incontra
egualmente ne' non pochi libri italiani del tempo, dati a stampare
all'estero senza la revisione degli autori.
(267) Ved. il cit.to Doc. 400, pag. 476.
(268) Questo Vincenzo Ubaldini non ci riesce ignoto. Era di Stilo
e insieme con tutta la famiglia dimorava in Napoli. Andato a Stilo
col fratello Francesco, fu carcerato insieme col fratello e
tradotto in Vicaria; l'Archivio di Stato ci fa conoscere la
famiglia loro ed anche il motivo della loro carcerazione;
trovandosi in Vicaria ebbero più tardi ad essere chiamati quali
testimoni in una informazione di S.to Officio presa appunto contro
fra Pietro di Stilo. - 1° Numerazione de' fuochi, vol. 1385.
Fuochi di Stilo della vecchia numerazione (1598) estinti: "n.° 39.
Bartolo Baldino a. 48; Livia uxor a. 30; Vincenzo f.° a. 18;
Francesco f.° a. 15; Mutio f.° a. 5; Dalfina Brescia famula a.
18". - 2° Reg.i Curiae vol. 55 fol. 9 t.° "All'Audientia di
Calabria ultra..... Da alcune Monache del Mon.io di S. Maria della
gratia de' Vergini della città di Stilo ci viene scritto
dell'insulto, et parole ingiuriose fattoli, da Vincenzo et
Francesco baldini dell'istessa città in detto loro monasterio..."
(segue l'ordine di prendere informazione, assicurarsi delle
persone ed avvisare) 29 maggio 1603. - 3° Contra fratrem Petrum
Dominicanum etc. nella n.a Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2°.
fol. 267.]
(269) Nei suoi scritti si disse sempre "Hipponiata", dando così
luogo ad interpetrazioni diverse, onde fu dichiarato di
Monteleone, di S. Eufemia, di Gerace, di Taverna. In un curioso
documento da noi trovato, del 1614, egli si dice napoletano, di
circa 72 anni, figlio del q.m Mario e Lucrezia Galfuna. Intanto ci
consta pure che dopo il Perrotta, dal 23 8bre 1607 fino al 1622,
tenne la cattedra di chirurgia ed anatomia un Mario de Burgos y
Azolin; potrebbe stare che questo Mario fosse un parente di
Giulio, accomodatosi a ripigliare l'originario cognome spagnuolo
per ottenere più facilmente la cattedra; se così fosse, s'intende
che riescirebbe accertata l'origine spagnuola di Giulio Jasolino,
ma è indubitabile che egli era nato in Calabria, e ci consta da
altri fonti che aveva due fratelli in Napoli, Orazio e Ferrante,
oltrechè vi fu contemporaneamente qualche altro dottore Jazzolinus
di Taverna in Calabria (ved. per quest'ultimo nel Grande Archivio
la Collectio Salernitana vol. 170 fasc. 1.° f. 47; il tom. 1.°
fasc. del 1588 della stessa Collezione ha un autografo di Giulio
Jasolino).
(270) Ved. Doc. 403, pag. 502.
(271) Ved. Doc. 404, pag. 503.
(272) Ved. Pegna, Scholia in Eymerici Directorium Inquisitorum,
Romae 1578, Schol. XXV pag. 136; "Quid si revera haereticus in
furorem incidat,... quomodo ejus causa tractanda? Respondeo
custodiendum esse omnino, donec ad sanam mentem revertatur: nec
potest damnari priusquam in furore moriatur, quia fortassis
resipiscet et reconciliabitur Ecclesiae: nec ob id dicetur
recedere impunitus, cum satis ipso furore puniatur". Anche se
l'eretico fosse divenuto pazzo mentre era già condannato
all'ultimo supplizio, bisognava sospenderne l'esecuzione: "Minus
malum videtur eum impunitum relinquere, quam puniendo animam
perdere; differendum est igitur aut etiam amovendum penitus omne
supplicium" (Ibid.).
(273) Su questo Cesare d'Azzia potremmo dare varie notizie, ma ci
basterà dire che era di famiglia nobilissima, bensì di costumi
molto tristi. Anche nell'Arch. di Stato in Torino,
Lettere-Ministri Due Sicilie maz. 1°, lett. dell'Agente Melchiorre
Reviglione 28 mag. e 7 giugno 1602, trovasi qualche cosa intorno a
lui; poichè egli era Cav. di S. Lazzaro fin dal 1560 e possedeva
le commende di Ariano, Barletta, Venosa e Rocca-Rainola. Il
Reviglione suggerì di farlo processare e privare dell'abito dal
Nunzio Pontificio, del quale il Duca di Savoia si serviva in
simili casi.
(274) Ved. Doc. 417, pag. 521. Si ricordi che dopo la veglia il
Campanella fu posto in una camera presso la Sala Reale, ed ora si
badi che lo scritto fu trovato nel reveglino tra le due porte del
castello: a chi conosce il luogo è chiaro che il Campanella dovea
trovarsi nel bastione che rimane tra i due torrioni, quello detto
Bibirella e quello detto del Castellano, ma più dappresso a
quest'ultimo e nel 2° piano.
(275) Ved. Doc. 423, pag. 528.
(276) Ved. Doc. 405, pag. 504.
(277) Ved. Filza 4089, Lettere di particolari scritte da Napoli al
Sig.r Lorenzo Usimbardi l'anno 1601 et 1602. La relazione è senza
data, ma precede di poco l'annunzio della morte del Vicerè; per
altro le Lettere stanno in quella Filza assai disordinatamente.
(278) L'Ughelli, Italia Sacra t. 6° p. 624, qualifica il
Provenzale "nobile Filosofo e Teologo" non già medico; ma dice che
Clemente VIII si servì dell'opera sua e cita i libri medici di
lui. - Quanto al Bonaventura, può leggersi il Carteggio del
Nunzio, Let. di Napoli 2 9bre e 7 10bre, 4 8bre 1602 e 26 7bre
1603; e Lett. di Roma del 30 9bre 1601, 13 7bre 1602, 15 maggio
1604. - Notiamo che negli ultimi giorni della malattia del Vicerè
il Nunzio non si trovava in Napoli; avea dovuto recarsi, con suo
vivo dispiacere, a Larino, dove il popolo avea chiuso le porte
della città in faccia al suo Vescovo Mons.r Vello, e vi si era
fatto accompagnare da 50 soldati a cavallo concessigli dal
Governo; ved. il suo Carteggio, Lett. da Napoli del 21 7bre, 5 e
15 8bre 1601 etc. e il Carteggio Veneto, Let. del 9 8bre 1601.
(279) Nell'originale "trai". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(280) Anche ne' Diurnali di Scipione Guerra, ms. della Biblioteca
Nazionale di Napoli (X, B, 11) si trova un Sonetto apparso al
tempo della morte del Lemos, che canzona la sua intemperanza e
comincia così:
"Giungi roba al pignato Satanasso
vien teco a cena l'alma di un ghiottone
che andò mangiando per ogni pontone
con scusa di portar la moglie a spasso" etc.
Nel Carteggio poi del Residente Veneto, una volta in data del 7
7bre 1599, a proposito delle doglianze affisse pe' cantoni circa
la carestia, si biasima "la smoderata presunzione et superbia del
popolo"; un'altra volta in data del 19 8bre 1601, a proposito
delle accuse che si facevano al Lemos estinto, trovasi
un'osservazione molto amara, ma che è bene conoscere, perché
rimossa l'esagerazione potrebbe anche offrire qualche cosa da
apprendere, ed essa è, che i napoletani "per natura danno sempre
per fatto da altri quello che fariano essi se havessero la
potestà"!
(281) Ved. Doc. 123, pag. 72.
(282) Ved. Doc. 407, pag. 507.
(283) Ved. Doc. 406, pag. 506.
(284) Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2°, fol.
180 e seg.ti
(285) Nell'originale "di". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(286) D. Manno Brundusio di Fondi era stato dapprima Segretario
del Vescovo di Lucera, e poi divenne Segretario del Vescovo di
Caserta; secondo alcuni suoi reclami né l'uno né l'altro gli
avrebbero dato mai compenso; vedi nel Carteggio del Nunzio
Aldobrandini Lett.e di Roma del 1° 7bre 1600 e 24 10bre 1604; e
Lett.re di Napoli del 21 genn. 1605. Suo fratello parrebbe che
fosse stato quell'"Appio Brundusio Fundano filosofo e medico
preclarissimo" il quale diresse ad Antonio Serra l'economista
alcune poesie che si leggono in fronte all'opera di costui
intitolata: Delle cause che possono far abbondare gli Regni d'oro
et d'argento, Nap. 1613.
(287) Ved. Doc. 408, pag. 507.
(288) Ved. Doc. 415, pag. 519.
(289) Ved. Doc. 410, pag. 509.
(290) Ved. Doc. 411, pag. 510.
(291) Questa Sig.ra Giulia fu poi moglie del medico e filosofo
celebratissimo a' tempi suoi, Francesco Leotta, di cui fanno
menzione il P.e Fiore, il P.e Elia de Amato etc. etc. Nella
Numerazione de' fuochi di Stilo, fasc. del 1630 si legge: "n.°
411. Dott.r Francesco Leotta (assente nella città di Roma); Giulia
Prestinace moglie a. 62" (con due serve).
(292) Il Principe di Conca, di cui qui si parla, non
potrebb'essere altri che quel Matteo di Capoa, "grande Ammirante
del Regno" fin dal 1597, cav.re del Toson d'oro etc. che abbiamo
visto testimone a carico di Colantonio Stigliola nel processo che
costui ebbe dal S.to Officio (confr. vol. 1°, pag. 95 in nota).
(293) Questo opuscoletto, di carte 11-1/2 non numerate, comincia
così: "Pithagoram, cum occultam musices rationem admiratum esse
legeretur, et ex fabrorum malleis juxta pondera invenisse: eumdem
quoque ad hominum natales et genituras descendisse videtur.
Ideoque hominis partum vitalem esse, quum armonias explesse (?)
videtur: perfectiorem vero nonimestrem, eo quod pluribus
simphoniis confectum esse dicitur (?): septimestris igitur ideo
armonicus, quum id tempus ex triginta quinque (?) per senarium
ductum constat. Triginta quinque vero ex sonoris numeris
colligitur, quibus homo formatur in utero. Nam primis sex diebus
semen ut lac decoquitur, sequentibus octo erubescit in sanguinem:
subsequentibus 9 fit caro: postremis 12 organizatur et in hominem
formatur. Unde per armonias transit. Nam a primis sex ad octo
Diatesseron est: et ad novem Diapente: et ad duodecim Diapason: ex
quibus triginta quinque confiantur; cui si denarium adas,
quatraginta quinque conficies; quem si per senarium ducas efficies
270, quem numerum, si in menses dividas, novem menses faciunt.
Denarium si per unum, duo tria et quatuor dividas totum decem
faciunt: si binarium ad unitatem comparabis Diapason videbis:
Ternarius ad binarium Diapente: Quaternarius ad ternarium
Diatessaron: e contra vero Quaternarius ad unitatem Bis diapason:
Ternarius ad unitatem Diapason cum diapente. Quae cum plures sint,
nonimestris vitalis erit; Octomestris vero cum nullas istas habeat
proportiones, immusicus est, et non vivet quod in eo nascitur
mense, ut clarius in hoc exemplo schematis hujus patet". Segue una
tavola schematica, che lasciamo, come tutto il resto, anche perché
la scrittura riesce di una lezione molto difficile; vi
scapiteranno solamente i Musici e i Fisiologi, che avrebbero forse
visto con piacere accomunati i più sublimi principii delle
rispettive discipline.
(294) Pare che debba leggersi: "a mucciari" che vuol dire "a
nascondere"; ma è scritto "amacciari".
(295) Veramente l'originale dice: "fingi chi mi vidi" etc.; ma non
andrebbe né il senso né il verso.
(296) Nell'originale "interpetrarla". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
(297) Ved. Doc. 409, pag. 509.
(298) Nell'originale "esauri". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(299) Ved. Doc. 417, pag. 521.
(300) Ved. Doc. 418, pag. 522.
(301) Ved. Doc. 419, pag. 524.
(302) Ved. Doc. 420, pag. 525.
(303) Eccola questa scrittura; è brevissima, e possiamo soddisfare
chi voglia un saggio di tali scempiaggini: "Arie sequi Cunaim
Enamenìcon Amael settantol Coniuro vos per Dom. nostr. Jes.
Christ. et Mariae (sic) Virginis matris eius ut statim talis in
amore meo corrumpere faciatis." E poi: "Abagator Amon Averamon
canus masque pedasque conturbant te
(304) Su questa faccenda del matrimonio di D. Andrea de Mendozza,
figlio di D.a Isabella de Mendozza 2a moglie e già vedova di D.
Pietro Gonzales de Mendozza 4° Marchese della Valle Siciliana e
Rende, abbiamo trovato notizie quasi complete nel Carteggio del
Nunzio, notizie che non dà il De Lellis (Discorsi delle famiglie
nobili del Regno di Napoli 1654 part. 1a p. 398); ed è bene
saperne qualche cosa, poichè madre e figlio abitavano nel Castel
nuovo, e in questa faccenda del matrimonio si trovano implicate
certe persone che hanno potuto aver relazione col Campanella.
Adunque D. Andrea, essendo capitano d'infanteria spagnuola in
guarnigione a Bisceglie, s'invaghì di D.a Ilaria Sifola, che
abitava in quella città con la madre Beatrice Sassi, ed
apparteneva a famiglia nobilissima e potentissima in quella
regione, tanto da far correre il proverbio notato dagli scrittori
di cose nobiliari, "pe' Sifoli e Palagani non si può vivere in
Trani". D. Andrea la sposò e vi si unì, ma la madre Marchesa della
Valle montò in tanta collera da far istituire un processo di
rescissione di matrimonio nel tribunale del Nunzio; D.a Ilaria
Sifola, contro la volontà della Marchesa che avrebbe preferito
vederla in un convento, venne sequestrata presso una nobile
Signora di Barletta D.a Giulia Gentile, certamente de' nobilissimi
Gentili che vantavano nella loro famiglia 14 Conti di Lesina (ved.
Zazzera, della nobiltà dell'Italia, Nap. 1625 t.° 2.° pag. 81)
sorella di Michele 2° Gentile e di Tommaso, che da D.a Eleonora
della Gatta ebbe Francesco Gentile. Il Carteggio del Nunzio offre
alcuni memoriali della madre della Sifola ed anche di D. Alonso de
Mendozza il Castellano, che era fratello della Marchesa della
Valle e quindi zio di D. Andrea, diverse lettere di Roma e di
Napoli su questi memoriali, ed una lettera del Nunzio medesimo a
D. Artuso Pappacoda, che sappiamo essere anche parente della
Marchesa della Valle (marito della zia D.a Caterina de Mendozza)
ed inoltre a quel tempo Governatore della Capitanata, onde avea
voluto ingerirsi nella quistione, tentando, a quanto sembra, far
uscire D.a Ilaria dalla casa Gentile per ingarbugliare semprepiù
la lite sul matrimonio (ved. Lett. di Roma 13 7bre, 11 8bre e 1° e
29 9bre 1602; e Lett. di Napoli 18 7bre, 25 8bre, 22 9bre e 6
10bre 1602). Ma il matrimonio fu da ultimo dichiarato valido,
sicchè D. Andrea si unì di nuovo a D.a Ilaria e n'ebbe figli e
figlie, una delle quali si maritò ancora a un Gentile: i libri
parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo recano i nomi di taluno
de' discendenti di D.a Ilaria e D. Andrea, cominciando peraltro
D.a Ilaria a figurarvi non prima dell'anno 1618.
(305) Ved. Doc. 421, pag. 526.
(306) Ved. Doc. 422, pag. 527.
(307) Riportiamo qui la bozza de' cedoloni; vi apparisce anche il
fisco per pura e semplice finzione legale: "Hic auctoritate
Apostolica denuntiatur et publicatur Excomunicatus, et ab omnibus
christi fidelibus arctius evitandus Capitaneus Moya, qui fuit
locumtenens Regii Castri novi hujus Civitatis, ob non paritionem
mandatorum Apostolicorum eidem intimatorum, instante fisco et
petente. - .... locus sigilli. - Donnus Benedictus Episcopus
Casertanus et Commissarius. - Amoventes, et lacerantes, aut
quomolibet (sic) deturpantes sint etiam Excomunicati".
(308) Ved. Doc. 423, pag. 528.
(309) Nel Carteggio del Nunzio (Let. da Napoli filz. 230) trovasi
la seguente lettera del Nunzio al Card.l di S.ta Severina: "17
marzo 1600. Hò ordinato mi sia chiamato quel Melchiorre Mescia de
Figueroa che V. S. Ill.ma mi scrive per la sua de' 10 del corrente
che sta in Castello dell'ovo et è scomunicato, acciò sappia che hò
facoltà di assolverlo, come l'assolverò tuttavia che venga
conforme al suo ordine".
(310) Contrada nel territorio di Gerace.
(311) Ved. Doc. 435, pag. 547.
(312) Nel Grande Archivio non mancano notizie intorno ad alcuni di
costoro, e propriamente intorno a quelli che hanno maggiore
attinenza co' soggetti della nostra narrazione. Luzio Gagliardo
finì ammazzato con taglia promessa dal Governo, come si rileva dal
seguente dispaccio Vicereale all'Audienza di Calabria ultra:
"Magn.ci viri etc. Per parte de Vincenzo Schinosi ci e stato fatto
intendere come ritrovandosi Cap.to della città di S. Agata di
quessa Prov.a andando in perseq.ne di Banditi ammazzò lutio
Gagliardo Capo di Banditi, la testa del quale ha presentato a D.
Garsia de Toledo olim Governatore di quessa prov.a et per tal
causa li spettano D.i cento in virtù deli regii banni....."
(dietro la dimanda di pagamento il Vicerè vuole informazioni) 14
10bre 1603,[** .] Ved. Reg. Curiae vol. 55. an. 1603 - 1604, fol.
78. - Ed anche il Veronese dovè saldare qualche conto, come si
rileva da un altro dispaccio parimente diretto all'Audienza di
Calabria ultra: "Magn.ci viri etc. Si è ricevuta l'informatione
che ci havete inviata con la vostra delli 4 di maggio prox.°
passato presa di nostro ordine in Gerace ad instantia del Rev.do
Vescovo di quella città contra alcuni particolari laici di essa,
et essendosi vista per noi et referitaci in questo regio
Collaterale cons.° ci è parso per risposta di detta vostra dirvi
sincome per questa ve dicimo et ordinamo che al recevere di questa
la debbiate (sic) incontinente con ogni diligenza procurare de
haver in mano Pietro Veronese inquisito tra l'altri in essa et
carcerato che l'havereti debbiate incontinentemente mandarlo sotto
buona e cauta custodia nelle carcere della gran Corte della
Vicaria con vostro aviso a noi, verum offerendove plegiaria di
venirsene à presentare fra termine di un mese dandola di d.ti
mille debbiati liberarlo e permettere che venga inviandoci copia
di detta plegiaria et aviso del dì della sua scarceratione acciò
che non venendo fra d.to tempo si possa procedere all'accusa di
quella. Dat. neap. die 30 junii 1612. El c.de de lemos". Ved. Reg.
Curiae vol. 83, an. 1612-1616, fol. 24 t.°.
(313) I Registri Curiae (vol. 30 an. 1581-1588, fol. 241) recano
solamente, in data del 21 gennaio 1587, l'ordine al dot.r Vello,
Commissario di campagna contro fuorusciti e malfattori, di avere
in ogni modo nelle mani il Duca di Amalfi. Il processo di eresia,
che abbiamo potuto esaminare, reca la notizia della carcerazione
sofferta, secondo i diversi tempi, nella Vicaria, nel Castello
nuovo, nel Castello dell'uovo, e così pure quella della condanna
avuta e della grazia concessa, oltre tutti i particolari de' fatti
in materia di S.to Officio. Vi abbiamo notato fra' testimoni
"carcerati in Castello" fin dal 1595, anche il Sig. Cesare d'Azzia
(che fu in relazione col Gagliardo nella faccenda delle scritture
proibite) insieme con altri nobili di primo ordine, come Alvise
d'Aragona, Arimanno Pignone, Francesco Loffredo. Il duca aveva
posseduto egli pure una copia della Clavicola di Salomone, e fin
dai primi anni suoi, nel 1579, passando per Venezia, con un monaco
del convento de' Frari si era occupato di sortilegi, continuati
poi di tratto in tratto con altri frati e preti in modi spesso
curiosi. Abiurò il 21 agosto nella Chiesa di S. Maria a Cappella,
dove fu tradotto dal vicino Castello dell'uovo. Il rescritto di
abilitazione da parte di Clemente VIII, in data del 6 gennaio
1600, fu firmato anche da fra Alberto (Tragagliolo) Vescovo di
Termoli Commissario generale del S.to Officio; e la commutazione
dell'anno di carcere in penitenze salutari fu decretata dallo
stesso fra Alberto il 13 gennaio 1600. La rimozione dell'empara fu
fatta il 24 marzo 1600, e a questa data il Duca dovè uscire in
libertà, ma alla guerra andò nell'anno seguente e durò molti anni
nella vita militare. - Il Residente Veneto, effettuata l'abiura,
la partecipò al suo Governo in data del 7 7bre 1599 in questi
termini: "Il Sig. D. Alessandro Piccolomini Duca di Amalfi, che
per antichità di titolo era uno de' primi SS.i di questo Regno,
dopò havere alienato il stato et consumato affatto ogni altro suo
havere, et permesso che sua moglie con potestà Pontificia si sia
sacrata monaca, et essendo poi lui per diverse colpe stato dal
Conte d'Olivares confinnato xij anni in Castel novo si è questi
ultimi giorni nella Chiesa di Capella alle mure della Città
abiurato in valida forma di cose hereticali". Di poi, il 23 maggio
1600, partecipò il desiderio del Duca "già libero" di servire la
Repubblica Veneta. Infine, il 9 gennaio 1601, partecipò l'andata
del Principe di Avellino alla guerra con 24 compagnie e 43
capitani, tra' quali il Duca di Amalfi.
(314) Ne diamo alcuni brani per saggio. "Prologho (sic). Se 'l
verno coprisse di continuo la terra di giaccio, e di neve, e gli
estivi, et tepidi soli non la disfacessero, come potrebono gli
alberi e gli pianti produrre i fiori et frutti? cossì se qualche
breve riposo non iscemasse tal volta la fatica, et alleggiasse il
peso de' continui fastidj, et de noiosi pensieri ch'agravano gli
animi nostri, come potremmo noi lungamente vivere? non à dubio che
per ripararci dell'arma della morte più che si può, ne fa bisogno
d'alcun soccorso honesto, ò utile, ò dilettevole, et che soccorso
può dunque trovarsi più convenevole che la Comedia, che à in se
tutte questi tre parti, è honesta, perche fu trovata per ritrarre
gli huomeni dell'ampia strada de vitii, et guidarli per lo stretto
sentiero della virtù..." etc. "Ma all'età nostra si prezzano si
poco che rarissime si ne veggono a rapresentare, né so si di ciò
debba incolpare l'avaritia o il poco amore che si porta alla
virtù, dall'un canto mi cade nel pensiero di darne cagione
all'avaritia poi che non e chi voglia scomodarsi di un mino danaro
(sic) per fare una scena, e dall'altro canto m'induco ad accusare
il poco amore della virtù, per che gli ascoltanti, vedendosi
porgere a gli occhi un vitio, del quale essi sono machiati, temono
in presentia dell'altri non arrosirse, et conferma questa mia
oppinione il vedere che non voglino in quelle poche comedie che si
fanno, che si reprendino vitii ma solo si dicano ciance et cose
ridicole e di nisuna sostantia, servendosi della Comedia per uno
spasso et per un gioco, e non a quel fine che fu ritrovata, et
sono alcune persone che essendo elle degne di riso, come sentonu
una parte che move meraviglia à dolorore (sic) à compassione ò ad
altro effetto contrario o diverso dal riso si sentono svenire, et
bisogna apparechiare lo aceto per unger loro i polsi, et stimano
più una chiachiarata all'improviso et fori di proposito d'un
vecchio venetiano o di un trastullo accompagnata di quattro
accione disonesti et vili usati farsi da bagattellieri, che una
Comedia grave che si serrà stentato tre anni a comporla et sei
mesi a recitarla, vedete a chi termine e ridotto il poeta Comico,
che essendo stato ripotato da ingegni eccellentiss.mi più
difficile a comporre che lo Epico e 'l tragico, non mancano
infiniti che non havendo pure una minima notitia di poesia solo
con un certo loro discorso naturale, o per dir meglio materiale,
et con l'osservanza secca c'hanno fatta in leggere quattro o sei
comedie, stimandosi dotti senza arte presummono darne giudicio, et
poi come sentono una protassis, una epitassis, una catastrophe, o
simil altra sorte di voci convien loro di ricorrere ogni tratto al
Calepino: et perciò (intend. se perciò) l'autore havesse pensato
di contentare tutti i cervelli non si sarrebbe mai messo a durare
questa fatica, perche non à tanta albaglia (sic) nel capo, che
presumma esser miglore di Plauto, e di terentio, et di gli altri
Autori moderni eccellenti, le Comedie de i quali non hanno potuto
passare senza reprensione per li mani di certi Maestri Aristarchi,
che con la barba quadra et col mantello lungo, col passo della
picca, col far carestia delle parole et non dire che non sieno
sesquipedali et preugne di sententie, aquistono credito appresso
gli ignoranti et fanno profissione di havere i nasi critici che
sentono l'odore insino al vetro, et non componendo essi mai, sono
severissimi Giudici delle compositione altrui..." etc. "La Comedia
è nova non più recitata e pur hora uscita di sotto il pennello del
pittore e chiamasi torti Amorosi, da torti grandi che fa Amore
alle persone che ne intervengono, facendole seguir chi le fugge
scacciar chi li brama e i desiderii loro difformi et non
corrispondenti, ma acortosi al fine che la Comedia sì rapresenta
in Gerace che è questa che vedete, che è lugo (sic) dove si
puniscono severamente le ingiustitie et i torti ben che
legerissimi, et però temendo che costoro non ricorressero per
gustitia (sic) al tribonal dello sdegno, si risolve far raggione a
ciascuno, et farlo rimaner contento. Di silentio non ardisco
ricercarvi, perché mi parrebbe far inguria (sic) alla cortesia et
alla gentileza vostra vedendove stare cossi chieti, attendeti che
adesso si derra principio".
(315) Notiamo di passaggio che questo Michele Cervellone,
propriamente messinese, fu poi uno de' 4 principali imputati nella
così detta 2a congiura del Campanella, che finì col supplizio di
fra Tommaso Pignatelli il 1634.
(316) Ved. la nostra Copia ms. de' proces. ecclesiast. tom. 2°,
fol. 215-1/2.
(317) Il decreto leggesi nel Carteggio del Nunzio, Filz. 216. Esso
è stampato, e fu così trasmesso al Nunzio per farlo conoscere a
tutti, con lett. del 18 10bre 1602; bensì la sua data è anteriore,
e rimonta al 1601. Le ragioni del decreto sono espresse ne'
considerandi: "Ut causae et negocia quovismodo spectantia ad
Sanctam Inquisitionem cognoscantur et expediantur omni qua docet
integritate, amotis quibusvis sordibus ac pecuniariis
solutionibus" etc. Vero è che la Camera Apostolica non dava mai
nulla e non compensava neanche il Ministro Generale della S.ta
Inquisizione; si attesta infatti in una lettera a proposito della
morte di Mons. Carlo Baldino predecessore del Vescovo di Caserta,
che egli avea "servito 30 anni all'officio dell'Inquisitione senza
mercede" (Lett. di Roma del 10 aprile 1598, Filz. 211). In che
modo dunque dovea provvedersi alle spese? Ne' tribunali Diocesani
vi provvedeva il Vescovo con l'entrate del Vescovado, e infatti in
un'altra lettera, scritta a tempo della vacanza della Chiesa
Napoletana per la morte del Card.l Gesualdo, si ordina al Nunzio,
amministratore temporaneo, che faccia pagare dall'entrate
dell'Arcivescovado "le spese del vitto et altre necessarie
occorrenti per li carcerati del S.to offitio et speditioni delle
loro cause" (Lett. di Roma del 23 maggio 1603, Filz. 218): ma nel
tribunale del Ministro Generale dell'Inquisizione potevano
sopperire alle spese unicamente le confische delle cauzioni degli
"abilitati"; ad ogni modo non avrebbero mai dovuto sopperirvi
l'elemosine raccolte in sollievo de' poveri carcerati.
(318) Ved. Doc. 412, pag. 513.
(319) Ved. Doc. cit.
(320) Le scritture della Cappellania maggiore, dalle quali abbiamo
desunto i particolari suddetti, sono rappresentate da' Processi
della Cappellania maggiore, che avemmo a studiare nel far le
ricerche sul chirurgo Scipione Camardella.
(321) Ved. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di
Napoli, Nap. 1654 - 71, vol. 2°, part. 3a, pag. 349. - Carteggio
del Nunzio, Lett. di Roma 30 nov. 1601, 23 feb. 1602, 24 genn.
1603; e Lett. di Napoli 14 10bre 1601, 25 gen. 1602, 21 marzo
1603, 24 marzo 1605.
(322) Ved. Reg. Sigillorum vol. 38 (an. 1601) sotto la data 24 di
maggio.
(323) Ved. Reg. Curiae vol. 52 (an. 1601 - 1603) fol. 17, ove
leggesi il seguente memoriale: "Gio. Francesco de Apuczo expone a
V. Ecc.tia come sono octo mesi e più che se ritrova carcerato
senza haver' fatto male sotto pretesto fosse consapevole dela
morte del q.m notar' Gio. Carlo d'Apuczo suo padre per il che fu
delegato per la felicis.ma memoria dell'Ecc.tia del Conte di lemos
in detta causa il giudice Gio. Andrea Auletta, il quale come
delegato procedè in detta causa et hà tormentato atrocissimamente
esso supplicante mediante il quale (sic) è ridotto in tanta poca
salute che si ritrova in pericolo di morte senza posser' ricorrere
à persona alcuna che lo proveda per non haver' giodice..." etc.
(supplica che gli si faccia giustizia, e S. E. all'ultimo di
ottobre 1601 delega per la causa il giudice Tirone).
(324) Ved. Doc. 413, pag. 514.
(325) Ved. Doc. 414, pag. 518.
(326) Ved. Doc. 416, pag. 520.
(327) Ved. Doc. cit.
(328) Ved. Doc. 127, pag. 73.
(329) Ved. Doc. 128, pag. 74.
(330) Da una lettera del Campanella del 10 agosto 1624 a Cassiano
del Pozzo, lettera pubblicata dal Baldacchini, apparisce che il
Campanella riteneva essere stata la Monarchia tradotta anche in
ispagnuolo e che questo accresceva le sue speranze di liberazione:
per lo meno se fu tradotta in ispagnuolo, non fu stampata in
questa lingua, avendola noi invano cercata nella Bibl. naz. di
Madrid e in quella dell'Escuriale. Il Bosoldo poi ebbe cura di
tradurla o farla tradurre in tedesco, perché la politica era uno
de' suoi studii prediletti, ma non si comprende perché non
l'avrebbe pubblicata in latino, se fosse stata già tradotta in
latino, e questo ci dà motivo di sospettare che le affermazioni
del Syntagma sopra citate possano essere inesatte. Quanto alla
pubblicazione in italiano, essa fu condotta sulla copia
scorrettissima esistente in Firenze, e il D'Ancona dovè lavorarvi
assai e se la cavò con molto suo onore; ma ci sia lecito ripetere
il voto, che laddove abbia a rifarsene l'edizione si tengano
presenti le copie napoletane che si prestano tanto bene a'
confronti.
(331) Ved. Doc. 524, pag. 604.
(332) Ved. Doc. 497 e 498, pag. 572 e 573.
(333) Ved. Doc. 494, pag. 571.
(334) Ved. Doc. 488, pag. 569.
(335) Ved. Doc. 504, 512, 515, 513, 517, pag. 575, 579, 580, 581.
(336) Nella lett. al Card.l Farnese si legge: "un volume di
sonetti e canzoni a varie repubbliche regni et amici e
salmodie..." etc. Nel Memoriale al Papa, pubblicato dal
Baldacchini e riprodotto dal D'Ancona, si legge: "un volume di
varie rime e Salmodie... morali e politiche".
(337) Ved. Doc. 502, pag. 574.
(338) Ved. Doc. 507, 505, 506, 509, 510, 508; pag. 576-577.
(339) Ved. Doc. 495, pag. 571; e 511, pag. 579.
(340) Ved. Doc. 462, pag. 559; e 491, pag. 570.
(341) Ved. Doc. 492, pag. 570.
(342) Ved. Doc. 499, pag. 573.
(343) Ved. Doc. 463, pag. 559.
(344) Ved. le Cedole di Tesoreria vol. 427, an. 1596, pagamento in
data 30 giugno di D.i 150 per soldo de anno uno; e le Carte
diverse del Governo dei Vicerè, fasc. 2°, an. 1610, dimanda in
data 10 luglio, con la quale D. Troiano chiede licenza di poter
rimanere un anno fuori Napoli.
(345) Ved. Doc. 467, 468, 477; pag. 560, 561, 564.
(346) Ved. i Registri Privilegiorum vol. 104, an. 1593-95, fol.
84. Sospettiamo che la madre di D.a Ippolita non sia stata Porzia
Pignatelli moglie di D. Garzia, giacchè in questo documento, oltre
l'assegno in moneta fattole dal padre, si ricorda anche questa
promessa da lui avuta, "vita durante della madre di d.ta D.
Ipolita consignarli ogni anno mensatim tomola ventiquattro di
grano".
(347) Ved. Sarrubbo, Trattato della famiglia Cavaniglia, Nap.
1637, e De Lellis, Famiglie nobili di Napoli, ms. della Bibl. naz.
nap. X, A, 3. fol. 263, e X, A, 8, fol. 175-193. - Negli stessi
Reg.i Privilegiorum vol. 86, an. 1587-88, fol. 96, trovasi la
donazione della parte legittima de' suoi beni fatta da Cornelia
Cavaniglia nel vestirsi monaca, e in essa si citano la madre
Porzia Pignatelli e i fratelli Troiano, Scipione, Fabrizio e
Mario. Ne' libri parrocchiali della Chiesa di Castel nuovo è
citato più volte Fabio Magnati fino al 1585, e Troiano Magnati due
volte, nel 1596 e 1598; D.a Ippolita Cavaniglia poi è citata un
grandissimo numero di volte, specialmente come madrina, anche in
compagnia di D.a Anna e di D.a Maria de Mendozza, talora in
compagnia del Principe di Bisignano quando costui era carcerato; e
da ultimo l'elenco de' morti reca, "A dì 29 de xbre 1615 morì D.a
Polita Cavaniglia, sepolta nel ihs vecchio" (intend. nella Chiesa
del Gesù vecchio).
(348) Capaccio, Il Forastiero, Nap. 1634, pag. 774.
(349) Ved. Doc. 469, pag. 561.
(350) Nell'originale "interpetrare". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
(351) Ved. Doc. 465, pag. 560.
(352) D.a Anna de Mendozza, figlia di D. Diego e D.a Claudia de
Caro fu sposa a D. Ferrante de Bernaudo (ved. Reg.i Sigillorum 18
7bre 1595) e ne ebbe varii figli, Claudia, Francesco, Diego,
Beatrice (ved. i libri parrocchiali per gli an. 1595-98-99 etc.);
era dunque figlia e non moglie al Bernaudo, che fu poi creato
Duca, la Claudia di cui parla il De Lellis (Discorsi delle
famiglie nobili etc. Nap. 1564 vol. 1° pag. 399). Aggiungiamo che
vi fu una Claudia Antonia de Mendozza, ultima figlia di D.a
Isabella Marchesa della Valle e quindi nipote di D. Alonso il
Castellano, la quale nel 30 8bre 1614 sposò Alessandro Ridolfi di
famiglia fiorentina, generale del Papa, Ambasciatore straordinario
di Mattia Re d'Ungheria al Re di Spagna, divenuto in Napoli
Consigliere del Collaterale, pensionato con D.ti 1000, ed anche
Marchese di Baselice: costui parecchi anni più tardi fu in
relazione col Campanella, il quale parlò appunto di lui in una
Lettera al Papa del 9 aprile 1635, che è tra quelle pubblicate dal
Berti, quando disse che co' fratelli Ludovico ed Ottavio (Ridolfi)
stava "in Castel di Napoli dove era accasato il Marchese et io
carcerato".
(353) Ved. Doc. 466, pag. 560.
(354) Ved. Doc. 473, pag. 562.
(355) Ved. in Allacci Drammaturgia, Venez. 1775, pag. 522 e 779.
Le Commedie sarebbero: "La memoria di Dario e Grisante" e "I
trastulli d'Amore" Viterbo 1647.
(356) Ved. Doc. 470, pag. 561; e 478 pag. 564.
(357) Ved. Doc. 471, pag. 562; 472, ib.; e 474, pag. 563.
(358) Ved. Doc. 475, pag. 563.
(359) Ved. Doc. 479, pag. 564.
(360) Ved. Doc. 476, pag. 563. Pel Campanella la filoprogenitura è
una ingannevole tendenza naturale ad eternarsi o immortalarsi,
come si può rilevare anche da un brano della lettera al Flugio,
che fu da noi pubblicata; da ciò emerge chiaro quale sia il fonte
consecrato all'appetito dell'immortalità.
(361) Ved. Doc. 484, pag. 568.
(362) Ved. Doc. 483, pag. 567: 482, ib.; 480, pag. 564; 481, pag.
566.
(363) Pel Sonetto ved. Doc. 501, pag. 574. I Reg.i Partium, volume
1420, an. 1597-1599, fol. 133, nell'elenco de' possessori di
rendite pagabili sull'arrendamento del vino recano, "Sore Elionora
Barisana D.i 14"; i libri parrocchiali del Castel nuovo,
nell'elenco de' morti, fol. 93, recano, "A di ij de marzo 1620
morì Sore Dianora Barisana de Barletta sepolta a Monte Calvario".
Si sa che la Dianora del dialetto vuol dire Eleonora.
(364) Ved. Doc. 516, pag. 581.
(365) Ved. Doc. 485, pag. 568.
(366) Ved. Doc. 486, ib.
(367) Ved. Doc. 460 e 461, pag. 558.
(368) Nel 1° de' Libri parrocchiali si legge, "1583 12 marzo, se
battezò Gioseph Horatio figlio de Ottavio Cesarano e de pulisena
Camardella"; nel 3° poi l'elenco de' morti reca, "a dì 16 de marzo
1603 morse petrillo Cesarano".
(369) Ved. Doc. 490, pag. 570.
(370) Percorrendo infatti l'art. 3° del Syntagma, dove appunto si
parla de' libri composti o ricomposti nel carcere, non è difficile
scorgere che la cronologia in genere e in ispecie è stata
addirittura negletta. Lasciamo da parte le Poesie, sulle quali ci
siamo già spiegati nel trattarne fin da principio. Dopo le Poesie
si parla degli Aforismi politici etc., che siamo per vedere essere
stati scritti non prima della 2a metà del 1601; poi della
Monarchia di Spagna, che abbiamo veduta indubitatamente già
ricomposta, se non composta, prima degli Aforismi; poi si parla
de' 15 Articoli profetali, che sicuramente furono scritti anche
prima della Monarchia di Spagna. In sèguito si parla de' libri
Medicinali e degli Astrologici, che non sono nominati ancora negli
elenchi del 1606; e passando sopra a' libri Astronomici e alle
Quistioni, osserviamo che dopo tutto ciò, con un notevole salto
indietro, si legge, "poco di poi in Napoli scrissi una
Metafisica... e questa ricevè dalle mie mani Geronimo Tufo
Marchese di Lavello nell'anno 1603"! In sèguito si passa a parlare
de' libri di Teologia, del Reminiscentur, delle Orazioni alle 4
grandi nazioni con la data del 1617 e 1618, e quindi, come
aggiunte a' libri anzidetti, si parla della Monarchia della
Sapienza eterna e del Dritto del Re Cattolico sul nuovo mondo,
libri che si trovano registrati tra quelli inviati allo Scioppio
nella sua lettera del 1607! Tralasciamo la Metafisica scritta nel
1611 e la Consultazione sulle entrate del Regno che vedremo
scritta più anni prima, e notiamo che a questo punto, essendo
stati già citati libri perfino con la data del 1618, si dice,
"tutti i suddetti libri lo Scioppio da me ricevè nell'anno 1608,
quando venne mandato da Paolo V°... ed anche gli diedi l'Ateismo
debellato"! Così mostrasi fuori ogni dubbio mal fondato tutto ciò
che è stato detto in tale materia sempre con la scorta del
Syntagma, il quale può servire pe' particolari della composizione,
non per la data di essa, verosimilmente perché fu redatto su note
staccate. Aggiungiamo che negli elenchi annessi alle lettere del
1606 sopra menzionate si dà talvolta per compiuta qualche opera
che ancora non l'era, p. es. i 18 Articoli profetali (ultima
composizione accresciuta), e si afferma anche essere le opere
"tutte salve" ciò che per alcune non era vero, e basta citare
l'opera "De rerum universitate", quella "De Philosophia
Pithagoreorum", la "Tragedia della Regina di Scozia". Nella
lettera allo Scioppio poi si citano le opere con l'ordine
seguente: Monarchia di Spagna, Discorsi a' Principi, Dialogo
contro i Luterani, Del senso delle cose, Pronostici astrologici,
Compendio (epilogo) di Filosofia etc. etc.; e ben si vede che
l'ordine cronologico non è serbato, e insomma unicamente con
accurati confronti, e tenendo sott'occhio le opere stesse e tutto
l'epistolario del Campanella dal momento in cui cominciò a scriver
lettere stando in prigione, si può venire a capo di questo
importantissimo lavoro.
(371) Nell'originale "bensi". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(372) Avremo altrove occasione di vedere che questa copia fu
involata dalla Magliabechiana, e poi tornò nelle mani del Governo
con altre scritture, per le quali ebbe posto nell'Archivio. Ma
vogliamo dire che dal Magliabechi in qua si trova sempre citata
col titolo di Concetti methodici etc., mentre veramente il suo
titolo è 150 Concetti methodici etc.
(373) Ved. Lett. inedite di T. Campanella e Catalogo de' suoi
scritti, Roma 1878, pag. 74.
(374) Ved. la nota alle Poesie Filosofiche nell'ediz.e D'Ancona
pag. 100.
(375) Ved. Berti, Tommaso Campanella, Nuova Antologia, luglio
1878, p. 217.
(376) La cosa è di un'importanza capitale per l'argomento che
trattiamo, e ci si permetterà di riprodurre qui taluni confronti
già notati nella 1.a nostra pubblicazione sul Campanella (Il
Codice delle lettere etc.) esprimenti certe differenze
contemplabili, nella forma e nella sostanza, tra la composizione
originaria del libro fatta nel 1602 e rappresentata da' codici
napoletani, la versione latina fatta nel 1613 e pubblicata
dall'Adami in Frankfort, la 2a edizione della versione latina
preparata dopo il 1629 e pubblicata dall'autore in Parigi;
quest'ultima veramente differisce dalla penultima quasi sempre per
qualche aggiunzione, e volgarizzata a cura di un editore Luganese
fu poi riprodotta dal D'Ancona, sicchè possiamo citare l'edizione
D'Ancona nell'esporre i confronti, anche perché essa è più diffusa
e popolare. - Circa la forma, si direbbe che con la magniloquenza
latina fosse apparso necessario magnificare perfino
gl'interlocutori del dialogo, i quali nella composizione
originaria del libro erano "Hospitalario, Genovese marinaro", col
latino furono promossi ad "Hospitalarius magnus, et Nautarum
Gubernator Genuensis hospes", e col volgarizzamento divennero "Il
Gran Maestro degli Ospitalieri ed un Ammiraglio Genovese di lui
ospite". Oltracciò il Capo Supremo della Repubblica, che dapprima
era semplicemente O (con o senza un punto nel mezzo, cioè a dire
il Sole, come si mantenne nell'esemplare latino dell'Adami)
divenne in sèguito Hoh. Naturalmente anche la dicitura italiana
primitiva, convertita in latino e poi ritornata italiana, si vede
trasformata di molto. P. es.: (cod. nap.) "S'io havesse tenuto à
mente e non havesse pressa e paura, io te sfondacaria gran cose,
ma perdo la nave se non mi parto"; (ediz. D'Anc.) "Oh! se mi
ricordassi d'ogni cosa e non mi stesse a cuore la partenza, e più
se nulla temessi, ti direi altro e ben più sorprendente, ma perdo
la nave se non mi affretto a prendere il largo". Ancora: (cod.
nap.) "Nulla femina si sottopone à maschio se non arriva a' 19
anni, ne il maschio si mette à generatione innanzi il 21"; (ed.
D'Anc.) "Alcuna donna prima del decimonono anno non può
consacrarsi à questo ministerio, e gli uomini debbono aver passato
il ventesimo primo". Così la forma venne ingentilita, ma cessò di
esser caratteristica, e ciò che è peggio non sempre riuscì a
serbare la precisione. P. es.: (cod. nap.) "Una fiata mangiano
carne, una pesce, et una herbe, e poi tornano alla carne per
circolo"; (ed. D'Anc.) "Dapprima mangiano carni, poi pesci, infine
erbaggi. Ricominciano poscia con le carni," - etc. Ma ciò che
maggiormente interessa è la diversità nella sostanza in più
luoghi. Da una parte le cose relative a filosofia e religione sono
più spinte nella 1a maniera e più attenuate nelle posteriori. P.
es. (cod. nap.) "Son nemici di Aristotile, l'appellano pedante";
(ed. D'Anc.) "Sprezzano l'opinione di Aristotile, che chiamano
logico non filosofo". Ancora: (cod. nap.) "trovai Moisè, Osiri,
Giove Mercurio Macometto et altri assai, et in luoco assai onorato
era Giesù Christo et li 12 Apostoli, che ne tengono gran conto.
Ond'io ammirato come sapeano quelle historie" etc.; (ed. D'Anc.
con molto maggiori distinzioni e qualificazioni) "ho veduto Mosè,
Osiride, Giove, Mercurio, Licurgo, Pompilio, Pitagora,
Zamolxi..... e moltissimi altri. Che più? Hanno dipinto lo stesso
Maometto che però reputano fallace ed inonesto legislatore. Ma
vidi l'immagine di Gesù Cristo essere stata collocata in un posto
eminentissimo, assieme a quelle dei dodici Apostoli da essi
altamente venerati e creduti siccome superiori agli uomini. Sotto
i portici esterni osservai dipinti Cesare, Alessandro, Pirro,
Annibale ed altri sommi la maggior parte cittadini romani.... Ed
avendo con maraviglia chiesto come essi conoscessero le nostre
istorie" etc. Inoltre: (cod. nap.) "tengono per cosa certa
l'immortalità dell'anima et che s'accompagni morendo con spiriti
buoni o rei secondo il merito; ma li luochi delle pene e premii
non l'hanno per tanto certo (sic) ma assai ragionevole, pare che
sia il cielo et i luochi sotterranei. Stanno anche molto curiosi
di sapere se queste pene sono eterne ò nò. Di più son certi che ci
siano angeli buoni e tristi come avviene tra gli huomini; ma quel
che sarà di loro aspettano aviso dal cielo. Stanno in dubbio, se
ci siano altri mondi fuori di questo"; (ed. D'Anc.) "credono
all'immortalità dell'anime, ed alla loro associazione dopo la
sortita del corpo cogli angeli buoni o cattivi secondo le azioni
della presente vita, e questo perché le cose simili amano i loro
simili. Differente della nostra è la loro opinione intorno ai
luoghi delle pene e de' premii. Dubitano se esistano altri mondi
fuori del nostro". Come si vede, la prima composizione era ben
cruda e molto più spinta, e le attenuazioni venute in sèguito non
furono lievi. D'altro lato poi per un fatto risguardante la
persona dell'autore troviamo tutta la riserva possibile nella
prima composizione, e l'abbandono di ogni riserva in sèguito: 1°
(cod. nap.) "dicono che se in 40 hore di tormento un huomo non si
lascia dire quel che si risolve tacere, manco le stelle che
inclinano con modi lontani ponno sforzare" etc.; 2° (ed. D'Anc.),
"dicono che se un sommo filosofo per quaranta ore venne
crudelmente tormentato da' suoi nemici senza mai potergli
strappare di bocca una parola su quanto essi domandavano, perché
nel fondo dell'animo avea determinato di tacere, così nemmeno le
stelle che movonsi in distanza e con lentezza non possono
costringerci" etc. Adunque scrivendo il libro nel 1602 non palesò
la faccenda della sua pazzia simulata, la palesò invece nel 1613,
quando diede il libro tradotto all'Adami; e per verità sarebbe
stata una pazzia vera il farlo prima. V'introdusse poi varie
aggiunzioni mano mano, ed anche, quando preparò l'edizione di
Parigi. Così, mentre nell'esemplare primitivo si trova notata
soltanto l'invenzione del volare (che nel libro de Sensu rerum et
Magia è riconosciuta in un calabrese), in quello latino dato
all'Adami si trova notata anche l'invenzione degli strumenti
oculari per vedere le occulte stelle (riconoscimento delle cose
del Galileo sulle quali egli già cominciava a riflettere), e
degl'istrumenti auricolari per udire le armonie de' cieli (presagi
del telefono ad un'altezza non ancora raggiunta): ma è singolare
che non vi si trovi l'invenzione sua, attribuendola agli abitanti
della città del Sole, del modo di navigare senza vele e senza
remi, ciò che pure avea già promesso con le lettere del 1606-1607
a' Cardinali e al Re di Spagna. Invece essa si trova nella 2a ed
ultima edizione della versione latina, dove è registrata pure la
scoperta del modo di evitare il fato sidereo, attribuita sempre
agli abitanti della città del Sole, da doversi riferire al libro
da lui composto De fato siderali vitando; ed in pari tempo è
registrata la proibizione dell'Astrologia da parte del Papa, ciò
che prima egli non reputava ben fatto e poi si credè in obbligo di
accettare e difendere col suo opuscolo An Bullae Sixti V.i et
Urbani VIII.i contra judiciarios calumniam in aliquo patiantur.
Per le quali ultime circostanze abbiamo detto che la 2a edizione
del libro dovè essere preparata dopo il 1629; giacchè dal Syntagma
sappiamo con certezza che il libro De fato siderali etc. fu
scritto nel S. Ufficio di Roma dopo la liberazione dal lunghissimo
carcere di Napoli, vale a dire tra il 1626 e il 1629. Non è
arrischiato l'ammettere che le modificazioni successive introdotte
dall'autore nel modo di esprimere le sue opinioni circa Gesù, e
circa i premii e le pene e l'eternità di esse, rappresentino pure
e semplici attenuazioni pro bono pacis: e merita di essere
considerata la sua persistenza in altrettali opinioni fino agli
ultimi anni della sua vita, benchè abbia contemporaneamente
abbondato nella composizione di libri di assolute credenze
Cristiane Cattoliche.
(377) Ved. Poesie, ed. D'Ancona, p. 95.
(378) Ved. Doc. 395, pag. 457.
(379) Ved. Doc. 425, pag. 531.
(380) Ved. Doc. 395, alla pag. 464.
(381) Ved. Doc. 131, pag. 75.
(382) Ved. Doc. 193, pag. 97.
(383) Ved. Doc. 234 e 236, pag. 122 e 124.
(384) Ved. Doc. 426, pag. 531-32.
(385) Questo documento è rappresentato da un foglietto di
pergamena, su cui a grossi caratteri si trovano segnati i nomi di
tutti coloro le cui cause doveano spedirsi, frati ed anche
secolari; ed è notevole che solamente a lato del nome di fra
Dionisio si legge "aufugit", mentre a lato del nome del Bitonto
non si legge nulla di simile. Tale foglietto stava insieme con le
bozze e copie de' Riassunti degl'indizii presso il Vescovo di
Caserta, e lo si dovè scrivere subito dopo la notizia della fuga
di fra Dionisio, contemporaneamente all'ordine di cui si parla nel
testo, forse nel determinarsi a rompere ogni altro indugio, fare
le copie de' Riassunti ed inviarle sollecitamente a Roma; sicchè
fino ad un certo punto esso confermerebbe il ritardo avvenuto
nell'invio delle copie de' Riassunti oltre il 16 ottobre, e la non
avvenuta copia del Riassunto contro fra Dionisio.
(386) Ved. Doc. 134, pag. 75.
(387) Giustifichiamo le proposizioni emesse nel testo. 1.° "Se
l'heretico pendente la sua causa diverra pazzo o furioso...
bisognerà tenerlo ben custodito né condannarlo fino à tanto che
egli ò risani ò muoia nel furore: perché risanandosi potria per
avventura rihaversi, e convertito, ritornare al grembo di S.ta
Chiesa"; Masini, Sacro Arsenale, Roma 1639, pag. 381. art. 99. -
2.° "Il rilasso legitimamente convinto dee, ò confessando, ò nò,
rilasciarsi al braccio secolare"; Id. pag. 331. art. 93. -
"Quantumcumque poeniteat, nihilominus relapsus est tradendus
Curiae saeculari, ultimo supplicio feriendus"; Eymerici
Directorium Inquisitorum, Romae 1578. p. 331. - 3.° e 4.° "... à
gli heretici pentiti, oltre alla publica abiuratione s'impone anco
la pena di carcere perpetuo, perché altrimenti, non potendo i
Sacri Canoni con pena di morte castigar alcuno, non ci sarebbe
pena alla gravità del delitto confacevole"; Masini, pag. 325. art.
76. - "Carcer perpetuus est poena haeretici reversi"; Locatus,
Opus Judiciale Inquisitorum, Romae 1570. pag. 269. - Prescrizione
del Concilio Tolosano: "Haeretici autem qui timore mortis vel alia
quacumque causa, dummodo non sponte redierint ad catholicam
unitatem, ad agendam poenitentiam per Episcopum loci in muro cum
tali includantur cautela, quod facultatem non habeant alios
corrumpendi"; Pegna, Scholia in Eymerici Directorio, Schol. LXV.
lib. 3. pag. 185. - Rescritto di Urbano IV: "Clericus, qui est
perpetuo immurandus, prius debet a suis ordinibus degradari"; Id.
ibid. - "Cum illis qui vel in perpetuum carcerem vel in perpetuum
ad triremes condemnantur dispensari soleat, ideo non solent
condemnandi ad has poenas actualiter degradari sed solum
verbaliter"; Id. ibid. - 5.° "Poena perpetui carceris post lapsum
triennii remitti solet"; Simancae Jacob. Enchiridion Judicum
violatae religionis, Venet. 1578. - "Quaesitum scio, post quantum
tempus solent in carcere perpetuo dispensari..; post lapsum
triennii remitti solere scripsit Simancas. Quod si poena carceris
irremissibilis fuerit imposita, elapso octavo anno solet
relaxari"; Pegna, op. cit. p. 224. - Aggiungiamo a chiarimento
dell'immurazione: "Eadem prorsus poena immurationis et carceris
perpetui"; Pegna, op. cit. Schol. LXV. lib. 3. pag. 184. - "In
aliquibus partibus.... Inquisitores habent in suis domibus
carceres, quos vocant muros, quia domunculae illae adhaerent muro
loci, qui est Episcopo et Inquisitori communis"; Locatus, op. cit.
p. 39.
(388) Ved. Doc. 137, pag. 77.
(389) Ved. Doc. 427, pag. 532.
(390) Ved. la nostra Copia ms. de' proces. eccles. tom. 2°, fol.
124.
(391) Ved. Doc. 428 e 429, pag. 533 e 535.
(392) Ved. Doc. 430, pag. 537.
(393) Ved. Doc. 431, pag. 540.
(394) Ved. Doc. 432, pag. 543.
(395) Ved. Doc. 433, pag. 544.
(396) Ved. Doc. 434, pag. 546.
(397) Ved. Doc. 420, pag. 326.
(398) Ved. la così detta Collectio Salernitana, vol. 171. fasc.
1.° fol.° 166 t.°: "Ego Scipio Marullus Stilensis" etc.
(399) Ved. Doc. 219, 220 e 221, pag. 116 e 117. Vi sarebbe anche
un altro Documento, per brevità omesso, una lettera Vicereale che
prescrive l'invio della persona stessa del Baldaia nelle carceri
della Vicaria in Napoli, sempre per l'omicidio suddetto, senza
alcun ricordo de' fatti della congiura. Ved. Reg. Curiae, vol. 55,
an. 1603-1604, fol. 163 t.°.
(400) Ved. Doc. 222 e 223, pag. 117.
(401) Ved. Doc. 224, pag. 118.
(402) Ved. Doc. 225 e 226, pag. 118 e 119.
(403) Intorno a' Grassi sarà bene conoscere ancora i documenti di
data anteriore che abbiamo trovati nel Grande Archivio: 1.°
Registri Curiae vol. 46, an. 1599-1601, fol. 40, t.°
"All'Audientia di Calabria ultra... Semo informati come Paulo,
Pompeo et Scipione Grassi del Casale de Gionadi destritto di
Melito hanno commesso molti delitti, per il che fu mandato
Commissario dal nostro predecessore, et se le verificorno molti
homicidii et furno reputati contumaci per la Vicaria, et dall'hora
in poi sempre hanno (sic) armati in cometiva di dodici et più
banniti commettendo delitti, et particolarmente li dì passati
intorno in lo casale de S.to Constantino et scassorno la casa de
una vidua nomine Gratia, et pigliatole due sue figlie l'una zita,
et l'altra vidua, et, violentemente conosciutole et stupratole, al
che volendo noi provedere come conviene..." (segue l'ordine di
catturarli, prendere l'informazione sul fatto e darne avviso) 27
giugno 1600. - 2.° Id. vol. 55, an. 1603-1604, fol. 195. "All'Aud.
di Calabria ultra... Con questa v'inviamo l'alligate copie
d'informationi contro Paulo Pompeo et Scipione grasso sopra il
particolare della causa delle scoppettate tirate a francesco
aquaro et sua cometiva, et vi dicimo et ordinamo che nella causa
predetta debbiate procedere à quanto sarà de justitia che tal'è
nostra voluntà. Dat. neap. die x° 7bris 1604". - Al 1606 parrebbe
che Pompeo fosse stato già ucciso.==Relativamente a' Baroni di
Reggio, essi erano parecchi e si distinguevano da' Baroni di
Tropea e da' Baroni di Annoya, egualmente fuorusciti ed anche più
numerosi; intorno a loro abbiamo i seguenti documenti,
contemporanei e successivi alla data de' processi: 1.° Reg. Curiae
vol. 46, an. 1599-1601, fol. 30. "All'Aud. di Calabria ultra...
Dal Capitaneo della città de riggio ci viene scritto che havendo
havuto notitia, che alcune persone di quella si erano disfidati et
che la città stava in... (sic) andò in persequtione di quelli et
carcerò li capi de le due partite che si erano disfidati nomine
francesco pesello et domitio barone, per la quale carceratione se
quietò il rumore, et forno excarcerati, dopoi li sopraditti
francesco et domitio giontamente con innocentio candeloro della
medesima città, per causa che il caporale di detta Corte li havea
carcerati, in presentia di detto Capitaneo assaltorno detto
caporale et con scoppette et spade l'ammaczorno, et fattesi per
esso alcune diligentie non ha possuto averli nelle mani stando in
paliczi.." (segue il fatto di un altro caporale ammazzato per la
stessa ragione, avendo carcerato Paolo Melissari "contumace et uno
delli predetti che si disfidorno", e quindi l'ordine di catturare
i delinquenti). Ultimo di 10bre 1599. - 2.° Id. vol. 54, an. 1603,
fol. 15. "A D. Garzía de Toledo (governatore di Calabria ultra)...
Per la vostra delli 7 del presente havemo visto quel' che vi
veneva havisato da riggio, che Paulo et Gio. Domenico barone
fratelli haveano ammazzato Pietro Gueria per causa di una lite
civile che tenevano fra loro, quali si sono andati à salvare
dentro una Ecclesia di detta città, et havendoli posto le guardie
attorno, il Rev.do in Christo P.e Arcivescovo non li ha voluto
permettere se non per quaranta passi attorno detta Ecclesia dentro
la quale si stanno detti delinquenti senza nessuno timore,
supplicandoci ve si ordinasse quel' che doverete exequire. Al' che
respondendo ve dicimo et ordinamo, che si l'homicidio predetto è
stato commesso appensatamente, poi che non deve godere
dell'immunità dell'Ecclesia debbiati procurare d'haverli nelle
mani in ogni meglior modo avvisandoci di quel' che exequireti
acciò ne si possi ordinare quel' che convenerà per castigo di
detti delinquenti. Dat. neapoli die ultima mens. februar.
1603."==Da ultimo relativamente a Carlo Bravo, costui scorreva la
campagna già prima del 1599 con un suo fratello Fabrizio, e poi,
rimasto solo, fu preso nel 1603, ma per delitti comuni, secondochè
risulta dai seguenti documenti: 1.° Reg. Curiae vol. 45, an.
1596-1601, fol. 47 t.° "Commissione in persona del magnif.° u. j.
d. Julio Cesare malatesta quale si conferisce nella terra di
filogasi a pigliare informatione... A noi è stato presentato
memoriale del tenor sequente videlicet: Ill.mo et excell.mo Sig.re
la povera gratia teti d'anni undici della terra de filogasi della
prov. di Calabria ultra fa intendere a V. E. come li mesi passati
da fabritio et carlo bravi et ferrante pisano di monte santo fu
proditoriamente ammazzato Vincenzo teti patre d'essa supplicante
ad instantia di Minico di tini della terra di filogasi per antiquo
odio che detto Minico portava ad esso Vincenzo suo patre mediante
una certa quantità di denari data a' detti tre assassini, quali
fatto detto assassinio perché poco distante veddero una certa
donna nominata antonia quale haveria possuto vedere commettere
detto assassinio l'ammazzorno, et dubitando detto minico di tini
mandante che tale sceleragine non si scopresse fè dare subito
tutore dal Capitaneo d'essa terra, come potente in quella et
essendo persona facultosa, ad essa supplicante Masiello di nofrio
con il quale proprio haveva trattato di farsi fare subito la
remissione per potersi transigere con la corte baronale..." (segue
la Commissione ad istanza del R.° fisco e con la proeminenza della
Vicaria). Ult.° di ottobre 1597. - 2.° Id. vol. 55, an. 1603-1604,
fol. 80. "Al Marchese de layno... Per la vostra delli 15 del
passato havemo inteso come havete incominciato a procedere nella
causa contra Carlo bravo conforme l'ordine nostro non obstante la
remessione che dimandava il Prencipe de melito et Duca di Nocera,
et como che tal remessione l'ha dimandata quessa città di
Catanzaro, et per non farsene mentione nel predetto nostro ordine
ci supplicate di posser procedervi non obstante detta remessione
si dimanda per questa città con lo de piu che in cio andate
significando. Alla quale respondendo ve dicimo che cossì si
intende lo predetto nostro precalendato ordine ancorche non ci sia
particulare expressione..." (segue la raccomandazione che si
spedisca con sollecitudine, vedendo che "in questo negotio se ci
procede con molta flemma") 19 decembr. 1603. - 3.° Id. ibid. fol.
175. "All'Audientia di Calabria ultra... Havemo visto la relacione
che di ordine nostro ci havete fatta delli delitti che si ritrova
inquisito Carlo bravo, per lo che considerato la gravità et
moltiplicità delli delitti che hà commessi ve rispondemo et
ordinamo che ci debbiate procedere all'espedicione della sua causa
conforme à giustitia senza perdere un momento di tempo, et prima
de publicare la sententia ci debbiate donare particolare aviso del
voto che seranno quessi magn.ci Auditori in tal causa et cossì
l'essequirete che tale è nostra voluntà. Dat. neap. die 28 mens.
julii 1604". - 4.° Id. vol. 64, an. 1605-1608, fol. 21. "All'Aud.
di Calabria ultra... Per una nostra de li 18 del passato havemo
visto per che voto è quessa Reg.a Audientia di condennare à Carlo
bravo carcerato in quesse carceri per l'inquisitione di suoi
delitti, mà non haveti voluto publicare la sententia per
exequtione del ordine che da noi teneti, et ci supplicati siamo
serviti darvi ordine di quel tanto in ciò haveti da exequire, alla
quale rispondendo vi dicimo et ordinamo che nella causa di detto
Carlo bravo debbiate procedere à quanto vi parirà che convenga de
justitia che tale è nostra voluntà. Dat. neap. die ult.a mensis
martii 1605".
(404) 1.° Reg.i Curiae vol. 64, an. 1605-1608, fol. 138. "All'Aud.
di Calabria ultra... Dal Capitanio della Baronia di precacore et
S.ta Agata di quessa provintia di Calabria ultra ci è stato
scritto come alli 14 de luglio prossimo passato ritrovandosi in
compagnia de Alexandro tranfo Barone di detta Baronia venne
passando per avante di esso Barone Aquilio marrapodi suo vassallo
armato di scoppetta a focile delle lunghe, et essendo passato con
arroganza senza levarsi la barretta, et in contento dela Corte
mentre era contumace per cause criminale, detto Barone havendoli
detto per che causa passava cossi mal creatamente ordinò fosse
carcerato, et detto Aquilio con la detta scoppetta che portava
calò il cane drizzò la bocca di essa verso detto Barone dicendo
adietro non passati avanti che vi ammazzo fando resistenza non
lasciandosi pigliar carcerato, per lo che ni ha preso informatione
et l'ha inviata a noi per che si proveda a lo che conviene.."
(segue l'ordine che procuri aver nelle mani il detto Aquilio e lo
mandi in Vicaria) Dat. Neap. 27 septembr. 1606. - Inoltre a fol.
178 t.° trovasi pure una lettera sullo stesso tema al Cap. di
Precacore. - 2.° Id. Ibid. fol. 142. "Al Gov.re di Calabria ultra
che faccia relatione di quanto per la vedova portia sotira della
terra di precacore è stato scritto intorno all'eccessi et
homicidii commessi per Gio. Angelo Marrapodi et Aquilio suo figlio
in persona de molte persone di d.ta terra et precise del suo
marito à finem providendi". Lett. dell'ult.° di ottobre 1606.
(405) 1.° Reg.i Curiae vol. 64, an. 1605-1608, fol. 60. "A D.
luise de moncada gov.e di Calabria ultra... A nostra notitia è
pervenuto come francesco strivieri, Gioseppe Serra, Gio. thomase
di franza, Gioseppe di Paula et aurelio biase di quessa città di
Catanzaro non lassano ogni dì fare assassinii, robare chiese,
svergognare monasterii de donne monache, stuprare vergine, uccider
hor questo et hor quel altro, tagliar facci ad homini et donne
honorate, mantener latri et far altri delitti, et che nel mese di
8bre prox.° pass.° non contenti delle cose predette habbiano
svergognato a una casa nobile di quessa città in haver
appostatamente struppiato un povero homo delli più honorati di
quessa città in havendoli tagliato il naso, cavato un occhio et
tagliatoli le labra et datoli una ferita in testa, delitti
veramente molto imperiosi..." (segue l'ordine che coll'intervento
dell'Aud.re Barbuto s'informi) 18 9bre 1605. - 2.° Ibid. fol. 71.
"A D. luise de moncada... Dall'Auditor fabritio auletta, et
Marc'Antonio rossino advocato fiscale di questa reg.a Audientia,
et anco dal Capitaneo di quessa città di Catanzaro semo stati
avisati como essendono stati occisi Gio. francesco, et vitaliano
bonelli patre et figlio da Geronimo et Gio. Paulo di Cordua di
d.ta città di Catanzaro, che nel pigliare dett'informatione sia
stato maltrattato il detto Capitaneo dalli Commissionati et
soldati di quessa Regia Audientia.." (segue l'ordine che prenda
subito informazione) 15 10bre 1605. - 3.° Ibid. fol. 81 t.°
"Risposta à don loise di moncada per conto delli forasciti di
Catanzaro... Havemo recevuta la vostra relatione de nostro ordine
fattaci intorno li delitti se pretendono essere stati commessi per
francesco strivieri, Gioseppe Serra, Gio. thomase di franza,
gioseppe di paula et aurelio biasi di quessa città di catanzaro,
et come per voi sono stati inviati in certi lochi destinati, et de
poi usate tutte le deligentie possibile per scoprir li detti
delitti non haveti possuto in sin adesso havere tracza alcuna de
essi, solo havete inquisito à Gio. thomaso del stroppio fatto in
facci de gio. domenico marcello per la causa contenta in detta
relatione, et como non l'haveti possuto havere alle mani,
narrandoci come li predetti insieme a gio. paulo di cordova
ammazzorno gio. francesco et vitaliano bonelli padre e figlio et
anco insultorno al dottor fabio Conte..." (lo loda e ordina che
continui) 30 gen.° 1606. - Questo per la sola città di Catanzaro,
dove è manifesto che il Franza, il Cordova e lo Striveri con gli
altri, aveano intimidato tutti; e senza uscire dallo stesso sud.to
vol. Curiae si può vedere cosa accadeva a Stilo, dove (fol. 59)
trovandosi il Capitano in Guardavalle, "alla casa del giudice di
Stilo absente fu fatta petriata due notte" etc. etc.
(406) Ved. Doc. 228, pag. 120.
(407) Ved. Doc. 263, pag. 175.
(408) Ved. Doc. 132, pag. 75.
(409) Ved. Doc. 133, pag. 75.
(410) Ved. Doc. 135 e 136, pag. 76 e 77.
(411) Let. del 6 aprile 1601; ved. Doc. 119, pag. 71.
(412) Ved. Doc. 266, pag. 183.
(413) Ved. Registri Privilegiorum vol. 124, an. 1602, fol. 114. Il
Privilegio per D. Pietro in data "Vallis Oleti 16 xbris 1602" ebbe
l'esecutoria in Napoli il 18 marzo 1603.
(414) Ved. il ms. della Biblioteca Nazionale di Napoli (X, c. 20),
intitolato "Desgratiato fine di alcune case napolitane", fol. 62.
Pur troppo si rinvengono in questo codice registrate molte nostre
conoscenze, il Principe di Conca, D. Ottavio Orsini Conte di
Pacentro, Fabrizio di Sangro Duca di Vietri, Marc'Antonio
d'Aponte, Gio. Battista De Leonardis. Non la finiremmo più a voler
dare anche un piccolo cenno delle miserie patite da tutti costoro.
(415) Ved. Registri Privilegiorum vol. 137, an. 1607-1608, fol.
80, ove trovasi il Regio assenso alla convenzione tra D.a Livia e
D. Scipione Sanseverino Duca di S. Donato, pel pagamento di D.ti
15mila assegnati in dote con molti patti e clausule dalla madre e
balia D.a Lucrezia Carafa Marchesa di Corleto già moglie di D.
Ippolito Sanseverino, ed è citato "l'albarano" tra la Marchesa e
D. Pietro nella data suddetta. - Ved. inoltre il Carteggio del
Residente Veneto anno 1603, Dispaccio del 29 aprile.
(416) Ved. Doc. 138, pag. 177.
(417) Ved. Doc. 139 a 142, pag. 77 e 78; inoltre Doc. 144, pag.
79.
(418) Ved. Doc. 200, pag. 99.
(419) Ved. Doc. 201, pag. 100.
(420) Ved. Doc. 237, pag. 124. Si noti che il 12 di luglio avvenne
la partenza dell'armata: il 27 già poteva il Governo Vicereale
averlo conosciuto, poichè soleva contemporaneamente partire un
legno sottile con una spia, che in quindici giorni toccava le
coste del Regno e trasmetteva le notizie a Napoli.
(421) Tutti questi fatti, e così pure i seguenti, sono stati
raccolti nell'Archivio Veneto e nel Toscano, da' Carteggi de'
Baili da Costantinopoli, del Residente di Venezia e dell'Agente di
Toscana da Napoli. I Baili al ritorno del Cicala, sempre che
potevano, facevano procedere all'interrogatorio con giuramento di
qualche schiavo o di qualche altro individuo loro confidente che
avea preso parte alla spedizione, e mandavano il processo verbale
a Venezia; tanta era l'importanza che Venezia annetteva all'avere
notizie precise di ciò che avveniva sul mare. Il Parrino fa
succedere la spedizione ben riuscita di D. Garzia allo sbarco di
Amurat, ma è attestato invece il contrario tanto dal Residente di
Venezia quanto dall'Agente di Toscana. Vedi pe' Dispacci Veneti i
volumi degli anni suddetti, e per quelli di Toscana le filze
Medicee 4087 e 4088, dispacci del 22 e del 29 agosto 1600.
(422) Ved. Doc. 143, pag. 78.
(423) Ved. Doc. 145, pag. 79.
(424) Nell'originale "interpetrava". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
(425) Ved. Doc. 147, pag. 79.
(426) Ved. Doc. 148 a 152, pag. 80 e 81.
(427) Ved. Doc. 153, pag. 81.
(428) Ved. Doc. 154, pag. 81.
(429) Ved. Registri Sigillorum vol. 39, data suddetta.
(430) Il Campanella medesimo diè modo di farlo rilevare, quando
più tardi, in agosto 1600, vistosi abbandonato con la causa
indecisa, scrisse a Papa Paolo V: "hora informano monsignor Nuntio
come essi vogliono... e diran ch'è finita la causa, che mi
condanni senza ascoltarmi". Ved. Centofanti, Arch. storico
italiano 1866, pag. 24.
(431) Nell'originale "occcasione". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
(432) Riproduciamo qui un brano di documento, che abbiamo raccolto
nell'Arch. di Spagna in Simancas e che concerne il fatto di questa
carcerazione: è una relazione di D. Pietro de Vera, annessa in
copia a un dispaccio di D. Francesco de Castro al Re, in data del
2 marzo 1603. "Quel che resulta de l'informatione presa contra
Giovanni Conte di Nassau Todesco, è, che essendo gionto in Napoli
esso Conte Giovanni l'ultimo sabato di Carnevale prossimo passato,
in compagnia di D. Giovan Ottavio Gonsagha, e di Cristofaro Pflug
di Sassonia, Geronimo Tucher di Germania, Uberto alias Roberto
Caroni de la città di Bozoli trà Mantua et Cremona et Giovanni
Winckes Alemano creato d'esso Conte Giovanni, et andando
incognito, si fe diligentia d'haverlo nelle mani, et mentre D.
Giovan Ottavio Gonsagha giovedì passato 20 del mese presente di
febbraro mandò in Palazzo per haver licentia esso con tre altri
d'andar con cavalli di posta à Roma, si mandò a pigliar tanto esso
quanto tutti quelli di sua compagnia, che foro esso D. Giovan
Ottavio, Cristofaro Pflug, Geronimo Tucher, e Uberto alias Roberto
Caroni, et non si trovò detto Conte Giovanni di Nassau, perché lo
detto giovedì mattino, per tempo, esso Conte Giovanni insieme con
detto Giovanni Winckes suo creato s'erano partiti à cavallo senza
la compagnia di detto D. Giovan Ottavio, et altri sopradetti, e V.
E. li mandò appresso gente per haverlo, e D. Antonio Sanchez de
luna che andò fra gli altri lo trovò vicino Sessa et lo condusse
in Napoli col detto suo creato... etc. etc. D. Pedro de Vera i
Aragon" (Ved. Arch. sud.to Scritture Estado, legazo 1099).
(433) Questi particolari risultano da' Carteggi dell'Agente
Toscano e del Residente Veneto, e in parte dalla relazione del De
Vera mandata in Ispagna, dalla quale veramente si hanno i nomi di
tutti i prigionieri, che ne' Carteggi non sono punto registrati.
Ved. nell'Arch. di Firenze, Scritture Medicee filz. 4090, Lett.
del Turaminis del 25 feb. 1603; nell'Arch. di Venezia,
Senato-Secreta Napoli, Lett. di Anton M.a Vincenti del 25 feb.
1602 (more veneto) e degli 11 marzo e 15 aprile 1603.
(434) Malgrado le più vive ricerche non abbiamo potuto vedere
alcuna delle varie edizioni dell'opera del Custos e Kilian
intitolata "Fuggerorum et Fuggerarum... quot extant aere expressae
imagines, Augbsb. 1593, 1618, 1630" etc., ma abbiamo trovata
ultimamente in Roma, nella Corsiniana, l'altra opera del medesimo
Custos intitolata "Atrium heroicum etc. August. Vindelic. 1602",
in cui si hanno non meno di 12 Fuggers, tra' quali Giorgio, che
nel corso della narrazione incontreremo protettore accanito del
Campanella, e Cristoforo figlio di Giovanni, che dovrebb'essere il
Cristoforo di cui qui si parla. Ma il suo ritratto, alla data del
1592, lo mostra già adulto, di bella e distinta figura, non
giovanotto, qualificato illustre e generoso Barone; evidentemente
egli è il Cristoforo della branca di Kirkeim, padre di Ottone
Enrico già nato al tempo di cui trattiamo, e non può avere nulla
di comune con Cristoforo Pflugh.
(435) Ved. Il Codice delle Lettere etc. pag. 63.
(436) Ved. Doc. 518, pag. 585. Il Bierio citato dal Gagliardo è
senza dubbio Gio. Wierio, dotto e benemerito medico Belga, che
trattò ampiamente delle cose demoniache. Nella ristampa delle sue
"Opera omnia Amstel. 1660 t. 2" si ha il trattato intitolato
veramente "Pseudo monarchia Daemonum" con gli altri "De origine et
lapsu Daemonum, De Praestigiis daemonum et De Lamiis"; il trattato
"De Menomachia (o meglio Monomachia, duello) daemonum" ci
apparisce una svista del Gagliardo.
(437) Ved. Doc. cit. pag. 589.
(438) Sarà bene ad ogni modo rammentare le parole testuali che si
leggono nella Città del Sole, riferibili alle deposizioni fatte
dal Gagliardo. "Studiarono (i solari) aver propizie le quattro
costellazioni di ciascuno de' quattro angoli del mondo (ediz.
d'Ancona pag. 267). Al mattino... rivolgendosi verso oriente
recitano breve orazione (ibid.). Ogni volta che fanno orazione si
rivolgono a' quattro angoli del mondo; al mattino guardano prima
all'oriente, poi all'occidente, indi al mezzodì (274). Onorano,
non adorano il sole, le stelle, siccome cose viventi, statue e
tempii di Dio ed altari animati del cielo... Nel sole contemplano
l'immagine di Dio e lo nominano eccelso volto dell'Onnipotente,
statua viva, fonte d'ogni luce e calore, vita e felicità d'ogni
cosa...; in lui i sacerdoti adorano Dio, e raffigurano nel cielo
un tempio, nelle stelle altari, ed anche case viventi di angeli
buoni nostri intercessori appresso Dio (275). Adorano Dio nella
trinità e ciò fa meraviglia, ma dicono che Dio è somma Potenza
dalla quale procede la somma Sapienza che è pure Dio, e da ambedue
poi l'Amore, che è Potenza e Sapienza...; non hanno però distinte
nozioni delle tre nominate persone come i Cristiani, non avendo
essi avuto rivelazione" (277). - Rammenteremo inoltre ciò che si
legge nelle Poesie, a proposito dell'orazione a Dio nella "Canzone
3a in Salmodia metafisicale":
"Poi ti prego, ti supplico e scongiuro
per l'influenze magne
necessità, fato, armonia, che 'l regno
dell'universo mantengon sicuro
. . . . . . . . . . . . . . . ,
pe 'l tempo, e per le statue tue viventi
stelle, uomini ed armenti"; etc.;
e a proposito dell'orazione al Sole nell'"Elegia al Sole"
"Tempio vivo sei, statua, e venerabile volto
del verace Dio, pompa e suprema face.
Padre di Natura, e de gli astri rege beato
vita, anima e senso d'ogni seconda cosa" etc. etc.,
aggiuntovi in nota che "il Sole è insegna della semblea d'esso
autore". Circa la preghiera alle stelle e agli angelici spiriti in
esse abitanti, se ne trova un saggio perfino nella "Canzone di
pentimento":
"Aria, tu vivo ciel, voi sacre stelle,
e voi spirti vaganti dentro a loro
ch'hor m'ascoltate ed io non veggio voi,
mirate al mio martoro,
di voi sicuri pregate per noi".
(439) Ved. Informazione contro fra Pietro di Calabria Domenicano
carcerato in Castel nuovo, depos. suddetta, nella nostra Copia ms.
de' proces. eccles. tom. 2.° fol. 273-1/2.
(440) Ved. la nostra Cop. ms. tom. 2°, fol. 125-1/2.
(441) Aggiungiamo che la data del luglio o agosto 1603, come
quella dell'entrata in una fossa venne sempre mantenuta dal
Campanella anche in altre lettere, come p. es. in quella
opuscolare sulla peste di Colonia e quella a Mons.r Querengo, da
noi pubblicate, dove in data 24 giugno e 8 luglio 1607, afferma
trovarsi nella fossa già da 4 anni (ved. Il Codice delle lettere
etc. pag. 54 e 60). Ma in altre lettere e p. es. in quella al Papa
da noi pubblicata, nell'altra latina al Papa ed a' Cardinali, e
nelle altre al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di
Austria pubblicate dal Centofanti, tutte sicuramente del 1607,
egli dicesi da 8 anni nella fossa, vale a dire fin dal momento in
cui venne tradotto a Napoli, ciò che riesce assolutamente
inesatto: laonde bisogna ammettere che egli abbia parlato di
fossa, ogni qual volta intese dire di essere stato posto in
carceri dure.
(442) Ved Doc. 155, pag. 81.
(443) Ved. Doc. 194, pag. 98.
(444) Ved. Doc. 518, pag. 583.
(445) Ved. Berti, Nuovi documenti su Tommaso Campanella, Roma 9bre
1881, pag. 22.
(446) Il Carteggio de' Residenti Pietro Bartoli ed Agostino Dolce,
non solo col Serenis.mo Principe ma anche con gl'Ill.mi et Ecc.mi
Sig.ri Capi del Consiglio de' Dieci, offre spesso notizie di
questo genere e talvolta assai curiose: notiamo tra le altre
quelle di certe palle di foco per incendiare l'arsenale di
Costantinopoli, od anche di certe macchine per dar morte al Gran
Signore, costituite da scatole dorate con sapone muschiato, che
nascondevano archibugetti forniti di micce la cui preparazione
veniva accuratamente descritta. Il Vicerè, per una scala segreta,
andò nel Castello a vedere queste sottili invenzioni di Pietro
Lanza, e parimente si occupò sempre con molta cura de' disegni dei
Greci, accogliendoli con favore (ved. i Carteggi sud.ti e
segnatamente quello co' Capi del Consiglio dei Dieci, Busta n.°
19, fasc. 2.° an. 1608).
(447) Ved. Doc. 156, pag. 82.
(448) Ved. Doc. 157, pag. 82.
(449) Ved. Doc. 158, pag. 83.
(450) Ved. Doc. 267, pag. 186.
(451) Ved. Doc. 241, pag. 127.
(452) Il Toppi (De Origine omnium Tribunalium vol. 2.° p. 425 e
seg.) fa figurare D. Giovanni Ruiz nel Sacro Regio Consiglio
dall'anno 1604-1605 fino al 1610: ma ne' Registri Sigillorum, vol.
39, an. 1602, si legge in data del 19 giugno l'esecutoria del
Privilegio che assegna al Ruiz "la piazza de Consigliero che vaca
per morte de Ximenes". La cronologia del Toppi avrebbe potuto far
pensare che il Ruiz fosse stato nominato pe' bisogni del processo
del Campanella.
(453) Vedi Nicodemo, Addizioni copiose alla Biblioteca Napoletana
del Toppi, Nap. 1683, e Cyprianus, Vita Th. Campanellae, Traiecti
ad Rhenum 1741, pag. 69. Il memoriale nella raccolta
Magliabechiana trovavasi intitolato "Epistola sociorum et parentum
Fr. Thom. Campan.la J. Aldobrandino Nuntio Neapolitano" (nel
Nicodemo leggesi malamente stampato "S. Aldobrandino" ma nel
Cipriano leggesi esattamente). Riscontrando il Codice
Magliabechiano menzionato anche altre volte (Campanellae et
aliorum Op. varia Class. VIII, 6) alla fine del fol. 509, sotto
l'ultimo verso si trova la parola "Epistola" per richiamo al
principio del fol. seguente; ma, come si rileva appunto dalla
numerazione e dalle tracce de' guasti avvenuti, furono quivi
strappate ed involate molte carte, nelle quali, secondo la nota
del Magliabechi pubblicata dal Nicodemo e dal Cipriano, erano
compresi anche i "Concetti metodici o ammaestramenti politici di
Fr. Tom. Campanella". Noi abbiamo potuto verificare che il furto
avvenne in tempo molto rimoto; perché sapendo esservi in quella
Biblioteca il Catalogo a classi compilato dal medico Giovanni
Targioni-Tozzetti fin dalla metà del secolo passato, ci siamo data
la pena di consultarlo, e non vi abbiamo rinvenuta alcuna menzione
né dell'Epistola né de' Concetti metodici. Avendo poi conosciuto
che il D'Ancona avea trovato questi Concetti metodici in un
Miscellaneo dell'Archivio Mediceo (Filza VIII, 6) siamo corsi a
farne richiesta, nella speranza di trovare con essi anche
l'"Epistola": ma la speranza è riuscita vana, perocchè la detta
Filza è stata scomposta, e i Concetti metodici si trovano
staccati, senza alcuna traccia dell'"Epistola". Abbiamo potuto
intanto verificare che la numerazione delle carte nelle quali si
contengono questi Concetti metodici va dal fol. 519 al 537, e
tornando al Codice Magliabechiano abbiamo trovato che dopo il fol.
509 si ha un fol. 517 che è tutto bianco, quindi il fol. 538 che
reca i "Discorsi a' Principi d'Italia" etc. Adunque l'"Epistola",
cominciando dal fol. 510, andava con ogni probabilità fino al 516
ed occupava 7 folii, circostanza da doverne far deplorare la
perdita tanto maggiormente.
(454) Ved. la nostra Copia ms. de' proc. eccl. tom. 2.°, fol. 255
a 265. In questa Informazione, presa per conto del Nunzio, il
Vicario generale Abate Achille Cittadino attesta che fra Pietro
aveva un grande partito favorevole in Nicastro, e un testimone,
incidentalmente, afferma che egli è fratello di fra Dionisio, il
quale, fuggito in Turchia e rinnegato, dicevasi già morto in quel
tempo. Il Capaccio (nel Forastiero, Nap. 1634 pag. 503) dice che
fra Dionisio pagò la pena del suo peccato, perché "un giorno
quistionando con un Giannizzero fu ucciso". Ma bisogna accogliere
con riserva altrettali dicerie, non raramente sorte pel desiderio
di mostrare la punizione del peccato. - Degli altri frati non
abbiamo notizia. Aggiungiamo solamente, circa fra Pietro di Stilo,
qualche fatto singolare che risulta da un'Informazione presa
contro di lui dal S.to Officio in data dell'11 luglio 1605 (ved.
la cop. sud.ta tom. 2.° fol. 269 a 280). Un Lelio Macro di
Pietrafitta, studente di legge condannato a morte, nelle sue
ultime deposizioni prescrittele dal confessore affermò di essere
stato in novembre 1604 per 22 giorni nel torrione del Castel
nuovo, avervi conosciuto un fra Pietro Domenicano, aver saputo da
lui che il Campanella era stato tradotto a S. Elmo e che col tempo
sarebbe riuscito legislatore, aggiungendo che bisognava adorare il
sole, la luna, le stelle, donde si aveva bene e male,
suggerendogli anche le formole delle orazioni, e poi le solite
storie sulla Trinità, sulla persona di Cristo, su Maria, su'
luoghi di premio e di pena, su' sacramenti etc. Il Macro nominò
pure altri individui che avrebbero dovuto conoscere fra Pietro e
le sue opinioni, tra essi Ciommo dell'Erario e i due Baldini di
Stilo (ad uno de' quali fra Pietro disse aver commesso di far
ricopiare le difese del Campanella): nessuno de' nominati attestò
cosa alcuna contro fra Pietro, e veramente, per quanto sappiamo
almeno della sua avvedutezza, la cosa riesce incredibile; tuttavia
come potrebbero spiegarsi le tante particolarità esposte da Lelio
Macro, che hanno tanti riscontri? Si sarebbero forse alquanto
diffuse tra' carcerati di quel tempo le notizie del processo
dell'eresia e le orazioni a' pianeti?
(455) Queste ultime particolarità si leggono nella lettera a
Mons.r Querengo da noi pubblicata (ved. Il Codice delle lettere
etc. pag. 60); di tutte le altre riboccano le poesie e i libri,
non che le altre lettere del tempo, segnatamente quelle pubblicate
dal Centofanti.
(456) Così si espresse nella lettera al Re pubblicata dal
Centofanti (pag. 91). Il ritorno di D. Garzia al comando in S.
Elmo accadde nel luglio 1603; ved. Reg. Curiae vol. 55, an.
1603-1604 fol. 16, dove si legge la Commissione data al successore
Marchese di Laino (D. Carlo de Cardines) Governatore di Calabria
ultra "all'estirpatione de forasciti et annettare (sic) la detta
provintia de quelli". La Commissione di sopraintendere alla
fabbrica in Porto Longone fu data nell'aprile 1605; ved. Carteggio
Veneto Napoli 1605, Resid. Pietro Bartoli, lett. del 26 aprile e
seg.ti che rivelano anche i modi affatto selvaggi adoperati per
procurare i lavoratori.
(457) Ved. vol. 1° pag. 91.
(458) Ved. le Poesie, ed. D'Ancona, pag. 105.
(459) Ibid. pag. 106-108.
(460) Ibid. pag. 138.
(461) Ibid. pag. 110 e 124.
(462) Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 42.
(463) Abbiamo dato questo brano nel vol. 1.° pag. 41 in nota.
(464) Ved. Lettere inedite di T. Campanella e Catalogo de' suoi
scritti, Roma 1878 pag. 73.
(465) Nell'originale "ne". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(466) Possiamo dire che il Codice della Bibl. nazionale di Napoli
sia stato scritto da un amanuense non napoletano ed anche
ignorantissimo: difatti nel lib. 1.° cap. 3, vi si legge,
"l'esperienza di quei che girano il mondo doppo la scoperta del
Palombo", in vece di dire "del Colombo", e nel lib. 2.° cap. 26 si
leggono le parole "coquiglie, ostraghe, incini", con dicitura non
napoletana; ma tutto il contesto e mille altre parole sentono
anche troppo del napoletano e mostrano l'originaria ricomposizione
dell'opera. Il Codice della Casanatense in taluni punti ha miglior
lezione, ma in generale è più scorretto: basti citare p. es. che
là dove il Cod. nap. dice "el cavallo Montedoro di Mario dello
Tuffo" etc., il Cod. rom. dice, "e il cavallo del Monte d'oro di
Mario del Tufonico" etc. Potremmo riferire varie differenze non
prive d'interesse; ma almeno due vogliamo notarne. La 1.a è, che
nel Cod. rom. parecchie note marginali rimandano ad altre opere
dell'autore; la 2.a è, che mentre il Cod. nap. nella fine
dell'opera dice, "La quale (universale sapienza) sia pregata che
me et te N. mio alzi alla sua dignità et cognoscenza, Amen", il
Cod. rom. dice, "La qual sia pregata che me et Berillo mio alzi
alla sua dignità et conoscenza et mandi presto il mio liberatore".
Si sa dalle Poesie (Canzone di pentimento, senza alcun dubbio del
1613) che Berillo era D. Brigo di Pavia amico dell'autore, con
ogni probabilità Cappellano del Castello dell'uovo, e si sa che
nel 1613 l'opera era stata pur allora tradotta in latino: può
dunque al Cod. rom. assegnarsi la data del 1610-1612, e su questa
base possono valutarsi le altre piccole differenze tra' due
Codici. Veniamo ora alla giustificazione delle cose notate sopra.
I luoghi, ne' quali non si trovano le citazioni
dell'Antimachiavellismo e de' Machiavellisti, come si trovano
nella versione latina, sarebbero i cap. 24 e 25 del lib. 2.°:
anche nel cap. 18 dello stesso libro si trova non citata
l'autorità del Papa e qualche altra variante; nel resto non ci
sono differenze contemplabili, e le citazioni della Metafisica e
dell'Astronomia, si trovano egualmente nel lib. 1.° cap. 3, 6, 7,
13, e nel lib. 3.° cap. 2. - Pel ricordo di fra Pietro ved. il
lib. 2.° cap. 20 e 21, e il lib. 3.° cap. 10; quivi c'è nome e
cognome, "Pietro Prestera". Pel ricordo di D. Lelio Orsini, ved.
il lib. 3.° cap. 9 e il lib. 4.° cap. 17; per quello riferibile a'
Ponzii, il lib. 2.° cap. 21. - Pel ricordo dello stato di
prigionia e delle altre circostanze personali dell'autore ved.
lib. 1.° cap. 8, lib. 4.° cap. 17, lib. 4.° cap. 1. - Per
l'argomento degli angeli e dei diavoli ved. lib. 1.° cap. 6 in
fine, lib. 2.° cap. 25, lib. 3.° cap. 4 e 5, lib. 4.° cap. 1 e 2;
segnatamente nel lib. 2.° cap. 25 si hanno le notizie delle
apparizioni del diavolo e delle sue rivelazioni con tutte le
conseguenze in persona del Campanella.
(467) Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 47.
(468) Le parole dello Scioppio son queste: "Consultatio de
reditibus regni... 300 augendis mire mihi placuit"; ved. Berti,
Nuovi Documenti etc. Rom. 1881 pag. 30. I Discorsi che
pubblichiamo si leggono nel nostro Doc. 519, pag. 591.
(469) Anche allo Scioppio, prima che gli mandasse l'Ateismo, il
Campanella avea scritto in termini aperti e chiari di aver visto
non solo diavoli ma anche angeli (ved. il brano di lettera del 6
maggio 1607, pubblicato dal Centofanti nell'Archivio storico
italiano 1866, pag. 86). Nell'Ateismo si limita a dire che si era
accertato dell'esservi angeli e diavoli in sèguito de' mentovati
esperimenti (ved. cap. 13.° in fine).
(470) Abbiamo detto già in altri luoghi che ve n'è una copia nella
Bibl. nazionale di Napoli, un'altra nella Casanatense, ed un'altra
anche nella Bibl. nacional di Madrid (L, 101): quest'ultima è
mancante delle prime 14 carte ed ha per titolo, scritto in margine
da altra mano, "Questiones filosoficas y astrologicas".
L'"Appendix ad amicum" già esposta altrove (pag. 111) riusciva
opportunissima ne' tempi a' quali siamo pervenuti: merita bene di
essere considerata egualmente l'occasione in cui fu riprodotta.
(471) Le copie manoscritte di quest'opera, tuttora esistenti nelle
diverse Biblioteche, offrono una variante nella distribuzione
della materia e quindi nel numero de' Discorsi, oltre non poche
varianti nella materia medesima. La Bibl. Brancacciana di Napoli
ne ha due copie, una in italiano, l'altra tradotta in spagnuolo;
la Nazionale ne ha una in spagnuolo; quella de' PP. Gerolamini una
in italiano. Dippiù, sempre in italiano, ce n'è una copia nella
Magliabechiana, ma scorrettissima; un'altra in Lucca, un'altra in
Torino. Ancora un'altra se ne conserva in Parigi (Bibl. naz. num.
nuov. Ital. 986). Si sa che nell'originale italiano i Discorsi
furono già pubblicati dal Garzilli (Nap. 1848), poi anche dal
D'Ancona (Torino 1854).
(472) Avvertiamo intanto che tra le nostre Illustrazioni i lettori
potranno trovare raccolto in un Catalogo quanto finora abbiamo
sparsamente detto circa le opere del Campanella; ved. Illustraz.
VII, pag. 663.
(473) Ved. Arch. storico italiano an. 1866; Let. a Paolo V, pag.
22 e 24; e Let. al Card.l Farnese pag. 66.
(474) Si comprende pertanto che delle molte promesse e cose
mirabili, delle quali si trova l'elenco ne' documenti suddetti,
una parte solamente sia stata messa innanzi nel tempo di cui
discorriamo. P. es. non vi potè figurare ancora il fare un volume
contro i Machiavellisti, che il Campanella meditò e cominciò a
scrivere più tardi, onde si trova poi menzionato nell'elenco di
agosto 1606 insieme con diverse altre promesse in vantaggio della
Chiesa che vennero fatte consecutivamente.
(475) Il P.e Giovanni Lopez noto per le sue opere (Epitome SS.m
Patrum etc. vol. 3, Rom. 1596), già Vescovo di Cotrone sin dal
1595, fu trasferto al Vescovato di Monopoli il 25 9bre 1598; ma
non prima del 1608 abbandonò la sua Chiesa e se ne venne in
Napoli; si sa che morì poi a Valladolid dell'età di 108 anni (ved.
Fontana, Sacrum Theatrum Dominicanorum, Rom. 1666, pag. 181 e
239).
(476) Ci basterà qui dire che il Gentile si mostrò avverso al
Campanella anche dopo il tempo del quale trattiamo. Fu lui il
Nunzio che nel 1611 ordinò la perquisizione e il sequestro delle
opere del Campanella dentro il Castello dell'uovo, come si legge
nel Syntagma in termini curiosamente ridotti. Ebbe il carico di
Nunzio con exequatur del 14 aprile 1610, succedendo a fra
Valeriano Muti Vescovo di Castelli, e lasciando il carico di
Ministro dell'Inquisizione a fra Stefano de Vicariis Vescovo di
Nocera (ved. nell'Arch. di Stato i Registri Comune vol. 31, fol.
75 t.°, e Parrino, Teatro etc. Vicerè D. Pietro Fernandez de
Castro).
(477) Per comodo di qualche lettore che non lo tenga presente,
ricordiamo che Lucca avea proibito il commercio epistolare tra'
cittadini e que' parenti di essi i quali abbracciata la Riforma
aveano emigrato, e Roma approvò il fatto ma biasimò che fosse
stato compiuto dalle autorità laiche, dovendo compierlo lei.
Genova poi sciolse una congregazione gesuitica, alla quale i
Gesuiti aveano fatto giurare di non dar voti per magistrati se non
agl'individui appartenenti alla congregazione, oltrechè punì
taluni amministratori di confraternite che si avevano appropriato
il danaro di esse; e Roma, per la solita ragione, volle che la
congregazione fosse ripristinata e gli amministratori ladri
fossero rilasciati.
(478) Ved. nel Carteggio Veneto suddetto specialmente le lettere
del 20 e 27 giugno, 18 e 25 luglio ed 8 agosto 1606. Non sarà poi
inutile notare che pochi mesi prima del tempo suddetto, parlando
delle gabelle divenute insopportabili, e in ispecie delle nuove
gabelle sulla seta riuscite gravi sopratutto in Calabria, il
Residente Bartoli scriveva de' Calabresi: "dicono palesemente che
si darebbero, se havessero chi li volesse ricevere, non solamente
a' turchi, come tentarono di fare cinque anni sono, ma anche à
peggior generatione più tosto, che vivere sotto à questo governo".
Nemmeno sarà inutile notare in che maniera rispondevano gli
ufficiali del Governo agli assegnatarii, i quali si dolevano
dell'essere stato trattenuto il pagamento degl'interessi loro
dovuti: scriveva il Residente Dolce essersi risposto, "che era
noto a cadauno che l'anima dell'huomo era di Dio, ma le vite, le
facoltà et il danaro dei sudditi sono del Prencipe, et come
padrone li era nelle occasioni lecito valersene à gusto e piacer
suo".
(479) Così nella sua lettera di poco posteriore, in data del 30
agosto 1606, al Card.l Farnese; ved. Centofanti, nell'Archivio
storico italiano, luglio 1866, pag. 66.
(480) Le lettere e i libri del Campanella in molti luoghi fanno
intendere che egli simulò la sua pazzia. Difatti, quanto alle
lettere, parecchie tra quelle pubblicate dal Centofanti lo
rivelano, onde riesce strano che il Centofanti medesimo abbia
ammessa nel filosofo "una lunga aberrazione mentale". Nella
lettera a Paolo V, fin da principio, col ricordo del fatto
"naturale anche a' bruti deboli servirsi dell'industria contra li
possenti", coll'esempio de' savii, e coll'autorità di S. Geronimo,
confessando "le strattagemme usate non per fuggir la giustitia ma
la violenza", il Campanella fece allusione evidente anche alla
pazzia simulata. Nella lettera al Card.l Farnese ricordò pure fin
da principio il motto "placuit Deo per stultitiam salvos facere
credentes", e in quella al S. Giorgio non solo ripetè che era
stato conservato da Dio "con la stoltitia dov'era odiosa la
virtù", ma anche rammentò che "la fintione s'usa contro la
violenza, come insegna S. Geronimo con l'esempio di David e di
Solone". Nella lettera latina al Papa ed a' Cardinali, ed
egualmente nella lettera al Re di Spagna, affermò che per avergli
negato le difese e pe' tanti tormenti "lo fecero pazzo"; ma
perfino al Re non si peritò di scrivere, "dicono c'ho finto
d'esser pazzo, io rispondo che David e Solone si finsero pazzi per
lo stesso modo, e son lodati da S. Geronimo". - Quanto a' libri,
il tratto più singolare è quello che leggesi nella Città del Sole
e che oggi sappiamo doversi riferire alla pazzia, ma che pur
quando non si sapeva che dovesse riferirsi alla pazzia, avrebbe
meritata tutta l'attenzione degli scrittori intenti a decifrare le
faccende del Campanella; vogliamo dire quel tratto già da noi
riportato parlando del libro (ved. la nota alla pag. 304), là dove
si cita un gran filosofo, che per 40 ore venne crudelmente
tormentato da' suoi nemici, senza mai potergli strappare di bocca
una parola su quanto essi domandavano, perché nel fondo dell'animo
avea determinato di tacere. D'altra parte son conosciuti da un
pezzo i versi e la nota ad un suo Sonetto intitolato "Di sè
stesso" ove si riproducono i concetti palesati al Card.l S.
Giorgio, leggendosi: "quando bruciò il letto e divenne pazzo o
vero o finto: Stultitias simulare in loco prudentia est disse il
comico, et de jure gentium i pazzi son salvi"; mentre nel Sonetto
si canta:
"Bruto e Solon furor finto coperse
e Davide temendo il re Geteo.
Però là dove Jona si sommerse
trovandosi l'Astratto, quel che feo
al santo Senno in sacrificio offerse".
S'intende bene che l'Astratto qui è il Campanella, il quale si
trovava in faucibus Orci, come sovente si espresse; e che avrebbe
potuto dire di più nelle sue condizioni? Pur troppo, segnatamente
nella Narrazione, disse anche essere stato pazzo "non finto":
questo pertanto mostra solo che le sue circostanze l'obbligarono
molte volte a nascondere il vero, e che però le sue assertive
debbono essere vagliate con molta circospezione.
(481) Ved. gli ultimi versi, con la nota annessa, della Canzone
III in Salmodia metafisicale.
(482) Così nella Canzone "Della Bellezza", Madrigale 9°, egli
dichiarò che
"Bello è il mentir, se a far gran ben si prova".
E nella nota quivi annessa citò la menzogna di Ulisse a Polifemo,
e di Sifra e di Puha a Salomone. In un'altra nota annessa al
Madrigale 4.° della "Canzon II al Primo Senno", parlando dello
Spirito impuro, disse che esso è per natura mendace, ma aggiunse
che "è segno di natura corrotta e viziosa, quando mente non per
industria, bisogno e sagacità". L'essere poi stato costretto a
fingere, e l'aver finto, si rileva dal Sonetto intitolato "Senno
senza forza de' savii esser soggetto alla forza de' pazzi", dove
il filosofo ci apparisce ritratto con la maggior fedeltà, essendo
quivi citati i suoi presagi, le sue "Regie imprese" e le
conseguenze di esse.
(483) Nell'originale "cosi". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(484) "Nec potest Macchiavellista dissimulare in hoc aliisque
saeculis praeteritis, futurisque, quod argumenta potiora
dissimulaverim: nam plura quam ipsi queant imaginari et fortiora
apposui, dissolvique per coelestem et humanam philosophiam non
semel neque bis, usque ad radices". Così nella lettera proemiale
all'Atheismus pubblicata dallo Struvio.
(485) Abbiamo detto che il Campanella fu diversamente ed assai
spesso vituperosamente giudicato nella persona e nelle opere sue.
Segnatamente circa le opere politiche e religiose, che appunto
riguardano più da vicino l'argomento nostro, fu ammessa in lui
un'astuzia con frode, un Machiavellismo combattendo il
Machiavelli, un Ateismo combattendo gli Atei, la quale ultima
proposizione in verità è affatto insulsa. Possono leggersi nel
Cyprianus e nell'Echard le testimonianze di questo genere emesse
dal Boecler, dal Conringio, dal Voël etc. etc. e non a torto
l'Echard fece riflettere che in altrettali giudizii ostili
dominava il dispetto de' Protestanti di Germania, i quali furono
veramente, per esagerazione di zelo, trattati con molta durezza
dal Campanella. Per conto nostro dobbiamo dire che nel paese, dove
potè essere meglio conosciuto intimamente, oltre la caratteristica
di astuto e furbo, stabilita a' tempi suoi e mantenutasi per
tradizione, non mancarono le testimonianze dell'aver lui scritto
ben diversamente da ciò che sentiva, e questo per verità importa
di assodare. Così il Nicodemo, da potersi considerare un'eco di
affermazioni d'individui che aveano trattato col Campanella, nelle
Addizioni alla Biblioteca del Toppi disse, "Per quanto ebbe
ingegno e dottrina, tanto fu ingannatore, e spesso, spesso, per
compiacere altrui e per proprii fini, cose scriveva lontanissime
da quello che nell'interno sentiva": respingendo un modo di
esprimersi tanto sciocco, che non tiene il menomo conto della
posizione orribile del Campanella, rimane accertato il fatto della
dissonanza tra i suoi pensieri e i suoi scritti. Potremmo poi
riferire testimonianze e ricordi pieni di stima e di affetto, da
parte di qualche suo discepolo distintissimo, che ebbe campo di
conoscerlo intimamente e di valutarne al tempo medesimo le
stringenti necessità: né vi è chi ignori le testimonianze di
stranieri illustri che lo conobbero, come Tobia Adami il quale
ebbe a conversare con lui per più mesi al Castello dell'uovo nel
1613, e Gabriele Nandeo il quale ebbe a conversarvi del pari
lungamente a Roma nel 1631, mostrandosi entrambi convinti non solo
dell'ingegno e della dottrina del filosofo, ma anche del suo
candore ed innocenza, mentre per lo meno il Nandeo era certamente
consapevole delle sue imprese di Calabria. Ora a' tempi nostri il
Sainte-Beuve (Portraits litteraires, Paris 1862, vol. 2.° p. 522)
ha pubblicata un'altra lettera del Nandeo, rinvenuta nella
corrispondenza ms. di Mons.r Peirescio, nella quale, in data del
30 giugno 1636, invelenito contro il Campanella, che assicuravasi
avere sparlato di lui e che protestava di "non aver detto nulla a
suo svantaggio e voler morire suo servitore ed amico", il Nandeo
vomita largamente grossolani giudizii sul conto di lui. E dice che
vuole "una sodisfazione per lettera di propria mano, concepita in
guisa da mostrare almeno di essere dispiaciuto di avere offeso a
torto e con leggerezza", ma aggiunge che "qualunque sodisfazione
gli avesse dato, non lo stimerebbe mai altrimenti che un uomo
stordito più di una mosca e negli affari del mondo meno sensato di
un ragazzo", e "se ha evitato i giusti risentimenti del M.° del
Palazzo di Roma fuggendosene a Parigi sotto pretesto di essere
perseguitato dagli spagnuoli che non pensarono punto a lui, non
eviterà frattanto i suoi" (giunge il Nandeo a tradire la verità
fino a questo punto). E dice che il Campanella "ciarla
potentemente, mentisce impudentemente, spaccia bagatelle al
popolaccio, e con tutto ciò è un matto arrabbiato, un impostore,
un mentitore, un superbo, un impaziente, un ingrato, un filosofo
mascherato. . . ", terminando col motto "ipse est catharma,
carcinoma, fex, excrementum di tutti gli uomini di lettere, a'
quali fa vergogna e disonore"! Il Sainte-Beuve, aggiungendovi
anche una nota del Guy-Patin, che dopo di aver visitato il
Campanella in Parigi scrisse di lui nel suo libro di ricordi il
beau-mot "multa quidem scit, sed non multum", dice per conto suo
bonariamente: "in un tempo in cui si è in via di esagerare sul
Campanella, ho stimato bene far conoscere questa opinione segreta
del Naudè e della cerchia degli amici del Naudè; giacchè sovente è
invocata la loro testimonianza esteriore..., era giusto che se ne
avesse anche la testimonianza intima e confidenziale". Per conto
nostro, a fronte di testimonianze provenienti da uomini di
coscienza sciaguratamente doppia, siamo disposti ad accogliere le
testimonianze segrete anzichè le pubbliche, ma, naturalmente,
riserbandoci il dritto di apprezzarne il valore: ed essendoci noto
come negl'italiani si trovi ancora tanta dabbenaggine, che mentre
al di là delle Alpi si professa lo chez-nous ad ogni costo, essi
si affaticano a professare il favorite-signori senza eccezioni,
stimiamo bene spendervi intorno alcune poche parole. Lasceremo da
banda le testimonianze del Guy-Patin: vi sono le opere del
Campanella, e chi è avvezzo a leggere deve da esse trarre i suoi
convincimenti, non dalle impressioni di un uomo che studiava
spirito e maldicenza per farne traffico, ricavandone un pranzo e
un luigi per ogni seduta, ed era tanto competente in filosofia da
maledire Descartes. Quanto alla lettera scritta nel 1636 dal
Naudeo, essa per noi vale solo a mostrare due cose: 1.° che il
Campanella non aveva l'abitudine del mutuo incensamento tanto
diffuso tra' dotti a quell'età, onde il Naudeo, come il Peirescio,
il Gassendo etc., non potevano tollerarne qualche giudizio sul
conto loro, che non fosse un elogio continuo in tutto e per tutto;
2.° che il Naudeo era capace di bizze momentanee senza alcuna
misura, da doversi dire francamente bestiali. Quando si avesse a
ritenere la detta lettera del Naudeo non come una bizza
momentanea, ma come l'espressione del suo profondo convincimento
sul Campanella, allora, avendo lui scritto le note lettere latine
posteriori al 1636 e la lettera dedicatoria del Syntagma, avendo
inoltre pubblicato il Panegirico ad Urbano VIII con la relativa
avvertenza, nel quale del resto diede veramente prova solenne di
menzogna e d'impostura, andrebbe a lui rivolto quel suo motto
"ipse est catharma, carcinoma", con ciò che segue.
(486) Ved. Doc. 520, pag. 596.
(487) Alludiamo a' "Nuovi Documenti su T. Campanella tratti dal
Carteggio di Giovanni Fabri, Roma 9bre 1881". Notiamo che i
documenti di tale Carteggio pubblicati nella loro integrità sono
solamente cinque, rappresentati da due lettere dell'Arciduca
Ferdinando e tre lettere dello Scioppio, mentre le notizie che li
accompagnano ne mostrano un numero assai maggiore. Come abbiamo
detto nella Prefazione di questo libro, ancora non si concede di
poter vedere il Carteggio.
(488) Ved. Centofanti nell'Arch. storico italiano, luglio 1866
pag. 19: "De cleri reformatione iterum dico tibi me quasi nihil
sperare...; ipsi orabunt nos, si Principes duos, quos quasi
manibus teneo convertemus, et sapientes Germaniae per novitatem
doctrinae admirabilis alliciemus": d'onde si vede che il
Campanella avea giù rinunziato a sostenere la riforma del Clero
consigliata come indispensabile nella lettera del 1606 al Papa, e
il suo pensiero era tutto rivolto alle imprese di Germania da
doversi compiere insieme con lo Scioppio, al quale aveva pure
scritto un'altra volta. Aggiungiamo che essendo ora accertato da
uno de' documenti rinvenuti dal Berti essere lo Scioppio venuto in
Napoli nell'aprile 1607, e cominciando la lettera del Campanella
con le parole "Mirifice me angit quod adspectus denegatur tuus",
saremmo tentati di assegnarle appunto la data suddetta, quando
essi stavano vicini e non si permetteva che si vedessero.
Aggiungiamo ancora che non può dubitarsi essere stato l'anno 1607
quello in cui lo Scioppio ebbe la missione di Germania, poichè una
lettera autografa di lui a Cassiano del Pozzo, da noi pubblicata,
reca: "L'anno 1607 havendo gli Catolici di Germania supplicato il
Papa Paolo V che soprasedesse di mandar un Nunzio alla Dieta di
Ratispona per evitar la gelosia de' Protestanti, si risolse il
Papa di mandarvi la mia persona come Consegliero di casa
d'Austria" etc. (ved. Il Codice delle lettere del Campanella, pag.
80 in nota).
(489) Scioppii, De Antichristo, Epistola ad Ill.um quemdam
Germaniae Principem Protestantem scripta, accesserunt ejusdem De
Petri primatu, De adoratione summi Pontificis, de splendore et
divitiis ecclesiasticorum, de Papae denique potestate in
saecularibus etc. Ingolstadii 1605.
(490) Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 35.
(491) Jul. Caesaris Capacci, Illustrium mulierum et illustrium
virorum elogia, Neap. 1608-1609, t. 2, pag. 275-77. Il Capaccio
dice che il Fabre gli "mostrò" la disputa mandata alla stampa
contro lo Scaligero.
(492) Questo errore non sarebbe il solo: probabilmente per colpa
dell'amanuense la lettera si mostra erronea in più punti. Fin
dall'intestazione vi si leggo "Gaspari Scioppio... qui se
litteratorem exhibet" e dovea dire "liberatorem"; offre poi
"politicae XV aphorismos" e dovea dire "CL"; più oltre, "rogo te
sis mihi ac tibi dedecori et onori", e dovea dire "ne sis" etc.
etc.
(493) La data della morte del Marchese di Lavello Gio. Geronimo
trovasi ne' Reg.i delle Significatorie de' Relevii vol. 39, fol.
108. - Quanto al ricupero della Metafisica ved. Doc. 522, pag.
603. L'intervento del Reggente della Vicaria fa ritenere che il
Campanella abbia dovuto reclamare pel ricupero dell'opera sua.
(494) Entrambe le lettere sono state da noi pubblicate.
(495) È curioso il vedere che al Re, oltre le promesse solite di
edificare una città inespugnabile etc., far che i vascelli
navighino senza remi e senza vento, far che le carra camminino col
vento con buoni pesi, far che i soldati a cavallo adoperino
entrambe le mani senza obbligo di tener la briglia (cose più o
meno già dette pure nella Città del Sole), aggiunse
straordinariamente la promessa de' "Rimedii di rinnovar la vita
ogni 7 anni". Nessuno meglio del Campanella sapeva adattarsi alle
persone con le quali avea da fare.
(496) Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 45.
(497) Così nell'Echard, Vita Campanellae, ediz. agg.ta al
Cyprianus, Traiecti ad Rhenum, 1741, pag. 175.
(498) Ved. i Nuovi documenti pubblicati dal Berti, Doc. 1.° pag.
29. Ma ci permettiamo di far avvertire che la data di esso, 17
marzo 1607, non può stare; la lettera evidentemente fu scritta
dalla Germania e basta riflettere che accenna ad una lettera
commendatizia già scritta dall'Arciduca Ferdinando, la qual cosa
conosciamo essere avvenuta in gennaio 1608; vedremo poi, nel corso
della narrazione, come essa si colleghi a qualche altra lettera
pubblicata da noi.
(499) Ved. Griselini, Memorie aneddote spettanti alla vita di fra
Paolo Servita, Losanna 1760, pag. 142, e Oporini Grabinii,
Amphotides Scioppianae, Paris. 1611, pag. 162.
(500) Ved. Il Codice delle lettere etc. pag. 50.
(501) Riportiamo qui il brano suddetto perché i lettori possano
valutarlo: "Primum ab Archiduce Maximiliano, cum totos XI dies cum
maxima mea molestia neque minimis impensis Oeniponti desedissem,
literas ad Proregem impetravi, et quidem adnitente D. Georgio
nostro. Deinde ut ipse Georgius hominem ei rei allegaret perfeci:
ita tamen ut stipulanti promitterem, curaturum me ut secum prius
toto anno esses quam quaquam discederes; tum etiam nullius me
alterius principis auxilia imploraturum, quamdin spes aliqua sit
suam tibi operam profuturam... Et tamen, bona cum ipsius pace, ut
te Serenissimus Patronus meus Ferdinandus Archidux ex praescripto
meo Proregi commendaret perfeci". Così nell'ultima delle tre
lettere pubblicate dal Berti, che a noi pare debba mettersi in
primo luogo.
(502) Ved. Il Codice delle lettere, pag. 46 e 68.
(503) Ved. Il Codice delle lettere, pag. 42. Dobbiamo fare
avvertire che in questa lettera il Campanella dice dippiù esservi
disgusto fra Abacuc e il Tutore: oggi, sapendosi dall'Epistolario
romano che fin dall'ottobre 1607 era stato dal Fugger mandato in
Italia Daniele Stefano di Augusta, per far evadere il Campanella,
potrebbe lo Stefano esser ritenuto per Abacuc, disgustatosi col
Tutore ossia fra Serafino.
(504) Abbiamo cercato di vedere con la maggiore attenzione se
nell'Archivio di Stato in Napoli fosse rimasta qualche traccia di
questo Carteggio dell'Arciduca Ferdinando ed anche dell'Arciduca
Massimiliano intorno al Campanella. Ci pare che le tre seguenti
Lettere Regie vi si riferiscano: ma il mistero col quale sono
scritte vieta di ritenerlo in modo assoluto. E però le mettiamo
qui per lasciarne giudici i lettori, pregandoli di ricordarsi che
primo a scrivere fu Massimiliano, che pochi giorni dopo scrisse
Ferdinando, nel gen.° 1608 (lettere giunte con ritardo), e che
Ferdinando scrisse ancora in sèguito, il 3 8bre 1608 e il 10
maggio 1609. - 1.° "El rey. III.° Conte de Venavente Primo mi
Visso Rey, lugar teniente y Capitan general del Reyno de Napoles.
He visto vuestras cartas de los 23 de mayo y 30 de iunio con los
papeles que acusan tocante a mejorar el presidio y poblaçion de
puerto Ercules, y sobre el socorro que pide el Archiduque
Massimiliano Ernesto, y agradezco os mucho el cuydado que teneys
de lo primero, en lo qual quedo mirando para proveer lo que
convenga, y en lo que toca a lo que os escrivio el dicho
Archiduque no se offrece que dezir, sino que fue açertado lo que
le respondistes y lo sera que siempre vays con la misma
consideracion no resolviendo nada sin avisarmelo, porque ay mucho
que mirar en la forma de hazer aquellas ayudas. De Valladolid a 10
de setiembre 1608. Yo el Rey". - 2.° "III.° Conde etc. Las cosas
de la Religion Catolica en Alemana se van poniendo en tan mal
estado que obliga a atender a su reparo con summo cuydado, y
haviendo entendido el en que se hallan los Ser.mos Archiduques
ferdinando y leopoldo mis hermanos por lo que toca a sus estados,
He acordado de engargaros y mandaros, como lo hago, les asestays y
ayudeys en lo que pudieredes de esse Reyno, y demas desto
procureys que por todas vias se entienda que yo de acudir a la
defensa de la causa Catolica y al empaxo de la cassa (sic) de
Austria en qualquier evento, como debo, para que con esto se
reprima el atrevimiento de los hereges, y avisareysme de lo que
hizieredes, y se os ofreçiere açerca desta materia. De Segovia a
13 de agosto 1609. Yo el Rey". - 3.° ".... queda entendido lo que
el Archiduque ferdinando mi Hermano os ha embiado a pedir con el
Conde fu.° efforça de Porçia, y que os le aveys respondido y ya se
os ha avisado lo que es mi Voluntad, se haya por agora ensto, a
quen no se offreze que anadir, sino que aquellas cosas me dan el
cuydado que es razon y se va mirando en lo que se deve hazer....
De Segovia a 22 de Agosto 1609. Yo el Rey". (Da' Reg.i Litterarum
S. M.tiz vol. 12, fol. 878, 1053, 1703).
(505) Ved. Gabr. Naudaei Epistolae, Genevae 1667. Ep. 82, pag.
614.
(506) Il Berti, nella Vita del Campanella stampata nella Nuova
Antologia (luglio 1878, p. 615), parlando del carcere di Napoli
dice che il Campanella "ricevette pure nel carcere la visita del
celebre Gerolamo Vecchietti, di cui prese a difendere talune
opinioni che erano state allora giudicate eretiche"; e in una nota
aggiunge, "coteste opinioni si riferiscono alla cronologia sacra
nella riforma del Calendario Giuliano". Ma in un Avviso di Roma
della Collezione esistente nella Bibl. Corsiniana (cod. 1768)
abbiamo trovato in data del 30 aprile 1633: "Il Vecchietti
fiorentino dopo esser stato sett'anni prigione all'Inquisitione
questa settimana n'è uscito". Era dunque prigione fin dal 1626, e
quindi compagno del Campanella; e le Lettere Inedite del
Campanella dateci dallo stesso Berti ci mostrano quale sia stata
veramente l'opinione eretica, per la quale passò pericolo di
essere dannato al fuoco da 18 Teologi d'accordo, l'aver negato che
Cristo avesse mangiato l'agnello (ved. le Lett. da Aix 2 9bre
1634, da Parigi 4 10bre 1634, da Parigi 22 7bre 1636).
(507) Nell'originale "bensi". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
(508) Ved. Il Codice delle Lettere etc. pag. 131 e seguenti.
(509) Ved. le Poesie, ediz. D'Ancona pag. 151.
(510) Di testimonianze relative a tale notizia non conosciamo
finora altra più antica di quella del Bulifon, cronista della fine
del 1600 e principio del 1700; ed essa viene a luce oggi per la
prima volta, comunicataci dal chiarmo Scipione Volpicella. Si sa
che il Bulifon, libraio, registrava notizie di ogni sorte per
compilare il suo così detto Cronicamerone: ma essendo stato
saccheggiato il suo negozio e il suo domicilio il 1707, i
manoscritti andarono perduti con tutto il resto, e poi se n'è
venuto ricuperando qualche volume più tardi. Due di essi stanno
nella Biblioteca Nazionale (X, F, 51-52), altri in mano di
particolari, ed uno di questi ultimi reca: "La notte che divide
l'anno 1679 dal 1680 morì in Roma quasi in miseria il celebre
matematico Giovanni Alfonso Borelli d'anni 72. Egli nacque spurio,
come dicono, nel Castello Nuovo di Napoli da un officiale
spagnolo, sebbene v'è chi dica dal Padre Tommaso Campanella ivi
carcerato. Ma restò tanto odioso di quella nazione che si assunse
il cognome della madre. Questo nelle sue opere stampate e
ristampate in più luoghi diede saggio della profondità di sua
dottrina, con la quale gareggiò con li primi ingegni dell'Europa.
Non si deve tacere che la maggior parte delle esperienze fatte
nell'Accademia del Cimento in Firenze sono del nostro Borelli in
quella aggregato. Le opere da lui stampate sono De vi.......
(sic), De motibus a gravitate pendentibus, De motionibus
animalium, Dell'incendio del Vesuvio, e Euclide restituito". -
Ognuno apprezzerà, come merita, la notevolissima ragione del
cambiamento di nome del Borrelli addotta dal Bulifon, tanto più
che da' posteriori è stata variamente e meno acconciamente
interpetrata. Noi pertanto abbiamo raccolto e discusso in una
speciale Illustrazione quelle poche cose che finora ci è riuscito
di trovare su tale argomento ne' libri parrocchiali del Castel
nuovo e nell'Archivio di Stato. Ved. Illustraz. V, pag. 646.
(511) Il Conte di Lemos lo aveva dichiarato a S. M.tà fin da
principio (ved. Doc. 36, pag. 42); d'altronde tale era la regola.
(512) Questa iniqua proposizione del Card.l Barberini trovasi
riportata in una delle lettere del Campanella pubblicata dal
Baldacchini, quella del 1O agosto 1624, ed era perciò nota fin dal
1840; ce l'ha poi confermata un'altra lettera pubblicata nel 1878
dal Berti, quella del 13 agosto 1624 (non 13 aprile come il Berti
lesse, avendolo noi personalmente verificato nella Barberiniana).
E tuttavia si è continuato sempre a parlare della gloriosa
protezione del Campanella spiegata da Roma, dove è noto che il
Card.l Barberini, Card.l Nipote, spadroneggiava.
(513) Anche oggi di questo favore di Papa Urbano pel Campanella si
ha una notizia molto confusa, perfino riguardo al tempo in cui
avvenne. P. es. il Berti parla della "pensione mensile che gli fu
accordata quando venne di Napoli in Roma": ma evidentemente una
pensione, o meglio uno stipendio per la carica di cameriere
intimo, non si potè accordare allora al Campanella, se fu
rinchiuso nel carcere di S.to Ufficio per tre anni. E circa questo
fatto della prigionia parimente il Berti dice, che il Campanella
"passò tre anni sotto la mentovata custodia senza muoverne
lagnanza"; ma non poteva muoverne lagnanza se aveva avuta una
condanna al carcere irremissibile; del resto, dovè pure trovare
chi l'aiutasse ad uscirne, disobbligandosi col fargli la natività,
e in una lettera scritta al Papa, quando stava nel S.to Officio,
usò le espressioni medesime usate con lo Scioppio quando stava
nella fossa di S. Elmo, "Adiutor meus et liberator meus es tu
Domine, ne tardaveris". Queste notizie risultano dagli stessi
preziosi documenti datici appunto dal Berti (ved. Nuova Antologia
luglio 1878 p. 400 e 392, e Lettere inedite, let. 12.a p. 40, e
let. 4.a p. 21). Chiunque si faccia a leggere i documenti e a
considerare le cose senza idee preconcette, troverà che la Curia
Romana non ebbe mai alcun riguardo pel Campanella eccetto quello
finale dell'averlo tenuto nel carcere di Roma per soli 3 anni,
invece degli 8 anni soliti a farsi scontare, trattandosi di
condanna al carcere perpetuo ed anche irremissibile. Ma si deve
tener presente che dopo la condanna egli avea sofferto oltre
ventitrè anni di carcere, che varii Cardinali e Prelati aveano
molta considerazione della sua dottrina, massime poi che
sopraggiunsero circostanze straordinarie e del tutto estrinseche,
per le quali Papa Urbano, personalmente, mostrò di proteggerlo ed
amarlo, e pure fino ad un certo punto. Si può ben dire che quella
volta il Campanella non vide chiaro, e ad ogni modo, circa la
protezione trovata da lui in Papa Urbano, si sarebbe dovuto
accuratamente distinguere più periodi successivi, ne' quali le
cose andarono ben diversamente.
(514) Da buon teologo, lo Spagnolio "reverentemente abolì" ciò che
avea detto del Campanella e de' congiunti e familiari di lui; pel
resto scrisse, "de coeteris, jure, an fraude et calumnia
circumventi, saevis sint affecti suppliciis aut morte puniti,
nullo modo contendo". Gli riusciva quindi anche indifferente il
determinare se ci fosse stata o non ci fosse stata una congiura.
(515) Così nel libro intitolato "Considerations politiques sur les
coups d'Etat, Hollande 1679" p. 262 e 277. Il libro era stato
stampato anche nel 1667 e 1671 sempre assai dopo la morte
dell'autore, e come abbiamo dimostrato nella nostra precedente
pubblicazione sul Campanella, esso fu certamente stampato per la
prima volta in piccolo numero di esemplari, dovendo rimaner
segreto, dopo il 1638; poichè nella dedica al Card.l di Bagno, il
quale avea data al Naudeo la commissione di scriverlo, si parla
del riposo e degli onori che il Cardinale godeva in Roma dopo
sette governi di provincie, una Vicelegazione e due Nunziature, e
si sa che tutto questo accadeva dopo il 1638, avendo in tale anno
il Cardinale rinunziato il Vescovato di Rieti e preso stanza in
Roma. - Quanto al "Panegyricus dictus Urbano VIII Pontif. max. ob
beneficia ab ipso in Thom. Campanellam collata, Paris ap. Sebast.
Cramoisy 1644", esso reca in fine la data del 1632, e sebbene nel
titolo ed anche nella dedica si affermi essere stato "recitato" ad
Urbano VIII, e l'Echard aggiunga che appunto nel 1632 questo sia
accaduto "coram percelebri omnium ordinum consessu", gioverà
conoscere un brano di lettera autografa inedita dello stesso
Naudeo, che riportiamo tra i Documenti (ved. Doc. 527 b, p. 607).
Vi si rileverà che il Panegirico non fu mai recitato, e che nel
1635 l'autore dolevasi di non poterlo dare alle stampe, del quale
ultimo fatto ognuno naturalmente intenderà la ragione. Nulla
diciamo poi del trovare affermato nel Panegirico, che Papa Urbano
beneficò il Campanella "judicium non modo suum..., sed Clementis
VIII, et Pauli V mentem, in aestimandis Campanellae dotibus
mirificis, sequutus"; perfino Clemente VIII avea stimato le
qualità del Campanella!
(516) Tutte le suddette particolarità emergono da' Carteggi e
dagli Avvisi del tempo; l'ultima poi, la più scellerata, è venuta
fuori co' documenti raccolti dal Bazzoni pel suo bel lavoro
intitolato "Un Nunzio straordinario alla Corte di Francia nel
secolo 17°", pubblicato nella Rivista Europea 2.° semestre 1880.
Notevole riesce l'industria del Mazarini per adempiere alla
commissione ricevuta; si serve del noto P.e Giuseppe e vuol
servirsi anche del Card.l Della Valletta, ma attesta che il
Campanella parla molto bene del Card.l Barberini non che del Papa
(ecco una difficoltà). Più tardi fa sapere che ha parlato
risentitamente al Campanella perché vuole stampare alcune opere
avendone ottenuta la permissione dalla Sorbona; vuole stampare
l'Ateismo e vi si riscalda, "per qualche profitto che ne caverà";
e malvolentieri si lascia persuadere che non stampi, "parendogli
che l'opporvisi sia togliergli la gloria" (cose da nulla). Con ciò
fa anche sapere che il Richelieu lo stima un chiacchierone, e che
veramente il giudizio suo non corrisponde all'ingegno. Senza
dubbio in quelle condizioni l'avrebbe perduto ognuno il giudizio;
ma che dire poi del giudizio di chi ha cantato inni di gloria a
Papa Urbano ed a' Barberini a proposito del Campanella? Ed oggi
c'è da temere per soprappiù, che debba il filosofo scontare il
risentimento di coloro i quali non sono riusciti a capirlo.