Quaderno 12

Nota di lettura

Il ruolo degli intellettuali e la formazione delle coscienze


Marx è stato tra i primi a rilevare e  a valorizzare il significato epocale della divisione tra il lavoro manuale e quello intellettuale, intervenuto in seguito alla rivoluzione neolitica, che, con l'avvento dell'agricoltura e la scoperta della scrittura, ha contrassegnato l'avvio della storia e la definizione delle classi sociali.

Non è affatto azzardato identificare il comunismo con il superamento definitivo di tale divisione. Se, sotto il profilo economico, esso implica la riappropriazione sociale del lavoro morto - dell'apparato tecnologico che permette lo sfruttamento della manodopera -, sotto il profilo culturale, tenendo conto che per Marx la cultura fa parte della ricchezza sociale, esso non significa solo l'accesso dei ceti subordinati alla cultura alta, la cui espressione più elevata, secondo Gramsci, è la filosofia marxista, ma anche la riacquisizione, da parte degli intellettuali, di un contatto con il mondo sociale e con la vita quotidiana meno astratto.

L'accesso alla cultura alta da parte dei ceti subordinati è, però, preclusa all'epoca, da un ceto intellettuale che oscilla tra il liberalesimo e il fascismo, e non manifesta alcun interesse per la crescita culturale di quei ceti, o la manifesta solo nella misura in cui essa - attraverso l' alfabetizzazione di massa prodotta dallo Stato unitario o attraverso l'educazione fascista incentrata sulla Riforma Gentile - può promuovere l'adesione e l'integrazione nel sistema socio-economico e ideologico.

In rapporto a questa situazione, Gramsci si rende perfettamente conto che, per portare avanti il progetto marxista, occorre l'impegno da parte di un certo numero di intellettuali che avvertano l'esigenza di favorire la diffusione del patrimonio di cui sono depositari affinché esso funzioni non già più come un fattore di discriminazione bensì di progresso collettivo. Ed è ovvio che tali intellettuali, nonostante le diverse specializzazioni, debbano operare all'interno della cornice filosofica marxista, l'unica che dà alla cultura un significato non meramente intellettualistico o idealistico.

Del progetto gramsciano  si è fatto carico nel secondo dopoguerra il PCI con risultati sulla carta eccellenti. Di fatto negli anni '70 gli intellettuali che hanno aderito al partito sono divenuti maggioritari rispetto a quelli moderati e conservatori (fino al punto di indurre qualcuno a parlare di una "dittatura" della cultura marxista). Ciò ha inciso senz'altro (in quale misura è arduo quantificare) sulla crescita elettorale del PCI, che, comunque, non ha mai superato la soglia di un terzo della popolazione italiana.

L'arretramento del PCI, che ha preceduto la sua dissoluzione, intervenuto con l'avvento del neoliberismo, ha posto poi di fronte ad una verità amara: quella per cui, nonostante l'attività degli intellettuali "organici" al progetto della rivoluzione comunista, il 60% della popolazione italiana è attestata ideologicamente e culturalmente su posizioni di centro e di destra.

Il tentativo di mettere in atto il progetto di Gramsci da parte del PCI  si può ritenere dunque fallito. Lo scarto tra intellettuali e cultura popolare o media (piccolo-borghese) rimane rilevante.

Tra le ragioni atte a permettere di comprendere tale scarto occorre considerare anzitutto la difficoltà degli intellettuali marxisti di adottare un linguaggio accessibile ai più. Basta fare un esempio al riguardo per rendersene pienamente conto. L'Enciclopedia Einaudi, sulla carta, si prefiggeva di definire la mappa del nuovo "sapere" di cui parla spesso Gramsci: un sapere a tutto campo elaborato nella cornice della filosofia marxista. L'esito dell'impresa sono stati venti volumi difficili da leggere anche per gli addetti ai lavori.

Da questo esempio si potrebbe ricavare la conclusione che, per essere intellettuali "organici", non basta certo aderire alla filosofia marxista o politicamente al partito che si ispira ad essa; occorre sperimentare, creare e utilizzare un linguaggio divulgativo che sia, al tempo stesso, chiaro e rigoroso: un obiettivo che sembra ancora oggi arduo da raggiungere.

Posto che esso fosse raggiunto, si pone poi il problema della sua fruizione. Per promuovere un salto di qualità culturale per cui uno o più soggetti riescono, almeno in qualche misura, ad affrancarsi dal senso comune, occorre che essi siano disponibili ad impegnarsi. Senza una partecipazione attiva, il nuovo "sapere" rimane depositato nei libri o nelle riviste.

Purtroppo, questa partecipazione sembra essersi ridotta con l'avvento dei mass media, e della televisione in particolare. Se si considera il ruolo che questo nuovo mezzo ha svolto a livello culturale, si può tranquillamente dire che esso ha contribuito senz'altro all'innalzamento della cultura media della popolazione, ma in stretto riferimento alla cultura borghese: ha prodotto, insomma, nel bene e nel male, l'omologazione culturale di una quota rilevante di cittadini (i cosiddetti moderati) in rapporto ad un sistema di valori che non è in toto negativo, ma di certo tende a conservare l'esistente più che a cambiarlo.

Si danno motivi insomma per ritenere che lo scarto di cui si è parlato, anche se non fa più solo riferimento alla divisione del lavoro intellettuale da quello manuale bensì ad una visione del mondo aperta all'universale o schiacciata sul particolare, non possa essere facilmente colmato.

Occorre, però, chiedersi se il fallimento del progetto gramsciano non sia da ricondurre al fatto che esso è stato portato avanti prevalentemente in rapporto alla classe elettorale degli adulti, nel tentativo di promuovere la fuoriuscita almeno di una parte di essi dalla gabbia del senso comune borghese.

Per i motivi di cui si è discusso in precedenza - il peso delle tradizioni culturali, il conformismo, il disimpegno individuale, ecc.-, la coscienza individuale va incontro, in fase evolutiva, ad un processo di "normalizzazione" che tende a cristallizzarla non appena essa giunge ad un'integrazione adattiva rispetto al sistema sociale. Posta una strutturazione sostanzialmente adattiva, riattivare le potenzialità plastiche del cervello umano e promuovere una diversa e nuova visione del mondo è oltremodo difficile.

Ciò significa che la lotta per una nuova egemonia può realizzarsi solo nel corso delle fasi evolutive della personalità.

Non è un caso che Gramsci abbia raccolto nello stesso Quaderno le riflessioni sugli intellettuali e quelle sulla scuola e la formazione. Riflessioni datate ovviamente perché fanno riferimento ad un contesto storico nel quale si era già avviata l'esperienza dell'alfabetizzazione di massa e l'interiorizzazione dell'etica del lavoro, ma sulla base di differenze sociali che comportavano una netta scissione tra un tragitto, sostanzialmente umanistico, destinato a produrre il ceto dirigenziale, e un altro orientato verso l'apprendimento professionale, verso cioè l'acquisizione di competenze tecniche specifiche.

Scuola oligarchica e scuola di massa, insomma.

A questa separazione, Gramsci contrappone il modello di una scuola unitaria, che dia a tutti una formazione di base umanistica e scientifica al di là della quale le attitudini individuali potranno dispiegarsi sul terreno della specializzazione.

Un modello del genere rimane ancora oggi come un riferimento obbligato per chiunque ritenga che l'ingente patrimonio di sapere che l'umanità ha accumulato nel corso della storia debba essere utilizzato pienamente a livello scolastico al fine di promuovere la formazione di coscienze critiche e, dunque, universali.

Se si prescinde, però, dall'utopia di un mondo nel quale tutti i cittadini siano intellettuali enciclopedici, si tratta di capire come un modello del genere possa realizzarsi.

Al riguardo non si può dire molto. Sicuramente il modello gramsciano di una scuola unitaria conserva sul piano teorico una sua validità. Per renderlo, se non realizzabile, almeno potenzialmente attuale, occorre però aggiungere alcune considerazioni.

La prima, intrinseca al pensiero gramsciano, è che la cultura ha due potenzialità: essa può di sicuro promuovere lo sviluppo di una personalità nella direzione di una coscienza universale, ma può, nondimeno, e accade più spesso, alimentare anche una chiusura individualistica, narcisistica ed elitaria.

Questo pericolo, peraltro, è massimamente elevato in rapporto al patrimonio umanistico, che, nonostante le sue potenzialità rivoluzionarie, può essere facilmente utilizzato per produrre tale chiusura.

Prova di ciò è che ancora oggi in Italia molte persone pensano che il liceo classico sia in assoluto la scuola più completa e formativa.

Tale pericolo potrebbe essere scongiurato dall'inserimento, nel tragitto formativo, di due saperi che hanno ormai assunto una straordinaria importanza, ma non fanno parte dei programmi ministeriali: l'Economia, per un verso, e le Scienze umane e sociali (neurobiologia, psicologia evolutiva, psicoanalisi, sociologia, antropologia culturale, ecc) per un altro.

Non avrebbe senso progettare una scuola marxista. A mio avviso, però, l'integrazione del sapere umanistico con lo studio critico dell'Economia e delle Scienze umane e sociali porterebbe "naturalmente" alla formazione di coscienze critiche; avvierebbe, insomma, il superamento della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.