Antonio Gramsci

Sotto la mole 1916-1920

Einaudi, 1960

INDICE

Capodanno

Il nuovo collare

I denari sono pochi

L'esclusione

E lasciateli divertire

Umiltà

Intellettualismo

Il servizio perfetto

Significazioni

I moschettieri in convento

Elogio della pochade

Ragion di stato

Asineto

Soltanto i droghieri

Dai macellai a Polledro

Lo champagne

Risposta ad un anonimo

«L'erbô d'la libertà»

«Aria ai monti » in carattere

Il porcellino di terra

«Aria ai monti» prega

Il mantenuto

Piccola carogna

Temi per una maestra comunale

Arnaldo o le vibrazioni d'amore

Saverio Grosso

La patria al Maffei

Da Giovannino

Il pudore

Scorrettezza

La buona stampa

In difesa di un ladro

La riforma della polizia

La conferenza e la verità

Deformazioni

Cani arrabbiati

Il cannone di Orban

I trombettieri

Sotto la neve

Il cittadino onorario

Le buone abitudini

Sic vos non vobis

Commedie educative

Il gerente responsabile

Una forma di plusvalore

L'avvocato

Stregoneria

Innocenza

Ridicolo e comico

Nenie di carnevale

Catonismo

Giocattoli

Piccolo mondo antico

Oro, argento e rame

Aggressioni personali

Chi piú ha ucciso

La lampada di Bistolfi

La maschera

Anfibio

Piccole ironie

La corte dei miracoli

Una personalità

Il germanofilo contrito

Mentalità patriarcale

Storia antica e democrazia

Guardarsi dal manicure!

Acque passate

Sobillatori

L'esercente degli ubriachi

Cristianissimi

Il chierichino

Borini e il 606

La vita e la morte

Sofismi curialeschi

Giovani decrepiti

Quistione di fosforo

Fede, speranza, carità

Dall'arcadia alla pedagogia

L'assemblea dei pescicani

Prodotti nazionali

Voci d'oltretomba

Guerra di talpe

Gli specialisti della moralità

Ait latro ad latronem

Il cittadino che protesta

I moventi e Coppoletto

Giovedì santo

Bevione in bestia

Il mito degli iperborei

«Aria ai monti» über alles

Atlanti e storie

P.O.B

Dio affittacamere

I re immortali

Fuori dai cardini

Leggi economiche

Lettera ad un pedagogo

Omaggio a Toscanini

La nostra decadenza

Maggio sei tu…

Tabú

Impaludamento

Si domandano lumi

Per un mandarino dell'università

L'aio senza imbarazzi

Vanità, virtú cardinale

Audacia e fede

Gli scopritori

Attorno ad una veste rossa

Giochi di parole

La novella di S. Antonio

Seconda lettera al nostro pedagogo

Il Sacro Cuore di Gesú

Le smorfie della facile ironia

Insania e intemperanza

Ventitre ore

Film «municipale»

I blocchi

Elogio d'un povero delfino

Elogio del cazzotto

La lapide al poliziotto

Sciocchezzaio

Le inferriate della scienza

Risposta collettiva

Un'incognita

L'inno delle nazioni

La Consolata e i cattolici

Teodoro e socio

La matrice

Historia magistra vitae

La divina favella

La campana

Il profumo e il decotto

Una lega economica comune

Coscienza tributaria

Sessantaquattro e tredici

Bollettino del fronte interno

Il silenzio è d'oro...

Il destino

L'intervento di Crescentino

Vecchiezze

14 luglio

La patria giapponese

Pettegolezzi

Il buon diritto

La grande illusione

Giuda e Petrolini

I diritti della toga

L'amuleto

La verità e l'onestà

Il matto

L'appello ai pargoli

Bombance

Pregiudicati

Veterinario in film

Heu pudor!

Dimostrazioni

Il codice di Pralungo

Scene della Gran Via

Lotta di classe e guerra

Nestore e la cicala

Diritto comune

Il consumo delle bandiere

L'indifferenza

La storia

Buscaje

Sant'Abbondio

Ser Ciappelletto

Carneade

I soliti malintenzionati

La scuola all'officina

Due pere…

Le ipotesi e gli individui

Coincidenze e conseguenze

Inviti al risparmio

Unità

I commissari cavalieri

Bandiera greca

Il calmiere alla questura

Zucconeide

La pentola bolle

Faracovi

Stati d'animo

L'ordine del crisantemo

L'idea territoriale

L'uomo che aspetta qualcosa

Bianco e nero

Il ventre

Il prossimo numero

Emicrania

Premio per la vita

Simplicitas

Il dovere dell'on. Quindicilire

Breviario per laici

I meriti di Carneade

La casa mutilata

Preoccupazioni

La saggezza dei popoli

Periferici

Figlio di poveri...

Piccoli proletari

La maschera e il volto

Cadaveri e idioti

Prometeo monopolizzato

Le corna della lumaca

Il privilegio del diabete

Fra me e me

Profanazioni

Rivolgersi alla portinaia

Pastorellerie

La tegola

Una santa

Riapertura d'esercizio

Il Golia, o dello spirito

Granelli

«Umanitari»

L'incettatore

Serietà

Letteratura italica: 1) La prosa

Letteratura italica: 2) La poesia

I cattolici sono incontentabili

È troppo, è troppo...

Il granchio e la marmotta

Sosia

Vinaj Einaudi

L'uomo piú libero

Erosioni

Il progresso nello stradario

Il bozzacchione

De profundis

Il focolare

Don Ferrante

Piccole cose

L'ora dei popoli

La santa

Qualche cosa

Mosconi

Bilancio

La calunnia

Il regolo lesbio

Demagogia

La tessera epistolare

Anime in pena

La scimmia giacobina

Ghirigori

Si domanda la censura

La vittima del giorno

Storia d'un uomo che ha battuto il naso contro un lampione

La storia dei cerini

Grandolini

Daneo

Il triangolo e la croce

Propaganda

L'ultimo tradimento

Cronachetta

La quinta arma: il menú

A me stesso

Rispetto dei documenti

Corrispondenza commerciale

I surrogati

Diamantino

Spolvero

Manifestazioni politiche

La barba e la fascia

Lotterie

La fortuna delle parole

Buona volontà

Spirito associativo

L'apocalisse

Volgarità

Si esagera

Scienza...

Modernità

Delitto e castigo

Piove, governo ladro!

Elogio dell'ingrassatore di porci

Commentari di una giornata

Elogio d'un ladro

Anticlericalismo sul serio

Storia di veterani e di esercenti

La retta ed i minaretti

I ritardatari

La mente e le braccia

Azione sociale

La scuola e il giardino

Il cieco Tiresia

Disciplina

Le conseguenze

Truffatori

Cocaina

Nazionalismo economico

Non indurre in tentazione

Il tabacco

I giorni

La libertà di divertirsi

Merce

La scuola italiana

Grandezze

Che ne sarà del muletto?

La passività

La norma dell'azione

Elegia per il color rosso

S. Pietro o la Bohème?

Vita nuova!

Il disordine

Prete Pero

Disagio

L'idea liberale

Il regime dei pascià

Il morbo spagnolo

Il bravo

Un dramma

Consulta araldica

Infortunio sul lavoro

Il «foot-ball » e lo scopone

La gogna

Il passivo

Le cause della guerra

La Checca

Bisticci

Slealtà

Disillusioni e speranze

Furore dionisiaco

Bellu schesc' e dottori!

Le vie della Divina Provvidenza

Colei che non si deve amare

Constatazioni

La censura

«Azione diretta»

Proposta ai capocomici

Terzo Piedigrotta

Balocchismo

Latin sangue gentile

Lazzaronismo

Il giornale-merce

Il disgusto

Grammantieri e Chiarla

Crisi... idealistica

Un Soviet locale

Covre

Bilanci rossi

Profumi di rose

Il bordello bolscevico

Vigliaccamente

La Consolata e il tranvai

Valori

Burocrazia!

Odilio

Un fungo porcino

La guerra continua, signori...

Gli spezzatori di comizi

Nel «tempio» della Sapienza

Cronache, storie e false storie

Dove si legge come qualmente in Russia anche i cavalli partecipino del fascino slavo

Un ladro ammazzato

Una riserva mentale

Socialisti e cristiani

Un eroe

Le opinioni del questore

C'era una volta…

Indice dei nomi

 

CAPODANNO

Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa dei cielo, sento che per me è capodanno.

Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un'azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

Dicono che la cronologia è l'ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch'essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell'età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 o il 1192 siano come montagne che l'umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell'animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.

Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell'immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno piú nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d'inventario dai nostri sciocchissimi antenati.

(1° gennaio 1916).

IL NUOVO COLLARE

Beh! Contenti tutti, contento anch'io. Il nostro concittadino adottivo, illustre fra gli illustri, è stato insignito del collare dell'Annunziata, è diventato cugino del re come Giolitti. Ho letto i commenti dei giornali. Pare che nessuna delle grandi onorificenze abbia raccolto tante approvazioni. Segno che l'on. Boselli* se lo meritava — il collare.

Io compio uno di quegli sforzi di obiettività che di solito mi abbisogna ogniqualvolta guardo fuori della nostra cerchia, e considerando i meriti borghesi degli altri incollarati — dallo Spingardi, vituperato per via della neutralità, al Marcora in odore di massonismo e che deve molto, se non tutto, al Giolitti — devo convincermi che l'on. Boselli è tra i piú meritevoli della chincaglieria. E poi, egli è uno di quegli uomini rari per i quali una certa mitezza innata non è sinonimo di scemenza.

Mi par di vederlo, di udirlo al consiglio provinciale, dove in una delle sedute estive pronunciò la ripetizione del discorso che alla Camera — nella seduta celebre della guerra — aveva tanto commosso. Fra i meriti grandi dell'on. Boselli c'è — secondo un giornale non salandrinesco, quindi non boselliano — la sua eloquenza. Verissimo! Dalla memorabile seduta del consiglio provinciale io riportai un'indimenticabile filza di «nui» e di «vui» che, chi sa mai per quale stranezza psicologica, mi dànno tuttora una tenue sensazione di cose muffose. Stramberie!

Ma io debbo notare che l'on. Salandra sollecitando dall'«Augusto sovrano» il collare di Amedeo VI, fregiato dell'immagine sfuggente della santissima vergine assunta, ha voluto premiare chi, almeno con un discorso, volle essere il degno «rappresentante del consenso popolare all'impresa nazionale». Il cittadino di Troia ha, cioè, premiato il sostenitore della sua tesi e della sua situazione politica. In altri tempi di minor insincerità il premio potrebbe avere un'altra definizione.

Gli altri meriti boselliani passano in seconda linea nelle apologie dei giornali. Vedo che il giornale nazionalista scrive di riallacciature boselliane «della realtà dell'oggi alle memorie della giovinezza» del nuovo incollarato.

È troppo! L'on. Boselli non può vedere la guerra «nostra» dal punto di vista del giornale romano. Guerra nazionale ed imperiale, questa. D'accordo. Ma l'on. Salandra è prudente e il secondo aggettivo lo evita, mentre l'on. Boselli con esso non può dare la summenzionata sensazione di muffa, perché con esso non c'è da mutare nella pronuncia l'o con l'u. È soprattutto per questa mutazione che io — iconoclasta con pochi anni — sono pure contentone che l'on. Boselli sia diventato cugino del re...

(2 gennaio 1916).

* Bosèlli, Paolo. - Uomo politico italiano (Savona 1838 - Roma 1932); dal 1871 titolare a Roma della prima cattedra di scienza delle finanze, iniziò nel 1870 la carriera di deputato durata fino al 1921. Appartenne sempre al centro-destra, più volte ministro con Crispi, con Pelloux, con Sonnino, stabilì come ministro del Tesoro (1899-1900) il saldo ordinamento della Banca d'Italia. Presidente della Dante Alighieri (1907), favorevole all'intervento nella prima guerra mondiale, fu alla Camera (maggio 1915) l'entusiasta relatore del progetto di legge per i pieni poteri del gabinetto Salandra. Incaricato, alla caduta di Salandra, di formare un ministero a larga base nazionale (18 giugno 1916), fallì nel suo intento e, dopo la disfatta di Caporetto, si dovette dimettere (25 ott. 1917). Collare dell'Annunziata (1916), senatore (1921), fu in senato (marzo 1929) relatore del progetto per l'approvazione dei Patti Lateranensi. Cultore di studî storici, creò a Roma il Museo del risorgimento italiano e fu presidente dell'Istituto storico italiano. Fu socio nazionale dei Lincei (1918).

I DENARI SONO POCHI

Come diceva Fanfulla a Barletta. I denari che Torino ha dato per la guerra son pochi. Ma guai a dirlo. I giornali cittadini salterebbero su subito a protestare e, con uno di quegli sgambetti contabili in cui sono tanto abili i giolittiani e gli altri, dimostrerebbero in modo lampante che Torino, in rapporto alla sua potenzialità economica, ha anche fatto troppo. Ma è inutile; i denari son pochi. Si sente che in Torino manca quello slancio, quell'amore appassionato, quella fede in un'idea che... fa vuotare i portafogli, che sveglia la facoltà inventiva e fa trovare il mezzo piú adeguato per rendere piú fruttifera che sia possibile un'iniziativa. Cosa si è fatto dalla nostra patriottica borghesia? Si è scocciato tremendamente il prossimo con uno stillicidio di signorine armate di fiori e di sorrisi piú o meno allettanti, si sono tirati fuori i piú frusti ferravecchi dell'oratoria di parata, si sono dati spettacoli che hanno fatto sbadigliare i pochi volenterosi, ma è stato inutile; i denari sono rimasti pochi, pochi... Solo la passione può suggerire certe cose. Può far capire che se si vuol far quattrini è necessario trovare qualcosa di nuovo, che i soliti impresari non possono offrire; che il mezzo piú adatto non è quello di fare degli spettacoli di beneficenza una superfetazione dei soliti spettacoli quotidiani, perché altrimenti gli industriali del divertimento, vedendosi fare la concorrenza, e in modo, per di piú, idiota, protestano e borbottano. Come è successo l'altro giorno a Torino. Il 3 doveva tenersi al Salone Ghersi una delle solite fiere, con esposizione dei versi di Arturo Foà, di signorine che avrebbero prestato gentilmente la loro opera, di film deamicisiane, e con la partecipazione di Dina Galli e di Amerigo Guasti. Si capisce che era su questi due ultimi che si contava per l'incasso. Ma all'ultimo momento patatrac: la società Suvini Zerboni pone il suo veto, e proibisce «in modo assoluto agli attori ed alle attrici di recitare fuori dei teatri». Ed è naturale ed industrialmente logico. Come era naturale e logico che a Milano, invece, gli attori e le attrici abbiano potuto dare la loro opera per una serata di beneficenza del genere, ma non della specie. Perché a Milano i giornalisti avevano organizzato uno spettacolo che nessun impresario avrebbe potuto dare, e che fruttò 13000 lire. A Torino si voleva semplicemente sfruttare il nome e la popolarità di due impiegati della ditta, e questa infine non ha accettato; e per incassare 13000 lire chissà quanti Fradeletto e quanti Doria dovranno ancora imbonire il pubblico.

Sicché... i denari rimangono pochi. I denari non bastano. E nessuno sa inventare il modo migliore per farli sborsare ai torinesi che pure tutte le sere affollano i ritrovi pubblici e per divertirsi ne spendono di denari, oh se ne spendono!

(6 gennaio 1916).

L'ESCLUSIONE

L'idiota con decoro, il celebre... «aria ai monti»*, che reca ancora al petto, celate nella stoffa grigioverde, le decorazioni germaniche ed austriache, doveva pure interloquire. A Torino c'è un Museo del Risorgimento italiano; c'è una commissione municipale di vigilanza. Il sindaco non ha mai ritenuto logico che di questa commissione facesse parte un rappresentante della minoranza socialista come per le altre commissioni municipali.

La cosa importa a me meno di un fico secco. Già, intanto, in fatto di musei io mi sento piuttosto futurista. Ma i miei amici che credono ancora essere la storia maestra della vita, vorrebbero una rappresentanza anche in quella commissione per impedire, non foss'altro, certe ingiustizie storiche e che quest'istituzione divenga anche uno strumento di partito e di partigianerie. Ebbene, l'idiota con decoro che vende il vermouth e si picca di storiografia giustifica l'esclusione in un modo che irrita i nostri amici, ma che a me piace assai. Dice l'idiota con decoro: «Voi socialisti negate la monarchia; la monarchia ha fatto l'Italia; la storia d'Italia si fonda nella storia della monarchia. Ergo: i socialisti non devono mettere naso nel Museo del Risorgimento».

Giustissimo! «Aria ai monti»... con o senza decorazioni austro-germaniche, ha ragione. Nessun discorso è piú significante di quello che nella seduta consiliare di ieri ha esibito alla nostra ilarità.

Per «aria ai monti» Garibaldi, Mazzini, il popolo tutto, quello delle cinque giornate, come quello delle dieci di Brescia, leonessa d'Italia, passano in sott'ordine.

La monarchia soprattutto [otto righe censurate].

(7 gennaio 1916).

* Róssi di Montelera, Teofilo, conte. - Uomo politico (Chieri 1865 - Torino 1927). Industriale, sindaco di Torino, deputato (1897-1909), senatore (dal 1909), fu sottosegretario ai Lavori pubblici con Giolitti (1909), ministro dell'Industria e Commercio nei due gabinetti Facta (1922). Nella crisi dell'ottobre 1922 fu favorevole a una soluzione filofascista, e conservò il portafoglio dell'Industria e Commercio anche nel gabinetto Mussolini fino al 5 luglio 1923, quando il ministero fu soppresso e inglobato nel nuovo ministero dell'Economia nazionale.

E LASCIATELI DIVERTIRE

I proprietari dei padiglioni per i pubblici spettacoli in piazza Vittorio hanno indirizzato al sindaco un memoriale, del quale non si sa se ammirare di piú lo spirito di civismo o la logica della grande tradizione liberale italiana. Sicuro, i proprietari ecc. hanno dato una lezione di liberalismo al giornale nel quale aleggia ancora, specialmente per quanto riguarda il formato e la distribuzione dei vari caratteri tipografici, lo spirito di Giovanni Botero.

Essi dicono: se a Torino anche durante questo carnevale, c'è della gente che vuole divertirsi e passare allegramente quei dati giorni del calendario destinati da tempo immemorabile alle grandi mangiate e alle grandi bevute, perché l'autorità costituita dovrebbe intervenire e impedire questa libera manifestazione della volontà nazionale?

D'altronde, se il pubblico vorrà per quest'anno rimanersene a casa e destinare il superfluo del bilancio domestico o al prestito nazionale, o alla Croce Rossa, o a qualsiasi altra istituzione di beneficenza bellica, a perderci saremo noialtri che ci saremo sacrificati per dimostrare ai tedeschi che in Italia l'allegria non manca anche in tempo di guerra, e che noi italiani siamo superiori anche a certi piccoli incidenti che sono la guerra europea e la morte all'ordine del giorno e della notte, come magnificamente ha sostenuto il consigliere nonché socialista dott. Aroldo Norlenghi.

Noi non possiamo contraddire gli egregi proprietari ecc., tanto piú che siamo persuasi che il loro civismo e il loro spirito di sacrificio non andranno delusi. La prima impressione che i soldati reduci dal fronte manifestano venendo a Torino è questa: ma si sa a Torino che c'è in Italia lo stato di guerra guerreggiata, e che al confine si muore e ci si sacrifica ora per ora in sofferenze indicibili, in martirî inumani? In verità, a Torino, chi se ne accorge chiude il proprio dolore dietro il chiavistello della propria porta di casa, e spasima nel proprio interno monologando. La città continua olimpicamente nella sua vita tradizionale: i ritrovi sono frequentati come mai non furono, le strade sono affollate allo stesso modo, la borghesia guadagna dalla guerra come mai avrebbe sperato, e vuol spendere, naturalmente: in breve volgere di tempo sono state aperte due nuove elegantissime confetterie e un salone cinematografico quale non ce ne deve essere molti in Europa. Pasquariello e Petrolini furoreggiano; Dina Galli vede le pochades del suo repertorio far affollare il teatro di piazza Solferino.

Sí, è vero, si vedono in giro meno giovani, incominciano ad apparire dei soldati, che via! non sono in istato normale. Ma non ha detto il prof. Loria che tanto tutto nella vita è dolore? E dunque, noiosissimi seccatori, lasciate che i torinesi si divertano, lasciate che in piazza Vittorio riappaiano le giostre e le pulci ammaestrate e la bella Virginia nel bagno. I tedeschi sapranno che almeno a Torino la guerra non ha portato nessuno squilibrio, e l'onore d'Italia sarà salvo.

(9 gennaio 1916).

UMILTÀ

Non so quanti torinesi si siano domandati il perché, mentre esistono e funzionano le linee tranviarie n. 12 e 14, non esista e funzioni una linea n. 13. Eppure sarebbe interessante conoscere a chi sia dovuto il molto intelligente provvedimento, che deve aver salvato i torinesi da chi sa quali orribili disastri, e gli uffici dello stato civile da chi sa quale aumento di lavoro per la recrudescenza di mortalità che un tram numero 13 avrebbe provocato. È un vero peccato. Proprio l'assessore dello stato civile, l'illustre romanziere Mario Leoni, avrebbe avuto l'occasione di scrivere un nuovo capolavoro ed oscurare la fama del suo maestro Saverio di Montépin, che ha scritto solo Il fiacre n. 13. Per me il fatto è occasione di umiltà. Ho riso tante volte sulle superstizioni meridionali, ho, da buon settentrionale, sicuro del fatto mio, manifestato tante volte il senso di superiorità che sentivo su tutta quella gente del sud arretrata, senza molla di progresso, che via! vedere che anche a Torino si ha paura del 13, non può che umiliarmi. O non avevano i seguaci di certe teorie antropologiche, che ebbero il loro focolaio d'infezione proprio a Torino, dimostrato ferocemente che la superstizione era appunto una delle prove dell'inferiorità irriducibile dei meridionali, che mai avrebbero potuto aspirare a raggiungere l'alto grado di civiltà raggiunta nel nord? Eppure nel Mezzogiorno erano nati uomini come Vico e compagnia. Ma vedete? Si scoprirà che chi ha deciso di salvare le strade di Torino dalle stragi del n. 13 è un siciliano, o almeno un napoletano, e che il buon nome e la superiorità dei nordici non ne viene menomata. Veramente meridionale non è l'assessore delle aziende municipalizzate; e neppure è meridionale l'allegro Falstaff che capeggia la giunta, il dio Gambrinus del vermouth che esilara col suo sorriso di elefantiaco della beozia le radunate dei nostri padri coscritti.

Ma è probabile che tutta questa brava gente che fa l'aria sorniona quando si tratta di giudicare chi non capisce, abbia appeso alla catenella dell'orologio il cornetto preservatore. Perché la iettatura non c'è, ma non si sa mai, e anche nel nord una disgrazia è presto successa...

(10 gennaio 1916).

INTELLETTUALISMO

Questo compito di dire sul muso a tanta illustre gente dure ed amare verità, di sorpassare il coro delle voci plaudenti con la nostra, indicante senza tregua contraddizioni e sciocchezze, è generalmente grato al nostro spirito; non oggi, che della intellettualità di Ernesto Bertarelli non ci aspettavamo un cosí totale naufragio. Insistiamo, anche se lo sforzo è vano, perché se da codesto torrente di parole, da codesto flusso di vecchi e falsi concetti non ci salva la guerra, maestra di austerità, quale scampo può esserci?

«Ai tedeschi la natura ha negato le belle donne, perciò essi violentano la bellezza...» Testuale!

La sala è molto calda, l'oratoria non eccessivamente affascinante, la frase risuona e sembra che l'onda declamatoria svanendo susciti agli occhi semichiusi una teoria di immagini. Oh, dolci fanciulle dai capelli d'oro, dai profondi occhi cerulei, incedenti nelle vaste solenni navate delle cattedrali gotiche che al ciel lunghe levando marmoree braccia pregano il Signore...

La natura ha negato...? Ma nella scienza positiva che è la natura? Bellezza? Ma se al Bertarelli non piacciono le donne tedesche e preferisce le giapponesi, è proprio stabilito che ciò sia obbligatorio per ogni suddito della quadruplice?

«Roma legava il vinto cosí da farlo solidale nel mese e fratello nell'anno...» Testuale!

Ma, per Iddio, Arminio difendeva la sua patria che il tallone romano voleva schiacciare, e Vercingetorige, seguente incatenato il carro dei trionfatore, è piú grande, o signori avvocati del Belgio, di Cesare rosso del sangue di migliaia di Galli, incendiatore di città, devastatore di intiere regioni. Avesse almeno insegnato Corradino al suo allievo del liceo Gioberti che occorsero diecine di anni e battaglie ed assedi e carneficine per togliere ai Belgi la loro libertà anche quando gli invasori furono i Romani!

E poiché cosi si fa la scienza e la storia, un qualsiasi rappresentante della élite intellettuale e colta che gremiva il salone Ghersi, può gridare: «Il Manouba ce l'hanno mandato i tedeschi!»

Esco, e poiché merito una ricompensa per la fatica compiuta in omaggio al dovere giornalistico, posso leggere in Romain Rolland:

L'intellettuale vive troppo nel regno delle ombre, nel regno delle idee... Fate che sopraggiunga una passione collettiva, l'intellettuale si accecherà completamente; la passione si adagerà nella concezione che può meglio servirle, e le trasfonderà il suo sangue: e quella la magnificherà. E non rimane piú nell'uomo che un fantasma del suo spirito nel quale sono associati il delirio del suo cuore e quello del suo pensiero. È perciò che gli intellettuali, nella crisi attuale, non solamente sono stati piú degli altri esposti al contagio bellico, ma hanno contribuito prodigiosamente a diffonderlo. Aggiungo (è la loro punizione) che essi ne sono le piú grandi vittime, poiché mentre gli uomini comuni esposti all'azione incessante della loro esperienza e della vita d'ogni giorno, si cambiano con esso e lo fanno senza rimorsi, gli intellettuali sono legati alla logica del loro pensiero, e ognuno dei propri scritti è per loro un legame di piú...

Il vero intellettuale., il vero intelligente, è chi non fa di sé e del proprio ideale il centro dell'universo: chi, guardandosi attorno, vede, come nel cielo i fiotti della Via Lattea, i milioni di piccole fiamme che scorrono con la sua, e non cerca di assorbirle né di imporre loro la sua strada, ma di compenetrare religiosamente della necessità di tutte, della sorgente comune del fuoco che le alimenta.

Ma ce ne sono di veri intellettuali mentre la guerra dura?

Non è forse Romain Rolland un solitario, un esiliato, un calunniato?

Ernesto Bertarelli non vorrà rispondere...

(11 gennaio 1916).

IL SERVIZIO PERFETTO

Ebbene, dopo l'imbiancatura di ieri, vediamo di essere piú bravi figliuoli. Parlo di cose serie.

Sono completamente d'accordo col prof. L. Einaudi. Il servizio postale è idealmente il piú perfetto, è il servizio pubblico per eccellenza. Sembra anticipare il tempo beato in cui basterà premere un tasto determinato per avere sul momento l'oggetto che si desidera. Il servizio postale è economicamente e liberamente ideale, perché è pagato volta a volta da chi se ne serve e non è fatto andare avanti con le entrate generali dello Stato. Certo l'utilità di certe istituzioni giustifica i sacrifizi che tutti fanno per mantenerle, sacrifizi anche di quelli che delle istituzioni non si giovano, ma non si può non riconoscere che nulla è piú perfetto e piú giusto del sistema postale. Il francobollo è come il tasto di cui mi auguravo l'esistenza, che fa viaggiare mezzo orbe a una vostra missiva, che mette in movimento tanta gente e vi congiunge idealmente con mondi lontani d'amicizia, parentele, affari.

Ma tutto ciò quando le cose vanno bene. Perché la perfezione ha il suo doppio taglio. E su questo binario di idee m'ha precisamente posto una lettera raccomandata che incomincia: «Signore, è almeno la sesta volta che vi scrivo...» Casco dalle nuvole: la sesta volta signore..., è il mio caro compagno ed amico del Circolo di... ecc. che mi chiama signore e mi dà del voi come quando si è in collera. Ma via: sei lettere perdute non sono bazzecole, e il compagno ha ragione. Ha ragione? Ma contro chi prendersela? Perché la perfezione non lascia appiglio alla protesta. Partono da un punto qualsiasi della città delle lettere al mio indirizzo: una, nessuna risposta; un'altra, pazienza, quel ragazzo è cosí occupato, cosí sbadato anche, via, sarà per un'altra volta; una terza, nervosismo, irritazione incipiente, prime parole di ingrato, senza cuore, si insinua il sospetto; quarta, quinta lettera furiose, e finalmente con raccomandazione, il «signore, voi,» e il resto. E mentre tutto questo dramma... che mi interessava cosí da vicino si svolgeva, io continuavo a vivere senza sospettare la sua possibilità e senza poter fare nulla per evitarlo, per giustificarmi, per non farmi chiamare «signore» e «voi».

Ma ora è fatta, un'altra illusione è caduta, un'altra foglia si è staccata dall'albero delle cognizioni acquistate. Non che non sia ancora persuaso della perfezione ideale del pubblico servizio delle poste, ma perché m'accorgo ogni giorno piú dello stridente contrasto ideale e reale, specialmente in Italia. Il servizio è ideale, ma la burocrazia è taccagna, è insoffribile, e quando si ficca nel cervello che un tizio non deve per un certo tempo ricevere lettere, è piú implacabile della giustizia di Dio. Non ci guadagna nulla, è vero; ma appunto per ciò è meno facilmente controllabile. E appunto per ciò dà poco affidamento l'interpellanza del compagno Casalini che pure m'ha procurato una grande soddisfazione, perché nel momento in cui l'ho letta, pareva proprio fatta al caso mio.

(14 gennaio 1916).

SIGNIFICAZIONI

Non dovrebbe essere difficile per chi ha seguito attentamente le vicende, ora tristi ed ora liete, dell'organizzazione dei metallurgici torinesi, coglierne talune significazioni di portata generale nei rapporti economici. Le quali, massime ora che, secondo le presunzioni degli avversari del socialismo maciullato dalla guerra, molte teorie nostre sono fallite, hanno per noi un'importanza grandissima.

Anzitutto c'è da costatare che nella massa metallurgica che è costretta a produrre per la guerra e che per la preparazione bellica molto lavora e discretamente guadagna, la coscienza politica non è offuscata dai fantasmi invano aduggianti le nostre idealità irreducibilmente contrarie agli avvenimenti inauditi che si svolgono. Questo è un fatto e gli avversari, purtroppo, non lo sanno comprendere.

Ma v'hà di piú. L'agitazione di diecimila metallurgici ha giovato soltanto, almeno immediatamente, agli operai delle fabbriche piú grandi ed importanti, escludendo dai benefici delle conquiste odierne gli operai delle piccole officine metallurgiche non consorziate.

Un'ingiustizia? Certo. Ma l'organizzazione, pur non potendo agire immediatamente, non starà con le mani in mano, come si suol dire. Intanto — ed è questa la significazione importante dell'agitazione chiusasi con un ottimo successo per gli operai — l'organizzazione ha tutto di guadagnato ad agevolare sia pure indirettamente l'agglomerarsi dei piccoli ai grandi industriali, l'assorbimento delle piccole aziende nelle grandi. In un'espressione marxistica: l'accumulazione dei mezzi e dei modi di produzione. Il Consorzio degli industriali automobilisti torinesi è un cominciamento di accumulazione e concentrazione capitalistica. I grandi industriali qui dunque si incaricano di avvalorare una previsione socialista e rivoluzionaria: s'incaricano di eliminare i ceti medi dalla produzione approfondendo cosí gli antagonismi di classe. Siamo in pieno marxismo. E pensare che ci sono ancora degli imbecilli che proclamano il fallimento delle nostre dottrine in nome della scienza vera.

(16 gennaio 1916).

I MOSCHETTIERI IN CONVENTO

Compio un dovere di cortesia e non ne sono spiacente. Mi sento tranquillo, riposato, varcando le soglie del convento dove accompagno una signora in visita di convenienza e d'obbligo familiare. Lasciando la via tumultuosa di traffico e vedendomi passare d'innanzi figurine pallide sagomate dai loro costumi un po' goffi, ma non privi di un certo fascino e stimolatori di non ridicibili curiosità cerebrali, mi sento soddisfatto di essere riuscito a vincere le prime riluttanze.

Incomincia la conversazione, fredda, stereotipata, mentre in un angolo sto seduto, rassegnato, sentendomi invadere da una specie di letargo, di ottusità dei sensi. La guerra, la pace, la preghiera, iddio padre nostro, soliti luoghi comuni che solo un cervello fossilizzato nella cella può ripetere e ripetere senza stancarsi e senza stuccarsi. Ma non manca un qualche spunto psicologico di qualche interesse: «Anche noi — dice la monachella — che pure viviamo fuori dai rumori mondani, abbiamo avute delle delusioni... Certe cose non possono non ricordarsi; anche l'on. Bevione... come è caduto al pari degli altri! E pensare che abbiamo dovuto pregare tre giorni e tre notti perché egli riuscisse nelle elezioni. Cosí avevano voluto la madre superiora e il vescovo, che ora sono tanto pentiti... Anch'egli è diventato una colonna del paganesimo (sic), una forza di certa stampa massonica che ci deride e vorrebbe privarci del nostro diritto di preghiera».

O povera figliuola! Tre giorni e tre notti di veglia angosciosa e di sacrificio! Vedendola cosí afflitta e cosí compunta non posso trattenere un certo brivido misto di riso indistinto e di simpatia pietosa. Via, è un po' troppo prendere sul serio la propria missione fino ad obbligare delle povere innocenti a sacrificarsi tanto per l'elezione di un uomo. O fortunato ed ingrato Bevione! Anche le monache avevano pregato per lui che si presentava nei comizi squassando una certa sua divisa da moschettiere debellatore del peccato e del diavolo socialista. E che fretta ha avuto nel voler precipitare dall'altare! L'arcangelo di dio lo è diventato dell'architetto dell'universo, il nazionalista violento e paradossale è ora un democratico frollo ed aduggiante, e ha spezzato tanti cuori, ha suscitato nelle fredde ed austere celle dei monasteri tanti drammi di cuori femminei. Chissà quanti sogni e quante chimere per il deputatino caro alla madre superiora e al vescovo. Fortunato e ingrato Bevione! Ma la vita ha necessità e consolazioni innumerevoli e se mancheranno per un'altra volta le preghiere del convento, rimarrà lo stipendio da semi-ministro faticosamente sudato dalle casse e dagli azionisti del giornale della democrazia piemontese.

(21 gennaio 1916).

ELOGIO DELLA POCHADE

Odio le persone cosí dette serie, che cercano, abusando di questo loro carattere da commedia, di truffare la nostra buona fede. Preferisco l'impudenza sfacciata, la monelleria piú scrosciante di allegria, anche l'abiezione che non ha vergogna di se stessa e si mostra trionfante alla luce del sole. Almeno so con chi ho da fare, so come regolarmi, non sospetto trappole al mio buon cuore, e se mi prende vaghezza in qualche momento della mia giornata faticosa, di fare contro i reumatismi della logica i bagni di fango, so dove andare e come cavarmela. Corro qualche pericolo, lo so, ma non mi spavento. Il pericolo per esempio di finire per preferire la schiuma al resto. Ma non me ne pento e non arretro interrorito. So che i centri inibitori del mio cervello sono ancora abbastanza robusti per trarmi dal precipizio al momento buono. E il cimento del rischio, del paradosso non è meno indispensabile alla vita del solito trotterello dell'asino logico quotidiano. E perciò faccio una confessione: amo la pochade, e mi diverto immensamente ad ascoltarla.

Ne so i difetti, ne so i trucchi e le macchinazioni, prevedo quasi dal primo atto dove andrà a finire, ma mi sento appunto per ciò sicuro dagli inganni, dalle truffe dell'arte seria. I grandi nomi che fanno accorrere il pubblico grosso ai teatroni di qualità, mi spaventano e mi riempiono di apprensione. So già che avrò da fare con gente che vuol imbonire, che leviga e assottiglia le angolosità per rendersi meno urtante, che giulebba i noccioli piú spinosi e meno digeribili per farli inghiottire senza singhiozzi, e sto male per qualche tempo pensando che è ancora possibile, vellicando un po' la pancetta della cicala borghese, farla strillare in un senso piuttosto che in un altro. E perciò preferisco la pochade. La ritengo piú igienica per i miei nervi, tanto piú se l'arte di Dina Galli le toglie la patina piú appariscente di volgarità, e le dà in prestito la sua vita artistica. Tra la Falena di Bataille, o le Donne forti di Sardou, e la Dame de chez Maxim's, preferisco quest'ultima, che non ha pretese, e non nasconde il belletto e la sfacciataggine.

Ma una cosa non posso sopportare in nessun modo: la pochade che vuol essere solo «commedia comica», Virginia che vuol continuare la Locandiera, e Paolo che vuol continuare Florindo o Lindoro.

(22 gennaio 1916).

RAGION DI STATO

La notizia non mi sorprende, la cronaca — quasi come la storia — è fatta d'imprevisti; ora piú che mai. L'on. Salandra domani non sarà a Torino. Tiro un sospirone di rammarico. Perché alla visita del presidente del Consiglio dei ministri avevo già mollemente adattato il pensiero. Io vi dico che l'on. Salandra non è proprio peggiore della sua lama. Certo è piú avveduto di quelle brave persone che lo avevano sollecitato a dare una capatina nella nostra città. Non parlo di chi voleva addirittura l'apologia. Una cosa stomachevole.

Persino il cittadino di Troia se n'è accorto e ai suoi adoratori ha fatto capire che non avrebbe voluto gazzarre. In tal modo è rientrato nella testa vuota degli apologisti il proposito di fare un convegno regionale e di tenere un banchetto in onore dell'ospite.

Adesso che si annuncia ufficialmente che la visita è procrastinata per una buia ragione di Stato, «aria ai monti» respira meglio, il prefetto è piú tranquillo e il questore non è piú di cattivo umore. Il nostro Donvito, poi, può dormire sonni tranquilli.

Coloro che devono trovarsi male sono i presidenti e i vice dei circoli spurii della periferia: quelli che si apprestavano al ricevimento con l'abito nero stirato e la nera tuba lucente. L'on. Salandra è scontroso, non ama i salamelecchi, ma a tante riverenze avrebbe pure lasciato cadere qualche decorazione in segno di riconoscenza.

Sarà per un'altra volta. Salandra verrà a tempo piú opportuno, quando farà meno freddo, quando forse almeno la temperatura potrà compensare la freddezza — come dire — della cittadinanza.

Certo, torto marcio avrebbe chi pensasse che la procrastinazione si sia avuta per l'ostilità dei socialisti torinesi. Quattro scavezzacolli, questi, e si fa presto a zittirli. La ragion di Stato del rinvio non ha niente di attinente con l'ostilità del Partito socialista. Nessun dubbio in proposito. Salandra non è l'uomo che voglia indietreggiare di fronte a certe minacce. Tutto il suo passato parlamentare sta a testimoniare il suo coraggio di combattente e di duce politico. Forse è solo il timore dei dipendenti che nuoce alla sua reputazione.

Pazienza. Rimandata la visita, è questione di rimandare le accoglienze. E anch'io rimetto il pensiero nell'attesa. La quale — come nel verso di un poeta celebre — adegua... le sorti...

(23 gennaio 1916).

ASINETO

Locale frequentato dai nazionalisti. E andiamo dunque a vederli bene in faccia questi nazionalisti torinesi, che fanno tanto baccano a parole, ma che al momento dei fatti, quando si tratta di far conoscere il loro musetto di bestioline predaci, sanno fare, con tanta ammirevole solidarietà, i pesci. Qualcheduno lo si conosce, che diavolo, per i contatti che bisogna pure avere con la folla. E in qualche nostra incursione nei locali dell'associazione nazionalista, abbiamo anche avuto l'onore di conoscerli in gruppo, [di vederli] applaudire in coro quando non era ancora il momento, per un segnale sbagliato, e voltare verso il muro l'immagine dell'allora voltagabbana Bevione che non riusciva presso il suo direttore ad ottenere un po' piú di reclamina per gli spassetti di lor signori. Ma ora si tratta di ben altro. Si tratta di vedere questi monopolizzatori del decoro nazionale nella vita d'ogni giorno, nella vita da ritrovo, in piena camaraderia. E andiamo dunque a vederli. L'insegna del ritrovo è veramente poco rassicurante, Muletto. Ma è dovuto come si capisce a gente d'altri tempi, quando il patriottismo non era ancora diventato partito, ed era uno stato d'animo puro e semplice. Nella botte vecchia i nuovi venuti avranno versato il loro vino generoso, e avranno cosí rinvigorito la tradizione.

Ma, ahimè! dove sono dunque andato a cadere? Tu l'hai voluto, George Dandin! Ma questa è in verità l'anticamera di una casa di tolleranza. Giovanotti indemoniati, vispe donnette che hanno saltato la sbarra, salottini riservati con relativi divani, e un afrore nell'aria, odore speciale di bestioline in fregola e non precisamente patriottica! Sí, si vede qualcuna di quelle facce toste che in altri tempi ci hanno accusato di essere accoltellatori perché uno dei loro aveva avuto i calzoni abbrindellati dal suo stesso bastone prima sacrosantamente spezzato su una durissima testa proletaria, qualcuno di quelli che, nella sesta giornata di un giugno ormai lontano, erano andati a offrire il proprio servizio gratuito alla benemerita istituzione dei questurini, ma in che veste da camera, signor Iddio! Eppure non ho sbagliato; l'annuncio diceva proprio: ritrovo preferito dai nazionalisti, e non sapevo che il nazionalismo includesse, nella novità della sua dottrina, anche questi allegri saturnali.

Ma non sarebbe meglio un piccolo cambiamento, nell'insegna? Cosí per esempio: Asineto, ritrovo preferito dai nazionalisti, quando, nei momenti che la vita pubblica concede loro per riposare, vogliono fare gli... asini? Cosí sarebbero contenti tutti, la morale e la dottrina.

(24 gennaio 1916).

SOLTANTO I DROGHIERI

Meno male! Adesso ne so di piú. La procrastinazione è giustificata. Bisogna gridare ai quattro venti la grande giustificazione. Ai quattro venti in modo che essa arrivi in tutti i borghi, in tutti gli antri dove pullulano i barabba obbedienti agli ordini di corso Siccardi. Bisogna recidere lo stame a tutte le illusioni protestatarie.

Salandra non viene, non è venuto, ma verrà. Quando? Quando meglio gli pare e piace.

Dunque anche i droghieri torinesi hanno ragione di prepararsi al ricevimento. Devesi sapere che la visita dell'on. Salandra, appunto dopo il suo rinvio, ha destato il piú grande entusiasmo in diversi ceti cittadini. Vedo con piacere che il Consorzio dei droghieri e la Società dei medesimi hanno spontaneamente deliberato, non... il ribasso del prezzo dello zucchero, ma la solenne partecipazione di tutti i soci alle onoranze per il capo del governo.

La partecipazione di questi benemeriti cittadini, fra i quali non si troverà certamente nessuno che abbia fatto quattrini rubando sul peso e adulterando la merce, servirà a dimostrare eloquentemente che la categoria delle drogherie è all'avanguardia nelle manifestazioni patriottiche.

Per la piú solenne riuscita della festa c'è da augurarsi che l'esempio della sullodata associazione venga subito seguito con lo stesso entusiasmo da altre categorie di esercenti e da altri consorzi. Non si comprenderebbe, infatti, perché i commessi di farmacia, gli impresari di carri funebri, i venditori di carote e di altri erbaggi, i commercianti in anelli di gomma per ombrelli e in tiranti per bretelle, ecc. ecc. dovrebbero essere da meno dei droghieri in fatto di entusiasmo verso l'on. Salandra.

Infine noi vorremmo che al ricevimento non mancassero le rappresentanze di altre benemerite associazioni che potrebbero essere ancora piú gradite al paterno cuore dell'on. Salandra. Per esempio: la confraternita dei Santi Pietro e Paolo, quella della Misericordia, quella delle ragazze pentite e dei mariti traditi e quella ancora delle vergini per forza e delle venerande perpetue e tutte le altre congreghe religiose che sono ben conosciute anche dall'on. Panié e persino dall'on. Bevione.

Naturalmente, perché il ricevimento sia degno dell'ospite, a torto rimproverato di fornicamenti massonici e franciosi, sarebbe bene che questi ultimi ingredienti della festività ed ospitalità fossero completati da una brava teoria di moccoli debitamente accesi e di stendardi giallo-neri. Di questi ultimi il «Momento» a Torino, il cardinale delle caramelle e dei panettoni permettendolo, riuscirebbe ad esibirne parecchi.

Anch'io, come il marchese Colombi, sono d'avviso che le feste si fanno o non si fanno, e se si fanno devono essere complete. Lo sappia il comitato di preparazione civile.

(25 gennaio 1916).

DAI MACELLAI A POLLEDRO

Eh, sí, quando si ha il dono dell'intuizione!... Eppure non idolatro Bergson. Solo per distrazione ieri è stato omesso il punto interrogativo al titolo dei droghieri. Dicevo ieri che non era affatto comprensibile che soltanto i droghieri aderissero ai festeggiamenti in onore di Antonio Salandra*. Ho elencato altre categorie di esercenti; se ho omesso i macellai gli era perché ritenevo che l'adesione fosse implicita, risultando inevitabilmente, come da un sorite della filosofia dei contrari, dal fatto materiale e dal fatto spirituale che, congiunti per tramite della «vertigine dell'incensamento» (censori, l'espressione è di un senatore salandrinesco), possono dare un'affinità di primo acchito insospettabile.

Senonché i macellai torinesi — che forse non sono alieni dal solidarizzare con certi colleghi e colleghe che fornivano all'esercizio carne di mucca invece di carne di bue e di sanato — sono persone rudi, franche, esplicite, ed esplicitamente profferiscono la loro solidarietà anche al capo del governo. Badate se io non ho ragione di parlare di affinità e di identità dei contrari — come il filosofo di Virginia e Paolo — alludendo ai macellai. Essi, cui compete il fatto materiale, all'ospite veniente, cui è dovuto il fatto spirituale — della macellazione, s'intende —— parlano pure di «fede viva» — si adattano ad un linguaggio di spiritualista che solo i superficiali, i clienti che pagano cara la carne non sanno intravvedere. Vero ch'io non compro carne. Ma alla fin fine i macellai spiritualizzati per via delle «aspirazioni nazionali» mi sono diventati piú simpatici di quanto avrei potuto supporre. Essi in ultima analisi non uccidono e non vendono che carne di bestia. Altri invece... Ma lasciamo andare.

Meglio un macellaio vero, amici, che un Polledro falso. Ma poiché per le feste salandrinesche s'è fatto vivo anche costui promuovendo una manifestazione di studenti, evviva anche lui! Ma badi, l'ex terribile rivoluzionario, di togliersi la maschera d'un tempo. Sia franco e nel giorno della venuta si mostri quale egli è, quale fu sempre: un soggetto di psichiatria «politica», solo per la quale sono comprensibili i suoi trapassi da antimilitarista piú herveista di Hervé ad organizzatore di dimostrazioni studentesche in onore di chi non deve dimenticare di aver fatto arrestare Andrea Costa commemoratore di Oberdan. Un soggetto di «psichiatria» politica: solo alla stregua della quale è compatibile che il livido Polledro interventista ripeta il rito allegro degli eroi di Offenbach. Giú la maschera, miserabile!

(26 gennaio 1916).

LO CHAMPAGNE

Un'offerta kolossal!

Dico cinquecento bottiglie di champagne! La cronaca avverte che «una benefica persona, che vuol essere sconosciuta, ha messo a disposizione del sindaco conte senatore Teofilo Rossi cinquecento bottiglie di vino champagne perché venissero equamente ripartite fra i diversi ospedali militari di Torino per i soldati degenti per ferite o per malattie. Il sindaco ha già provvisto secondo tale desiderio».

E poi si dica che a Torino non vi siano persone generose! Quella che ha fatto una tanta offerta è la statua della generosità. Che nel caso nostro tale generosità sia benefica per me è alquanto discutibile. I miei gusti plebei ignorano quasi quel vino prezioso offerto alle labbra dei soldati degenti, ed io ignoro anche quanto all'incirca verrebbe a costare il «quantitativo» notevole di vino champagne messo a disposizione del signor sindaco: certo che deve essere una somma discreta. Di soldati degenti nei nostri ospedali ce ne devono essere di molti: forse tanti onde non a tutti può essere dato di assaggiare il vino prelibatissimo. E poi sarebbe interessante conoscere il parere dei sanitari sull'efficacia dell'offerta. Io riguardandola da un altro punto di vista — un punto di vista plebeo, non volgare — l'offerta stessa avrei respinto. È un'umiliazione. È l'espressione di un filantropismo spagnolesco che irrita, non benefica. Un sindaco piú intelligente, meno volgare — cioè piú plebeo nel senso greco e nel senso dantesco che tu, o Enotrio Romano, insegni — avrebbe respinta l'offerta, invitando lo sconosciuto offerente a mandare invece altrettanti spiccioli quanti ne valgono le cinquecento bottiglie. Sarebbe stato un esempio di risolutezza contro un andazzo di filantropismo pseudo-patriottico, che, dalle cartoline alle scatolette di fiammiferi, dai vischi dell'Associazione della stampa ad altri seccantissimi mezzucci per trarre elemosine, non attesta la sana prodigalità, la vera generosità di una città e di una nazione nelle ore piú grandi della propria storia e della propria gloria. Se si deve dare per la guerra e per le sue vittime, si dia altrimenti, ci si avvezzi a dare non volgarmente ed indirettamente.

Ma il sindaco nostro — fino a quando? — non poteva essere da tanto; perché non è plebeo e rimane volgare. Cosí è naturale che a «lui» l'offerta dello champagne — l'afrodisiaco per improvvisare le piú svariate ebbrezze effimere ed innaturali in carni flaccide e in cuori freddi — sia parsa una gran cosa benefica.

(27 gennaio 1916).

RISPOSTA AD UN ANONIMO

Ci scrive un ignoto:

La vostra campagna per i conti dell'Esposizione non giova ai poveri cristi proletari, che non hanno versato nessuna azione perché la fiera patriottica riuscisse piú sontuosa e vi fosse maggior quantità di biada per le robuste mascelle degli amministratori. Essendo gli azionisti tutti borghesi, se denaro è stato mangiato, ben mangiato: rubare ai ladri non è peccato, come ammette anche il Vangelo.

L'ignoto ha torto, doppiamente torto. Intanto anche a Torino, dove la divisione delle classi si è venuta sempre piú chiarificando, non bisogna credere che tutto sia fatto da parte del socialismo. Vi sono ancora strati profondi di popolazione nei quali ancora la nostra parola non ha presa, gruppi di salariati che, per tradizione familiare, per formazione mentale non vogliono partecipare alle nostre lotte, e coi quali la presa di contatto può solo avvenire attraverso la dimostrazione dell'insipienza e della disonestà dei ceti dirigenti. La paura di essere condotti al fallimento può ben spingere non pochi ad avere il coraggio di saltare il fosso, di innestarsi nella corrente della lotta di classe dalla quale finora si sono tenuti appartati. E non è a dire che lo scoprire i ladri sia solo compito dei questurini. Ogni onesto galantuomo dovrebbe avere il coraggio di smascherare i truffaldini di qualsiasi parte e tendenza essi siano. La vita sociale, se fosse liberata da tutti i bacteri che ne intaccano il tessuto connettivo, si svolgerebbe con maggior sincerità e con meno barcollamento e crisi che nuocciono a tutti, proletari e borghesi. Ma poi non è affatto vero che i ladri dell'Esposizione non lo siano anche dei contribuenti proletari.

Fatto si è che si sta preparando una legge di Stato che deve provvedere a tappare tutti i buchi e le falle aperte dai rosicchianti nella carcassa amministrativa della festa del cinquantenario, e questa legge non domanda mica i soldi alla borghesia, o una tassa speciale sul capitale: li domanda alle entrate generali del bilancio nelle quali confluiscono, e in preponderanza, i soldini e le lirette dei meno abbienti, anche dei piú miserabili. Non si tratta quindi, come pare creda l'ignoto che ci scrive, di taglierini preparati in famiglia tra borghesi, che vengono fatti e conditi da qualche minchione e mangiati da qualche altro lestofante. Si tratta del fatto che il conto, e ben salato, deve essere pagato da tutti, e il proletariato, prima di pagare, vuole almeno sia soddisfatta la curiosità che ha di sapere chi furono i piú ventruti banchettatori, e se qualcuno di essi non sia possibile mandarlo alle Nuove per la digestione. Noi facciamo del nostro meglio per ottenere che il proletariato sia soddisfatto, e non crediamo di fare opera del tutto inutile.

(29 gennaio 1916).

«L'ERBÔ D'LA LIBERTÀ»

Grande avvenimento cittadino l'altra sera al Rossini. C'erano il sindaco e l'ingegnere Sincero, l'antipapa, gli assessori, i consiglieri comunali piú intellettuali, da Fino a Grassi, ed il vecchio teatro accoglieva tutti con la tranquilla bonomia di un vecchio, del quale il ritorno per una volta dei bei giorni passati non turba lo scetticismo sereno, frutto di tante alterne vicende di gloria e di decadenza. Serata familiare anche! Ché Torino è in fondo ancora una grande città di provincia, dove tutti ci si conosce, e dove si accorre a sentire ed applaudire l'opera del collega o del conoscente per dovere d'amicizia, ben disposti ad essergli grati di una serata trascorsa cosí senza grande divertimento e senza molta noia, lasciando riposare cervello e nervi. All'amico molti applausi e quattro chiamate concesse la platea del Rossini. E non vorremo noi contrastare. Che anche per la critica occorre il punto d'appoggio. Ma l'Erbô d'la libertà non è né bello né brutto: è nel pensiero di un dolce accomodantismo. C'è tutto o niente: l'azione se non fosse posta nel 1798 avrebbe potuto svolgersi nel 1848, a Torino od a Milano od a Berlino: c'è la spia alemanna e c'è il patriotta che crede e sacrifica per gli ideali rivoluzionari; c'è la fucilazione del mitissimo ed ingenuo agitatore Tenivelli, ma c'è la caricatura leggera delle nuove idee e dei nuovi costumi; c'è il cittadino calzolaio Barberis che è vestito di rosso e cambia nome alla moglie ed al figlio e sacrifica ai piedi dell'albero un pacco di biglietti del vecchio governo... fuori corso, con un po' di sentimentalismo ed un paio di amoretti ed infine la trovata: «Meglio bastardo che figlio di tedesco!»

Non è l'opera che contribuisca a rialzare il teatro dialettale piemontese; manca in essa calore e vita; non ha mai suscitato il brivido d'interessamento e di consenso che percorre la folla e la attanaglia e fa scattare lo spettatore nell'apostrofe che eccita il sorriso di noi, troppo blasés, ma consacra il successo dell'autore popolare.

L'Erbô avrà delle repliche, e Mario Leoni, alla fine della carriera di fortunato negoziante di stoffe, allieta la sua vecchiaia con lo stringere le catene matrimoniali alle coppie amanti, col firmare molti atti di stato civile e con lo scrivere commedie. E continui pure per molti anni.

(30 gennaio 1916).

«ARIA AI MONTI» IN CARATTERE

Giolitti parte, lo accompagnano i soliti tirapiedi che gli si strisciano addosso come gattine in fregola di carezze, e non può mancare il nostro amico «aria ai monti», che anzi inalbera per l'occasione le piú belle penne di pappagallo e i piú sgargianti straccetti che le rivendugliole politiche hanno avuto la bontà di regalargli. Ma alla stazione ci sono dei discoli che osano fischiare il divo e avviene uno scambio di invettive brevi, taglienti. «Aria ai monti» è sconcertato; per un momento pare che voglia lanciarsi addosso ai monelli, tanto i suoi bargigli sono infuocati e le penne di pappagallo diritte sulla fronte.

C'è una dimostrazione per la strada; si ferma dinanzi alla casa dell'illustre nostro amico e vuole che sia esposta la bandiera; nessuno risponde. Al quinto piano, dalla soffitta, una donna, annoiata dal fracasso, sventola tre pezzuole colorate credendo cosí di farla finita. Al secondo piano si apre finalmente un balcone e qualcuno si avanza: guarda placidamente gli energumeni che lo vituperano e non si muove. È necessario che qualche chilogrammo di terra fresca imbratti le tende e la faccia del personaggio muto, perché qualcuno si decida finalmente a tirar fuori il drappo.

Oggi è arrivato Salandra: Italien über alles. Chi troviamo in prima fila? Ma naturalmente il nostro «aria ai monti», come sempre in fregola di carezze sulla spina dorsale, che ha tirato fuori e ripulite le solite pennucce e i soliti straccetti e si fa in quattro e in cinque (ce n'è per tanti nel suo corpaccio) a sbracciarsi, a dimenarsi, a mettere bene in mostra le decorazioni di Francesco Giuseppe e di tanti altri, come un saltimbanco che arrivi dal Sud America. Il buon uomo è soddisfatto. Che mangiate, signor Iddio, che bevute! E quanto sudore! Ma la festa è ben riuscita, e i conti tornano, anche se non tornano quelli dell'Esposizione. E ci sarà il regalino, qualche nuova penna, qualche nuovo straccetto, che so io, qualche nota da pagare che verrà scontata al gran banco del contribuente italiano, e tutto andrà bene. Italien über alles.

Nel maggio scorso «aria ai monti» domandava ai fischiatori di Giolitti: «Quanti di voi sono abili al servizio militare?» (naturalmente non l'aveva domandato ai propugnatori dell'impresa libica); ma ora che si è accorto che una certa divisa serve magnificamente anche per resistere a quella formidabile trincea che è il consiglio comunale (e tante altre trincee ci sono da espugnare a Torino) il nostro graziosissimo amico non fa piú domande imbarazzanti. Egli è ormai preso tutto dal suo compito di gattone vizioso che inarca gentilmente la schiena a tutte le mani che vogliono solleticarne i delicati nervi, e fa le fusa e le moine con gli occhi incantati nuotanti nel sego. Poi drizza le penne di pappagallo e sventola gli straccetti. Italien über alles — l'ha detto anche il professor Cian.

(31 gennaio 1916).

IL PORCELLINO DI TERRA

È avvenuto per la guerra come quando in campagna si rovescia qualche grosso sasso, e si vedono scappare da tutte le parti certi animaletti biancastri velocissimi che s'incrociano da tutte le parti come ammattiti. La guerra ha fatto sbucar fuori tanta di quella gente nuova che ora si dimena in tutti i modi poiché la concorrenza è minore, e questa condizione di monopolio non può durare a lungo. Ne conosciamo uno di questi porcellini di terra. Prima della guerra, con le maniche di lustrina egli trascorreva la vita a catalogare carielli e cessi inglesi; e tra l'uno e l'altro intercalava dei formidabili articoli follaioli che dovevano ogni settimana mettere chissà che atroce paura nella persona del monarca: perché il nostro porcellino non aveva peli sulla lingua e non le mandava a dire le parole. Con quel suo aspetto di moschettiere del cesso inglese, con quegli occhi roteanti nell'orbita doveva essere una continua causa di timore fra i suoi colleghi in carielli e cessi inglesi. Perché da un anarchico che scriveva certe cose in quel certo modo, c'era da aspettarsi di tutto, persino che cercasse di ammazzare Francesco Giuseppe e Guglielmo. Ma invece, povero ragazzo, tutto si chiudeva lí, fra i cessi inglesi; l'anarchia si esauriva nelle parole feroci e nelle sgrammaticature abituali, e compiuto il suo dovere di riempitore di finche e di imitatore di Paolo Valera (imitatore dello stile, s'intende, non della voglia di andare in prigione), egli si toglieva la lustrina dalle maniche e ridiventava un modesto borghese bevitore di caffè-latte e di champagnini frappés. Con tali abitudini si capisce che i tumulti di piazza, gli scioperi, tutto il complesso del movimento operaio, insomma, gli sembrasse poco igienico da frequentare. Preferiva la chiacchiera del Mugna e lo studio di Torino sotterranea con documenti inediti e discoverte notevolissime.

Cosí il nostro porcellino di terra s'era fatta la sua capanna e il suo cuore, e prosperava sotto l'umido suo sasso, quando la guerra venne. Il porcellino perdette la testa, pensò meno ai suoi carielli e ai cessi inglesi e si buttò nella mischia con tutta l'audacia della sua verginità grammaticale e cerebrale. La luce del sole, lo spazio molto largo dà sempre alla testa dei porcellini di terra e fa loro perdere la tramontana. Corrono da tutte le parti freneticamente, si ubriacano di movimenti e di parole. Cosí avvenne al nostro: l'aver un giornale, un quotidiano, capite, su cui versare tutta la piena dello spirito eroico accumulato in tanti anni e fra tante teorie di carielli e di cessi inglesi, che gioia, che bella festa! Suvvia, buttiamo via la lustrina dalle maniche, diritti i baffi, perdio, come s'addice a tanto compito. Ha tante volte demolito il re documentando infamie e turpitudini da far drizzare i peli anche alle jene, ora documenta che Barberis ha sputato in un tram, orrore degli orrori, e domanda perciò alla questura che sia tagliata la testa al cittadino ex carrettiere. Be'! non par vero che tra i carielli e i cessi inglesi si possa succhiare nel sangue tanta ferocia. Peccato che essa non se la senta di misurarsi con quella dei cittadini di Francesco Giuseppe.

(1° febbraio 1916).

«ARIA AI MONTI» PREGA

Stanco per il travaglio della gran giornata, «aria ai monti» si è ritirato nei suoi appartamenti, e, esaminato ancora una volta il suo medagliere, tolta qua e là un po' di polvere dai nastrini, si è inginocchiato a pregare.

«O Dio che assegnasti all'Italia i suoi confini, fa' che Salandra assegni anche a me qualche cosa di nuovo. Troppo ha sofferto il mio cuore quando ha dovuto accettare il fatto compiuto e mandare in soffitta il solitario di Cavour, perché questo dolore non meriti ricompensa. So che il cittadino della pugliese Troia è un po' aspro, un po' angoloso, e se avesse potuto farlo senza nocumento, chissà quante pedate avrebbe affibbiate ai vari Grosso-Campana e Giordano che lo complimentavano d'aver fatto ciò che per loro è stato, viceversa, il piú mostruoso dei delitti. Ciò mi preoccupa e mi rende triste. Poiché io, o Dio mio, ho una debolezza (ma chi non ha debolezze in questo mondo miserrimo?), e se questa cosí grande occasione trascorresse senza portarmi nulla, io ne morrei. Pensaci tu, o padre di tutte le cose. Altri ha la smania di far collezioni di figurine di liebig, di scatolette di cerini, di pipe di tutte le dimensioni, di cartoline illustrate, e persino di noccioli di pesca; io ho quella delle decorazioni. E sotto Giolitti ne ho messe insieme! Da quelle dello czar a quelle di Francesco Giuseppe e della Repubblica di Liberia e di San Salvador. Quante relazioni aveva Giovannino e come era buono con gli amici! In questo momento tragico della mia vita, mentre sto per traboccare da una corrente all'altra della storia, penso a lui, ma la patria chiama, e chiamano anche i conti dell'Esposizione i quali bisogna che il governo aiuti a saldare. E poi adesso è il momento buono per il collezionista; piovono da ogni parte ministri e plenipotenziari; ci saranno scambi di uomini e di nastrini, e io non posso tagliarmi fuori da questo movimento. O Dio, che conosci gli uomini e le loro debolezze, fammi perdonare dal solitario di Cavour, e manda un accidenti a quegli scavezzacolli di socialisti che mi mettono sotto la Mole...»

Cosí deve aver pregato «aria ai monti», e per propiziarsi le grazie di Salandra ieri ha voluto includere nel suo discorso la bella ed eloquente invocazione a Dio che ha fatto fremere di esultanza le personalità clericali convenute pel ricevimento al municipio. «Aria ai monti» invecchiando si spiritualizza anche lui. Io che amo osservarlo dappresso e che non mi lascio sfuggire alcuni dei moti del suo gran cuore, già prima d'ora ero riuscito a constatare che «aria ai monti» s'accosta sempre piú al buon vecchio Dio. Anche in consiglio comunale la sua preoccupazione costante e rilevante è quella che si profila verso il banco del gruppo cattolico. «Aria ai monti», dopo il discorso in onore di un noto cardinale di fresco ordinato da Benedetto il tedescofilo e pur sempre prigione di colui che detiene, è quasi riuscito a far dimenticare ai cattolici torinesi il suo grasso e grosso epicureismo arricchitosi collo spaccio di liquori.

Oso sperare che l'invocazione di «aria ai monti» non sia vana e che un'altra e piú grande decorazione gli venga concessa.

E cosí sia...

(2 febbraio 1916).

IL MANTENUTO

Toh! finalmente lo rivedo. È piú che mai repellente. Ma è proprio lui in carne ed ossa. Ecco: S. E. trascina la sua noia di uomo scontroso nei laboratori degli indumenti militari ove il clericale Zaccone sta immortalandosi. Vedo che intorno al capo del governo strisciano ancora le piú nauseanti e lombricali adulazioni, il presidente sorride di un sorriso indefinibile: è ironia, o compiacenza? Chissà?

Ma eccolo, eccolo lí quel picco empiastro di scetticismo e di egoismo dappresso all'uomo di governo, eccolo a proferire le sue adulazioni — l'on. Quindicilire. È il vice presidente del comitato di preparazione e magna pars del comitato contro lo spionaggio; è quegli che invocava in una riunione di allievi ufficiali i fulmini contro di noi nemici interni; è il direttore di una grande formidabile azienda cooperativa socialista; è l'on. Nofri, il politicante, il trafficante che non crede piú nemmeno al riformismo, che fra tante brutture dà ancora l'operosità inquieta e nostalgica di Angiolo Cabrini e l'abnegazione di Leonida Bissolati.

L'on. Quindicilire non crede piú a nulla; o meglio non crede che all'ingenuità di quei proletari torinesi che gli assicurano uno stipendio di viceministro.

Conosco un altro riformista torinese temutissimo e odiatissimo, fautore fervido delle opere di assistenza per i fratelli colpiti dalla guerra; questi ha saputo dignitosamente astenersi dai festeggiamenti dei passati giorni. Io guardo il caso Nofri prescindendo dal riformismo e dall'interventismo: lo riguardo di per se stesso, come un'espressione della miseria politica e morale di un uomo che non sa comprendere la delicatezza della sua situazione. O con noi o contro di noi. È l'imperativo categorico di tutte le fedi vere e profonde e sentite. L'on. Quindicilire non sente, vegeta; guadagna quasi come un ministro, conciona per la guerra e crede di adempiere a tutti i suoi doveri civici versando quindici lire per le opere di assistenza.

Non sente e irride all'angoscia di quel partito che lo «mantiene» e che in questi giorni ha dovuto fare violenza alle proprie forze per rattenerle, per non lasciarle disfrenare in una protesta clamorosa.

Vorrei fare una proposta; vorrei proporre una sottoscrizione per racimolare quella somma solo per la quale, senza nocumento per la nostra azienda cooperativa socialista, è possibile mettere alla porta il corteggiatore, il lacchè di S. E., nonché mantenuto dal Partito socialista torinese; metterlo alla porta dell'edificio di viale Stupinigi, a pedate nel sedere.

Ecco il trattamento che ormai il mantenuto si merita: calci nel sedere.

(3 febbraio 1916).

PICCOLA CAROGNA

Lettel è incorreggibile. Ne abbiamo già illustrate le deficienze intellettuali e morali in un «corsivo» che ebbe un vero successo, poiché non vi è a Torino un cane che abbia per questo piccolo idiota almeno un po' di commiserazione. E benché sia poco soddisfacente ritornare ad occuparci di questo mascalzone, è bene farlo, soprattutto perché nei piccoli fatti si rivelano meglio gli uomini e lo spirito animatore dei direttori e dei loro grandi giornali si manifesta nella cronachetta, piú che nei solenni articoli calcolati e levigati.

Ieri i giudici torinesi hanno trovato modo di infliggere due anni e sei mesi di reclusione a due operai, Riccardo Zampillo e Pietro Campo, ritenuti responsabili di una sassaiola contro i vetri d'una conceria, avvenuta a Borgaro nello sciopero generale del maggio scorso. E Lettel sulla «Gazzetta del Popolo» usa questo frasario: «Gli scioperi sciagurati, alcuni illusi, i pesciolini rimasti al solito nella rete (che sarebbero i due imputati), i veri responsabili che sfuggirono (che saremmo naturalmente noi)». La «Gazzetta del Popolo» ha dato del processo un resoconto falso perché ha taciuto una parte di quanto ne è risultato. Scrive il giornale interventista e non democratico, dicono, quanto il «Popolo»:

Questi (lo Zampillo) subito si mise a fare opera di pacificazione gridando che per carità smettessero di tirar pietre, e si convenne che il direttore lascerebbe uscire gli operai, ma che però potrebbe continuare lo scarico urgente di un carro e che gli scioperanti cesserebbero la sassaiola. E cosí avvenne.

I carabinieri iniziarono le indagini; queste si concretarono in un'istruttoria contro Riccardo Zampillo e Pietro Campo, questi reduce ora dal fronte dove è stato ferito, imputati di violenza privata, di lancio di sassi, e di violenza contro il direttore. Ieri alla quinta sezione si discusse la causa. Risultò che lo Zampillo non tirò affatto pietre, che davanti alla scamosceria fece opera di pacificatore, ed in quanto al Campo anche qualche dubbio fu elevato sulla sua effettiva partecipazione al lancio delle pietre. Il P. M., pur lamentando che il codice punisca troppo severamente questi reati, chiese tre anni di reclusione per entrambi, ecc. ecc.

E la «Stampa», la citiamo apposta perché qualche imbecille [non] ci trovi da ridire, diede un resoconto obiettivissimo.

Lettel è naturalmente padronissimo di servire chi gli assicura, nella sua incapacità di esercitare la propria professione, un pezzo di pane nel modo che ritiene piú conveniente, è padronissimo di sfogare tutta la sua bile di uomo impotente e finito, è padronissimo di incastrare nella sua prosetta sgrammaticata e idiota le solite diffamazioni, che ormai solamente ripetono piú i parroci nelle montagne e i cronisti nel giornale della tradizione boteriana, ma noi siamo anche padroni di dirgli e di ripetergli: «piccola carogna». Tanto alla «Gazzetta del Popolo» non usano né dare i conti né rispondere o querelare chi li attacca.

Ed il giornale che vanta la sua democrazia, che predica la concordia, che trova naturalissimo che oggi un tribunale infligga due anni e sei mesi di reclusione ad un soldato tornato ferito dal fronte, dove né Lettel né Orsi, né Bevione vanno, e che rimastica contro i socialisti gesuiticamente le sciocchezze diffamatrici, fa schifo.

Evidentemente essi, che sono i pesci grossi, calcolano di non rimanere nella rete.

(4 febbraio 1916).

TEMI PER UNA MAESTRA COMUNALE

Non sappiamo se, quando si assumono le insegnanti nelle scuole comunali, fra gli altri organi femminili si visiti pure quello relativo delicatissimo destinato alla fecondazione.

Senza avere la competenza uterina del prof. Vescica, sanno tutti che l'organo cui abbiamo alluso tiene spesso il posto del cervello e serve anche per ragionare. Sarebbe perciò opportuno che, prima di affidare alle maestre la cura dei loro allievi, si stabilisse in modo sicuro che il loro organo principale è in condizioni regolari.

Una delle maestre della scuola Vittorio Alfieri deve avere disgraziatamente bisogno delle cure del prof. Vescica. Potrebbe darsi che fosse stata a scuola dai frati, oppure che avesse perduto tre quarti della sua vita a cercarsi invano un marito. Se cosí fosse, si potrebbero spiegare in parte le ragioni del suo cretinismo; ma, per arrivare fino al punto a cui è arrivata, bisogna proprio ammettere che quel tale organo è difettoso.

Giudicate voi. La maestra in parola ha dato agli alunni di terza classe il seguente tema da analizzare: «Gli scioperanti meritano il biasimo e il disprezzo delle persone oneste».

Siccome molti padri degli alunni chissà quante volte saranno stati costretti a scioperare, ne viene di conseguenza che gli alunni dovranno disprezzare i propri genitori e amare svisceratamente i loro padroni che consentono ai proletari di vivere.

Gli insegnamenti della signora maestra sono edificantissimi. Siamo cosí entusiasti del suo metodo che ci permettiamo di venirle in aiuto suggerendole alcuni temi che potrà sfruttare a sua volontà:

— I veri benefattori dell'umanità sono i ricchi, perché tenendosi tutta la loro ricchezza per sé, impediscono ai poveri di procurarsi dei vizi.

— Tutti devono essere contenti del proprio stato, ma non è giusto che qualche maestra invecchi senza trovare marito.

— I fornitori militari sono degli esempi viventi di onestà e di disinteresse.

— Il dovere di un buon cittadino è quello di lasciarsi fare, senza strillare mai, quell'operazione che fanno alle oche.

— Il caro viveri e il caro affitti sono stati mandati da Dio sulla terra per premiare gli uomini.

— Il comune paga la maestra perché educhi gli scolari, la maestra li incretinisce; gli amministratori comunali sono contenti.

(5 febbraio 1916).

ARNALDO O LE VIBRAZIONI D'AMORE

Non sappiamo chi sia il signor Arnaldo Monti. La sua firma illustre appare per la prima volta sul giornale di via Quattro Marzo. Forse è uno studente di liceo cui la «Gazzetta» ha affidato il compito di descrivere la vita che passano i soldati feriti negli ospedali di chirurgia.

Il signor Arnaldo ha descritto tutto per bene.

Ecco anzi come descrive — su un giornale che passa per anticlericale e massone — la preghiera dei soldati:

Mentre i piantoni cominciano la distribuzione delle vivande, una dama fa il segno della croce e recita sommessa la breve preghiera ante cibum. I soldati si levano in piedi, si scoprono.

Tutte le mattine, mi dicono, si celebra la Messa in una raccolta e modesta cappella. La domenica viene celebrata la Messa grande, su, al terzo piano delle scale. Vi è un altare quasi nudo con due mazzi di fiori, quattro candelieri. Al di sopra la statua della Vergine (Vi maiuscola), della Consolatrix afflictorum, tra due bandiere tricolori. Ho la visione fantastica di tanti soldati silenziosi, intenti alla funzione religiosa, affollati su su per le scale.

Fremito corre; ché, splendor d'Iddio,

splende nella raggiera l'Ostia magna.

Il Cappellano militare dice la sua Messa con un che di marziale indefinibile, diffondendo sugli animi dei feriti una vasta vibrazione d'amore.

Da questo squarcio di commovente prosa che abbiamo voluto riprodurre ognuno vede come il giornale anticlericale e massone si preoccupa della penetrazione clericale negli ospedali.

Il «Momento» che cosa ha da dire? Chi l'avrebbe detto l'anno scorso, quando fra i due giornali imperversava la polemica aggressiva a proposito di anticlericalismo e di clericalismo, che la guerra avrebbe finito col metterli d'accordo e col determinare la «Gazzetta» di Botero a dare ospitalità alle rugiadose esaltazioni delle dame che insegnano a pregare e dei cappellani militari che dicono la messa con aria marziale?

Ma se la messa procura delle vibrazioni d'amore, perché la «Gazzetta» non si mette a pubblicare — come fa il «Momento» — gli orari giornalieri delle messe e delle prediche che si tengono nelle varie chiese di Torino? E perché non dedica una rubrica apposita ai resoconti delle prediche religiose e alle opere educative di tutti i ricreatori cattolici?

Quell'Arnaldo che ha cosí bene iniziato la sua collaborazione mistica potrebbe essere ottimamente utilizzato per una rubrica del genere che farebbe guadagnare alla «Gazzetta» tanti abbonati fra i parroci ed i membri delle confraternite.

(6 febbraio 1916).

SAVERIO GROSSO

Ha scandolezzato persino l'«Idea nazionale» che, come si sa, è giudice competentissimo di cattolicismo e di pratica devota. Il giornale romano adopera parole che colpiscono in pieno petto l'autorità del critico del «Momento»: — Povertà di spirito, incomprensione sorda, grettezza miserevole, sciocchezze, ecc. ecc. Per una volta tanto possiamo andar d'accordo con lo scrittore nazionalista, e applaudire all'intemerata contro il povero Saverio Fino, l'elegante, spiritoso professore tanto caro alle allieve degli istituti femminili clericali della nostra città. Ma non prendiamolo tanto sul serio, per amore di S. Genoveffa. Si sa che egli deve trarre dalle corde dei suoi vari colascioni delle note che saranno rivedute e corrette dalle autorità religiose competenti. Alle sue lezioni, anche a quella di economia, presenzia sempre una vecchia monaca che controlla le espressioni dell'avvocato poeta, e si sa che la pietra filosofale della sua critica drammatica è la pornografia e la santità delle intenzioni. Non fa meraviglia quindi che sia stato cosí crudele e cosí grettamente sciocco nel giudicare del poeta cattolico Claudel. Il Claudel è troppo grande artista per preoccuparsi di certi scrupoli dei «cattolici autentici»; quando gli giova per il raggiungimento di un fine artistico, non evita di servirsi delle cosiddette parolacce, e i personaggi dei suoi drammi si accostano talvolta piú a quelli del Cantico dei cantici che a quelli del resto della Bibbia. Sensualismo, sbraita Saverio, e distingue risibilmente la vera corrente cattolica francese dei Bourget e dei Barrès (che è cattolico per convenienza politica) da quella di Claudel, che pure osserva tutte le pratiche del culto, dal digiuno del venerdí alla preghiera dell'angelo custode. Il piccolo fariseo del consiglio comunale pare abbia la fobia della scollacciatura, eppure non sarebbe difficile dimostrare che scrittore piú pornografico di lui non esiste neppure tra i collaboratori di «Sigaretta» o di «Voluttà». E non già per il fatto noto che il nostro moralista ami recarsi ai piú spettacolosi veglioni a braccetto di eleganti donnine, ma perché, come mi confessava un molto intimo amico, quando si legge una delle pappolate poetiche pascolineggianti di Saverio, è tanto il ribrezzo che destano in chi è sano di cervello e di corpo quelle sue Concette servette di curati intabaccati, che entra furiosamente nelle vene il desiderio di abbracciare una bella donna viva che non sia gelatinosa e clorotica come quelle che la fantasia dei solitari masturbatori del «Momento» offre alla libidine dei giovani della «Cesare Balbo».

Pare inoltre che alcuni censori piú papalini del papa e piú «autentici cattolici» di Saverio si domandino se sia compatibile il mestiere di moralizzatore a tutti i costi e quello di avvocato difensore anche delle peggiori canaglie. Infatti se è sensuale Claudel, perché nei suoi libri introduce personaggi che ubbidiscono anche a quegli istinti demoniaci bollati dal critico, come potrebbe definirsi l'avvocato cattolico che per amor della parcella difende anche chi conosce per perfetti bricconi? L'integrale fusione tra il privato cittadino cattolico e l'artista deve essere affermata anche per il cattolico e l'avvocato, se no dove va a finire l'autenticità?

(7 febbraio 1916).

LA PATRIA AL MAFFEI

Domenica al Maffei. Gli altri ritrovi in questo giorno sacro al riposo e al divertimento sono stipati di pubblico, e non è davvero piacevole rischiare le costole e tuffarsi in una atmosfera discretamente satura di indefinibili odori umani per annoiarsi a una produzione seria, o quasi. Al Maffei si respira e si sentono delle porcheriole che ormai non fanno arrossire neppure le educande, e una musichetta che concilia le riflessioni piú rosee sulla vita degli uomini. Le donnine sul palcoscenico sono piú o meno piacenti e solleticanti, lo spirito è piú o meno di buona lega, ma di domenica ci si può accontentare anche di questo poco pur di cacciare la malinconia della festa che serve solo a far mettere in mostra tutte le piccole vanità della mediocrità cittadina.

Piú malinconica di noi pare sia la divetta che è stata salutata dalla scrosciante salve di fischi che le bocche proletarie hanno fatto gioiosamente risuonare. Camicetta rossa, fascia bianca, sottanina verde e... gambette rosa. Italia da oleografia, truccatura di patriottismo che in questi tempi difficili può anche riuscire a far dimenticare la voce sgangherata e le forme ormai stanche nella violenta luce della ribalta. E i fischi sono proletari, ma non perciò meno patriottici; eppure alcuni protestano contro la protesta. Questi alcuni che consentono al tricolore di coprire il contrabbando di una qualsiasi sgualdrinella, sono magari gli stessi che dicono di voler salvare la bandiera dal letamaio metaforico degli antimilitaristi ex polledri, sorrisi sarcastici della vita quotidiana. Il tricolore, simbolo della Patria che domanda per il Moloch belligero il sacrificio della vita ai cittadini, è difeso da quegli stessi proletari che tutti accusano di antipatriottismo e di «ben vengano i tedeschi». Ma non fa meraviglia. Solo chi è abituato a prendere sul serio certi simboli e certe affermazioni, possiede la sensibilità necessaria quando ad essi si fa vituperio e oltraggio. Chi vede nella politica e nella storia solo la fiera, la coreografia, il corteo rutilante di colori e di decorazioni e rimbombante di discorsi che puzzano di lucerna accademica, come può sentire tutto il grottesco di questi appaiamenti: Maffei e Patria, tricolore e gambette rosee della divetta che stona l'ultima sciocchezzuola birichina dei boulevards? Non abbiamo assistito tempo fa ad un tentativo di applauso alla Marsigliese cantata in una delle pochade dove piú viene diffamata la Francia nel suo esercito, nelle sue donne, nei suoi costumi, che non sono né migliori né peggiori di quelli di tutto il resto del mondo? Ebbene noi, se qualcuna di queste bestioline del piacere gorgheggiasse un nostro inno per strapparci il soldino e l'applauso, e la borghesia protestasse, saremmo d'accordo e ci uniremmo nella salve dei fischi con tutta la forza dei nostri polmoni.

(9 febbraio 1916).

DA GIOVANNINO

Sono capitato in buon punto. Vedo a Porta Nuova «aria ai monti», in automobile, diretto alla stazione centrale. Indubbiamente c'è un arrivo importante. Da cronista zelante mi precipito alla stazione. Arriva Giolitti da Cavour. Sono le 19. Ecco lí «aria ai monti» che scende dall'automobile. Quanti dolci pensieri, quanto desio in quei brevi minuti di attesa! Proprio sette giorni prima, in questa stessa ora di blandizie crepuscolari, «aria ai monti» accompagnava alla partenza l'altro grande ospite. Ora il desio volge altrove. «Aria ai monti» anche stasera è dantesco. Mi faccio dappresso. O sogno o «aria ai monti» mormora veramente non so che cosa. Forse si prepara mentalmente alle espressioni di saluto. Ed ecco il treno. Giolitti scende, alto, gagliardo, franco. Non invecchia costui. «Aria ai monti» gli va incontro; ecco la mano tesa e i piccoli occhi di ramarro infregolito lucidi e ridenti...

— Sai? Ho qui fuori l'automobile...

— Ma come! Come se tu non sapessi che sono solito scendere al Boulogne a due passi dalla stazione. C'è già Guercio che mi attende.

— Già! Ma cosa vuoi... Voglio proprio che si sappia che dopo tutto, sono ancora quegli di prima. La tua amicizia soprattutto... Hai letto il mio discorso?

Giolitti sorride, allunga il passo svelto e forte. Li seguo. Vi garantisco che devono prendermi per un poliziotto.

Giolitti continua a sorridere e dice, questa volta in purissimo dialetto piemontese che io non so trascrivere: — Ho letto, ho letto. Bene! Bene! Hai citato ancora Dante...

«Aria ai monti» dà una strizzatina di occhi come per dire: — Eh! al postutto, Dante è il vicino mio grande

— Già Dante. Ma quel verso tornava tanto a proposito per Salandra!

Si tratta dello stesso verso che «aria ai monti» incluse in due precedenti discorsi rispettivamente in morte di Graf e di Renier.

— Ma che pensi del mio discorso, del mio, sai?

— Ma è proprio tuo?

— E di chi dovrebbe essere?

— Dunque non è vero che te li prepara un certo letterato...

— Vedo che vuoi scherzare. Sei sempre arguto; non sei mai di malumore. T'invidio... Ma quel Salandra! Mi ha dato dell'amico carissimo, e poi col suo discorso, guarda un po' che vespaio ha voluto sollevare. Ma è cosí scontroso, sai? ... Però, senti Giovannino...

A questo punto «aria ai monti» fa per prendere a braccetto Giolitti. Siamo presso l'automobile. «Aria ai monti» fa cenno allo chaffeur di attendere ancora.

Caso raro! I due personaggi sono passati sotto le tettoie della stazione senza il solito codazzo di curiosi.

— Senti dunque Giovannino, Salandra mi fa capire che... Ah, se non ci fosse quel Frassati, cosí duro con la sua testa di biellese.

Giolitti sorride in modo non dubbio; sorride ironicamente. Allunga il passo e senza attendere la riverenza dello chauffeur sale sull'automobile. «Aria ai monti» lo segue e via verso l'Hôtel Boulogne.

Piú tardi al Boulogne tento un altro avvicinamento. Non attacca. Guercio non può prendermi per un figliuolo di Donvito e debbo andarmene. Di certo so solo che il discorso iniziato all'arrivo del treno tra Giolitti e «aria ai monti» è proseguito al Boulogne per oltre mezz'ora e che un cameriere ha udito tutto o quasi...

Chissà che non riesca a pescar quel cameriere...

(10 febbraio 1916).

IL PUDORE

È quella tal delicatissima cosa che ognuno sarebbe imbarazzatissimo a definire. Complesso di sensazioni di ribrezzo, di nausea per certi atteggiamenti fisici e morali che variano di volta in volta e di persona in persona, pur mantenendo immutato il nome. Se fossimo scienziati della scuola positiva e muovessimo nelle nostre ricerche di sociologia sperimentale fin dalla preistoria, potremmo sostenere la cinica tesi che il pudore, secondo la cosí detta filosofia del linguaggio, era ed è ancora la reazione fisica del nostro organismo per certi spiacevoli odori, e l'imperativo categorico che il ritegno e la vergogna impone di non far sentire e vedere agli altri ciò che dispiace a noi stessi. Ma siamo piú modeste persone. Cosí nel mio odio per le tesi paradossali ammetto senza discussione che il pudore esiste ed è una cosa molto delicata e rispettabilissima.

Non posso ammettere però che possa esistere il pudore in astratto, come entità trascendente uomini e cose, perché altrimenti dovrei riconoscere che tutti gli uomini non fanno che continuamente oltraggiare questa nuova divinità giuridica. Eppure il codice, tanto caro in questi suoi articoli a tutti i pruriginosi Gigioni del nostro paese, lo ammette e lo salvaguarda. Tanto che i giudici, siano essi anche popolari, arrivano a conseguenze addirittura strabilianti. Vedete ciò che è capitato al repubblicano Chiavassa. Egli ha cercato di strangolare la sua amante cacciandole in gola il piú caro pegno d'amore, le rosee mutandine, e i giurati hanno ammesso la totale infermità di mente, e l'hanno mandato assolto. Ma il disgraziato non solo aveva fatto del male alla viva, concreta persona umana di Marta Mottura, aveva anche oltraggiato l'indefinibile ed evanescente divinità Pudore, e allora l'infermità di mente non è valsa piú di zero, e i giurati l'hanno implacabilmente condannato. In tutto ciò esiste un'assurdità che dovrebbe saltare agli occhi di chiunque. Poiché diritto e procedura dovrebbe essere la cosa piú concreta e piú palpabile di questo mondo. Tanto concreta e palpabile che ricordo non aver offeso il mio senso comune, sebbene mi abbia fatto ridere, il caso di quel vecchietto che denunciò un giovanotto per offesa al suo pudore, e riuscí a farlo condannare perché pare che, buontempone, cogliesse proprio il momento di essere visto dal querelante per abbandonarsi ad esposizioni di cattivo gusto (il caso, se bene ricordo, fu proprio riportato umoristicamente nell'«Avanti!» dall'allora compagno Silvano Fasulo). Ma il Chiavassa di chi aveva offeso il pudore? Forse della sua amante? O questa non aveva fatto viceversa? E allora non sarebbe ora che certe cose fossero contemplate nel codice senza tanti pregiudizi e con un senso piú vivo della realtà? Nel Medioevo si imbastivano processi anche contro gli animali che avevano in qualche modo offeso l'Iddio dei cristiani. Tanto era vivo il senso dell'esistenza fuori della coscienza umana della divinità che anche gli esseri irragionevoli erano tenuti responsabili del sacrilegio. Ci pare che per il pudore si sia ancora nel Medioevo. Non si ammette che esso esista fuori della coscienza umana e dei singoli individui a tal punto che si ritiene colpevole e meritevole di una sanzione punitiva anche colui che nello stesso istante è ritenuto irresponsabile di un delitto commesso a danno della carne e delle ossa di una donna che vive, mangia, beve e veste panni?

(12 febbraio 1916).

SCORRETTEZZA

Il direttore della «Gazzetta dei tribunali» mi ha rivolto una paternale cosí amorevole, che ancora, mentre scrivo, ne sono commosso. Prendo atto che l'avv. Brusasco approva certi attacchi personali dell'«Avanti!» nei riguardi della faccenda dei conti dell'Esposizione. Egli però non è convinto della giustezza di altre nostre invettive ed eccolo a protestare per gli attacchi a questa o quella persona. Si parla addirittura di aggressione personale. Non voglio giustificarmi e dire, anzi, ripetere le ragioni che ci hanno indotto a collocare sotto la Mole, a mo' d'esempio, il signor Lettel e il signor Nofri. L'avv. Brusasco, che pare legga assiduamente il nostro giornale, è invitato a rileggere le nostre espressioni «aggressive» e constaterà che esse derivano da una ragione tutt'altro che cervellotica. Apprenderà che il signor Lettel è quegli che tentò di accreditare sul suo giornale la turpe calunnia di un'intesa pecuniaria tra i socialisti torinesi e certe alte personalità politiche estranee al nostro partito; e l'accreditamento era tentato proprio quando molti nostri compagni erano in carcere. L'avv. Brusasco ignora anche la conferenza dell'on. Nofri agli allievi ufficiali. La serie delle conoscenze dell'on. Brusasco non è finita qui. Egli può farsi dare la raccolta di un certo giornale nazionalista che si stampa a Torino e in esso troverà che in fatto d'insinuazioni e di calunnie antipaticamente, sconciamente provincialesche noi socialisti torinesi siamo sempre in debito presso certi avversari. Ora l'avv. Brusasco ci invita a fare i bravi figliuoli; ci dice che per la resa dei conti abbiamo ragione, per altri casi, no. Il direttore della «Gazzetta dei tribunali» esprime un giudizio puramente soggettivo che non confà al caso nostro. Perché le nostre «aggressioni» irruenti colpiscono nelle persone un'espressione politica, non il singolo, ma l'avversione politica. A gente come quella che l'avv. Brusasco fa oggetto della sua difesa giornalistica, noi non possiamo certo mandare a regalare piatti di lattemiele; però si convinca il Brusasco che gli attacchi nostri non derivano mai da una bassa ragione di risentimento personale: v'è in essi solo la ragione politica. Politicamente noi non possiamo essere tolleranti, imparziali; non siamo, per dirla con una bella espressione di un grande e perfido aggressore della parola quale Federico Nietzsche, ranocchi d'oggettività, né possiamo praticare nella nostra carne di militanti nel partito della lotta di classe iniezioni di sangue d'agnello.

E non si parli, per carità, di volgarità. Il direttore della «Gazzetta dei tribunali» non dimentichi la rubrichetta che il suo giornale dedica settimanalmente ad alcuni socialisti torinesi. Non parli di volgarità a noi che di contro alla volgarità vera di certi avversari ci vien fatto di ricordare e di ripetere l'invettiva carducciana. Perché anche noi ci sentiamo plebei, e non vogliamo essere gentili; amiamo le intemperanze plebee e le irruenze polemiche che tradiscono la nostra repressa volontà d'azione e la nostra indomita passione politica. E plebeamente continueremo ad attaccare e rivendicare il diritto d'aggressione contro tutte le volgarità e anche contro coloro che confondono il plebeo col volgare.

(14 febbraio 1916).

LA BUONA STAMPA

Mi piace fermarmi a lungo dinanzi alle vetrine dei librai e scorrere cogli occhi i volumi allineati, cercando di fissarmi bene nel cervello l'immagine di quelli che piú vorrei avere. Mi fermo anche dinanzi alle librerie cosí dette religiose e ogni volta che ciò m'accade provo sempre un nuovo stupore. Sicuro: vedo volumi su volumi, di ogni specie, su tutti gli argomenti, e su molte copertine impressa la dicitura: 20.a, 30.a e persino 50.a edizione, e mi domando come mai libri che riescono a raggiungere tirature cosí elevate siano ignoti o quasi nel mondo della cultura, e nessuno ne parli, e sfuggano cosí completamente al controllo della critica scientifica e letteraria. Non posso credere che le tirature denunciate siano un bluff editoriale, e perciò sento ammirazione ed invidia per i preti che riescono ad ottenere effetti cosí palpabili nella loro propaganda culturale.

In realtà noi non ci curiamo troppo di questo lento lavorio di impaludamento intellettuale dovuto ai clericali. È qualcosa di impalpabile, che scivola come l'anguilla, molliccio, che non pare consistente e invece è come il materasso che resiste alle cannonate piú delle mura di Liegi. È incredibile la quantità di opuscoli, riviste, foglietti, corrieri parrocchiali che circolano dappertutto, che cercano infiltrarsi anche nelle famiglie piú refrattarie, e che si occupano di tante altre cose oltre la religione. Ricordo, per esempio, questo fatto: ho visto due o tre anni fa, quando persino il «Corriere della Sera» attaccava gli zuccherieri per l'esosa speculazione che esercitavano, e ancora piú che mai esercitano, un foglietto non piú ampio di una cartolina illustrata, uno di quei misteri non so se settimanali o mensili che una beghina si incarica nei paesi di distribuire mediante il versamento di un abbonamento annuo di dieci centesimi. Ebbene, in quel mistero da una parte c'era effigiato Gesú Cristo in croce che subisce l'estremo oltraggio, e dall'altra stampato il consiglio di pregare in quella settimana (o in quel mese) per i poveri zuccherieri cosí ingiustamente perseguitati dai nemici della religione, quali i socialisti e l'immancabile massoneria. Suggestivo accoppiamento di Gesú in croce e di Maraini perseguitato da Giretti. È un esempio e vale solo come tale. Eppure ricordo che mi fece riflettere, e sempre mi ritorna alla memoria ogni qual volta mi fermo dinanzi ad una vetrina libraria religiosa e vedo allineati tutti quei volumi dall'apparenza modesta, schiva dei facili lenocini dell'eleganza esteriore, non pericolosa. Mi domando ogni volta: a qual diavolo mai parente di Maraini avranno accoppiato il buon Gesú questi farisei sostenitori e divulgatori della buona stampa?

(16 febbraio 1916).

IN DIFESA DI UN LADRO

Quell'impiegato della Banca commerciale che era riuscito ad appropriarsi di quarantamila lire, aveva fatto indubbiamente un buon colpo. Il piacere del successo è durato meno delle celebri rose. Per quanto egli avesse ben studiato il suo piano, lo hanno scoperto e arrestato. Non gli hanno lasciato nemmeno il tempo di godere quei soldi che era riuscito a procacciarsi senza sudore, ma con molto pericolo. Ha dovuto rinunciare all'appartamentino ammobiliato con lusso e alla fidanzata che doveva sposare, per seguire le guardie di P. S. che lo hanno tradotto alle Nuove. Quanti sogni svaniti, quante speranzielle infrante!

È un disonesto — certo — chi si appropria di quaranta biglietti da mille, abusa della fiducia in lui riposta; è un ladro matricolato.

E sia pure! Ma se noi fossimo avvocati e ci si incaricasse della sua difesa, vorremmo chiedere al processo la sua assoluzione per inesistenza di reato, o vorremmo costituirci parte civile contro gli amministratori della Banca commerciale che non solo dovrebbe rispondere della rovina di un giovane, ma anche di eccitamento a delinquere.

Quel Silvola che ha rubato le quarantamila lire era impiegato da tre anni alla Banca commerciale. Aveva dimostrato buona volontà e intelligenza, e la Banca lo compensava col lauto stipendio di lire novanta mensili!

L'onestà è il primo dovere dell'uomo. Sicuro! Ma bisognerebbe essere eroi per conservarsi onesti quando le tasche e le budella sono vuote e quando avendo il portafoglio disoccupato si vedono passare davanti agli occhi fasci di biglietti grossi.

Fate il conto. Trovate a Torino una trattoria che vi dia pensione, che vi dia da dormire e vi faccia lavare e stirare la biancheria per novanta lire? E quando l'avete trovata, se guadagnate soltanto novanta lire, diteci dove andrete a prendere i quattrini per pagarvi i vestiti che devono essere decenti e decorosi quali si convengono a un impiegato della Banca commerciale. E poi quante altre cose occorrono, giacché, in verità, l'uomo non vive di solo pane!

L'impiegato ha avuto il torto di innamorarsi e di pretendere una moglie, una casa propria, con le gioie non senza spine della famiglia. Ah! Il decoro, il decoro!... Quando si guadagna uno stipendio di novanta lire, o si fa il voto di castità per sempre, oppure si cerca una fallofora da proteggere. E non ci si deve sposare se non si riesce a trovare una moglie con almeno cinquemila lire di rendita.

Delizioso mondo borghese!

(17 febbraio 1916).

LA RIFORMA DELLA POLIZIA

Mutano i saggi... È vero ed è umano che sia, ma questi benedetti saggi dovrebbero cercare di mutare con giustificazioni che non siano il riflesso dei loro particolari interessi, perché qualche maligno non insinui che essi sono saggi solo nel rovescio della medaglia.

C'è stata tempo fa, prima della guerra naturalmente, una polemica vivacissima sui metodi della polizia e qualcuno aveva suggerito persino dei rimedi e delle riforme. Anche nel campo liberale si incominciava a capire che gran parte dell'asprezza che assumevano talvolta le manifestazioni proletarie era dovuta alla brutalità degli agenti che, arruolati nei piú luridi bassifondi della società, mal stipendiati, malvisti, avevano finito col diventare una vera e propria sacra istituzione che aveva l'autorità persino di decretare la morte di un individuo e di eseguire sull'atto la sentenza, senza che l'opinione pubblica borghese se ne commovesse neppure a fior di pelle. Ricordo che appunto un settimanale liberale di Milano fu di quelli che ammonirono che erano necessari provvedimenti, e consigliava di far rientrare i questurini nel ruolo di rivendicatori dei crimini comuni, e di tenerli lontani dalla politica. Ma il «Corriere della Sera» insorge fieramente, dicendo che le cose erano sempre andate nel migliore dei modi, e che dovevano essere i socialisti i primi a cambiare, a bonificarsi, ad essere meno maleducati, ecc. ecc.

Non ragiona piú cosí il «Corriere» dell'altro giorno. Leggiamo parole come queste: «Dove si possono meglio fondare i sospetti di attività criminosa ivi la polizia dovrebbe, piú energica, piú assidua e soprattutto piú in tempo, svolgere la sua opera di pubblica sicurezza. Perché se la pubblica sicurezza significasse soltanto garanzia di veder ammanettare i malfattori quando i malfattori si degnano di offrire i polsi, la sicurezza pubblica sarebbe la piú trascurabile delle utopie...» Detto molto bene, ma ci pare che la polizia non abbia poi tutti i torti. Chi ha insegnato ai questurini essere piú pericolosi per la pubblica sicurezza? I ladri, i falsificatori, o i sovversivi? Rimangono forse a poltrire in panciolle questi strumenti della giustizia? O non li vediamo assidui, volta a volta mogi e tracotanti, passeggiare intorno ai nostri ritrovi, al nostro bel palazzo di corso Siccardi, accoccolarsi per delle ore per ascoltare i discorsi, dando di sé spettacolo non certo edificante ed educativo? O come volete che questi disgraziati, mentre devono sorvegliare i socialisti, possano anche sorvegliare chi falsifica le cartelle del prestito o le case malfamate, dove è possibile a dei malviventi radunarsi per mesi e per anni, complottandovi furti innumerevoli, raccogliendovi la refurtiva di quintali e quintali di carbone senza che nessuno se ne accorga e provveda? Insomma, è necessario che certa stampa, che è la voce piú autorevole della classe dirigente, si decida. Sono piú pericolosi i sovversivi o i malandrini? Tra i due malanni quale bisogna preferire? Fino a ieri il «Corriere della Sera» preferiva i malandrini, [una riga censurata] pare preferisca i sovversivi.

Mutano i saggi...

(18 febbraio 1916).

LA CONFERENZA E LA VERITÀ

La guerra ha fatto nascere un nuovo genere letterario: la conferenza patriottica. I giornali cosí chiamano almeno tutti quei discorsi che prendono come spunto un fatto o un altro interessante la cultura o la storia, l'ovattano ben bene di parole d'occasione e lo servono caldo caldo al pubblico, perché ne tragga persuasione di una tesi e viatico spirituale per questo tremendo periodo che attraversiamo.

Noi siamo persuasi che i fatti dovevano rimanere tali anche in tempo di guerra, e che la storia e la cultura sono cose troppo da rispettare perché possano essere deformate e piegate dalle contingenti necessità del momento. La verità deve essere rispettata sempre, qualsiasi conseguenza essa possa apportare, e le proprie convinzioni, se sono fede viva, devono trovare in se stesse, nella propria logica, la giustificazione degli atti che si ritiene necessario siano compiuti. Sulla bugia, sulla falsificazione facilona non si costruiscono che castelli di vento, che altre bugie e altre falsificazioni possono far svanire.

Qui a Torino abbiamo sentito in questi ultimi mesi un numero cospicuo di conferenze e di qualcuna abbiamo fatto giustizia senza pietà e senza rimorso. Ma ce n'è rimasto in fondo all'animo una specie di nausea e di disgusto. Perché abbiamo trovato che questa guerra ha dato modo alla democrazia facilona e chiacchierona di rimettere in circolazione e di attossicare gli spiriti con tutti quei luoghi comuni che tanta fatica avevano durato i socialisti per cacciar via e sradicare. Per molte di queste ragioni la democrazia è la nostra peggiore nemica, è quella con la quale dobbiamo sempre essere pronti a fare a pugni, perché intorbida il limpido distacco delle classi, e vorrebbe quasi diventare le molle della carrozza che servono a far pesar meno sulle ruote il carico dei passeggeri e ad evitare gli scossoni che possono far ribaltare. Non che le conquiste democratiche non siano desiderabili, ma devono esserlo solo come mezzo e possibilità di piú rapido sviluppo, e non già come fine ultimo della storia. Devono insomma diventare strumenti della lotta di classe e non motivi per sdilinquimenti ed abbracciamenti generali. Bisogna constatare che la propedeutica della guerra è fatta su motivi e su chiave democratica, e che la democrazia abusa un po' troppo di questa sua posizione per lanciare nell'arringo uomini che meglio starebbero nell'ombra, perché nulla essendo nessuna parola nuova possono dire, nessuna volontà fattrice di storia possono creare. A Torino c'è stato un vero diluvio di personalità e di personcine democratiche. Tutte le sciocchezze hanno detto, tutti i luoghi comuni. E ben farebbero i proletari a frequentare di piú i ritrovi per conferenze. Ne ritrarrebbero lo stesso insegnamento che gli spartani traevano dalla vista degli iloti ubriachi. Senza contare che si farebbero un po' di sangue buono quando la fortuna concedesse loro uno spettacolo simile a quello che al salone Ghersi ha dato il prof. Romano.

(19 febbraio 1916).

DEFORMAZIONI

Sotto il sole che fa rinascere tutte le cose mortificate dall'inverno, osservo come immerso in letargo lo sciame gaietto delle bambine che sulla collina si sbizzarriscono in giochi senza senso, in strilli, in corse pazze, tutte liete di questo pomeriggio d'oro, lontano dalle stufe e dalle aule del paese che vede fiorire l'arancio, ma anche il fungo e la muffa. Osservo senza riflettere, per il piacere del quadro, dei colori, della città che amo vedere intensa ed attiva negli altri, specialmente quando meno sento di poterla vivere io in quel modo.

Ma deve essere arrivata l'ora regolamentare, perché due signore chiamano e mettono in colonna le bambine, in ordine... e un inno marziale si leva da quel coro di vocine acerbe e, con uno scalpitio di ben ritmati passi, lo sciame s'allontana. Sotto il sole che mi scioglie le rigidezze dei nervi, seguo sempre il vocio che s'allontana, sento cambiare il motivo della canzone, ma non il ritmo dei suoi versi marziali, e sorrido pensando agli eserciti di amazzoni pugnaci che la scuola vuole regalare alla nazione.

Non capisco perché delle bimbette di otto o nove anni debbano essere cosí violentemente costrette nell'abitudine fisica a camminare col passo dell'oca di Strasburgo, e nell'abitudine mentale a ripetere e ripetere le banalità che i poeti d'occasione credono sia dovere loro propinare anche agli scolaretti delle elementari.

Mi piace veder giocare i bimbi perché li so liberi nei loro atteggiamenti; non regole di gioco, non leggi d'onore; la fantasia loro si crea mondi fittizi che non hanno logica né codici, e li pone in azione. Ma, come nella favola di Oscar Wilde, c'è sempre qualcuno che intralcia, che impedisce che la loro vita si espanda. La maestra ordina il rango che intona i primi versi e sta attenta a che nessuno sgarri il passo o la nota. La maestra rappresenta la società media coi suoi pregiudizi e la sua aridità, con le vanità e le debolezze di tanta gente che vuole immischiare anche i bimbi alle manifestazioni di ogni fiera politica o religiosa e li fa levare alle cinque del mattino perché possano andare alla stazione per le onoranze a Salandra o al cimitero per un illustre estinto, e nel meglio dei loro giochi, mentre l'aria dolce, tiepida della campagna inviterebbe queste piccole vittime della città a rincorrersi sul margine delle siepi o a unirsi in piccoli gruppi per comunicarsi pensierini e velleità da passerotti, la maestra fa stringere la fila, le gambe devono sollevarsi diritte e compassate secondo un ritmo di parole convenzionalmente marziali e patriottiche per rientrare nel grigiume della vita, nel casone enorme, nella via pericolosa, nella scuola arida, fatta di meccanicità come appunto il passo di parata e le canzonette che si ripetono non per ciò che significano, ma per ciò che suonano...

(21 febbraio 1916).

CANI ARRABBIATI

È il grazioso nomignolo che ci dà uno dei tanti foglietti semiclandestini che pullulano all'ombra della Mole; quello che dell'attività umoristica pedemontana si è riserbato la bandita della politica estera, e ogni settimana spartisce per la cultura dei suoi lettori il mondo coi suoi annessi e connessi, riserbando naturalmente all'Italia la fetta piú grossa e piú dolce del panettone. Il nomignolo ci piace e lo facciamo nostro senz'altro. Crediamo che anche i cani rabbiosi abbiano nella vita sociale una loro funzione, e importantissima, e noi come per il passato continueremo a svolgerla del nostro meglio.

A Torino, per riconoscimento universale, la vita pubblica si svolge nel piú arcaico e buffo dei modi. Ogni scazzonte vi può passare per gran uomo, ogni bulicare di letamaio diventa fatto politico di prim'ordine. Il controllo, la critica non esiste. Esiste il soffietto, l'adulazione piú piatta e disgustosa. Non per nulla Torino è specialmente illustre per i suoi confettieri: tutto vi è inzuccherato, all'acqua di rose. Capitiamo noi in mezzo a questo pollaio di tacchini tronfi e pettoruti, e siccome abbiamo pochi rispetti umani e non ci lasciamo abbagliare dal luccichio delle penne, facciamo strillare parecchia gente e ci tiriamo addosso un sacco di improperi e di maledizioni. Ohibò! quanto schiamazzo per della gente della quale non ci si cura e che si rivolge solo ai proletari. Evidentemente si sente che i nostri morsi non sono dati a caso, e che la nostra rabbia ha uno scopo ben determinato.

Com'era bella la vita d'Arcadia della Torino d'altri tempi! Teofilo Rossi attendeva con modestia e disinteresse a fare raccolta di decorazioni, a strapazzare Dante nei suoi discorsi e ad educare i suoi rampolli froebelianamente, abituandoli a seguire le orme paterne con l'ornare i loro alberi di Natale di dischetti metallici riproducenti il collare dell'Annunziata o l'ordine dell'Aquila nera. Come non avrebbe dovuto essere buon amministratore di una grande città chi aveva saputo ammassare milioni con la professione di vinattiere e aveva mostrato tanti scrupoli e tanta solerzia contabile nell'Esposizione del 1911? Il conte Orsi democratizzava boterianamente, coscienza limpida ed austera di infelice in politica che attende il suo astro. Giolitti faceva le sue periodiche capatine ossequiato e osannato. C'erano i socialisti che di tanto in tanto obbligavano il comune a spese straordinarie, [mezza riga censurata] ma si sa, qualche molestia è pure indispensabile ci sia, e senza qualche fastidio come si apprezzerebbe nella giusta misura la tranquillità? Il prof. Cian sembrava con la sua invadente persona voler portare una nota nuova nella vita cittadina: l'imperialismo comunale, con l'annessione di Cavoretto alla cinta daziaria, se la guerra glie ne avesse dato il tempo e se Bevione non l'avesse tradito. Le assemblee comunali tra i discorsi del Borini e del Mussi, e la elefantesca agilità polemica dello Zaccone o di Saverio dalla barba fiorita, si trascinavano in una beata strafottenza di tutto e di tutti. Era proprio un idillio, una corte d'amore quella vita torinese, quando a rompere qualche alto sonno è capitata questa pagina dell'«Avanti!» con la sua petulanza screanzata e da monella. Il suo ronzio di vespa ha turbato molti sonnellini, ha messo in corpo a molti un'irritazione sorda e nervosa. «Chi sarà lo scorbacchiato di oggi?», si domandano i lettori aprendo alla mattina il nostro foglio. Perché a Torino, come abbiamo detto in una delle prime note corsive, abbondano gli esemplari di quella sottospecie zoologica che è stata chiamata degli «idioti con decoro». Noi abbiamo dimostrato che di decoro ne avevano pochino pochino, e allora sono rimasti solo col primo attributo poco onorevole. Noi abbiamo dimostrato, non abbiamo solo cicalato, abbiamo dato le prove della nostra affermazione, li abbiamo colti in atto, nella conferenza o nella vita amministrativa e giornalistica, e la punzecchiatura perciò è stata piú dolorosa, perché non lasciava adito alla smentita.

Cani rabbiosi, benissimo! Sono i cani rabbiosi che attraversando le strade cittadine sotto la sferza della canicola obbligano le donnine dei marciapiedi a correre, a sollevare le gonnelline e a mostrare tutto lo schifo dei loro dessous.

(22 febbraio 1916).

IL CANNONE DI ORBAN

Come si sa, era anche piú grosso del 420 (era di 650 mm), ma scoppiò subito dopo il primo colpo che aprí la breccia nelle mura di Costantinopoli e permise a Maometto II di fare il suo ingresso trionfale in Santa Sofia. Ci pareva che la celebre bombarda fosse di nuovo risuscitata quando Madame Sorgue si è presentata alla tribuna, accompagnata da Orban, cioè da Donato Bachi, l'acciarino che doveva dar fuoco al colpo micidiale. L'Università popolare, o chi per essa, non ha avuto la mano felice, come, invero, non l'ha mai, o quasi mai avuta. Il problema dell'atteggiamento dell'Inghilterra nella guerra europea è cosí complesso, cosí strettamente legato alla storia, alla costituzione dell'impero inglese, che non una incompetente come Madame Sorgue avrebbe dovuto parlarne, ma qualche altro che avesse al suo attivo, oltre che buona provvista di aggettivi e di espressioni luccicanti (De Sanctis ha detto che l'aggettivo è il modo di esprimersi di chi non intende), anche della soda preparazione culturale e serietà di intenti e che vivesse intensamente il dramma della catastrofe europea per comunicare agli altri il brivido di questa sua commozione. Madame Sorgue ha diffamato l'Inghilterra. Sicuro: perché presso chi si rispetti, tutto il tritume di banalità che ella ha rovesciato sulla cinquantina di persone che l'ascoltavano, non poteva che far ridere dell'Inghilterra e degli inglesi, e non fa meraviglia che al suo invito di gridare Viva l'Inghilterra, abbia risposto invece il grido di Viva... la Francia. Donato Bachi sarà contento allo stesso modo, ma non dovrebbe essere contento il segretario dell'Università popolare, che dovrebbe capire che non si può e non si deve ridurre un'istituzione di cultura a palestra di tiro contro le mura di... Costantinopoli, e non si devono storpiare gli ascoltatori coi frantumi del bronzo d'un cannone scoppiato. Dovrebbe capire, e con lui molti altri, che la guerra è troppo terribile cosa perché possa essere trastullo dei dilettanti della parola, degli oratori di professione che portano in giro la loro tronfia corpulenza cerebrale per oscurare invece che illuminare. Si dice che un giornale ultrainterventista si sia rifiutato di pubblicare il resoconto dell'esplosione. Povera Università popolare! Voleva far conoscere ai torinesi l'Inghilterra, che non ha commessi viaggiatori, che anche in questo momento continua a rimanere un'isola di isole, e fa degli sforzi sovrumani per rinnovarsi, europeizzarsi, e mentre qui a Torino, Alberto Geisser pubblica un libro sull'impero inglese — che è un miracolo di robustezza e di saldezza dottrinale — e Luigi Einaudi nella «Riforma sociale» in vari saggi mostra con quanta simpatia intellettuale abbia accostato la questione inglese, Donato Bachi, l'ultrariformista, fa venire la Sorgue, pedestre e piatta, quantunque dalla voce e dall'aspetto di bombardiera e di genio della furia rivoluzionaria, rimasticatrice di motivi di giornali della stampa gialla, perché dica dell'Inghilterra quacquera e smidollata, povera vittima (quante vittime in questa guerra) della perfidia teutonica. Ma Torino, come si sa, è quella città dove i socialisti bizantineggiano sul pelo della capra, e per sfondare le sue mura granitiche e permettere l'ingresso al sanguinoso cavallo di guerra di Maometto, era necessario Orban e la sua bombarda da 650, anche se essa avesse dovuto scoppiare dopo il primo colpo e mandare in frantumi il disgraziato e scialbo inventore.

(23 febbraio 1916).

I TROMBETTIERI

Oggi sono piú idrofobo e piú cane arrabbiato del solito. Ma credo d'averne ben donde. Da tre giorni, ogni mattina, dalle quattro alle cinque, proprio nell'ora in cui nelle caserme si dà la sveglia ai soldati, di fronte alla mia finestra, nella casa di faccia incomincia la scuola di tromba. Vi prego di credere che non è la cosa piú allegra di questo mondo. Proprio nell'ora piú propizia al sonno riparatore, quando la nervosità della giornata di lavoro si acquieta per la stanchezza, ecco che pare sia arrivato il giorno del giudizio universale e trombe in tutte le chiavi incominciano a squillare con cosí sconcertante insistenza che pare tutti gli echi degli angoli della stanza ne risuonino e i muri stessi siano diventati una cassa armonica. Non giudico, constato. La casa di fronte è grande, è un isolato che si estende da via S. Croce a via Ospedale, ha delle risorse innumerevoli; perché la scuola di tromba debba essere posta proprio di fronte all'enorme alveare nel quale dei pacifici cittadini credono avere il diritto, pagato salatamente, di riposare, non riesco proprio a spiegarmelo. Non faccio una questione personale: naturalmente, essendo la mia idrofobia in causa, sento piú vivamente il torto che si fa ai miei coinquilini, ma mi pare che il mio interesse personale combaci perfettamente con quello di tutti gli altri, perché sia abbastanza giustificata la protesta. Le seccature inevitabili sono già sufficienti a dare agli abitanti della città quel tono nervoso che li distingue dai pacifici ed invidiabili campagnoli. Che proprio non sia possibile evitare queste altre, come la scuola di tromba, cui si potrebbe senza difficoltà rimediare? Capisco che per l'autorità tutoria il cittadino non è che un contribuente che ha solo il sacrosanto dovere di pagar le tasse senza fiatare, di accettare senza protesta tutti i gravami che anche i semplici monopolizzatori delle industrie civiche credono avere il diritto di imporgli, di non turbare la pubblica tranquillità, ecc. ecc. e che per il resto deve cavarsela da sé e non incaricarsene. Ma siccome penso che se domani saltasse a me il ticchio di prendere in affitto un appartamento nel palazzo dove abita il signor sindaco, o il signor prefetto, o il signor comandante della divisione, e di istituirvi una scuola di bombardino o di cornetta con orario piuttosto mattiniero, sentirei strilli e proteste da digradarne tutte le oche di Brema sottoposte all'ingrassamento del fegato, e sarei posto alla porta senza molti complimenti; cosí credo che sarebbe dovere in una città dove si predica l'igiene ed è multato chi sputa sul tram, che si provvedesse perché anche nel caseggiato che va da via S. Croce a via Ospedale le scuole di tromba fossero allogate in appartamenti un po' eccentrici, perché la salute dei cittadini non è posta solamente nei polmoni e nel sangue, ma anche nei timpani e nel sistema nervoso.

(24 febbraio 1916).

SOTTO LA NEVE

Il compitino che le maestre crederanno di dovere infliggere oggi ai loro scolari dirà che sotto la neve c'è il solito cane. I giornali l'hanno risparmiato il solito compitino, e hanno trascurato di scoprire con sempre nuova originalità che Torino sotto la neve è cosí e cosà, che i suoi viali alberati sembrano ricami e trine della fata Morgana, la quale si cura ogni tanto di dilettare gli occhi dei cittadini con le sue bizzarre fantasie. A me la neve fa venire pensieri un po' prosaici e pedestri. Non mi sarebbe difficile ricorrendo a quella preziosissima miniera di motivi poetici che è il defunto «Popolo della Domenica», trovare materia per scrivere una variazione del «fioccate, fioccate, leggiadri fiocchettini», ma preferisco tenermi al sodo.

Sotto la neve... Per esempio la giunta sotto la neve questa volta deve aver trovato un magnifico risparmio. L'anno scorso le abbondanti e impreviste nevicate credo avessero fatto impostare in bilancio una somma di circa settecentomila lire in piú del solito; quest'anno deve esserci stata una spesa minore anche dell'ordinario. Ma non perciò pare che i padri coscritti pensino ad essere meno taccagni verso la periferia: i proletari continueranno a trovare sotto la neve... fango e mota, e in questi tempi di illuminazione ridotta, i loro accidenti non saranno meno energici del solito.

Vagolano per la notte in certi paraggi poco frequentati dalle carrozze padronali ombre scure precedute dal riflesso di lanternine cieche, e per esse la neve sulle strade non ancora selciate non deve essere una cosa molto poetica e suaditrice di pensieri soavi. Il traffico è cresciuto. Camion, automobili, carri e carretti di tutte le proporzioni si inseguono per le strade schizzando a ventaglio cumuli di una poltiglia grassa ed attaccaticcia che, se testimoniano della fertilità della pianura padana, non promettono nulla di buono per i disgraziati che se ne sentono innaffiati. Ma basta che si provveda per il centro della città! Bisogna che esso sia lindo e ben tenuto, secondo il ragionamento della cocotte che si imbelletta la faccia e trascura l'igiene intima di tutto il corpo. Cose da amministrazione Rossi, da bottegai parvenus che ornano di stoviglie istoriate le pareti del salottino, dove si ricevono i visitatori, e ammassano la famiglia in stanzaccie luride del retrobottega. Ma lasciamo i morti alla loro purulenta decomposizione.

Pensieri, come vede il lettore, triviali, pedestri, ma la neve con tutta la potenzialità di poesia che nasconde sotto il suo insidioso biancore non riesce a farmene nascere degli altri, piú fragranti, piú vistosi. E la giornata è d'altronde cosí buia e scolorita, e il cervello mi si ottunde nel riconoscere che, anche senza volerlo, ho scritto il mio bravo compitino, e incomincia a preoccuparmi seriamente il pensiero che sotto la neve io troverò la paura di... sdrucciolare.

(25 febbraio 1916).

IL CITTADINO ONORARIO

A Val della Torre hanno rimandato per il cattivo tempo le onoranze a Teofilo Rossi che dovevano aver luogo domani. La ragione del rinvio è alquanto strana, perché non si rimanda cinque giorni prima per il cattivo tempo una festa che non ha proprio bisogno del sole primaverile per svolgersi. Ma a noi importa poco della città o borgata o casale di Val della Torre e del barometro di cui può disporre il suo farmacista, piú acuto e delicato di Chionio se riesce il 23 a indovinare il tempo che farà il 27. È affar suo se vuole ornare del nome di «aria ai monti» l'elenco dei cittadini. Rivoli ha il monumento a Giolitti, benemerito dell'impresa libica. Cuneo ha dato allo stesso (onore neppure concesso a Cavour che pure aveva dei meriti un pochino piú vistosi) la sua cittadinanza onoraria. Val della Torre si accontenta di «aria ai monti», non potendo pretendere a uno dei numi maggiori dell'Olimpo. Ma all'ultimo momento rimanda a miglior occasione il fausto evento. Peccato, perché il 27, oltre che giorno di paga per gli impiegati era anche la ricorrenza di S. Teofilo, e il nostro amico avrebbe colto due piccioni ad una fava, e avrebbe potuto nel suo discorso, infarcito di qualche verso dantesco, fare anche l'elogio del suo patrono dopo la messa grande, risparmiando al parroco la compulsazione del martirologio.

Ci domandiamo però: per quali meriti speciali Val della Torre aveva deciso di concedere la sua cittadinanza onoraria e la pergamena commemorativa ad «aria ai monti»? Perché molte sono le attività in cui si distingue il nostro, e vorremmo sapere da quale specialmente è stato colpito lo spirito civico dei torresi. Dalle qualità enologiche? Certo molti sono i meriti di chi si preoccupa di addolcire il palato dei propri simili e di dilatare il loro ventricolo con quell'aperitivo di prim'ordine che è il vermouth. Ma questo è un merito nazionale, e vi ha già pensato il re con la contea e il laticlavio. I meriti di dantista? Veramente ricordiamo che il povero prof. Renier, non sospettando che la stessa sciagura sarebbe toccata anche a Lui, ebbe ad esclamare: «Che asino!», quando «aria ai monti», orazionando Arturo Graf, tirò fuori l'ormai famigerato verso dantesco: «Sillogizzò invidiosi veri!». I meriti patriottici? O non era neutralista e giolittiano per la pelle il conte vinattiere fino alla vigilia della venuta di Salandra? I meriti di guerriero? La divisa da capitano degli alpini non crediamo abbia nessuna macchia di sangue, e le trincee espugnate si riducono a quella dell'Hôtel Boulogne e a quella che gli prepara il cuoco per ogni modesto desinare. I meriti amministrativi? Basta sfogliare la collezione della «Stampa» per convincersi quanto essi siano sempre stati grandi; l'ingegnere Sincero potrebbe essere ultimamente interrogato in proposito (ricordiamo gente non sospetta di sovversivismo e trascuriamo i conti dell'Esposizione, intorno ai quali i torresi non devono essere ancora informati). I meriti?...

Ma noi siamo matti e ingenui. Occorrono forse dei meriti per essere nominati cittadini onorari di una qualsiasi città o borgata o casale? La cittadinanza onoraria è quella tal forma di commedia ironicamente convenzionale, per essere protagonisti della quale basta aver mandato una cassetta di buone bottiglie al sindaco o al segretario comunale o al farmacista del paese onorario.

Si dice che sette città si contendessero l'onore di aver dato i natali a Omero. Evidentemente di sei di esse Omero era solo cittadino onorario, ma di lui si era ormai persa la fede di nascita, e l'onore si confuse con il fatto reale. Non crediamo che fra cinquant'anni siano tanti i casali che si contenderanno la cittadinanza di «aria ai monti». Carmagnola ne avrà abbastanza del monumento che la ditta avrà innalzato al suo solerte cantiniere per rendere piú proficua ed economica la réclame del prodotto nazionale e di fama mondiale.

(26 febbraio 1916).

LE BUONE ABITUDINI

La vita dei galantuomini è tutta un tessuto di buone abitudini. Levarsi la mattina, lavorare quel certo periodo della giornata, divertirsi, mangiare, digerire, andare a spasso secondo un programma prestabilito, tutto ciò serve egregiamente a dare alla patria cittadini poco turbolenti, ordinati, disciplinati, che pur di non mancare al caffè o alla partita di tarocchi di una certa ora, son capaci di perdonare alla moglie che li tradisce, o alla serva che, se ruba sui conti, prepara cosí bene quel certo manicaretto domenicale... Cosí avviene che le abitudini, che dovrebbero servire solo a rendere meccaniche certe necessità e quindi a tagliarle fuori dalla nostra vita attiva, diventano delle tiranne, e quali orribili tiranne. Vedete ciò che succede alle società produttrici del gas. Il «Momento», questo disinteressato difensore di tutti gli strozzinaggi, che pubblica una insignificante protesta contro gli zuccherieri solo perché gli sia possibile, per dovere di imparzialità, pubblicare tre colonne schifosamente gesuitiche di difesa, pubblica ora un'intervista con uno che è assai addentro alle segrete cose delle società produttrici del gas, il quale, dopo aver ripetuto ragionamenti da noi confutati ad esuberanza, nega che la società dia dei dividendi. È una fiaba il dividendo. La società dà solo l'interesse fisso di dieci lire stabilito dal suo statuto sessanta anni fa. Ora si capisce che un'abitudine che dura da sessanta anni non può essere smessa cosí da un momento all'altro. Imponete ad un vecchio di settantacinque anni che ha incominciato a fumare a quindici, che smetta perché in famiglia c'è chi non può soffrire il puzzo del tabacco; si scioglierà in lacrime, si immalinconirà, e la sua fine non tarderà a venire. Da sessanta anni capite, un interesse del 10 per cento (non dividendo, per carità, perché il decreto luogotenenziale vuole che sia solo dell'8!) Come si fa a rinunciarvi?

E non hanno torto questi buoni azionisti!

È inutile ricordar loro che lo stato di guerra ha fatto smettere a tutti molte buone abitudini; che ha domandato a milioni di soldati di prepararsi persino a smettere la buona abitudine di vivere! Non è col sentimento che si ammollisce il cuore di un azionista indurito nel vizio. L'intervistato del «Momento» ha detto che finora solo sette o otto consumatori si sono rifiutati di pagare, e che hanno pagato anche i consiglieri socialisti! Non ci scoraggiamo perciò!

Se i consumatori vogliono che la buona abitudine del 10 per cento continui per gli azionisti, perseverino anche loro nella non meno buona abitudine di lasciar fare e lasciar passare. Ma se vogliono che il comune si muova, facciano ciò che abbiamo consigliato: non paghino!

Contro la impassibilità di chi si infischia del malessere generale, solo la violenza vale qualche cosa.

(27 febbraio 1916).

SIC VOS NON VOBIS

Cosí voi, non per voi, o repubblicani, preparate i nuovi destini d'Italia. Ve lo inibisce il nazionalismo locale, che si meraviglia dell'acquiescenza governativa che ha permesso il congresso dei berretti frigi e non si è valso dei pieni poteri per rinsaldare la sacra unione minacciata da Robespierre. E non ha torto Tupin nonché Girola, o la sua caramella, come piace meglio, che ha una sensibilità cosí delicata in politica interna ed estera (anche in questo numero del suo giornale pubblica che «il mondo è nostro», cosa che fa sempre piacere a sapersi), a impensierirsi dell'attività repubblicana.

Era stato scritto infatti che «un solo partito, e quello per avventura piú onesto e piú schietto, il repubblicano, avrebbe ammainato le vele delle proprie pregiudiziali e si sarebbe posto a dar remi in riga con le forze piú o meno vive, ma sempre attive, della Nazione». Invece, anche questo partito, onesto e schietto, pensa all'avvenire, si preoccupa del futuro, sul quale tanti hanno posto ipoteca, e minaccia «audacie» e «iniziative vivaci».

Vorremmo solo fare un'osservazione. È stata rimproverata ai tedeschi la mancanza del senso di reciprocità, del senso dell'altro (che esiste accanto al nostro io), al quale avrebbero dovuto riconoscere diritti, libertà, ecc. ecc. Repubblicani, nazionalisti, radicali, ecc. ecc. si sono stretti in coorte per cooperare a far nascere nelle zucche teutoniche questo senso del quale madre natura avara li aveva orbati.

Ma, cementato il blocco, sono incominciati i dissapori. I nazionalisti, come quelli che si sentono piú in succhio perché perfettamente nell'orbita istituzionale, hanno preteso di dare il la del concertino e da buoni tedescofili della prima ora, non hanno mai potuto ammettere che ci dovesse essere una reciprocità. Libertà... sí, ma solo di difendere i siderurgici, gli armatori, gli zuccherieri dagli assalti demagogici della piazza. Libertà... sí, ma di esporre (censura compiacente annuendo) dei programmi di politica estera che dovevano farci urtare contro alleati già nostri, o che dovrebbero essere tali. [Quattro righe censurate] La patria... ma la nostra, s'intende, ché quella degli altri deve essere subordinata a quella di Tupin. E cosí via. Mazzini, Carlo Marx, Cavallotti, Cavour, in soffitta, e non secchino Francesco Coppola, o Girola. [Dieci righe censurate].

Vorremmo sapere come nel Fascio interventista torinese sarà accolto Tupin dopo la sua tiratina d'orecchi, e come risponderà l'avv. Zanardi nel «Fischietto», giornale che ormai solo a Torino continua le piú pure tradizioni del piú onesto e schietto dei partiti italiani.

(28 febbraio 1916).

COMMEDIE EDUCATIVE

Molti anni fa l'on. Federzoni tenne qui a Torino una conversazione ai suoi amici nazionalisti sull'argomento allora di palpitante attualità: La massoneria e l'esercito, nella quale il dott. Dulcamara bolognese raccontò fra l'altro un piccolo aneddoto della guerra anglo-boera che forse anche oggi potrebbe essere di palpitante attualità. Come cioè il generale Botha non impedisse all'esercito invasore il passaggio di un certo fiume, perché la sera prima aveva ricevuto in stretto incognito la visita di un ufficiale nemico, il quale nella gerarchia massonica poteva, e patriotticamente doveva, imporgli una volontà superiore. Oggi Botha è un fedele suddito di sua maestà britannica, e se Dulcamara allora, come spesso egli è solito, non aveva esagerato, il fatto si potrebbe comprendere anche senza ricorrere a spiegazioni d'ordine superiore. Ma ciò non importa. Ricordo che dopo il Federzoni si levò a parlare un bel vecchio, che mi si disse essere il viceammiraglio Marchese. Con molta semplicità e con foga di convinzione anch'egli parlò contro la massoneria, in modo tale che tutti ne furono impressionatissimi, perché il Marchese citava fatti a lui accaduti. Ma all'uscita, un nazionalista col quale scambiavo le impressioni, mi fece cascar dalle nuvole, assicurandomi che il Marchese era anch'egli un massone e che la commedia era prevista e non era altro che un tentativo di sabotaggio della campagna antimassonica, un mettere le mani avanti, perché la Lega navale torinese era completamente in mano alla massoneria, come la Dante Alighieri, ecc.

Il nome del Marchese mi ricade ora di nuovo sott'occhi e a proposito di una nuova commediola. Come presidente della Lega navale, il viceammiraglio aveva steso una relazione, nella quale dava dei giudizi un po' crudi sull'attività della marina italiana. Inde irae, crisi, dimissioni, scandali che avevano già incominciato a dilagare in corrispondenze a vari giornali della penisola. Domenica si è avuta la nuova assemblea della Lega navale torinese. Ebbene, lo credereste? Dio mio, sí, vi furono dei battibecchi, anche eccessivi, data la buona educazione di quei signori, ma tutto finí nel migliore dei modi possibile: le dimissioni furono ritirate, la crisi, lo scandalo furono evitati, e la patria fu salva un'altra volta e con essa la buona fama della marina italiana. Che cosa sia avvenuto non sappiamo. Noi non abbiamo relazioni coi signori della Lega navale, e questa volta nessun nazionalista di buona volontà poté o volle svelarmi qualche piccolo dietroscena. Dai giornali piú quotati in patriottismo sappiamo solo che, dopo i discorsi dei signori Bravetta, Armiscoglio, Zanzi, Rizzetti ed altri (tutti noti urbi et orbi come critici navali di prim'ordine), il viceammiraglio Marchese «consentí a che fossero cancellate dalla relazione le parole che hanno determinato l'incidente» (sic).

Perché mi è ritornato alla mente l'episodio Federzoni e quello Botha? Mah!... forse qualche relazione potranno trovarcela i lettori. Del resto, tutti gli italiani che si rispettino, in questi frangenti devono trovarsi d'accordo col prof. Cian: Italien über alles.

(29 febbraio r916).

IL GERENTE RESPONSABILE

Gli eruditi, come spesso loro capita, sono caduti in un errore madornale. Non è vero che la poesia epica abbia esaurito il suo compito.

Certo nessuno, eccetto forse qualche parroco di villaggio, sognerebbe di cantare ancora di Orlando e di Oliviero. Ma il ciclo animalesco di Renardo e Lesengrino può ancora essere riaperto con profitto, per chi, per esempio, frequenti le sedute del consiglio comunale di Torino. «Aria ai monti» è inesauribile. Quando proprio crediamo che l'elenco delle sue prodezze sia ormai finito, e che a noi non rimanga che chiudere bottega, egli con gesto regale spalanca una nuova porta, e nuove fughe di stanze si presentano ai nostri occhi, e nuove gallerie, nuovi quadri vediamo che sono ancora da dipingere. Ieri si è presentato sotto le vesti di gerente responsabile. I conti dell'Esposizione, ohibò! «Aria ai monti» non se ne sente toccato. Egli era, è vero, vicepresidente della commissione esecutiva, ma dal 1910 non se ne immischiò piú perché a ben altra carica l'avevano chiamati i destini della sua città, ed egli come rappresentante della cittadinanza poteva trovarsi in contrasto con i suoi ex soci. Ma perché non si dimise da vicepresidente? Se le due cariche erano o potevano diventare in contrasto, quale necessità urgeva che esse fossero cumulate sullo stesso capo innocente? Ogni onore porta con sé degli oneri. Non si dà il proprio nome a chi deve amministrare del denaro pubblico, per lavarsene le mani quando pare che le acque si intorbidino. Chi firma come gerente responsabile un giornale, ne accetta implicitamente tutte le idee e tutte le responsabilità che dall'affermazione di esse derivano. Non basta dire: — Se responsabilità ci sono, io me ne accollerò la mia parte — quando si è già detto: — Signori mici, io non c'entro, io non so nulla di quanto poté essere fatto dai miei colleghi —. In Italia dove la disciplina è una cosa... teutonica, e quindi spregevole di per se stessa, questo è sempre stato il modo migliore per turlupinare il pubblico.

Chi poteva veramente rispondere, chi per le sue risorse finanziarie avrebbe potuto rifondere il mal tolto, riusciva a dimostrare che la sua persona era fuori causa, e nella rete rimanevano solo i poveri scagnozzi, quelli che in realtà ne potevano meno. È sicuro Teofilo Rossi che il fatto dell'apparire il suo nome fra i componenti la commissione esecutiva non abbia servito a persuadere molti che l'affare era buono e che ci si poteva fidare? E non hanno ragione ora quegli infelici di domandare che anche il Rossi sia solidale nel risarcimento dei danni? Egli si è corazzato dietro l'affermazione dell'avv. Cattaneo che i conti non sono stati resi perché il fatto compiuto avrebbe compromesso l'affare di fronte al ministero. Furbo l'avvocato! Precisamente, la resa dei conti preventiva doveva dimostrare che non c'erano stati sperperi, che il passivo era solo dovuto ad esigenze nazionali e non ad incapacità amministrativa o peggio, e che quindi era doveroso l'intervento dello Stato. Quando lo Stato avrà pagato, matto chi crede che ancora possa farsi qualche indagine. Tanto, si dirà, non è tutto ormai composto nel miglior modo? E il gerente responsabile non avrà piú grattacapi. Ma, se i nostri compagni consiglieri avranno energia, il giochetto non deve riuscire. I contribuenti italiani hanno il diritto di sapere se sono chiamati a saldare un debito nazionale, o se devono solo tappare dei buchi aperti da dentini troppo aguzzi, quando i gerenti responsabili dormicchiavano e pensavano già ad andare in Russia per ottenere dallo czar le medaglie di ricompensa.

(1° marzo 1916).

UNA FORMA DI PLUSVALORE

Nell'angolo di piazza Castello si svolge una battaglia a colpi di bollettini che deve essere sfuggita a ben pochi dei torinesi. La ditta Carpano ha dovuto abbandonare la sua sede secolare per un improvviso aumento di fitto, e nei limiti del possibile cerca di prevenire lo sfruttamento che i successori potranno fare del suo buon nome e della clientela conquistata con una pratica piú che centenaria. La buvette Carpano era diventata un'istituzione, e il locale da essa occupato continuerà a fruire, anche dopo il trasloco della ditta, della fama che l'abitudine le aveva creato. La questione ha uno squisito carattere di competizione capitalistica e merita di essere postillata. Credo che in Francia sia già stata risolta, e che una legge speciale regoli le contese che possono sorgere fra capitale e capitale. Si è cioè riconosciuto che del plusvalore che un locale viene ad acquistare per l'attività di un esercente, non deve essere solo proprietario il padrone dello stabile, ma anche chi questo plusvalore è riuscito a creare. Prendiamo per esempio il caso Carpano: egli ha affittato il locale in un certo tempo per una certa somma, che rappresentava l'interesse di un certo capitale: con la sua attività, dopo un certo tempo, è riuscito a dare al locale un valore triplo, quadruplo, cioè ha fatto dilatare la potenzialità fruttifera del capitale stabile. Il proprietario gli aumenta il fitto e lo fa sloggiare.

Ha diritto il proprietario a far ciò? In Francia la legge nega questo diritto, o almeno, per non intaccare il principio della proprietà privata, obbliga chi non ha fatto niente per il proprio arricchimento a versare una indennità a chi di esso è stato l'unico fattore. Non può sfuggire a nessuno il valore schiettamente socialista di questo riconoscimento, anche se ristretto entro la cerchia di interessi borghesi contrastanti fra loro, cioè anche se esso serve a dirimere controversie sorte fra due diverse categorie borghesi. I deputati socialisti di Francia cercarono di far estendere il principio anche nel campo proletario. Dissero cioè: se la legge riconosce che il capitalista ha diritto a partecipare in qualche modo al plusvalore verificatosi per opera sua nel capitale di proprietà di un terzo, sempre rimanendo nel campo dell'esercenza, perché i commessi di negozio, che hanno contribuito con la loro abilità all'incremento della ditta, all'acquisto di una clientela, ecc. non devono partecipare agli utili, e invece possono essere messi alla porta senza che la legge dia loro diritto ad un indennizzo? Naturalmente, trattandosi di relazioni fra capitale e lavoro, la mozione socialista cadde nel vuoto e le fu negata ogni importanza.

Ma rimane la constatazione del fatto. L'affermazione marxista del plusvalore non è quella enorme sciocchezza che gli economisti borghesi vogliono far parere. In paesi dove lo svolgimento capitalistico ha raggiunto una fase piú perfetta sono state riconosciute, pur entro certi limiti, le pretese di determinati ceti borghesi a fruire di esso a danno di altri ceti. È evidente che il capitalismo crea di per se stesso gli stati d'animo e le condizioni che concorrono al progressivo svalutamento del sacro diritto alla proprietà, e che non sta che nella buona volontà e nell'energia rivoluzionaria del proletariato di condurre questi iniziali riconoscimenti alle loro ultime conseguenze, e cioè che l'unico proprietario del capitale, che è tutto un plusvalore di una ricchezza terriera iniziale, è il produttore, il lavoratore che con l'energia delle sue braccia e col sacrificio della sua vita spirituale, lo ha creato, lo ha portato alle condizioni in cui si trova attualmente di prosperità e di potenzialità di ulteriore sviluppo.

(2 marzo 1916).

L'AVVOCATO

Domanda la parola il consigliere Cattaneo. Chi parla? L'ex assessore, il membro del comitato esecutivo dell'Esposizione, il difensore, l'accusato, l'accusatore, il consigliere comunale, e l'aspirante al sindacato e quindi al laticlavio? No, parla semplicemente l'avvocato, il prezioso del suo mestiere, il prof. R. G. Cattaneo, docente di diritto alla R. Università. Egli fa dell'arte per l'arte, vuol vincere la sua causa perché un grande avvocato come lui deve vincerle le cause.

Ciò è profondamente ripugnante e disonesto. Si può giustificare l'avvocato di mestiere che, pagato, difende chiunque domanda il suo patrocinio. Si è bensí sentito schifo qualche volta vedendo degli avvocati ridere e mostrarsi dei biglietti di banca, frutto della rapina dei loro clienti, difesi poco prima con le lacrime agli occhi precisamente dell'accusa di quel furto del quale l'avvocato era diventato in parte ricettatore. Ma c'è il sacro diritto della difesa e bisogna rispettarlo, anche se per esso l'untorello che ha per leggerezza o per necessità commesso un fallo debba accontentarsi di un avvocatuzzo d'ufficio, e si permette che dei ladri in grande col frutto del mestiere assoldino legulei di grido che sappiano a dovere muovere gli affetti.

Ma che il rappresentante di un corpo elettorale, il mandatario degli interessi pubblici, ricorra ai sistemi curialeschi anche fuori delle sedi competenti, e abusando della sua forza dialettica (ohibò! quanta esagerazione in fondo), cerchi di ridurre a vana schermaglia di parole vuote di significato una quistione che involge un principio di rettitudine amministrativa e di scrupolosità civica, è demagogico, è abietto. Imbonire i giurati è un dovere dell'avvocato, secondo la morale corrente; ma cercare di imbonire i colleghi del consiglio con l'agilità da saltimbanco della logica formale, se la sentenza non deve essere data subito, è anche discretamente idiota. L'avvocato cerca di ipnotizzare il pubblico insistendo su due o tre motivi: «L'importante è che la nazione colmi il deficit». «L'Esposizione aveva fini nazionali quindi è dovere dello Stato intervenire». Ed in fondo è anche stato di una inconsciamente schietta brutalità quando ha detto: «Se riconoscete necessario che lo Stato paghi, non dovete domandare che i conti siano presentati prima di questo fatto, perché probabilmente, se i conti vengono pubblicati prima, lo Stato non paga». Ma è questa necessità, imprescindibile secondo il grande avvocato, che noi appunto neghiamo. Lo Stato deve intervenire solo nel caso che sia esaurientemente accertato che il passivo era inevitabile per il fatto che si volle dare all'Esposizione un carattere nazionale. Perciò, del suo intervento non si deve fare una pregiudiziale; anzi, il grande avvocato, impostando in tal modo la sua causa, la rovina, perché il gioco luminoso delle belle parole o ha l'effetto di determinare immediatamente la sentenza in un certo senso, oppure mostra subito la corda. Perché, signori miei, risponde l'opinione pubblica, se avete tanta paura che il governo, conosciuti i conti, non voglia piú pagare, vuol dire che sotto ci deve essere qualcosa che a noi piace recisamente sia ben messa in chiaro.

E lo scandalo del Palazzo di Giustizia insegna qualche cosa perché non si lasci ancora tempo al tempo e una proscrizione ponga tutto in tacere.

(3 marzo 1916).

STREGONERIA

Paola Omegna, la fattucchiera di via Verolengo, era riuscita a farsi un'assidua clientela specialmente nelle famiglie dei soldati che sono al fronte. Non stupisce. La guerra pone violentemente l'uomo di fronte alla morte, lo obbliga a pensarci continuamente, lo obbliga a riflettere sul cosí detto mistero della vita, e gli stati d'animo che ne risultano sono sfruttati subito dalla religione e dalla stregoneria.

Si è fatto un gran parlare delle correnti nuove religiose che la guerra avrebbe creato. Sarebbe stato piú esatto dire che la guerra, con le reazioni psicologiche che suscita, avrebbe rimesso in onore la stregoneria. Anche il sacerdote che innalza l'ostia consacrata per il volgo è uno stregone, come la fattucchiera che fa suffumigi sotto il gufo impagliato. Interrogano ambedue il mistero, sono ambedue interpreti di un mondo soprannaturale che l'anima incolta e grossa del credente volgare (al quale sfugge il gioco delle forze umane razionali che regolano il destino del mondo e la storia degli uomini) crede gli sovrasti, schiacciandolo con la sua fatalità ineluttabile.

L'indifferenza religiosa dei tempi normali, l'assenza della pratica del culto, non è indipendenza, non è liberazione dagli idoli. La religione è un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso cosí sperduti nella vastità del mondo, si sentono cosí spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche cosí raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo. L'uomo grosso non ha sostituito (perciò diciamo che è grosso) nulla alla religione. La vita si chiude per lui nel cerchio delle occupazioni quotidiane. Il suo corpo, le sue membra, salde, inguainate nella corteccia vigorosa, gli dànno la sicurezza della salute; se il microbo lo intacca, lo aggredisce scombussolandogli l'ordine naturale, egli ricorre all'empirico che ciarlataneggia: la ciarlataneria controbilancia il mistero delle leggi filosofiche. Se il destino lo coglie, lo trascina nella sua furia rapinatrice per scagliarlo contro energie che non conosce e che deve vincere sfracellandosi, egli si turba; non capisce che volontà umane possano creare cosí enormi catastrofi e ricorre allo stregone, al sacerdote: il formulario magico, il latino del breviario, l'incenso, il fumo delle erbe aromatiche bilanciano questo enorme mistero che sente gravitare intorno a sé implacabile. Non parliamo quindi di rinascita di misticismo, di riconquista religiosa. La massa amorfa che ondeggia perennemente fuori di ogni organizzazione spirituale, è preda buona per tutti: per gli stregoni quando il mistero incombe, per i socialisti quando gli effetti mostrano della guerra l'infecondità organica. È il materiale umano necessario per creare la storia, materiale appunto e non coscienza, che nulla crea esso stesso se la scintilla dell'intelligenza non lo avviva e lo accende. E gli stregoni, si chiamino Paola Omegna o siano vescovi o cardinali, non sono intelligenze, né coscienze, sono sacerdoti che ridono tra loro dietro gli altari.

(4 marzo 1916).

INNOCENZA

Oggi per iniziativa dell'ACT1, si avrà il ballo dei bambini. Un avviso affisso nei nostri ritrovi dice che, nonostante il periodo «doloroso» che si attraversa, non s'è voluto privare i nostri bimbi — i bimbi della gente di lavoro — di un sollazzo di consuetudine annuale. Già! Oggi è la domenica grassa. Giornata di allegrezza e di spensieratezza. Leggo l'avviso e non so davvero dare torto ai nostri amici dell'ACT. Non che tenga per buone le ragioni del concittadino prof. Clan, di quegli che scrisse un lungo e reiteratamente citato articolo sul «Corriere della Sera» per ammonire gli italiani a non venir meno alla piú fulgida delle loro glorie tradizionali, rimanendo giocondi anche in tempo di guerra, per non dare a credere ai nemici che la guerra ci accora e ci scoraggia.

Comunque il ballo dei bambini promosso dall'ACT suggerirà qualche altra riflessione amara a quell'anima amletica dei cattolici torinesi che è il prof. Marconcini, ed egli avrà cosí lo spunto per un'altra «tiritera» contro i socialisti. Ah! Vedete i cosí detti educatori e tutelatori del popolo, sono pur essi preoccupati di assicurare al popolo, come un tempo, panem et circenses.

Piano, professore! Non dite sciocchezze; socialismo non è baldoria. Voi al consiglio comunale, quando non siete d'accordo con nessuno, nemmeno con voi stesso e i vostri ilari colleghi ed amici che odiano la pornografia e credono al mistero dell'immacolata concezione, siete immancabilmente distratto; e avete frainteso le parole dei socialisti a proposito dei divertimenti proletari, cosí come ha frainteso un altro grande uomo, il Prato, che in una rivista cosí detta scientifica, la «Riforma sociale» di Einaudi, rimprovera ai socialisti torinesi di aver rivendicato «il diritto del proletariato alla gozzoviglia festaiuola!» Testuale!

D'accordo: non è questa l'ora della baldoria. Viviamo in piena tragedia: nessuno piú di noi di questa — che è la piú terribile, inconsolabile tragedia della storia e che avremmo voluto risparmiare all'umanità — sente l'angoscia inesprimibile dell'ora che volge. Tragedia della carne, e ancora piú tragedia dello spirito...

Dice l'avviso dell'ACT che mi sta di fronte: «Il ballo dei bambini si farà nonostante il periodo doloroso»; ed è giusto che sia cosí. Perché, per quelle stesse ragioni onde ora, a cagione della guerra, siamo anche noi contrari alla baldoria carnevalesca, che del resto è una volgarità anche in tempi normali, che non ha mai conosciuto le nostre simpatie, dobbiamo sottrarre il mondo dell'infanzia e dell'innocenza ad ogni perversità che è di noi adulti, che è del nostro vecchio mondo infame.

Vorrei che della guerra neppure si accorgessero i nostri bimbi. Cosí è che certe iniziative di uomini seri, benpensanti, ne sembrano una profanazione dell'infanzia. Il ballo dei bambini che oggi vedrò in corso Siccardi è un monito per molti altri al rispetto dell'infanzia, che in nome della patria si vorrebbe rendere consapevole di tante cose che è meglio ignorare... [dieci righe censurate]. Ma anche i pazzi amano i bimbi e li rispettano, esimio signor Marconcini. Non siate, voi saggio immelanconito in una contraddizione dello spirito, peggiore dei pazzi.

Non senza una ragione profonda, sottile, ironica, l'avviso per il ballo dei bambini mi rievoca alla memoria un episodio della vita di Federico Nietzsche. Un giorno, quando il grande inneggiatore del superuomo che doveva determinare la diffusa psicopatia del superpopolo, quindi la superstizione della guerra, era in cura a Basilea per pazzia inoltrata, passeggiando per le contrade della cosí detta regina del Reno, s'imbatté in una bimba che trotterellava sorridendo; l'avvicinò e accarezzandole la testina d'oro all'assistente che lo accompagnava, con un sorriso negli occhi stanchi e folli, il creatore di Zaratustra ebbe a dire:

— Non è forse l'immagine dell'innocenza?...

Perché sono l'immagine dell'innocenza i nostri bimbi devono ballare e dare trilli, e sollazzarsi anche in tempo di tragedia [due righe censurate].

Buon divertimento, piccini!

(5 marzo 1916).

RIDICOLO E COMICO

Il teatro dialettale è stato in Italia un gran maestro di sincerità. Il morto di ieri, Benini, ce lo ricorda. Le piccole cose su cui erano costruite le pièces del suo repertorio in cui la letizia o la tristezza non avevano bisogno per prorompere né di situazioni sansoniche né di sedie estatiche o di letti che giocano a nascondino, mostravano a chi aveva occhi per vedere, che il teatro può trovare sempre nell'inesausta fonte della vita regionale nutrimento leonino e anche sorgente di guadagno non disprezzabile.

A Torino il dialetto, come si è imbastardito nelle bocche dei parlanti per un urbanesimo caotico, cosí si è imbastardito sulla scena per un cattivo gusto da rigattiere del ghetto. Non parliamo di Mario Leoni. A lui il trionfo riportato nei giornali non toglie di essere un arido e scioccherello imbastitore di drammi, per il quale unica punizione possibile sarebbe il fargli attraversare la città a cavalcioni di un asinello, con le membra impeciate e rivestite di sgargianti penne di gallina, come nel Medioevo si faceva per le femmine adultere. Il rappresentante tipico del pervertimento del buon gusto paesano è un altro, e si chiama pure Mario, ma Casaleggio. Adesso ha tirato fuori La cagnotte del Labiche, come se alle sue libidini di vecchia scimmia da palcoscenico non bastasse piú il pascolo che abbondante gli offrivano i vari Corvetto, Chiappo, Consiglio, Molar, Colombino, ecc. ecc., che schizzano i loro inchiostri sulla carta monolineare o pentagrammata.

L'equivoco su cui gioca, con la compiacente soffietteria giornalistica, l'emerito capocomico, è semplicissimo: confondere il comico col ridicolo. La comicità è tutta spirituale, il ridicolo è tutto fisico e fatto di smorfie. Per essere ridicoli non ci vuole nessuna arte. Basta esserlo, ed esibirsi al pubblico nella propria sincera natura. E non si contrasta che anche il ridicolo possa essere e sia merce di scambio e di consumo. I circhi equestri, le compagnie di saltimbanchi vivono e prosperano, e cosí facendo dimostrano di essere necessari e di rispondere ad un bisogno del pubblico che paga. Ma queste istituzioni non la pretendono a teatro, e i giornali ne fanno la réclame solo a pagamento, negli echi di cronaca. Il Casaleggio invece, che ha incominciato nei baracconi di legno, non ha voluto mantenervisi. Ha fatto carriera, come si dice, ed ora la sua compagnia, nella quale del resto non mancano i buoni elementi, esercisce il Vittorio Emanuele, dove sono passate alcune delle piú illustri personalità del teatro italiano.

Casaleggio ha prostituito al cattivo gusto dialetto, provincia, paesaneria. La sua persona ingombrante di canterino rauco e sfiatato (dove s'è mai visto il curioso fenomeno d'una troupe che si improvvisa esecutrice di produzioni musicali, mantenendo intatti i propri ruoli?) può far solo ridere gli scemi con la trivialità degli atteggiamenti: non si vede certa gente ridere anche per gli ubriachi che barcollano nelle strade?

Il sano spirito paesano dovrebbe, come Ulisse quando ritornò nella sua patria, dopo i dieci anni del suo lungo errare, purificare coi vapori di zolfo il teatro dove per tanto tempo i Proci della compagnia Casaleggio hanno abbrutito i cittadini dei sobborghi.

(5 marzo 1916).

NENIE DI CARNEVALE

La volontà, e la protesta di Grassi, «Rifatto», hanno prevalso. Ha torto il torinese giornale delle serve e dei furieri, che muove una concorrenza spietata all'«Amore illustrato» e alla «Farfalla»: ha torto il giornale di protestare nella forma solenne del corsivo di nota, perché l'ex môradôr arricchitosi cristallizzando il sudore altrui, non è ascoltato dal consiglio comunale. Il consigliere Grassi, campione sopraffino del nazionalismo torinese, ha una preponderanza ragguardevole nel consesso dei padri coscritti. Traducendo in torinese il monito del prof. Cian che vuole la giocondità anche in tempo di guerra per riaffermare la nostra superiorità tradizionale di Karneval-Nation in confronto alla cupezza barbara e feroce dei nemici, l'ex môradôr, già aveva proposto in consiglio comunale di sostituire nei teatri cittadini le opere insigni con gli stornelli della Bela Gigôgin, s'intende per viemmeglio carrucolare l'entusiasmo bellico dei rimasti a casa.

Del resto Grassi è il membro piú simpatico della maggioranza consiliare; è un conseguente, ed è un applicatore della teoria.

Se è bene essere giocondi anche, anzi soprattutto, in tempo di guerra, non si capisce perché qualche inguaribile melanconico volesse la soppressione dell'annuale kermesse con relativi baracconi, giostre ed esibizione della donna cannone. L'ex môradôr tanto ha fatto che persino l'assessore della polizia civica, avv. Barberis, a malgrado dei rimbrotti dei suoi amici di sacristia, ha concesso che la kermesse a scartamento ridotto avesse luogo. Se non proprio nel centro, in piazza Vittorio Emanuele, di contro al tempio votivo e alle colline frigide nella melanconia dell'inverno geloso, umido, persistente, almeno a Porta Palazzo.

Sono andato anch'io laggiú a pestare un poco del fango e a lustrarmi la vista nel luccichio abbarbagliante delle giostre e a stordirmi alquanto nel frastuono degli organi strimpellanti le glorie piú pure della musica nostrana.

Uno squarcio di provincialismo d'ultimo grado: un paio di giostre mosse da un paio di ronzini sfuggiti alla requisizione; un paio di baracconi; qui e là i piccoli banchi delle leccornie a buon mercato e intorno, intorno una piccola folla distratta, annoiata...

Uno sbadiglio di carnevale! Il carnevale è finito, è esaurito. Oggi è il tradizionale martedí grasso. Passerà come uno dei trecentosessantacinque dí dell'anno.

Gli strimpellamenti, le battute degli organetti, i dondolii e le cavalcate di giostra a Porta Palazzo, tutta questa miserevole e banale riduzione carnevalesca, ieri, quando trascinavo la mia irrequietezza insonne per quei paraggi, le ombre del crepuscolo scendevano meste, tacite, lievi; era come un insistente echeggiare di nenie di un tempo lontano e vano. Quella folla che mi circondava sentivo che non gioiva, non poteva piú gioire. Era intorno a noi, sopra di noi, come un incubo invisibile eppure terribile, un pensiero dominante e soverchiante cento clamori era come dentro di noi, carne della nostra carne, sangue del nostro sangue. Ed è cosí che ieri sera, sera di grasso, anch'io ero là a Porta Palazzo a suggere nell'aria umida una tristezza piú profonda, un'angoscia inesprimibile, ero là ad assistere all'agonia del Carnevale, cui la guerra ha dato l'ultimo tracollo. Mi spiace per Cian il teorico e per Grassi il tattico, ma il Carnevale è finito e una nuova tristezza ricomincia piú grande nella cenere quaresimale, piú profonda e piú diffusa.

E nell'attesa ritorno anch'io al giambo di Enotrio, al Carnevale lugubre di Enotrio.

[Sei righe censurate].

(7 marzo 1916).

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1 Alleanza cooperativa torinese, ramo commerciale dell'Associazione generale degli operai

CATONISMO

Catone trionfa. Il segaligno e bilioso romano che perseguitava con la ferula implacabile delle sue leggi il lusso eccessivo delle opulenti matrone, si è trasformato in rond-de-cuir, e armato di matita bleu cancella, cancella per la salvezza delle istituzioni e della pace sociale.

Il catonismo si è dilatato, ha invaso tutte le attività sociali e ha trovato nello stato di guerra l'ambiente favorevole per il suo completo sviluppo, come i microbi lo trovano nelle culture dei gabinetti anatomici. Non è l'intolleranza gagliarda di chi non può sopportare lo sproposito, di chi non può sopportare che il blocco granitico delle sue idee sia incrinato dall'equivoco e dal dondolismo; è lo stato d'animo che trova perfetta rispondenza nella massima di La Rochefoucauld: «A che pro convincere quando si può far tacere?», stato d'animo di grettezza e di mancanza di spirito di libertà, che è in alcuni la continuazione di un'abitudine prebellica, ed in altri l'espansione di una velleità per lungo tempo covata nel piú profondo dell'animo. A che pro convincere? Per convincere bisogna polemizzare, produrre, bisogna affermare verità che scalzino convinzioni, lavorare insomma. Ma se lo stesso risultato si può ottenere facendo tacere? Stolto chi si arrabatta a battagliare contro gli avversari quando può farli mettere in carcere.

I clericali, che dopo duemila anni di predicazione non sono riusciti a convincere nessuno della diabolicità della carne, censurano persino Una partita a scacchi di Giacosa. Il «Momento» infatti scrive che «all'Istituto del divin cuore» è stata recitata da signorine beneducate la innocente romanticheria del Giacosa finemente ed opportunamente ritoccata in alcune parti, e al prof. Bettazzi solo, ossessionato com'è dall'impudicizia, potrebbe venire in mente di censurare anche il discorso della Montagna, col solo effetto di far pensare alle signorine beneducate a chi sa quali enormità nascondentisi sotto qualche frase un po' avanzata del buon Piero.

Il consigliere Marconcini ha fatto censurare il Carnevale: questo grande peccatore è stato mandato in castigo a Porta Pila, e Marconcini ha ottenuto l'effetto di far dire in consiglio molte bugie all'assessore Barberis, e di far riversare la folla nella parte piú fetida e piú schifosa della vecchia Torino.

Al Chiarella hanno censurato Beethoven anche dopo che è stato dimostrato (sia pace all'anima degli eruditi) che il grande compositore era fiammingo e non tedesco.

[Dodici righe censurate].

Catonismo, grande malattia dei pruriginosi discendenti dei reazionari del Concilio di Trento! E dire che proprio in Italia, il Rinascimento è stato maestro a tutto il mondo di libertà spirituale! Ma per un solo Vico napoletano, Giordano Bruno e Campanella è in Germania che hanno avuto i piú grandi continuatori, contro i quali ora i frombolieri della latinità scagliano le innocenti loro palle di neve.

(8 marzo 1916).

GIOCATTOLI

«Alla lanterna, bambole di stracci tedeschi, orribili musi cuciti, pulcinella teutonici di caucciù e di ebanite, di cartapesta e di gesso! Alla lanterna, ippopotami di pessimo gusto fabbricati in Prussia!» Con questo fiero grido di guerra un giornale cittadino somministra il santo viatico all'iniziativa del Circolo degli artisti, che vuol dare all'Italia il balocco italiano, e ai bimbi merce nazionale. È stato bandito un concorso, sono stati assegnati dei premi, è stata stabilita una graduatoria. Ma cosa ne penseranno i bambini italiani di tutto ciò? Quale graduatoria stabiliranno, essi? Il Circolo degli artisti è partito da criteri di educazione estetica, ha stabilito una sua scala di valori nei giocattoli, ed ha esclusi quelli che a suo parere erano brutti. Ed è cosí caduto in un errore fondamentale, che farà fallire completamente il tentativo, e lascerà l'Italia ancora per qualche tempo senza il balocco nazionale. Non sono gli artisti, anche se il Pascoli abbia detto che in ognuno di essi parla un fanciullino, che devono giudicare dei balocchi. Che un balocco sia brutto o bello per i bambini non conta un fico secco, e i tedeschi, maestri in penetrazioni commerciali e compatrioti di Pestalozzi, ben lo sapevano. Gli ippopotami di pessimo gusto, le bambole di stracci, gli orribili musi cuciti, ecc. ecc., avevano fortuna e smercio precisamente per la loro bruttezza e per la loro impersonalità artistica.

Il bimbo non vuole che il balocco gli si imponga con la sua immagine sagomata in linee perfette e determinate, vuole che il balocco gli lasci ampia libertà di creazione. La sua fantasia crea il balocco, non viceversa. L'aritmetica è un'opinione, la bellezza è un opinione per i bambini; due piú due può essere uguale a un milione, e il piú sdrucito pulcinella può destare immagini e fantasia e giochi quali il piú perfetto gingillo uscito dalle mani di Leonardo Bistolfi non è capace di suscitare. Il fanciullino che dorme nel cuore degli artisti (specialmente se appartengono ad un circolo) è troppo ben educato e ha ricevuto sulla sua pelle troppe verniciature e leccature, perché ricordi le sue bizzarrie e i suoi capricci infantili. Il ragioniere Eugenio Chiesa, col suo gusto di salumaio, può essere per i giocattoli piú buon giudice di L. Ristolfi: non preoccupazioni di bellezza, ma solo preoccupazione di vendita, che per la formazione di un'industria nazionale è la piú nobile delle preoccupazioni. Poiché per vendere non bisogna avere preconcetti o proporsi dei programmi di educazione artistica, dato e non concesso inoltre che il bello possa essere insegnato cosí come l'alfabeto e la tavola pitagorica.

In fondo il Circolo degli artisti ha voluto solo dimostrare che l'arte può essere trasformata in lanciabombe per la guerra economica. La mania sarebbe innocente se non potesse andarci di mezzo il portafoglio del padre di famiglia, costretto da leggi restrittive di dogana a comprare ciò che i figliolini magari butteranno via senza neppure guardare, e al ministero purtroppo c'è Giovanni Rosadi.

Leonardo Bistolfi dovrebbe persuadersi che gli affari devono essere fatti dagli uomini d'affari, anche per i giocattoli, perché altrimenti si vedranno di nuovo nelle case italiane gli ippopotami di pessimo gusto, le orribili facce cucite e gli altri delinquenti che si vorrebbero vedere appesi alla lanterna.

(10 marzo 1916).

PICCOLO MONDO ANTICO

Un esempio da imitare è l'opera della nostra sezione mazziniana di Torino, modesta di numero, ma di perspicace assidua attività.

Essa cooperò in concorso di Terenzio Grandi alla fondazione del Centro d'azione civile e di difesa che in questi sette mesi, in Torino esplicò azione alacre e vigile, specie contro le mene dei neutralisti di tutti i generi.

A sua volta la nostra sezione provvede a tener in evidenza la caratteristica mazziniana.

Cosí ho letto nella «Terza Italia» — pubblicazione quindicinale — organo del partito mazziniano italiano. Qualche rara volta giunge, fra il fascio dei giornali che quotidianamente si rovescia sui tavoli redazionali, questo foglio ed io lo apro, lo leggo con compunta curiosità. È la voce d'un partito, d'un gruppo, d'un uomo, forse, che chiama, chiama disperatamente... e sembra la voce d'un ignoto mondo lontano, tanto è fioca, tanto è sottile... Chi in Italia sa l'esistenza dei mazziniani? Dei repubblicani si sente ancora qualche volta parlare. Non sono mai riusciti ad afferrare l'attimo favorevole alle realizzazioni e, presi fra l'urto formidabile delle idee e delle forze socialiste, sottraenti ad essi il popolo divenuto proletariato, ed il riavvicinamento definitivo dei ceti borghesi frondisti alla monarchia, simbolo del nuovo organo sociale, essi brancolano e nella agonia tormentosa non sanno neppure morire decentemente. Ma contro di loro, isolati da tutte le battaglie e da tutta la vita, astensionisti per non prestare il giuramento parlamentare, abbrancati alle formule, isterilendo una dottrina di fede e di azione in un vaniloquio senile, vegetano ancora i mazziniani puri. Ah, i puri!... Tutte le idee, tutti i partiti hanno di questi custodi della purità, isterici e fanatici, ragazzacci masturbatori o zitelloni inaciditi, che sono profondamente convinti di aver avuto la missione di propagandare il vero cristianesimo, o la vera repubblica, o il vero socialismo, e salvano ad ogni momento le animucce dai contatti peccaminosi, e schiacciano gli eretici sotto il peso della santa immacolata loro indignazione.

Invano passarono gli anni, ed invano incalzarono gli avvenimenti: i mazziniani rimangono. Ad uno ad uno scompaiono i vecchi fedeli; dalle nuove generazioni non un solo giovine milite viene ad essi, ma i superstiti credono ed attendono. Che odore di cadavere quel loro giornale! Il partito mazziniano italiano fin da quattro mesi prima della guerra all'Austria voleva la guerra alla Germania, ed il 9 febbraio 1915 riafferma di attenersi esclusivamente, intransigentemente, senza deviazioni al programma bandito da Mazzini dal 1840 al 1871, poiché solo per esso ed in esso l'Italia andrà salva. Dal 1840 al 1871! Dopo è il nulla. Mazzini morí e nulla fu da mutare, nulla da aggiungere. A Torino tutte le vecchie ideologie, tutte le vecchie illusioni furono rovesciate; ronzio di api in un bugno vuoto è la voce del piccolo mondo variopinto che ha legame solo nell'odio comune, la sua vera caratteristica.

Oggi, 10 marzo, altro vorrei aver scritto e troppo mi duole l'amara realtà che il quarantesimo anniversario della morte di Giuseppe Mazzini, in questo periodo che si vorrebbe concludere l'opera che fu sua, sia passato senza un ricordo. Solo i mazziniani lo hanno commemorato, ma, ahimè!, essi sono i morti, i veramente morti!

Chi ci salverà, o Cristo, o Marx, o Mazzini, dai vostri purissimi e incontaminati discepoli?

(11 marzo 1916).

ORO, ARGENTO E RAME

Attendo ancora che l'organo magno del locale bellicismo democratico si pronunci con un articolo — come li sa fare Bevione — o con una di quelle note che si dice siano solitamente fatica speciale e diuturna del conte Orsi, piú comunemente noto come commendatore dell'ordine di S. Michele di Baviera. Né un articolo, né una nota, in compenso dei resoconti parlamentari alquanto tendenziosi.

Eppure dovrebbe essere doveroso per un giornale che tanto smaniò per determinare la situazione attuale, dare i suoi lumi sulla crisi, anzi le... crisi che travagliano il nostro mondo politico.

Di grazia, che ne pensa la «Gazzetta del Popolo»? È ancora per Salandra? È per il ministero nazionale?

Il giornale di via Quattro Marzo dev'essere piuttosto impacciato nella scelta. L'adesione all'iniziativa dell'on. Canepa potrebbe anche rispondere ai richiami storici e tradizionali, dei quali la «Gazzetta», o meglio, per essa il conte Orsi — quegli dei conti che non tornano — è, almeno per modo di dire e di ridere, il piú legittimo depositario.

Ma il conte Orsi, dalle vedute che solitamente non vanno oltre l'ombra della Mole antonelliana quand'anche fa scrivere Nardini e Bevione, dev'essere assillato da una certa preoccupazione. Questa: che un allargamento del ministero in senso democratico, costringa il Daneo del suo cuore a fare fagotto, appunto perché il mal tollerato ministro delle Finanze è tra i ministri piú incompetenti e inefficienti che persino l'«Idea nazionale» vorrebbe spedire a quel paese.

E il conte Orsi onestamente deve ritenere fin d'ora che se Daneo se ne va, il gerente responsabile di una certa gestione è bell'e spacciato, e la relazione scomparsa dal ministero del Tesoro probabilmente tornerà al proprio posto a disposizione dei parlamentari che intendono occuparsi dell'affare dell'Esposizione. Orsi sornionamente è capace di cotesti e di altri calcoletti e, nel dubbio di compiere una mossa sbagliata, tace e costringe i «subalterni» a tacere.

Cosí anche il fiero e coerente Bevione si guarda bene di esprimere un proprio giudizio preciso, reciso. Per la sua nuova incarnazione orsiana — assicurata da uno stipendio da sottoeccellenza — Bevione tace, scantona, attende.

Non domandiamo piú perché la «Gazzetta» non si pronuncia. Sono tempo e spazio sprecati. A parte l'affare dell'Esposizione, la zitellona di via Quattro Marzo prima di farsi un'opinione ha bisogno di pensarci su molto, di ponzare assai. Di poche, ma buone idee, essa, per non comprometterle e compromettersi, va guardinga. La «politica» è volubile come il vento e mobile come l'onda, ma il giornale del commendatore bavarese non è un vaneggino qualsiasi che muta pensiero ad ogni stormire di fronda. La «tradizione» deve pur contare qualcosa, e, nelle contingenze difficili, il conte Orsi si appiglia con tutta la forza della sua intemerata coscienza e della sua illimitata intelligenza alla «tradizione delle tradizioni» ed elegge a proprio imperativo categorico, non quello di Emanuele Kant, che puzza di prussianesimo, mentre l'Orsi ci tiene ad essere... bavarese, ma l'altro che dice banalmente, francamente: il silenzio è d'oro e la parola è d'argento.

Il conte Orsi, quando avrà tempo e voglia di compiere uno sforzo dialettico, non è improbabile che modifichi la «tradizione della tradizione» asseverando che la parola è appena appena di rame...

E sarà quello il piú grande sforzo intellettivo della sua onorata esistenza. E allora bisognerà farlo anche lui senatore.

(12 marzo 1916).

AGGRESSIONI PERSONALI

Un amico mi scrive una lettera di fuoco contro il giornale clericale torinese ed insiste perché la si pubblichi. L'amico pare che mi rivolga anche un blando rimprovero perché noi dell'«Avanti!» non abbiamo risposto subito e a dovere ai sagrestani del «Momento».

Non è che l'attacco — chiamiamolo cosí — ci sia sfuggito di vista. L'abbiamo visto proprio giovedí poco dopo che ci si notificava la querela del giornale clericale contro i nostri amici Bianchi e Guarnieri, che sarebbero rei di aver diffamato il dottor Mondini, capo redattore del «Momento», ancora e sempre divoto di S. Genoveffa, protettrice dei cervi e dei mariti ideali.

Cosa volete rispondere al «Momento»? Ecco: se noi dovessimo dare sfogo all'impeto della collera che ognuno che abbia sangue nelle vene sente ogni qualvolta è fatto segno ad accuse malvagie e subdole, non mancherebbe chi, come l'egregio direttore della «Gazzetta dei tribunali», ci rivolgerebbe un'altra reprimenda, perché noi ci abbandoniamo «all'aggressione personale», e Marco Sbroda salterebbe su a scriverne quattro delle sue contro i nostri nervi che non sono mai stati cosí bene a posto dacché siamo a Torino, la «bella Torino» che molceva persino l'ipocondria nietzschiana.

Sappiamo, amico che ci scrivi, da chi pervengono gli attacchi, non tanto contro di noi che scriviamo e che siamo pur ora provvisti di buone scarpe. È uno scimunito, un rifiuto del giornalismo, un esseruccio malaticcio. Incapace di tirare colpi diritti, franchi, per deficienza fisica e insufficienza di mente, s'indugia negli angoli oscuri della diffamazione. È quegli stesso che aveva accusato uno dei nostri compagni di aver rubato il mestiere alla censura. Altra volta fu da noi invitato a dare i nomi dei socialisti torinesi «bacati». Il becero non rispose, non poteva rispondere. Ora riprende fiato: il redattore capo ha cambiato padrone: ed eccolo — quel poveretto tisicuzzo, avanzo di postriboli e di sacrestie — lanciare altre accuse contro l'alleanza, l'associazione, il partito, la Camera del lavoro e contro di noi che cerchiamo coi nostri nervi di coprire le magagne di molta gente.

Domandate a quell'incosciente di precisare, di specificare le sue sozzure, ed egli se la svignerà, un giro di tacchi e via nei ritrovi abituali: postribolo e sacrestia.

Lasciamolo là a consumare le sue ore e i suoi giorni. E passiamo oltre.

Siamo sempre in tema di «aggressioni personali». E la «Gazzetta dei tribunali» è pregata di leggerci. Nell'«Azione socialista» di oggi, che ci giunge ancora umida d'inchiostro, leggiamo in un trafiletto dedicato a tre nostri amici, tra i quali Ciccotti e Zibordi, questo tra l'altro:

No, barabba, t'inganni. Il coraggio dei nostri compagni è intero: è coraggio fisico e coraggio civile, di pensiero e di azione. Ma tu nella tua bassa anima, nella tua zucca ripiena di sterco, sei incapace a comprenderlo; e seguiti ad eruttare bestialmente e vigliaccamente. E noi ti sputiamo sulla faccia, con senso di schifo, chiudendo gli occhi: tieni!

Via, non c'è male! E sapete il perché? Presto detto. Tutta questa volgarità per avere scritto che i riformisti, che hanno un magnifico campione a Torino nell'on. Quindicilire — quegli che vuole la fucilazione dei nemici interni, e intanto lui se la passa benone al fronte interno — «non sanno rassegnarsi alla condizione di semplici servitori del ministero».

Dica la «Gazzetta dei tribunali»: in questi casi chi è l'aggressore e chi l'aggredito?

Tralascio un altro giornale di qui che stamane annunzia che l'edizione torinese dell'«Avanti!» esce per assicurare a qualcuno una lauta prebenda.

Tutto ciò è provincialesco, stupido, nauseante. E il disgusto maggiore, piú repellente, è pur sempre quello che proviene dalla necessità che talvolta c'impone di rispondere, d'impelagarci anche noi — cittadini del mondo — in cotale pattume e pettegolume provincialesco.

Ed è cosí che, malgrado tutto, le nostre aggressioni personali continueranno.

(13 marzo 1916).

CHI piú HA UCCISO

Due casi ormai non piú insoliti, non straordinari, oggi la cronaca registra. Due casi che passano pur essi sotto l'indifferenza del pubblico. Ed è quasi anacronistico per... il cronista agghindarli di considerazioni e di particolari. Forse ha ragione quello studioso di demografia che consiglia la stampa italiana ad imitare la laconicità dei giornali inglesi e tedeschi nel dare la cronaca «nera», quindi anche la cronaca degli infanticidi perpetrati da madri snaturate e disgraziate. Oggi se ne registrano due.

Una fantesca, certa Maria Saccocci, ventunenne, nativa di Siena, appena sgravatasi di una bambina confezionata in collaborazione di non si sa chi, l'ha soffocata cacciandole nella piccola bocca uno strofinaccio. La creaturina cosí non ha potuto neppure dare un gemito di dolore e di inconscia protesta. È stata spenta d'un colpo, e le mani crudeli della giovane madre dopo l'atto nefando della soffocazione, non hanno indugiato a nascondere il corpicino che è stato cacciato in una valigia. Breve: il delitto è tosto scoperto, la giovane donna sciagurata è all'ospedale di San Luigi, debitamente piantonata, ed il cadaverino è all'Istituto del Valentino.

Ancora piú raccapricciante è l'altro infanticidio che, compiuto or sono piú di tre mesi, è stato scoperto soltanto ieri. Breve ancora: la giovinetta Balocco, venuta con la sorella minore da Grignasco a Torino a guadagnarsi il pane come ricamatrice, fa all'amore con un ufficiale. Amore solido, fisiologico, non fogazzariano, ed è naturale che dia tosto il non ambito risultato. L'ufficiale parte per il fronte e la giovinetta rimane a Torino a struggersi dalla vergogna e dallo sgomento per la gravidanza che avanza inesorabile. Nessun empiastro è efficace: il piccolo essere che urge nelle viscere della ragazza resiste ad ogni assalto e la sera del trenta novembre riesce ad uscire per essere subito strangolato con una funicella dalla giovane madre, pazza di terrore nella solitudine della sua fredda cameretta. Sopraggiunge la sorella che accoglie pietosamente la confessione dell'infanticida e il cadaverino viene nascosto in una valigia e là rimane per dei mesi, finché la padrona di casa che dava in affitto la cameretta alle due sorelle, per il fetore nauseabondo che usciva dalla valigia, è indotta ad aprirla e scopre il delitto che conduce all'arresto della ragazza.

Ed ecco due casi per la Corte d'Assise. Non ho da fare l'avvocato: non voglio tentare una difesa preventiva ed intempestiva delle giovani delinquenti. Dico soltanto che ad uccidere le due creaturine appena che erano state date alla luce, piú che le madri sciagurate e certo colpevoli, è evidente che fu, come banalmente devesi quasi sempre constatare in casi simili, qualcosa che non dipende dalle volontà delle due ragazze, ma che non rimane estraneo al bene e al male borghesemente, cristianamente inteso. Qualcosa — dico — che non dev'essere gran che dissimile dal «rispetto umano», quindi dalla morale corrente. E forse non si erra a dedurre dai due fatti odierni di cronaca «nera» che la ragione economica, cioè lo sgomento dell'aggravio pecuniario che la vita di un nuovo essere importa alla madre proletaria, sola, abbandonata, entra nelle determinanti del delitto in subordine ad un altro sgomento, quello della reputazione infamata, del disonore, della offesa alla morale ostinatamente cattolica e scipitamente borghese.

Con che però non voglio concludere che la ragione materiale sia trascurabile ed illegittima e tale da non attenuare la colpa delle infanticide. Le quali non foss'altro possono ricordarci, nell'atto stesso che la legge borghese le colpisce, che i nostri costumi di civili per eccellenza, di civili insuperabili per le virtú latine, non hanno ancora acconsentito ad introdurre nella legislazione quella ricerca della paternità, garanzia morale e materiale che la barbara Germania e la nemica Austria già sanno dare ad ogni illegittimo ed inconscio nato di donna con la complicità dell'uomo, il quale in Italia di solito sfugge ad ogni responsabilità in onore e gloria alla nostra civiltà latina superiore ed insuperabile.

Chissà, forse i giudici dell'Assise che condanneranno le due infanticide, penseranno pure di contribuire in tal modo a salvare la morale e magari riterranno anch'essi che «tutto ciò che nel mondo è civile, è romano ed italiano», compresa — s'intende — la irresponsabilità giuridica dei collaboratori alla confezione di nuovi esseri umani destinati a finire soffocati in una valigia od affogati in un cesso...

(14 marzo 1916).

LA LAMPADA DI BISTOLFI

Già, è vero: non tutti i torinesi sanno che presso a Giaveno, in un sito amenissimo, saluberrimo, che però reca «l'aspro nome di Selvaggio, grazie allo zelo di un comitato di pie signore della nostra città, è sorto in questi ultimi anni un santuario dedicato alla Madonna di Lourdes».

Il giornale cittadino e non cattolico che ci rende edotti di codesta mirabilia, aggiunge che il «santuario è bello, ridente ed ha vicino un vasto ospizio per i pellegrini, poiché vi si fanno anche numerosi e frequenti pellegrinaggi».

Bene a sapersi anche codesto. Nelle informazioni del giornale non clericale e tutto fervido di bellicismo c'è però una lacuna, che i sagrestani di via Oporto dovrebbero riempire. Il giornale dal quale tolgo le preziose informazioni non dice se anche la Madonna di Lourdes nella sua reincarnazione al Selvaggio sia suscettibile di miracoli, se ne abbia fatto, se ne faccia. La taumaturgia della Vergine a Lourdes di Francia è ormai famosa ed intorno ad essa sono stati scritti molti libri: ce n'è persino uno di Emilio Zola. Tant'è — della Madonna francese — la fama che va per la terra e l'oceano, che in non poche parti del mondo cattolico s'è voluto erigere un santuario fatto ad imitazione di quello celeberrimo di Lourdes. Ce n'è uno persino a Milano, e i buoni meneghini non sanno ricordarlo nei loro conversari burleschi senza aggiungere che da quando il santuario è sorto in uno dei quartieri piú eccentrici, le gesta dei teppisti e dei ladri sono miracolosamente aumentate. Cosí la milanese Madonna di Lourdes è già diventata nelle arguzie dei buoni ambrosiani nientemeno che la Madonna dei louch, cioè la protettrice dei ladri e dei teppisti.

E questo è già un miracolo, che quella del Selvaggio non sa forse ancora compiere.

Ma ecco che adesso le stesse pie donne che contribuirono all'erezione del Santuario di Giaveno, vogliono indurre la Vergine, rimasta immacolata anche dopo il parto operato dallo spirito santo sotto forma di volatile, a compiere il miracolo dei miracoli.

La gentile patrona delle pie dame, la contessa Margherita Betti di Carpanea, propone di indire una sottoscrizione «popolare» a due soldi, per offrire una lampada alla Vergine di Lourdes torinese perché affretti la «sospirata pace». La lampada votiva arderà in perpetuo; con la somma raccolta si provvederà anche all'olio necessario per tenere perennemente «viva la divota fiammella».

Quale pace la Vergine può affrettare non è dato di sapere. Un buon guerrafondaio, come Marco Sbroda Girola Tupin, può comunque avere diritto di pensare che anche la Vergine congiuri con Giolitti e coi socialisti per la pace tedesca. Le pie dame devono essere tenute d'occhio: lo sappia il cav. Donvito.

Ma la faccenda della lampada votiva non è soltanto un argomento di polizia e di polemica per quei grandi giornalisti che sono lo Sbroda cd il Tupin. C'è dell'altro sempre piú interessante. Le pie dame si sono rivolte allo scultore Leonardo Bistolfi perché la disegni lui la lampada benedetta ed egli ha accettato, facendo sapere di essere «lieto e orgoglioso del compito a cui mi sarà grato dare le migliori energie del mio intelletto e del mio cuore». Ed è cosí che il Bistolfi ha accolto «l'offerta come un segno di stima e di onore».

Che Leonardo Bistolfi sia un genio multiforme e multanime lo si sapeva. Egli è capace di operare per l'arte sotto le ispirazioni piú svariate; è un vero artista. Però che egli arrivasse sino alla Madonna di Lourdes e alla credenza nel miracolo dell'affrettamento della pace, non sono in molti che potevano prevederlo.

Ciò non vuol dire che un Bistolfi, cui io faccio tanto di cappello anche quando vuol fare l'oratore in consiglio provinciale dai banchi della moderateria, magari ricordando di «sentirsi» ancora socialista, non abbia anche lui di quando in quando un suo bravo quarto d'ora di acuta e squisita imbecillità.

(15 marzo 1916).

LA MASCHERA

«O perché Giove non imprime sulla faccia di ciascun uomo il segno invisibile del suo carattere?», esclama Medea nella tragedia di Euripide.

È il desiderio postumo di tutti i truffati. Il dolore che si prova nello scoprire che si è stati la vittima di un ingannatore è accresciuto dal dover constatare la propria dabbenaggine, dall'essere costretti a riconoscere che se non ci si fosse fidati, se si fosse stati un po' piú furbi non si sarebbe caduti in trappola. Medea in fondo con la sua esclamazione rigetta la colpa sugli dèi, sul fato che non dà agli uomini gli elementi sufficienti per poter operare con sicurezza, per poter discernere a colpo d'occhio chi può essere un mascalzone da chi è un vero galantuomo. Noi invero, in questi tempi di psichiatria e di antropologia criminale, dovremmo non poter muovere lo stesso rimprovero alle forze ignote che regolano la vita umana, benché gli antropologi siano anche loro spesso vittime, come la comune dei mortali, di imbroglioni e di truffatori. Ma nondimeno dobbiamo essere grati a quelle quattro donne reduci dalla fiera di Novara, alle quali i questurini trovarono indosso tutto il necessario per stabilire che, pur non essendo state sorprese in flagrante, erano delle possibili borsaiole. Diamine, non si portano in giro, di quaresima, maschere, parrucche, velette, senza che la polizia abbia tutti i diritti di sospettare e di arrestare. Non capita tutti i giorni la fortuna di poter incontrare chi non aspetta dagli dèi il marchio di fabbrica e se lo porta egli stesso dentro il portafoglio o nella borsetta. Troppi rimproveri si son mossi alle guardie per la loro cecità, per la loro mancanza di fiuto. Un caustico scrittore viennese (è possibile citare uno scrittore viennese?), Carlo Kraus, era arrivato fino al punto di affermare: «La maggiore fortuna che sia sempre toccata alla polizia è che il 75 per cento degli arrestati non riescono a dimostrare la loro innocenza!» Immaginate un po' con che gioia il poliziotto, che segui col suo occhio linceo le quattro viaggiatrici da Novara a Torino, che notò nella loro faccia i segni progressivi del turbamento, della confusione, scoprí nelle loro borsette le maschere e le parrucche. Neanche se avesse scoperto un paio di dozzine di orologi e di anelli, sarebbe stato piú contento. Perché non acciuffava dei delinquenti colpevoli di materiali delitti già commessi, ma preveniva tutta una possibile serie di crimini futuri. Prevenire, non punire, si è sempre urlato, deve essere il compito della giustizia oculata, conscia del proprio dovere.

E va bene! Non abbiamo niente da obiettare. Siamo arcipersuasi che tutti gli uomini fin dalla prima fanciullezza si abituano ad incollarsi sulla faccia una maschera di onestà, di serietà, di galantomismo, che in fondo non sarebbe estremamente difficile strappare, se le convenienze sociali non imponessero doveri ed obblighi piú forti della stessa coercizione violenta. Se uno stupido, o una scema, preferisce portare la sua maschera nella borsetta e il dito di Dio ve la va a scovare, sua colpa. Non doveva essere stupido o scema e doveva fare come gli altri. Non si fa il pick pocket nei treni, anche se da Novara a Torino, senza possedere già naturalmente tre o quattro o quante maschere necessarie per la propria truccatura.

Ma vedrete! Le quattro donne riusciranno a dimostrare... la loro innocenza; le maschere della borsetta, a grande scorno della polizia, saranno dimostrate molto piú innocue delle innumerevoli maschere che gli uomini portano in giro per le strade, e saranno sempre queste dalle quali dovremmo specialmente guardarci, perché solo dopo averne subito l'inganno, ci accorgeremo che sono maschere e non facce.

(16 marzo 1916).

ANFIBIO

Il direttore della «Gazzetta del Popolo» porta nel suo nome proprio le caratteristiche della sua personalità. È un anfibio. Né bestia di mare, né bestia di terra, ma il prodotto di un incrocio, che gli ha dato il sangue a temperatura sotto zero degli acquatici e il cervello da ippopotamo.

La commissione formatasi fra gli azionisti dell'Esposizione ha mandato ai giornali un comunicato invitante i possessori d'azioni a dare i loro nomi e il loro appoggio per un'agitazione collettiva, che costringa la commissione esecutiva, di infausta memoria, a rendere di pubblica ragione i famosi conti. Tutti i giornali l'hanno pubblicato; il prof. Delfino Orsi, da quel signore di carattere e di diamantina dirittura morale che si è sempre dimostrato, l'ha rabbiosamente buttato nel cestino.

Questi direttori della «Gazzetta» sono veramente sfortunati. Nel 1869 certo Giuseppe Beghelli accusava Giovanni Botero, glorioso precursore e fustigatore feroce dei tedescofili d'allora, dei preti antipatrioti e delle spie austriache, di essere stato egli stesso una spia, poiché nel 1864, quando le strade di Torino furono insanguinate dal piombo sabaudo, avrebbe denunciato al principe di Carignano che alcuni suoi amici, piú accesi degli altri, avevano deciso di dar fuoco al parlamento subalpino. E l'accusa del Beghelli era sostenuta da una terribile lettera di Domenico Narratore, che l'insospettabile «Unità italiana» diceva «onestissimo patriota e valoroso soldato delle patrie battaglie».

Delfino Orsi, il succedaneo, il fustigatore, veramente non troppo feroce, dell'immoralità giolittiana e del pericoloso nemico interno, viene accusato di aver dato fuoco ai... portafogli degli azionisti dell'Esposizione, di aver male amministrato, di aver sperperato i denari affidati alla sua fede di presunto galantuomo. Ma Botero querelò il suo accusatore; Delfino cestina e rimane muto come un... pesce. Ohibò! noi non ce l'abbiamo a male. Ma con una spilla acuminata vogliamo fissare bene in vetrina questo grazioso esemplare della zoologia politicante ed esibirlo all'ammirazione dei nostri lettori. Signori, questi è quel tale che scrisse contro il ministro Tedesco che tardò due anni a rendere i conti libici e presentò una contabilità arruffata e disorientatrice per fare perdere la bussola ai suoi critici. Quel tale che ha combattuto gli zuccherieri perché presentavano dei bilanci falsi e volevano far credere di far lavorare i loro operai un numero di ore triplo di quello reale. Quel tale che mette sempre in vista le atroci malefatte di tutti i parroci ingravidatori di serve e ogni luridume dei suoi avversari vuole sia messo bene in vista.

Ebbene costui ha fatto altrettanto e peggio: ha amministrato milioni, e non vuol rendere i conti; ha dilatato il bilancio della sua gestione quintuplicandolo, e non vuol dirne le ragioni; fa nascere il sospetto, documentato da una relazione governativa, d'aver sperperato, e vuole aspettare che una benefica prescrizione metta tutto in tacere. È direttore di un giornale e cestina gli appelli all'onestà e alle corrette norme amministrative. Signori, questo esemplare zoologico non è né un delfino né un orso, e non appartiene neppure al regno animale. È una sputacchiera: sputate, sputate pure, signori, la sua faccia di cartapecora non si aggrinzirà, e il suo sangue a temperatura sotto zero non arrossirà per lo sdegno, per la collera. Sputate, che rimangano i segni per il domani, quando il signore vorrà riprendere la sua parte di marionetta armata di randello per percuotere le altrui immoralità.

(18 marzo 1916).

PICCOLE IRONIE

Ma è proprio vero che noi non ne azzecchiamo mai una? E, peggio che peggio, quando ci mettiamo in testa di usare qualche riguardo alle autorità costituite? Badate che cosa ci capita a proposito del caso Bauchiero. I suoi «dipendenti» di Torino apprendono che il titolare della fortunata azienda per le forniture militari, dopo alcuni mesi di prigionia preventiva, è rilasciato in libertà provvisoria e quando il cavaliere si ripresenta nello stabilimento impiegati ed operai gli improvvisano una dimostrazione di simpatia. Dimostrazione evidentemente sconveniente. Noi la notiamo subito e ne diciamo le ragioni piane, chiare, irrefutabili. Parliamo anche di servilismo e ne abbiamo ben donde, ché i proletari non devono mai dimenticare che «dipendere» non vuol dire «servire». C'è una dignità di classe e umana che stabilisce un rapporto, non diciamo d'eguaglianza, ma di differenza tra proletari consapevoli e proprietari anche onesti, e codesto rapporto non dovrebbe consentire alcuna dedizione servile. L'industriale sia pure dotato del cuore migliore e di intenzioni ottime, non può sottrarsi all'ubi consistam della propria condizione preordinata sullo sfruttamento, sul plusvalore. L'industriale che ricusa codesta condizione sua non è piú tale: sarebbe un pessimo padrone, quand'anche la strada che batte fosse lastricata di buone intenzioni. Noi vogliamo un padronato forte, attivo, conscio dei propri interessi, energico; solo cosí in lui gli operai scorgeranno un propulsore di classe, per approfondire e risolvere le antitesi sociali. È quindi logico che certi abbracciamenti di simpatia e di cordialità fra chi sfrutta, per necessità di cose, e chi è sfruttato, ci appaiono riprovevoli. E demmo cosí la nostra riprovazione agli operai del cav. Bauchiero, tutt'ora accusato di frode ai danni dell'erario.

Ora un giornale cittadino, che pare si occupi spesso e volentieri, però sempre serenamente e cortesemente, della nostra attività, scrive:

L'«Avanti! » non è molto soddisfatto delle manifestazioni degli operai, spontanee ed affettuose, verso il Bauchiero, e trova che esse sanno di servilismo, contrario alla dignità proletaria. Ma pare a noi che l'«Avanti!» quanto meno esageri un tantino. Gli operai conoscono il loro principale e lo stimano, vivendo con lui una quotidiana vita di lavoro, in un simpatico affiatamento. Dopo parecchi mesi di detenzione sotto un'accusa che non vogliamo credere, il principale ritorna fra loro. Essi non vanno tanto per il sottile, né pensano che il loro atteggiamento possa influire nel futuro giudizio del tribunale e che egli è tutt'ora sotto giudizio, gli vanno incontro e gli porgono semplicemente il loro affettuoso saluto. Che c'è di male in tutto questo? Lo vietano forse i santi principî della lotta di classe?

Ecco: la piccola ironia è di quelle che non attaccano. Perché i «santi principî», nel caso in parola, s'innestano in una ragione di convenienza morale che un giornale, come quello che con noi discute, non dovrebbe ricusare con tanta disinvoltura.

Poniamo che le surriferite ragioni di principio siano metafisicherie inconsistenti. Un giurista non ha il dovere di giurare sul verbo della lotta di classe; la sua scienza, se non la sua pratica, è quasi sempre una sovrastruttura discretamente allegra. Ma il giurista non può sfuggire ad una plastica condizione di fatto: il Bauchiero è libero provvisoriamente e rimane sub judice, e finché codesta condizione dura, finché il dubbio permane sulla sua onestà, un certo ritegno di ogni simpatia s'impone per una ragione morale.

Abbiamo sott'occhio la sentenza che rinvia anche il Bauchiero al Tribunale militare, e in essa, mentre è pressoché esclusa la responsabilità materiale del noto industriale massone, la responsabilità morale non è «smorzata».

E allora ecco che noi abbiamo doppiamente ragione di aver scritto quanto adesso un avvocato-giornalista vorrebbe fare bersaglio di piccole ironie.

(19 marzo 1916).

LA CORTE DEI MIRACOLI

Dunque a Torino, e precisamente nei prati di Vanchiglia, esisteva da tempo immemorabile un covo di malviventi. Costoro ogni sera si radunavano in folla, formavano degli assembramenti, tenevano dei pubblici comizi a malgrado del decreto luogotenenziale, avevano un buffet a loro disposizione, giocavano, complottavano, dividevano le refurtive, costringendo gli abitanti del rione a vivere in continua ansia e tremore. La polizia lo sapeva, ma lasciava fare.

Pare di leggere Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, o uno dei tanti romanzi nei quali si narrano le glorie e le miserie della camorra napoletana: la descrizione di una corte dei miracoli o di un'assemblea a Portici di «guaglioni» dell'onorata società. Non che sia strano o miracoloso che a Torino ci siano ancora dei malviventi e che essi si riuniscano in clan per sbrigare meglio le loro faccende. Il pregiudizio che attribuisce ad una sola parte d'Italia il vanto delle vaste associazioni a delinquere, non è da noi condiviso. Lo strano ed il miracoloso sta nella constatazione che la questura sapeva, che la questura abbia aspettato tanto a provvedere e che i giornali abbiano cercato di abbacinare il pubblico ricostruendo romanticamente il fatto, facendo del commissario Tabusso un generale Joffre o un colonnello Barone sapiente di strategia e di manovre avvolgenti, che sviluppa tutto un suo piano d'assedio, come se si trattasse della cattura di Verdun o di Gorizia. E sia pure: date la medaglia e fate commendatore Tabusso, ma destituite il questore. Non può avere giustificazioni chi ha aspettato tanto a prendere un provvedimento che la sicurezza della città imponeva, domandava fosse rapido e immediato. Le corti dei miracoli si spiegano nei tempi passati, quando anche i malviventi potevano avere dei privilegi e dei luoghi di rifugio impenetrabili all'autorità esecutiva. E impenetrabile era il campo trincerato preparato dalla malavita nei prati della vecchia Piazza d'Armi: da una parte il muro di cinta del cimitero, con il suo lugubre spauracchio, dall'altra la Dora fetida che forma un saliente e ripara da due lati, e poi dei prati fino al Regio Parco e a S. Mauro. Nel mezzo una costruzione in cemento armato, e sentinelle dappertutto, le campane del gergo che dovevano suonare a martello all'appressarsi del nemico. Un luogo sicuro dalle sorprese, dove i poliziotti ritenevano poco igienico recarsi. E intanto a S. Carlo l'acuto cervello dei commissari, del questore, del vicequestore e dei minori praticanti si affilava per un comizio privato di dieci persone, per un manifestino incendiario, e costruiva complotti, vedeva congiure dei nemici interni e all'occasione faceva arrivare dalle città vicine reggimenti di cavalleria, compagnie su compagnie di carabinieri e di guardie di finanza. E forse mentre sul corso Siccardi infuriava la bufera, là nella corte dei miracoli, la bordaglia beveva il vino rubato nelle cantine, giocava alle piastrelle i denari rubati alle casseforti dei negozi dai soliti ignoti penetrati mediante chiavi false, e si allietava alle carezze delle lupe rigurgitate dai postriboli cittadini. E doveva ridere la canaglia e del questore e del vicequestore e dei Tabussi, e di tutti i loro minori praticanti che eroicamente si facevano crivellare di colpi per l'onore e il decoro di quella parte dell'Italia contemporanea che non è piú barbara.

(20 marzo 1916).

UNA PERSONALITÀ

Ohibò! La nostra mania iconoclastica si merita un altro rimbrotto. La giovine «Patria» — del giovine Girola Tulin — cambiamo stile e termini perché il leader giornalistico del nazionalismo torinese pare sia indotto a cambiare metodo in nostro confronto — ci rimprovera di aver parlato male di Garibaldi, cioè di quella cara persona che noi, dopo aver durato fatica molta a classificarla nel regno zoologico, nell'incertezza della definizione, nel dubbio della scelta tra l'anfibio e... il resto, con una terminologia di «aggressori» impenitenti, che rileva la contraddizione del «soggetto», abbiamo finito per identificarla — quella cara personalità — in una sputacchiera. Credevamo che fosse un esemplare zoologico; cammin facendo, nemmeno una bestia, nemmeno un animale dotato di purchessia sensibilità. È una vera e propria sputacchiera. Ed a sputare in essa sono molti a Torino, e fuori del nostro campo, del nostro partito, e da quelle volute e involute coincidenze di rapporti e di criteri che solo gli scriteriati possono accreditare.

Potremmo fare confessioni che sono fior di rivelazioni. Persino in certi ambienti che pure non sono invisi al nostro «soggetto» si è preoccupati del silenzio del «soggetto» stesso. Non si tratta di chiacchiere, di quisquilie, di pettegolezzi, di congetture. Si è di fronte a fatti precisi e precisati. Delfino Orsi non è in grado di rispondere. Personalità per personalità, proprio ieri un'autorità cittadina avvertiva in un conversare privato che il direttore della «Gazzetta del Popolo» trovasi in una condizione penosa. Proprio cosí! La sua fama di uomo mediocre, ma in compenso onesto, è bell'e svanita. Mediocre, sí, ma onesto, no. La cara personalità del giornalismo torinese ha sulle spalle quel po' po' di roba che è una relazione governativa documentata. Quella ineffabile persona non sa piú giustificare come siano stati spesi i due milioni per la pubblicità dell'Esposizione. I nostri ipercritici, le animule delicate, gli odiatori di ogni irruenza polemica, i posapiano, tutta quella brava gente imbabbucciata che inorridisce delle nostre «aggressioni», messa a confronto di codesta enormezza dei due milioni, è presto convinta che abbiamo ragione, tanto piú che noi possiamo documentare di aver iniziato la nostra campagna con tutti i mezzi piú urbani del giornalismo.

Ma, perdinci, che fare di fronte a chi, investito di domande, d'invettive, di accuse, non risponde, non si discolpa, confida nell'omertà giornalistica, fa assegnamento sulle facoltà di prestidigitazione dell'amico dell'amico di Ventimiglia, attende che noi, scavezzacolli, noi «libellisti» la facciamo finita per stanchezza, e tace, tace, anche quando la campagna si allarga, invade altri giornali, s'estende oltre l'ombra della... Mole, diventa una questione nazionale, e quanto poteva sembrare un ripicco, un dispetto, un escamotage per combattere un giornale bellico, apparisce nella sua vera luce, alieno d'ogni movente bassamente, pettegolmente personalistico? Tacere, tacere, tacere! È l'ultima speranziella del commendatore bavarese che s'affloscia ogni dí piú sotto il greve carico di una responsabilità che non perdona... Quel disgraziato è mediocre anche nella sua disonestà politica. Fosse almeno capace di un gesto d'energia, d'uno scatto d'ira! No! Egli indugia la sua trista fiducia sorniona nel silenzio. Confida in una speculazione che non «attacca» piú. — Ah! Ah! quelle canaglie, piú grosse ne dicono, meno possono essere credute. Ed io taccio, ed essi si stancheranno —. Il signor conte Orsi taceva anche quando, in una certa riunione, il signor sindaco faceva del suo meglio per fargli capire che avrebbe dovuto parlare.

Conti senza l'oste, o codardo signor conte!

Codesto vostro lubrico silenzio fatto di viltà e di paura, sarà lo scoglio contro il quale a noi sarà piú facile infrangere qualsiasi tentativo che i messeri di via Quattro Marzo vorranno ancora esplicare per dar credito a certe campagne di moralismo politico, dilettazione preferita dagli eredi boteriani. Passerà anche il turbine che ci avvolge, passerà pure la costrizione alla nostra libertà d'espressione, e il silenzio del signor Orsi, di codesto mezzano del giornalismo, di codesto falso modesto che consuma ed esaurisce nella sua mediocrità sprezzante la propria mentalità gibbosa — attestazione assidua del vero che risulta anche nell'inversione del detto celebre che i latini amavano ripetere per le menti sane in corpo sano — il silenzio di codesto ignobile campione della tartuferia provincialesca superstite in una grande città come Torino, sarà pur sempre un argomento per schiacciare al muro, per immobilizzare nella bassura della loro tradizione i tradizionalisti di un piccolo mondo politico che è un impaccio al disfrenarsi delle nostre indomite passioni di lotta.

La losca faccenda dell'Esposizione varrà almeno a questo, quand'anche il commendatore bavarese non finisse in galera e la prescrizione scendesse ad avvolgere nel suo fitto velo le piccole e le grosse infamie patriotticamente consumate ai danni dei contribuenti.

Altro che sputi e sputacchiere, o melanconico Girola Tulin della «Patria»!

(21 marzo 1916).

IL GERMANOFILO CONTRITO

Il prof. Pio Foà ha portato al pubblico dell'Università popolare la buona novella. La sua anima che fino al 24 maggio 1915 era afflitta da un morboso movimento pendolare, ha in quel giorno riacquistato la sua verticalità. Sia lodato il dio dei cristiani e quello d'Israele che tante grazie hanno elargito, poiché, siccome l'anima di Pio Foà è universale, è il prototipo delle anime italiane, è tutta l'Italia che non pendoleggia piú e si è verticalizzata.

Pio Foà è vecchio, ed è scienziato. La sua giovinezza ha coinciso con la primavera della patria. Ha sentito dagli spalti di Padova rimbombare il lontano cannone di Solferino, ha visto Milano piena di calzoni rossi dei soldati francesi, ha letto nelle bozze date alla procura austriaca i libri di Michelet e di Victor Hugo che l'editore Daelli veniva gettando in pasto alla gioventú affamata di liberalismo e di sacri principî dell'89. Allora il pendolo segnava: Francia. La sua maturità di studioso si è affermata dopo il '70. Sorgeva l'astro radioso e trionfante della nuova Germania. L'edifizio del nuovo Stato italiano scricchiolava in tutta la sua ossatura. Pauperismo, analfabetismo, ricordi tragici di Custoza e Lissa. Dogali, Abba-Garima, Adua, Triplice Alleanza, Germania e Austria sono le dande che sorreggono il neonato e lo avviano per le ubertose convalli della prosperità. Lo scienziato che vent'anni prima attendeva con ansia la pubblicazione dell'Histoire de France di Michelet o dell'Uomo che ride, attende ora l'arrivo del commesso viaggiatore tedesco che gli porta a basso prezzo e con pagamento a respiro gli strumenti di lavoro che gli permetteranno di dotare il suo laboratorio e di lavorare; attende che un editore di Lipsia o di Dresda gli stampi le sue monografie con abbondanza di tavole cromolitografiche, e non solo non gli domandi un indennizzo, ma addirittura gli mandi buona moneta di ricompensa. Il pendolo irresistibilmente si polarizza da un altro lato e attinge un nuovo nome: Germania. Scoppia la conflagrazione: il pendolo perde la testa, le oscillazioni diventano pazzesche, turbinose, insomma l'anima è ormai un'anima in pena. Il processo di individualizzazione incomincia, per essere precisi, in una stazione ferroviaria; probabilmente svizzera. Inglesi, francesi, tedeschi, austriaci la circondano, e bussano alla sua porticina d'ingresso. Essa pone prima fuori una modesta insegna: per ora non si affitta; è la dichiarazione di neutralità. Il processo si accentua: neutralità vigile e armata, e finalmente raggiunge l'apice: sacro egoismo. Ormai la verticalità è quasi raggiunta: il 24 maggio il fato è compiuto. L'anima è diventata una psiche, che non si lascia piú trasportare dai movimenti cardiaci (sic) e si riscalda e trae solo commozione dall'oratoria belga, che la convince i tedeschi essere realmente dei barbari ormai rivelatisi in tutta la loro orridezza. Una gita al fronte italiano conferma la psiche nelle sue nuove convinzioni, e allora il bandierone sventola sul mastio del castello ormai solido e incrollabile.

Cosí Pio Foà ha tessuto la storia intima della sua anima. Storia artificiosa e puerile, perché basata su dei presupposti vaghi e poco seri. Invero Pio Foà non ha convinto e non ha commosso nessuno: la grande facilità con la quale egli si è successivamente adagiato nelle varie formule escogitate dal bolso machiavellismo nostrale, dimostra che egli stesso è ancora un bambino che ha bisogno di dande per reggersi sulle gambucce malferme, e per non commettere spropositi che potrebbero diminuire la sua buona fama di patriotta vigile ed armato e sacrosantamente egoista.

(22 marzo 1910).

MENTALITÀ PATRIARCALE

Sarebbe, secondo la «Rivista politica finanziaria» (organo accreditato e diffuso dal ragioniere Attilio Finocchiaro di Roma), mentalità patriarcale quella dei giudici del Tribunale di Torino, che hanno inabilitato il comm. Leumann. E la sullodata rivista procede nella sua dimostrazione con un ragionamento che è veramente impagabile. Il 90 per cento dei ricchi signori frequentano le bische nostrane e forestiere e talvolta rovinano interi patrimoni: il comm. Leumann non ha che il torto di appartenere a quel 90 per cento. I giudici che non sono all'altezza dei tempi, e non hanno riconosciuto che la bisca è ormai un'istituzione, sono dei patriarchi degni di vivere ai tempi di Noè o Matusalemme. Essi, ad esempio, non hanno pensato quale formidabile arma hanno posto in pugno alle mogli. Come la signora Mazzonis-Leumann, il 90 per cento delle nostre ricche signore potrebbero fare inabilitare i loro mariti, e ne verrebbe un disastroso capovolgimento del giure familiare, dei diritti dell'uomo e del marito, e si ritornerebbe al patriarcato nelle ricche famiglie, come pendant al patriarcato giudiziario.

Eppoi pensate: il comm. Leumann «è consigliere provinciale di Torino, persona stimatissima che occupa anche una posizione assai elevata nel campo economico e filantropico ed una notoria considerazione in quello industriale». Via, i giudici sono stati veramente indelicati nel colpire un tanto uomo. Che cosa verrà piú rispettato se non si tien conto né delle benemerenze politiche, né di quelle economiche, filantropiche e industriali? O che il denaro è forse fatto per essere lasciato ammuffire? E non è filantropia farsi spennacchiare dalle «persone le quali sanno trarre profitti dalla debolezza di mente dei loro clienti», come dice la sentenza?

La vita moderna che trova la sua piú efficace rappresentazione nelle pochades parigine e nelle operette viennesi, offre innumerevoli esempi di personalità spiccate del tipo Leumann. La giornata laboriosa dedicata ad amministrare le cose pubbliche, a partecipare alle fiere di beneficenza, a trarre dalle proprie maestranze il maggior profitto possibile, a cristallizzare — terminologia marxiana — il sudore proletario. La sera e la notte tappeto verde, donnine piacevoli, compagnie rumorose, nelle quali non mancano, è vero, i lestofanti e gli scrocconi, ma d'altronde ci si diverte tanto! Questa è vita moderna, perdio! Cosa hanno a vederci le mogli, la famiglia, ecc., arcaiche istituzioni ormai superate dal 90 per cento dei ricchi signori? Ma purtroppo per il signor ragioniere Finocchiaro, ci sono dei giudici che hanno delle teorie sulla vita un po' diversa da quelle delle pochades parigine e delle operette viennesi, e, finché questa mentalità patriarcale non sarà sradicata per una maggiore diffusione della «Rivista politica finanziaria», i personaggi da operetta come il comm. Leumann non potranno mai essere sicuri di poter liberamente prodigare i milioni. È vero che in Italia c'è ancora tanta libertà quanto basta per permettere che rimanga pubblico amministratore chi è inabilitato per quanto riguarda l'amministrazione dei suoi beni privati, ma nei riguardi della libertà non si è mai abbastanza prodighi. Quando poi si dà tanto contributo alla filantropia, non importa affatto che i denari distribuiti o prodigati siano il frutto del lavoro intenso, e che abbrutisce, di una massa di uomini ai quali — generalmente — si nega ogni diritto di miglioramento perché non abbiano la possibilità di andare all'osteria o di giocare alle piastrelle corrompendo le buone qualità della razza. Non è vero, egregio comm. Leumann e rag. Attilio Finocchiaro?

(23 marzo 1916).

STORIA ANTICA E DEMOCRAZIA

«Il vostro consesso, deliberando il premio Bonaparte a Guglielmo Ferrero, ha nobilmente compreso i vincoli nascosti che uniscono la scienza e l'azione, il progresso delle idee e quello dei popoli». Cosí dice il telegramma spedito alla Société des gens de lettres di Parigi dal comitato torinese, costituitosi per onorare il premiato, e del quale fa parte, fra altre egrege persone, anche un cognato del Ferrero.

Curiosa fortuna, quella di Guglielmo Ferrero! In Italia il suo nome, dopo un primo scoppio d'entusiasmo giornalistico che lo battezzava grande storico e grande scrittore, ha avuto un melanconico tramonto ed è ormai avvolto di luce crepuscolare. In Francia invece il Ferrero passa ancora per una figura rappresentativa della nostra ultima generazione e della intellettualità piú raffinata, e le accademie lo premiano credendo di farci un grande piacere. In Italia viene bocciato all'esame di libera docenza, i suoi volumi di storia romana vengono sottoposti da parte dei competenti ad una critica spietata che ne mette in rilievo tutte le incrinature, tutte le deficienze e le erronee amplificazioni; e tuttavia qualcuno parla ancora di progresso della scienza e delle idee. È vero che nessuno dei firmatari del telegramma è studioso di storia antica, ma tuttavia un po' piú di precauzione sarebbe da augurare in persone serie e assennate come il prof. Pastore e il prof. Silvestri.

La ragione della fortuna di Guglielmo Ferrero non è difficile da ritrovare. La pubblicazione dei suoi volumi su Roma coincise con un periodo di infatuazione democratica, che, se procurò all'Italia alcune libertà indispensabili, mise anche in circolazione una quantità di gente che molto piú utilmente avrebbe potuto rimanere nell'ombra. Pressapoco, ciò che in piccolo successe a Tommaso Monicelli per il teatro e ad Enrico Ferri per la scienza criminale. Applaudire una commedia di Tommaso Monicelli era affermazione di partito; esaltare la scienza ferriana era affermazione di partito. Tramontati dall'orizzonte socialista, i due tramontarono anche dall'orizzonte intellettuale. Le «speranze» del nuovo teatro e della nuova scienza rimasero quelle che erano: degli stopposi manipolatori di parole senza possibilità di sviluppo, dei palloncini che il proletariato aveva gonfiati del suo entusiasmo sincero e che si sgonfiarono appena venne a mancare in loro la fede.

Cosí fu per Guglielmo Ferrero. L'inquadramento che egli fece della storia romana nei clichés democratici del tempo, sembrarono una grande novità e furono esaltati come un progresso. Come potevano sapere i lettori delle migliaia di esemplari dei libri ferreriani che tutte quelle costruzioni erano in gran parte cervellotiche, che l'autore aveva, per esempio, del greco solo una nozione superficiale che lo faceva cadere in errori grossolani e ridicoli? Gli studiosi sorridevano, punzecchiavano, ma i loro appunti erano fatti passare per rivolta accademica contro chi si faceva leggere, e d'altronde le riviste erudite non potevano competere in popolarità con le edizioni Treves. L'aneddoto del tiranno che Ferrero diceva un Menelik dell'antichità e che era soltanto... una misura di lunghezza, non ebbe quella fortuna che si sarebbe meritato. Eppure poteva servire da indice. Immaginate un francese che scriva la storia d'Italia e in un testo trovi citata la Regia Gabella, e confondendo regia con regina, imbastisca tutto un romanzo sulla ipotetica signora Gabella, ricordando per metterla in rilievo Messalina o la Pompadour, o Giovanna di Napoli! Chissà che risate! Ebbene: il Ferrero fece uno sproposito simile. Trovò il nome di una misura lineare accompagnata dall'aggettivo regio, che i greci repubblicani usavano per tutte le cose persiane o asiatiche, e costrusse su quel disgraziato nome il romanzo biografico di un Menelik dell'antichità. La democrazia non trovò a ridire, e lo storico rimase ugualmente un fautore del progresso. E anche oggi, quando il «Secolo» pubblica un suo articolo da Parigi o da Tombuctú, qualcuno esclama: — Che peccato! E pensare al Ferrero d'altri tempi, cosí vivace, cosí vibrante di fantasia e di freschezza!

Ma Ferrero non è cambiato; solo è sparita dalla sua testa l'aureola che allora la circondava.

I francesi, che sono sempre arrivati con un ritardo di venti anni a conoscere ciò che succede in Italia, vedono ancora Ferrero con l'aureola e lo premiano. Contenti loro...

(24 marzo 1916).

GUARDARSI DAL MANICURE!

Bisogna avvertire Scalarini che ponga i suoi disegni dell'«Avanti!» al sicuro sotto la tutela della proprietà artistica. Perché i suoi articoli grafici, se servono ai compagni come immagine concreta del vario atteggiarsi della società attuale, vengono anche sfruttati dagli avversari come reagente a certe velleità che non si sa mai...

Siamo nella sede della Lega esercenti e precisamente nella sala nella quale dovrà tenersi una radunanza dei proprietari forno per deliberare sui provvedimenti da prendere circa le conseguenze di un decreto luogotenenziale. Alla parete fa bella mostra di sé l'ingrandimento di una vignetta scalariniana nella quale un civico milanese recide un unghione da una mano simbolica che di unghioni non può averne che cinque, ma che dovrebbe averne... molti di piú. Ingenuamente domando al mio cicerone, che non mi conosce per... un cane arrabbiato: «O come mai? Fate della propaganda sovversiva? E come lo permette il consigliere Ratti?» Il buon uomo sorride, compassionevolmente: «Ma no, signore. Noi siamo amici dell'ordine. Solo che dallo scoppiare della guerra si è manifestato fra i nostri un certo turbamento, uno stato di irrequietezza, di nervosismo che si sfoga in esclamazioni brevi, in rimbrotti compressi, in critiche velenose e a doppio taglio che vanno a colpire gli esponenti piú illustri e finora piú amati della nostra categoria. Non che costoro abbiano fatto la benché minima opposizione alla nostra libera attività di commercianti o abbiano intralciato le nostre possibilità di guadagno, ma tuttavia certi atteggiamenti sembrano pericolosi, certe mosse singole pare debbano procurarci dei guai e metterci in cattiva luce presso la cittadinanza. Per esempio, quando fu minacciato lo sciopero dei garzoni panettieri, l'Ufficio del lavoro se la prese un po' calda per il nostro modo di agire verso i dipendenti, ai quali i nostri dirigenti avevano promesso ciò che noi non avevamo affatto intenzione di mantenere. Per rimettere gli illusi, i dissidenti sulla buona strada fu fatta ingrandire la caricatura di Scalarini. Deve servire di monito perenne a noi: vedete, sembra dire la caricatura, cosa succederebbe se ci fosse a Torino il comune socialista. O ranocchi senza denti (ma con unghie aguzze, pensavo io), accontentatevi del re travicello e non preparate la via al serpe che vuol divorarvi. Il civico milanese che taglia le unghie alla cosí detta speculazione incominciando dai proprietari fornai, è un simbolo che vi deve ricordare ciò che succederebbe a voi se i malviventi di corso Siccardi si installassero in Palazzo di Città. La giunta Rossi avrà dei torti ma non si potrà mai rimproverare di aver perseguitato, per fare i cosidetti interessi dei consumatori, il ceto degli esercenti. Come vede, non si tratta di propaganda sovversiva...» Feci i miei complimenti calorosi. Ma quando a seduta iniziata, sentii dire da uno dei soci della Lega: «Fra noi possiamo dirlo, perché spero non ci sia nessun estraneo: abbiamo fatto delle grosse provviste di farina, e il decreto che fissa al 20 marzo l'inizio della vendita del pane all'85 per cento potrebbe rovinarci...», non potrei fare a meno di riguardare la vignetta ingrandita, e pensare ai Promessi sposi del Manzoni. Sempre uguali i fornai: dal tempo del governatore Ferrer a quello di Carlo Ratti, formiche laboriose che immagazzinano chicco a chicco il biondo grano che dovrà trasformarsi in fulvo oro facendo stringere la cinghia ai consumatori, per i quali c'è sempre carestia di materia prima...

Ma Scalarini farebbe bene a tutelare i suoi diritti artistici e a farsi retribuire per la propaganda di disciplina borghese che le sue vignette riescono a fare fra gli esercenti di Torino.

(15 marzo 1916).

ACQUE PASSATE

Acqua passata non macina piú... purché non trovi nel suo corso un nuovo mulino. E questa guerra è stata per molte acque torbide il nuovo mulino, sotto le ruote del quale cercano di riacquistare la primitiva candidezza spumeggiante. Riccardo Luzzatto parla oggi al Ghersi sulla guerra e sull'Italia. Ex garibaldino lo definisce il biglietto d'invito, ma quanti altri ex nella sua vita! La prescrizione caduta pochi giorni fa cosí provvidenzialmente sullo scandalo del Palazzo di Giustizia, non ha sanato niente. L'uomo che fu deplorato in parlamento, che dovette dimettersi da deputato di S. Daniele del Friuli, e senza soverchio rincrescimento dei suoi elettori, avrebbe dovuto continuare a vivere nell'ombra, rimanere un numero di matricola in trincea e far dimenticare l'intermezzo poco garibaldino della sua vita parlamentare. Ma, nossignori, l'acqua passata ha visto il mulino nuovo e vuole macinare. Che gli importa di insudiciare l'oggetto stesso del suo conclamato amore? Che gli importa se il suo discorso può far l'effetto dell'elogio funebre di un erede ingordo?

È il modo di ripresentarsi in pubblico, di apparire alla ribalta circonfuso della gloria eroica del vecchio gladiatore che ha ripreso la spada per la beltà che lo aveva affascinato negli anni giovanili. L'intermezzo scompare, la vita dell'uomo pare culmini nei due momenti piú solenni: Garibaldi, Cadorna, i Mille e il milione. Ma l'illusione non dura, e per noi non sussiste neppure. Siamo troppo realisti nella valutazione della storia per lasciarci abbarbagliare da un fatto, da un uomo, da una data. Vediamo gli uomini operare, coscienti delle loro azioni, come una continuità morale che si rivela al pubblico nei momenti culminanti. E diciamo ai vari Riccardo Luzzatto che esibiscono il loro passato garibaldino:

Nella vostra maturità, dopo i primi entusiasmi e i primi slanci della giovinezza, come avete affermato la vostra fede? Era una fede la vostra se cosí leggermente l'avete inzaccherata? Non si trattava solamente di un sussulto di nervi, di un fascino fisiologico dell'uomo dalla camicia rossa? Se fosse stata coscienza nuova, vita nuova, visione nuova dei fatti umani e delle lotte che bisogna combattere contro le ingiustizie, non avreste dovuto continuare anche nella maturità? Se è vero, come dicono gli inglesi, che in ogni aggregato umano c'è un decimo sommerso, non costituivate voi parte di quel decimo, che anche nei Mille doveva esistere? Perché non siete rimasto nell'ombra, a espiare e a far dimenticare? La leggenda garibaldina è troppo bella perché sia sopportabile che qualcuno la insozzi con la sua ingombrante persona.

Ma lasciamo correre le acque per la china. Tanto, dopo che lo sbattere delle ruote del mulino avrà dato loro una effimera candidezza, riposando di nuovo nel quieto acquitrino riprenderanno di nuovo il colore livido e opaco che le distingue e che fa prosperare i girini e le erbe parassite.

(26 marzo 1916).

SOBILLATORI

[Diciassette righe censurate] [L'assem]blea degli azionisti della Fiat ha servito bene a rilevare qualche cosa. E tuttavia il giornale l'«Esercente» ha la faccia tosta di parlare di «micromani che vorrebbero sostituire i sistemi attuali con quelli gretti delle piccole vedute, dei piccoli compensi, delle economie mal intese, della piccineria insomma».

E tutto ciò perché si crede che guadagnare il cento per cento e assegnare compensi come quelli dati ai signori Fornara, Marchesi, Luciani di 400 000 lire, al Broglio di 450 000 lire, al Segre di 500 000 lire, all'Agnelli di 800 000 lire, al Marangoni di 300 000 lire, sia un pochino esagerato. L'«Esercente» ricorda che altrettanto si fa in America, in Francia ecc, e che quindi è un buon sintomo lo si faccia anche in Italia.

Questi paragoni sono grotteschi. Non si può mettere a confronto paesi a regime capitalista consolidato e diffuso in tutte le parti dello Stato con l'Italia, che ancora cerca la sua via e in cui esistono degli squilibri gravissimi tra regione e regione, tra città e campagna. Dal punto di vista della produzione stessa i fatti della Fiat sono scandalosi. Perché i sacrifici che tutti i contribuenti sono costretti a fare per le spese di guerra non si riversano sul paese stesso sotto forma di aumento della sua potenzialità produttiva, ma vanno semplicemente ad impinguare il portafoglio di singoli individui. Gli amministratori della Fiat sono come tante Americhe che si portano via le ricchezze, mentre esse avrebbero dovuto rimanere in Italia. Gli interessi della nazione coincidono perfettamente, in questo caso, con gli interessi del proletariato. Il proletariato vuole che sorgano in Italia quante piú forze produttive è possibile, che aumenti la potenzialità economica collettiva, perché il socialismo è problema essenzialmente di produzione intensa che permetta il benessere a tutti nel giorno in cui avverrà il trapasso. E non è coi metodi della Fiat che può verificarsi un aumento di ricchezza industriale. La Fiat si è trasformata in ventosa, che assorbe dal Piemonte come dalla Calabria, dal Veneto come dalla Sardegna, denari, denari, denari, e in gran parte se ne serve a creare ricchezze individuali. Se i profitti andassero a dare incremento all'industria, a sviluppare, ad allargare il mercato del lavoro, servirebbero ad accelerare il processo del capitalismo. Cosí invece sono una forma di succhionismo, e noi abbiamo tutte le ragioni di parlare di banditi e di brigantaggio.

Agnelli, Marangoni, Dante Ferraris, Fornara e soci sono dei pericolosi sobillatori, e l'autorità dovrebbe occuparsene. Sono degli sgretolatori non dei costruttori. La guerra non è uno stato permanente di vita sociale, e solo la guerra ha permesso alla Fiat di realizzare i suoi favolosi guadagni. Domani, quando il monopolio cesserà, le azioni potrebbero subire un tracollo, e le maestranze potrebbero essere mandate a spasso. I compensi prodigalmente assegnati agli amministratori, avrebbero dovuto servire a rendere meno probabile un simile caso. Invece, anche se le azioni ribasseranno, anche se possa di nuovo succedere ciò che è già successo nel 1906, i denari che i Marangoni ecc. hanno intascato saranno al sicuro, e le ricchezze individuali di questi messeri non subiranno tracolli. Ecco perché essi sono dei sobillatori pericolosi: mostrano ai proletari che in tutti i casi chi va in aria sono sempre gli stracci.

(27 marzo 1916).

L'ESERCENTE DEGLI UBRIACHI

«Siamo e mostriamoci prima di tutto uomini (sic) e pensiamo che tutti questi esercenti cosí malevisi — e a torto — sono commercianti che pagano fior di tasse all'erario e che dànno lavoro ad operai». Scrive cosí il signor Martinotti, presidente dell'Unione generale fra esercenti ed affini e mi fa ricordare un signore che al colmo della disperazione perché una carrozza aveva arruotato il suo cane, diceva in una farmacia: «I cani pagano le tasse e dovrebbero essere rispettati e protetti come i cittadini». Non voglio con ciò insultare la benemerita categoria degli esercenti e tanto meno la sottospecie dei liquoristi e vinai che attendono con scrupoloso zelo ad esilarare l'umanità, ma i loro lamentini paiono un tantino esorbitanti. Essi sono d'accordo che bisogna lottare contro l'alcoolismo, ma siccome questa lotta non si può attuare senza che per contraccolpo non avvenga o sia imposta una diminuzione del consumo delle sostanze alcoliche, cosí i benemeriti cittadini che pagano le tasse e dànno lavoro non riescono come Bertoldo a trovare l'albero cui lasciarsi impiccare. Perciò la legge per combattere l'alcoolismo è errata nelle premesse, nelle disposizioni e nelle conseguenze.

Crediamo anche noi che questa, come tutte le leggi in genere, non sia una perfezione, e che l'alcoolismo non sarà per scomparire per le sue disposizioni. Finché esisteranno il vino e gli uomini, ci saranno degli ubriachi e degli alcoolisti, e finché esisteranno certe condizioni sociali il numero di costoro sarà discretamente elevato. Ma la legge può ovviare a certe esagerazioni, può distruggere almeno una parte del male, e perciò è necessario che sia fatta osservare integralmente. Ogni legge fatta per l'utilità collettiva danneggia qualche singolo: ciò è ineluttabile. Il codice penale danneggia enormemente i ladri e gli assassini, ma tuttavia il signor Martinotti non accetterebbe di diventar presidente di una lega tra queste categorie di persone che anch'esse pagano le tasse e dànno lavoro (ai questurini per esempio). A Torino esistono 3000 esercenti degli ubriachi, cioè uno per ogni 150 abitanti; la legge vuol ridurli ad 800, e sarebbero ancora un discreto numero. Per accelerare questa riduzione, vorrebbero che si negasse ogni autorizzazione per apertura d'esercizio e che fossero proibite le cessioni e i passaggi. Quest'ultima disposizione fa saltare la mosca al naso al Martinotti: egli ricorda addirittura l'articolo 29 dello Statuto, il quale sanziona la inviolabilità della proprietà privata. Se un proprietario non può cedere o lasciare in eredità la sua proprietà non è piú proprietario, e quindi la legge è incostituzionale. Ma come allora si addiverrà alla diminuzione? È sempre la questione dell'albero di Bertoldo: solamente che il principio della proprietà privata ha già avuto tali e tante aggressioni, che non pare sia il caso di strillare tanto. Caso mai sarebbe questa una prova di piú che questo benedetto principio è sempre antagonistico al benessere della collettività e della civiltà. Se non lo si fosse mai intaccato, le strade sarebbero ancora strette e luride, le case antigieniche, come cinquecento anni fa; non esisterebbero le ferrovie, non esisterebbero i monopoli sui tabacchi, sul sale, sulle assicurazioni, ecc. ecc. Ora lo Stato ha bene il diritto di limitare, quando ciò ritenga opportuno, anche il principio di proprietà per i vinai e liquoristi. Che essi si lamentino e protestino è umano e naturale. L'esercente degli ubriachi è favorevole alla lotta contro l'alcoolismo fatta per mezzo delle conferenze e dei libri stampati e che non cava il solito ragno dal solito buco, ma è ferocemente contrario a tutte le leggi che, per diminuire l'alcoolismo, facciano diminuire i suoi guadagni e nuocciano alla sua categoria.

(28 marzo 1916).

CRISTIANISSIMI

Con l'intervento del vescovo e con la sua apostolica benedizione è stata tenuta domenica l'adunanza per lo sviluppo della cooperazione cristiana, in occasione dell'annuale assemblea della Cassa popolare di Borgo Nuovo. Dopo le solite relazioni e il discorsetto vescovile, il consigliere di parte nera avv. Marconcini pronunciò un discorso che per le affermazioni contenute è, anche per noi, abbastanza interessante. La tesi sostenuta è questa: le lotte sociali hanno creato organi di resistenza e di tutela delle due classi antagonistiche: le organizzazioni operaie sorte per tutelare gli interessi dei lavoratori, e le potenti leghe degli industriali che salvaguardano quelli dei propri aderenti. Le uniche categorie rimaste pressoché indifese sono quelle dei piccoli proprietari terrieri, dei piccoli commercianti e dei piccoli artigiani. Ad esse devono pensare i cattolici colla creazione delle cooperative di credito, di produzione, ecc., perché quanto piú si infittirà la rete di queste organizzazioni tanto piú sarà prossimo l'avvento di una società veramente cristiana.

L'ultima affermazione è schiettamente democristiana, ed è preziosa perché lascia intendere che una società veramente cristiana non è ancora mai esistita dopo 2000 anni di predicazione. Ma il modo di suscitarla è d'altra parte meritevole di osservazione. Il programma economico dei cattolici è prettamente antiliberale e antisocialista. Auspica una società precapitalistica ed una forma di produzione ormai superata ed in via di completa scomparizione. E ciò fa un tantino ridere. Perché, se la società cristiana dovrà basarsi su di essa, abbiamo timore che sarà alquanto difficile vederla realizzata, e che il Marconcini rimarrà eternamente malcontento e la sua sarà la voce che chiama nel deserto. Piccola proprietà, artigianato, ecc. sono entrati nel roseo tramonto di un'età che scompare. La guerra europea accelererà ancora di piú la concentrazione capitalistica. Le piaghe immani che la guerra ha aperto nel campo economico degli Stati, potranno essere solo in parte sanate da un aumento della produzione che si avrà solo intensificando il ritmo industriale. E ciò vuol dire scomparsa di quelle forme di lavoro che la democrazia cristiana vorrebbe proteggere e rinsaldare. Del resto sarà questo il fatto che metterà sempre piú di fronte cattolici, democratici in genere e socialisti. Da una parte le forme nuove di vita economica che proletarizzano sempre piú il popolo, estendendo il salariato. Dall'altra i tentativi di quelli che si aggrappano agli ultimi residui della vita comunale e feudale e cercano invano di irrobustirli colandoli negli stampini della cooperazione. Tentativi di adattarsi, di plasmarsi da una parte, rigoglioso sbocco di forze nuove, di vitalità nuova dall'altra. E proprio a Torino, dove lo scindersi delle classi si fa sempre piú netto e chiaro, dove l'Alleanza conduce contro l'esercentato una lotta incruenta, ma non perciò meno fattiva, dove la grande officina ha fatto scomparire l'artigianato, proprio a Torino Marconcini si illude di far nascere una società veramente cristiana. E poi c'è chi si meraviglia che il consigliere di parte nera non sia mai soddisfatto di nessuno e di nulla, e non vada d'accordo neppure con se stesso.

(29 marzo 1916).

IL CHIERICHINO

Unica consolazione dei deficienti è il senso che possono acquistare della relatività della loro disgrazia. Non c'è imbecille che non possa specchiarsi in uno piú imbecille ancora, e non c'è scribacchiatore in verso o prosa che non susciti ammirazione in qualcuno, e non abbia dei chierichini che agitano il turibolo sotto il naso. Anche Marco Sbroda, pare impossibile, ha il suo satellite che umilmente si inchina e si genuflette alla sua maestosa autorità e guardandoci in tralice lascia cadere su noi la sua disapprovazione e il suo disprezzo. Brrr che freddo nelle midolla! Terenzio Grandi, il cittadino perseguitato dalle sgrammaticature dei proletari, che si dimette da direttore dell'organo dei tipografi per non perdere la coscienza della sintassi dopo aver perduto quella della repubblica santa. È il chierichino. La fregola di entrare nella banda degli scorticatori, che dalle rive dell'Orenoco si è stabilita a Torino fra i cessi o i carielli, ha finalmente esploso in una colonnina di prosa assettatuzza e fragrante di incenso e di mirra. Lo Sbroda è proprio fortunato: le sue fatiche di fisarmonico, costretto per ragioni di materialismo economico a dar sempre maggior respiro al suo organo frasaiolo per allungare il numero delle righe e il conto dell'amministratore, sono state ricompensate dal soffiettino paterno dell'ex direttore di tanti preziosi fogli ormai passati alla posterità. Ma a costui, che per la sua onesta faccia di fraticello novizio ci ispira ancora qualche simpatia, domandiamo fra un'incensata e l'altra; come spiega il fatto che il documentario Sbroda, di mille cubiti piú alto moralmente di noi, ci abbia rimproverato di aver delle spie al ministero che ci fornivano informazioni sull'inchiesta della gestione Orsi? Come mai questo catone degli scaracchi in tram, ha preso le difese del conte che non voleva rendere i conti, e a noi che conducevamo una campagna per impedire che sopraggiungesse una prescrizione, ha buttato fra le gambe, credendo di stancarci, la faccenda della Cassa pensioni, intorno alla quale Donato Bachi potrebbe fornirgli chiarimenti migliori e piú da competenti? Come bollava lo Sbroda i clericali che durante la campagna per l'intervento dell'Italia in guerra, ricordavano Nizza, Tunisi e Corsica a chi voleva Trento e Trieste? E come dovremmo chiamar lui, che ricorre allo stesso gioco e mostra la stessa mentalità di scherano? Se il nostro cervello fosse svaporato e infrollito come il suo, potremmo parlare di prezzolati, di venduti, di aspiranti alla greppia di via Quattro Marzo, ecc. ecc., e andar pescando nei dizionari quegli aggettivi che avviluppano i cadaveri da seppellire nel cimitero politico. Ma il chierichino non comprende queste cose, perché altrimenti non sarebbe chierichino.

Marco Sbroda continuerà nei suoi tiritera che le spie che egli ha in palazzo Siccardi continueranno a documentargli, ridendone in seguito con noi e dandoci a nostra volta i documenti di «tanto al rigo», e il chierichino continuerà ad agitare goffamente il turibolo, contento se un raggio del sole che illumina la testa del suo eroe, venga a investire la sua pallida faccia di fraticello questuante un decimo di immoralità.

(31 marzo 1916).

BORINI E IL 606

Ha parlato in Consiglio una competenza, e la sua voce ha portato un nuovo contributo alla strenua lotta che la latinità combatte contro il germanismo. Boicottiamo il 606, inventato da un dottor Ehrlich qualsiasi, che l'anima a pendolo di Pio Foà si ostina ancora ad ammirare. Il municipio di Torino avrebbe voluto acquistare una certa quantità del meraviglioso prodotto che la guerra ha reso piú che mai necessario, ma la competenza del dottor Borini pone il suo veto anche a nome dell'industria e del decoro nazionale. Nel secolo XVI Gerolamo Fracastoro, un ameno fratacchione, scrisse l'enorme poema in lingua latina, De morbo gallico, nel quale cantò, con ispirazione che non ha uguale se non nei poemetti agresti di Saverio Fino, la malattia che gli eserciti di Carlo VIII (sempre uguali i soldati invasori) avevano importato in Italia. Da allora ferve l'interessante polemica su quale sia stata la nazione che prima ha fatto dono al mondo del male nuovo, meno elegante certo dell'appendicite e dell'emicrania. Ma la tradizione popolare che in vari paesi le ha dato il nome di male francese o italiano o spagnolo, e mai germanico, ha posto il brevetto al prodotto e gli ha impressa la pura marca latina. Ed ha ragione il Borini, rappresentante della snella e duttile genialità latina, a protestare contro l'intrusione di elementi tedeschi in un affare che riguarda solo noi latini. Noi abbiamo dato il male, noi dobbiamo trovare il rimedio. Il proverbio spagnolo (vedete, sempre cose di famiglia) dice bene: «Bisogna curare col pelo di cane le ferite prodotte dai denti canini», principio ferreo delle cure omeopatiche. Accettare il prodotto del dottor Ehrlich sarebbe riconoscere alla Germania una superiorità morale, riconoscere che almeno in qualche cosa la tanto decantata superiorità fisica della razza dolicocefala è giustificata.

Insomma, è vero o non è vero che la scienza tedesca ha scoperto il rimedio finora piú efficace per domare gli effetti deleteri del morbo che si è soliti chiamare gallico? Pio Foà, che per le malattie sessuali ha combattuto molte buone battaglie, è solamente germanofilo quando propone che del 606 il municipio faccia larghi acquisti? L'industria nazionale (a proposito, esiste un'industria nazionale farmaceutica?) deve davvero, per bocca di quell'eterno scocciatore che è il consigliere Borini, inibire la salute a tanti disgraziati che non rappresentano precisamente la trionfante nostra civiltà? Pare che ormai si tiri un po' troppo la corda, e che troppi scioccherelli salgano in bigoncia a far pompa di alto sentire e di squisita morbosità patriottica. Anche il 606 dovevano tirare in ballo per affliggerci con le loro lamentele di poveri cristi vittime di tutte le trappole, di tutti i tranelli tesi dalla perfidia teutonica. O perché il dottor Borini non ha pensato lui ad inventare qualcosa che equivalesse a ciò che ci ha dato il dottor Ehrlich?

Non c'è cosa piú compassionevole della mediocrità bolsa e boriosa che s'impenna e si ribella per non riconoscere ciò che gli altri con la loro attività e il loro lavoro hanno creato ed imposto.

(1° aprile 1916).

LA VITA E LA MORTE

Ma se vita

Sarà la nostra morte

Nella vita

Viviamo solo la morte.

Sono versi di Carlo Michelstaedter, un goriziano uccisosi a ventitre anni perché non riuscí a porre d'accordo la pratica quotidiana coi principî della morale di Kant.

E rileggo la cronaca che racconta, e infiorandola di particolari e di aggettivi eroici, la morte dell'aviatore pugnante. Anch'esso è morto al fronte. Un fronte di guerra che è antico quanto l'uomo e deve spezzare non una cintura di fil di ferro e di casotti per doganieri, ma l'invisibile barriera fra il regno dello spirito e dell'intelligenza e quello delle forze brute naturali.

Noi siamo soliti vedere l'aeroplano, da quando la guerra è scoppiata, solo come strumento bellico e il pilota che lo guida come un professionista della distruzione e dell'insidia.

A me piace vederlo simbolicamente come la crisalide cantata da Michelstaedter: germe di vita futura, giovinezza di una maturità che egli non potrà finire perché nell'incertezza del suo attuale destino, la morte lo spia e lo coglie troppo spesso con una corrente d'aria, con la rigidezza dell'organismo che ancora non è riuscito a diventare continuazione dei nervi e dei muscoli che cercano dominarlo. Si è adattato alla guerra il meraviglioso strumento dominatore dell'aria, ma allo stesso modo si sono adattate tutte le cose e le forze della nostra civiltà. Ma il suo destino non è la guerra, perché esso è il superatore delle barriere e dei confini. Non piú distinzioni di montagne, di acque, di reticolati che scampanellano quando il contrabbandiere cerca scavalcarli, non nastri di binari senza possibilità di scarto e implacabilmente fissati sulla crosta terrestre dalla matita dell'ingegnere. L'aria non offre possibilità di confini scellerati e di poliziotti che vi frugano le valigie e vi domandano il passaporto. Essa è di tutti e per tutti, e abbraccia con le sue correnti colossali come in morbide braccia tutta l'umanità senza distinzioni di Stati e di colori. Il fragile involucro del dirigibile, le sottili nervature dell'aeroplano si adattano alla nuova esperienza, e la lotta per l'affermarsi di questa nuova vita miete vittime e domanda sacrifici cruenti come le precedenti ormai vittoriose, e sono i giovani, le energie in boccio, che sfioriscono piú rapidamente e piú spesso. Perciò i versi del giovane goriziano martellano con insistenza il cervello. La vita che diventa causa di morte, e la morte che creerà la nuova vita. Le crisalidi sono il simbolo piú vivo di questo momento della vita mondiale. Ma se per alcuni sorride il sacrificio perché per la loro morte si aggiunge un nuovo filo d'oro al bozzolo che domani sarà sgomitolato, per altri il dubbio corrodente avvelena gli ultimi istanti, perché il bozzolo conterrà fili d'oro, ma l'oro non sarà solo nell'immagine.

(2 aprile 1916).

SOFISMI CURIALESCHI

Un amico, che è anche avvocato, mi scrive una lunga epistola per esprimere il suo dissenso a proposito dei nostri rilievi circa i profitti della Fiat — cento per cento — e gli onorari veramente colossali dei suoi amministratori e direttori. Non dico che l'amico voglia fare l'avvocato difensore dei banditi dell'economia nazionale. Se cosí fosse io avrei torto marcio di intrattenermi seco lui a discutere su un argomento che palpita di attualità. Dice l'amico mio: «Se fu tuo intento elevare una constatazione e dare una notizia di cronaca industriale, nulla ho da osservare; ma se oltre a rilevare l'immoralità della organizzazione capitalistica per cui si rende possibile ammassare e concentrare favolose ricchezze, tu hai voluto rimproverare gli utili enormi agli uomini, o meglio all'uomo della Fiat, quasi che la loro realizzazione rifletta l'immoralità del sistema borghese sulle personali responsabilità, mi permetto di dissentire da te. Attraverso a difficoltà terribili, ad episodi scabrosi e dolorosi — con visione precisa e volontà inflessibile — l'uomo della Fiat ha creato con minimi mezzi un organismo industriale, che sarebbe parso impossibile nel nostro Paese».

Cito ancora: «Or dunque, perché ti spaventi di questo episodio di concentrazione capitalistica, onde sarà possibile la creazione della grande industria?»

La lettera dell'amico sviluppa diffusamente un sofisma vetusto ormai che si sa dove comincia e non si saprà mai dove possa finire.

Pare un presupposto rivoluzionario, marxista, e l'illazione che se ne può dedurre va all'approvazione del cento per cento della Fiat, all'esaltazione dell'uomo che ha creato «dal nulla» la colossale azienda, di quell'uomo che può cosí essere innalzato nelle regioni fantastiche dove il sogno nietzschiano foggiava il superuomo.

La concentrazione capitalistica, la grande industria... Ben detto, amico avvocato! Il proletariato ciò deve agevolare per approfondire i contrasti di classe. Ma è questione d'intendersi sul modo dell'agevolazione. Ricardo diceva che «se il salario alza il profitto abbassa; e, all'inverso, se il profitto alza il salario abbassa». Id est: l'incremento del capitalismo è condizionato allo sfruttamento del proletariato.

Ora l'amico avvocato non s'avvede come, ad esempio, l'essere fautore della concentrazione capitalistica senza «negarla», senza opporsi ai suoi malefizi, può condurre ad accettare la guerra d'Italia e ad approvare l'invasione tedesca nel Belgio che taluni sofisti di un marxismo a scartamento ridotto vorrebbero attribuire ad un modo ineluttabile di concentrazione economica, ed è cosí che si capovolgono le ragioni della lotta di classe, che è pure uno dei modi piú efficienti dello sviluppo capitalistico.

Insomma, l'amico avvocato — che pure non tiene conto nella misura dovuta della circostanza che il cento per cento è realizzato per la guerra e in tempo di guerra — rimane a Ricardo... e al suo fatalismo. Noi invece siamo con Marx e vogliamo contribuire allo sviluppo del capitalismo, alla concentrazione economica, alla grande industria, all'allargamento dell'antitesi di classe, lottando contro i capitalisti, denunziandone le malefatte, le forme di sfruttamento ignobile, l'accumulazione di ricchezze individuali, quindi anche il cento per cento della Fiat, compresi i sofismi dell'amico avvocato. Al quale, in cambio della lunga epistola inviataci, vorrei consigliare la lettura dell'Antidühring engelsiano, una lettura che i proletari anche se non fanno poco importa, giacché sanno metterne in pratica i dettami.

(3 aprile 1916).

GIOVANI DECREPITI

Il «Foglio dei giovani», organo della Federazione regionale della gioventú cattolica italiana, reca il bando di un concorso a premio che pone i seguenti quesiti:

1. Come attirare i giovani nei circoli cattolici e come invogliarli ed interessarli a rendere piú attive ed efficaci le nostre organizzazioni?

2. Come preparare e come indirizzare i giovani dei circoli cattolici alle organizzazioni professionali?

3. Come diffondere la buona stampa tra i giovani e per mezzo dei giovani?

Il fatto che si pongano a concorso delle questioni simili indica di per se stesso quanta sia la debolezza intima delle organizzazioni cattoliche e come esse siano delle costruzioni artificiali. Immaginate un produttore di vino che domandi a un concorso il modo migliore per poter vendere la sua merce? Evidentemente basterà che il vino sia trovato buono perché tutti i buongustai si affrettino ad acquistarne. E nelle associazioni politiche o di partiti valgono le stesse leggi economiche della domanda e dell'offerta. Per attirare (curiosa espressione davvero) i giovani, basterebbe che i circoli cattolici ne rappresentassero una necessità dello spirito, il bisogno di trovarsi insieme fra compagni di ideale e di lotta, e la coscienza che sia un dovere diffondere e propagandare la fede che si vive come unica verità da affermare a tutti i costi. Lo spirito di apostolato che ardeva nei primi seguaci del cristianesimo non avrebbe neppure un momento fatto loro pensare che potesse esistere un cristiano che non sentisse il dovere di affermarsi tale e di conquistare a dio gli infedeli. Gioventú decrepita quella cattolica, che avendo perduto ogni calore interno cerca in accomodamenti pratici, in adescamenti da correzionale, di saturarsi di iscritti; non importa che la gran parte sia peso morto, ingombrante, anodino, che entra nel circolo cosí come potrebbe entrare in una società sportiva o in un club di giocatori di tresette. Basta che all'occasione si possano snocciolare centinaia di nomi come grani di rosario per protestare contro una statua di donna nuda o contro l'esposizione dei giornaletti pornografici. Ciò che costituisce l'energia, la potenzialità di sviluppo e di lotta efficace, esula da questi circoli ancien régime, dove è proibita la libera discussione, dove un rappresentante della curia vigila continuamente perché non si facciano affermazioni eterodosse o contrarie ai buoni principi. E la gioventú che sente, che si agita per trovare la propria via ha bisogno invece di sconfinata libertà, di possibilità di scapricciamenti, che a mano a mano si vadano arginando e disciplinando nella dura esperienza quotidiana.

Come diffondere la buona stampa fra i giovani? Stesso malinteso. Ma perché la stampa cattolica, buona solo per antonomasia, è diventata cosí piatta e noiosa, cosí aliena da ogni brivido di passione, da ogni slancio aggressivo di fede? O giovinezza decrepita del cattolicismo, non bastano i concorsi a premi per dar vita a un cadavere: il tempo dei miracoli è passato, e Lazzaro nella sua tomba dorme il sonno dei giusti e mai piú le sue palpebre si riapriranno per vedere la luce del sole. Altri circoli intanto sono sorti e non per risultato di concorsi, altra fede ha riempito l'anima dei giovani, e non è il vostro buon vecchio iddio che ha fatto scoccare la scintilla. Chi ha piú filo tesserà piú tela: e la vostra è una tela di Penelope che aspetta inutilmente il ritorno del suo Ulisse.

(4 aprile 1916).

QUISTIONE DI FOSFORO

Il cav. Berta entra pensieroso nella sua severa stanza che conosce le tormentose battaglie dell'arte e della poesia. Gli frulla nel cervello un'idea, e ciò non è piccolo avvenimento nella vita del cavaliere. Gli strumenti del mestiere sono posti sul tavolino: una dozzina di scatolette di fiammiferi e un paio di accenditori automatici; il dramma è già vivo nella sua fantasia. Non manca che concretarlo in un'espressione scenica. Personaggi: il cavaliere stesso, protagonista, fumatore accanito e infelice, un accenditore automatico (damina viennese) antagonista, tatuata col segno dell'aquila bicipite e priva di... benzina, un fiammifero pro mutilati, capocchia soda, ricca di fosforo, fiamma del cavaliere, tenuta prigioniera da un orco (cerinaio) e vari generici (cerini, zolfanelli comuni, prodotti dall'industria nazionale e quindi perfettamente inutili). Il cavaliere non conosce ancora la fiamma del suo cuore, che dovrà ispirargli il capolavoro, l'opera definitiva suggello della sua proba carriera di letterato. È pensieroso; il sigaro (simbolo della poesia... fumiste) è spento e al cavaliere manca il fosforo per accenderlo. «Fiammiferi! Ma questa è roba che non prende! Prendono invece i nervi».

Passa agli zolfanelli, peggio che mai: «Non ha capocchia! È un'asta bianca e liscia». Testuale!

Si fa avanti insinuante la damina viennese. La virtú del cavaliere tentenna. Sta per far scattare... la molla, ma riflette: «Piano un po'... non avevi giurato — in fede mia — guerra di boicottaggio... alla tedescheria?»

S'accorge del tatuaggio e rilutta ancora, ma la damina è troppo affascinante. La molla scatta una, due, tre volte... cilecca, il cavaliere si mette le mani nei pochi capelli, e come succede sempre quando si fa... cilecca, se la prende con la dama, che manca di... benzina. Cerca di far dello spirito per consolarsi: si rivolge alle immagini degli avi:

Chi mi dà un po' di fuoco?...

Foss'anche fuoco austriaco!

Si può accettarlo in prestito...

Per restituirlo poi...

Al Carso o sull'isonzo...

Dove vorrete voi!

Il dramma a questo punto precipita alla sua logica soluzione. L'orco cerinaio passa sotto la finestra, si lascia corrompere e per tre soldi cede al cavaliere la creatura dei suoi sogni, che compare sulla scena avvolta in un sudario tricolore. Il cavaliere sente che questa volta non farà cilecca. Le immagini fioriscono nella sua fantasia con un crescendo rossiniano. Sente i piú fervidi ardori: diventa pindarico:

Fiamma che splendi a Noi

e c'inviti a pensare ai nostri sacri Eroi:

fiamma che simboleggi il magnifico incendio

che affrancherà l'Italia dal turpe vilipendio.

La fantasia lo porta lontano, tanto che esclama:

Ove fiorisca l'alto pensiero italico, ivi è la Patria!

Tanto

sul campo della gloria, come nel

camposanto!

Il poveta s'accorge di aver esagerato un po' facendo fiorire l'alto pensiero anche nel camposanto! Ma tutto non è stato invano. La fiamma brilla, il sigaro s'accende, il dramma è finito nel modo piú morale e soddisfacente. Il cavaliere è cosí contento d'aver finalmente a sua disposizione un po' di fosforo che pensa già al trittico: Il fiammifero dall'età della pietra a quella dell'accenditore automatico, con prefazione di Giacomo de Medici.

(5 aprile 1916).

FEDE, SPERANZA, CARITÀ

Una vecchia pattumiera rovesciata, quattro burattini in bilico su due fili di ferro incrociati, un cartello con la scritta: «fede, speranza, carità». Il vecchio che trascina questo suo leggero bagaglio, si ferma ogni tanto, agita la pattumiera facendo danzare le pupattole e accompagna la danza con un mugolio ritmato della strozza. È impossibile non accorgersi di lui in queste sere di pressione atmosferica variabile, quando ogni tanto uno scroscio d'acqua viene ad interrompere le tranquille meditazioni dei nottambuli e i sonni degli straccioni sopra gli ospitali marciapiedi. Eppure bisogna proprio che la fede e la speranza siano ben salde nell'anima di questo libero cittadino, perché la carità non è troppa. Sguardi poco benevoli e indifferenti dei passanti affaccendati o nei cui occhi brilla ancora la contentezza di una allegra conversazione o di un tête-a-tête delizioso, e solo spettatore del saltabeccare dei suoi attori qualche monelluccio sbrindellato e frittelloso e poco redditizio. La costanza di questo vecchio odiatore delle livree degli ospizi di carità alla fine desta ammirazione. Quel volere guadagnarsi la vita vendendo l'unica merce che sia consentita alla sua logora persona, si impone. È una protesta viva contro la filistea carità ufficiale che irreggimenta e accaserma la impotenza senile, salvo a farla sloggiare e rimetterla in circolazione quando si creda necessario adibire ad altro uso i ricoveri e gli ospizi. Meglio la libertà sconfinata del marciapiede, le lunghe camminate con il leggero fardello delle tre virtú teologali da ricordare implacabilmente al mondo che si paganizza, secondo la consueta espressione delle effemeridi cattoliche. Il fermarsi sotto l'irraggiare della luce delle vetrine dei confettieri, dove i bambini di tutte le classi vanno ad incollare le facce ingorde e far danzare i batuffoli di stracci truccati da re e da regine appesi in bilico in cima a una vecchia pattumiera. Non essere costretti a svegliarsi alla mattina a uno squillo di tromba come i giovanotti delle caserme, cercare da sé la bettola fetente che dà per pochi soldi la minestra di morchia, ma in cui si paga del proprio e si ha diritto di protestare; partecipare ancora alla baraonda cittadina e non vedersi sempre circondato da facce avvizzite e da corpi tremuli, ma qualche volta creare il sorriso di qualche visetto smunto di bimbo appena iniziato alla strada e che non può procurarsi la gioia del balocco nazionale creato da Leonardo Bistolfi. Che importa se una mattina, dopo una giornata in cui la fede e la speranza avranno bussato invano alla soglia della carità, il corpo del vecchio sarà ritrovato stecchito sotto qualche panca di osteria di infimo ordine o in qualche angolo di stradicciola non ancora sventrata? Ma gli ultimi anni di vita non saranno stati rinchiusi entro una cinta limitatrice dell'orizzonte, e il vecchio corpo abituato al lavoro non avrà indossato la livrea della carità borghesemente organizzata e amministrata, senza un pensiero dei bisogni e degli affetti che anche la impotenza senile dei mendicanti può ancora sentire e desiderare.

(6 aprile 1916).

DALL'ARCADIA ALLA PEDAGOGIA

L'amico avvocato mi scrive ancora una volta:

Se sofismo è ragionamento fallace, io, tuo amico ed avvocato, mi sento puro della taccia da te mossami; e, siccome non ti credo uomo da fraintendere il pensiero altrui, ti potrei chiedere: e tu da quale arcadia vieni?

Per togliere la base sofistica ai tuoi appunti ti conviene rivedere, non dico rileggere, la mia lettera: ti convinceresti che io ho parlato di utili industriali e non dei colossali onorari agli amministratori e ai direttori della Fiat. Gli onorari riflettono l'economia interna della società industriale e la borsa degli azionisti; le prebende, condannevoli per essere al tutto, o quasi, parassitarie, stornano una parte degli utili già prodotti, ma non ne caratterizzano la formazione.

Ed ancora: tu mi chiami fautore della concentrazione capitalistica ed affermi che io non la nego.

Nella mia lettera io non ho fatto della teoria, né cado ora in tal peccato. Come uomo di azione pratica con idee molto chiare, ho seguito e seguo infatti una linea di condotta continua contro i privilegi della società borghese; non sono quindi fautore della concentrazione capitalistica, ma sento di doverla subire. Dall'averla constatata come fenomeno al farmi dire che non la nego, c'è di mezzo l'acrobatismo polemico.

Il mio pensiero è semplice. Come documento contro la iniquità dell'organizzazione economica borghese il bilancio della Fiat è tipico; ma come accusa a un singolo ente industriale per gli utili conseguiti, mi pare erroneo argomentare come tu hai fatto.

La tua azione giornalistica è indirizzata a intenti educativi, ma in questo caso non educhi se tu non vuoi meglio determinato il campo della critica. Quando io ti scrivo son fuori delle noie professionali e non faccio l'avvocato: non faccio neppure il professore e ti consiglio di fare altrettanto e di raccogliere gli appunti colla stessa benevolenza con cui ti son mossi. Tuo affezionato amico avvocato.

Amico avvocato, lasciamo da parte l'arcadia e la pedagogia. Sono, codeste, piacevolezze che non mi tangono. Raffrontando la prima lettera postillata con quest'ultima dell'avvocato amico, io debbo constatare che le opinioni di questo si sono aggiustate. Ed io che qualche volta so fare anche il bravo figliolo non rendo la pariglia all'amico avvocato. Siamo cosí d'accordo! Non noi ce la siamo presa coi singoli amministratori della Fiat. In complesso abbiamo detto che un profitto del cento per cento (l'amico avvocato sa che c'è ben altro e gli utili vanno oltre quella vistosa percentuale) è esorbitante, è indecente in tempo di guerra quando lo Stato, che lo consente attraverso le forniture per l'esercito, chiede ai cittadini i piú grandi sacrifici, chiede la vita anche a chi non gliela vorrebbe dare.

Ed io non ho affatto inteso individuare le responsabilità. Ora sarebbe interessante sapere come si farà per togliere lo sconcio che abbiamo denudato e denunziato con la consueta rudezza. Lasci stare la negazione fraintesa, l'amico avvocato, e ci dia per la bisogna i suoi lumi di amico e di avvocato e di civilista.

(7 aprile 1916).

L'ASSEMBLEA DEI PESCICANI

Riunione del consiglio della Camera del commercio. Un bel palazzo, dello stile che piacque all'aristocrazia torinese, quando i ricchi avevano il culto della casa: un ampio solenne scalone dalla balaustrata marmorea, una fuga di sale lussuose; incombe ovunque il silenzio piú austero. Nel soffitto della sala consiliare una grande allegoria campeggia.

[Tre righe censurate] che, nella meschina uniforme moderna, sovrasta al seggio presidenziale. Intorno gli stalli elegantissimi, di legno scolpito e dorato, accolgono i principi del ferro e della carta, i duchi della nostra civiltà, che da tutti noi, piccoli oscuri uomini, sanno esigere il contributo del nostro sudore, del nostro lavoro.

La seduta è aperta... Il pescecane presidente si rivolge ai colleghi; la voce è blanda, melliflua; un piccolo dolce sorriso gli erra perpetuo sulle labbra socchiuse, ma che subito scoprono i due incisivi superiori prominenti, e sembrano zanne, buone sempre al morso.

Bosso si alza e tuona contro lo strozzinaggio, contro il furto che nel porto di Genova devono subire i poveri industriali! Corre un mormorio di approvazione... non è presente alcun armatore, né alcun spedizioniere, e questa banda di ladri merita ben le frustate. Perdio, deve forse Bosso vendere la sua carta dieci volte piú cara, per far guadagnare i genovesi? E poi vi sono altri nemici piú forti da colpire!

Ed il presidente unisce le sue lagnanze agli improperi; anche le pelli devono pagare inaudite sopratasse; che vale compiere diuturnamente ogni immaginabile sforzo perché i soldati d'Italia abbiano le scarpe e le cinghie, e le cartucciere necessarie alla grande impresa, ed ottenere dalla Patria riconoscente, compenso, ahimè, sempre inadeguato alla fatica dell'incetta e della fabbricazione, se i meschini guadagni sono ancora immiseriti dalla voracità genovese? Ah, c'era il rimedio. Il consorzio portuario non può, il governo non vuole, eppure quale momento migliore di questo per affidare il porto alle autorità militari...?

I pescicani sogghignano approvanti... I carnali dai muscoli possenti, dai torsi scultorei, costretti al lavoro fra le baionette dei soldati, azzannati dalla canea dei poliziotti... Quale sogno... Ma il governo non vuole o non può... Passa per l'aria un brivido di tristezza muta e rabbiosa. Che ci stanno a fare a Roma quelle mezze dozzine di politicastri...?

Si parla del grano e della farina, del pane; il consigliere Vottero legge una mezza dozzina di pagine, in difesa di quei disgraziati mugnai che la demagogia, la quale ha purtroppo qualche influenza sulle sempre troppo deboli autorità governative, vuol condannare a morire di fame. Ma parla troppo chiaro... Annuncia tranquillamente che i proprietari dei molini sofisticheranno le farine; altrimenti, dice lui, ci rimettono.

I pescicani disapprovano... Che diavolo? Un po' di prudenza; si capisce, tutti vendiamo cotone per lana, ma non c'è nessun bisogno di proclamarlo, così, in pubblico. Quindi Corinaldi, cranio lucido, pizzo bianco, pescecane invecchiato e scaltrito — quante vicende, quante burrasche superate... per buona sorte che c'è nell'oceano della vita fortuna e giustizia per gli audaci... — protesta contro le affermazioni del Vottero. «Anche i consumatori devono essere tutelati; io incetto il grano, tu arrangi le farine, l'altro lavora il pane, ma gli interessi dei consumatori ci siano sacri». Rossi annuisce. È un pescecane molto grosso e tutti hanno per lui una riverenza un po' ironica, il rispetto che in una banda di ladri si ha per colui che recita bene la parte decorativa, ma utilissima per tutti, dell'onestà e della bonomia. Anche lui grida contro gli zuccherieri... sfruttatori ignobili che non vogliono vendergli lo zucchero, necessario per fabbricare il suo vermouth, ai prezzi fissati dal governo; piange sulla sorte dei poveri cittadini, afflitti dal rincaro dei viveri, è rabbioso contro i droghieri e i panettieri che non rispettano i suoi decreti. Pesciolini, pesciolini, ubbidite se no... I pescicani approvano; i piccoli esercenti litigheranno con i consumatori; nessuno oserà scrutare i loro affari.

La seduta è finita. Uuf! Un po' d'aria... che puzza di milioni sudici là dentro!

(8 aprile 1916).

PRODOTTI NAZIONALI

L'invito insinuante vi segue, vi perseguita dalle vetrine, dalle pareti dei negozi: «Preferite i prodotti nazionali». Vi sta sempre dinanzi agli occhi come un monito od un'accusa implicita. Alla coercizione statale che, imponendo ai confini le barriere doganali e facendo rialzare i prezzi, obbliga i cittadini a comperare un prodotto piuttosto che un altro, si cerca di aggiungere anche una coercizione morale.

E va bene. Non si deve avere nessuna pregiudiziale generica. Il prodotto nazionale è frutto della nostra industria, è prova della nostra civiltà economica, e se viene offerto a condizioni vantaggiose e di qualità equivalente a quella del prodotto estero, perché boicottarlo? Se l'invito ha solo lo scopo di richiamare l'attenzione su ciò che prima si trascurava, si disprezzava per una facile abitudine di autoscreditamento, potrebbe anche essere approvato. La guerra, troncando molte delle correnti commerciali tradizionali, stabilisce automaticamente delle condizioni di monopolio che gli industriali italiani possono aver sfruttato per tirarsi su, per mettersi in istato di poter fare ciò che prima era impossibile, date certe condizioni speciali del nostro paese e la mancanza di certe materie prime.

Ma purtroppo non a questo tende il richiamo insinuante e suggestivo. Lo scopo che si vuole ottenere è un tantino diverso. Si vuole sostituire al fatto economico della libera concorrenza e della libera scelta in base alla maggior convenienza, una coercizione morale in cui il fattore politico ha la prevalenza. Domando al farmacista dell'aspirina, un medicinale che deve avere un minimo di bontà indispensabile perché dia i risultati terapeutici del caso. Mi pone innanzi tre boccette a marca differente: tedesca, francese, italiana e mi fa questo ragionamento: il prodotto italiano è il primo che si cerca lanciare sul mercato; non è da paragonarsi a quello Bayer e neppure a quello francese, che pure non è ottimo. Ha un odore fortemente acidulo, che indispone, mentre gli altri due sono completamente inodori; ha un'apparenza di polverina di marmo che consola, mentre gli altri si presentano sotto forma di bei cristalli lucenti e trasparenti. Ma è italiano, è un prodotto nazionale, ed è dovere di buon patriota di comperarlo perché la nostra industria chimica si affermi e il nostro mercato si renda indipendente dall'estero. Domando se vi sia differenza di prezzo: nessuna. Il farmacista infine, quando mi decido per l'aspirina Bayer, mi confessa che anch'egli non si fiderebbe del prodotto italiano, perché quel fetore insopportabile di acidità, lo porrebbe in guardia e lo farebbe dubitare che oltre alla febbre, un disturbo viscerale si dovesse aggiungere a tormentarlo. Tuttociò, se non fosse indegno e ributtante, sarebbe per lo meno ingenuo. Il «Preferite i prodotti nazionali» diventa una trappola. Nei medicinali poi, se chi sceglie è il farmacista e non il cliente, e il patriottismo vi pone lo zampino, la trappola può diventare pericolosa, perché l'integrità fisica del consumatore va di mezzo.

Ahimè! Non è cosí che l'industria italiana si renderà indipendente e si cancellerà la convinzione che tutto ciò che è italiano deve essere perciò solo inferiore e disprezzabile. E i consumatori posti tra la legge economica del minor prezzo e della miglior qualità e l'illusione morale di giovare alla nazione preferendo i prodotti nazionali, seguiranno ancora una volta la via piú logica e naturale, e ciò facendo renderanno un servizio alla nostra attività produttrice costringendola a essere onesta e a porsi allo stesso livello di quella straniera.

(9 aprile 1916).

VOCI D'OLTRETOMBA

Noi che siamo stati e siamo internazionalisti di fatto, lo risaremo domani anche di diritto, perché non è possibile che i socialisti tedeschi e tanto meno quelli francesi, inglesi e russi, che hanno accettato in casa loro il fatto della guerra, vogliano condannare noi.

Cosí Guido Podrecca nella sua conferenza al salone Ghersi, tutta striata di quella leggerezza e di quel facilonismo ciarlatanesco che fu una delle cause maggiori del suo tramonto dalla vita politica e della sua morte, ahimè quanto precoce. Perché Guido Podrecca dimentica che anche prima della guerra egli era stato seppellito con tutti gli onori, che la tiratura del suo foglietto anticlericale era spaventosamente discesa, e che ormai in Italia a prenderlo sul serio non erano rimasti che i sagrestani e i parroci di campagna, che dall'alto del pulpito tuonavano contro l'anticristo al cospetto delle folle esterrefatte. Il proletariato ormai educato alla esperienza viva e palpitante della lotta di classe, ne aveva abbastanza di questo falso profeta che con tutta la superficialità fatua di una cultura da spazzaturaio, continuava nel vecchio anticlericalismo smidollato e di maniera, mostrando nel prete l'eterno nemico, l'unico nemico, falsando incoscientemente la storia e intorpidando il limpido corso delle lotte sociali. Chi aveva superato tutti i Bevioni, tutti i Castellini e i Piazza del giornalismo giolittiano nello sparar grosso sulla fertilità, sulla feracità della terra promessa libica, non aveva piú diritto di appartenere alla famiglia del proletariato italiano, e la sua espulsione, breve e recisa, non suscitò rimpianti né echi di dolore. Il ramo secco cadeva dall'albero vigoroso per esaurimento delle linfe vitali e il fuoco fatuo vaneggiante nelle sue barzellette di cattiva lega sul marito dell'amica, veniva riassorbito dalla grassa terra dei camposanti. Era passato il tempo che il socialismo, pur di trovar presa nelle masse disorganizzate, si trastullava con tutti gli scolaticci degli scandali da sacco nero, e bussava e picchiava disperatamente a tutti gli usci e si disperdeva nei blocchi demomassonici pur di potersi affermare, pur di far scivolare nel tumulto piazzaiolo la propaganda di un principio suo, tutto suo. Oramai il processo di individuazione era compiuto, e incominciava quello di isolamento, di opposizione a tutti i cugini di primo, secondo, terzo grado che s'aggrappavano alla trionfalmente robusta nuova personalità. E Podrecca e soci furono tagliati fuori, e passarono alla preistoria, al caos, al regno dell'indistinto. La loro voce arriva ormai fiacca e scialba alle nostre orecchie, come una voce di oltretomba. Il giudizio è inappellabile, onorevoli vittime dell'intransigenza e del domenicanismo socialista. Continuate pure a frugare nelle cloache con la fiocina del ciccaiolo, per la pesca di scandaletti di sacrestia, a blaterare contro la Kultur tedesca, contro Kant, contro tutti quelli che sono troppo in alto perché le unghiette vostre di bambini imbizziti possano scalfire. Continuate ad attaccarvi al rogo di Giordano Bruno per farne sprizzare qualche favilla di popolarità. Appunto Giordano Bruno ha insegnato che si deve essere implacabili contro gli spropositanti, e che quando si vuole ottenere uno scopo e si vuole far trionfare una verità, bisogna isolarsi ed essere intransigenti e domenicani.

(10 aprile 1916).

GUERRA DI TALPE

La lotta tenace che i consumatori torinesi hanno intrapreso contro le due società del gas sta prendendo un curioso atteggiamento di guerra di trincea. La cittadinanza ha ormai a sua disposizione un'arma formidabile, un vero e proprio 420, nelle sentenze del giudice conciliatore, e se ne fa forte, e la fa sparare gioiosamente sotto il naso degli agenti che vanno per minacciare. E le società allora, obliquamente, subdolamente, cercano di scalzare il terreno avversario, di far scoppiare delle mine sotterranee, di suscitare la discordia in famiglia. Non possono violare il domicilio di nessuno, non possono togliere il gas ad un intero isolato per colpire uno, due, tre refrattari, e si insinuano come possono, cercano di piombare nell'appartamento quando l'uomo è assente, quando la pentola bolle sul fornelletto, e imporsi con la sorpresa, compiere la chiusura del contatore furtivamente e quindi dileguarsi dopo il facile trionfo. Negli uffici d'amministrazione delle due società, mai come in questi giorni fu studiata la topografia della città, gli spaccati e le orizzontali delle case, l'ubicazione delle condutture e dei contatori. E di notte, armati di scale e di grimaldelli, tenaglie, chiavi inglesi, vengono sguinzagliate le talpe che dovranno bucare i muri dei gabinetti di decenza, arrivare con gli strumenti fino alla fortezza e smantellarla. È commovente l'accordo che subito si è stabilito fra i proprietari di casa e i manutengoli delle società gassogene a danno degli inquilini e la facilità con la quale i portinai dànno le indicazioni sugli orari di lavoro degli operai delle officine. E che strizzatina d'occhi quando vedono le facce rabbuiate delle donne che alla mattina hanno avuto la brutta sorpresa dell'interruzione del gas, e devono provvedere in qualche modo per la sostituzione del combustibile.

Ma non bisogna arrendersi perciò. Ricordiamoci gli insegnamenti bellici di tutti i colonnelli Barone del grande giornalismo: alla guerra di logoramento non c'è da opporre che una tenace pazienza, e la vittoria non può mancare. Ogni lotta vuole delle vittime, siano pur esse un pranzo ritardato e un'illuminazione ridotta. Le sentenze dei giudici conciliatori sono una vittoria clamorosa. Per esse la condizione giuridica delle società gassogene s'è venuta chiarendo. Le società sono equiparate agli esercenti che non possono domandare un prezzo della merce superiore a quello del calmiere (il calmiere è costituito dall'impegno contrattuale di non modificare le tariffe senza un semestre di preavviso). E come l'esercente che vuol fare capricci può essere denunziato alle guardie, cosí dovrebbe essere denunziato alle guardie l'aguzzino che pretende il maggior prezzo del gas e minaccia rappresaglie in caso di rifiuto. È questo il modo migliore per tagliare le unghie alle talpe che cercano di stancare gli utenti sgretolando i muri e facendo perdere la pazienza alle donne che attendono alla cucina. Il giudice conciliatore che ha riconosciuto il non dovuto pagamento dei cinque centesimi di aumento, deve anche riconoscere l'obbligo delle società a fornire il gas alle primitive condizioni, poiché lo scambio è una cosa troppo importante perché possa essere lasciata all'arbitrio degli esercenti, e far pagare la contravvenzione quando essi si rifiutano di far il loro dovere.

(12 aprile 1916).

GLI SPECIALISTI DELLA MORALITÀ

Uno di questi specialisti è il prof. Rodolfo Bettazzi, che a proposito della film La falena ha ancora l'altrieri scritto uno dei tanti suoi articoli pedagogici sull'importante questione. Meno male però: questa volta è stato longanime ed ha riconosciuto che sarebbe perfettamente inutile invocare l'intervento dello Stato e della censura. Inutile perché non si può pretendere che un impiegato, un burocrate, sia specialista in moralità e perché solo i cattolici (e tra essi solo gli eletti), possedendo la verità, l'assoluto, la rivelazione, potrebbero indicare quale manifestazione della vita sia morale e quale viceversa. Posta in questi termini la questione è bell'e che risolta. Purché non invochino l'opera dei questurini, le manette e il carcere, i cattolici sono padronissimi di sostenere immorale tutto ciò che cosí loro pare, e di boicottare i teatri e i cinematografi dove si offrono al pubblico spettacoli eterodossi. Fatta la distinzione fra morale e moralità (e il Bettazzi implicitamente lo fa) si capisce subito che la moralità cattolica (cioè il complesso di convinzioni, di idee, di costumi che contraddistinguono i cattolici) sia diversa da tutte le altre moralità. Per chi è convinto che tutti i problemi dello spirito si risolvano nella storia, ciò è elementare. La morale è la scienza dei costumi; i suoi principî astratti sono uguali per tutti, cattolici o pagani, socialisti o clericali; e che ognuno debba operare come vorrebbe che nello stesso caso operassero tutti gli altri uomini, è massima universale. Ma non perciò quando nella pratica il cattolico opera da cattolico e il socialista da socialista, l'uno e l'altro sono immorali, purché le loro intenzioni siano sincere ed oneste. E che ognuno di essi cerchi di convincere gli altri delle sue verità è altrettanto morale e doveroso. Ma il fatto è che non tutti gli specialisti della moralità sono della stessa pasta del prof. Bettazzi. Convinti di essere gli unici depositari della verità, vogliono che lo Stato dia a questa convinzione una forma coattiva, e si agitano e mettono in moto influenze politiche per ottenere uno scopo che non ha affatto carattere politico. La violenza può essere il metodo buono per dirimere le vertenze fra classe e classe e purtroppo anche fra Stato e Stato, ma non lo è certamente per dirimere quelle fra uomo e uomo e tra moralità e moralità. Boicottino i teatri e i cinematografi, come consiglia il Bettazzi, tutti gli specialisti, ma la finiscano di annoiarci coi discorsi di Luigi Luzzatti e coi progetti di leggi antipornografiche.

(15 aprile 1916).

AIT LATRO AD LATRONEM

«Qualunque cosa possa succedere sarò sempre fiero ed onorato di stringere la mano al cav. Bauchiero ». Testuali parole di Teofilo Rossi nella sua deposizione di avantieri. Confrontatele con queste del colonnello Arango: «Ho molta stima dell'imputato Fasola e solo il giudizio del tribunale potrà far cambiare il concetto che me ne sono fatto». E si capisce la diversa mentalità dei due e il loro diverso modo di concepire l'onore e la fierezza. L'Arango è un qualsiasi galantuomo: ha avuto dei rapporti col Fasola, l'ha sempre ritenuto un onesto: se però dal dibattito tribunalizio risulterà la sua colpa, naturalmente dovrà modificare le sue opinioni. Teofilo no; non è un qualsiasi galantuomo: è un esercente, è un pescecane delle industrie che guadagnano il cento per cento, e perciò «qualunque cosa possa accadere», anche se il Bauchiero sarà dimostrato un volgare frodatore, un miserabile truffatore del pubblico denaro, egli sarà «sempre fiero ed onorato di stringergli la mano».

Ritorna in onore il detto latino da tradurre modernamente: dice il pescecane al suo collega... E Teofilo Rossi ha ben donde di esibire il suo onore e la sua fierezza. In questi giorni si è svolta tra lui e il comm. Aducco dell'Unione zuccherieri una polemichetta assai istruttiva e che fa molto onore all'esercente sindaco di una grande città. Nell'ultima assemblea della Camera di commercio, il conte, per meriti non bene accertati, ha nella sua qualifica di esercente vermuttaio attaccato gli zuccherieri come invece avrebbe dovuto fare in qualità di sindaco, se si fosse preoccupato degli interessi dei suoi amministrati. Ma il comm. Aducco gli ha risposto a dovere, e meglio ancora ha replicato a un tentativo di difesa del povero vinattiere. Ha detto l'Aducco: «Rossi pretende che l'industria zuccheriera gli fornisca, per la fabbricazione del vermouth, dello zucchero raffinato. Ora questo zucchero è appena sufficiente per il consumo interno, e se noi concedessimo al Rossi quanto domanda, una grande quantità di questa qualità di zucchero passerebbe i confini, insieme ai liquori che la ditta torinese esporta su larga scala, realizzando enormi profitti perché lo zucchero è rincarato in tutti i mercati e, come si sa, al confine italiano vengono restituite agli esportatori le tasse di fabbricazione che valgono solo per l'interno». L'industria zuccheriera ha però posto a disposizione del Rossi quanto zucchero bianco cristallino extra è necessario per la sua produzione, anzi il Rossi di esso ne ha accaparrato molte migliaia di quintali. Ma siccome il cristallino costa 148 lire al quintale a Rovigo, mentre il raffinato costa 148 lire a Sampierdarena, per risparmiare qualche soldo nei trasporti il Rossi s'infischia allegramente dei bisogni interni, s'infischia del disagio che la scarsità di zucchero raffinato ha creato fra quelli dei quali egli stesso è amministratore e tutore, pretende e si scalmana per averne e per poter cosí arrotondare le cifre degli attivi dei suoi bilanci, ricorre e denuncia il fatto al ministro delle Finanze, si accorge (santa innocenza) che gli zuccherieri hanno costituito un monopolio, anzi un vero e proprio dispositivo perché essi possono favorire e danneggiare l'una piuttosto (magnifico questo piuttosto) che l'altra delle fabbriche, ecc. Naturalmente non si preoccupa il vermuttaio di Carmagnola che venga danneggiato il consumatore italiano e quindi torinese, piuttosto che la sua fabbrica, e perciò non fa meraviglia che dichiari in ogni caso, e data ogni possibilità, di essere fiero ed onorato di stringere la mano al cav. Bauchiero.

Tre nomi: Rossi, Bauchiero, Aducco. Eppoi si dice che la latinità non ci ha lasciato dei modi di dire utili ed arguti; come quello: Ait latro ad latronem...

(16 aprile 1916).

IL CITTADINO CHE PROTESTA

Il cittadino impiegato, dopo che alla Camera i democratici hanno fatto naufragare l'ordine del giorno Merloni, e il progetto di legge sul contratto d'impiego è stato rimandato a tempi migliori, compila i suoi ordini del giorno e li manda ai giornali. Il cittadino impiegato vuole continuare cosí l'onesta tradizione che Luigi Lucatelli ha immortalato nel tipo di Oronzo: ad ogni rovescio il cittadino scrive la sua protesta stizzosa ai giornali, e poi s'acquieta fino al nuovo rovescio e alla nuova epistola, oppure il cittadino propone di raccogliere «in un libro d'oro» il nome di quelle ditte e di quegli istituti che già hanno largheggiato in concessioni ai dipendenti.

Il cittadino vuol mantenersi nella legalità. Egli è forse dei piú colpiti nell'attuale stato di cose borghese, ma vuole mantenersi nella legalità. Pensate: l'impiegato ha uno stipendio fisso, accertato fino all'ultimo centesimo dall'agente delle tasse che gli fa pagare 7,50 per cento di ricchezza mobile; ad ogni nuovo aumento di tasse e rincaro in genere della vita, tutti i fornitori si riversano sui clienti e chi sta peggio di tutti è l'impiegato che non può rifarsi su nessuno, che non è organizzato per la lotta di classe ed è tutto quanto alla mercé dei suoi principali. Il padrone di casa, che vuol mantenere intatto il suo reddito, distribuisce la nuova tassa sugli inquilini; l'esercente sui suoi clienti, il parrucchiere sui suoi pazienti, il cinematografo, il trattore... Nessuno vuole che la nuova tassa rappresenti un suo sacrificio personale, e la fa pagare agli altri. La macchina dell'economia borghese funziona magnificamente: ogni nuova gravezza va a schiacciare il consumatore, il proletario, ma se questi è organizzato, può almeno in parte rifarsi anch'egli e premere perché gli sia aumentato il salario. L'impiegato, no: il suo stipendio è l'ultima ruoticina dell'ingranaggio, quella che non ha nessun'altra presa che viene mossa dal colossale congegno, ma sbatte inutilmente le sue palette all'aria e macina solo lettere ai giornali e libri d'oro per chi è un po' misericordioso. Duecento franchi al mese (siamo larghi, via!); quindici lire di ricchezza mobile; dieci lire per pagare le tasse al padrone di casa; cinque per quelle del trattore, due per quelle del parrucchiere, ecc. ecc. Ma, dio bono, non si è proletari, si è gente per bene, non ci si vuol mescolare con la canaglia, si è soci dell'Unione monarchica, la cui tessera dà diritto a sconti rilevanti sui bagni pubblici, sui teatri, sui cinematografi. Epperciò si accoglie, è vero, come manna caduta dal cielo, l'opera che Merloni o altri nostri dànno a sostegno dei sacrosanti diritti della categoria, ma dopo che se ne è preso atto e si sono mandati i ringraziamenti del caso, non se ne fa piú niente. Il cittadino che protesta vuol conservarsi in carattere, e non vuol diventare il cittadino che si organizza. Meglio mandare epistole ai giornali e compilare «libri d'oro» con la fotografia e i titoli di benemerenza dei cuoricini teneri che si sono commossi alle disgrazie del povero travet. E che la ruoticina del loro striminzito stipendio continui pure a macinare aria e sospiri.

(17 aprile 1916).

I MOVENTI E COPPOLETTO

Giuseppe Dardano è il Coppoletto del nazionalismo torinese. Un Coppoletto che non ha né l'ingegno né le virtú stilistiche della sua bella copia, ma che ne segue la falsariga per ciò che riguarda le questioni di massima, e per l'odio catilinario che nutre per la demagogia e gli scandali cosiddetti demagogici. Attraverso la lente delle sue pupille di barbagianni tutto si rimpicciolisce; tutto diventa pettegolezzo nella sua mentalità di pettegolo; e perciò nello «scandalo» dell'Esposizione egli non riesce a vedere che astio neutralista.

Tanto odio (a mala pena spiegabile se invece di qualche milione male spesi si trattasse di un tradimento della patria o di un giornalista venduto al nemico) diventa spiegabilissimo appena si consideri che l'attaccato è una delle piú influenti figure dell'interventismo subalpino e che l'autore principale della campagna è uno dei piccoli dèi dell'Olimpo socialneutralista torinese.

Cosí scrive il Coppoletto. Noi rileggiamo un libro che tanto amiamo, Notre jeunesse di Carlo Péguy, e ci inebriamo di quel senso mistico religioso del socialismo, della giustizia, che tutto lo pervade. Paragone immodesto, lo confessiamo, quello tra la campagna per la liberazione di Dreyfus e la campagna per la resa dei conti. Eppure nella prosa del Péguy sentiamo espressi con empito sovrumano, con tremiti di commozione indicibili, molti di quei sentimenti che ci pervadono, e che importa poco ci siano riconosciuti. Sentiamo in noi una vita nuova, una fede piú vibrante del solito e le miserie polemiche dei piccoli politicanti crassamente materialisti nella determinazione dei moventi, hanno solo la virtú di renderci piú alteri. Non ci spaventa la constatazione ridevole delle coincidenze con i giolittiani della «Stampa» e tanto meno quella coi neutralisti del «Giorno» di Matilde Serao, l'inneggiatrice alle prodezze dei sommergibili tedeschi. L'interventismo del conte Orsi è un campanaccio in un boschetto arcadico. Non è il conte Orsi che ha spiantato o spianterà l'Italia. La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato. Certo il suo ronzio noioso di mosca cocchiera ci importunava. Ma ciò che irritava maggiormente il nostro senso morale era la prosopopea da padre eterno di questo risibile Catone, che, impotente sempre a creare un organo forte dell'opinione pubblica, a imprimere alla vita politica — sia pure locale — una sua impronta di partito, vivacchiava alla giornata, corvo affamato sempre pronto a lanciarsi sui supposti cadaveri degli avversari. Da un pezzo il messere si trastullava a indicarci alla giustizia esecutiva come malfattori pericolosi, senza assumere mai una responsabilità, senza specificare mai un'accusa.

L'abbiamo colto nel laccio proprio in ciò che sembrava la sua fortezza, la sua torre d'avorio: la correttezza personale. E abbiamo menato la ferula, talvolta rudemente. La patria può esserci grata: abbiamo tolto dalla circolazione una moneta falsa, un uomo che nel suo antigiolittismo ha la mentalità piú squisitamente giolittiana: la doppiezza e l'impotenza a creare qualcosa di duraturo.

Questi sono stati i nostri moventi, o ameno Coppoletto del nazionalismo torinese! Il nostro astio è quello che tutti i galantuomini hanno sempre nutrito per le persone oblique; è quello che in lotte ben piú importanti e nelle rivoluzioni ha dato a qualcuno la forza necessaria per poter dire: pur che trionfi la giustizia, perisca il mondo!

La colpa non è nostra se il perverso destino ha posto dinanzi alla punta dei nostri stivali dei cenci sporchi come gli Orsi, gli Sbroda e i Coppoletti della miseria politica cittadina.

(19 aprile 1916).

GIOVEDÍ SANTO

Per chi ha da esercitare ogni giorno il mestieraccio, la cosa riesce alquanto proficua. Già intanto io apro ogni mattina quel foglio con uno o piú sbadigli di sollievo e di ilarità. Ogni giorno se ne ha una almeno. Non se l'abbiano a male i «cari colleghi». Dacché faccio iniezioni di sangue... d'agnello la nota è mutata. L'ira non mi rapprende, neppure se mi viene dato di sapere che il nostro celebre «aria ai monti» giura dinanzi ai giudici militari che quand'anche un certo imputato venisse condannato (o meglio, qualunque cosa capiti, nevvero signor conte?) egli si riterrebbe sempre onorato di essergli amico.

Io sono un lettore assiduo della stampa cattolica, e la mia mania di raffronto si esercita piú assiduamente e perfidamente tra i giornali clericali. Vedo la «Unità cattolica» e il «Momento» locale. Entrambi si pregiano di interpretare il pensiero politico del cattolicismo; beneficiano abbondantemente di approvazioni e benedizioni papali, cardinalizie, arcivescovili e vescovili: dovrebbero essere le gamme diverse da fondersi in un solo colore fondamentale o un bicolore? Nero-giallo?

Forse. Ma nell'«Unità cattolica», che trova modo e tempo di occuparsi frequentemente delle cose torinesi, trovi una compattezza d'idee, una dirittura granitica, un'ostinazione fanatica, uno zelo inflessibile, una intransigenza che non è puramente formale, una fede prorompente. Tutto ciò è anche anacronistico, troppo anacronistico. Ma in ultima analisi, quella fede ingenua e testarda in tutti i misteri di S. M. Chiesa, dalla trinità all'infallibilità, non riesce antipatica. C'è della fierezza, del carattere. Si passa oltre e si è costretti a dire: meglio cosí, che sono sinceri anche quando reclamano il ripristinamento del potere temporale.

Vedi invece l'altro, anzi gli altri organi giornalistici della cattolicità. Ecco il «Momento». È il quotidiano risultamento di un compromesso moralmente impossibile fra il sacro e il profano, il divino e l'umano, l'anacronismo e lo snobismo. La rubrica delle funzioni religiose è accanto a tutto il resto, alla nota mondana, alla cronaca nera, alle note teatrali, alla notizia dell'adulterio, notizia peccaminosa di per se stessa, e ciò ti dà sensazione di attaccaticcio. Ho letto or ora le disposizioni e le indicazioni per giovedí santo del reverendissimo curato di S. Teresa, «che con uno zelo indefesso accoppia un mirabile senso di praticità e ha notato come spesso i fedeli facciano le visite del giovedí santo ai cosí detti sepolcri senza un sicuro criterio religioso e quasi senza sapere quali preghiere siano piú adatte al pio scopo».

Proprio cosí: anch'io non sapevo. Ora se i modi di codesto compromesso tra l'attività sacra e l'attività profana hanno la virtú di suscitare nella piú parte dei lettori la sensazione che io provo nel leggere le rubriche religiose del confratello, il «Momento» potrà accrescere il numero dei lettori, ma non il novero dei credenti.

Ché la fede vera rifugge da ogni compromesso. L'«Unità cattolica» dalle gonfie declamazioni bibliche non può che darmi ragione per dar torto a tutti i conati di modernità dei giornali clericali dei trust.

E anche il giovedí santo nelle recensioni del «Momento» riesce una buffonata coi fiocchi: è un motivo di comicità, non una rievocazione tragica.

E il genere comico — dice il De Sanctis — è sempre una attestazione di decadimento. E vuol dire che il cattolicismo del «Momento» decade.

(20 aprile 1916).

BEVIONE IN BESTIA

Cioè lo si rivede in se stesso. Il Congresso magistrale suggerisce al nostro eroetto, divenuto compiutamente offenbachiano, la tremendissima filippica contro il Partito socialista. La nostra stima per l'onorevole del quarto collegio è incommensurabile. C'è in lui una profluvie di virtú e di meriti politici e morali non facilmente reperibili negli avversari. Intanto è onniscente. È capace di tutte le improvvisazioni, di tutti gli acrobatismi possibili e immaginabili. La campagna socialista contro le infiltrazioni massoniche nella scuola, piú subdole delle stesse ingerenze cattoliche, non può non solleticare il signor Bevione, già autore di una furente diatriba giornalistica contro la massoneria, a plagiare nel turpiloquio un certo giornale per dire, sul foglio del nuovo ed onorato padrone, il rinomato epigono boteriano, che il Partito socialista vorrebbe servirsi dell'organizzazione dei maestri per compiere un'azione «nefanda ed idiota» contro la patria, contro la guerra. L'ometto del pio ricovero di via Quattro Marzo ha di che rallegrarsi: il nuovo «acquisto» non è stato fatto indarno, il contratto di compra-vendita è stato un po' caro; ma Bevione comincia a rispondere alla bisogna. I vecchioni del pio ricovero ringalluzziscono. Bevione può continuare: manderà in sollucchero il commendatore bavarese, incapace di attaccare per vie e con mezzi diretti. Contentoni anche noi che vogliamo avere degli avversari, non delle mummie. E lasciamo la parola al moschettiere voltagabbana. Udite, udite: «Mentre tutti i socialisti dell'Europa guerreggiante, nessuno escluso, combattono al fianco dei fratelli di ogni fede politica, sostenendone gli sforzi per la salvezza della patria, in Italia, e in Italia soltanto, vediamo lo spettacolo nefando e idiota di un socialismo che si fa positivo organizzatore della discordia e della debolezza interna, che taglia i nervi alla libera iniziativa atta a rinvigorire la resistenza nazionale, e per ignobile speculazione elettorale si comporta come non vedesse che se la guerra è un male, un male a cento doppi peggiore è la sconfitta».

Non è qui il luogo di intavolare la discussione. Il signor Bevione intanto ignora che proprio in Francia gli «istitutori» in questi giorni vanno svolgendo un'iniziativa che, se può essere tacciata di tradimento dai «patriottismi» della guerra jusqu'au bout, risponde ai criteri e alle idealità del socialismo, che s'oppone alla seminagione folle dell'odio tra un popolo e l'altro.

Non parliamo dell'apoliticismo che il Bevione caldeggia. L'apoliticismo del messere è un quid mutabile col mutare della «posizione» del nostro onorevole che, dopo la non lontana campagna contro la massoneria, adesso scrive per la massoneria. Proprio come il suo patriottismo. Non si deve infatti dimenticare che la quintessenza patriottica, indiscutibile, assoluta dell'on. Bevione, qualche anno fa, era nella campagna libica per la quale, com'ebbe a dire il Salvemini, il nostro voltagabbana scrisse, in cattiva prosa, molte sciocchezze.

Ora la salute sarebbe la guerra agli imperi centrali e chi non accetta questa verità assoluta anche nelle scuole elementari, è «nefando ed idiota come i Lazzari, i Vella e i Barberis». Ma noi non dimentichiamo nemmeno che il signor Bevione, poco prima che l'Italia entrasse nella conflagrazione, quando non era nemmeno in vista la sinecura demomassonica di via Quattro Marzo, ebbe a scrivere che i nostri naturali alleati non potevano essere che la Germania e la Russia.

Ho già detto che non è qui il luogo di discutere le questioni della «magistrale». Il nostro giornale si è già spiegato assai in altra parte, pur sotto l'incubo della censura.

Al signor Bevione, che si mostra cosí incoraggiato ad insolentire i socialisti ufficiali, «sabotatori della patria e della guerra», per ora vorrei domandare: come mai egli ha potuto ottenere di dimettere la divisa di volontario per tornare al fronte interno, alle comode e ben rimunerate battaglie della sua penna vendereccia?

Ecco una domanda che già indarno fu rivolta al signor Bevione. Comunque qui s'attende ancora che costui risponda.

(21 aprile 1916).

IL MITO DEGLI IPERBOREI

Dopo un anno e mezzo di vagabondaggio nei mari aperti del nord, gli Iperborei sono felicemente sbarcati nelle terre del sole. Quale Omero canterà il loro errare, le avventure meravigliose nelle terre dei Lotofagi, presso le Calipso e le Circi boreali che trattennero i loro condottieri avvinti coi dolci lacci d'amore? Ahimè! Passato è il tempo della poesia epica, ed è il giornale che ha distrutto questo fiore precoce della fantasia umana.

Già nel settembre del 1914 il giornale piú bene informato di Torino aveva mandato un corrispondente speciale a scortare i nuovi Ulissidi, e qualche notizia era già arrivata al mondo civile di questo nuovo ciclo eroico che stava aprendosi. Gli Iperborei, annunciava il giornale sullodato, sono partiti da Arcangelo (nome fatidico di buon augurio), hanno costeggiato l'estrema Tule, e le prime barbe cosacche e chirghise sono già state viste nella Scozia. Il giornale subalpino destò l'invidia dei suoi confratelli romani; si apprese che tutti avevano mandato i loro corrieri in anticipo ad Arcangelo; s'apri una interessante disputa per sapere chi prima avesse dato la bella notizia. Uno storico di Napoleone, pur esso torinese, abituato a documentare le sue ricerche e le sue monografie press'a poco come Marco, il sanguinario, documenta le sue cronache di palazzo Siccardi, pubblicò un epistolario inedito di una dama che giurava e spergiurava di aver proprio coi suoi occhi visti gli Iperborei passeggiare per le vie di Glasgow e di Edimburgo. La correttezza personale del direttore del «Popolo» s'impose, come al solito, la disciplina del silenzio; il tempo naturalmente gli avrebbe dato ragione, come è solito, da gran galantuomo, darla a chi se la merita.

Un anno e mezzo è trascorso. La giubilante notizia è arrivata. Sono finalmente alla Cannebière i tanto attesi. La disciplina del silenzio ha prodotto i suoi frutti. Pensate ai mostri che attendevano in agguato la flotta fantasma, alle insidie che avrebbero potuto inghiottirla fra le brume e le nebbie, alle Circi che avrebbero potuto trasformare in bestie immonde gli eroi del nuovo ciclo epico. Perché dar loro le notizie precise sull'itinerario, sul contingente, sui fini? Meglio inghiottire in santa pace gli scherni dei maligni, gli sberleffi e i lazzi degli scettici impertinenti. Il tempo avrebbe dato ragione. Certo un anno e mezzo è un po' troppo in questi tempi di telegrafo senza fili e di transatlantici a molte eliche, ma bisogna pensare che si tratta di Iperborei, di primitivi che seguivano una rotta omerica di circumnavigazione, remigando affannosamente alla ventura senza possibilità di approdi, tutti insidiosi.

Facciamo atto di contrizione. Incominciamo a credere davvero che il conte Orsi sia una cima di giornalista e che il tempo sia il suo alleato naturale. Certo sarebbe stato degno di vivere nei tempi omerici, quando i miti erano ancora l'unica storia possibile, e le notizie arrivavano dopo due o tre anni dall'accadimento del fatto. Ma non bisogna disperare. Dopo la fine della guerra qualche erudito tedesco saprà ben dimostrare, per vendicare la sua patria offesa dalla terribile campagna della personalità piú importante dell'interventismo subalpino, che il conte Delfino è una reincarnazione di uno di quei compagni che Ulisse fu costretto a lasciare sul monte Circello, perché, come testimonia Giovanni Battista Belli, preferirono rimanere animali al ridiventare uomini.

(22 aprile 1916).

«ARIA AI MONTI» ÜBER ALLES

Dunque «aria ai monti» ha avuto un nuovo onorifico incarico: lo si è nominato presidente dei cavalieri del lavoro, in sostituzione del marchese Cappelli dimissionario, a quanto pare, perché è rimasto attaccato — come l'ostrica allo scoglio — ad un suo innominabile criterio politico.

«Aria ai monti» è veramente nato con la camicia. La sua felicità consiste appunto nelle onorificenze, nella raccolta di chincaglierie decorative. È la sua piú grande passione, la sua delizia, il fine della sua esistenza. «Aria ai monti» è ancora giovane, paffuto, mangia e beve epicureamente e in pochi anni di vita politica è riuscito a superare tutti i «colleghi» in fatto di onorificenze. La Guida di Torino — quella ante bellum per intenderci, ché la successiva del 1916 è stata spurgata secondo le esigenze dell'ora, e lo sa il conte Orsi che non figura piú come commendatore bavarese — reca infatti, la Guida del 1915, che Teofilo Rossi, sindaco di Torino in mancanza per la bisogna di una persona seria, conte per via dei conti dell'Esposizione del 1911, ex deputato, ex sottoministro, senatore del regno per censo spremuto dagli ingredienti del vermouth, e gran croce decorato del gran cordone, cavaliere del lavoro, fregiato della medaglia d'oro del terremoto di Calabria e Sicilia, della medaglia d'oro dei benemeriti dell'agricoltura e della medaglia d'oro dei benemeriti dell'istruzione popolare, grand'ufficiale della Legion d'onore, gran cordone degli ordini di S. Stanislao di Russia, della corona di Prussia, di Francesco Giuseppe di Austria-Ungheria, della Corona del Belgio, del Tesoro sacro del Giappone, del Medidijè di Turchia, della Spiga d'Oro di Cina e del Sole e del Leone di Persia, grand'ufficiale dell'ordine di S. Sava di Serbia, commendatore di Isabella la Cattolica, cavaliere dell'ordine di Leopoldo del Belgio... Auf!

«Aria ai monti», adulando Giolitti e strisciando con Salandra, arriverà anche piú in alto, fino al collare della SS. Annunziata. È ancor giovane e vi potrà arrivare. Quel giorno sarà il piú bello della sua vita e perdonerà anche a noi tutti i dispiaceri che gli procuriamo. Gran brava persona «aria ai monti»! Il nuovo onorifico incarico se lo merita. Come cavaliere d'industria, degno di assurgere alla presidenza dell'ordine, non si poteva scegliere meglio. Titolo dimostrativo, recente, palmare, è anche la polemica svoltasi nei passati giorni sulla «Stampa» a proposito della questione dello zucchero. «Aria ai monti» in codesta faccenda ha dimostrato di sapersi sdoppiare in modo sorprendente, ché, come sindaco va alla Camera di commercio a fare la voce grossa contro gli speculatori dello zucchero, come produttore di vermouth agisce nel modo che il direttore dell'Unione zuccheri ha cosí perfidamente illustrato. Altro titolo di «dignità» per la presidenza dell'ordine dei cavalieri del lavoro è quello esibito al Tribunale militare di Torino, l'altro giorno, durante il processo Bauchiero. «Aria ai monti», che possiede un senso squisito di solidarietà coi colleghi, cavalieri d'industria... «al par di lui», non si è peritato di affermare: «Qualunque cosa possa accadere, io sarò sempre fiero ed onorato di stringergli la mano». Si trattava di un collega... Il collega è stato assolto con una sentenza che non convince nessuno e contro la quale il P. M. ricorre. Ma di ciò poco importa. «Aria ai monti» «sarebbe stato fiero ed onorato di stringere la mano» a Bauchiero ancorché questi, a dibattimento concluso, si fosse trovato nella situazione del Canonica, condannato, con una responsabilità imprecisata, comunque inferiore a quella del signor Bauchiero, a cinque anni di reclusione.

Ma la novissima nomina di «aria ai monti», chiamato a sostituire il Cappelli, dimissionato o dimessosi per delitto di neutralità, appare in tutta la sua luce di comicità se si pensi che «aria ai monti» anche in fatto di neutralità era... über alles.

Tant'è che un certo scompartimento di prima classe del direttissimo Roma-Torino potrebbe ancora testimoniare che «aria ai monti», dopo le storiche sedute alla Camera e al Senato, quando cioè la guerra «santa» d'Italia era già stata decisa, fu udito mormorare contro Salandra e i «pazzi» che volevano la guerra.

Questo è ormai storico.

Come, del resto, rimane acquisito alla cronaca che l'altro titolo onde «aria ai monti» è stato assunto alla presidenza dell'ordine dei cavalieri del lavoro è «l'ozio affannoso» in cui trascorre i suoi giorni al Palazzo di Città. Il titolo è testimoniato da uno dei piú cospicui collaboratori del conte sindaco, ora presidente dei cavalieri dell'industria.

(23 aprile 1916).

ATLANTI E STORIE

A me non dispiace vedere che la vita continua imperturbabile anche in tempo di guerra. Anzi ne sono lieto, perché questo continuare nelle vecchie abitudini, questa mancanza di scissura tra il presente e il passato, è una svalutazione della guerra. Dopo che vi siete avvelenati il sangue con la lettura di un paio di giornali, e non siete rimasti ossessionati solo perché ormai il vostro organismo è saturo di bluff, vi fa una certa impressione vedere insomma che c'è ancora chi gioca alle bocce e chi scattina e chi va a far le merende sui prati. Insomma c'è una certa quantità di gente per la quale la guerra non esiste, o, pur esistendo, non rappresenta niente di cosí grande, che possa turbare il pacifico scorrere delle ore. Una passeggiata al Valentino di domenica dovrebbe essere d'obbligo agli studiosi e agli scrittori di storia. Le loro opere future se ne gioverebbero, e come. Perché questa esperienza storica che da due anni stiamo osservando, ci ha procurato, tra le altre, una grande delusione e ci ha fatto diventare pessimisti. Non crediamo piú alle storie del passato. Esse tutte ci fanno ormai l'impressione di enormi, spudorate falsificazioni degli avvenimenti. E il modo ne è semplicissimo: si attribuisce ad un intero secolo ciò che ha potuto fare impressione per un anno, e a un intero anno ciò che ha suscitato l'interesse di un giorno e solo di una determinata categoria di persone. Sicché l'impressione che si ricava da queste poetiche ricostruzioni, è che per due, tre anni, per un secolo talvolta, un popolo intero sia rimasto sulla punta dei piedi, col naso per aria, col cuore in sussulto ad aspettare... Come volete, che con questo po' po' d'esperienza che abbiamo acquistato in due anni, si possa ancora credere a certe corbellerie? La guerra attuale non può avere riscontro nel passato; mai la vita sociale, la compagine umana è stata cosí profondamente intaccata. E ci sono i giornali che assillano, che non parlano d'altro, che per forza vi costringono a dedicare una parte del vostro tempo alla cronaca europea. Con tutto ciò non pare davvero che l'umanità se ne stia sulla punta dei piedi e col naso per aria. Basta andare alla domenica, e meglio se è Pasqua, alla passeggiata del Valentino o di qualsiasi altro ameno sito delle cento città d'Italia. Ma bisognerebbe condurci tutti gli occhialuti studiosi e scrittori di libri di storia, e fargliela capire che nel passato le cose dovevano andare su per giú come adesso, e che ormai non riusciranno piú ad ingannare nessuno con le loro fantasticherie.

Le guerre sono sempre state grandi nemiche degli editori di atlanti geografici; ma questa guerra dovrebbe far mandare al macero non solo gli atlanti ma anche tutta la enorme catasta di manuali e manualetti di storia. E poi alla storia dovrebbe sostituirsi la cronologia, e ognuno si rimpolpi le date a secondo che gli pare meglio, attribuendo ai re, ai popoli, agli eroi ciò che meglio gli aggrada, perché cosí sarà sicuro almeno di non essere ingannato dagli altri, ma caso mai di essersi sbagliato.

(25 aprile 1916).

P.O.B.

Sono i tre tradizionali personaggi della solita commedia, P. il marito, almeno a termini di legge, O. la moglie, B. il terzo, solo vero autentico marito. La burletta del contratto matrimoniale, borghesemente filisteo, si è trasformata in piena novella boccaccesca. La biscia ha morso il ciarlatano; O., la perversa femmina, si è allegramente infischiata di ogni sanzione penale, ha preso per il naso il povero P. e se ne è servita a meraviglia per i suoi fini, siano essi quali si voglia. La cronaca non può approfondire i moventi psicologici, anche se a compilarla siano chiamati i magistrati della pretura o del tribunale, che si reputano molto navigati per il quotidiano contatto con i documenti umani. Essi possono solo giudicare, alla stregua delle prove trovate, se siano stati violati certi articoli del codice che contemplano una determinata sanzione, ma sfugge loro il complicato meccanismo delle cause ed effetti, delle intenzioni e della loro attuazione. Una femmina proterva si mette in capo di porli in imbarazzo, e questi eterni Bridoison precipitano a capofitto nel mare dei mezzi termini e degli equivoci. O. si fa sposare da P. (cosí dice la cronaca); ma la prima notte delude il suo legittimo orgasmo maritale, gli si rifiuta, e quando accorre gente, proclama che P. è stato già suo marito, ed ella ormai è donna, non piú fanciulla. Rabbia concentrata di P. che si vede cosí amenamente scorbacchiato; egli investiga, sorveglia O., riesce a scoprire che ella è in relazione epistolare con B. al quale manda biglietti in cui si leggono espressioni come queste: «Amore mio, non temere, tu sei la mia vita, il mio tutto...» Domanda la separazione e sporge anche querela d'adulterio, perché da indizi che egli ritiene probatori, gli consta che O. e B. continuano alle sue spalle a filare il perfetto amore.

Il magistrato è costretto a mettersi le mani nei capelli. La volontà di un coniuge dovrebbe bastare di per se stessa a sciogliere il nodo, tutt'altro che gordiano. Ma ci troviamo dinanzi non ad un semplice contratto nuziale, onusto di tutto il peso delle sante tradizioni, di tutto il fardello delle superstizioni semitiche adagiatesi nei comodi stampini della morale e degli interessi borghesi. La morale, quella vera ed universale, non avrebbe niente a ridire per una scissione tra le due parti, che non danneggia nessuno, che non lascia dietro di sé strascichi dolorosi di figli senza focolare domestico. Ma la legge, il diritto, pongono il loro veto. P. non ha dalla parte sua nessuna flagranza, nessun delegato che, cinto del fatidico tricolore, abbia sfondato una poco resistente porta di camera d'albergo o di garçonnière, ed abbia pronunziato le parole sacramentali. Perciò dovrà convivere con O., dovrà continuare a far la parte di marito decorativo, con la certezza che O. e B. continueranno a filare il perfetto amore, ridendosi degli ameni Bridoison della magistratura nostrale. Ma la morale borghese sarà salva, le istituzioni saranno rimaste immacolate, a meno che O. e B. non finiscano col farsi cogliere da qualche Sherlock Holmes posto alle loro calcagna, e il delegato, cinta la sciarpa, non pronunzi le parole sacramentali.

(26 aprile 1916).

DIO AFFITTACAMERE

Bazzicavo una volta una brigata di fiorentini e di pisani, gente allegra e spregiudicata, facile allo scherzo grasso ed alla bestemmia immaginosa. Quante ne ho sentite. E quale varietà! Altro che il monotono motto torinese!... Madonna... Cristo... Dio... C'era da far morire di sdegno tutta la Lega contro la bestemmia e il turpiloquio, che, tra parentesi, si è costituita l'altra sera nella nostra città, ed ha nominato un presidente e due vicepresidenti, dei quali uno per la sezione industriale. Che diavolo vogliano industrializzare la bestemmia?

Ma ritornando ai miei toschi spiriti bizzarri, ce n'era uno che aveva un intercalare tutto suo: Dio affittacamere!!! e lo ripeteva ogni momento, in ogni occasione, con una costanza invidiabile. Me lo son ricordato leggendo il Bollettino del Santuario della Madonna del Selvaggio, celebre santuario tra i monti di Giaveno, che è meta di pellegrinaggi e centro di ritrovi spirituali, anche se da qualche tempo deve, come la Madonna della Consolata, subire la concorrenza della Madonna di Lourdes, la cui devozione, non dirò industria, fu importata recentemente a Torino da congressisti francesi espulsi, e che sembrano fare ottimi affari... Nel Bollettino — raccomando ai miei lettori di dare sempre un'occhiata agli innumerevoli fogli e foglietti che i parroci, i canonici fanno circolare fra i fedeli delle varie chiese: è il miglior mezzo per perdere anche quella poca fede, che, per una combinazione qualsiasi, fosse loro rimasta — nel Bollettino, dico, c'è un padrone di casa che manda quaranta lire dichiarando di aver fatto voto, ogniqualvolta rimaneva con un appartamento vuoto, di dare l'importo del primo mese di fitto alla Madonna, e di essere cosí sempre riuscito ad affittare immediatamente, e raccomandando quindi il sistema agli altri colleghi proprietari.

Dio affittacamere... Oh! Buon vecchio Dio, come ti hanno mal ridotto i tuoi fedeli! Oh, Zeus formidabile nelle collere e tenero negli amori! Jehova, terribile ed inesorabile giustiziere, quale degenerazione! Il successore vostro è buono a tutti gli usi. Gestisce l'ufficio di collocamento per le serve, affitta le camere, magari ad ore, protegge contro le punture delle zanzare...

Ed è a questa religione, imbastardita ed incretinita, a questa fede, incapace di sollevare l'animo al disopra d'ogni bassura, a questi riti diventati abitudini passive, superstizioni grottesche che si vorrebbe ancora che l'umanità affidasse il suo avvenire.

Per quanta barbarie ancora ingombri l'animo degli uomini, anche mentre pare debba dileguarsi ogni speranza nella ragione umana, noi sentiamo che siamo ormai liberi dei ceppi del cristianesimo.

Morirono Api, e Zeus, e Jehova; è morto Cristo e non risuscita piú!

(29 aprile 1916).

I RE IMMORTALI

Scorro distrattamente con gli occhi il nuovo mazzo di carte. Eleganti, lussuose, spiritose anche in qualche pupazzetto che esce dal convenzionale della passione politica del momento. Un foglietto che le avvolge avverte che esse sono l'ultimo ritrovato del patriottismo, un episodio della buona battaglia, e afferma: è la prima volta che un tentativo del genere, ecc. Santa illusione di chi non vede oltre la propria scalmana e crede d'aver trovato in un mazzo di carte la leva per rivoluzionare l'umanità! Ma non esageriamo, via! Ciò che fu torna e tornerà nei secoli, e la nostra debolezza crede che sia nuovo, originale, uscito allora allora dalla matrice infuocata della fantasia creatrice. Eppure le cronache dicono...!

Anche a proposito del mazzo di carte le cronache dicono che in ben altri momenti di sconvolgimento, di odio belluino per tutto ciò che era passato, nemico antagonista formidabile, la fantasia creatrice volle lasciare le stigmate dei suoi sentimenti nelle figure delle untuose carte da gioco. E i re, le regine, i fanti, furono sostituiti dalle simboliche figure della Libertà, dell'Eguaglianza, della Fratellanza, e gli assi furono avvolti dei fasci repubblicani e si chiamavano leggi; e si aveva la libertà di fiori, o di trifoglio, l'eguaglianza di picche, la fraternità di quadri, la legge di cuori, ecc.

Ma se leggete Anatole France, e il suo tentativo di ricostruzione tipica della Rivoluzione francese nel Les dieux ont soif, troverete anche l'assennata risposta che l'incisore Jean Blaise dà al cittadino per eccellenza, a Gamelin. Mio caro, dice pressapoco l'uomo d'affari, il vostro tentativo è nobile, è una grande prova di civismo, e la Convenzione nazionale dovrebbe darvi una particolare attestazione di merito. Ma provate ad offrire le vostre carte ai piú scamiciati sanculotti che in berretto frigio e carmagnola passano le serate a giocare nelle bettole del Palais Royal, e poi v'accorgerete se, come è stato possibile detronizzare i re e le regine di carne ed ossa ed abolire i privilegi dei cavalieri, sia altrettanto facile togliere dalla circolazione gli innumerevoli regnanti che passano fra le mani dei patriotti piú convinti. Del resto — aggiunge — questi fanno giustizia da sé, e furibondi picchiano sul tavolo quando compaiono i tiranni e persino i gros cochons.

E cosí la Grande Rivoluzione è passata, rapinando nella sua furia tante cose che sembravano durature, e le vecchie carte sono rimaste, con le loro linee semplici, grottesche, incoscientemente caricaturali, e sono talmente entrate nelle abitudini mentali cosí come sono, che ormai hanno acquistata l'immortalità.

Hanno un loro linguaggio le vecchie carte, che richiamano le miniature medioevali con le effigi dei re longobardi, e nulla oppone tanti ostacoli alle innovazioni quanto il linguaggio. Tanto è vero che gli esperantisti sono ancora, dopo tanti anni, allo stato di bozzolo senza farfalla, e da Leibniz al dott. Xamenoff non è da dire che siano loro mancati i paladini.

(30 aprile 1916).

FUORI DAI CARDINI

I cosí detti «drammi d'amore» si susseguono in modo impressionante. Cosí annota la cronaca, raccontando con la solita esuberanza di particolari come qualmente il cittadino Ermenegildo Grosa, soldato del 7° Bersaglieri, abbia soffocato con un cuscino la sua amante Caterina Astegiano in una solitaria camera dell'albergo del Merlo Bianco, e come qualmente in seguito si sia svenato recidendosi la carotide. E il cronista, per dovere professionale, fa le sue ipotesi, avanza i suoi dubbi, istrada i lettori ai misteri delle camere d'albergo dove si dànno convegno gli amanti appassionati.

Ma il cronista non convince. E, d'altronde, non è questo un suo compito. Perché questi fattacci si ripetano con periodica assiduità bisogna convenire che qualche elemento nuovo è sopraggiunto a sconvolgere il ritmo che finisce per crearsi anche nelle attività piú bestiali dell'uomo, anche nell'assassinio. Tutti sentiamo questo elemento nuovo, ma non sappiamo rendercene perfettamente ragione, tanto esso è oscuro, impalpabile. Si ha l'impressione che il mondo sia uscito dai cardini e sia sospeso a mezz'aria, in una posizione provvisoria, che non può durare, ma che turba le coscienze e le mantiene in uno stato di irrequietezza e di orgasmo. Tutto è d'eccezione: le responsabilità individuali sono assorbite da una responsabilità superiore, immanente in tutti e concretizzantesi in nessuno, che assolve e condanna con leggi non consuetudinarie, ma transitorie, escogitate per il momento assurdo che viviamo. L'individuo è scomparso, è assorbito nella macchina «nazionale» e non sente piú i freni inibitori della coscienza. La vita umana è rinvilita nel mercato europeo: cosa conta una vile donnacola il cui collo sottile si offre allo strangolatore esaltato, quando milioni di vite sono sospese a un filo, e un mietitore invisibile ne falcia ogni giorno a manate piene, a enormi cumuli di sanguinosi covoni? La collettività si è realizzata violentemente in ente assoluto, quando ancora le coscienze individuali non avevano raggiunto quel quadro di maturità necessario per comprendere che la base granitica del dovere è in noi stessi e non nella spada di Damocle della giustizia punitiva. Molti, galantuomini ieri per mancata occasione a delinquere, per debolezza, per paura, hanno sentito il capogiro per l'odore di sangue che si respira nell'aria, per l'atmosfera di strage che ci circonda e colpiscono per ragioni che ieri li avrebbero solo spinti al sorriso o al pianto.

Non è la prima volta che ciò si verifica nella storia. In qualche paese di montagna ricordano ancora con terrore le scene che succedevano cinquanta, settant'anni fa, quando i coscritti venivano arruolati per un servizio che durava anche dieci o dodici anni. Era come un saturnale dei bassi istinti dell'uomo: nelle case dei parenti le madri intonavano il canto delle prefiche per quelli che non speravano piú rivedere, e gli altri si asserragliavano per non vedere le loro donne violate, il loro bestiame ucciso, i loro campi devastati dalle bande di reclute che facevano le prime prove della forza che crea il diritto.

Oggi — Giove sia lodato! — ciò non succede piú, perché, si voglia o non si voglia, qualche progresso s'è pur fatto. Si susseguono i cosí detti «drammi d'amore» per dar lavoro ai cronisti. Ma in fondo in fondo, non ci si può lamentare troppo.

(4 maggio 1916).

LEGGI ECONOMICHE

È stata una buona lezione d'umiltà. Perché lamentarsi sempre e con tutti del rincaro dei viveri, della impossibilità di andare innanzi di questo passo, ecc., ecc.? Il cameriere che mi serve i fieri pasti in trattoria m'ha dimostrato in quattro e quattr'otto che io ho torto marcio, e che contro le leggi economiche è vano dar di cozzo. Veramente non si tratta di una persona comune, di un qualsiasi lavoratore della mensa.

Legge e riflette sulle verità che i quotidiani ammanniscono prodigiosamente nelle loro pagine economiche: ha viaggiato, ha imparato da sé il francese e il tedesco, e, cosa strana, non si vergogna di conoscere quest'ultimo come tanti professori d'università e tanti deputati al parlamento che l'hanno di colpo dimenticato (qualcuno dubita l'abbiano mai appreso), e non veglia le insonni notti sulle grammatiche inglesi per mettersi all'altezza dei tempi.

Dunque il mio cameriere sostiene il fatale andare delle leggi economiche. Diminuiscono i fabbisogni, egli dice usurpando i termini agli Einaudi, ai Borgatta, ai Valenti, ai Dalla Volta, e naturalmente aumentano i prezzi. Però, soggiunge puntando il dito sulla fronte alta e intelligente, non bisogna credere che queste leggi siano proprio fatali. La loro fatalità è in funzione della società attuale, che ha una certa graduazione di ricchezza. E queste leggi economiche paiono create apposta per tutelare i sacrosanti diritti dei ricchi. Esse infatti rappresentano una forma di risparmio, un mezzo per impedire la dispersione di certi prodotti e serbarli cosí per il consumo di chi può spendere molto senza perciò sacrificarsi. Prenda l'esempio dei commestibili, della carne: prima della guerra il consumo ne era abbastanza diffuso anche negli strati piú umili. Guai se il prezzo si fosse mantenuto inalterato; dopo un certo tempo non solo gli umili avrebbero dovuto farne a meno ma, ciò che sarebbe stato gravissimo, anche i superi. Allora entra in azione il benefico controllo della legge economica, e ciò che sarebbe stato consumato da cento in un giorno, basterà per uno cento giorni. Cosí per tutti i generi. La trattoria è un gradino d'una scala. Vediamo a mano a mano passare scendendo tutte le categorie sociali; ieri si sono fermati quelli che potevano spendere 1, oggi sono qui quelli che possono spendere 2, domani saranno quelli che 3, e cosí via. I trascorsi si fermavano nei gradini sottostanti, e scenderanno sempre piú giú nel regno dei succedanei e dei surrogati. Tutto ciò è fatale, ma, per farle piacere, aggiungerò che è fatalmente borghese. Se i gioielli costassero come i pezzi di vetro, a che pro essere ricchi? La contadina potrebbe ornarsi come una duchessa. Ma vede che anche ieri le leggi economiche provvedevano all'uopo, e tenevano ferme le debite distanze. Oggi, nel momento eccezionale, esse sono piú gravose, piú schiaccianti, ma non meno logiche perciò.

Lezione di umiltà, evidentemente. Ma è evidente anche che questa benedetta fatalità è uno spauracchio che convince solo molto relativamente. Perché tutte le leggi, anche quelle che paiono piú metafisiche, piú impalpabili, sono in realtà l'esponente di uno stato di fatto, le cui responsabilità si possono sempre impersonare o meglio, se si potesse dire, inclassare.

(5 maggio 1916).

LETTERA AD UN PEDAGOGO

L'avv. Arturo Brusasco è una carissima persona. A chi lo guarda nella corporatura atletica e nella cravatta svolazzante e nel cappello a larghe falde, può subitamente ispirare un salutare timore come uomo che sembra avere molta energia ed ottimi muscoli, ma la cascaggine naturale della persona ed una certa vaga mollezza del gestire e del parlare fanno presto avveduti che la prima impressione non è la buona. Chi poi legge la sua «Gazzetta dei tribunali», si avvede che il direttore dev'essere molto buono. C'è sempre un tono dolce di papà, che ammonisce gli avvocati torinesi, senza riuscire mai, anche quando vuol fare la voce grossa, a persuadere che le sue sgridate debbano essere prese sul serio: c'è diffusa una larga, tollerante bonomia di uomo scettico ed abituato a vederne ed a sentirne di tutti i colori e d'ogni sapore, che addolcisce lo scandalo piú grave e sparge un po' d'ironia benevola sulle disavventure dei coniugi, e stempera in latte e miele il drammaccio d'amore e di morte. Perciò forse non può soffrire le stroncature che ogni tanto infliggiamo qui, Sotto la Mole, ai figuri della stampa e della politica torinese. E non lascia passare occasione per ammonirci, per dimostrarci direttamente e di straforo il suo disgusto per le nostre invettive e le nostre ingiurie, che turbano la piccola beota arcadia dei bôgianen.

Guarnieri (un saluto al parente) si accorge che i conciliatori torinesi rendono degli eccellenti servizi ai padroni di casa, livragando i diritti dei poveri inquilini chiamati sotto le armi e lascianti nelle case mogli e figliuoli affamati, e, naturalmente, maltratta come si conviene questi ff... di magistrati. Brusasco arriccia il naso e lo rimprovera di mancanza di rispetto alla magistratura e alla res judicata. È vero che in conclusione i conciliatori mutano di colpo l'interpretazione della legge, e la giurisprudenza muta anch'essa, nel mentre la loro querela li copre di ridicolo e fa la fine miserevole a tutti nota... mentre con ogni probabilità essi avrebbero continuato a fare i comodi dei proprietari. Un mio intimo amico scaraventa una serqua d'insolenze meritatissime contro un reporter che falsifica i resoconti giudiziari per sfogare la sua bile antisocialista contro qualche oscuro operaio, che è incappato nelle reti della giustizia, e Brusasco ritorna a biasimarci ed a deplorare i nostri metodi polemici. Ma è anche vero che quel signore ha cambiato sistema... Oggi c'è Ciriola-Tupin che manda allo sbaraglio il gerente della «Patria», che fa rimangiare in un processo tutte le accuse strombazzate contro la spia tedesca, ed in un altro lo fa condannare a dieci mesi ecc, per diffamazione contro un noto professionista cittadino. Noi, approfittando dell'occasione, abbiamo detto qualcosa al nobilastro spiantato, ma Brusasco ci tira le orecchie. Non ce ne abbiamo a male: a questo mondo ci vogliono anche i pacifici. Se avessimo tutti sempre voglia di lagnarci guai... La «Gazzetta dei tribunali» può servire ogni tanto da calmante... è una funzione utile anche questa.

Ma all'avv. Brusasco giornalista, e socio dell'Associazione della stampa, desideriamo sottoporre alcuni quesiti molto precisi ai quali vorremmo avere risposte altrettanto precise.

Quale giudizio egli può dare: 1) di un giornalista che eccita la censura ond'essere piú severa contro giornali avversari, che, in altre parole, falsificando persino una circostanza di fatto, fa la spia; 2) di un giornalista che dopo aver diffamato un cittadino qualsiasi, si rifiuta di pubblicarne la rettifica, non tenta al processo neppure lontanamente la prova dei fatti, e che, condannato, non pubblica sul suo giornale una sola riga per riconoscere il suo errore; 3) di un giornalista che, nel caso esposto sopra, permette che il gerente per scusarsi affermi di «aver pubblicato una lettera diffamatoria trovata per caso sul tavolo di redazione»? Se Brusasco è capace di difendere anche questa roba, io proclamo che la sua abilita e la sua bontà sono infinite e non gli prometto di scrivere meno ingiurie.

(6 maggio 1916).

OMAGGIO A TOSCANINI

Ella, egregio Maestro, compilando i due programmi dei concerti che verrà a dirigere nella nostra città, non aveva certamente preveduto di poter suscitare un vespaio e di poter far risuonare l'aula del teatro di fischi come alla rappresentazione di un Cinema—Star viennese qualsiasi. Includendo una sinfonia di Wagner forse aveva ancora dinanzi agli occhi il pubblico d'altri tempi del Regio, pieno d'entusiasmo per i « capolavori musicali » che hanno « proprio l'impronta del genio barbarico dominatore!»? Illusioni, illusioni, fate morgane du beau temps de jadis, snobismo sfiancato. Se ora si inibisce a Wagner con goffa e presuntuosa albagia ogni serena contemplazione, gli è evidentemente perché nel passato lo si ascoltava ed applaudiva non come disinteressato creatore di bellezze, ma come «genio barbarico dominatore», la cui patria era alleata della nostra, il cui imperatore dava da musicare i suoi bolsi libretti al piú bolso dei compositori italiani. Servilismo estetico dei mercatini di Porta Palazzo, che la guerra ha dimostrato essere il livello di vita dell'anima italiana. Perché non siamo alle prime manifestazioni del genere, se nel gennaio 1872 Giosuè Carducci poteva scrivere parole come queste:

...la borghesia ben pensante che ammira sempre la forza e il successo, vestiva i suoi bimbi alla foggia degli ulani come pochi anni avanti li aveva vestiti alla foggia degli zuavi; e i diplomatici e i politici officiosi e governativi, scotendosi dalle ginocchia la polvere delle prosternazioni all'imperatore francese, con la voce un po' arrochita dal gridar alcuni giorni prima à Berlin urlava ora a squarciagola nach Paris; né mancavano democratici ai quali piaceva, e lo dicevano su le bare dei morti, che i prussiani facessero essi le loro vendette; e in altri i tristi odî nazionali instillati dagli storici e dagli scrittori dei tempi di servitú e di sventura, sublimemente appassionati, fermentavano piú che mai freddi e atroci, fin a divenire teoriche di politica. E la maggior parte si comportavano con la Francia atterrata, come lo schiavo recente di servitú, il quale esulta su la sventura del padrone che teme.

Ella non aveva pensato che «a Torino l'aver scelto fra la tanta musica sinfonica un pezzo di Wagner, può indurre gli ignari a deduzioni non troppo benevole verso la nostra città». E che questa micidialissima scelta poteva nientemeno che cancellare i benefici effetti della venuta fra noi dell'on. Salandra, «effettuatasi splendidamente mercé l'oculata azione prefettizia e di tutte le autorità (udite, udite) e che serví a dimostrare come la nostra città non fosse seconda a nessun'altra per patriottismo». Ella nel compilare il programma dei due concerti non s'era evidentemente accorta di tutto questo chimismo demagogico; voleva solo riprodurre opere di bellezza, e non si accorse che Parsifal aveva per l'occasione messo su l'elmo a chiodo.

Adesso vedremo come andrà a finire: il giornale dei mercatini di Porta Palazzo farà ingoiare agli imbecilli i suoi cavoli stantii? Nessuna meraviglia: i servi di ieri non possono soffrire i loro ex padroni di cui domani lustreranno di nuovo le scarpe.

Ma sappia, egregio Maestro, che Torino non è tutta compresa nella rumorosa fiera di Porta Palazzo.

(7 maggio 1916).

LA NOSTRA DECADENZA

La relazione del comitato centrale della Confederazione generale del lavoro, per la imminente riunione di Firenze, ha attirato l'attenzione del «Momento» e della «Patria» o, per meglio dire, del giornalista che ha modo di scribacchiare contemporaneamente sui due periodici. Perché l'articoletto è uguale, quasi identico sul quotidiano e sul settimanale, che sono apparsi ambedue sabato scorso, ed è per lo meno curioso notare come in questo periodo vi siano ancora cosí strette relazioni fra la stampa cattolica e quella nazionalista. È ben vero che si tratta di dare addosso ai socialisti, e che la compiacenza della diminuzione delle nostre forze può bene unire i due avversari. Ma ciò nonostante se lo sa l'«Unità cattolica» di questi amoreggiamenti, che rabbuffo! Hanno dunque constatato la decadenza del movimento socialista, la diminuzione dei soci nelle nostre organizzazioni economiche nel 1915; il «Momento», pantofolesco e gesuita, non osa trarre apertamente la conclusione del nostro fallimento; la «Patria», piú audacemente bugiarda, esulta e dichiara che l'organizzazione socialista è ad acqua bassa.

Discutere sul serio delle cause e dell'importanza di questa situazione è vano. Non v'è imbecille che non capisca come dopo un anno di guerra, con parecchi milioni di uomini sotto le armi, con la soppressione piú o meno larvata di ogni propaganda, con l'internamento di qualche organizzatore, sia quasi un miracolo avere ancora intatti i quadri, saldi i nuclei dei nostri organismi economici e politici. E poi, farebbe il «Momento» il piacere di comunicarci il numero dei soci della Lega del lavoro? e la «Patria» quello degli operai del Gruppo nazionalista, e della Umberto I? Chi sa se i cinque tipografi cattolici sono già diventati sei? Chi sa se la «Costituzionale» ha finalmente trovato un operaio al quale offrire la candidatura al consiglio comunale, per non dover ancora ricorrere ad un proprietario, che rimane operaio solo nei manifesti elettorali?

In fondo però la cosa piú allegra è questa: che i socialisti torinesi sono un pugno di imbecilli, dominati da un pazzo furioso, in dissidio aspro fra di loro, impotenti ed incapaci, ma non c'è modo di non occuparsi di loro, tanto che tutte le beghe interne, tutti i pettegolezzi piú sciocchi e piú gonfiati, hanno l'onore di essere ospitati e commentati nelle colonne dei giornali cittadini!

Io, che non credo di essere fra i meno attivi e fra i meno informati della sezione torinese, apprendo sempre una quantità di notizie dall'organetto di Ciriola-Tupin. Apprendo la disavventura della povera commessa, che quei mascalzoni degli amministratori dell'Alleanza pretendono rubi sul peso ai clienti a loro beneficio, apprendo che la mattina del Primo maggio il palazzo dell'Associazione generale degli operai era chiuso, ma che viceversa in una stanzetta erano i caporioni del partito, e poi la scissione insanabile, le dimissioni di molti soci, ecc. ecc.

Quello che non posso sapere dal foglio nazionalista sono le notizie del suo partito; ad esempio le cause dell'espulsione di Tupin dal gruppo nazionalista, e le vicende del processo di diffamazione del dott. Borini. E chi sa quando leggerò che Cian, Bagnasco e Ciriola hanno cessato di essere interventisti per diventare intervenuti?

(9 maggio 1916).

MAGGIO SEI TU...

L'ora del tempo e la dolce stagione in cui cade, per volere di Giove del fato o di qualche altra divinità meno incorporea, l'entrata in guerra dell'Italia, ha offerto spunti vari ai divi del nostro Parnaso. Giovanni Papini ha notato che il 24 maggio 1915 era un sabato, ed ha intitolato una sua raccolta di articoli d'occasione La paga del sabato con equivoca significazione. Gil Blas ha preferito essere meno minuziosamente pedante ed ha intitolato il suo zibaldone rivistaio Maggio sei tu...

La maggiolata, a dir il vero, è piú italianamente indigena, cosa per cui ci ha piú dilettosamente solleticati la rivista patriottarda, a base di doppi sensi porcaccioni e di sottilissima (come le astuzie di Bertoldo) satira politica, che la prosa agrodolce dello stizzoso onagro fiorentino. La messa in ridicolo, per esempio, dell'illustrissimo re di Grecia, è quanto di piú sottile e politicamente raffinato possa mai immaginarsi. Ma la madre Ellade bisogna che non sia troppo schizzinosa, e non faccia il broncio per cosí poco. Piuttosto mi meraviglio che non sia ancora saltato fuori nessun babau del fronte interno a protestare contro l'ignobile scempio a cui soggiace la nostra Italia.

Ricordate la formidabile polemica scatenatasi a proposito di un auto-corrispondente dell'«Idea nazionale», che attribuiva a una delle tante Zeitungen la boutade dei briganti calabresi e dei mandolinisti napoletani, e gli agili ricami che vi tesserono e che tutt'oggi tessono intorno tutti gli umoristi a corto di spirito? Ebbene, Gil Blas dev'essere un tedescofilo, un neutralista camuffato con la pelle del leone, e la sua maggiolata non può essere altro che uno svergognato tranello per far scivolare il delicato piedino dei mangiatori di panico. Ci fa meraviglia che proprio noi si debba essere i primi a trarlo alla gogna e che la sensibilità da educanda dei nostri franchi tiratori, i quali s'impennano per una innocentissima sinfonia di Wagner che non paga neppure i diritti d'autore, non abbia strillato, come deve fare ogni brava oca che custodisca il Campidoglio. Immaginate, infatti, che l'Italia nell'ultimo quadro viene raffigurata sotto la fattispecie di una folla di allegri chiassoni che ballano a suon di nacchere, di tamburelli e di odiosi mandolini!

Ma noi siamo piú longanimi di tutti gli sparafucili presi insieme. Ci fa schifo tanto la grottesca allusione italo-tedesca della reciproca fine ugoliniana, quando la sguaiata rappresentazione dell'Italia Karneval-Nation, coi cittadini che sulle pubbliche piazze si abbandonano alla piú sfrenata allegria, e trovano panglossiamente che questo è il migliore dei tempi possibili. Ma non abbiamo la malinconia di pretendere da una rivista la serietà di un quaresimale. Maggio, non sei tu il mese degli asini e delle chitarre sentimentali al chiaro di luna?

(10 maggio 1916).

TABÙ

Non toccare i padroni di casa! Dovremmo scrivere in caratteri cubitali quest'avviso in tutte le pareti dei nostri locali, in capo al letto e nei fazzoletti da naso, e persino nelle unghie, per averlo sempre presente, sempre minaccioso innanzi agli occhi. Riceviamo fasci di lettere di inquilini che si lamentano, che denunciano soprusi, che citano fatti specifici. Mettiamo da parte (archiviamo anche noi) per il domani. Ma se per nostra disgrazia, quando siamo sicuri per garanzie ineccepibili, diamo luogo ad una protesta, si aprono le cateratte del cielo, e dovremmo trasformare la nostra pagina in un manuale di epistolografia.

Esiste un decreto luogotenenziale che fissa certe norme per i fitti degli alloggi dei richiamati. Se ne aspetta un altro, e dovrà pur venire, come è venuto in Francia, che liquidi tutte le pendenze e ponga l'ordine nell'attuale squilibrio. I padroni di casa fiutano già che questo secondo decreto taglierà, almeno in parte, i loro profitti, e cercano di premunirsi. Intanto è incominciata la via crucis degli esonerati, che potendo essere richiamati da un momento all'altro, non trovano piú chi voglia dare albergo alle loro famiglie. Ma non è tutto. Bisogna frequentare per qualche ora le sale di una qualsiasi conciliatura per sentirne delle belle.

Un padrone di casa accetta senza parlare i mezzi fitti; ma siccome molti inquilini non si curano di domandare la ricevuta per pagamenti di piccole somme, nel suo registro segna come pagato un mese ogni due, e poi cita per totale morosità negli ultimi mesi. Il galantuomo non ruba, evidentemente, perché non si appropria di un centesimo, e fa condannare il convenuto che ingenuamente s'è fidato della mala bestia. Un altro, vecchio mandrillo, cerca trovare dei compensi al suo attendere, nelle grazie di una giovane moglie di un combattente; ne ottiene una sdegnosa ripulsa, e non potendo far sgombrare per morosità, giustifica la sua decisione con i... cattivi costumi della convenuta. Un altro, persuasissimo che i crediti realizzati durante la guerra non saranno mai pagati dagli inquilini, e che lo Stato, quando provvederà direttamente come in Francia, farà molta tara, convince le sue vittime ad accontentarsi di un piccolo sconto ed a pagare l'intero importo del fitto. E naturalmente le buone massaie, che si spaventano al pensiero dei debiti che si vanno accumulando, accettano.

Cosí i proprietari di case fanno i loro comodi sacrificandosi per alleviare il malessere diffuso specialmente negli strati piú umili della popolazione. Ma guai se uno si lamenta e protesta; viene posto immediatamente fuori della porta e, se è militarizzato, è sicuro di non trovare nessun altro patriota che voglia accoglierlo nei suoi edifizi. Il proprietario di casa è diventato tabú, divinità collerica e illogica che quando la si nomina, si vendica ciecamente colpendo all'impazzata. Ma qualche volta non trascura di dettare al suo segretario una letterina per il giornale, tanto per cercare di rendere note le sue benemerenze e i suoi dolorosi sacrifizi; non è vero, caporale Luigi Grassi?

(12 maggio 1916).

IMPALUDAMENTO

È stata sempre una gloria dei comuni dell'Alta Italia l'aver saputo mantenere, anche attraverso il processo di accentramento statale degli ultimi cinquant'anni, una relativa autonomia. Essa era negli uomini, se non nelle cose e nelle leggi; negli amministratori, che hanno quasi sempre avuto la coscienza del loro dovere civico, della responsabilità che assumevano accettando le cariche cittadine.

È cosí che, a malgrado delle condizioni sempre precarie della economia generale nazionale, nel settentrione si è raggiunto un livello di vita che è pari a quello degli Stati piú progrediti, e la terra si è venuta organizzando e la pianura padana è diventata un'immensa fucina di produzione intensa. Lo Stato liberale ha come massima di non intervenire mai direttamente negli interessi strettamente locali. Lascia all'iniziativa dei singoli l'eccitare volta per volta a fare ciò che è necessario, a intervenire con i suoi mezzi piú potenti, piú vasti, per colmare le lacune, per fare ciò che i privati e i comuni da soli non potrebbero. Nel Medioevo la pianura padana era un immenso acquitrino ma, per usare una frase del De Sanctis, la palude era piú nei cervelli che nel territorio. Bonificati quelli, anche questo fu bonificato, e le acque che prima apportavano la malaria e la pellagra furono disciplinate e divennero sorgente di ricchezza e di benessere.

A Torino l'amministrazione Rossi sta compiendo l'opera inversa. Sta di nuovo impaludando i cervelli. Pare di essere cittadini non di una città moderna con quasi mezzo milione di abitanti, ma di un comunello delle Calabrie o della Basilicata. Non siamo arrivati a sentire il fatidico grido: Piove, governo ladro!, ma poco c'è mancato. Il sindaco ha avuto la faccia fresca di annunziare cosí, semplicemente, che era possibile e bisognava deprecare che la nostra città rimanesse di colpo senza grano e senza pane, e a breve scadenza, fra due o tre giorni. Nessuno gli ha domandato conto del suo operato, del modo col quale si era servito del suo mandato di tutore delle necessità piú urgenti degli amministrati.

Nessuno ha domandato conto a questo volgare reliquiario delle peggiori qualità dell'italiano tradizionale a che cosa erano dunque servite le sue frequenti gite a Roma, i suoi colloqui di servitore blasonato con tutti i suoi alti protettori, se cosí d'un tratto la città doveva rimanere priva del suo principale mezzo di sostentamento, mentre altrove (e lo disse egli stesso) ciò non era avvenuto o si era ben lontani dall'aver preoccupazioni di tal genere.

Il governo ha avuto responsabilità iniziali gravissime, e dovrà a suo tempo risponderne. Ma ormai siamo entrati in un periodo di assestamento, e degli squilibri parziali sono responsabili solo gli amministratori locali. La cecità con la quale il governo ha operato lasciando che l'Italia fosse sacrificata di fronte agli altri paesi per i bisogni annonari, ha avuto ed ha tuttora riscontro nella cecità della giunta Rossi, che ha lasciato sacrificare Torino di fronte alle altre città italiane. Non crediamo troppo alle vittime, in questi casi. Troppi altri casi abbiamo visti! Sono già trascorsi cinque mesi, e l'azione giudiziaria contro le società del gas non è stata ancora iniziata; anzi queste società muovono ora lite al comune per essere pagate integralmente.

Il Palazzo di Città è diventato una palude miasmatica che è necessario bonificare. Il cervello di Teofilo Rossi, ottenebrato dalle emanazioni alcooliche dei suoi stabilimenti, minaccia di guastare il cervello di tutta la cittadinanza. Siamo in istato di guerra, e il tardare significa essere affamati. Ma gli storici codini inorridiscono nel narrare che durante la Rivoluzione francese gli amministratori inetti venivano ghigliottinati.

(14 maggio 1916).

SI DOMANDANO LUMI

Non sappiamo cosa sia accaduto, ma certamente qualche cosa è accaduto. Perché il nero non può diventar bianco e viceversa solo per opera dello spirito santo. Il fatto è che il grido di dàgli all'untore! è stato emesso, è stato raccolto, ha avuto degli echi e pare continuerà ad averne. L'untore è il prefetto Verdinois. Egli era arrivato a Torino col capo circonfuso dell'aureola dell'arcangelo vendicatore. Novello Ercole, avrebbe dovuto pulire le giolittiane stalle (stalle lo sono certamente) di Augia, purificare, moralizzare. La «Gazzetta» era arcisoddisfatta; il «Momento» e la «Stampa» sembrava a tutti masticassero amaro. Un'èra nuova si preparava: èra di giustizia, di equità distributiva, di arresti di sovversivi, di amichevoli strette di mano fra questurini e rivoluzionari interventisti.

Or che succede, perché si rompa l'idillio? Quali fatti sono successi che a noi sfuggono, ma che possono avere avuto tanta importanza da determinare una cosí repentina levata di scudi? Un consigliere comunale che è diventato la lancia spezzata dell'amministrazione Rossi, che scrive nell'edizione serale di un giornale cittadino (heu pudor!, e perché non nell'altra?) dei soffietti pieni di rugiadosa untuosità, potrebbe darci dei lumi in proposito. Potrebbe spiegarci come mai il prefetto da salandrino sia diventato di colpo d'un giolittismo piú nero del carbone, come mai sia possibile fare delle sottili distinzioni fra prefetto, governo e giunta municipale e scaraventare tutta addosso al primo la responsabilità della mancanza di grano a Torino, mentre gli altri due sarebbero candidi di colpe come agnellini.

Verdinois salandrino o giolittiano per noi fa lo stesso. Il cambiamento di etichetta non può far cambiare il contenuto del barattolo, che rimane allo stesso modo repulsivo. È verissimo che Verdinois se ne frega di tutto e di tutti. Desidera soprattutto rimanere tranquillo. Probabilmente non sa come cavarsela fra le necessità salandrine del momento e le eventualità del futuro, che potrebbe, chi sa, anche essere giolittiano. Il che non gli impedisce di fare discretamente il suo mestiere di poliziotto, se non sa fare quello di amministratore.

Ma questa commediola che vediamo recitare ci interessa, stuzzica la nostra curiosità; l'abbraccio mandato da Verona a chi primo mosse la pedina, ci ha commossi fino ai precordi. Ed è a costui, a questo consigliere comunale in partibus infidelium che domandiamo per favore sul suo quotidiano, non un articolone ma una letterina, una semplice e modesta, garbata letterina, come egli sa scriverne tante, dove ci siano i sospirati lumi, che ci rischiarino e salvino l'anima nostra dal peccato mortale.

(15 maggio 1916).

PER UN MANDARINO DELL'UNIVERSITÀ

Cari amici,

lasciate che oggi sia io a riempire questo angolo della vostra pagina. Da qualche mattina mi alzo da letto con una maledettissima, carducciana voglia di fare a pugni con qualcuno. È forse la primavera che sveglia anche nel mio sangue coagulato di pedagogo dei fermenti impuri, degli stimoli irresistibili di azione diretta.

Voglio prendere per il petto l'illustrissimo prof. Cian. Voglio sballottarmelo ben bene, questo noioso cultore del pettegolezzo letterario, questo epistolografo da bocca del leone, questo sterile ciucciariello che non essendo riuscito a eiaculare dal suo cervellaccio di struzzo altro che noiosissimi quintaliferi volumi su Dieci anni di vita di P. Bembo (800 pagine), su l'influsso del teatro spagnolo in Italia (900 pagine), sul veltro dantesco (750 pagine) ecc., cerca di procurarsi nomea e benemerenze denunziando alle autorità scolastiche tutti quei professori che hanno il torto di voler fare solo il loro dovere di insegnanti e che non vogliono intrufolarsi nella politica militante per cogliere il sospirato alloro del patriottismo.

Altri due professori ora cerca d'infamare il mandarino dalla chilometrica coda, due colleghi del ginnasio-liceo Cavour. Uno, colpevole di aver redarguito gli scolari che menavano gazzarra in classe; ma la gazzarra era intonata sull'inno di Mameli, quindi delitto di lesa nazione e accusa di cercare di intepidire l'entusiasmo. L'altro già collega in nazionalismo, poi germanofilo e neutralista, ed ora colpevole di interiezioni ed affermazioni eterodosse: un seminatore di panico insomma. Cian vigila, giudica e manda come Minosse della Divina Commedia, che egli diffama dinanzi alla scolaresca con le ridicole salivazioni della sua grossa erudizione da tedescaccio legnoso e col suo gusto da stenterello friulano. Guardatelo quest'uomo che prima della morte di Arturo Graf si precipitava a Torino ad ogni incrudimento dell'infermità dell'illustre maestro, sentendo puzza di cadavere e volendo assicurarsi che l'ipoteca da lui posta alla successione non corresse pericolo. Vedetelo sgambettare su e giú dal Fiorina a via Po, a via Giovanni Berchet, a via Mazzini come un bracco in traccia di selvaggina per la sua carica di presidente del comitato per lo spionaggio interno. Non porta nel suo nome friulano il marchio di fabbrica, questo nato non per l'incrocio di un vecchio iddio della patria mescolatosi in amore con una fata del settentrione, ma da un mancato aborto procurato di una donna violata da uno sbirro del vecchio imperatore d'Austria?

I suoi scolari lo sopportano, e ridono della sua fatuità di commentatore del Cortegiano di B. Castiglione, i suoi colleghi quando parlano di lui, accompagnano il suo nome col grazioso nomignolo di asino. Ma il vecchio troupier della bagola tira dritto nell'alta missione che si è proposta di aduggiatore di cervelli e di denunziatore di onesti insegnanti laboriosi, che o sono seguaci di un'idea, come il Sanna denunziato nel 1912 per il suo antilibicismo, o il Ciaffi e il Lemmi denunziati ora per qualche sfogo incongruente e perfettamente innocuo. Gian Pietro Lucini ha scritto una volta che il nome di Cian gli si accompagnava nella fantasia costantemente con l'immagine di una cimice; a me ritornano ora in mente quelle quattro righe e il ribrezzo per l'animaletto immondo riesce a calmare il sussulto del mio sistema nervoso. Ciò che volevo ottenere con questo sfogo.

Saluti dal vostro

Pedante esasperato

(17 maggio 1916).

L'AIO SENZA IMBARAZZI

Filippo Crispolti ha della storia una concezione retorica molto pittoresca. Immagina le nazioni in guerra come i clienti della corsia di un ospedale sperduto in una foresta del Congo, i quali, poveretti, ignorano l'esistenza di un medico miracoloso, taumaturgico, che potrebbe ridare loro la salute. Il medico non può andar fino a loro perché vale per le visite mediche una regola che dice: medicus non accedat, nisi vocatus; gli ammalati ignorano la sua abilità, e non lo chiamano. Devono dunque morire per mancanza di respiro? Mai ciò fia! Un marchese di buoncuore si fa cozzone intermediario tra i due, e cosí acquista gloria in terra e beatitudine in cielo.

Con questo apologo da aio senza imbarazzi che a tutto trova risposta per soddisfare le nascenti curiosità dei suoi scolaretti, il Crispolti crede aver dimostrato la ridicolaggine del dilemma da noi postogli: o è vera la grande autorità morale del papa — e allora essa si imporrà da sé agli uomini di governo; o non è vera — allora non c'è ragione perché il papa venga invitato da essi al congresso della pace.

Il fatto stesso che il pio marchese abbia ridotto gli enormi fatti storici che si stanno svolgendo alla risibile parodia su riportata, dimostra come egli non abbia capito il valore del nostro dilemma che è tirato diritto diritto dal piú rigido realismo storico che abbia mai trovato la sua giustificazione nel piú recente idealismo filosofico di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile. Non capisce, il nuovo crociato dell'imperialismo spirituale latino-guelfo, che il papa quale egli se lo immagina è un'astrazione, non un dato storico: astrazione di una morale cristiana, o cattolica, o gesuitica, che aleggia su tutta l'umanità, senza che con esattezza possa dirsi in quali forze attive precisamente s'incarni, di quali mezzi efficaci possa servirsi per imporre e fare osservare i suoi comandamenti.

Unica base di questa autorità possono essere le coscienze individuali. E se esse non impongono con una voce sola, collettiva, enorme, irresistibile, ai governanti l'assunzione del papa a supremo arbitro della pace, ad unico genuino assertore delle loro aspirazioni, dei loro voti, vuol dire che questa tanto strombazzata autorità morale è un mito, è una favola illusoria e grottesca, di cui Filippo Crispolti s'è fatto il gratuito e ridicolo profeta. Perché egli, come ogni credente (facciamo l'ipotesi piú benevola) confonde il dover essere con l'essere. Misura l'intensità della fede in base alle statistiche dei censimenti; questi affermano che almeno la metà piú uno dei combattenti sono cristiani, quindi ispirantisi alla cattedra di S. Pietro; solo per questa ragione democratica del numero, amorfo, incosciente, inutile, il papa dovrebbe essere l'autorità massima, il giudice supremo.

Piú senza imbarazzi di cosí, l'aio Crispolti non potrebbe essere. In fondo egli è un pragmatista (sebbene ciò puzzi maledettamente d'eresia), un credente nella volontà di credere. «Vogliamo credere che il papa sia» ecc. ecc., e il papa immediatamente è ciò che noi vogliamo...

Ma questo gioco si fa con i maori o gli ottentotti. Non non vogliamo credere. E riproponiamo il dilemma, per mettere in imbarazzo l'aio casista.

(18 maggio 1916).

VANITÀ, VIRTÚ CARDINALE

È veramente esasperante che non si riesca una volta ad andar d'accordo con Teofilo Rossi. Ne siamo veramente desolati: tanto piú che vorremmo riuscire a sorprendere il segreto che gli permette di essere sempre cosí ilare, cosí cuorcontento, cosí riboccante di saporose virtú paesane come una pagnottella gravida di mentastro e di strutto appena sfornata da una contadinotta piena d'appetito.

È sicuro di sé, il buon uomo, certo di rappresentare una grande parte nel mondo, e la vanità lo nutre. La vanità è la pianticella che con piú amore egli coltiva nel chiuso orto della sua coscienza, innaffiandola quotidianamente con abbondanti cascatelle di metallici dischi e di pergamene leggiadramente miniate. Essa gli diventa la leva che muove l'universo. Se ne serve nelle sue funzioni sindacali, come ultimo rimedio, come mezzo estremo. Per la sottoscrizione — dopo un anno di frasi reboanti, di pappardelle melense ispirate alla letteratura che corre le bancherelle dei libri usati — ha trovato il rimedio dell'albo d'oro, della pubblicazione cortigiana in cui sfileranno facendo bella pompa di sé tutti i sottoscrittori, ai quali sono state mandate per rincalzo nuove circolari che promettono gloria e fama a caratteri vistosi per quelli che maggiormente si distinguono.

E può darsi che Teofilo Rossi, in tal materia giudice competente quant'altri mai, abbia ragione d'essere persuaso che la vanità possa sui ricchi torinesi piú che il «senso del dovere». Si tratta nientemeno di «far conoscere agli italiani, nella prima ricorrenza dell'anniversario della dichiarazione di guerra, la meravigliosa attività patriottica torinese nell'assistenza civile e in tutte le sue svariate forme in quest'anno memorabile». Ed i torinesi ci tengono ad ogni forma di primato di fronte a tutte le altre città d'Italia, sebbene non sentano affatto la voluttà di procurarsi questo primato col sacrificio.

Ecco, noi siamo piuttosto dell'avviso che questa meravigliosa attività fosse conosciuta dalle famiglie dei soldati di Torino ed in forme concrete, in tanto danaro sonante. Vorremmo che fosse pubblicato e diffuso tra le famiglie dei sussidiati un libro in cui accanto ad ogni offerta fatta fosse segnato in cifra l'offerta che ciascun sottoscrittore avrebbe potuto e dovuto fare, in base ai dati catastali e fiscali. Vorremmo che fosse dimostrato come al sacrificio di sangue abbia corrisposto un sacrificio adeguato di reddito da parte della grassa borghesia. Che fosse diffuso il senso del dovere che si ha verso le famiglie dei combattenti di sostituire in qualche modo le braccia che non possono lavorare e produrre. Ma è questa una nota stonata nella ilare e sbracata comprensione delle proprie funzioni che ha Teofilo Rossi.

Tra la vanità e il dovere c'è un abisso incolmabile, ed il Rossi aborre dai salti nel buio. Tanto piú che dovrebbe cominciare da se stesso e non si può domandare a nessuno il suicidio per dissesti morali.

(20 maggio 1916).

AUDACIA E FEDE

«Io parlo audacemente e perché? Perché credo». Le parole di Gerolamo Savonarola servono di motto al giornaletto che dal suo nome si intitola. Parlare audacemente è sempre una bella cosa, quando l'ingegno dà alle parole un contenuto, e la forza morale che viene dalla convinzione sincera dà loro dignità di apostolato. Ma i giovani che compilano il «Savonarola» (alcuni di essi sono nostri amici personali e perciò ci permetteranno una certa rudezza di linguaggio) non ignorano anche che spesso l'audacia è prodotta da una completa incomprensione dell'argomento che si prende a trattare. A della gente che insiste continuamente sulla fede, sulla verità, sulla sincerità, non è permesso sfiorare con leggerezza offensiva idee e fatti che involgono la fede e l'entusiasmo di altri; perché allora l'audacia diventa impudenza, prosopopea, sopportazione, qualità tutte che non rientrano precisamente nella tradizione savonaroliana.

Che abuso di vecchi clichés in un articolo del loro premier che si occupa di socialismo, che tanfo di cenci da rigattiere! Melensaggine nell'espressione dei luoghi piú comuni, completa deficienza di ogni nozione teorica e storica del movimento socialista. Concezione idilliaca del socialismo che dalla «bocca di Gesù ha tolto le parole di carità e di fratellanza», dopo averle spogliate della loro virtú religiosa.

Storia: «Durante cinquant'anni di socialismo, il popolo quali progressi ha fatto? Economici: qualcuno. Intellettuali: pochi. Morali: nessuno». E via di questo audacissimo tono. Tanta scempiaggine ci sbalordisce. Potremmo ritorcere le domande adattandole al cristianesimo, e con risposte analoghe dimostreremmo solo la nostra insipienza. Ma non vogliamo incrudelire con chi, nel suo candore di neofita zelante, è cosí giudice delle cose nostre: il candore è troppo spesso sinonimo di minchioneria, e non bisogna essere severi coi... candidi.

L'augurio che conclude la cicalata innocente è la prova migliore della incomprensione di questo giovinotto: il socialismo dovrebbe diventare cristiano. Ciò che sarebbe lo stesso che dire: il quadrato dovrebbe diventare triangolo. Perché tutta questa gente non si è accorta, essa che a proposito, e piú spesso a sproposito, parla di valori spirituali, che il socialismo è precisamente la religione che deve ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che è anch'esso una fede, che ha i suoi mistici e i suoi pratici; religione, perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell'uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale. Il nostro evangelo è la filosofia moderna, cari amici del Savonarola, quella che fa a meno dell'ipotesi di Dio nella visione dell'universo, quella che solo nella storia pone le sue fondamenta, nella storia, di cui noi siamo le creature per il passato e i creatori per l'avvenire. E i nostri maestri hanno volgarizzata questa filosofia, l'hanno assunta come guida dei nostri destini, e ci hanno insegnato con logica ferma che il popolo, di cui tanto parlate voi, è un'astrazione sociologica, che la carità vuol dire elemosina, e non si fa elemosina ai forti, ai conquistatori, che l'amore e la fratellanza devono solo significare solidarietà di classe, se vogliono essere fecondi di risultati. Perché i socialisti, il proletariato non sono degli infelici, dei mendichi, degli spiantati, come immagina la fantasia democratica cristiana. Sono degli audaci lavoratori di un nuovo edificio sociale, di una nuova civiltà, che non domandano aiuto e pietà a nessuno, perché hanno la certezza di vincere con le sole loro energie. Non è una dottrina di schiavi in rivolta la nostra, è una dottrina di dominatori che nella fatica quotidiana preparano le armi per il dominio del mondo.

(22 maggio 1916)

IL MITO DEGLI IPERBOREI

Dopo un anno e mezzo di vagabondaggio nei mari aperti del nord, gli Iperborei sono felicemente sbarcati nelle terre del sole. Quale Omero canterà il loro errare, le avventure meravigliose nelle terre dei Lotofagi, presso le Calipso e le Circi boreali che trattennero i loro condottieri avvinti coi dolci lacci d'amore? Ahimè! Passato è il tempo della poesia epica, ed è il giornale che ha distrutto questo fiore precoce della fantasia umana.

Già nel settembre del 1914 il giornale piú bene informato di Torino aveva mandato un corrispondente speciale a scortare i nuovi Ulissidi, e qualche notizia era già arrivata al mondo civile di questo nuovo ciclo eroico che stava aprendosi. Gli Iperborei, annunciava il giornale sullodato, sono partiti da Arcangelo (nome fatidico di buon augurio), hanno costeggiato l'estrema Tule, e le prime barbe cosacche e chirghise sono già state viste nella Scozia. Il giornale subalpino destò l'invidia dei suoi confratelli romani; si apprese che tutti avevano mandato i loro corrieri in anticipo ad Arcangelo; s'apri una interessante disputa per sapere chi prima avesse dato la bella notizia. Uno storico di Napoleone, pur esso torinese, abituato a documentare le sue ricerche e le sue monografie press'a poco come Marco, il sanguinario, documenta le sue cronache di palazzo Siccardi, pubblicò un epistolario inedito di una dama che giurava e spergiurava di aver proprio coi suoi occhi visti gli Iperborei passeggiare per le vie di Glasgow e di Edimburgo. La correttezza personale del direttore del «Popolo» s'impose, come al solito, la disciplina del silenzio; il tempo naturalmente gli avrebbe dato ragione, come è solito, da gran galantuomo, darla a chi se la merita.

Un anno e mezzo è trascorso. La giubilante notizia è arrivata. Sono finalmente alla Cannebière i tanto attesi. La disciplina del silenzio ha prodotto i suoi frutti. Pensate ai mostri che attendevano in agguato la flotta fantasma, alle insidie che avrebbero potuto inghiottirla fra le brume e le nebbie, alle Circi che avrebbero potuto trasformare in bestie immonde gli eroi del nuovo ciclo epico. Perché dar loro le notizie precise sull'itinerario, sul contingente, sui fini? Meglio inghiottire in santa pace gli scherni dei maligni, gli sberleffi e i lazzi degli scettici impertinenti. Il tempo avrebbe dato ragione. Certo un anno e mezzo è un po' troppo in questi tempi di telegrafo senza fili e di transatlantici a molte eliche, ma bisogna pensare che si tratta di Iperborei, di primitivi che seguivano una rotta omerica di circumnavigazione, remigando affannosamente alla ventura senza possibilità di approdi, tutti insidiosi.

Facciamo atto di contrizione. Incominciamo a credere davvero che il conte Orsi sia una cima di giornalista e che il tempo sia il suo alleato naturale. Certo sarebbe stato degno di vivere nei tempi omerici, quando i miti erano ancora l'unica storia possibile, e le notizie arrivavano dopo due o tre anni dall'accadimento del fatto. Ma non bisogna disperare. Dopo la fine della guerra qualche erudito tedesco saprà ben dimostrare, per vendicare la sua patria offesa dalla terribile campagna della personalità piú importante dell'interventismo subalpino, che il conte Delfino è una reincarnazione di uno di quei compagni che Ulisse fu costretto a lasciare sul monte Circello, perché, come testimonia Giovanni Battista Belli, preferirono rimanere animali al ridiventare uomini.

(22 aprile 1916).

«ARIA AI MONTI» ÜBER ALLES

Dunque «aria ai monti» ha avuto un nuovo onorifico incarico: lo si è nominato presidente dei cavalieri del lavoro, in sostituzione del marchese Cappelli dimissionario, a quanto pare, perché è rimasto attaccato — come l'ostrica allo scoglio — ad un suo innominabile criterio politico.

«Aria ai monti» è veramente nato con la camicia. La sua felicità consiste appunto nelle onorificenze, nella raccolta di chincaglierie decorative. È la sua piú grande passione, la sua delizia, il fine della sua esistenza. «Aria ai monti» è ancora giovane, paffuto, mangia e beve epicureamente e in pochi anni di vita politica è riuscito a superare tutti i «colleghi» in fatto di onorificenze. La Guida di Torino — quella ante bellum per intenderci, ché la successiva del 1916 è stata spurgata secondo le esigenze dell'ora, e lo sa il conte Orsi che non figura piú come commendatore bavarese — reca infatti, la Guida del 1915, che Teofilo Rossi, sindaco di Torino in mancanza per la bisogna di una persona seria, conte per via dei conti dell'Esposizione del 1911, ex deputato, ex sottoministro, senatore del regno per censo spremuto dagli ingredienti del vermouth, e gran croce decorato del gran cordone, cavaliere del lavoro, fregiato della medaglia d'oro del terremoto di Calabria e Sicilia, della medaglia d'oro dei benemeriti dell'agricoltura e della medaglia d'oro dei benemeriti dell'istruzione popolare, grand'ufficiale della Legion d'onore, gran cordone degli ordini di S. Stanislao di Russia, della corona di Prussia, di Francesco Giuseppe di Austria-Ungheria, della Corona del Belgio, del Tesoro sacro del Giappone, del Medidijè di Turchia, della Spiga d'Oro di Cina e del Sole e del Leone di Persia, grand'ufficiale dell'ordine di S. Sava di Serbia, commendatore di Isabella la Cattolica, cavaliere dell'ordine di Leopoldo del Belgio... Auf!

«Aria ai monti», adulando Giolitti e strisciando con Salandra, arriverà anche piú in alto, fino al collare della SS. Annunziata. È ancor giovane e vi potrà arrivare. Quel giorno sarà il piú bello della sua vita e perdonerà anche a noi tutti i dispiaceri che gli procuriamo. Gran brava persona «aria ai monti»! Il nuovo onorifico incarico se lo merita. Come cavaliere d'industria, degno di assurgere alla presidenza dell'ordine, non si poteva scegliere meglio. Titolo dimostrativo, recente, palmare, è anche la polemica svoltasi nei passati giorni sulla «Stampa» a proposito della questione dello zucchero. «Aria ai monti» in codesta faccenda ha dimostrato di sapersi sdoppiare in modo sorprendente, ché, come sindaco va alla Camera di commercio a fare la voce grossa contro gli speculatori dello zucchero, come produttore di vermouth agisce nel modo che il direttore dell'Unione zuccheri ha cosí perfidamente illustrato. Altro titolo di «dignità» per la presidenza dell'ordine dei cavalieri del lavoro è quello esibito al Tribunale militare di Torino, l'altro giorno, durante il processo Bauchiero. «Aria ai monti», che possiede un senso squisito di solidarietà coi colleghi, cavalieri d'industria... «al par di lui», non si è peritato di affermare: «Qualunque cosa possa accadere, io sarò sempre fiero ed onorato di stringergli la mano». Si trattava di un collega... Il collega è stato assolto con una sentenza che non convince nessuno e contro la quale il P. M. ricorre. Ma di ciò poco importa. «Aria ai monti» «sarebbe stato fiero ed onorato di stringere la mano» a Bauchiero ancorché questi, a dibattimento concluso, si fosse trovato nella situazione del Canonica, condannato, con una responsabilità imprecisata, comunque inferiore a quella del signor Bauchiero, a cinque anni di reclusione.

Ma la novissima nomina di «aria ai monti», chiamato a sostituire il Cappelli, dimissionato o dimessosi per delitto di neutralità, appare in tutta la sua luce di comicità se si pensi che «aria ai monti» anche in fatto di neutralità era... über alles.

Tant'è che un certo scompartimento di prima classe del direttissimo Roma-Torino potrebbe ancora testimoniare che «aria ai monti», dopo le storiche sedute alla Camera e al Senato, quando cioè la guerra «santa» d'Italia era già stata decisa, fu udito mormorare contro Salandra e i «pazzi» che volevano la guerra.

Questo è ormai storico.

Come, del resto, rimane acquisito alla cronaca che l'altro titolo onde «aria ai monti» è stato assunto alla presidenza dell'ordine dei cavalieri del lavoro è «l'ozio affannoso» in cui trascorre i suoi giorni al Palazzo di Città. Il titolo è testimoniato da uno dei piú cospicui collaboratori del conte sindaco, ora presidente dei cavalieri dell'industria.

(23 aprile 1916).

ATLANTI E STORIE

A me non dispiace vedere che la vita continua imperturbabile anche in tempo di guerra. Anzi ne sono lieto, perché questo continuare nelle vecchie abitudini, questa mancanza di scissura tra il presente e il passato, è una svalutazione della guerra. Dopo che vi siete avvelenati il sangue con la lettura di un paio di giornali, e non siete rimasti ossessionati solo perché ormai il vostro organismo è saturo di bluff, vi fa una certa impressione vedere insomma che c'è ancora chi gioca alle bocce e chi scattina e chi va a far le merende sui prati. Insomma c'è una certa quantità di gente per la quale la guerra non esiste, o, pur esistendo, non rappresenta niente di cosí grande, che possa turbare il pacifico scorrere delle ore. Una passeggiata al Valentino di domenica dovrebbe essere d'obbligo agli studiosi e agli scrittori di storia. Le loro opere future se ne gioverebbero, e come. Perché questa esperienza storica che da due anni stiamo osservando, ci ha procurato, tra le altre, una grande delusione e ci ha fatto diventare pessimisti. Non crediamo piú alle storie del passato. Esse tutte ci fanno ormai l'impressione di enormi, spudorate falsificazioni degli avvenimenti. E il modo ne è semplicissimo: si attribuisce ad un intero secolo ciò che ha potuto fare impressione per un anno, e a un intero anno ciò che ha suscitato l'interesse di un giorno e solo di una determinata categoria di persone. Sicché l'impressione che si ricava da queste poetiche ricostruzioni, è che per due, tre anni, per un secolo talvolta, un popolo intero sia rimasto sulla punta dei piedi, col naso per aria, col cuore in sussulto ad aspettare... Come volete, che con questo po' po' d'esperienza che abbiamo acquistato in due anni, si possa ancora credere a certe corbellerie? La guerra attuale non può avere riscontro nel passato; mai la vita sociale, la compagine umana è stata cosí profondamente intaccata. E ci sono i giornali che assillano, che non parlano d'altro, che per forza vi costringono a dedicare una parte del vostro tempo alla cronaca europea. Con tutto ciò non pare davvero che l'umanità se ne stia sulla punta dei piedi e col naso per aria. Basta andare alla domenica, e meglio se è Pasqua, alla passeggiata del Valentino o di qualsiasi altro ameno sito delle cento città d'Italia. Ma bisognerebbe condurci tutti gli occhialuti studiosi e scrittori di libri di storia, e fargliela capire che nel passato le cose dovevano andare su per giú come adesso, e che ormai non riusciranno piú ad ingannare nessuno con le loro fantasticherie.

Le guerre sono sempre state grandi nemiche degli editori di atlanti geografici; ma questa guerra dovrebbe far mandare al macero non solo gli atlanti ma anche tutta la enorme catasta di manuali e manualetti di storia. E poi alla storia dovrebbe sostituirsi la cronologia, e ognuno si rimpolpi le date a secondo che gli pare meglio, attribuendo ai re, ai popoli, agli eroi ciò che meglio gli aggrada, perché cosí sarà sicuro almeno di non essere ingannato dagli altri, ma caso mai di essersi sbagliato.

(25 aprile 1916).

P.O.B.

Sono i tre tradizionali personaggi della solita commedia, P. il marito, almeno a termini di legge, O. la moglie, B. il terzo, solo vero autentico marito. La burletta del contratto matrimoniale, borghesemente filisteo, si è trasformata in piena novella boccaccesca. La biscia ha morso il ciarlatano; O., la perversa femmina, si è allegramente infischiata di ogni sanzione penale, ha preso per il naso il povero P. e se ne è servita a meraviglia per i suoi fini, siano essi quali si voglia. La cronaca non può approfondire i moventi psicologici, anche se a compilarla siano chiamati i magistrati della pretura o del tribunale, che si reputano molto navigati per il quotidiano contatto con i documenti umani. Essi possono solo giudicare, alla stregua delle prove trovate, se siano stati violati certi articoli del codice che contemplano una determinata sanzione, ma sfugge loro il complicato meccanismo delle cause ed effetti, delle intenzioni e della loro attuazione. Una femmina proterva si mette in capo di porli in imbarazzo, e questi eterni Bridoison precipitano a capofitto nel mare dei mezzi termini e degli equivoci. O. si fa sposare da P. (cosí dice la cronaca); ma la prima notte delude il suo legittimo orgasmo maritale, gli si rifiuta, e quando accorre gente, proclama che P. è stato già suo marito, ed ella ormai è donna, non piú fanciulla. Rabbia concentrata di P. che si vede cosí amenamente scorbacchiato; egli investiga, sorveglia O., riesce a scoprire che ella è in relazione epistolare con B. al quale manda biglietti in cui si leggono espressioni come queste: «Amore mio, non temere, tu sei la mia vita, il mio tutto...» Domanda la separazione e sporge anche querela d'adulterio, perché da indizi che egli ritiene probatori, gli consta che O. e B. continuano alle sue spalle a filare il perfetto amore.

Il magistrato è costretto a mettersi le mani nei capelli. La volontà di un coniuge dovrebbe bastare di per se stessa a sciogliere il nodo, tutt'altro che gordiano. Ma ci troviamo dinanzi non ad un semplice contratto nuziale, onusto di tutto il peso delle sante tradizioni, di tutto il fardello delle superstizioni semitiche adagiatesi nei comodi stampini della morale e degli interessi borghesi. La morale, quella vera ed universale, non avrebbe niente a ridire per una scissione tra le due parti, che non danneggia nessuno, che non lascia dietro di sé strascichi dolorosi di figli senza focolare domestico. Ma la legge, il diritto, pongono il loro veto. P. non ha dalla parte sua nessuna flagranza, nessun delegato che, cinto del fatidico tricolore, abbia sfondato una poco resistente porta di camera d'albergo o di garçonnière, ed abbia pronunziato le parole sacramentali. Perciò dovrà convivere con O., dovrà continuare a far la parte di marito decorativo, con la certezza che O. e B. continueranno a filare il perfetto amore, ridendosi degli ameni Bridoison della magistratura nostrale. Ma la morale borghese sarà salva, le istituzioni saranno rimaste immacolate, a meno che O. e B. non finiscano col farsi cogliere da qualche Sherlock Holmes posto alle loro calcagna, e il delegato, cinta la sciarpa, non pronunzi le parole sacramentali.

(26 aprile 1916).

DIO AFFITTACAMERE

Bazzicavo una volta una brigata di fiorentini e di pisani, gente allegra e spregiudicata, facile allo scherzo grasso ed alla bestemmia immaginosa. Quante ne ho sentite. E quale varietà! Altro che il monotono motto torinese!... Madonna... Cristo... Dio... C'era da far morire di sdegno tutta la Lega contro la bestemmia e il turpiloquio, che, tra parentesi, si è costituita l'altra sera nella nostra città, ed ha nominato un presidente e due vicepresidenti, dei quali uno per la sezione industriale. Che diavolo vogliano industrializzare la bestemmia?

Ma ritornando ai miei toschi spiriti bizzarri, ce n'era uno che aveva un intercalare tutto suo: Dio affittacamere!!! e lo ripeteva ogni momento, in ogni occasione, con una costanza invidiabile. Me lo son ricordato leggendo il Bollettino del Santuario della Madonna del Selvaggio, celebre santuario tra i monti di Giaveno, che è meta di pellegrinaggi e centro di ritrovi spirituali, anche se da qualche tempo deve, come la Madonna della Consolata, subire la concorrenza della Madonna di Lourdes, la cui devozione, non dirò industria, fu importata recentemente a Torino da congressisti francesi espulsi, e che sembrano fare ottimi affari... Nel Bollettino — raccomando ai miei lettori di dare sempre un'occhiata agli innumerevoli fogli e foglietti che i parroci, i canonici fanno circolare fra i fedeli delle varie chiese: è il miglior mezzo per perdere anche quella poca fede, che, per una combinazione qualsiasi, fosse loro rimasta — nel Bollettino, dico, c'è un padrone di casa che manda quaranta lire dichiarando di aver fatto voto, ogniqualvolta rimaneva con un appartamento vuoto, di dare l'importo del primo mese di fitto alla Madonna, e di essere cosí sempre riuscito ad affittare immediatamente, e raccomandando quindi il sistema agli altri colleghi proprietari.

Dio affittacamere... Oh! Buon vecchio Dio, come ti hanno mal ridotto i tuoi fedeli! Oh, Zeus formidabile nelle collere e tenero negli amori! Jehova, terribile ed inesorabile giustiziere, quale degenerazione! Il successore vostro è buono a tutti gli usi. Gestisce l'ufficio di collocamento per le serve, affitta le camere, magari ad ore, protegge contro le punture delle zanzare...

Ed è a questa religione, imbastardita ed incretinita, a questa fede, incapace di sollevare l'animo al disopra d'ogni bassura, a questi riti diventati abitudini passive, superstizioni grottesche che si vorrebbe ancora che l'umanità affidasse il suo avvenire.

Per quanta barbarie ancora ingombri l'animo degli uomini, anche mentre pare debba dileguarsi ogni speranza nella ragione umana, noi sentiamo che siamo ormai liberi dei ceppi del cristianesimo.

Morirono Api, e Zeus, e Jehova; è morto Cristo e non risuscita piú!

(29 aprile 1916).

I RE IMMORTALI

Scorro distrattamente con gli occhi il nuovo mazzo di carte. Eleganti, lussuose, spiritose anche in qualche pupazzetto che esce dal convenzionale della passione politica del momento. Un foglietto che le avvolge avverte che esse sono l'ultimo ritrovato del patriottismo, un episodio della buona battaglia, e afferma: è la prima volta che un tentativo del genere, ecc. Santa illusione di chi non vede oltre la propria scalmana e crede d'aver trovato in un mazzo di carte la leva per rivoluzionare l'umanità! Ma non esageriamo, via! Ciò che fu torna e tornerà nei secoli, e la nostra debolezza crede che sia nuovo, originale, uscito allora allora dalla matrice infuocata della fantasia creatrice. Eppure le cronache dicono...!

Anche a proposito del mazzo di carte le cronache dicono che in ben altri momenti di sconvolgimento, di odio belluino per tutto ciò che era passato, nemico antagonista formidabile, la fantasia creatrice volle lasciare le stigmate dei suoi sentimenti nelle figure delle untuose carte da gioco. E i re, le regine, i fanti, furono sostituiti dalle simboliche figure della Libertà, dell'Eguaglianza, della Fratellanza, e gli assi furono avvolti dei fasci repubblicani e si chiamavano leggi; e si aveva la libertà di fiori, o di trifoglio, l'eguaglianza di picche, la fraternità di quadri, la legge di cuori, ecc.

Ma se leggete Anatole France, e il suo tentativo di ricostruzione tipica della Rivoluzione francese nel Les dieux ont soif, troverete anche l'assennata risposta che l'incisore Jean Blaise dà al cittadino per eccellenza, a Gamelin. Mio caro, dice pressapoco l'uomo d'affari, il vostro tentativo è nobile, è una grande prova di civismo, e la Convenzione nazionale dovrebbe darvi una particolare attestazione di merito. Ma provate ad offrire le vostre carte ai piú scamiciati sanculotti che in berretto frigio e carmagnola passano le serate a giocare nelle bettole del Palais Royal, e poi v'accorgerete se, come è stato possibile detronizzare i re e le regine di carne ed ossa ed abolire i privilegi dei cavalieri, sia altrettanto facile togliere dalla circolazione gli innumerevoli regnanti che passano fra le mani dei patriotti piú convinti. Del resto — aggiunge — questi fanno giustizia da sé, e furibondi picchiano sul tavolo quando compaiono i tiranni e persino i gros cochons.

E cosí la Grande Rivoluzione è passata, rapinando nella sua furia tante cose che sembravano durature, e le vecchie carte sono rimaste, con le loro linee semplici, grottesche, incoscientemente caricaturali, e sono talmente entrate nelle abitudini mentali cosí come sono, che ormai hanno acquistata l'immortalità.

Hanno un loro linguaggio le vecchie carte, che richiamano le miniature medioevali con le effigi dei re longobardi, e nulla oppone tanti ostacoli alle innovazioni quanto il linguaggio. Tanto è vero che gli esperantisti sono ancora, dopo tanti anni, allo stato di bozzolo senza farfalla, e da Leibniz al dott. Xamenoff non è da dire che siano loro mancati i paladini.

(30 aprile 1916).

FUORI DAI CARDINI

I cosí detti «drammi d'amore» si susseguono in modo impressionante. Cosí annota la cronaca, raccontando con la solita esuberanza di particolari come qualmente il cittadino Ermenegildo Grosa, soldato del 7° Bersaglieri, abbia soffocato con un cuscino la sua amante Caterina Astegiano in una solitaria camera dell'albergo del Merlo Bianco, e come qualmente in seguito si sia svenato recidendosi la carotide. E il cronista, per dovere professionale, fa le sue ipotesi, avanza i suoi dubbi, istrada i lettori ai misteri delle camere d'albergo dove si dànno convegno gli amanti appassionati.

Ma il cronista non convince. E, d'altronde, non è questo un suo compito. Perché questi fattacci si ripetano con periodica assiduità bisogna convenire che qualche elemento nuovo è sopraggiunto a sconvolgere il ritmo che finisce per crearsi anche nelle attività piú bestiali dell'uomo, anche nell'assassinio. Tutti sentiamo questo elemento nuovo, ma non sappiamo rendercene perfettamente ragione, tanto esso è oscuro, impalpabile. Si ha l'impressione che il mondo sia uscito dai cardini e sia sospeso a mezz'aria, in una posizione provvisoria, che non può durare, ma che turba le coscienze e le mantiene in uno stato di irrequietezza e di orgasmo. Tutto è d'eccezione: le responsabilità individuali sono assorbite da una responsabilità superiore, immanente in tutti e concretizzantesi in nessuno, che assolve e condanna con leggi non consuetudinarie, ma transitorie, escogitate per il momento assurdo che viviamo. L'individuo è scomparso, è assorbito nella macchina «nazionale» e non sente piú i freni inibitori della coscienza. La vita umana è rinvilita nel mercato europeo: cosa conta una vile donnacola il cui collo sottile si offre allo strangolatore esaltato, quando milioni di vite sono sospese a un filo, e un mietitore invisibile ne falcia ogni giorno a manate piene, a enormi cumuli di sanguinosi covoni? La collettività si è realizzata violentemente in ente assoluto, quando ancora le coscienze individuali non avevano raggiunto quel quadro di maturità necessario per comprendere che la base granitica del dovere è in noi stessi e non nella spada di Damocle della giustizia punitiva. Molti, galantuomini ieri per mancata occasione a delinquere, per debolezza, per paura, hanno sentito il capogiro per l'odore di sangue che si respira nell'aria, per l'atmosfera di strage che ci circonda e colpiscono per ragioni che ieri li avrebbero solo spinti al sorriso o al pianto.

Non è la prima volta che ciò si verifica nella storia. In qualche paese di montagna ricordano ancora con terrore le scene che succedevano cinquanta, settant'anni fa, quando i coscritti venivano arruolati per un servizio che durava anche dieci o dodici anni. Era come un saturnale dei bassi istinti dell'uomo: nelle case dei parenti le madri intonavano il canto delle prefiche per quelli che non speravano piú rivedere, e gli altri si asserragliavano per non vedere le loro donne violate, il loro bestiame ucciso, i loro campi devastati dalle bande di reclute che facevano le prime prove della forza che crea il diritto.

Oggi — Giove sia lodato! — ciò non succede piú, perché, si voglia o non si voglia, qualche progresso s'è pur fatto. Si susseguono i cosí detti «drammi d'amore» per dar lavoro ai cronisti. Ma in fondo in fondo, non ci si può lamentare troppo.

(4 maggio 1916).

LEGGI ECONOMICHE

È stata una buona lezione d'umiltà. Perché lamentarsi sempre e con tutti del rincaro dei viveri, della impossibilità di andare innanzi di questo passo, ecc., ecc.? Il cameriere che mi serve i fieri pasti in trattoria m'ha dimostrato in quattro e quattr'otto che io ho torto marcio, e che contro le leggi economiche è vano dar di cozzo. Veramente non si tratta di una persona comune, di un qualsiasi lavoratore della mensa.

Legge e riflette sulle verità che i quotidiani ammanniscono prodigiosamente nelle loro pagine economiche: ha viaggiato, ha imparato da sé il francese e il tedesco, e, cosa strana, non si vergogna di conoscere quest'ultimo come tanti professori d'università e tanti deputati al parlamento che l'hanno di colpo dimenticato (qualcuno dubita l'abbiano mai appreso), e non veglia le insonni notti sulle grammatiche inglesi per mettersi all'altezza dei tempi.

Dunque il mio cameriere sostiene il fatale andare delle leggi economiche. Diminuiscono i fabbisogni, egli dice usurpando i termini agli Einaudi, ai Borgatta, ai Valenti, ai Dalla Volta, e naturalmente aumentano i prezzi. Però, soggiunge puntando il dito sulla fronte alta e intelligente, non bisogna credere che queste leggi siano proprio fatali. La loro fatalità è in funzione della società attuale, che ha una certa graduazione di ricchezza. E queste leggi economiche paiono create apposta per tutelare i sacrosanti diritti dei ricchi. Esse infatti rappresentano una forma di risparmio, un mezzo per impedire la dispersione di certi prodotti e serbarli cosí per il consumo di chi può spendere molto senza perciò sacrificarsi. Prenda l'esempio dei commestibili, della carne: prima della guerra il consumo ne era abbastanza diffuso anche negli strati piú umili. Guai se il prezzo si fosse mantenuto inalterato; dopo un certo tempo non solo gli umili avrebbero dovuto farne a meno ma, ciò che sarebbe stato gravissimo, anche i superi. Allora entra in azione il benefico controllo della legge economica, e ciò che sarebbe stato consumato da cento in un giorno, basterà per uno cento giorni. Cosí per tutti i generi. La trattoria è un gradino d'una scala. Vediamo a mano a mano passare scendendo tutte le categorie sociali; ieri si sono fermati quelli che potevano spendere 1, oggi sono qui quelli che possono spendere 2, domani saranno quelli che 3, e cosí via. I trascorsi si fermavano nei gradini sottostanti, e scenderanno sempre piú giú nel regno dei succedanei e dei surrogati. Tutto ciò è fatale, ma, per farle piacere, aggiungerò che è fatalmente borghese. Se i gioielli costassero come i pezzi di vetro, a che pro essere ricchi? La contadina potrebbe ornarsi come una duchessa. Ma vede che anche ieri le leggi economiche provvedevano all'uopo, e tenevano ferme le debite distanze. Oggi, nel momento eccezionale, esse sono piú gravose, piú schiaccianti, ma non meno logiche perciò.

Lezione di umiltà, evidentemente. Ma è evidente anche che questa benedetta fatalità è uno spauracchio che convince solo molto relativamente. Perché tutte le leggi, anche quelle che paiono piú metafisiche, piú impalpabili, sono in realtà l'esponente di uno stato di fatto, le cui responsabilità si possono sempre impersonare o meglio, se si potesse dire, inclassare.

(5 maggio 1916).

LETTERA AD UN PEDAGOGO

L'avv. Arturo Brusasco è una carissima persona. A chi lo guarda nella corporatura atletica e nella cravatta svolazzante e nel cappello a larghe falde, può subitamente ispirare un salutare timore come uomo che sembra avere molta energia ed ottimi muscoli, ma la cascaggine naturale della persona ed una certa vaga mollezza del gestire e del parlare fanno presto avveduti che la prima impressione non è la buona. Chi poi legge la sua «Gazzetta dei tribunali», si avvede che il direttore dev'essere molto buono. C'è sempre un tono dolce di papà, che ammonisce gli avvocati torinesi, senza riuscire mai, anche quando vuol fare la voce grossa, a persuadere che le sue sgridate debbano essere prese sul serio: c'è diffusa una larga, tollerante bonomia di uomo scettico ed abituato a vederne ed a sentirne di tutti i colori e d'ogni sapore, che addolcisce lo scandalo piú grave e sparge un po' d'ironia benevola sulle disavventure dei coniugi, e stempera in latte e miele il drammaccio d'amore e di morte. Perciò forse non può soffrire le stroncature che ogni tanto infliggiamo qui, Sotto la Mole, ai figuri della stampa e della politica torinese. E non lascia passare occasione per ammonirci, per dimostrarci direttamente e di straforo il suo disgusto per le nostre invettive e le nostre ingiurie, che turbano la piccola beota arcadia dei bôgianen.

Guarnieri (un saluto al parente) si accorge che i conciliatori torinesi rendono degli eccellenti servizi ai padroni di casa, livragando i diritti dei poveri inquilini chiamati sotto le armi e lascianti nelle case mogli e figliuoli affamati, e, naturalmente, maltratta come si conviene questi ff... di magistrati. Brusasco arriccia il naso e lo rimprovera di mancanza di rispetto alla magistratura e alla res judicata. È vero che in conclusione i conciliatori mutano di colpo l'interpretazione della legge, e la giurisprudenza muta anch'essa, nel mentre la loro querela li copre di ridicolo e fa la fine miserevole a tutti nota... mentre con ogni probabilità essi avrebbero continuato a fare i comodi dei proprietari. Un mio intimo amico scaraventa una serqua d'insolenze meritatissime contro un reporter che falsifica i resoconti giudiziari per sfogare la sua bile antisocialista contro qualche oscuro operaio, che è incappato nelle reti della giustizia, e Brusasco ritorna a biasimarci ed a deplorare i nostri metodi polemici. Ma è anche vero che quel signore ha cambiato sistema... Oggi c'è Ciriola-Tupin che manda allo sbaraglio il gerente della «Patria», che fa rimangiare in un processo tutte le accuse strombazzate contro la spia tedesca, ed in un altro lo fa condannare a dieci mesi ecc, per diffamazione contro un noto professionista cittadino. Noi, approfittando dell'occasione, abbiamo detto qualcosa al nobilastro spiantato, ma Brusasco ci tira le orecchie. Non ce ne abbiamo a male: a questo mondo ci vogliono anche i pacifici. Se avessimo tutti sempre voglia di lagnarci guai... La «Gazzetta dei tribunali» può servire ogni tanto da calmante... è una funzione utile anche questa.

Ma all'avv. Brusasco giornalista, e socio dell'Associazione della stampa, desideriamo sottoporre alcuni quesiti molto precisi ai quali vorremmo avere risposte altrettanto precise.

Quale giudizio egli può dare: 1) di un giornalista che eccita la censura ond'essere piú severa contro giornali avversari, che, in altre parole, falsificando persino una circostanza di fatto, fa la spia; 2) di un giornalista che dopo aver diffamato un cittadino qualsiasi, si rifiuta di pubblicarne la rettifica, non tenta al processo neppure lontanamente la prova dei fatti, e che, condannato, non pubblica sul suo giornale una sola riga per riconoscere il suo errore; 3) di un giornalista che, nel caso esposto sopra, permette che il gerente per scusarsi affermi di «aver pubblicato una lettera diffamatoria trovata per caso sul tavolo di redazione»? Se Brusasco è capace di difendere anche questa roba, io proclamo che la sua abilita e la sua bontà sono infinite e non gli prometto di scrivere meno ingiurie.

(6 maggio 1916).

OMAGGIO A TOSCANINI

Ella, egregio Maestro, compilando i due programmi dei concerti che verrà a dirigere nella nostra città, non aveva certamente preveduto di poter suscitare un vespaio e di poter far risuonare l'aula del teatro di fischi come alla rappresentazione di un Cinema—Star viennese qualsiasi. Includendo una sinfonia di Wagner forse aveva ancora dinanzi agli occhi il pubblico d'altri tempi del Regio, pieno d'entusiasmo per i « capolavori musicali » che hanno « proprio l'impronta del genio barbarico dominatore!»? Illusioni, illusioni, fate morgane du beau temps de jadis, snobismo sfiancato. Se ora si inibisce a Wagner con goffa e presuntuosa albagia ogni serena contemplazione, gli è evidentemente perché nel passato lo si ascoltava ed applaudiva non come disinteressato creatore di bellezze, ma come «genio barbarico dominatore», la cui patria era alleata della nostra, il cui imperatore dava da musicare i suoi bolsi libretti al piú bolso dei compositori italiani. Servilismo estetico dei mercatini di Porta Palazzo, che la guerra ha dimostrato essere il livello di vita dell'anima italiana. Perché non siamo alle prime manifestazioni del genere, se nel gennaio 1872 Giosuè Carducci poteva scrivere parole come queste:

...la borghesia ben pensante che ammira sempre la forza e il successo, vestiva i suoi bimbi alla foggia degli ulani come pochi anni avanti li aveva vestiti alla foggia degli zuavi; e i diplomatici e i politici officiosi e governativi, scotendosi dalle ginocchia la polvere delle prosternazioni all'imperatore francese, con la voce un po' arrochita dal gridar alcuni giorni prima à Berlin urlava ora a squarciagola nach Paris; né mancavano democratici ai quali piaceva, e lo dicevano su le bare dei morti, che i prussiani facessero essi le loro vendette; e in altri i tristi odî nazionali instillati dagli storici e dagli scrittori dei tempi di servitú e di sventura, sublimemente appassionati, fermentavano piú che mai freddi e atroci, fin a divenire teoriche di politica. E la maggior parte si comportavano con la Francia atterrata, come lo schiavo recente di servitú, il quale esulta su la sventura del padrone che teme.

Ella non aveva pensato che «a Torino l'aver scelto fra la tanta musica sinfonica un pezzo di Wagner, può indurre gli ignari a deduzioni non troppo benevole verso la nostra città». E che questa micidialissima scelta poteva nientemeno che cancellare i benefici effetti della venuta fra noi dell'on. Salandra, «effettuatasi splendidamente mercé l'oculata azione prefettizia e di tutte le autorità (udite, udite) e che serví a dimostrare come la nostra città non fosse seconda a nessun'altra per patriottismo». Ella nel compilare il programma dei due concerti non s'era evidentemente accorta di tutto questo chimismo demagogico; voleva solo riprodurre opere di bellezza, e non si accorse che Parsifal aveva per l'occasione messo su l'elmo a chiodo.

Adesso vedremo come andrà a finire: il giornale dei mercatini di Porta Palazzo farà ingoiare agli imbecilli i suoi cavoli stantii? Nessuna meraviglia: i servi di ieri non possono soffrire i loro ex padroni di cui domani lustreranno di nuovo le scarpe.

Ma sappia, egregio Maestro, che Torino non è tutta compresa nella rumorosa fiera di Porta Palazzo.

(7 maggio 1916).

LA NOSTRA DECADENZA

La relazione del comitato centrale della Confederazione generale del lavoro, per la imminente riunione di Firenze, ha attirato l'attenzione del «Momento» e della «Patria» o, per meglio dire, del giornalista che ha modo di scribacchiare contemporaneamente sui due periodici. Perché l'articoletto è uguale, quasi identico sul quotidiano e sul settimanale, che sono apparsi ambedue sabato scorso, ed è per lo meno curioso notare come in questo periodo vi siano ancora cosí strette relazioni fra la stampa cattolica e quella nazionalista. È ben vero che si tratta di dare addosso ai socialisti, e che la compiacenza della diminuzione delle nostre forze può bene unire i due avversari. Ma ciò nonostante se lo sa l'«Unità cattolica» di questi amoreggiamenti, che rabbuffo! Hanno dunque constatato la decadenza del movimento socialista, la diminuzione dei soci nelle nostre organizzazioni economiche nel 1915; il «Momento», pantofolesco e gesuita, non osa trarre apertamente la conclusione del nostro fallimento; la «Patria», piú audacemente bugiarda, esulta e dichiara che l'organizzazione socialista è ad acqua bassa.

Discutere sul serio delle cause e dell'importanza di questa situazione è vano. Non v'è imbecille che non capisca come dopo un anno di guerra, con parecchi milioni di uomini sotto le armi, con la soppressione piú o meno larvata di ogni propaganda, con l'internamento di qualche organizzatore, sia quasi un miracolo avere ancora intatti i quadri, saldi i nuclei dei nostri organismi economici e politici. E poi, farebbe il «Momento» il piacere di comunicarci il numero dei soci della Lega del lavoro? e la «Patria» quello degli operai del Gruppo nazionalista, e della Umberto I? Chi sa se i cinque tipografi cattolici sono già diventati sei? Chi sa se la «Costituzionale» ha finalmente trovato un operaio al quale offrire la candidatura al consiglio comunale, per non dover ancora ricorrere ad un proprietario, che rimane operaio solo nei manifesti elettorali?

In fondo però la cosa piú allegra è questa: che i socialisti torinesi sono un pugno di imbecilli, dominati da un pazzo furioso, in dissidio aspro fra di loro, impotenti ed incapaci, ma non c'è modo di non occuparsi di loro, tanto che tutte le beghe interne, tutti i pettegolezzi piú sciocchi e piú gonfiati, hanno l'onore di essere ospitati e commentati nelle colonne dei giornali cittadini!

Io, che non credo di essere fra i meno attivi e fra i meno informati della sezione torinese, apprendo sempre una quantità di notizie dall'organetto di Ciriola-Tupin. Apprendo la disavventura della povera commessa, che quei mascalzoni degli amministratori dell'Alleanza pretendono rubi sul peso ai clienti a loro beneficio, apprendo che la mattina del Primo maggio il palazzo dell'Associazione generale degli operai era chiuso, ma che viceversa in una stanzetta erano i caporioni del partito, e poi la scissione insanabile, le dimissioni di molti soci, ecc. ecc.

Quello che non posso sapere dal foglio nazionalista sono le notizie del suo partito; ad esempio le cause dell'espulsione di Tupin dal gruppo nazionalista, e le vicende del processo di diffamazione del dott. Borini. E chi sa quando leggerò che Cian, Bagnasco e Ciriola hanno cessato di essere interventisti per diventare intervenuti?

(9 maggio 1916).

MAGGIO SEI TU...

L'ora del tempo e la dolce stagione in cui cade, per volere di Giove del fato o di qualche altra divinità meno incorporea, l'entrata in guerra dell'Italia, ha offerto spunti vari ai divi del nostro Parnaso. Giovanni Papini ha notato che il 24 maggio 1915 era un sabato, ed ha intitolato una sua raccolta di articoli d'occasione La paga del sabato con equivoca significazione. Gil Blas ha preferito essere meno minuziosamente pedante ed ha intitolato il suo zibaldone rivistaio Maggio sei tu...

La maggiolata, a dir il vero, è piú italianamente indigena, cosa per cui ci ha piú dilettosamente solleticati la rivista patriottarda, a base di doppi sensi porcaccioni e di sottilissima (come le astuzie di Bertoldo) satira politica, che la prosa agrodolce dello stizzoso onagro fiorentino. La messa in ridicolo, per esempio, dell'illustrissimo re di Grecia, è quanto di piú sottile e politicamente raffinato possa mai immaginarsi. Ma la madre Ellade bisogna che non sia troppo schizzinosa, e non faccia il broncio per cosí poco. Piuttosto mi meraviglio che non sia ancora saltato fuori nessun babau del fronte interno a protestare contro l'ignobile scempio a cui soggiace la nostra Italia.

Ricordate la formidabile polemica scatenatasi a proposito di un auto-corrispondente dell'«Idea nazionale», che attribuiva a una delle tante Zeitungen la boutade dei briganti calabresi e dei mandolinisti napoletani, e gli agili ricami che vi tesserono e che tutt'oggi tessono intorno tutti gli umoristi a corto di spirito? Ebbene, Gil Blas dev'essere un tedescofilo, un neutralista camuffato con la pelle del leone, e la sua maggiolata non può essere altro che uno svergognato tranello per far scivolare il delicato piedino dei mangiatori di panico. Ci fa meraviglia che proprio noi si debba essere i primi a trarlo alla gogna e che la sensibilità da educanda dei nostri franchi tiratori, i quali s'impennano per una innocentissima sinfonia di Wagner che non paga neppure i diritti d'autore, non abbia strillato, come deve fare ogni brava oca che custodisca il Campidoglio. Immaginate, infatti, che l'Italia nell'ultimo quadro viene raffigurata sotto la fattispecie di una folla di allegri chiassoni che ballano a suon di nacchere, di tamburelli e di odiosi mandolini!

Ma noi siamo piú longanimi di tutti gli sparafucili presi insieme. Ci fa schifo tanto la grottesca allusione italo-tedesca della reciproca fine ugoliniana, quando la sguaiata rappresentazione dell'Italia Karneval-Nation, coi cittadini che sulle pubbliche piazze si abbandonano alla piú sfrenata allegria, e trovano panglossiamente che questo è il migliore dei tempi possibili. Ma non abbiamo la malinconia di pretendere da una rivista la serietà di un quaresimale. Maggio, non sei tu il mese degli asini e delle chitarre sentimentali al chiaro di luna?

(10 maggio 1916).

TABÙ

Non toccare i padroni di casa! Dovremmo scrivere in caratteri cubitali quest'avviso in tutte le pareti dei nostri locali, in capo al letto e nei fazzoletti da naso, e persino nelle unghie, per averlo sempre presente, sempre minaccioso innanzi agli occhi. Riceviamo fasci di lettere di inquilini che si lamentano, che denunciano soprusi, che citano fatti specifici. Mettiamo da parte (archiviamo anche noi) per il domani. Ma se per nostra disgrazia, quando siamo sicuri per garanzie ineccepibili, diamo luogo ad una protesta, si aprono le cateratte del cielo, e dovremmo trasformare la nostra pagina in un manuale di epistolografia.

Esiste un decreto luogotenenziale che fissa certe norme per i fitti degli alloggi dei richiamati. Se ne aspetta un altro, e dovrà pur venire, come è venuto in Francia, che liquidi tutte le pendenze e ponga l'ordine nell'attuale squilibrio. I padroni di casa fiutano già che questo secondo decreto taglierà, almeno in parte, i loro profitti, e cercano di premunirsi. Intanto è incominciata la via crucis degli esonerati, che potendo essere richiamati da un momento all'altro, non trovano piú chi voglia dare albergo alle loro famiglie. Ma non è tutto. Bisogna frequentare per qualche ora le sale di una qualsiasi conciliatura per sentirne delle belle.

Un padrone di casa accetta senza parlare i mezzi fitti; ma siccome molti inquilini non si curano di domandare la ricevuta per pagamenti di piccole somme, nel suo registro segna come pagato un mese ogni due, e poi cita per totale morosità negli ultimi mesi. Il galantuomo non ruba, evidentemente, perché non si appropria di un centesimo, e fa condannare il convenuto che ingenuamente s'è fidato della mala bestia. Un altro, vecchio mandrillo, cerca trovare dei compensi al suo attendere, nelle grazie di una giovane moglie di un combattente; ne ottiene una sdegnosa ripulsa, e non potendo far sgombrare per morosità, giustifica la sua decisione con i... cattivi costumi della convenuta. Un altro, persuasissimo che i crediti realizzati durante la guerra non saranno mai pagati dagli inquilini, e che lo Stato, quando provvederà direttamente come in Francia, farà molta tara, convince le sue vittime ad accontentarsi di un piccolo sconto ed a pagare l'intero importo del fitto. E naturalmente le buone massaie, che si spaventano al pensiero dei debiti che si vanno accumulando, accettano.

Cosí i proprietari di case fanno i loro comodi sacrificandosi per alleviare il malessere diffuso specialmente negli strati piú umili della popolazione. Ma guai se uno si lamenta e protesta; viene posto immediatamente fuori della porta e, se è militarizzato, è sicuro di non trovare nessun altro patriota che voglia accoglierlo nei suoi edifizi. Il proprietario di casa è diventato tabú, divinità collerica e illogica che quando la si nomina, si vendica ciecamente colpendo all'impazzata. Ma qualche volta non trascura di dettare al suo segretario una letterina per il giornale, tanto per cercare di rendere note le sue benemerenze e i suoi dolorosi sacrifizi; non è vero, caporale Luigi Grassi?

(12 maggio 1916).

IMPALUDAMENTO

È stata sempre una gloria dei comuni dell'Alta Italia l'aver saputo mantenere, anche attraverso il processo di accentramento statale degli ultimi cinquant'anni, una relativa autonomia. Essa era negli uomini, se non nelle cose e nelle leggi; negli amministratori, che hanno quasi sempre avuto la coscienza del loro dovere civico, della responsabilità che assumevano accettando le cariche cittadine.

È cosí che, a malgrado delle condizioni sempre precarie della economia generale nazionale, nel settentrione si è raggiunto un livello di vita che è pari a quello degli Stati piú progrediti, e la terra si è venuta organizzando e la pianura padana è diventata un'immensa fucina di produzione intensa. Lo Stato liberale ha come massima di non intervenire mai direttamente negli interessi strettamente locali. Lascia all'iniziativa dei singoli l'eccitare volta per volta a fare ciò che è necessario, a intervenire con i suoi mezzi piú potenti, piú vasti, per colmare le lacune, per fare ciò che i privati e i comuni da soli non potrebbero. Nel Medioevo la pianura padana era un immenso acquitrino ma, per usare una frase del De Sanctis, la palude era piú nei cervelli che nel territorio. Bonificati quelli, anche questo fu bonificato, e le acque che prima apportavano la malaria e la pellagra furono disciplinate e divennero sorgente di ricchezza e di benessere.

A Torino l'amministrazione Rossi sta compiendo l'opera inversa. Sta di nuovo impaludando i cervelli. Pare di essere cittadini non di una città moderna con quasi mezzo milione di abitanti, ma di un comunello delle Calabrie o della Basilicata. Non siamo arrivati a sentire il fatidico grido: Piove, governo ladro!, ma poco c'è mancato. Il sindaco ha avuto la faccia fresca di annunziare cosí, semplicemente, che era possibile e bisognava deprecare che la nostra città rimanesse di colpo senza grano e senza pane, e a breve scadenza, fra due o tre giorni. Nessuno gli ha domandato conto del suo operato, del modo col quale si era servito del suo mandato di tutore delle necessità piú urgenti degli amministrati.

Nessuno ha domandato conto a questo volgare reliquiario delle peggiori qualità dell'italiano tradizionale a che cosa erano dunque servite le sue frequenti gite a Roma, i suoi colloqui di servitore blasonato con tutti i suoi alti protettori, se cosí d'un tratto la città doveva rimanere priva del suo principale mezzo di sostentamento, mentre altrove (e lo disse egli stesso) ciò non era avvenuto o si era ben lontani dall'aver preoccupazioni di tal genere.

Il governo ha avuto responsabilità iniziali gravissime, e dovrà a suo tempo risponderne. Ma ormai siamo entrati in un periodo di assestamento, e degli squilibri parziali sono responsabili solo gli amministratori locali. La cecità con la quale il governo ha operato lasciando che l'Italia fosse sacrificata di fronte agli altri paesi per i bisogni annonari, ha avuto ed ha tuttora riscontro nella cecità della giunta Rossi, che ha lasciato sacrificare Torino di fronte alle altre città italiane. Non crediamo troppo alle vittime, in questi casi. Troppi altri casi abbiamo visti! Sono già trascorsi cinque mesi, e l'azione giudiziaria contro le società del gas non è stata ancora iniziata; anzi queste società muovono ora lite al comune per essere pagate integralmente.

Il Palazzo di Città è diventato una palude miasmatica che è necessario bonificare. Il cervello di Teofilo Rossi, ottenebrato dalle emanazioni alcooliche dei suoi stabilimenti, minaccia di guastare il cervello di tutta la cittadinanza. Siamo in istato di guerra, e il tardare significa essere affamati. Ma gli storici codini inorridiscono nel narrare che durante la Rivoluzione francese gli amministratori inetti venivano ghigliottinati.

(14 maggio 1916).

SI DOMANDANO LUMI

Non sappiamo cosa sia accaduto, ma certamente qualche cosa è accaduto. Perché il nero non può diventar bianco e viceversa solo per opera dello spirito santo. Il fatto è che il grido di dàgli all'untore! è stato emesso, è stato raccolto, ha avuto degli echi e pare continuerà ad averne. L'untore è il prefetto Verdinois. Egli era arrivato a Torino col capo circonfuso dell'aureola dell'arcangelo vendicatore. Novello Ercole, avrebbe dovuto pulire le giolittiane stalle (stalle lo sono certamente) di Augia, purificare, moralizzare. La «Gazzetta» era arcisoddisfatta; il «Momento» e la «Stampa» sembrava a tutti masticassero amaro. Un'èra nuova si preparava: èra di giustizia, di equità distributiva, di arresti di sovversivi, di amichevoli strette di mano fra questurini e rivoluzionari interventisti.

Or che succede, perché si rompa l'idillio? Quali fatti sono successi che a noi sfuggono, ma che possono avere avuto tanta importanza da determinare una cosí repentina levata di scudi? Un consigliere comunale che è diventato la lancia spezzata dell'amministrazione Rossi, che scrive nell'edizione serale di un giornale cittadino (heu pudor!, e perché non nell'altra?) dei soffietti pieni di rugiadosa untuosità, potrebbe darci dei lumi in proposito. Potrebbe spiegarci come mai il prefetto da salandrino sia diventato di colpo d'un giolittismo piú nero del carbone, come mai sia possibile fare delle sottili distinzioni fra prefetto, governo e giunta municipale e scaraventare tutta addosso al primo la responsabilità della mancanza di grano a Torino, mentre gli altri due sarebbero candidi di colpe come agnellini.

Verdinois salandrino o giolittiano per noi fa lo stesso. Il cambiamento di etichetta non può far cambiare il contenuto del barattolo, che rimane allo stesso modo repulsivo. È verissimo che Verdinois se ne frega di tutto e di tutti. Desidera soprattutto rimanere tranquillo. Probabilmente non sa come cavarsela fra le necessità salandrine del momento e le eventualità del futuro, che potrebbe, chi sa, anche essere giolittiano. Il che non gli impedisce di fare discretamente il suo mestiere di poliziotto, se non sa fare quello di amministratore.

Ma questa commediola che vediamo recitare ci interessa, stuzzica la nostra curiosità; l'abbraccio mandato da Verona a chi primo mosse la pedina, ci ha commossi fino ai precordi. Ed è a costui, a questo consigliere comunale in partibus infidelium che domandiamo per favore sul suo quotidiano, non un articolone ma una letterina, una semplice e modesta, garbata letterina, come egli sa scriverne tante, dove ci siano i sospirati lumi, che ci rischiarino e salvino l'anima nostra dal peccato mortale.

(15 maggio 1916).

PER UN MANDARINO DELL'UNIVERSITÀ

Cari amici,

lasciate che oggi sia io a riempire questo angolo della vostra pagina. Da qualche mattina mi alzo da letto con una maledettissima, carducciana voglia di fare a pugni con qualcuno. È forse la primavera che sveglia anche nel mio sangue coagulato di pedagogo dei fermenti impuri, degli stimoli irresistibili di azione diretta.

Voglio prendere per il petto l'illustrissimo prof. Cian. Voglio sballottarmelo ben bene, questo noioso cultore del pettegolezzo letterario, questo epistolografo da bocca del leone, questo sterile ciucciariello che non essendo riuscito a eiaculare dal suo cervellaccio di struzzo altro che noiosissimi quintaliferi volumi su Dieci anni di vita di P. Bembo (800 pagine), su l'influsso del teatro spagnolo in Italia (900 pagine), sul veltro dantesco (750 pagine) ecc., cerca di procurarsi nomea e benemerenze denunziando alle autorità scolastiche tutti quei professori che hanno il torto di voler fare solo il loro dovere di insegnanti e che non vogliono intrufolarsi nella politica militante per cogliere il sospirato alloro del patriottismo.

Altri due professori ora cerca d'infamare il mandarino dalla chilometrica coda, due colleghi del ginnasio-liceo Cavour. Uno, colpevole di aver redarguito gli scolari che menavano gazzarra in classe; ma la gazzarra era intonata sull'inno di Mameli, quindi delitto di lesa nazione e accusa di cercare di intepidire l'entusiasmo. L'altro già collega in nazionalismo, poi germanofilo e neutralista, ed ora colpevole di interiezioni ed affermazioni eterodosse: un seminatore di panico insomma. Cian vigila, giudica e manda come Minosse della Divina Commedia, che egli diffama dinanzi alla scolaresca con le ridicole salivazioni della sua grossa erudizione da tedescaccio legnoso e col suo gusto da stenterello friulano. Guardatelo quest'uomo che prima della morte di Arturo Graf si precipitava a Torino ad ogni incrudimento dell'infermità dell'illustre maestro, sentendo puzza di cadavere e volendo assicurarsi che l'ipoteca da lui posta alla successione non corresse pericolo. Vedetelo sgambettare su e giú dal Fiorina a via Po, a via Giovanni Berchet, a via Mazzini come un bracco in traccia di selvaggina per la sua carica di presidente del comitato per lo spionaggio interno. Non porta nel suo nome friulano il marchio di fabbrica, questo nato non per l'incrocio di un vecchio iddio della patria mescolatosi in amore con una fata del settentrione, ma da un mancato aborto procurato di una donna violata da uno sbirro del vecchio imperatore d'Austria?

I suoi scolari lo sopportano, e ridono della sua fatuità di commentatore del Cortegiano di B. Castiglione, i suoi colleghi quando parlano di lui, accompagnano il suo nome col grazioso nomignolo di asino. Ma il vecchio troupier della bagola tira dritto nell'alta missione che si è proposta di aduggiatore di cervelli e di denunziatore di onesti insegnanti laboriosi, che o sono seguaci di un'idea, come il Sanna denunziato nel 1912 per il suo antilibicismo, o il Ciaffi e il Lemmi denunziati ora per qualche sfogo incongruente e perfettamente innocuo. Gian Pietro Lucini ha scritto una volta che il nome di Cian gli si accompagnava nella fantasia costantemente con l'immagine di una cimice; a me ritornano ora in mente quelle quattro righe e il ribrezzo per l'animaletto immondo riesce a calmare il sussulto del mio sistema nervoso. Ciò che volevo ottenere con questo sfogo.

Saluti dal vostro

Pedante esasperato

(17 maggio 1916).

L'AIO SENZA IMBARAZZI

Filippo Crispolti ha della storia una concezione retorica molto pittoresca. Immagina le nazioni in guerra come i clienti della corsia di un ospedale sperduto in una foresta del Congo, i quali, poveretti, ignorano l'esistenza di un medico miracoloso, taumaturgico, che potrebbe ridare loro la salute. Il medico non può andar fino a loro perché vale per le visite mediche una regola che dice: medicus non accedat, nisi vocatus; gli ammalati ignorano la sua abilità, e non lo chiamano. Devono dunque morire per mancanza di respiro? Mai ciò fia! Un marchese di buoncuore si fa cozzone intermediario tra i due, e cosí acquista gloria in terra e beatitudine in cielo.

Con questo apologo da aio senza imbarazzi che a tutto trova risposta per soddisfare le nascenti curiosità dei suoi scolaretti, il Crispolti crede aver dimostrato la ridicolaggine del dilemma da noi postogli: o è vera la grande autorità morale del papa — e allora essa si imporrà da sé agli uomini di governo; o non è vera — allora non c'è ragione perché il papa venga invitato da essi al congresso della pace.

Il fatto stesso che il pio marchese abbia ridotto gli enormi fatti storici che si stanno svolgendo alla risibile parodia su riportata, dimostra come egli non abbia capito il valore del nostro dilemma che è tirato diritto diritto dal piú rigido realismo storico che abbia mai trovato la sua giustificazione nel piú recente idealismo filosofico di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile. Non capisce, il nuovo crociato dell'imperialismo spirituale latino-guelfo, che il papa quale egli se lo immagina è un'astrazione, non un dato storico: astrazione di una morale cristiana, o cattolica, o gesuitica, che aleggia su tutta l'umanità, senza che con esattezza possa dirsi in quali forze attive precisamente s'incarni, di quali mezzi efficaci possa servirsi per imporre e fare osservare i suoi comandamenti.

Unica base di questa autorità possono essere le coscienze individuali. E se esse non impongono con una voce sola, collettiva, enorme, irresistibile, ai governanti l'assunzione del papa a supremo arbitro della pace, ad unico genuino assertore delle loro aspirazioni, dei loro voti, vuol dire che questa tanto strombazzata autorità morale è un mito, è una favola illusoria e grottesca, di cui Filippo Crispolti s'è fatto il gratuito e ridicolo profeta. Perché egli, come ogni credente (facciamo l'ipotesi piú benevola) confonde il dover essere con l'essere. Misura l'intensità della fede in base alle statistiche dei censimenti; questi affermano che almeno la metà piú uno dei combattenti sono cristiani, quindi ispirantisi alla cattedra di S. Pietro; solo per questa ragione democratica del numero, amorfo, incosciente, inutile, il papa dovrebbe essere l'autorità massima, il giudice supremo.

Piú senza imbarazzi di cosí, l'aio Crispolti non potrebbe essere. In fondo egli è un pragmatista (sebbene ciò puzzi maledettamente d'eresia), un credente nella volontà di credere. «Vogliamo credere che il papa sia» ecc. ecc., e il papa immediatamente è ciò che noi vogliamo...

Ma questo gioco si fa con i maori o gli ottentotti. Non non vogliamo credere. E riproponiamo il dilemma, per mettere in imbarazzo l'aio casista.

(18 maggio 1916).

VANITÀ, VIRTÚ CARDINALE

È veramente esasperante che non si riesca una volta ad andar d'accordo con Teofilo Rossi. Ne siamo veramente desolati: tanto piú che vorremmo riuscire a sorprendere il segreto che gli permette di essere sempre cosí ilare, cosí cuorcontento, cosí riboccante di saporose virtú paesane come una pagnottella gravida di mentastro e di strutto appena sfornata da una contadinotta piena d'appetito.

È sicuro di sé, il buon uomo, certo di rappresentare una grande parte nel mondo, e la vanità lo nutre. La vanità è la pianticella che con piú amore egli coltiva nel chiuso orto della sua coscienza, innaffiandola quotidianamente con abbondanti cascatelle di metallici dischi e di pergamene leggiadramente miniate. Essa gli diventa la leva che muove l'universo. Se ne serve nelle sue funzioni sindacali, come ultimo rimedio, come mezzo estremo. Per la sottoscrizione — dopo un anno di frasi reboanti, di pappardelle melense ispirate alla letteratura che corre le bancherelle dei libri usati — ha trovato il rimedio dell'albo d'oro, della pubblicazione cortigiana in cui sfileranno facendo bella pompa di sé tutti i sottoscrittori, ai quali sono state mandate per rincalzo nuove circolari che promettono gloria e fama a caratteri vistosi per quelli che maggiormente si distinguono.

E può darsi che Teofilo Rossi, in tal materia giudice competente quant'altri mai, abbia ragione d'essere persuaso che la vanità possa sui ricchi torinesi piú che il «senso del dovere». Si tratta nientemeno di «far conoscere agli italiani, nella prima ricorrenza dell'anniversario della dichiarazione di guerra, la meravigliosa attività patriottica torinese nell'assistenza civile e in tutte le sue svariate forme in quest'anno memorabile». Ed i torinesi ci tengono ad ogni forma di primato di fronte a tutte le altre città d'Italia, sebbene non sentano affatto la voluttà di procurarsi questo primato col sacrificio.

Ecco, noi siamo piuttosto dell'avviso che questa meravigliosa attività fosse conosciuta dalle famiglie dei soldati di Torino ed in forme concrete, in tanto danaro sonante. Vorremmo che fosse pubblicato e diffuso tra le famiglie dei sussidiati un libro in cui accanto ad ogni offerta fatta fosse segnato in cifra l'offerta che ciascun sottoscrittore avrebbe potuto e dovuto fare, in base ai dati catastali e fiscali. Vorremmo che fosse dimostrato come al sacrificio di sangue abbia corrisposto un sacrificio adeguato di reddito da parte della grassa borghesia. Che fosse diffuso il senso del dovere che si ha verso le famiglie dei combattenti di sostituire in qualche modo le braccia che non possono lavorare e produrre. Ma è questa una nota stonata nella ilare e sbracata comprensione delle proprie funzioni che ha Teofilo Rossi.

Tra la vanità e il dovere c'è un abisso incolmabile, ed il Rossi aborre dai salti nel buio. Tanto piú che dovrebbe cominciare da se stesso e non si può domandare a nessuno il suicidio per dissesti morali.

(20 maggio 1916).

AUDACIA E FEDE

«Io parlo audacemente e perché? Perché credo». Le parole di Gerolamo Savonarola servono di motto al giornaletto che dal suo nome si intitola. Parlare audacemente è sempre una bella cosa, quando l'ingegno dà alle parole un contenuto, e la forza morale che viene dalla convinzione sincera dà loro dignità di apostolato. Ma i giovani che compilano il «Savonarola» (alcuni di essi sono nostri amici personali e perciò ci permetteranno una certa rudezza di linguaggio) non ignorano anche che spesso l'audacia è prodotta da una completa incomprensione dell'argomento che si prende a trattare. A della gente che insiste continuamente sulla fede, sulla verità, sulla sincerità, non è permesso sfiorare con leggerezza offensiva idee e fatti che involgono la fede e l'entusiasmo di altri; perché allora l'audacia diventa impudenza, prosopopea, sopportazione, qualità tutte che non rientrano precisamente nella tradizione savonaroliana.

Che abuso di vecchi clichés in un articolo del loro premier che si occupa di socialismo, che tanfo di cenci da rigattiere! Melensaggine nell'espressione dei luoghi piú comuni, completa deficienza di ogni nozione teorica e storica del movimento socialista. Concezione idilliaca del socialismo che dalla «bocca di Gesù ha tolto le parole di carità e di fratellanza», dopo averle spogliate della loro virtú religiosa.

Storia: «Durante cinquant'anni di socialismo, il popolo quali progressi ha fatto? Economici: qualcuno. Intellettuali: pochi. Morali: nessuno». E via di questo audacissimo tono. Tanta scempiaggine ci sbalordisce. Potremmo ritorcere le domande adattandole al cristianesimo, e con risposte analoghe dimostreremmo solo la nostra insipienza. Ma non vogliamo incrudelire con chi, nel suo candore di neofita zelante, è cosí giudice delle cose nostre: il candore è troppo spesso sinonimo di minchioneria, e non bisogna essere severi coi... candidi.

L'augurio che conclude la cicalata innocente è la prova migliore della incomprensione di questo giovinotto: il socialismo dovrebbe diventare cristiano. Ciò che sarebbe lo stesso che dire: il quadrato dovrebbe diventare triangolo. Perché tutta questa gente non si è accorta, essa che a proposito, e piú spesso a sproposito, parla di valori spirituali, che il socialismo è precisamente la religione che deve ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che è anch'esso una fede, che ha i suoi mistici e i suoi pratici; religione, perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell'uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale. Il nostro evangelo è la filosofia moderna, cari amici del Savonarola, quella che fa a meno dell'ipotesi di Dio nella visione dell'universo, quella che solo nella storia pone le sue fondamenta, nella storia, di cui noi siamo le creature per il passato e i creatori per l'avvenire. E i nostri maestri hanno volgarizzata questa filosofia, l'hanno assunta come guida dei nostri destini, e ci hanno insegnato con logica ferma che il popolo, di cui tanto parlate voi, è un'astrazione sociologica, che la carità vuol dire elemosina, e non si fa elemosina ai forti, ai conquistatori, che l'amore e la fratellanza devono solo significare solidarietà di classe, se vogliono essere fecondi di risultati. Perché i socialisti, il proletariato non sono degli infelici, dei mendichi, degli spiantati, come immagina la fantasia democratica cristiana. Sono degli audaci lavoratori di un nuovo edificio sociale, di una nuova civiltà, che non domandano aiuto e pietà a nessuno, perché hanno la certezza di vincere con le sole loro energie. Non è una dottrina di schiavi in rivolta la nostra, è una dottrina di dominatori che nella fatica quotidiana preparano le armi per il dominio del mondo.

(22 maggio 1916)

GLI SCOPRITORI

Un mese di soggiorno in Sardegna: banchetti, bicchierate, strette di mano, entusiasmo per l'italiano illustre che ha fatto il sacrifizio di portare la sua preziosa persona fra i briganti, i mendicanti, i pastori vestiti di pelli dell'isola. E l'italiano illustre ritornato in terra ferma si atteggia a Cristoforo Colombo e scopre qualcosa, tanto per dimostrare che non ha perduto il suo tempo.

Anche Mascagni non ha perduto il suo tempo, e sotto i portici di via Po ha versato nella capace vescica di G. Corvetto la piena delle sue impressioni; e il risultato fisiologico lo abbiamo visto stemperato in due colonne della «Stampa». Tutte le competenze, si è trovato ad avere l'illustre compositore! Tanto è vero che può giudicare dei terreni, «splendidi, sterminati» (vedi manuale di geografia: 24 000 kmq) «gente sana e saggia» (hanno applaudito, quindi...), «buoni costumi, belli e robusti abitanti», che hanno il torto di essere pochi, in un terreno cosí ferace, quantunque il piú imbecille sociologo sappia che due terzi dei sardi sono emigrati perché il terreno (almeno cosí come il patrio governo, con la sua legislazione doganale, impone sia coltivato) non è poi tanto ferace.

E Mascagni fa anche opere buone: come uno dei tanti vescovi che la curia manda nei villaggi per rappacificare i partiti divisi da una vendetta di sangue (e per la verità se ne conta una ogni venti anni), egli mette la pace fra due partiti che a Cagliari si dilaniano e arrivano persino, in presenza al forestiero, a prendersi a schiaffi. Meno male che a Cagliari ci sono i questurini, che non permettono di andare ai banchetti con lo schioppo, altrimenti, dio sa che strage. L'architettura sarda, Mascagni ne è entusiasta; solo il timore di dire bestialità (benedetto timore!) impedisce al cronista di riprodurre le sue parole, che pure avrebbero rivelato anche ai sardi ciò che non hanno mai avuto la possibilità di vedere: l'esistenza di un'architettura sarda (eccettuati i nuraghi che un altro scopritore, l'on. Giovanni Rosadi, studioso di storia dell'arte, confondeva con i briganti, tanto per dire di averli visti).

Naturalmente chi, senza timore di dire bestialità, infila per due colonne di queste piacevolezze, appartiene a quella vasta tribú dai delicatissimi nervi, cui urta e fa sobbalzare ogni improprietà di linguaggio dei Baedecker o di tutti i libriccini e librucciacci che gli stranieri pubblicano sull'Italia. Ma le bestialità dette dagli italiani sono rivelazioni... dei tesori nascosti.

Ecco: i sardi passano per lo piú per incivili, barbari, sanguinari, ecc., ma non lo sono evidentemente quanto è necessario per mandare a quel paese gli scopritori di buona volontà. Un ufficiale, andato a Cagliari nel 1910 per reprimere uno sciopero, compiange le donne sarde destinate a divenire legittime metà degli scimmioni vestiti di pelli non conciate, e sente in sé (testuale) ridestarsi il genio della specie (quella non vestita di pelli), che vuole porsi all'opera per migliorare la razza. Giuseppe Sergi in quindici giorni si sbafa una quantità di banchetti, misura una cinquantina di crani, e conclude per l'infermità psicofisica degli sciagurati sardi, e via di questo passo. Mascagni scopre gli schiaffi e i pugilati dei partiti sovversivi, pur affermando la bontà, la saggezza, ecc. ecc. Ma non potrebbero i Corvetto divertire in altro modo il pubblico? Ci sono tante biondissime cagnette sotto i portici, sulle quali scrivere interessantissimi bozzetti.

(24 maggio 1916).

ATTORNO AD UNA VESTE ROSSA

Annuncia il «Momento»:

Lunedí mattina il cardinal Cagliero ricevette nella casa di Valdocco la visita di S. E. Boselli, ministro di Stato e collare dell'Annunziata, presidente onorario del comitato pel monumento a Don Bosco. E nello stesso giorno il nostro sindaco sen. conte Teofilo Rossi, in automobile scortata da valletti municipali, recavasi egli pure in Valdocco a rendere ufficialmente omaggio, in nome della città di Torino, all'illustre piemontese che in tanta parte del mondo svolse la sua provvida attività, propagando con la fede cristiana il buon nome delle terre subalpine ed italiane.

Il sindaco, com'è noto, non aveva potuto trovarsi presente al ricevimento del cardinale alla stazione di Porta Nuova, essendo sabato scorso trattenuto a Roma dagli impegni della sua carica.

Veramente è quasi inutile perdere ancora del tempo ad annotare gli atti di servilismo con i quali «aria ai monti» tenta trattenersi il traballante seggio, e poi sentiamo anche noi, e anzi certo piú noi, un profondo sdegno per questo avvilimento, nel quale è trascinata, giorno dopo giorno, la dignità della rappresentanza civica e la città nostra. Eppure gutta cavat lapidem; seguiamone pazientemente una al giorno, verrà forse il momento in cui la misura sarà colma.

Chi non è andato ad ossequiare Teofilo? A chi non ha offerto un ricevimento, un banchetto, un discorso? Dove non è corso affannoso e traballante in cerca di un voto, d'un plauso, d'una decorazione? E come poteva quindi mancare alla gonfiatura clericale di questo illustre, ma non meno sconosciuto monsignore? Lo hanno salutato all'arrivo in Italia, lo hanno ossequiato durante il viaggio, lo hanno ricevuto in pompa magna a Porta Nuova, continuano oggi a fargli visita, e dimenarglisi intorno, tanto che c'è da domandarsi in verità chi sia, che abbia fatto di cosí geniale, di cosí straordinario il cardinale Cagliero. Probabilmente non lo sa neppure «aria ai monti». Ma è necessario che cosí sia.

Piú grande è la rovina interna della fede e dell'idea cristiana, maggiori sono le magnificenze esteriori. Già nella storia, altre volte fu cosí. Mai titoli numerosi, e sonanti, mai tanta pompa solenne di abbigliamenti, mai tanta rigidezza di etichetta, tanto stuolo di cortigiani, ed appariscenze di cortigianerie ebbero gli imperatori bizantini, come quando nulle erano le autorità e la possanza loro e l'impero infracidito attendeva la tempesta per il crollo.

Intorno ai rappresentanti ufficiali delle chiese si affolla ostentatamente riverente la borghesia. Forse può ancora dare la salvezza. Perché il marchese Crispolti già disse:

In terzo luogo si sentí che l'intervento di un altissimo potere morale avrebbe potuto contribuire a dissolvere la grande incognita del domani, ossia il contegno dei popoli nell'interno di ciascun Stato. Poiché non bisogna illudersi: se il conflitto odierno rappresenta il maggior esercizio dei poteri che i governi abbiano mai fatto, e la maggior prova di disciplina che le popolazioni abbiano mai dato; quando questa doppia tensione sarà allentata dal cessare della guerra, quando ai Liebknecht bisognerà pure restituire la libertà della parola e accorgersi che essi non sono cosí soli nei paesi come appariscono nei parlamenti, si vedrà tutta l'importanza di quella unica regola spirituale, di cui il papa è custode, che per mezzo dell'equilibrio cristiano salvi il giusto patriottismo dalla grande reazione pacifica contro gli imperialismi, e promuova la tranquilla giustizia fra le classi nella grande reazione proletaria contro la borghesia capitalistica, a cui si addosseranno le responsabilità del conflitto mondiale e dei suoi danni.

Ed il sindaco di Torino, che sente per l'aria l'addensarsi della bufera non ha esitazioni... Prevede e provvede.

(25 maggio 1916).

GIOCHI DI PAROLE

Non è lecito confondere Enrico Corradini con la plebe dei suoi seguaci. C'è in lui un elemento di grandezza, sia pure essa la grandezza del retore. Sentire i suoi discorsi magniloquenti, accompagnati da gesti, ampi e teatrali, ritmati su periodi rotondi che paiono chiusi in una solenne armatura come le ferree lasse delle canzoni di gesta, procura per lo meno lo stesso piacere che l'ascoltare le recite di un grande attore. Il pubblico esce di teatro un po' intontito con un gran vuoto nel cervello, ma sorridente, perché i sensi sono stati appagati, e l'organismo è tutto invaso da piacevoli sensazioni sonore, ottenute è vero (ma ciò poco importa) con l'assopimento dello spirito.

Unico spunto ideologico (un periodo in tutto) è stato l'accenno alle nazioni proletarie. «Le rivoluzioni internazionali avvengono per le nazioni giovani per lo stesso fine per cui le rivoluzioni nazionali (la parola piú appropriata sarebbe interne, ma bisogna concedere qualcosa alla letteratura) avvengono per le classi giovani, perché quelle, come queste, se ne approfittino per raggiungere la loro meta, o approssimarsene». È, questa di Corradini, una confessione (un'ombra di confessione, perché non fu mai sviluppata e organata) che è un pallido riflesso del marxismo. Si cerca di far rientrare la politica internazionale degli Stati entro gli stessi schemi che Marx aveva rivelato per la lotta di classe. Si cerca cosí di ritrovare anche per la borghesia un punto d'appoggio morale per le sue velleità aggressive: rendere queste logiche, portate dalla riflessione piú che dalle necessità contingenti della storia. Ma Corradini non è andato oltre l'enunciazione scheletrica della sua formula. Ogni tentativo di sviluppo lo porterebbe a contraddizioni e antitesi stridenti. Per non uscire dalla materia del suo discorso (glorificare la guerra dell'Italia), sarebbe difficile far rientrare la Francia e l'Inghilterra fra le nazioni proletarie, e tuttavia esse sono a fianco dell'Italia, che dovrebbe esserlo, e contro la Germania, che ha, a detta del Corradini, scatenato la rivoluzione. L'Italia, insomma, sarebbe proletaria, ma farebbe la crumira (per usare il frasario), pur facendo la rivoluzione. Labirinto di parole vuote di senso, perché vuota di senso è la costruzione del Corradini, impasto di vecchie concezioni positivistiche (nazioni giovani e vecchie, come gli alberi o le bestie) e di barlumi di idee nuove (lotta di classe, antitesi sociali e nazionale, vigor di vita, unica giustificazione morale, ecc.)

Classe giovane e nazione giovane non possono sussistere insieme entro lo stesso confine geografico. L'una dovrebbe escludere l'altra, perché non può immaginarsi una nazione giovane senza una borghesia giovane, e questa con un proletariato vecchio. Il gioco di parole che risulta solo dall'accostare insieme i termini in questione, è un riflesso del vuoto del cervello che i termini ha creato. E Corradini sa creare molte e sonore parole, ma esse non bastano a colmare il vuoto del suo cervello.

(26 maggio 1916).

LA NOVELLA DI S. ANTONIO

Una storia della novellistica in Italia. Quante cose si imparano da questi pesanti libri d'erudizione, irti di note e tutti spinosi di richiami, di nomi, di rimandi. S'impara, per esempio, come nell'alto Medioevo una piccola vita del Budda tradotta in latino diffuse attraverso gli strati popolari la notizia che un nuovo gran santo era nato, e che il tempo dei miracoli era ritornato. E di questi miracoli di S. Giosafat (cosí fu battezzato il perfetto illuminato dell'India) si citavano esempi e si fissavano i luoghi, ingenuamente, finché la dottrina ecclesiastica, posta in allarme, non intervenne, facendo rientrare nel limbo e Budda e il suo martirologio.

Era facile determinare anche nel Medioevo, in questa età che mancava della nozione esatta del tempo e dello spazio perché il mondo non era ancora stato ricoperto della rete fitta dei meridiani, dei paralleli e dei fusi orari, che Budda era vissuto cinquecento anni prima di Cristo e non poteva quindi essere un testimone della fede. Eppure la leggenda di S. Giosafat fece strada e trovò chi l'accolse.

Pensate ora se possa fare meraviglia il sapere che a Torino c'è chi crede ed è pronto a giurare sul miracolo nuovo di S. Antonio. Il colle dei Cappuccini, i cui misteri gaudiosi non hanno ancora trovato il loro cronista (e noi siamo troppo alieni dall'alimentare le manie degli scandaletti di sacrestia per diventarlo), è il luogo santo dove nel robusto e spregiudicato Piemonte si è rivelata la voce di dio. S. Antonio è disceso dalla cornice che lo contiene, si è presentato a dei soldati ed ha annunziato loro per il 13 giugno la pace.

Lo stesso fatto si legge essere successo a Padova e a Monfalcone.

La macchia d'olio si estende: la stessa forza imponderabile che di bocca in bocca portava nel Medioevo la notizia dei miracoli di S. Giosafat, porta ancora nel tempo nostro, disprezzando il giornale e il telegrafo, la notizia del miracolo del santo di Padova. E dove il terreno è propizio germina il fatto nuovo, si ripete il miracolo e la fede, cosí almeno si dice, se ne rafforza.

Ma che aspetta l'autorità ecclesiastica ad intervenire? Il 13 giugno è vicino, e le scadenze a data fissa sono pericolose per i santi come per i banchieri. La cambiale che S. Antonio ha acceso cosí imprudentemente, non può trovare avallanti nella curia. Budda fu detronizzato perché era facile documentare la sua esistenza cinquecento anni prima di Cristo; S. Antonio può essere detronizzato perché il 13 giugno non è molto lontano e il miracolo, per essere tale, non può subire dilazioni.

Noi ci prepariamo ad aggiungere un capitolo alla storia della diffusione della novella in Italia.

(29 maggio 1916).

SECONDA LETTERA AL NOSTRO PEDAGOGO

All'avv. Arturo Brusasco sono stato in debito di una risposta; ma fui costretto a tacere dal desiderio di non guastare la nostra amicizia. Perché avrei dovuto fargli notare come né io, né alcuno dell'«Avanti!» abbia proprio bisogno di prendere lezioni di educazione dal direttore della «Gazzetta dei tribunali», che si è dimostrato tanto impermalito del riuscitissimo profilo fisico-morale che di lui avevo tracciato. Ma oggi mi capita una buona occasione per rivolgermi nuovamente all'equanimità sua.

L'«Avanti!» considera ancora l'avv. Brusasco come il suo pedagogo, come l'amico che ne può frenare i bollenti, qualche volta intempestivi ardori, ed al quale si può chiedere un buon consiglio gratuito. Noi siamo ancora dei giovani, ed è bene che qualche volta un vecchio compia un'opera benefica di tutela e di rimbrotti. Ho avuto ieri una tentazione tremenda; ho per qualche minuto ruminato le ingiurie piú atroci, ho pensato a coniarne delle nuove, delle colossali per scaraventarvele qui Sotto la Mole. Poi ho voluto calmarmi. Mi sono chiesto se ne valeva la pena, se l'omuncolo meritava tanto onore. E poi mi sono ancora domandato: che ne direbbe l'avv. Brusasco? Ed ho deciso di chiedergli un parere preventivo. Ecco di che si tratta: un giornalucolo settimanale, che non si sa di quale partito sia l'espressione, né di quale idealità precisa sia il banditore, né di quali fondi viva, scrisse nel suo numero di sabato u. s. a proposito della promozione del poliziotto Intaglietta:

È doveroso ricordare che a lui, al suo consueto sangue freddo, si deve se in quel pomeriggio di maggio, in cui avvenne l'espugnazione del Forte Chabrol di corso Siccardi, il sangue non ebbe a scorrere in maggior copia.

Noi lo ricordiamo ancora pochi minuti prima dell'assalto, risoluto ma calmo, dare gli ultimi ordini, mentre dalle finestre del rosso palazzone le rivoltelle crepitavano sulla cavalleria e sulla forza pubblica: pochi minuti dopo alla testa dei migliori funzionari della questura di Torino egli irrompeva per primo nella Camera del lavoro, accolto da numerosi colpi di rivoltella, riuscendo a troncare con quell'atto d'audacia necessaria, il movimento rivoluzionario alle sue radici.

Che Intaglietta sia stato promosso a me importa un accidenti; che ci sia lui nella sezione Monviso o ci sia Carassi, fa proprio lo stesso; l'uno vale l'altro, e tutti e due, quando possono, ci fregano che è una meraviglia; che all'Intaglietta sia stato applicato il sistema del promoveatur ut amoveatur, è un affare che riguarda lui, la questura ecc... noi no; ma che ci sia un giornalista che scriva di quelle affermazioni...! Senti, caro Brusasco, non ti pare che avrei proprio ragione, almeno questa volta, di dire che Riego Ciriola Tupin è un mascalzone in piena, assoluta malafede? Chi non sa ormai a Torino che le rivoltellate crepitanti sulla forza pubblica non sono mai esistite, che non un solo agente o soldato fu ferito intorno al palazzo di corso Siccardi, che il processone fu, con opportuni cavilli procedurali, messo a dormire perché la gonfiatura non poteva reggere al dibattito piú superficiale?

Quando oggi un giornalista, mentendo sapendo di mentire, continua a mettere in circolazione invenzioni (chiamiamole cosí) di tale fatta, che cosa devo, che cosa posso fare io? Dimmelo, pacato e cortese amico. Posso prenderlo a calci nel sedere, posso sputargli sul muso, posso staccargli le orecchie dalla testa? O mi conviene accendere tranquillamente la sigaretta, e le gambe distese sul divano guardare il fumo salire e dileguarsi, e pensare che cosí passano leggere e senza traccia le sciocchezze di Ciriola?

Dammi un tuo consiglio, o dolcissimo amico...

(30 maggio 1916).

IL SACRO CUORE DI GESÙ

Il «Momento» di lunedí ci annuncia che è stata «ricostituita» la sezione elettorale del Sacro Cuore di Gesú. È una bella notizia. Non c'è molto da scherzare sull'azione attivistica che vanno svolgendo i cattolici in quest'ora. Di fronte al flagello immane piegano le menti e vacillano i cuori, e gli uomini sentono vivo ed irresistibile il bisogno di aggrapparsi alla speranza di un'altra vita eterna, migliore di quella che venti secoli di cristianesimo hanno saputo dare all'umanità. Ed i preti fondano sul misticismo, rinascente dalla vigliaccheria collettiva, le loro speranze. A Crea, un magnifico colle dell'ubertoso Monferrato, e sul quale sorge, naturalmente, un santuario con una celebre madonna nera, si sono riuniti un bel numero di autorità, sindaci, deputati, sottosegretari di Stato, sottoprefetti, liberali, magari massoni, per decidere la erezione di una nuova cappella votiva. C'era anche Leonardo Bistolfi! Cosí, facendo pompa di amor patrio sviscerato in pubblico, dichiarandosi avversari della guerra nelle sacrestie delle campagne, sfruttando le circostanze, abili, gesuiti sempre, i clericali preparano le loro forze, che sapranno domani porre ancora una volta al servizio delle dinastie e delle classi dirigenti. Frattanto noi socialisti ci azzuffiamo, ed andiamo cercando chi piú dell'altro sappia pronunciare le parole piú vuotamente rivoluzionarie!

Ma non divaghiamo! Anche se il lavoro clericale è una cosa seria, la sezione elettorale del Sacro Cuore di Gesú è buffa! Perdonino le anime timorate, che per avventura leggessero queste righe, ma non ho potuto fare a meno di ridere leggendo quel titolo! È una scherzo del caso, capisco. Il giornalista che ne è responsabile non ne ha colpa. Tanto piú che lui, molto probabilmente, crede soprattutto al sacro cuore di Gesú, sezione Cassa! Ma il caso giuoca dei brutti tiri; bisogna stare attenti.

Povero sacro cuore di Gesú! Sezione affittacamere per i padroni di casa che, regalando alla chiesa la prima mesata di affitto, si assicurano contro il pericolo di restare troppo tempo con degli appartamenti vuoti, e magari anche contro i danni del decreto luogotenenziale; sezione matrimoni, per le beghinette che desiderano un collo torto qualsiasi col quale unirsi in legittime nozze ed acquistare il diritto di avere uno o piú amanti; sezione infortuni contro le malattie, contro i rischi della guerra. Funziona sempre con ottimi risultati; chi perde una gamba poteva perdere anche un braccio: miracolo; chi ci rimette un occhio poteva rimanere cieco completamente: miracolo; chi ha avuto una palla nello stomaco, poteva morire: miracolo! Chi è morto va in paradiso: miracolo!

E per ultima, trascurando tante altre succursali, la sezione elettorale. Utilissima per gli affari dei ricchi e qualche volta anche per quelli privati del fasciato Zaccone!. Con questo mezzo Gesù fa il galoppino elettorale per la borghesia liberal-massonica; protegge il municipio torinese dall'invasione dei barbarossa proletari; assicura il governo delle scuole elementari e delle opere pie ai preti e alle relative perpetue; impedisce che sette frati, sempre viventi da non so quante diecine d'anni, possano essere mandati via dal Convento del Monte, che dovrebbe essere restituito alla fanciullezza, alla cittadinanza; garantisce ai parroci i denari municipali necessari per impiantare la luce elettrica nelle chiese o per rinnovare le campane; ecc. ecc.

Ah, Gesú, se tu sei mai esistito rinnova il miracolo, sorgi ad adoperare lo scudiscio. Ma tu sei morto, e la pietra dell'avello tuo non si alza piú!

(31 maggio 1916).

LE SMORFIE DELLA FACILE IRONIA

La lettera è arrivata veramente con un po' di ritardo. E la cronaca dimentica in fretta anche i fatti che maggiormente hanno suscitato impressione. Ma forse non è male. Perché non è molto simpatico e pare non sia troppo di buon gusto mettersi a tessere ragnatele di frasi sui cadaveri ancora caldi delle ultime vibrazioni della vita.

Un signore, amante delle piccole ironie, e al quale non è sfuggita dalla memoria una frase di questo calendarietto della vita cittadina, scrive una lettera molto pepata, a nostro riguardo, sul divorzio, sul libero amore, sul matrimonio. Ci domanda, con un sorriso da trionfatore:

A che è servito il libero amore al professore siciliano rimasto vittima tempo fa della sua amante? Lo ha reso forse indipendente dai pregiudizi che voi combattete e cercate porre in ridicolo? Undici anni di convivenza, nessun legame naturale; il contratto scambievole, volontario avrebbe dovuto cedere da sé appena per uno dei due esso fosse diventato una catena, come si dice. Eppure ciò non fu possibile. Non solo, ma se egli fosse stato unito alla donna da un vincolo legale, forse non avrebbe pensato di troncare il legame, e la sua vita sarebbe stata salva.

Accettiamo tutte le deduzioni amare e ironiche del nostro corrispondente. Esse sono inevitabili. E tuttavia non riusciamo lo stesso a mutare il nostro modo di pensare. Ci persuadiamo solo un poco di piú della relatività e quindi della falsità di ogni legge generale, e come sia assurdo il voler far rientrare tutti gli uomini in uno stesso schema. Abbiamo ereditato dai primi propagandisti delle nostre idee tutto un bagaglio di dogmi assoluti che la vita si è ingegnata per conto suo a svuotare di contenuto in buona parte. Uno di essi è il libero amore, che ha dato modo a tante facili ironie. Ma bastava pensare che quei dogmi assoluti non erano che costruzioni ipotetiche di possibilità future, perché le ironie non avessero piú ragione d'essere. La famiglia è troppa parte della vita sociale perché i socialisti non pensassero a farla rientrare nel mito della società che si proponevano di costruire. Hanno risolto il problema in modo che la libertà dell'individuo ne venisse intaccata il meno possibile. Prendete questa soluzione nella sua rigida integrità, adattatela ai casi che volta a volta si svolgono nella vita attuale, ed essa si dimostrerà insufficiente, mostrerà incrinature piú o meno visibili. Ma consideratela solo come un tentativo di svecchiamento, come quella fra le tante che offre un maggior numero di possibilità di minori inconvenienti e poi attaccatela pure se vi pare. Quando avrete dimostrato che la vostra istituzione è piú elastica, piú plastica, che si adagia meglio nei tanti cervelli che fioriscono nel giardino del mondo, noi ci convertiremo. Ma il buttarci fra le gambe un cadavere e farci su una sghignazzata spiritosa per porci in imbarazzo, non vale a nulla. Uno, va bene, è stato travolto anche trovandosi in quelle tali condizioni (ma si trovava poi davvero in quelle tali condizioni?), ma quanti sono travolti appunto perché non ci si trovano?

(1° giugno 1916).

INSANIA E INTEMPERANZA

È avvenuto ciò che doveva avvenire. Quelli che Enrico Leone ha chiamato «socialisti verbali», nei quali cioè il socialismo era solo una veste retorica, un'abitudine oratoria e non una formazione nuova del carattere, un accumularsi di esperienze nuove che imprimono alla vita una traiettoria nuova, appena rientrati nei ranghi (e doveva essere una cosa provvisoria, a sentirli dire) ci si sono trovati a meraviglia, si sono adagiati integralmente in essi. Unica loro giustificazione è l'ignoranza; non conoscevano la società borghese, ecco tutto, e perciò si dicevano sovversivi. Non avevano scelto il socialismo dopo un coscienzioso e libero esame delle due visioni della vita. Gli erano caduti a ridosso, se ne erano fatti un vestito che aveva una certa pretensione snobistica, e cosí vivevano, finché il fatto bruto della guerra, solleticando certi strati piú profondi della loro coscienza, inconsci perché non volontari, perché presi fatalmente dal mondo circostante, non li rimise nelle rotaie tradizionali. Per dirla con un esempio volgare, essi sono simili a quei tanti anarchici e repubblicani, tali solo perché retoricamente si immaginano i re e i principi come una accolta di mostri coronati, di mandrilli sempre in fregola, di assassini irresponsabili, ma che quando si imbattono in un re o in un principe reale concreto, e lo trovano su per giú simile agli altri uomini, né peggiore né migliore degli altri insomma, fulmineamente si convertono e diventano i paladini piú tenaci del governo dell'uno.

Leggere, per credere, l'articolo che l'avv. Polledro ha scritto per presentare ai torinesi la delegazione del governo russo. Ma non ricordiamo all'avvocato gli scritti di altri tempi sullo knut, sull'autocrazia, sulla Siberia, ecc. Tempo perduto: l'avvocato ha ricevuto il sacro crisma, l'ispirazione della santa colomba, e non conviene mai discutere con gli ispirati. Probabilmente, anzi senza dubbio, il suo nuovo modo di vedere le cose di Russia ha la stessa solida base del modo di vedere di ieri: retorica, retorica, colorita diversamente, ma sempre la stessa mala bestia e mala suaditrice. Piuttosto, vale la pena di notare una sua espressione che dimostra come non la Russia di ieri sia venuta a Polledro, ma viceversa: «L'opinione pubblica russa saprà, meglio illuminata e sorretta, reagire contro le suggestioni di certa insana e intemperante propaganda panserba; nella quale è invero difficile sceverare quanta parte vi (sic) abbia la interessata e subdola seminagione di zizzania degli agenti dell'Austria...» Conosciamo una sola corrente dell'opinione pubblica italiana che ragioni a questo modo: quella nazionalista, che ha come esponente Attilio Tomaro. Naturalmente il Tomaro, che è conseguente (ma anche Polledro in un'altra fase della sua conversione diverrà conseguente), afferma che date le premesse assiomatiche di artificiosità e austriacantismo di un irredentismo serbocroato nell'Adriatico, questo dovrà da parte dell'Italia essere represso senza pietà e senza sentimentalismi. E Bevione, da parte sua, aveva incominciato, nelle stesse colonne nelle quali collabora ora l'ex herveista Polledro, una campagna di quelle che solo Bevione sa fare con l'improntitudine e la faccia fresca che sono sue doti specifiche, nella quale le idee del Tomaro venivano divulgate e rese popolari. Polledro dà la sua sanzione. Necessaria? Affatto, e perciò piú significativa come sintomo di stato d'animo. Dei borghesi, dei conservatori, come Giuseppe Prezzolini, si sono opposti a questa campagna antiliberale, squisitamente austriaca nelle sue vedute. Dei nazionalisti stessi l'hanno chiamata aberrante e pericolosa per le sorti della futura buona intesa fra italiani e slavi. La stessa sollevazione irlandese, esempio pratico di ciò che potrebbe essere domani lo stato d'animo della enorme maggioranza slava della Dalmazia, se i Tomaro e i Polledro prevalessero, ha trovato in un conservatore, Meuccio Ruini (per i moventi ideali almeno), il suo difensore, il difensore che non esitò a bollare di semplicismo coloro che nei casi di Dublino non videro che marchi tedeschi. Prezzolini, Salvemini, Ruini e gli altri sono interventisti, dunque con essi potrebbe andar d'accordo Polledro. Perché ha scelto questa altra via adunque? Evidentemente è il Polledro d'oggi che è andato verso la Russia d'ieri, la Russia dello zar, dello knut, della Siberia (Pantelleria e Ponza equivalgono a Tobolsk e agli Urali); e perciò con tanta sufficienza egli parla di insania e di intemperanza.

(2 giugno 1916).

VENTITRE ORE

Ventitre ore invece di ventiquattro. La corpulenta fantasia di chi scrive su per i giornali ha avuto motivo per sbizzarrirsi. Ne abbiamo letto di veramente carine. Le cartoline del pubblico degli svariati magazzeni dello spirito italiano si arricchiranno di nuovi sottili aneddoti tutti da ridere. E i divulgatori della scienza a buon mercato hanno avuto occasione di parlare di astronomia, di longitudini, di latitudini, di fusi orari. L'utile è stato cosí unito al dolce; e per una riforma che durerà solo qualche mese, non c'è male. Se il cervello lavora a produrre scienza e letteratura, una constatazione almeno è lecito fare: che il cervello esiste ancora, ciò che di questi tempi può anche non essere una scoperta lapalissiana.

Non abbiamo niente da obiettare alla riforma. Solo ci sembra mal scelto il momento della sua applicazione; o, per meglio dire, il giorno. Ecco, noi socialisti — socialisti torinesi in ispecie e della famiglia dell'«Avanti!» in particolare — avevamo stabilito proprio per oggi una grande dimostrazione. Sicuro: non si spaventi nessuno, né rida qualche altro; non si trattava di barricate, né di cose «idiote e nefande». Volevamo semplicemente commemorare lo Statuto. Perché da un anno abbiamo con doloroso stupore dovuto constatare in noi una conversione: siamo diventati costituzionali per la pelle. Il calore nostro di rivoluzionari è passato in altri spiriti; purtroppo dobbiamo ammetterlo. Salandra, Sonnino, il «Corriere della Sera» ci hanno rubato il mestiere. Per conservare la dignità di uomini, per distinguerci, abbiamo dovuto diventare costituzionali. Oggi doveva essere la nostra grande giornata. Per non cadere in errori, per non fare le gaffes solite dei parvenus (ci siamo, purtroppo), avevamo intenzione di invitare al nostro comizio il signor prefetto, il signor sindaco, il signor censore e altre personalità «rivoluzionarie» d'oggi e costituzionali di ieri. Ci avrebbero insegnato tante cose. Ci avrebbero instradati rettamente. Ci sarebbero stati dei contraddittori animatissimi, senza dubbio: la festa sarebbe stata bellissima.

Ci hanno defraudati. Ci hanno indegnamente giocati. Volevamo una giornata completa di ventiquattro ore. Lo Statuto di ventitre ore non ci pare una cosa seria; siamo rimasti, anche nel nostro nuovo ruolo, rigidi e intransigenti. O tutto o nulla. Ci parrebbe una menomazione accettare uno Statuto cosí monco e ristretto. L'on. Salandra non ha pensato a questo inconveniente, quando presentava alla firma luogotenenziale il decreto. Il pensiero di risparmiare sette ore di luce gli ha impedito di rimandare d'una settimana l'applicazione della nuova misura? Oppure la sua adesione alle idee estreme è stata tanto integrale da non fargli ricordare neppure quel giorno che decurtava cosí draconianamente? Non indaghiamo. Esprimiamo solo il nostro rincrescimento per la festa mancata. E non ci chiamino imboscati anche delle nostre nuove idee, gli avversari. Si mettano nei nostri panni. Lo scartamento ridotto non piaceva neppure a loro per il loro programma. E lo Statuto di ventitre ore è a scartamento ridotto, sia permesso dirlo; ventiquattro ce ne vogliono, come nei carati per l'oro, altrimenti non ci decideremo mai a dimostrare visibilmente con i cortei e i comizi, che abbiamo fatto il gran salto e che abbiamo rinnegato le utopie di ieri, del resto cosí bene rappresentate oggi da tanta gente «per bene».

(4 giugno 1916).

LABIRINTO

Non sarebbe difficile rintracciare nelle obiezioni che il compagno Bertero ha mosso alla proposta del quotidiano socialista i caratteri specifici di una determinata «tendenza». Ma ciò ha un'importanza relativa, in questo momento; importa di piú dimostrare che quelle obiezioni sono assurde in se stesse, che impancarsi e teorizzare sulla loro origine logica è spezzare una lancia superflua contro un modo di concepire l'attività del nostro partito, che, secondo noi, è definitivamente superata e non può sperare piú in alcuna riscossa.

Viene ricordato con insistenza che l'organizzazione proletaria a Torino è tutt'altro che in quelle floridissime condizioni che da qualcuno può credersi. E ciò si dà come ammesso. Ma vuol pretendersi forse che la fondazione di un quotidiano verrebbe ad intralciare in qualche modo ogni ulteriore sviluppo di questi organismi, o che le energie dedicate ad un giornale siano distolte dagli altri obiettivi? Il Bertero, e chi la pensa come lui, sono sperduti in pieno in un labirinto senza uscita, e ciò non fa molto onore a chi ha la pretesa di nuotare in piena realtà e ride degli altri che hanno il capo tra le nuvole. L'organizzazione come fine a se stessa è un inciampo al divenire del socialismo, e non è affatto un propulsore di progresso. Educa all'egoismo, trascende nel corporativismo, nelle gare di categoria. Polverizza le forze proletarie, e noi sentiamo invece sempre maggiore il bisogno dell'unità, della coesione. Per ottenere queste bisogna creare degli organi competenti, bisogna domandare anche dei sacrifici, bisogna che la massa amorfa, fluttuante, come la chiama anche il Bertero, sia rinsaldata da un entusiasmo, da un'abitudine intellettuale. L'organizzazione ha essenzialmente dei fini immediati, piú che altro economici; serve a costituire dei ranghi, ma questi devono essere mantenuti sempre integri e compatti da un'idea generale, da un fine lontano, che imponga una disciplina costante, metodica. Solo lo sciopero realizza attualmente l'unità delle organizzazioni; ma lo sciopero non può essere in permanenza.

Ebbene, noi ci siamo preoccupati precisamente di questo stato di fatto, caro Bertero, e siamo piú vicini alla realtà di quanto superficialmente non paia. La nostra qualità di giornalisti non c'entra affatto, siamo soprattutto socialisti, e l'attività che ora diamo al giornale è una parentesi, non un programma per l'avvenire. Molto probabilmente quando il quotidiano si farà (se si farà) qualcuno di noi sarà lontano da Torino, e adempirà a dei compiti molto piú modesti, seppure utili allo stesso modo. È il Partito socialista che a Torino si trova dinanzi ad una svolta; la sua azione politica e amministrativa, la sua efficacia energetica non è all'altezza della sua forza effettiva. Bisogna che questa sia valorizzata, che abbia maggior peso. L'organizzazione se ne avvantaggerà di molto, perché gli italiani purtroppo sono piú sensibili alla lotta politica che a quella economica, e perdono piú tempo a discutere una frase dell'on. Giolitti, che di una legge che legherà per vent'anni la loro produzione industriale e agricola. Il quotidiano, nelle modeste proporzioni che ha indicato giorni fa o.p. potrà compiere quest'opera. Sarà un focolaio d'entusiasmo, sarà la voce del partito che ogni giorno legherà nuovi spiriti, nuove energie. Creerà un elemento nuovo: l'abitudine e, ciò che piú conta, l'affetto alle nostre istituzioni; perciò farà cessare quelle fluttuazioni di uomini che tanto impressionano il Bertero. Esca dal labirinto logico e tendenziale in cui si è smarrito questi, e si accosterà anch'egli alla realtà, a quella piú vera realtà che non è costituita solo di numero e di burocrazia, ma anche di idee e di sentimenti.

(8 giugno 1916).

FILM «MUNICIPALE»

Polidor, Maciste, Buy, l'uomo d'argilla, ecc. ecc. sono sfilati davanti ai nostri occhi nella seduta consiliare dell'altro ieri. Ci siamo divertiti, perdio, e non è dir poca lode per la compagnia di ombre cinesi che esercisce attualmente il Palazzo di Città.

Polidor, la comica finale; capovolgiamo: tanto, nei cinematografi a proiezioni continuate, ciò non nuoce affatto. L'esilarante Bolmida. Egli si compiace dei buoni risultati della tramvia Torino-Rivoli, 3 milioni di capitale, 300 000 di utili. Il Polidor dell'amministrazione Rossi è gongolante; l'aveva detto lui... Ma Sincero, il tiranno della commedia, dà mani ai freni. Le 300 000 lire sono semplicemente la differenza tra l'entrata e l'uscita di... cinque anni di esercizio; non rappresentano neppure un'attività, perché non sono depurate della quota di ammortamento e dei fondi per i miglioramenti. Piú Polidor di cosí: Bolmida, l'amministratore di Torino, non sa neppure che gli utili si dividono per annualità, che entrata non vuol dire attività, ecc., e crede cosí, ingenuamente, che i 3 milioni abbiano dato il 10 per cento di utile. Naturalmente gongola della sua bella trovata che ha procurato alla città una cosí confortante rugiada di zecchini. Se il piú minchione degli amministratori di un circolo vinicolo di provincia avesse fatto le stesse affermazioni, dio sa che sottili ironie in tutti gli organi della gente... astemia. I Maciste sono parecchi: Ruffini, Zaccone, Cavaglià. Che turgore di bicipiti, che eleganti e graziose piroette essi fanno pur tenendo gli avversari sospesi per aria. Ma siamo al cinematografo, e i trucchi, si sa, aiutano molto chi fa il gigante. Mercandino sta da parte: il buttafuori non partecipa alla commedia, fa parte del macchinario. Cavaglià, l'assessore legale, è il mozzaorecchi classico; il comune è evocato in giudizio per un pagamento di lire 232 000. Ne ha già pagate, per i ritardi di cui si è reso colpevole, 100 000. Il cavalocchi non indaga sulle responsabilità, egli cerca un Cireneo: il governo. C'è la probabilità che siano tutti gli italiani a dover pagare; perché compromettere solo i torinesi? Probabilmente, per gli altri ritardi e le altre gherminelle legali, saranno gli uni e gli altri che pagheranno il conto che andrà sempre piú allungandosi. Ma può preoccuparsi di ciò un leguleio? Intanto, scarichiamo sul governo la lite; iddio penserà al resto.

Buy, l'uomo d'argilla, è Teofilo Rossi. È sempre in carattere per la mancanza di carattere; piú che d'argilla è di caucciú. Le sue giustificazioni sono sempre sulla stessa linea. Si dànno troppi banchetti a Torino? Ma, altrove non si fa di peggio? Veramente, altrove, si banchetta dopo che si è lavorato. E a Torino unico lavoro è banchettare; ma si tratta di sfumature. Le carni suine vengono contrabbandate, e la cittadinanza ne soffre? Il sindaco ha fatto il suo dovere: ha comunicato al ministero dell'agricoltura un voto emesso da una commissione. È vero che il ministero non ha ancora risposto; ma Teofilo che può farci? La cittadinanza aspetti; intanto il contrabbando lavori pure, ma si può disturbare con noiose insistenze il governo per cosí poco? È cosí bene educato Teofilo e abborre dal dare noie a chicchessia. Sia educata anche la cittadinanza, e non dia noie; se non c'è pane ci saranno sempre brioches, diceva la signorina di Lamballe, che era l'educazione in persona. Si domanda una inchiesta all'ufficio tecnico che ha lasciato cacciare il comune nel ginepraio delle liti per il palazzo dei telefoni. Teofilo in massima non è contrario, ma in minima la crede inutile; secondo lui, quando si eseguiscono opere pubbliche, si finisce sempre per litigare. A che pro dunque le inchieste? Allah è Allah, e in fin fine dei conti il governo (sempre il governo, e cioè gli italiani) pagherà i cocci. E cosí via, sempre piú d'argilla, anzi di caucciú. Noi soli ci lamentiamo, e bisogna davvero che siamo organicamente dei malcontenti, per non essere soddisfatti di queste film spettacolose che ci vengono elargite. Davvero che i circenses non mancano a Torino: Polidor, Maciste, Buy, ecc., i piú famosi, i piú costosi attori. Veramente, i piú costosi.

(9 giugno 1916).

I BLOCCHI

Un gruppo di giovani del circolo «Andrea Costa» ha preso l'iniziativa per la costituzione a Torino di un fascio internazionalista rivoluzionario che dovrebbe comprendere i socialisti, gli anarchici e i sindacalisti. Un blocco rosso insomma.

Dopo i lunghi dibattiti fatti sui nostri giornali a proposito dei blocchi, parrebbe inutile e superflua ogni altra discussione e iniziativa. Ma in realtà la questione si presenta attualmente sotto un altro aspetto.

Non è coi democratici, coi massoni, coi repubblicani che si deve fare alleanza. Di questi agglomerati politici era facile la critica; bastava dimostrare che il loro contenuto politico ed economico era essenzialmente borghese, perché il partito nostro, ormai uscito di minorità, non potesse piú a lungo sostenere il loro contatto. Coi sindacalisti e gli anarchici le distinzioni sono piú delicate e piú sottili. Non si può negar loro di essere nati e di trarre la loro energia dal fecondo terriccio della lotta di classe, di essere emanazioni del proletariato, insomma. Ma basta tutto ciò per proporre una fusione? E non potrebbe questa diventare una confusione? Ci sono delle differenze evidentemente, tra noi e gli altri due gruppi; perché non si tratta solo di parole, di nomi. E chi dei tre rinunzierà a differenziarsi ed accettare quello dei programmi che sarà riconosciuto piú logico, piú utile per sovvertire la realtà attuale?

Perché, se non si vuol fare una revisione di valori, se non si vogliono crivellare le tre teorie (e son certamente tre teorie ben individuate) per assumere come segnacolo i loro residui o i loro ampliamenti, non si riuscirà ad altro che ad una riforma burocratica, ad un accentramento meccanico senza alcun valore ideale né pratico. Una fusione di tal genere avviene naturalmente nel momento dell'azione, quando si ha un fine immediato da raggiungere, un avversario comune da colpire. E l'unità delle forze sovversive si attuò infatti meravigliosamente nel 1914. Ma dopo quella magnifica scrollata che si diede alla tarlata e scricchiolante carcassa dello Stato italiano, ognuno ritornò al proprio compito, con utilità comune, perché si era imparato perlomeno a rispettarsi, ad amarsi l'un l'altro. Si era visto che le violente diatribe, le feroci polemiche con le quali anarchici, socialisti e sindacalisti si erano dilaniati nel passato non avevano lasciato residui di odio né creato incompatibilità assolute.

L'iniziativa attuale dei giovani dell'«Andrea Costa» ci pare abbia un movente bellissimo, ma forse non del tutto giustificato. È opinione volgare e diffusa che gli anarchici e i sindacalisti siano piú «rivoluzionari» che i socialisti anche estremi. E questo è un pregiudizio, perché il rivoluzionarismo non è in funzione assoluta con le affermazioni gladiatorie e con la violenza di linguaggio. La storia specialmente del sindacalismo italiano può dimostrarlo. Crediamo perciò che il nostro partito non abbia affatto bisogno di queste iniezioni per irrobustirsi. Ha dimostrato di avere in sé tale e tanta energia da poter in molte occasioni servire di esempio agli altri, e non da doversi accodare agli altri. L'azione dei giovani può essere beneficamente esercitata all'interno — come finora — per rinnovare, per vivificare, per far sí che il sangue nuovo arrivi e circoli anche negli organi piú lontani dal cuore e piú refrattari. Se gli anarchici e i sindacalisti sono tali sul serio, rientrando nel partito dovrebbero cercare nuovamente di impadronirsene e di far accettare integralmente le loro concezioni; e ciò non farebbe altro che risuscitare discussioni, vecchie, stantie. Preferiamo essere distinti — senza odio, però — e operare gli uni accanto agli altri, pronti ad unire saldamente tutte le forze quando l'occasione si presenti, come indubbiamente si presenterà.

(10 giugno 1916).

ELOGIO D'UN POVERO DELFINO

Magnifica notte di plenilunio in riva al mare. Il porto della piccola città meridionale è silenzioso per la tarda ora. Il mio compagno di passeggio si spoglia rapidamente e fa il tuffo. S'allontana nuotando tranquillo, poi si abbandona supino alle acque che lo cullano e lo riempiono di calma felicità. Un guizzo a qualche metro di distanza, e un muso enorme soffia rumorosamente. Il mio compagno ha un sussulto spasmodico in tutte le membra, di colpo riprende la posizione verticale, rompe l'acqua con enormi bracciate, si attacca alla banchina anelante e s'abbandona sul sasso urlando: un pescecane, un pescecane! Dall'alto di un vecchio mortaio di bronzo, che ormai ha perduto ogni carattere bellicoso, tutto rosicchiato com'è dal morso delle gomene, io impallidisco fremendo, rabbrividendo per il terribile pericolo, per la morte orribile a cui avrei dovuto assistere. Ma sull'acqua azzurrissima inondata dalla luna, un delfino, un innocuo delfino, guizza danzando agilmente, e una risata ristoratrice sbotta dalle nostre gole.

Ma non bisogna ridere troppo degli innocui delfini. I semaforisti che all'ingresso dei porti vigilano all'incolumità dei bagnanti e dei lavoratori del mare sono seccati spesso da questi graziosi abitatori delle acque che, nei loro tumultuosi greggi, nascondono qualche volta l'insidioso squalo dalle mascelle ben piú formidabili. Perciò talvolta non bisogna meravigliarsi se un marinaio irritato e deluso scaglia l'acuta fiocina sull'inutile animale e lo uccide, abbandonando poi la carcassa ai flutti e alla fame dei minori pesciolini.

Tal sorte è toccata ad un povero delfino che guizzava indisturbato e tranquillo nella bonaccia del porto torinese. Non è con esattezza provato che egli sia un vero e proprio pescecane; ma il dubbio ha esistito ed esiste ancora. Certamente egli ha servito da passaporto a numerosi pescicani: Lubin, Portaubourde e qualche altro di cui ancora si tace. E conosceva l'identità zoologica di costoro; delle sentenze di tribunale li avevano già casellati e marcati a fuoco. Tanto innocente e scemo era il delfino da non sapere certe cose, da non preoccuparsene, da non cercare affatto di veder chiaro? Non sapeva egli che esponeva al pericolo le sostanze che gli erano state affidate, e la sua stessa buona fama di probo ed onorato delfino? In un cetaceo che s'atteggiava a conduttore dell'opinione pubblica, tanta ingenuità o scemenza fa riflettere; che sia solamente un delfino? La favola antica potrebbe essersi ripetuta; non è la prima volta che gli animali di rapina si ammantano di pelle d'asino per nascondere gli unghioni e le zanne. Che il nostro delfino sia apparso spessissimo un perfettissimo asino, potrebbe essere quindi una prova meravigliosa della sua doppiezza e furberia. Che colpito dalla fiocina mortale abbia continuato a sbraitare, a parlare di mala fede, di calunnie, mostra che molti sono ancora gli sciocchi e i compari. Quanti tengono ad apparire delfini, non possono permettere che uno di loro sia scamuffato. Ma nessuno tuttavia ha potuto estrarre la fiocina mordente dal fianco insanguinato; e il nostro povero delfino si dibatte, cerca divincolarsi, corre pazzamente in traccia di un salvatore, ma il sangue se ne va, le membra si intorpidiscono. Corniani tiene la funicella che, sebbene elastica, non permette di raggiungere il mare libero, la riabilitazione. E cosí muore il povero cetaceo, l'innocente animale che si è confuso nella classe degli squali da preda, e non ha saputo dimostrare la sua vera identità.

E una lagrima furtiva sgorga dagli occhi dei buoni torinesi; poiché è un altro brano del passato, che la vita ha travolto.

(11 giugno 1916).

ELOGIO DEL CAZZOTTO

La nazione giudicherà di questa nuova impresa dei socialisti ufficiali, che, per il cinismo e la bruttura degli evidenti rapporti col nemico supera tutto ciò che fino ad oggi fu dato conoscere in questa triste materia.

Cosí scrisse l'on. Giuseppe Bevione il 9 corrente commentando il gesto di alcuni deputati socialisti, che avevano lanciato nell'aula di Montecitorio delle cartoline con l'effige di deputati socialisti russi deportati in Siberia. Le prove di questi evidenti rapporti secondo il Bevione sono queste: la dicitura è in lingua tedesca e poi in francese; la cartolina porta sul lato dell'indirizzo, in caratteri gotici, la parola Postkart che si è vista infinite volte sulle cartoline fabbricate in Austria e in Germania.

Conclusione: «Evidentemente si tratta di un documento grafico tedesco od austriaco, molto probabilmente falso e diffuso negli Imperi centrali, per conforto spirituale di quelle Sozialdemocratien». Su questi elementi, secondo la sua brillante abitudine, il Bevione costruisce il romanzo. L'on. Mazzoni lo picchia, e l'on. del quarto collegio magnanimamente lancia la solita sfida cavalleresca.

Non siamo entusiastici ammiratori del diritto del pugno; eppure quei pugni vibrati robustamente sul ceffo di Bevione ci riempiono di giubilo e di ammirazione. Un pugno non è certo un ragionamento; ma è l'unica risposta che si può contrapporre ai «ragionamenti» di Bevione. Questi si trova ora imprigionato in un dilemma categorico. Cazzottato, ha l'obbligo, impostogli dai pregiudizi dei quali è schiavo, di ottenere una riparazione. Questa gli viene offerta nella forma piú onorifica per un galantuomo — le scuse — ma a condizione che dimostri, con documenti meno... da corrispondente speciale, la verità delle sue insinuazioni. Altrimenti né scuse né duello, e invece promessa di altre vilissime vie di fatto. Mazzoni è veramente ammirevole, nella sua logica. Tutti gli imparziali dovrebbero riconoscerlo: ha trovato nel caso specifico il modo perfetto per mettere con le spalle al muro il piú ributtante degli sparafucili della pennaioleria, inchiodandolo al ridicolo colle sue stesse armi. Ed un cazzotto, un umilissimo facchinesco cazzotto ne è stato il mezzo piú efficace. Pertanto elogiamo il cazzotto.

Bevione era riuscito ad arrampicarsi al seggio parlamentare dando delle sue qualità politiche prove poco dissimili da questa. Affermò che i ginepri erano olivi, che gli arabi della Cirenaica ci aspettavano a braccia aperte, mandò corrispondenze da Bengasi, mentre si trovava a Tripoli, sostenne che la sabbia era humus, e che un pozzo era una falda acquifera. Scrisse una lettera aperta all'on. Giolitti che era un ultimatum, tanto piú pericoloso in quanto le sue bugie avevano contribuito potentemente a svegliare in molti italiani la fregola dei facili guadagni, della conquista di Bengodi, apportatrice di lauti e immediati guadagni piú che l'onesta operosità e lo sgobbare alla tedesca. La sfortuna dell'Italia consistette nell'essere un nome vano senza soggetto; non ci fu nessuno che allora cazzottasse Bevione e gli imponesse il dilemma di provare le sue affermazioni o di rimanere infamato dal marchio dei mentitori. I fatti travolsero tutto e tutti; dei ragionamenti Bevione rise e non rispose; lo scopo era raggiunto, la sua personcina di retore divenne l'esponente dell'Italia, della Patria e cosí arrivò in parlamento. Ma il partito non è un nome vano e senza soggetto. Alle menzogne ha opposto il duro cazzotto di Nino Mazzoni, ed ha imposto di provare. Il pennaiolo è stato colto in trappola. L'Italia è veramente in quel pugno, ed è essa, non solo il Partito socialista, che domanda a Bevione le carte, dura cosa per un corrispondente speciale, ma i cazzotti sono anche piú duri, ed i pregiudizi di cui si è schiavi vogliono anch'essi soddisfazione. Pertanto plaudiamo ai cazzotti, e auguriamoci che essi diventino un programma per liquidare i corrispondenti speciali, i pennaioli asserviti alla greppia.

(12 giugno 1916).

LA LAPIDE AL POLIZIOTTO

Un nuovo comitato. Un nuovo presidente, nell'immancabile persona del senatore Teofilo Rossi. Una nuova lapide erigenda sulla facciata del palazzo della questura in memoria ed onore del comm. Carmarino, «compianto questore della nostra città».

Ricordiamo tre lapidi che già esistono nelle vicinanze del palazzo della questura: in via Alfieri 2: «Vittorio Alfieri in questa casa scrisse le tre prime sue tragedie dal 1774-1777»; in via Lagrange 25: «C. Cavour nacque e morí in questa casa»; in via Lagrange 20: «V. Gioberti nacque in questa casa il 5 aprile 1801». I paragoni sono odiosi, non facciamoli, tanto piú che da una delle parti mancherebbe il contenuto per sostanziarli. Ricordiamo un altro episodio: Giosuè Carducci, invitato a dare la sua adesione per un monumento da erigere a Shelley, rifiuta sdegnosamente, e dice che Shelley, il cuor dei cuori, non ha bisogno di ricordi marmorei, perché l'opera sua immortale lo ricorderà in ogni tempo presso quelli che sono degni di leggerlo.

A Torino un delegato di pubblica sicurezza, cav. Pietro Donvito, dirama delle circolari, si improvvisa giudice competente di fronte alla storia delle benemerenze di un questore, e trova subito a fiancheggiarlo dodici senatori, un ministro, tredici deputati, quattro direttori di giornali, tre prefetti, senza contare tutti gli altri minori rappresentanti dell'ordine costituito. Carducci, rappresentante della poesia e del buon gusto in tema di monumentomania, si tira indietro di fronte a questa falange di terzi italiani, che rappresentano le genuine tendenze della società di cui sono i figli legittimi. Non sono nati a Torino nuovi Alfieri, nuovi Gioberti, nuovi Cavour. Chi dunque si dovrà ricordare nelle nuove lapidi, nei nuovi monumenti? Tramandiamo ai posteri la memoria dei poliziotti; è quanto di meglio la nuova Italia abbia saputo produrre. In via Ospedale, nel palazzo della questura, il comm. Carmarino degnamente sarà quarto tra gli altri tre.

L'Alfieri, nebulosa aspirazione a maggiori libertà, eterno scontento, che nelle soluzioni offerte dalla vita non trova quella che lo soddisfi, nemico della tirannide, ma piú che altro misantropo perché fatto certo che la tirannide non è solo nel governo dell'uno, ma anche in quello dei pochi, e in quello di tutti. Il Gioberti, teorico di uno Stato teologico. Cavour, assertore e unico realizzatore dello Stato liberale. Quarto Carmarino, né teorico, né uomo di governo, testimonio semplicemente, funzionario — dicono ottimo funzionario — dello Stato poliziotto. La sua lapide è un simbolo, le adesioni di tante personalità spiccate alle sue onoranze sono la naturale conseguenza di uno stato di cose. Ha ragione il delegato Donvito a prendere tali iniziative. Anche a lui ed a Intaglietta è dovuta la lapide. Sono gli italiani piú rappresentativi costoro e bisogna che la loro memoria rimanga. Mazzini può aspettare nello studio dello scultore Belli: Torino non ha luogo nelle sue aiuole fiorite per la sua pensosa taciturnità. Deve ornare il suo ordine architettonico con gli strumenti dell'ordine.

Un consiglio: i monumenti dovrebbero rappresentare i poliziotti in borghese, il simbolo sarà piú completo. Perché importa allo Stato italiano essere e non parere; la efficacia è maggiore. Se per le strade andassero poliziotti in divisa qualcuno si asterrebbe dal commettere il male; ciò non importa allo Stato poliziotto: il questurino non è mica la legge morale, è il memento della sanzione che spetta ai malfattori. Serve solo a reprimere, perciò è meglio che nessuno conosca la sua identità.

Dunque, siamo intesi, le statue equestri, i busti senza casco, senza nappine, allora anche noi daremo la nostra adesione, e convinti...

(15 giugno 1916).

SCIOCCHEZZAIO

Un cappellone del 92° fanteria ci ha portato un libercolo che è stato ivi distribuito ai soldati, con il compiacente consentimento di qualche superiore. L'amico ci ha detto anche il grande successo di ilarità che ha avuto l'opuscoletto fra tutti i soldati, caporali ed ufficiali, tanto enormi sono le balle che vuol dare ad intendere ai disgraziati lettori. Ed invero è strano che circoli ancora di questa roba, e per lo meno è strano che con essa si creda di formare la coscienza dei soldati, di tenerne alto il morale. Sono tre articoli estratti da un giornaletto di provincia, ed è parto di qualcuno che, per rendere noto ed illustre il proprio nome, non ha trovato niente di meglio che far ristampare a proprie spese i propri capolavori, e di distribuirli gratis.

...L'Inghilterra, che pure ì tedeschi hanno chiamato perfida, concorrente sleale, causa unica della conflagrazione, ecc. — tolte le sue navi che dovevano assicurarle il dominio dei mari, indispensabili alla sua esistenza — nulla aveva fatto per prepararsi alla guerra — neppure la coscrizione... Ci voleva la guerra per fare apprezzare al loro giusto valore la filosofia di Hegel e l'internazionalismo dei socialisti tedeschi... Berta Krupp, figliuolo di Giove e di Temi... Ma il suo (dell'Austria) trattato speciale con la Germania era di farsi aiutare da questa a conquistare i territori che la separano da Salonicco e di cedere a lei, in compenso, la città di Trieste!... Le orde di Guglielmo II — il nato d'un cane...

Ne abbiamo citato abbastanza per dimostrare che razza di luoghi comuni, di sciocchezze e di menzogne, abbia l'illustre ignoto di Mondoví voluto rivogare ai soldati, e facciamo grazia di tutto il resto: assassini, barbari, unni, barbarossa, ecc.; civiltà, genio, gentilezza latina... ecc. Ma la parte piú amena dell'opuscolo è quella dedicata all'on. Morgari, intitolata Follie pacifiste. Tutta costellata di citazioni poetiche, vuole essere una requisitoria contro l'utopia della pace e della nuova internazionale, ed è espressa con una sicumera cosí baldanzosa, con un fraseggiare cosí ridicolmente leccato, che deve aver resi molto allegri i soldati, che per avventura le hanno dato un'occhiata... «Evidentemente: o la quarantennale incoscienza dell'Europa intera di fronte al pericolo tedesco ha lasciato un ultimo residuo nel cervello dell'on. Morgari, o l'on. Morgari invecchiando perde il possesso dei suoi centri inibitori di fronte alle intransigenze catastrofiche dei signori Lazzari e compagni». E cosí via di questo tono e con questa serietà per mezza dozzina di paginette.

Del resto Morgari è un uomo fortunato; visto che i suoi elettori non hanno molto sovente la possibilità di vederlo e di sentirlo, provvedono gli avversari a far loro sapere che l'attività del loro deputato si esplica in favore della pace... C'è da essere sicuri che alla prima occasione avrà l'unanimità dei voti...

(16 giugno 1916).

LE INFERRIATE DELLA SCIENZA

Esiste in via Arcivescovado un istituto per l'educazione correttiva dei minorenni.

È stato fondato nel 1846, in tempi prescientifici e non era che una pura e semplice casa di correzione, uno dei tanti reclusori nei quali le famiglie fanno rinchiudere la loro prole quando hanno fallito al loro compito specifico di plasmarne il carattere e non sanno piú come domarne le nascenti velleità belluine. Nei tempi della scienza trionfante l'istituto si è modernizzato, ha preso il nome di «Cesare Lombroso» ed è attualmente amministrato e diretto da discepoli ed ammiratori del morto maestro. Una fortuna, a sentir certi. Nessuno piú dello scienziato che ha trascorso il suo tempo a misurare crani ed angoli facciali, ad interrogare destramente criminali e pazzi per cogliere e fissare in schemi logici il segreto della loro psiche, nessuno dovrebbe essere piú a suo posto in un istituto di corrigendi. Errore grossolano che ha lasciato l'altro ieri un'impronta sanguinosa nel casone di via Arcivescovado. Un ragazzo è stato trovato penzolante dalla finestra di una cella di disciplina, con la testa presa alla tagliola, fra le sbarre dell'inferriata. Un episodio, per uno psichiatra come Mario Carrara, presidente dell'istituto. Episodio di cui si notano i dati esteriori, che serviranno ad uno studente per una tesi di laurea o a un professore stesso per una pubblicazione accademica. Qualche cosa di piú grave, per noi: un sintomo nuovo dello sfacelo di una teoria scientifica artificiosa, strettamente positivistica, che nell'uomo non vede che l'esteriore apparenza, misurabile con la stadera e il doppio decimetro, e crede di aver risolto il problema della correzione dei minorenni, quando ha preparato per essi un alloggio a cubatura scientifica, quando ha ridotto la loro vita ad una cronometrica divisione del tempo, ed ogni tanto li fa passare sotto gli strumenti perfezionati dell'osservazione da gabinetto. Un'inchiesta deve essere fatta, non solo per accertare le responsabilità piú immediate, per vedere con quali criteri si puniscono e come si sorveglino i rinchiusi, per vedere come sia stato possibile che un ragazzo abbia voluto suicidarsi, se si è ucciso, o sia avvenuta una disgrazia, se si tratta di una semplice imprudenza. In un istituto che la pretende a scientifico certe cose non dovrebbero neanche potersi prospettare come ipotesi. Ma la responsabilità piú grande è quella del metodo. Bisognerebbe farla finita con certa pseudoscienza che non riuscirà mai a dimostrare di aver fatto tanto bene quanto basta per scontare la vita di un fanciullo che rimane strozzato ad un'inferriata, come un uccellino che aspira alla libertà fra le gretole di una gabbia. Certo le Alessandrine Ravizza, le mammine amorose dei derelitti dei marciapiedi, non sorgono ad ogni cantonata, ma ciò non è una buona ragione per lasciare che dei freddi scienziati si divertano a fare i loro giochi di pazienza sui minorenni non tutelati da nessuno. Se essi sanno bene costruire reclusori e amministrare manicomi, ciò non costituisce titolo sufficiente per trattare i ragazzi come se fossero fatalmente destinati a quei due graziosi istituti. Gli empirici, gli uomini comuni che siano meglio di loro pervasi dal senso della simpatia umana, sapranno meglio sostituire l'opera educativa della famiglia, la cui mancanza è l'unica causa della delinquenza di tanti ragazzi spostati. Meno pseudoscienza, e piú senso comune, e soprattutto piú affetto e sincerità.

(17 giugno 1916).

RISPOSTA COLLETTIVA

Abbiamo lasciato passare apposta qualche giorno prima di rispondere ai rimproveri diretti e indiretti che ci sono pervenuti a proposito della «solenne intemerata», come l'ha chiamata Gino Castagno, da noi fatta al compagno Bertero. E invece essa non era una intemerata, e tanto meno la pretendeva a solennità. Ci era parso (e crediamo ancora a ragione) d'aver sorpreso in alcune obiezioni del Bertero alla proposta del quotidiano torinese una preoccupazione esagerata per certe deficienze dell'organizzazione proletaria torinese; essa ci pareva legittima e logica in sé, senza dubbio. Ma non legittima e logica fino al punto da prendere il sopravvento su ogni altra, da conglobare in sé tutte le attività, tutte le possibilità di sviluppo del Partito socialista a Torino. La nostra non era pertanto rifrittura stantia di certi pregiudizi e di vecchie eresie. Era semplicemente un portare alle estreme conseguenze una tendenza per mostrarne meglio la fallacia e l'unilateralità. Che l'organizzazione, quando diventa fine a se stessa, sia un inciampo al divenire socialista, in quanto disgrega la classe con lo spirito di corporativismo e, peggio, di categoria, nessuno può mettere in dubbio, perché gli esempi da citare non mancano, e del resto tutti li conoscono. E che sia un volere l'organizzazione fine a se stessa il farla unica preoccupazione del proprio spirito, unico fine immediato da raggiungere, non è neppure facilmente controvertibile. Allora perché tanta scalmana? Il prospettare delle verità come questa non deve essere offensivo per nessuno, perché nel caso concreto non vanno a colpire nessuno nella sua attività specifica. Sono semplici battute polemiche, utili se non altro a ricordare ciò che non deve mai essere dimenticato. Il movimento socialista, specialmente a Torino, è diventato troppo complesso e conscio di sé perché certi pericoli diventino realtà. Le nostre organizzazioni, anche le piú pletoriche e fluttuanti, nei momenti decisivi hanno saputo dimostrare di avere immagazzinato nella coscienza collettiva quanta energia rivoluzionaria è necessaria anche per i sacrifici piú umili, piú ignorati e perciò piú meritori. Ma ciò non autorizza a riposare, ad abbandonare le posizioni di battaglia. L'educazione socialista del proletariato si compie ogni giorno, in ogni atto, per ogni atteggiamento ideale. La preoccupazione di perfezionare un membro dell'organismo non deve diventare assillante al punto da far trascurare tutto il resto. La nostra opera deve essere armonica, equilibrata, geometrica, per cosí dire, e non superficiale (il senso brutto della parola deriva appunto dall'altro semplicemente aritmetico).

Si può dire dell'organizzazione economica e del Partito socialista ciò che un antico ha detto della parentela e dell'amicizia. L'amicizia può e dovrebbe essere specialmente tra parenti, per i legami d'affetto che l'affinità fa nascere spontaneamente. Ma siccome si nasce parenti, anche se non si vuole, mentre l'amicizia è una costruzione volontaria, cosí se togli l'amicizia, la parentela sussiste lo stesso. L'organizzazione economica è un fatto naturale, perché si nasce proletari, mentre il socialismo è un atto della volontà.

L'organizzazione economica (i cattolici e i genovesi insegnarono) può esistere anche fuori del partito. Ma il Partito socialista non può esistere se non esaurisce tutti i suoi compiti, se non si afferma pienamente in tutte le sue complesse e varie attività.

(17 giugno 1916).

UN'INCOGNITA

Molti giornali si domandano, per rispondere a una domanda che prevedono sarà fatta dai loro lettori, chi sia Francesco Ruffini. E le risposte sono generiche, vaghe. Si citano i titoli dei suoi libri, i suoi precedenti accademici, la sua attività giornalistica limitata ad articoli di esumazione storica o di varietà culturale. È un'incognita per tutti, perché manca di una sagoma politica ben stagliata negli avvenimenti degli ultimi anni. Si dice che sia antigiolittiano, e che perciò Salandra gli abbia dato il laticlavio, che sia parente del direttore del «Corriere della Sera», e che perciò Boselli gli abbia affidato il portafoglio della pubblica istruzione. Certo nessuna attività speciale lo designava a questo dicastero, a meno che non si supponga che l'essere insegnante sia titolo sufficente per diventare arbitro dell'attività statale che amministra e regola le scuole.

Ma forse è appunto questa incertezza, questa assenza di colore e di sapore, il miglior titolo del Ruffini. Significa, la sua assunzione, probabilmente solo uno svalutamento del Piemonte come crogiolo di personalità politiche da imporre alla vita italiana, abbellito dalla lusinga che in realtà la tradizione cavourriana, cui i vecchi piemontesi tengono tanto, sia rimessa in onore nella persona dello studioso piú serio, dell'uomo di Stato per eccellenza. L'istruzione pubblica è caduta cosí in basso in questi ultimi due anni che anche uno qualsiasi ci starà magnificamente a posto.

Ed è contro questa tendenza che bisogna reagire. Il Ruffini è stato rettore della nostra università. Cinque anni di re travicello, cinque anni di pieno dominio degli impiegati, di acquiescenza a tutti gli ukase dell'on. Luigi Credaro, il quale, da buon pedagogista che si rispetti, fece di tutto per rovinare tanto gli studi superiori quanto quelli medi. Ruffini non ha lasciato memoria di un atteggiamento energico, di una protesta vibrata contro certi regolamenti ministeriali che turbavano, senza migliorarla, la tradizione, che irritavano professori e studenti, che creavano inciampi alle carriere professionali, senza che fossero giustificati da un programma direttivo, da un piú acuto senso dei bisogni della scuola e della cultura nazionale. Lasciar fare, lasciar passare era la parola d'ordine, liberale quanto si vuole, ma altrettanto disgregatrice e confusionaria. Eppure non mancano gli esempi di rettori che presero posizione contro ministri incompetenti e per lo meno contribuirono a screditarli e a mantenere cosí delle possibilità di riprese piú consone ai bisogni della scuola. Credaro e Grippo sono i due poli della politica scolastica italiana, che ha avuto un solo grande ministro dell'istruzione, Francesco De Sanctis. Grippo l'analfabeta, l'incompetente per antonomasia, ha solo pochi giorni fa dato la prova del suo interesse per la serietà e la disciplina, concedendo agli studenti delle scuole private (che per il 75 per cento sono rette da clericali) di poter andare a dare gli esami dove meglio loro piacesse, e quindi dove il passaggio era piú facile, e la dipendenza di clientela piú sicura. Il grande ministero nazionale, che avrebbe dovuto essere piú che esponente di settarismo, il ministero per la miglior risoluzione degli angosciosi problemi dell'ora attuale, lo sostituisce col Ruffini. Un'incognita. Cosa ne scoppierà fuori? Un Credaro o un nuovo Grippo. Non certamente un Francesco De Sanctis.

(19 giugno 1916).

L'INNO DELLE NAZIONI

Domenica scorsa, al giardino reale, durante il concerto organizzato dall'Associazione della stampa, fra i canti patriottici piú popolari, squillarono le note dell'Inno delle Nazioni, che fu scritto — ricordava il programma — in occasione dell'Esposizione universale di Londra nel 1862 e venne eseguito nella capitale britannica al Her Majesty Theatre, il 24 maggio dello stesso anno.

Le parole sono di Arrigo Boito, ma non han meno per questo l'aspetto di ossa scarnificate, senza il rivestimento sublime della melodia verdiana.

La frase finale dell'inno poi — o meglio, il rifacimento di essa, in cui si vollero mescolare le note degli inni nazionali d'Inghilterra, di Francia e d'Italia, — fu, anche dal punto di vista musicale, un artificio stridente, e fece pensare alla fantasia tendenziosa di quegli antropologi da strapazzo, che si son divertiti, in questi giorni, sulle pagine di riviste che van per la maggiore, a fondere i caratteri delle razze alleate nella guerra mondiale con la sovrapposizione di diverse negative fotografiche di soldati appartenenti ai vari eserciti belligeranti. Ognuno comprende come dalla somma di simili negative non possa risultare che la negazione... del buonsenso e l'apparizione teratologica di un tipo non soltanto irreale, ma soprattutto disarmonico.

Ahimè! Pace ed alleanza sono forse termini antinomici e l'armonia universale degli uomini non potrà mai risultare dalla mescolanza voluta di elementi nazionali dissimili, bensí dalla combinazione lenta e spontanea delle affinità e soprattutto dall'esaltazione religiosa degli elementi ideali comuni a tutte le razze.

Oh! La fraternità vibrante nelle note divine, in cui il genio musicale della nostra terra sembrò voler diffondere in un solo abbraccio melodioso tutta l'umanità martoriata dalla furia della guerra! Quella sí che risvegliò un palpito in ognuno dei cuori (cuori di madri, di sorelle, di fratelli, di uomini umani) pulsanti come un cuore solo, domenica, sotto la carezza dolce e possente della suasione musicale.

... E fuvvi un giorno

che passò furïando quel bieco

fantasma della guerra, e allora udissi

un cozzar d'armi, un saettar di spade,

un tempestar di carri e di corsieri,

un grido di trionfo... e un ululante

urlo... e là dove fumò di sangue

il campo di battaglia un luttuoso

camposanto levarsi e un'elegia

di preghiere, di pianti e di lamenti...

Un brivido attraversò la folla — folla di madri, di sorelle, di fratelli e di uomini umani, umanizzati dal sacro soffio dell'arte — alla evocazione funesta della sanguinosa realtà.

Ma in oggi un soffio di serena dea

spense quell'ire, e se vi fur in campo

avversari crudeli, oggi non v'hanno...

La folla muta, sospesa come un uomo solo, come un bimbo solo, con la gola serrata di pianto e con le lacrime benedette a fior di ciglia ascoltò la promessa che le pioveva dal cielo, dall'armonia, e col bardo pregò:

Signor che sulla terra

rugiade spargi e fiori

e nembi di fulgori

e balsami d'amor,

fa' che la pace torni

coi benedetti giorni,

ne dona santi e belli

secoli di splendor.

E un mondo di fratelli

sarà la terra allor.

In quel momento ognuno sentí che qualche cosa esiste, qualche cosa vibra e s'afferma ineluttabilmente al di sopra degli eserciti cozzanti nelle stragi iterate; in quel momento per virtù di colui, che fu simbolo della patria negli anni sacri del Risorgimento nazionale, per virtú dell'eroe mite, che prestò le lettere del suo nome gentile come il sorriso delle nostre pianure all'anagramma ingegnoso affermante la aspirazione irresistibile del popolo nostro verso la libertà, in quel momento per virtú di Giuseppe Verdi, sentí ognuno come au dessus de la mêlée vi sia spazio per un amore che non s'arresta davanti a notre prochain ennemi!

E la Marsigliese della pace, fusa con la melodia verdiana, risonò nel cuore di tutti coi versi di Lamartine, musicali e solenni come l'onda del Reno a cui si ispirano;

Des frontiéres aux cieux voyons-nous quelque trace?...

L'égoisme et la haine ont seuls une patrie - la fraternité n'en a pas!

(20 giugno 1956).

LA CONSOLATA E I CATTOLICI

Il socialismo non trae le sue origini da un sistema filosofico che esclude l'idea di Dio o che, perlomeno, non riconosce l'utilità sociale della religione. Per conseguenza fra cattolicismo e socialismo non esiste alcun distacco essenziale e l'atteggiamento antireligioso del partito non è che un'incrostazione della moda positivistica di vent'anni fa, contro la quale gli stessi socialisti piú intelligenti hanno incominciato a reagire.

Con siffatti ragionamenti qualche cattolico vuol riuscire a dimostrare l'utilità di un'alleanza permanente tra noi e le forze clericali, o almeno di un avvicinamento simpatico. Cumulo di spropositi da una parte, propositi irrealizzabili dall'altra. Non val la pena neppure di ricordare che il socialismo critico poggia graniticamente sull'idealismo germanico del secolo XVIII, che, pur non coincidendo con la moda positivistica, non ha meno perciò ghigliottinato l'idea di Dio; Hegel è sempre la bestia nera dei cattolici, perché non è facilmente confutabile come Enrico Ferri o Cesare Lombroso. Un professore di storia della filosofia è stato respinto dalla nostra università per la molto settaria ragione che, essendo hegeliano, era aborrito da una pattuglia di colleghi clericaleggianti. La differenza di concezione, di sistemazione filosofica tra socialisti e cattolici si rivela in ogni atto, in ogni presupposto, perché sia necessaria una dimostrazione dottrinaria.

A Torino, per esempio, ieri c'è stata la grande fiera per la Madonna della Consolata. Il grande bazar della superstizione piemontese era sfavillante di lumi, di oreficerie (vere o di princisbecco) e di compunzione. Un telegramma del cardinale Gasparri aveva annunziato indulgenza plenaria per trentasei ore. Il papa aveva mandato una pisside capace di mille particole e ornata di settanta pietre preziose. Facciamo pure astrazione da tutto questo armamento scenografico; badiamo pure solo alle iscrizioni che il munifico dono papale reca con sé quale espressione di un pensiero: «Fiat pax in virtute tua, virgo Consolatrix Maria». Latino facile, comprensibile anche ai proletari. Ebbene, anche per la pace la posizione dei cattolici è in antitesi stridente con la nostra. Aspettano la redenzione dalla grazia, essi, invocano la buona volontà dei santi, quando sarebbe piú opportuno fare appello a quella degli uomini. Per essi vale solo l'autorità, la rivelazione, la parola di Dio, poiché pongono la scaturigine dei fatti umani fuori dell'uomo, in una volontà suprema che tutto abbraccia e tutto giudica, e spartisce il torto o la ragione al lume di una semitica concezione del bene e del male che può valere per gli schiavi, non per gli uomini. Noi non aspettiamo nulla da altri che da noi stessi; la nostra coscienza di uomini liberi ci impone un dovere, e la nostra forza organizzata lo attua. Solo ciò che è opera, conquista nostra, ha valore per noi, diventa parte di noi stessi, non ciò che viene elargito da un potere superiore, sia esso lo Stato borghese, o sia la Madonna della Consolata. Non è quindi solo la ripugnanza per il rito, per l'esteriorità, per il simbolismo ormai vuoto di ogni contenuto di fede che, a malgrado gli sforzi dialettici di qualche abile casuista, ci tiene lontani dal cattolicismo. È l'antitesi insanabile delle idee; l'uomo che ha acquistato coscienza della forza della sua volontà, dell'efficacia della sua coscienza nella storia, non vuole piú saperne della Consolata e delle sue virtú taumaturgiche. E nel mondo cattolico ci sono ancora troppe Consolate.

(21 giugno 1916).

TEODORO E SOCIO

Alcuni episodi minimi della recentissima crisi di governo, annunziati in poche righe dai giornali, hanno gettato sprazzi di luce rivelatrice su uomini e su metodi, su maneggi e su retroscene.

La «Stampa», in una corrispondenza romana, varava una candidatura di Teofilo Rossi ad un qualsiasi ministero. Chi sa perché: per levarselo d'intorno a Torino, o per introdurre nel ministero un fido segugio di S. E. Giolitti, nel cui nome possono riconciliarsi Rossi e Frassati? Purtroppo l'affare non attaccò: nessun altro giornale ne fece cenno, ed il posto riservato al senatore piemontese fu conquistato da Ruffini. Ma Teofilo non rimase inerte, si precipitò a Roma e fu ricevuto da Boselli. Che cosa succedette? Quali argomenti e quali parole commoventi ebbe per perorare la sua causa o quella del fratello? Certo qualcosa ottenne: se non il portafoglio per sé, il sottosegretariato per il fratello Cesare Rossi, che arriva in questo modo alle Poste.

Cosí il potere politico si conserva nella famiglia e si tramanda di parente in parente.

Ricordate come Cesare divenne deputato di Carmagnola? Il collegio era stato conquistato da Teofilo, ed era costato alla ditta parecchie centinaia di migliaia di lire. Egli era poi già riuscito a diventare sottosegretario, quando i consorti torinesi, non sapendo quale migliore esponente scegliere della coalizione clerico-moderata a capo della città, elessero questo grosso e grasso commerciante, dalla mentalità, dalle ambizioni e dalle abitudini di arricchito bottegaio bôgianen. Ebbe allora il sindacato e il laticlavio, e cedette il collegio al fratello. Cosí l'ascensione dell'uno facilitò quella dell'altro, e i danari spesi nell'industria elettorale-politica fruttarono bene per ambedue. Allora la «Stampa» andò in bestia contro il feudalismo della ditta Rossi; adesso tace! Ma in fondo gli elettori di Carmagnola furono ben soddisfatti del successore, che continuò a pagare, ad offrire bandiere alle società di mutuo soccorso ed oboli alle varie madonne ed ai relativi sacri servi. Oggi Cesare succede a Teofilo, anche nel sottosegretariato, e proprio in quello delle Poste.

Nessuno ha mai avuto in parlamento la fortuna di sentire la voce di Cesare Rossi, nessuno ne conosce merito o qualità alcuna, ché unanime giudizio fu pronunziato sulla sua infinita ignoranza ed incompetenza politica, ma è gente che sa guadagnare centinaia e migliaia di lire...! Cinquanta milioni di bottiglie di vermouth all'anno esportate; la ditta trionfa! Il vermouth serve a diventare deputati o senatori e ministri, le cariche politiche valorizzano l'industria ed in occasioni opportune le procurano facilitazioni convenienti; e gli affari tutti vanno splendidamente!

(22 giugno 1916).

LA MATRICE

Raccontano i biografi di Caterina Sforza che quando il duca Valentino volle prendere d'assalto la città di Ravenna, per costringere la donna alla resa, applicò alle macchine d'assedio i figlioli di lei. Ma Caterina di sopra alle mura assisté impassibile allo strazio delle sue creature, e al duca che irrideva beffardo, ella, la madre, la donna castissima, fece un gesto plebeamente eroico. Con una mossa violenta scoprí gli organi del sesso, dicendo, che finché lei, la madre era viva, non doveva il nemico menare trionfo: perché chi aveva dato alla luce quei giovani, altri ne poteva creare e meglio vigorosi perché avrebbero succhiato col latte materno l'odio per gli assassini.

Prendiamo come simbolo il gesto plebeo di Caterina Sforza per il proletariato internazionalista. Lo stremato manipolo rimasto ancora fedele nel fondo del suo programma ideale, si vede stretto d'assedio, bersagliato dagli avversari. L'Internazionale si è vista amputare alcuni dei suoi figlioli piú vigorosi, ed essi sono diventate macchine guerresche per debellare la cittadella e le ultime ridotte dei refrattari. Dovrebbe la madre disperarsi per il tradimento, urlare la sua estrema maledizione, e disfarsi, ritornare nel nulla? Gli avversari attendono ciò ghignando beffardi, irridendo all'impotenza, all'esaurimento. Ma non è sincero il loro riso, la loro gioia si esaurisce in se stessa e non basta a tranquillarne le coscienze turbate. Perciò con odio si scagliano su ogni manifestazione internazionale che accenni ad una nuova ripresa feconda. Hanno visto che la matrice da cui sono generati tutti i movimenti proletari non è esaurita, che essa non può essere resa sterile da nessun chirurgo borghese.

[Sette righe censurate].

Zimmerwald, Kienthal acquistano un significato tremendo da tutto ciò. Segnano un solco profondo tra il passato e l'avvenire del nostro movimento. Ci siamo stretti piú dappresso gli uni agli altri, ci siamo contati e guardati negli occhi, resi piú profondi dallo strazio. E abbiamo acquistato la coscienza della nostra perenne giovinezza, della nostra inesauribile fecondità. A Zimmerwald e a Kienthal l'Internazionale ha mostrato alla borghesia delle nazioni in guerra, che appiccati alle macchine di distruzione le mostrava i suoi figli ieri cosí vigorosi, la sua matrice e le sue possibilità di ricrearsi la prole perduta. E a Borgo S. Paolo l'altro ieri il proletariato torinese ha acclamato unanime alla gran madre immortale, che sente vivere nella sua coscienza.

(23 giugno 1916).

HISTORIA MAGISTRA VITAE

Avevamo quasi quasi finito per credere alla serietà degli storici ed alla loro esattezza. Tanti volumi, saggi e contributi, tanto minuzioso, paziente esame dei fatti piú remoti e piú insignificanti, non potevano non impressionare favorevolmente, e dinanzi alla serie interminabile di volumi che ci descrivevano con la massima precisione le vicende di una battaglia punico-romana, d'una lotta elettorale greca, o gli amori omosessuali di un imperatore qualsiasi, il volto dei profani rimaneva attonito e credevamo, credevamo fiduciosamente. Ma ahimé, la storia oggi la fanno i giornali, e i giornalisti hanno rovinato anche il mestiere degli storici. In un altro periodo, nel quale sia possibile, piú calmi e meno premuti dall'affannoso precipitare degli avvenimenti, riandare la storia che oggi viviamo e sorriderne, quale magnifico tema per un elogio della menzogna! Ma quale terribile manifestazione della impossibilità di conoscere la verità vera anche dei fatti piú noti e piú prossimi! La storia documentata delle nostre epoche non vale in verità piú delle leggende e dei miti che di bocca in bocca, di generazione in generazione si tramandavano i popoli antichi che non avevano scrittura, né biblioteche e non conoscevano il metodo moderno critico e positivo.

Due giorni or sono un quotidiano torinese annunciava seriamente che «gli austriaci fuggono cosí in fretta che neppure la cavalleria russa può raggiungerli...» Ed è di ieri la fantasmagogica storia di Issa Borlettinaz, un capobanda albanese che in due o tre mesi la «Stampa» riuscí a far marciare per i turchi contro i serbi, per questi contro quelli e, dopo averlo ammazzato e fatto risuscitare, a spedirlo in guerra a fianco dei greci contro i serbi. Ed ai giornali fanno degno riscontro i libri. Nell'Italie en guerre, pubblicato in questi giorni da Henri Charriaut in una biblioteca di filosofia scientifica, edita a Parigi dal Flammarion (e mi assicurano che autore e editore passano in Francia per persone serie), ho letto delle storielle graziosissime sui socialisti italiani e sul nostro contegno.

Naturalmente la storia del periodo precedente l'intervento italiano, quella delle giornate di maggio, l'esame delle tendenze e del contegno dei vari partiti politici, è fatta nel solito modo partigiano e stupido. Ma vi sono dei particolari semplicemente buffi. Turati avrebbe detto a suoi colleghi della direzione del partito: «Quanto il Kaiser e Francesco Giuseppe vi hanno pagato?» «Il socialista Südekum arrivò a Roma con le mani piene per ampie distribuzioni...» «Il settarismo dei discorsi di Claudio Treves fece ribrezzo anche a dei neutralisti e a dei socialisti». E non poteva mancare l'accenno ai marchi tedeschi: «Il Partito socialista rifiutò le 200 000 lire (di Greulich) — e questo gesto lo onora — ma tutti sono convinti in Italia che la manna germanica non fu da molti sdegnata». E si citano dei fatti e si fanno dei nomi. Un collaboratore del «Correspondent» ha raccontato: «Da molto tempo numerose organizzazioni operaie di tendenza rivoluzionaria sono sostenute finanziariamente da possenti sindacati socialisti tedeschi. Si tratta specialmente delle Federazioni dei muratori e dei metallurgici, i segretariati delle quali ricevono importanti sussidi da oltre Reno».

Oh Buozzi, Colombino e Quaglino, rivoluzionari e pagati dai tedeschi! Chi vi conosce piú.

E riportando un brano del nostro «Grido» commemorante il compagno Marchetti, caduto in guerra, il bravo autore commette qualche leggera svista. Diceva l'articolo: «partí con la sua fede». Traduce: «il était parti avec foi».

Ed in seguito: «L'avvocato Caldara, il sindaco socialista di Milano, proclamò il suo accordo con Mussolini».

Ed ancora: «A Roma l'Unione socialista approvò Mussolini».

Cosí si scrive, oggi, la storia. La quale, come insegnano Cicerone e la pedagogia sperimentale, è «la maestra della vita».

(24 giugno 1916)

LA DIVINA FAVELLA

Beati tempi, quelli dell'Arcadia in Italia! i gesuiti esercitavano un fiero controllo sulle intelligenze, la congregazione dell'altare raschiava dai cervelli e dai libri le idee pericolose. L'attività intellettuale si riduceva a belati lacrimosi sui canini e sui nei artificiali, la censura ecclesiastica aveva ridotto l'Italia in una bellissima aiuola di papaveri sonniferanti e di innocue violette. La caratteristica di questa età è la lunghissima discussione sulla bellezza, sulla purezza, sull'origine e l'avvenire della lingua. Tutti vi partecipano e ne traggono volumi e spunti per polemiche feroci.

La passione polemica compressa dalle restrizioni gesuitiche può sfogarsi in qualche modo, su qualcuno, contro i puristi codini, contro i modernizzanti sovversivi, contro gli infranciosati, ecc. ecc. La censura è eterna! Evviva dunque la censura!

Quando non si può parlare e scrivere liberamente, si finisce per non pensare ad altro che alla parola e alla lingua. L'espressione diventa un'ossessione. L'insincerità, il sotterfugio stilistico finisce inconsciamente col prendere la mano e col falsare il carattere.

La francofilia di qualche cattolico, Maria di Borio, per esempio, stucchevole romanziera quanto bigotta predicatrice di virtuosismo, per salvarsi dai fulmini dell'autorità ecclesiastica, si maschera di ammirazione per la lingua francese; la quale, tra tutte le lingue del mondo, ha certo raggiunto la connessione piú intima colla verità, essendo chiara, ordinata ed efficace ad un tempo.

Il «Momento» batte sul cane perché la censura politica non permetterebbe di battere sul padrone, e ricorre perfino a Benvenuto da Imola per dimostrare che il francese è figlio bastardo del latino, e che la «piú bella e dolce e nobile ed efficace lingua del mondo è la nostra, chiamata perciò dal Foscolo: divina favella». Tutte le censure possono essere soddisfatte. Il «Momento» avrebbe tante cose interessanti da scrivere. Per esempio potrebbe dirci il suo pensiero sui gesuiti che conquistano le chiese e mettono sulla strada i parroci da venticinque anni officianti. Ma l'arcivescovo ha posto il veto. Potrebbe dirci tante cose sulle questioni del giorno, la cui sola enumerazione è vietata, ma la censura politica lo vieta. E allora, riflettendoci su un pochino, arriva alla conclusione che la lingua italiana è pure una bella cosa, anche se la mordacchia la comprime. E rifila l'articolo per Benvenuto da Imola, per il romanticismo di Dante contro quello tedesco e francese, per le viole mammole e i papaveri contro i cardi e i pungitopo. Non manca piú che il referendum e il concorso a premio per la migliore poesia sull'argomento.

Anche noi bisogna che troviamo il diversivo. La «divina favella» o l'esperanto, o il modo di purgarsi con un nuovo citrato, non importa. Perché, se la censura ci proibisce di scrivere su cose nostre, [...]1, se non vuole polemiche sindacali, né schermaglie di idee, bisogna pur trovarlo un surrogato. Un boschetto arcadico, i nei artificiali, gli amori delle oneste villanelle, la colica del canino del prevosto: a ciò deve ridursi ogni buon italiano, a maggior gloria del ministero nazionale.

(27 giugno 1916).

LA CAMPANA

Il gergo barabbesco si è impadronito della parola santa, l'ha ricreata, le ha dato un contenuto proprio, fantastico, che non potrebbe essere meglio espresso. Compare è già un'altra cosa; indica piuttosto la complicità morale, è piú generico, meno plasticamente vivo. Piú ancora di palo, rigidamente statico, legnoso, senza voce e possibilità di richiamo, campana fa subito pensare alla vigile anima sonora del bronzo, che squilla, suona a martello, lancia nello spazio i suoi rintocchi ammonitori che avvisano del pericolo lontano.

Pippo il guercio, Pinot gambelunghe, campane principi, che conoscete le malinconiche lunghe soste agli angoli delle vie buie nelle notti nebbiose, la vostra onorata fama di guappi ha un temibile concorrente. Egli è il cardinale arcivescovo, il santo presule che passa per le vie del suo ovile, rosso di tutte le fiamme della vergogna, e con gesto stanco tende la mano grassoccia alla folla di curiosi che s'inchina e bacicchia l'anello, sigillo di iniquità e di frodi. Piantata all'angolo di via Garibaldi, questa ribalda campana vigila a che i saccomanni non siano disturbati nella loro rapina di cose sacre. Il questurino scivola lentamente e evita di intervenire; e la donna di marciapiede, la democrazia imbellettata di via Quattro Marzo, ammicca furbescamente e tace prudente. La clientela è scarsa e non conviene turbare il poco commercio con inopportuni sbandieramenti di sacri principi. Le nostre sassate hanno un po' turbato le facce pallide dei vari padri Fort, che hanno già piantato l'accampamento nella chiesa dei SS. Martiri, e fra l'orma delle pedate di S. Giulia e il pellegrinaggio al Santuario di S. Ignazio, incominciano a tessere le ragnatele, in cui cadranno pingui eredità, passaporto per il paradiso di tremule anime aristocratiche, il cui corpo è tarlato irrimediabilmente dal fuoco corrodente del vizio e del peccato, e gli oboli dei politicanti che gioiscono della nuova possente colonna su cui la buona causa potrà in avvenire appoggiarsi.

Ce lo dice una delle facce pallide, fermando il suo obliquo passo silenzioso sotto le navate deserte. Essa non dubita dell'identità dell'interlocutore. La censura ci ha abituato ai silenzi, bianchezza verginale; il gesuita crede alla nostra parola, si sbottona, comprendiamo, fiducioso. Fiducioso e con un sorriso sulle labbra sottili di discreto trionfo. Leggi dello Stato, proteste di cittadini, voti di consigli comunali, rumori mondani cui egli tende appena l'orecchio; la campana lo protegge e al momento opportuno i cittadini taceranno, la giunta troverà che tutto va bene perché il diritto canonico è stato osservato, e lo Stato continuerà come prima a non far osservare le leggi. La campana non ha vibrato, non ha avvisato di pericolo alcuno, ed è una buona campana, che sa il fatto suo e prende a cuore gli interessi dei suoi buoni amici. E il batacchio è a Roma in mano del generale, in mano alla congregazione del Concilio, che hanno le braccia lunghe e sono tanto influenti, tanto cari e diletti anche a chi si adorna del serpente verde e del grembialino massonico. Nelle labbra sottili vive sempre il sorriso indefinibile di sicurezza, di trionfo.

È vero però che altre volte altri battacchi hanno suonato a Torino, a martello e a festa, e non fu lieto suono quello che diedero le benedette terga dei discepoli di Loyola.

(28 giugno 1916).

IL PROFUMO E IL DECOTTO

Anacleto Morra, assessore della città di Torino, a malgrado del nome prosaicamente filisteo, si è rivelato uno squisito esteta. I frequentatori del Valentino devono ringraziare tutti i numi dell'Olimpo del fortunato caso che ha posto Anacleto Morra sul seggiolino che cosí degnamente ha mostrato di coprire. Egli è uomo dai larghi orizzonti, dalle vedute aperte e geniali. In questi tempi di industrialismo sopraffattore, di utilitarismo volgare, egli, discepolo finora ignorato di Ruskin, prende parte per la Bellezza disinteressata, per il profumo di tiglio contro il decotto di tiglio.

Qualcuno ha protestato contro l'assessore. Si afferma che in tempo di guerra il decotto ha maggiori diritti del profumo, e che i frequentatori del Valentino avrebbero con rassegnazione sopportato il sacrifizio dei fiori di tiglio, pensando al ristoro che il decotto avrebbe arrecato ai soldati giacenti negli ospedali e pensando inoltre che la vendita dei fiori doveva andare a benefizio all'Ufficio per la confezione di indumenti ai soldati che combattono. Ma l'assessore conosce meglio di chiunque lo spirito dei suoi amministrati. Sa che non bisogna domandare sacrifizi collettivi a chi non è disposto a fare il proprio dovere individuale. La collettività, perché anonima, non arrossisce del proprio egoismo. Ogni giorno il municipio sospende qualche sussidio a famiglie di richiamati, perché i denari sono pochi e la sottoscrizione si è arenata. La borghesia torinese non vuole scomodarsi. La sua frigidità la dimostra in ogni modo, ogni giorno. E la giunta, che accumula in sé tutti i difetti della borghesia che rappresenta, non vuole forzare la mano, non fa nulla per educare al sacrifizio, anzi non sente neppure la possibilità del sacrifizio, perché non può vivere di nessun entusiasmo. Arriva sempre in ritardo in ogni manifestazione nazionale. Felicita prima Cesare Rossi per il sottosegretariato che Cadorna per la ripresa di Asiago, Cesare Rossi che non ha altro titolo municipale se non quello di essere fratello di Teofilo. Si preoccupa dei cittadini che non devono essere privati «del gradevole profumo che dai viali del corso Massimo d'Azeglio si espande nel parco del Valentino, e ne forma in questa stagione una delle piú gradite attrattive», piú che dei soldati che aspettano indumenti e decotti. Salvo alla prima occasione a lanciare un nuovo appello reboante per intenerire le borse ammaestrate da questi esempi magnifici.

La giunta è un ramo secco della vita di Torino. Non rappresenta piú nessuno; assunta ai seggiolini come fulminea risposta al socialismo negatore della guerra di Libia e tentante la riscossa proletaria nel giugno 1914, non sente il dovere di eccitare ora la borghesia al sacrificio che la sua volontà guerresca ha imposto a tutti quanti e specialmente agli irresponsabili. La borghesia, per bocca dell'assessore Anacleto Morra, elude i suoi doveri piú immediati, dobbiamo ricordarcene. E fa pagare cari i decotti di tiglio mancati per non privare i fannulloni del delicato profumo che da corso d'Azeglio si spande su tutto il Valentino.

(30 giugno 1916).

UNA LEGA ECONOMICA COMUNE

Siamo riusciti a leggere lo statuto sociale della nuova lega costituitasi a Torino con lo scopo nobilissimo di purgare gli italiani della turpe abitudine della bestemmia. La prima parte, che afferma, con espressioni degne del piú alto encomio, come qualmente «troppo ormai ci ha infastidito l'odiosa immoralità dell'insulto alle norme piú elementari dell'educazione e del sentimento di una nazione civile, perché nell'ora presente, in cui i nostri fratelli sulle frontiere della Patria con lavacro generoso purificano materialmente la Terra che Dio ci ha dato colla vittoria delle armi, non debba anche moralmente risplendere la gloria secolare d'Italia, maestra sempre di civiltà e di gentilezza», e che dobbiamo pensare «seriamente alla completa rigenerazione del nostro popolo cosí efficacemente iniziato al rombo del cannone», questa prima parte, dunque, possiamo anche trascurarla, sebbene sia stata laudabile cosa cercare di innestare l'attività della lega a un processo di rigenerazione iniziata al rombo del cannone, il quale tanti ammaestramenti lascerà nella coscienza degli italiani. La parte piú interessante del programma è la seconda, perché in essa troviamo la risoluzione concreta del tremendo problema della bestemmia. Visto e considerato, afferma, che l'uomo fondamentalmente buono (dato che solo tale lo poteva creare la volontà di Dio onnipossente) non bestemmia se non quando a ciò è trascinato dai tristi casi della vita; visto e considerato che l'uomo tira in ballo in questi tristi casi della gente irresponsabile, quale Dio, la Madonna e tutta la gerarchia celeste, poiché non riflette che invece dei suoi malanni origine precipua sono gli istituti terreni, si propone: di convincere i bestemmiatori, con conferenze e amichevoli conversazioni, a riflettere che se una tassa viene aggravata, se il padrone di casa aumenta il fitto, se la moglie strilla che non si può tirare innanzi, perché tutto rincara e il lavoro non dà il necessario per vivere, ecc., è perfettamente inutile affermare che Dio è faus e che la Madonna è un poco di buono. Piú utile sarebbe di cercare di cambiare il governo, i padroni di casa, i principali, e fare in modo che non sia piú in loro arbitrio il tassare i poveretti, angariare gli umili, lasciando a questi come unica libertà lo sfogo della bestemmia e del turpiloquio. Visto e considerato che la gran massa degli uomini bestemmiando non fa inconsciamente che un atto di resistenza ad una volontà superiore alla sua; che invece questa resistenza dovrebbe estrinsecarsi in modo piú congruo ed efficace, solo che questa massa avesse piú coscienza della propria forza e della possibilità che questa le offre di cambiare ciò che deve essere cambiato, e di togliere di mezzo tutte quelle cause che ora rendono infelice la sua esistenza, la conducono a sfoghi inconsulti e inverecondi contro entità metafisiche che sarebbe meglio lasciare nelle loro nicchie. Visto e considerato tutto, la lega decide di uniformare la sua azione pratica a questi concetti, fa obbligo ai suoi propagandisti di non tirare in ballo la gentilezza latina, le punizioni del fuoco infernale e tutto il resto, armi vecchie e spuntate che hanno fatto il loro tempo e si sono dimostrate sempre inefficaci, ed insegnare invece che, essendo l'uomo causa di tutto ciò che avviene nel mondo, bisogna prendersela contro gli uomini, e cercare di togliere a quelli che ora sono i padroni la possibilità di nuocere. E poiché finora questi insegnamenti sono stati patrimonio dei socialisti...

A questo punto il testo dello statuto che è venuto in nostre mani è monco. Non possiamo perciò dire quale sia l'ultimo obbligo. Possiamo però assicurare che dati i nomi delle persone che compongono il comitato direttivo della lega (conte Prospero Balbo, cavalier Edoardo Bellia, conte Olivieri di Vernier, ecc.) non sia da pensare che si consigli ai soci di iscriversi nel nostro partito. Del resto noi non li vorremmo.

(1° luglio 1916).

COSCIENZA TRIBUTARIA

È proprio necessario che Luigi Einaudi intensifichi la sua propaganda. È indispensabile che la borghesia acquisti una coscienza tributaria e non dia di sé miserevole spettacolo ad ogni nuovo aggravio. Proponiamo alla giunta di istituire una cattedra ambulante di predicazione tributaria e di assegnare l'alto ufficio agli scrittori dei giornali cittadini come Borgatta, Cabiati, Lissone sotto il severo patronato del direttore della «Riforma sociale». Perché siamo usciti dal Palazzo di Città profondamente disgustati e perplessi sui destini della patria, e vorremmo fosse posto termine alla gazzarra che si delinea indecorosa.

Lamenti, proteste, fischi per il modo col quale sono stati compilati i ruoli della tassa di famiglia. Nessuno è soddisfatto, tutti hanno subito ingiustizie potenti, soprusi indegni, e reclamano, e vogliono la crocifissione e la lapidazione degli impiegati. Nessuno naturalmente si preoccupa di far conoscere all'ufficio il suo reddito esatto, nessuno domanda di essere tassato per tutto il suo reddito. Si fa solo questione di relatività. Il conte tale, che tutti sanno... paga meno di me; la mia padrona di casa che ricava tanto, paga solamente... e cosí via. Perché i ruoli sono deficienti, perché qualche altolocato papavero è riuscito per diritto o per traverso a eludere il fisco, tutti vogliono tentare l'alea, e cercano trasformare in bancherelle da fiera, con contratti a tira e molla, gli sportelli degli uffici.

Perciò proponiamo le cattedre ambulanti. Gli ammiratori dell'Inghilterra possono trovare esempi giustificativi a bizzeffe. È troppo facile predicare dalle colonne dei giornali, senza esporsi a ricevere i torsi di cavolo degli insoddisfatti. La coscienza tributaria si plasma scendendo in mezzo ai catechizzandi, cercando di persuaderli delle verità nell'atto stesso in cui devono adempiere al loro dovere di contribuente. Questa gente che sbraita continuamente contro la demagogia socialista perché cerca rivoltare le masse contro lo Stato, che con una gragnuola di balzelli indiretti tartassa la miseria innumerevole, dovrebbe essa ora fare opera educatrice nella cerchia della classe borghese, perché questa demagogicamente non tenti scappatoie indegne. Dovrebbero cercare di fare opera affinché tutti questi protestanti si persuadano che i gettiti statali e comunali devono trovare la fonte piú redditizia nella ricchezza consolidata e non nel consumo e che è dovere di ogni buon borghese denunziare chi elude e non farsi forte del fatto che qualcuno froda per frodare a sua volta.

Ma quale dei moralisti tipo Einaudi osa arrivare fino alle estreme conseguenze dei suoi presupposti? Vorrà il comm. Alberto Geisser tradurre nella pratica della vita torinese, mediante la sua opera di consigliere comunale, la magnifica teoria della «Riforma sociale»? Quale degli amministratori tipo Rossi osa costringere almeno se stesso a dare tutto ciò che è morale dia all'erario? La coscienza tributaria della borghesia rimane sempre quella: gravare la mano indirettamente su tutti facendo abbassare il livello di vita generale, e lasciare immune la vera ricchezza, quella che avendo raggiunto un certo margine, non risente piú i contraccolpi degli avvenimenti e delle crisi.

La massa è troppo amorfa e policroma e si lascia tosare senza proteste efficaci, la ricchezza è ristretta a pochi, ed a questi è piú facile strillare, dar gomitate, ridurre gli sportelli degli uffici in mercato di vociatari che fanno il gioco del tira e molla. Dove si dimostra che la borghesia, anche nelle migliori delle ipotesi, non ha la capacità di tassare se stessa equamente, e come la coscienza tributaria non riusciranno a fargliela acquistare che gli amministratori socialisti, indagando ed imponendo senza la pietà di se stessi, di cui nessuna classe non riuscirà mai a spogliarsi.

(2 luglio 1916).

SESSANTAQUATTRO E TREDICI

Sessantaquattro è il numero dei consiglieri della maggioranza. Sessantaquattresimo è il sesto preferito dai librai che lanciano nel mercato i libri della cultura spicciola, quelli che si mettono nel taschino del panciotto, che si offrono alle signore tra una chicchera di the e l'altra, e si buttano via senza rimpianto, perché non starebbero bene in nessun scaffale, accanto agli altri volumi, seri, composti, gravidi di pagine e di contenuto. Fra i sessantaquattro ci deve essere, e c'è infatti, un sessantaquattresimo, un tomino gingillo, un bebé dei padri coscritti, che lo accarezzano e gli fanno festa quando è utile sfogliarlo, e lo mettono nel taschino o in soffitta quando la sua vocetta stridula e balbettante dà noia o è fuori luogo. Accanto alla cultura accademica dei professori come Foà, Einaudi, Ruffini, ecc., accanto alla onniscienza squarquoia di Teofilo Rossi e di Luigi Grassi, rappresentanti l'intellettualità libera, l'autodidattismo, la vecchia tradizione del giornalismo piemontese un po' togato, ma battagliero, la critica musicale e letteraria del Piemonte buzzurro, che imponeva Wagner al becerismo fiorentino stornellaio e piedigrottaio della nuova Italia. Come l'ape della favola ha vagato di fiore in fiore nel giardino della cultura, ma il sesto è rimasto sessantaquattresimo. Demi-mondaine dell'intellettualità, non può liberarsi del baco che lo rode, che lo deturpa; non riesce mai a farsi prendere sul serio, ad uscire dalla cerchia dell'occasionale, dell'attimo fuggente, per occupare anche un modesto posticino fra gli in quarto e gli in ottavo delle biblioteche serie. Severo giudice dei bilanci altrui, successore in pectore ieri di Teofilo Rossi, d'un tratto mostra il puntino nero d'un baco che lo insozza, e la risatina degli amici, che se ne accorgono, lo rimandano nel limbo delle probabilità. Quando pare piú assorto in un problema serio, angoscioso, la sua attenzione divaga per una preoccupazione futilissima. Gli è che nel suo spirito il futile e il serio, l'angoscioso e il grottesco si confondono, si conguagliano; il baco lavora e il cervello perde la nozione dei valori. Mentre tutti sono assorbiti nei problemi dell'ora, mentre il comune si dibatte preso da ogni parte nella morsa degli errori accumulati in sette anni di sgoverno rossiano, l'uomo del baco, l'ex assessore, il sindaco rientrato è travagliato da un «essere o non essere?», che lo pone fuori di sé. Finalmente si decide, prende la sua autorità a due mani e fa togliere dall'anticamera del consiglio il n. 13 dei portamantelli. Sospira liberato da un incubo; ripensa ai sotterfugi, agli anticipi d'orario, ai giochi di nascondino cui dové ricorrere per liberare i suoi indumenti dall'influsso di quel numero fatale, gli sforzi fatti durante i discorsi ponderosi per vincere l'afasia mentale che l'incubo del 13 gli procuravano. Sospira il pover'uomo, tranquillato, alfine sicuro del segretuzzo professionale che avrebbe dovuto nascondere il puntino nero del baco. Ma ahimé, il mondo è cattivo; butta nell'immondezzaio le meline fradice, non risparmia i graziosi gingilli, ma vuol vedere, come ogni bimbo bizzoso, come essi sono fatti. Rimettiamo dunque anche noi il tomino in sessantaquattresimo nel taschino del panciotto, dimentichiamo d'averlo trovato per caso in fondo ad un cassetto polveroso, fra una monetina greca ed una miniatura falsa, mandiamolo al balôn; ce ne daranno quattro soldi; e francamente, esso non vale di piú.

(4 luglio 1916)

BOLLETTINO DEL FRONTE INTERNO

Abbiamo colto altra volta il prof. Vittorio Cian nelle sue funzioni di strenuo milite... del fronte interno. Intorno a questa tipica macchietta di «eroe» in pantofole stiamo mettendo insieme un dossier interessantissimo, che conserviamo per tempi migliori, quando la censura sarà rimandata tra i ferravecchi, e Vittorio Cian si candiderà deputato contro Giordano o contro Morgari. Diamo intanto un piccolo assaggio della poderosa opera che veniamo preparando, sicuri di superare in rinomanza e in popolarità il Croce e le sue «sottilissime astuzie di Bertoldo».

Racconta uno studente: Siamo ad una lezione del professore di letteratura italiana, Vittorio Cian. Abbacchiamento generale degli ascoltatori. Con la voce modulata su quella della indigena piva, ovverossia rustica zampogna, il professore legge un noiosissimo carme di Francesco Petrarca, [otto righe censurate].

Due ascoltatori assorti in chissà quale pennacchia di graziosa signorina, sorridono ebetemente, se vogliamo, ma innocentemente, senza disturbo nessuno. Ma Vittorio Cian coglie il sorriso, sbatte il libro, come fosse una bomba a mano, sul tavolino, inalbera la sua personcina da bellissimo bersagliere, e una profluvie di male parole sgorga dalle sue purissime labbra. «Chi osa sorridere mentre il Petrarca parla della patria, che in questo momento è insanguinata di barbarico sangue, è un degenerato, è un mascalzone!» La voce attinge le alte note del piffero. Tutti sono allibiti. Un soffio di pazzia criminale soffia nell'aula che sentí la umana parola di Arturo Graf, e sente tuttora quella di Arturo Farinelli. Vittorio Cian, a un debole tentativo di giustificazione dei due degenerati e mascalzoni, si prepara al pugilato. I due se la dànno a gambe e corrono ancora.

Conclude lo studente con aria desolata: — Ma non ci sono accalappiacani a Torino?

Racconta una distinta signora, benevolmente conosciuta nel campo magistrale torinese: Mi trovavo in tram con una mia amica. Ella mi raccontava la sventura di un suo figliuolo tornato dal fronte mutilato. Nell'accoramento dei ricordi la madre si lasciò sfuggire espressioni che fecero subito imbronciare un signore seduto vicino a noi. «Signora, se ella non smette sarò costretto a far fermare il tram e a chiamare le guardie». La mia amica stupita domanda: «Ma lei chi è?» «Le sarò presentato alla questura». Il tram è fatto fermare e la signora additata alla questura, e il professore si allontana con la soddisfazione del dovere compiuto.

Racconta un anonimo: Non bisogna credere che il pensiero della patria in pericolo faccia dimenticare al prof. Vittorio Cian di essere padrone di casa. Il decreto luogotenenziale sui fitti lo ha preoccupato non poco. Non si fida, l'egregio patriota, della garanzia dello Stato. Teme che alla fine del conflitto sia dato un taglio ai crediti verso i richiamati, e che lo Stato rimborsi solo in minima parte. L'esempio malefico della democrazia francese lo pone in pensiero; con la mania di mimetismo che affligge l'Italia, non sarà seguito anche in ciò il modello straniero? Ah! quegli stranieri... E il professore che del dio quattrino è molto devoto e non pone allo sbaraglio il suo non magro bilancio neanche per la sottoscrizione e per la Croce Rossa, tanto fa e tanta eloquenza italiana adopera, che finalmente riesce a convincere il suo inquilino a pagare il fitto senza valersi del decreto luogotenenziale, accettando un magnanimo piccolo sconto. Meglio un uovo sicuro oggi, che una problematica gallina domani, ragiona il posato prof. Cian, il quale alla patria e ai suoi difensori vuol fare sacrifizio solo della sua serietà di uomo, ma non dei suoi quattrini e del suo purissimo sangue, a ben altri destini chiamato dalla sorte.

(6 luglio 1916).

IL SILENZIO È D'ORO...

Il consiglio comunale emise un giorno un voto per impedire che una chiesa monumentale finisse nelle ugne dei gesuiti. Dopo quattro giorni questi si impadronirono della preda agognata... Chi se ne è occupato? Silenzio assoluto. L'amministrazione civica tace, il sindaco va e viene da Roma a Torino a Montecatini, in cerca di un portafoglio ministeriale o d'una feluca diplomatica... La stampa tace... Non un quotidiano torinese, all'infuori del nostro, ha trovato qualche cosa da ridire. I gesuiti... oibò, roba vecchia ormai; poi hanno tale fama di lottatori possenti ed accaniti, che è bene non disgustarli, possono diventare nemici troppo pericolosi. Calpestano la legge, si infischiano dei voti del consiglio comunale, non aspettano affatto la decisione della magistratura, si appropriano di un monumento d'arte, tendono le loro reti per imprigionare anime e corpi, fanno sentire la loro influenza nefasta in ogni manifestazione della vita cittadina; captatori d'eredità, violatori e sfruttatori dei segreti familiari, deformatori delle coscienze e delle menti giovanili, che importa?

L'equilibrio politico torinese è talmente instabile che occorre tacere e sopportare. Cosi la «Gazzetta del Popolo» che, erede della tradizione democratico-anticlericale boteriana, ha sino a ieri ostentato di negare il suo appoggio ai candidati clericali della coalizione borghese, non degnò d'una riga l'avvenimento; cosí la «Stampa», cosí il «Momento». Il giornale clericale non accenna a tale questione che interessa profondamente la comunione dei fedeli. Vi è un dissidio acuto fra l'intera massa dei parrocchiani e le autorità ecclesiastiche. Queste sono accusate apertamente di essere asservite ad una setta dagli occulti disegni, ed il giornale clericale non interviene, non spiega, non difende.

I gesuiti preferiscono lavorare nell'ombra, e la miglior prova di devozione che adesso si possa dare è di lasciarli fare e di non difenderli troppo; la difesa fa sempre del rumore ed il chiasso nuoce sempre. Dimodoché oggi, dopo tanti secoli di lotte e tante conquiste, in una grande e moderna città italiana è possibile constatare che una setta, espulsa dallo Stato, famigerata per delitti e per opere nefaste, può contare sulla tacita acquiescenza, sulla complicità indifferente delle maggiori autorità, della stampa, delle classi dirigenti.

Ché il silenzio sembra un sistema meraviglioso. Come i gesuiti, cosí i signori dell'Esposizione.

Accusati di pessima amministrazione, invitati a rendere i conti, convinti di sperperi, di incapacità, di debolezze verso ladri ed avventurieri, tutta questa brava gente tace. Senatori, assessori, commendatori, giornalisti non rispondono, non si difendono. Si può accusarli ed ingiuriarli, non c'è pericolo che si rivoltino. Il cane a cui si pesta la coda abbaia, e tenta di azzannare; costoro proseguono impassibili. Stretti gli uni agli altri, consci della necessità suprema di una solidarietà cieca ed assoluta, preoccupati solo di resistere fino a che sarà possibile agli assalti del popolo, che ogni loro fortezza assedia e sta per sormontare, hanno troppa paura per poter ancora avere libertà, e potersi permettere il lusso di tutelare la propria dignità. Alla borghesia torinese chi un calcio vuol dare? Chi vuole sputacchiare sul viso ad un pezzo grosso qualsiasi della politica? Non c'è nessun pericolo, nessuno si ribellerà.

(7 luglio 1916).

IL DESTINO

L'estimazione in cui è tenuto il tozzo deputato del quarto collegio non ha bisogno di illustrazione; e i suoi escamotages, i suoi giochi di prestidigitazione lo hanno ormai esautorato. Codesto Tartarin della politica torinese non incute piú timore. Il saltimbanco può esilarare, ma non intimorire. Neppure nella Karneval-Nation si può passare con qualche probabilità di successo da una situazione politica ad un'altra: dalla «Stampa» alla «Gazzetta», o dall'«Avanti!» all'«Idea nazionale». Se è vero che il Partito socialista è, ed era, una scuola di giornalismo borghese, non è men vero che la borghesia consapevole, forte, non può non seguire il consiglio che il Bonaparte dava a proposito delle spie: «Servirsene ma non stimarle!» Cosí è del Bevione nostrano; la guercia «Gazzetta» se ne serve, ma i lettori diritti, consci, non possono stimare l'avvocatuccio, il gazzettiere, diventato deputato per la sciagurata volontà ormai dimessa del sen. Frassati.

Appunto per la disistima che nutro — intendiamoci bene, sempre per amore delle coincidenze — per il piantatore di carote libiche, io seguo le sue elucubrazioni parlamentari. Ho sott'occhio l'ultima sua nota «per le vacanze parlamentari». È perlomeno comico vedere l'allegro Bevione tacciare di ingenuità il senatore Barzellotti, neutralista e germanofilo. Il colto Bevione ignora l'elogio carducciano al filosofo italianissimo che osa ancora discernere con illuminata intelligenza nella tenebria dell'esaltazione bellica.

Però l'onorevole dei sessantasette voti riesce attraente quando, piú avanti, scrive le sue piú originali esecrazioni al parlamentarismo. Bevione è per l'assolutismo. Udite: «In tempo di guerra il regime ideale sarebbe la dittatura con un dittatore savio ed infallibile». Bevione non ha ancora trovato «il giusto uomo». C'è però da supporre che egli se non fosse troppo giovane potrebbe servire alla bisogna. È veramente consolante constatare come le aspirazioni a coartare le elementari libertà costituzionali vengano da un giornale che si arrabatta nella propaganda delle ragioni ideali, democratiche, umane, liberatrici della nostra guerra. Naturalmente il rinomato commendatore, che capisce poco, lascia passare senza accorgersi della stonatura.

Bevione teme che i socialisti finiscano per aver ragione, se il ministero non saprà sostituirsi al parlamento. Stia tranquillo, l'onorevole per il quarto; essi l'avranno. Sarà ragione non compiutamente socialista. È il nostro destino e la nostra missione di sostituirci alla borghesia nelle funzioni e nelle ore della sua piú grande responsabilità.

[Nove righe censurate].

(10 luglio 1916).

L'INTERVENTO DI CRESCENTINO

Il consiglio comunale di Crescentino è intervenuto. Bene! un bel discorso, quello del sindaco, signor C. Botto (bisogna pur nominarlo; è ormai sulla via della celebrità anche lui!) Una magnifica raccolta di tutti gli aggettivi piú usati contro gli austriacanti ed antipatriottici socialisti, poi l'esaltazione dell'esercito italiano, poi l'indignazione della cittadinanza contro l'indegno rappresentante politico, ed infine un paio di telegrammi, con relativa commozione generale.

Disgraziato Maffi! Persino nel suo collegio è sconfessato, rinnegato, ingiuriato. E lui tace e non sente il dovere di cedere subito il collegio all'on. Montú, ben piú autentico rappresentante degli agrari vercellesi?...

Perché li conosciamo bene, quei signori del consiglio crescentinese, (e li conoscono bene anche i lavoratori delle risaie); li conosciamo quei grandi proprietari terrieri sfruttatori audaci ed inesorabili dei contadini e dei consumatori!

Ricordiamo, non molti anni or sono: dieci soldi al giorno alle risaiole e quattordici ore di lavoro; le capanne dove, sulla paglia marcia e puzzolente, venivano gettate a riposare le mondine emigrate, ammucchiate come balle di merci, peggio, molto peggio del bestiame, che costa quattrini; il pane ammuffito, il vinello inacidito, le zuppe immangiabili con il riso di qualità infima e con la pasta avariata. Poi le battaglie feroci, vent'anni fa, le prime conquiste e la resistenza accanita. Ed era Maffi, il medico condotto, che andava nei tuguri, ed insieme alle cure della scienza, ahi quanto impotente di fronte alla miseria, alla fame!, portava la parola nuova consolatrice ed incitatrice. Ed ai cittadini insegnava la necessità della lotta, ed il dovere del miglioramento, onde la Lega e lo sciopero, la sconfitta e, qualche volta, la vittoria!

Vi conosciamo signori agrari del Vercellese! Foste voi che, con ogni sforzo vi opponeste all'applicazione della legge Cantelli, che avevate saputo far dimenticare, ed erano poche meschine garanzie per i lavoratori che davano a voi la loro fatica, la loro salute, la loro vita; era la legge, ma che importa agli agrari la legge, quando nuoce ai loro interessi? Foste voi che combatteste, ostinati e inflessibili, l'istituzione degli ispettori del lavoro nelle risaie, che vi piegaste a malincuore, pronti sempre ad ogni rivincita, all'imposizione di dormitori meno malsani, di vitto meno bestiale. Foste voi che, dopo le vittorie elettorali, le quali col suffragio universale portarono in tanti comuni i contadini al potere, adoperaste il boicottaggio contro i nuovi eletti al posto dei signorotti tradizionali, ed ai contadini imponeste di scegliere fra la carica, affidata dalla fiducia dei compagni, ed il lavoro necessario per la vita. Ancora, malgrado tante battaglie, la disoccupazione imperversa per molti mesi dell'anno, ancora i contadini soffrono, mentre le pingui risaie producono tante ricchezze! I consiglieri di Crescentino, che sono a casa e non potevano lasciar sfuggire sí buona occasione per uno sfogo pubblico contro il deputato dei lavoratori, hanno parlato. Ma come la penseranno e come voteranno i contadini, quando torneranno, e, dopo la guerra, dovranno ricominciare la loro guerra per una vita piú umana?

(12 luglio 1916).

VECCHIEZZE

Ci accusano di essere vecchi. Si pigliano persino beffe di noi perché non manteniamo tutte le promesse, perché promettiamo piú di quanto possiamo mantenere. In certi momenti, immersi come siamo in questa vita tumultuosa che ci circonda, sensibili come siamo ai rimproveri, alle facce irosamente beffarde dei nostri avversari, sentiamo anche noi come una diminuzione di noi stessi, ci sembra davvero di essere decrepiti, di non riuscire a far sgorgare dalle nostre labbra la parola definitiva, la parola che dia forza ai nostri organi, che infonda vigore alle membra rattrappite e le renda elastiche, atte alla lotta e alla conquista feconda.

Ma una breve riflessione scaccia questo pessimismo. Ci sentiamo vecchi perché il destino perverso ci ha fatti nascere in età vecchia. È l'aria che respiriamo, sono gli istituti che ci reggono, sono gli uomini coi quali siamo in lotta, che sono vecchi. A ogni colpo vigoroso che meniamo su questo verminaio, una tanfata di vecchiume ci ottura le nari; ogni qual volta rimestiamo questa materia in decomposizione è tanto lo schifo che ci investe, che ineluttabilmente ce ne sentiamo noi stessi intaccati. Come il Lao-tse della leggenda cinese, siamo dei vecchi fanciulli, della gente che nasce ad ottant'anni. Un cumulo di tradizioni grava su di noi, e dobbiamo inarcare maggiormente le reni per reggerlo; leggi centenarie legano la nostra attività attuale, e lo sforzo per superarle deve sintetizzare tutti gli sforzi delle generazioni passate, che non si curarono di combattere per noi, di aprirci una strada meno irta di triboli, di ostacoli che uno per uno sono niente e nel complesso sono formidabili. Ci voleva la guerra per scaraventarci sulle gambe questo materasso molliccio di pregiudizi, per fare dei tanti fili sottili di seta una rete inestricabile.

Ma non è parola di sconforto, la nostra. Bisogna anzi avere ben chiaro dinanzi ai lucidi occhi l'ostacolo complesso per meglio sfondarlo con il colpo di mazza. La visione della vita sociale, quale ci si offre ormai integrale, rinnova la fiducia e il proposito che nel passato solo pochi potevano avere. Gli stessi nostri compagni di lotta ci hanno chiamati mistici della rivoluzione; e lo eravamo nel passato, perché la nostra era solo intuizione della realtà, non rappresentazione plastica, viva, di ciò che si doveva abbattere. Dove tutti non vedevano che singoli «fatti», che singole «posizioni» da conquistare con la pazienza per arrivare finalmente alla cima, noi vedevamo un muro compatto su cui rovesciare con un atto energico, volontario, la massa delle nostre forze.

O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico. La falange irresistibile, non la lotta da talpe delle trincee fetide. Siamo dei giovani vecchi. Vecchi per il cumulo enorme di esperienze che in poco tempo abbiamo raggruzzolato, giovani per il vigore dei muscoli, per il desiderio irresistibile di vittoria che ci investe. La nostra generazione di vecchi giovani è quella che dovrà realizzare il socialismo. I nostri avversari si sono svuotati nell'enorme sforzo sostenuto per difendere ognuno il suo campicello. Ebbene, su questo tronco veramente decrepito meniamo il colpo finale della nostra mazza e l'ora nostra sarà giunta, scoccata per la nostra volontà irresistibile, sí, ma riflessiva.

(13 luglio 1916).

14 LUGLIO

Un pregiudizio. Si dice: «Parigi, la Francia della vigilia non avevano repubblicani». Bisognerebbe dire: i rivoluzionari francesi non avevano come fine immediato di creare la repubblica. La loro meta era piú lontana, era piú generale; era internazionale, in fondo. La loro rivoluzione era economica — come quella che noi prepariamo — non politica. Si voleva che fosse la borghesia a dar legge alla produzione, che fossero i produttori di allora a creare con le proprie mani il loro avvenire, la loro vita: la terra ai contadini che la coltivavano, non ai signori feudali che vi andavano solo a caccia di lepri e di belle figliole; l'industria all'industriale, non al clero ed alla nobiltà che imponevano taglie, che volevano la loro parte — e che parte! — e inceppavano il lavoro con balzelli, con dogane interne particolari, ecc. Ad un certo punto la monarchia si pose in mezzo, fece gravare il suo potere per conservare lo statu quo, e fu spazzata via. Tutti divennero repubblicani semplicemente perché lo erano già in potenza, quantunque non fossero iscritti a quel tale partito e non urlassero a tutti i venti ogni giorno che volevano la repubblica. Non è un miracolo, quindi, Parigi repubblicana, Parigi che abbatte la Bastiglia o massacra gli svizzeri prezzolati. Quando ci si pone un fine lontano, generale, che interessa e fa muovere tutta una classe, non è un miracolo se per via, prima di arrivare alla meta ultima, si abbatte tutta una quantità di cose, tutta una serie di ordinamenti, che a sentire certuni vorrebbero un'azione particolare, domanderebbero un'azione specifica, una polemica quotidiana particolare.

Perciò ricordiamo il 14 Luglio e Parigi sbastigliata. È un insegnamento ed un corroborante.

[Trentadue righe censurate].

(15 luglio 1916).

LA PATRIA GIAPPONESE

Cinema Vittoria: Taifun, il ciclone. Gente in coda, quattrini in cassetta, facce liete, sospiri di violini e sbuffi di persone accaldate. Sulla tela il dramma: figurine di gheise, ambasciatori nipponici, degenerate intellettuali dell'occidente, una donna perversa, due uomini rivali, assassinio, processo, condanna dell'innocente, scena patetica finale: la morte del reo pentito.

E sta bene: cose comuni, degne tutt'al piú del compiacimento di chi ama gli onesti svaghi del buon popolo in guerra, dimentico della guerra; degne forse anche di un sorriso amaro di chi ha l'animo vibrante per il maledetto flagello, teso nell'aria verso il domani minaccioso. Cose comuni.

Ah, no! Io m'ergo e grido! A voi giovinetti urlanti inni di guerra, a voi professori che negli ospitali cinematografi, regge e palazzi di Max Linder e di Capozzi, lanciate le invocazioni alla dea padrona e gli anatemi ai suoi negatori; a voi mi rivolgo, che siete passati nella sala sfarzosa, dove sulla tela le mobili figure tessevano il dramma atroce, e non avete invocata la censura giustiziera perché venisse, colle forbici venerate, contro la tela sacrilega! E che? Neppure un fischio avete lanciato a rompere l'armonia lene dei violini ed a spezzare l'incanto dell'azione travolgente! Non è dunque vero che voi amate la patria piú d'ogni cosa e ch'essa è bella d'ogni virtú, difesa del debole scudo del buono, invitta assertrice del giusto? E ciononostante, immersi solo nel beato godimento della vista e del buio, propizio alle audaci imprese, lasciate insozzare e diffamare il grande nome, mescolandolo, mezzano ignobile e scusa d'omertà, agli isterici amori di un uomo casto e d'una donna corrotta ed al delitto pazzesco d'un amante deriso? E non protestate contro chi fa della patria il comodo paravento di cento sozzure?

Perché, per chi non lo sapesse, Tokeramo, il professore giapponese in missione a Londra, che non aveva mai degnato di uno sguardo le piccole e dolci donne del suo paese, perde la testa per la prima sgualdrinella in costume tailleur che gli ronza intorno, attratta dai baffi spioventi, dagli occhi a mandorla e dal colorito giallognolo; ed avviene che il suddito del Mikado, per qualche misterioso contraccolpo psichico, rompe la vita alla donnina goduta. E qui entra in scena la grande donna ideale, armata di spada e bilancia. Che accadrebbe mai se il signor Tokeramo, rappresentante del Mikado, dovesse venire arrestato, condannato? Il costume del recluso sul factotum di un re? Pericolo di guerra!... Ed allora non c'è che da fare una cosa: accusare un innocente e mandare in galera il segretario del reo, che ha l'unica colpa di non essere anch'egli mandarino e quindi degno dell'impunità. In nome della patria, Tokeramo dopo un mese, roso dal rimorso, muore; ma se egli riscatta cosí in parte la sua colpa, non riscatta per nulla l'altra grande colpevole dell'ingiustizia: la patria giapponese.

[Venticinque righe censurate].

(16 luglio 1916).

PETTEGOLEZZI

Ci giunge un poco in ritardo (ma non è possibile, purtroppo, tener dietro a tutti gli importanti giornali che si pubblicano nella nostra provincia) la «Gazzetta di Mondoví». Essa annunzia che l'«Avanti!» ha fatto questa grande rivelazione: «Vinaj Vittorio, avvocato di Mondoví, non risulta iscritto nei ruoli di ricchezza mobile, né a Mondoví né a Roma». Segue qualche decina di righe per spiegarci come l'on. Vinaj sia stato cancellato dai ruoli di Roma, dopo che indossò la divisa militare; e si parla anche di indagini meravigliosamente inutili, insipide e cretine.

Ora, lo scrittore della «Gazzetta di Mondoví», se sapesse leggere i giornali, avrebbe potuto apprendere da quel nostro articolo, che l'ha fatto imbestialire, che noi riportavamo i risultati di un'inchiesta fatta dalla «Riforma sociale», una autorevolissima rivista di scienze economiche e finanziarie pubblicata nella nostra città da uomini del campo conservatore. Il cretino ecc. va dunque diretto al comm. Alberto Geisser, consigliere comunale di Torino, a Luigi Einaudi, professore della nostra università, ed a qualche altra autorità di simil genere.

È vero che senza dubbio l'illustre gazzettiere di Mondoví non sa che cosa sia la «Riforma sociale», non l'ha certo mai vista, anzi, molto probabilmente il titolo gli ha suggerito l'idea di una qualche rivista socialistoide: riforma e sociale, non può essere roba che di sovversivi, avrà pensato quell'egregio scribacchino.

In quanto al caso personale dell'on. Vinaj, notiamo anzitutto che egli, come risulta dallo studio della succitata rivista, non ha sentito il bisogno di rispondere ad una circolare inviata a tutti i deputati, allo scopo di raccogliere gli elementi esatti per tale inchiesta. E se non ha risposto, avrà certo avuto le sue buone ragioni, che noi non vogliamo indagare. Ma si può anche dire qualche cosa di piú. Dalla medesima rivista si deduce che neanche nel 1911 — nel millenovecentoundici diciamo — l'on. Vinaj era iscritto nei ruoli di ricchezza mobile. Sarà vero? Il deputato di Mondoví faccia il piacere di rivolgersi a quei valentuomini del suo partito, che abbiamo nominati! L'on. Vinaj è del resto di una generosità inarrivabile. Sappiamo che in questo ultimo periodo ha esercitato la professione di avvocato borghese; si sarà denunciato alla agenzia delle imposte? Sappiamo anche che c'è voluto un violento attacco di un giornale socialista per deciderlo a dare 50 franchi al Comitato di assistenza di Mondoví! Guardi, per carità, l'on. Vinaj di non rovinarsi!

(18 luglio 1916).

IL BUON DIRITTO

La caccia all'uomo pensante, aperta il 24 maggio 1915, ha avuto come ultima vittima il sen. Raffaele Garofalo. Studioso freddo, osservatore disinteressato (borghesemente disinteressato) della realtà sociale, il presidente della Corte di cassazione di Torino ha osato ricordare che l'essere assistiti dal buon diritto non vuol dire per ciò solo sicurezza di vittoria, poiché non sono pochi gli esempi storici del trionfo del dispotismo e della prepotenza. Non ha servito al Garofalo l'avere con ciò solo ammesso che l'Intesa abbia dalla sua il buon diritto, non ha servito l'avere egli affermato che anche gli Imperi Centrali basino la certezza della vittoria sul presupposto assurdo della superiorità di cultura e di razza. Si è tirato su di lui la croce addosso allo stesso modo, e il Garofalo per gli scervellati guerraioli rimarrà sempre un reprobo, un boche d'Italia.

Il Garofalo, che in altri tempi ha combattuto aspramente il socialismo, che ha cercato di iniettare sulla ideologia borghese il reagente vivificatore del materialismo storico, deve aver sorriso amaramente dei suoi avversari; nei suoi freddi, vitrei occhi di scienziato deve essere anche passato un lampo di sdegno per lo smidollamento cui sono ridotti i rappresentanti della sua classe, ridicoli don Chisciotte, che combattono contro i mulini a vento del bene e del male, e credono, come i cavalieri antichi, di avere per grazia divina ricevuto il santo crisma del buon diritto, e per ciò solo essere invulnerabili, avere il talismano che fa deviare le schioppettate e le cannonate. Ma il materialismo storico è cosa da socialisti, anche se dei senatori, degli autentici borghesi come il Garofalo e il Croce hanno impresso nel suo sviluppo dottrinario impronte incancellabili.

L'idea che nella storia, nella pratica abbia solo ragione la forza, intelligente quando è spontaneamente messa al servizio di un partito che vuole affermarsi, bruta e prezzolata quando difende coi questurini una posizione acquisita, sembra troppo germanica perché la genialità latina la issi a dottrina diffusa, a forza educativa di realismo e di vittoria. Il senatore Garofalo, il borghese intelligente e cosciente, ha avuto cosí la sua massima sconfitta nella polemica col socialismo. Ha dovuto convincersi che il materialismo storico, come forza agente sugli eventi, può solo incarnarsi nel proletariato. Che non è turbato da pregiudizi di cultura, di razza; che accoglie una verità da chiunque e da qualunque paese venga, e non ha vergogna di confessare che, pur convinto nella coscienza dei singoli suoi componenti della bontà del suo diritto, non crede di vincere ed imporsi solo per questo. Anche la borghesia può dire, può dimostrare (lo ha fatto) di avere dei buoni diritti per continuare a vivere come detentrice della ricchezza. Tutti credono di avere dei buoni diritti; come potrebbero altrimenti vivere interiormente, avere una coscienza morale? È la forza che decide dei vari buoni diritti. E il proletariato questa forza la va organizzando nelle sue leghe, nelle sue sezioni, con gli scioperi e le sommosse, finché, acquistata coscienza della sua maggiore forza (e questa maggiore forza l'ha già adesso, ma purtroppo essa è coscienza solo di pochi, dei rivoluzionari) farà la sua guerra, e il suo buon diritto dopo la vittoria sarà riconosciuto da tutti, e specialmente, sebbene con amarezza, dai Garofalo e dai Croce d'adesso.

(20 luglio 1916).

LA GRANDE ILLUSIONE

L'articolo di fondo dell'«Avanti!», che ricorda alle sezioni socialiste l'ordine del giorno del Congresso di Ancona contro il protezionismo e consiglia tutto un piano di propaganda contro «la guerra economica», che si vuole inscenare a continuazione della guerra dei fucili e dei cannoni, ci procura molti sorrisi ironici di avversari in buona e cattiva fede. «Voi siete ancora a Norman Angell — ci dicono — credete davvero che l'interdipendenza economica, creata dal liberismo tra Stato e Stato, sia un coefficiente di pace; credete davvero che essere convinti dell'inefficacia della guerra a creare nuove fonti di ricchezza, si trasformi in opposizione alla guerra. Ma Norman Angell ha fallito nel suo programma; la guerra attuale lo prova. Il titolo della sua opera può adattarsi meglio alla sua convinzione che a quella dei nazionalisti, i quali dalla guerra si aspettano la ricchezza, i pingui mercati da sfruttare, l'allargamento degli orizzonti economici e tante altre cose».

Obiezioni di questo genere sono state ripetute, da due anni a questa parte, in ogni occasione. L'Angell, che era sulle prime apparso lo scopritore di una grandissima verità, pare ora a molti un imbecille qualsiasi. Il suo pacifismo — solido perché non semplicemente sentimentale, ma fondato sulla constatazione di uno stato di cose nuovo, creato inconsciamente dal capitalismo, come forza economica pura, e non come spina dorsale delle nazioni borghesi — viene volentieri confuso col pacifismo facilone, e che cade di crisi in crisi, di E. T. Moneta. Bisogna perciò difendere e diffondere il libretto dell'Angell, dimostrarne la perenne verità e la forza rivoluzionaria dei suoi assiomi economici.

Non ha mai detto l'Angell che il suo libro avrebbe fatto di colpo cessare le guerre! Ma su questo fatto si basa l'equivoco. Anzi l'Angell sosteneva la tesi opposta: le guerre moderne, coloniali o nazionali, succedono appunto perché la massa è in una grande illusione, e perché nessuno si è mai data la pena di guarirnela. Egli si proponeva di incominciare l'opera di rischiaramento; voleva che i clubs e le società formatesi all'uopo in Inghilterra, dopo la pubblicazione del libro, facessero questa propaganda nuova del pacifismo. La guerra europea ha travolto tutto, è vero; ma basarsi su questo per dire che l'Angell era un illuso, sarebbe come pretendere che basti l'enunciazione del vero perché la persuasione si formi e, ciò che piú conta, che la persuasione diventi volontà, diventi opera.

I socialisti devono appunto proporsi questo compito: fare che la persuasione diventi volontà, stimolo, azione rivoluzionaria. La guerra dei fucili ha trovato impreparazione, titubanze; e ci ha travolti. La guerra economica deve trovare energie decise ad agire, pronte allo sbaraglio, all'azione violenta. L'accademica persuasione di una verità non basta ad impedire il male; l'errore dell'Angell, se mai, consiste nell'aver creduto al realizzarsi platonico di uno stato sociale, permeato dal suo pensiero e di già insuperabile dalla volontà guerraiola. L'illusione che la guerra di qualsiasi specie sia ricchezza, sia fattore di progresso, bisogna distruggerla, va bene; ma bisogna anche rivoltarsi se una casta che dalla guerra può anche arricchirsi, vuole gettare la confusione negli spiriti, e per suoi interessi particolari impoverire anche la collettività. Soffiate nella grezza creta del pacifismo angelliano, lo spirito rivoluzionario e la grande illusione crollerà per sempre.

(24 luglio 1916).

GIUDA E PETROLINI

Un biglietto da visita con una sesquipedale filza di nomi di ascendenti e discendenti. Incominciata in bella calligrafia una frase: Ringraziamenti a Giuda Iscariota. Che dolore, che confusione per il povero cronista che ha steso la notizia dell'arresto di Ugo Nanni, che ne ha ricordato il passato, il presente e si è azzardato timidamente a prevenirne il futuro. Il colpo è stato grave per il povero cronista. Ha cercato di consolarsi pensando all'elogio di Giuda tessuto da Petruccelli della Gattina. Ma inutilmente! Cristo-Nanni, inchiodato al supplizio per scontare i peccati della turbolenta gioventú antimilitarista di molti anni fa, lo perseguitava; lo stillare delle gocce di sangue della fronte imprigionata nella corona di spine, degli arti trafitti dai ferrei chiodi questurineschi gli martella il cervello dolorosamente. Una lettera circolare pubblicata dai giornali cittadini confonde maggiormente le idee turbate del povero cronista. Da quella lettera l'immagine di Nanni-Cristo balza fuori sempre piú stagliata e sanguinolente. Il martire diventa martire superlativo; il giovinetto incorniciato di bruni capelli, che cristianamente faceva a pugni una volta colle gaffes, e urtava mezzo mondo con le angolosità della sua propaganda sovversiva, si era profondamente «evoluto».

«Sotto l'influenza della nostra santa guerra e per il ritorno ad un sano e ben inteso patriottismo, che lo spirito settario dei suoi antichi compagni di fede non gli può perdonare, si era indotto a sollecitare l'alto onore di servire la Patria sotto la divisa dell'ufficiale». Ma la questura implacabile, non tenendo conto né dell'influenza della nostra santa guerra, né del sano e ben inteso patriottismo, ricorda il passato e prepara la corona di spine e di chiodi. Un antico compagno, che ci tiene poco a perdonare, ricorda anch'egli il passato con amarezza. E ricorda specialmente che Nanni è un uomo forte (ha la disgrazia di avere una madre e delle sorelle che, anch'esse sotto chissà quale influenza, hanno riletto il Nuovo Testamento), un uomo d'azione per il quale tre mesi di carcere, ingiusti, inqualificabili secondo lui, ma non secondo il sano patriottismo, dovrebbero essere una bazzecola, un infortunio sul lavoro. Povero, ingenuo cronista! Non pensa al Nuovo Testamento ed ai paragoni odiosi, e quella fila di nomi ascendenti e consanguinei e quel nome, implacabile, di Giuda Iscariota lo turbano e lo addolorano. Ma la lancia dei nuovi Achilli è come quella dell'Achille omerico: piaga e guarisce. Un paragone tira l'altro. L'ultima «Italia futurista» paragona Gesú Cristo a Petrolini. Il cronista si rasserena. È Petrolini che egli ha tradito, non Gesú. E poiché, pur essendo il cronista, sa pesare e giudicare Petrolini, non gli dispiace in fondo troppo di non avere piú a che fare con il comicissimo uomo, anche se i futuristi lo riaccostano a Gesú Cristo.

(26 luglio 1916).

I DIRITTI DELLA TOGA

Caro «Avanti!»

Ieri durante la discussione di una causa per diffamazione in tribunale, l'avvocato De Agostini ebbe ad affermare, difendendo l'imputato, che nelle ferrovie dello Stato tutti rubano, e che perciò il sottoscritto rubava anche lui. Ora per l'onorabilità mia e per quella della categoria a cui appartengo, invito l'avvocato sunnominato a ripetere, non protetto dalla immunità della toga, ciò che ha detto in tribunale, affinché io possa querelarlo con ampia facoltà di prova. In caso contrario l'avvocato non sarà che un volgare diffamatore.

Lorenzo Donato

Il compagno Donato con questa lettera commette uno di quegli atti che volgarmente sono detti ingenui. Egli è un lavoratore, uno di quelli che giorno per giorno consumano una parte della loro vitalità, della loro energia a produrre qualcosa di utile alla collettività. Perciò non è né scettico né cinico, come la moda comanda. Crede, per esempio, che un avvocato in tribunale sia l'incarnazione della giustizia, produca anch'egli qualcosa che sia utile alla collettività. Non concepisce che un mozzorecchi, a corto di argomenti e protetto dalla toga che lo fa incarnazione della giustizia, distribuisca a destra e a sinistra patenti di disonorabilità e cerchi, abbassando il livello della dignità dei testimoni e degli accusatori, di togliere di dosso al suo cliente la minaccia della sanzione punitiva. Il Donato pertanto domanda ragione della diffamazione che è stata permessa contro la categoria dei ferrovieri dello Stato e crede, avendo ragione, che questa gli venga riconosciuta. Non sa che la democrazia liberale ha instaurato a principio che un avvocato, perché rivestito di una qualsiasi toga bisunta, può mentire, può inventare, può diffamare pur di far assolvere, pur di salvare la sua parcella da noiose recriminazioni. Non sa che il settantacinque per cento degli avvocati almeno (siamo ottimisti) sono tali solo per la toga e sostituiscono le buone ragioni, i convincimenti con parole vuote di senso, ma che devono avere l'apparenza di sostanzialità.

Per fare assolvere il suo cliente, il cavalocchi De Agostini ha detto che tutti i ferrovieri dello Stato rubano a mansalva. Per questo giurista il fatto che tutti possono rubare è giustificazione per quelli che possono aver rubato, e non si preoccupa di diffamare una numerosa categoria di gente che lavora pur di rendere salata la sua sportula.

Donato lo prende per il petto e vuol costringerlo ad assumere la responsabilità delle sue parole. Ingenuità. Ma intanto se molti fossero ingenui a questo modo, cioè chiedessero che la giustizia sia e debba essere una cosa seria, ci sarebbero meno De Agostini a questo mondo, con giovamento ineffabile degli onesti e con meno rivendite di carta bollata. Ma bisognerebbe che quella tal democrazia liberale fosse piú nelle coscienze e meno nelle formule, cioè che non ci fosse piú democrazia liberale.

(27 luglio 1916).

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1 Seguono due righe incomprensibili.

L'AMULETO

C'è nella commedia popolare italiana una maschera (Arlecchino o Brighella, o un altro qualsiasi della bella schiera) che ottiene uno strepitoso successo ogni volta che ripete la sua particina cristallizzata nella formula: «Lo sai che mi sono fidanzato con la figlia del re del Perú? E il matrimonio è per metà concluso; capirai, manca l'assenso della ragazza, ma c'è già il mio...»

Francesco Campora è, fra i sessantaquattro maggioritari del Palazzo di Città, quella maschera. E recita per benino la sua particina ogni volta che se ne offre il destro. Piccoletto, faccia di buon uomo dalle tranquille digestioni, se la gode di rappresentare tra i sessantaquattro qualcosa che non sia la troppo vaga cittadinanza; lascia a Teofilo Rossi l'alto onore di essere il sicuro interprete dell'anima di tutta Torino; per reggere a tanta mole di magnanimi affetti ci vuole una mente universale, uno spirito tutto porte e finestre come quello del futuro ambasciatore, che non «muove collo né piega sua costa» sotto il destino che lo ha come pupillo.

Francesco Campora parla solo a nome della classe operaia e ne ha abbastanza, il buon uomo, di questo auto-mandato. Egli è il refrigerante della maggioranza. Permette tutte le allusioni, permette ai sessantaquattro di sogghignare delle proteste della sinistra, tranquillizza colla sua presenza le coscienze timorate ed inquiete. Chi ha compilata la lista clerico... liberale per l'elezione del 1914 ha avuto senza dubbio la mano felice.

Il fidanzato del Perú, la maschera che ripete la formuletta cristallizzata, ha la importantissima funzione dell'amuleto. Anche la superstizione è una forza sociale. Il bandito, che deve essere un uomo forte se ha avuto il coraggio di mettersi contro tutta la società, non può fare a meno di certi gingilli che lo assicurino, contro le minacce indefinibili e perciò piú paurose, della protezione di altrettanti numi indefinibili e perciò piú rassicuranti. La classe operaia è per i sessantaquattro una minaccia indefinibile. Avulsi dalla realtà, sommersi in un oceano di parole e di formule, non capiscono — questi ossessionati della paura socialista — in che veramente siano minacciati. Abituati a parlare in nome di qualcheduno, convinti di essere veramente i mandatari di qualcheduno, si sentono allargare il petto dalla soddisfazione quando la maschera pronuncia il sacramentale: «a nome della classe operaia!»

Se lo dice, lo è, come lo sono i sessantaquattro; dunque la minoranza a che fa le parole grosse? Già, illusi, montatori di cervelli riscaldati, sobillatori; ma la vera, la sana classe operaia non è con Campora. La superstizione, che non è che volontà di credere, è una forza molto piú grande, molto piú diffusa di quanto non si creda comunemente.

Pertanto, non sentiamo collera contro Campora. Quando egli parla, abbiamo un blando sorriso per la senilità di cui è esponente. La volontà di credersi sicuri, se è forza per poter vivere, è debolezza nelle lotte senza quartiere. Campora un giorno lo faremo imbalsamare perché continui a farci sorridere con i ricordi; è troppo buon uomo, è troppo amuleto, perché possa meritarsi dagli avversari un trattamento da individuo. Gli austriaci non lo avrebbero certamente impiccato.

(28 luglio 1916).

LA VERITÀ E L'ONESTA

L'«Idea nazionale» non ha certo intorno alla verità e all'onestà i dubbi che turbavano Ponzio Pilato. Monicelli ha trovato finalmente la pietra filosofale che lo preserverà in avvenire da altre lacrimose e strazianti crisi di coscienza. E non deve essere difficile l'uso di questo provino ideale. Basta pensare che la verità e l'onestà sono limitate dagli stessi confini dello Stato italiano e dei suoi interessi immediati e lontani, perché ogni tentennamento pilatesco sia escluso.

Morgari, per esempio, tiene un discorso alla Camera invocando la pace e proponendo un termine concreto di azione: l'armistizio. Parla da socialista, naturalmente, e non da nazionalista, come invece avrebbe desiderato l'«Idea».

Un giornale del nemico, il «Risveglio austriaco» di Trento, riproduce il discorso del deputato torinese, accomodandolo in salsa piccante, e «correggendolo» per gli interessi dello Stato asburghese. La pietra filosofale entra in funzione. Morgari è, naturalmente, un traditore della patria, un ribaldo marrano, un rinnegato venduto allo straniero... e via di seguito! L'«Idea nazionale» fa persino, melodrammaticamente, levar la testa ai morti dal tumulo per maledire ed esecrare...

Evidentemente l'anima garibaldina di Monicelli non è stata ancora anestetizzata a dovere dagli acidi del realismo di cui fanno pompa le mosche cocchiere del suo giornale. Perché primo canone di realismo è riconoscere la realtà degli altri. E la realtà morgariana è il socialismo, non il nazionalismo, l'internazionale anche della realtà e dell'onestà, e non i confini e i pali dei doganieri. Che una verità detta in Italia durante la guerra possa venire sfruttata dal «Risveglio austriaco» per fini non socialisti è cosa fatale e indeprecabile, come tale era che i discorsi di Liebknecht venissero sfruttati in Italia e nell'altro tripode dell'Intesa. Anche ciò è una realtà, e noi l'accettiamo con tutte le sue conseguenze, poiché vogliamo essere soprattutto socialisti sinceri e onesti.

Comprendiamo perfettamente, perché è un atto della nostra volontà, di essere agli antipodi dell'«Idea nazionale», e non ci mettiamo perciò le mani nei capelli, né entriamo in crisi di coscienza. Non siamo dilettanti del sentimentalismo. Vogliamo che l'Internazionale viva sempre nella coscienza nostra e in quella dei compagni di dovunque. A ciò, solamente, che fa uscire dai gangheri gli avversari: vedere che questa coscienza internazionale vive ancora ed ha ancora bocche per parlare e orecchi che ascoltano!

Morgari è stato una di queste bocche, è rappresentante nel parlamento italiano, per contingenza storica, di un numero grande di altrettante coscienze che sentono come lui. Dice, onestamente, delle verità che per riguardare l'Italia non sono meno universali; colpa degli altri se esse possono essere sfruttate dagli austriaci; bisognava fare in modo che non fossero verità, e non pretendere dal socialista Morgari di operare e parlare come il nazionalista Monicelli!

Il quale, anche se non vede riprodotti i suoi scritti dal «Risveglio austriaco», ragiona come un austriaco patriotta e imperialista; e se fosse in uso la forca fra noi, la vedrebbe volentieri in azione. Ma non vuole convincersi che altri sia diverso da lui. E fa le bizze ad ogni smentita della realtà. A un realista di tal forza è preferibile Ponzio Pilato, che almeno, col suo dubbio e la sua domanda, voleva salvare un uomo dalla morte.

(29 luglio 1916).

IL MATTO

Stanco di sentirmi chiamare matto (matto originale, matto simpatico, meno male, ma sempre matto) dai conoscenti, dalle tante persone che l'occasione pone sulla stessa strada e con le quali bisogna pure, per dovere di conversazione, squadernare qualche tomo della propria esistenza, ho voluto conoscere dei matti, una colonia di matti, 2016 matti. Mi hanno assicurato che sono proprio matti, che degli scienziati con tanto di occhiali e di diploma li hanno giudicati tali; alcuni anche pericolosi (matto pericoloso, ricordo queste parole accanto alle altre di originale e simpatico). 2016 persone, ognuna delle quali ragiona con una logica propria, ognuna delle quali trae da cause arbitrarie conseguenze ancor piú arbitrarie. Vorrei domandare ad ognuno dei 2016 quanto fa due piú due; sono sicuro che otterrei 2016 risposte diverse: un milione, nove, trecento e cosí via. Vorrei esporre ai loro occhi il colore dell'iride e domandare i nomi dei singoli colori; sono sicuro che una bizzarra confusione dei nomi piú strampalati seguirebbe alla mia domanda. Ed esco dalla colonia assordate le orecchie da quel brusio di paretaio, il cervello confuso da tutto quell'incrociarsi di parole senza senso, di conversazioni interessanti per la forma bislacca, ma che comunque confondono e stancano.

Sono desolato perché non sono riuscito nel mio intento. Perché quei 2016 non m'hanno servito, non m'hanno aiutato a cogliere il segreto della mia pazzia. Ho capito perché la tutela sociale li ha esclusi dalla comunità. Perché essi operando e parlando non seguono una legge che si possa fissare in schema, perché essi non hanno storia, non hanno costumi, non hanno linguaggio. La loro coscienza non ha accumulato attraverso la permeazione sociale, attraverso le innumerevoli esperienze di ogni momento quel complesso di principî, di leggi universali che rendono meno belluino il gomito a gomito degli uomini. Chi non dice che due piú due fa quattro, come insegnano nelle scuole, è pericolo per la società. Chi dice verde il rosso può confondere il sangue con la menta glaciale, e gli uomini non vogliono servire da bibite rinfrescanti ai cervelli e agli stomachi bislacchi.

Ma mi consolo lo stesso. Ci sono tanti sciocchissimi savi, che in fondo la qualifica di matto non è offensiva. Vorrà dire che vi è nei miei discorsi qualcosa che alla comunità dei miei conoscenti d'occasione pare fuori della logica comune, fuori della storia finora vissuta. Perché altri — non d'occasione — mi trovano logico, ed io non mi meraviglio delle loro affermazioni. Vuol dire che noi che non ci diamo a vicenda del matto, e siamo piú di 2016, e cresciamo ogni giorno di numero, abbiamo trovato, abbiamo ereditato fra le nostre esperienze particolari, di classe, che sono piú strettamente nostre, e ci accompagnano (verbo di formazione simile ad affratellano, ma matto mentre questo è savio), un nesso, un modo, una qualità del nostro pensiero che è nuova, che non può essere degli altri. Essa è il sale, ciò che dà sapore alla nostra coscienza, ciò che fa di noi iniziatori di una nuova storia, di un nuovo linguaggio, di un nuovo costume. Matto vorrà dunque dire nuovo, diverso.

E allora, gli diano anche il senso di aberrante, le mie conoscenze. Non posso davvero offendermene.

(30 luglio 1916).

L'APPELLO Al PARGOLI

I piccoli non hanno suggerimenti da prestare ai generali sui campi di battaglia, o consigli da rivolgere ai governanti: sono esseri deboli, ma nel candore dell'anima, nella purezza del loro amore costituiscono la classe privilegiata nella grande famiglia cristiana. I loro suggerimenti li hanno per Iddio: sui campi di battaglia sta il padre loro, sta forse qualche fratello, l'affetto che essi nutrono per i loro cari suggerirà quelle espressioni che gli uomini non sanno intendere, ma che Iddio, l'amico piú tenero dei fanciulli e nel cui potere sta la sorte e la vita delle nazioni, non solo sa comprendere ma sa esaudire.

Con una mezza colonna di simili rugiadose espressioni da filotea per pie dame, il «Momento» presenta l'invito che il pontefice ha rivolto ai bambini che ieri si presentarono alla prima comunione. Tutti i mocciosetti che ieri candidovestiti si presentarono agli altari non stavano buoni buoni e compunti solo per la promessa delle caramelle e dei dolciumi del dessert famigliare. Il pontefice li aveva delegati quali plenipotenziari per la pace alla corte del padreterno.

E i bimbi hanno preso sul serio il loro mandato. Sarà una giornata indimenticabile quella di ieri, per migliaia e migliaia di piccoli che cresceranno. Il cattolicesimo, dando alla funzione di ieri uno scopo concreto e di quella tal concretezza, ha seminato bene per l'avvenire. Manzoni dice che il tracollo alle sue titubanze di ateista sulla via di Damasco, fu dato dall'impressione profonda sentita ascoltando della musica sacra, eseguita dall'organo nella discreta e suggestiva luce crepuscolare di una chiesa.

La coscienza religiosa è tutta materiata di queste impressioni crepuscolari, di questo vago riecheggiare di ricordi lontani, che rendono morbido il cervello, che spopolano la coscienza o la staccano dalla terra per dei vagabondaggi sublunari in un cullamento perpetuo della propria inerzia, con la abdicazione della propria volontà nelle mani della Onnipossenza e dei suoi ministri in terra.

È difficile combattere questi stati d'animo, perché si supera ciò che è razionale, non ciò che è solo stopposa vacuità. Perciò i cattolici li moltiplicano, continuano le loro conquiste, intensificano la loro opera invischiatrice. E la loro arma piú efficace è il bambino: lo si manipola nelle scuole, nei collegi privati e negli oratori e all'altare per la prima comunione.

Nel Piccolo mondo antico di Fogazzaro, Piero Maironi una notte di Natale sveglia la figliuoletta quattrenne apposta, la conduce insonnolita in barca sul lago fino alla chiesa, la tuffa cosí stordita nel mare di luci e d'incensi, e a chi gli domanda il perché di questo turbare cosí la bambina, risponde appunto che vuole creare per l'avvenire dei ricordi romantici, delle impressioni vaporose, che lo rassicurino per la cristallizzazione della figlia piú che le prediche morali e i ragionamenti di cui altre prediche e altri ragionamenti possono distruggere l'effetto. Non importa ai cattolici che con tali metodi si creino solo dei mezzi caratteri, delle mezze coscienze. Appunto queste costituiscono il plesso sociale piú retrivo e conservativo, il materasso contro il quale si picchia invano. E non è da mezzo carattere, da mezza coscienza far invocare dai bambini ciò che gli uomini dovrebbero cercare di procurarsi, lasciare ai bambini la responsabilità di una risposta negativa da parte di chi è presentato come l'amico della puerizia, l'ascoltatore dei suggerimenti degli esseri deboli?

(31 luglio 1916).

BOMBANCE

Amico, uniamo le nostre due malinconie per traghettare questo solco che l'abitudine ha scavato tra i settimanali periodi di lavoro. Andiamo fuori della città anche noi lungo gli stradali suburbani che il traffico lascia in quiete, a immergerci negli odori terrestri di fieno tagliato, a vedere gli ultimi verdori che ingialliscono, a vagabondare lontano da questo mondo che ogni giorno su sette vuole bruciare i pensieri che rodono, le preoccupazioni che martellano sul ritmo dell'ansare della città laboriosa. Siamo soli, possiamo aprire liberamente la via ai nostri ingenui desideri, mettere in comunione le nostre sobrietà. Non desideriamo troppo, in fondo; viviamo cosí intensamente la vita di tutti, per non desiderare qualche volta il nulla intorno, e dirugginire il nostro io, e liberarci delle scorie sentimentali.

Uniamo le nostre malinconie che incupiscono per le lettere sgusciate, chissà come, alla vigilanza della divinità che tutela il nostro pessimismo. Le tetre immagini dei morti, delle sofferenze inaudite, di questo intrecciarsi su un terzo della superfice terrestre dei camminamenti di formiche (come direbbe il senatore Garofalo) inconsciamente aspiranti alla preda, non sono compagnie buone per le passeggiate serali della domenica fra gli odori del fieno appena falciato e della terra che ribolle soddisfatta della periodica graveolente razione di concime. Dalle oasi illuminate delle bettole suburbane arriva fin qui lo strepito, il clamore della bombance domenicale. Canti stonati o in armonia di gole rauche, cori di parole senza senso si diffondono intorno. Che malinconia essere afflitti dalla piaga del dovere, credere a nuove formazioni di miti sociali diversi dalla snobistica mania di godimento dei vecchi uomini, della società che abbiamo voluto fuggire! Ci perseguita questo ronzio molesto di giovani che scialacquano il lavoro asfissiante di sei giorni in luridi saturnali. Anime di schiavi che non trovano di meglio che imitare periodicamente i loro padroni? Che unico fine sia davvero fare il signore quando il borsellino è rigonfio, e dimenticare quelli che le lettere ci dipingono realisticamente a brancicare luridumi, a scavare solchi di morte, a seminare di metallo micidiale le intatte cime dei monti, per restituire, inutile, alla terra ciò che essa dà per la vita? Il morto assale il vivo, il vecchio mondo di artificio cerca di perpetuarsi nel nuovo, e questo vi si adatta supinamente, gode, egli che è sano e nobile, di poter fare ciò che gli altri fanno. Amico, bisogna cercare alla nostra malinconia domenicale un altro rifugio; il nulla esiste solo per chi non sente e non vede nulla. E poiché non abbiamo anime da asceti, e poiché siamo fieri di ciò che pensiamo, lasciamo che la malinconia nostra viva pur essa. Sarà il segno di nobiltà della coscienza per domani, quando essa troverà altri Alberto Dürer che la dipingano sul campo di battaglia ormai deserto, fra gli strumenti di distruzione ormai inservibili, sola padrona del terreno da cui la vita è andata via sbigottita.

(1° agosto 1916).

PREGIUDICATI

Non abbiamo molta simpatia per il romanticismo francese. Le gonfiezze, le prediche sociali di Victor Hugo ci lasciano discretamente indifferenti. Sterili diatribe, esse distruggono, ma non costruiscono neppure dell'arte. Prodotto di un feticismo sentimentale per il «popolo» non lasciano solco nelle coscienze, non lasciano stimoli alla fantasia creatrice. Eppure, caduti per caso nell'aula di un tribunale, ripensiamo alle enormi, titaniche sfuriate del romantico francese contro la giustizia dei suoi tempi, e vorremmo avere i suoi robusti polmoni per soffiare contro queste montagne di carta stampata che lasciano sulla fronte dei pazienti, che sfilano alla sbarra, il marchio che li manda per sempre alla geenna dei bassifondi: pregiudicato!

Trenta minuti di discussione, quattro processi per direttissima, quattro condanne, quattro nuovi pregiudicati. Anche i loro nomi sono ignoti ai giudici fino all'ultimo momento decisivo. La preoccupazione maggiore è di sbrigarsela in fretta, di poter uscire dall'aula fetida, di respirare. Nessun senso di responsabilità. Il Pubblico ministero che, secondo i sacri principî dell'89, tutela la collettività e deve parlare in nome di tutti per il diritto che tutti hanno di vivere tranquilli, chiacchiera con un vicino; quando viene il suo turno domanda un nome, scorre un rapporto di polizia, ricorda un articolo del codice, e bolla. Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre. La polizia ha già condannato; contraddire alla polizia richiederebbe uno sforzo, domanderebbe una persuasione.

E il caldo non consente sforzi, la fretta e la conversazione interessante col vicino non lasciano tempo alla persuasione di formarsi. La collettività lo paga, e lautamente, per essere tutelata; suppone in lui quel minimo di simpatia umana necessaria per non cacciare in prigione il primo venuto, per non creare di un onesto, che può anche aver fallito per un momento, un pregiudicato, un refrattario che ormai non penserà piú che all'ingiustizia subita, che ormai, obbligato dal marchio infamante a vivere in margine, sarà preso dall'ingranaggio e diventerà il delinquente nato, a soddisfazione dell'antropologia criminale.

Non abbiamo simpatia per il romanticismo francese. Eppure desidereremmo che uno di quei grandi retori, di quei feticisti del «popolo» inchiodasse alla gogna nel volume che corre fra le mani di tutti il tipo di questi barbassori del diritto, di questi irresponsabili che vengono assunti alla cattedra seguendo il pregiudizio che la collettività possa davvero essere difesa da loro. Perché pensiamo che noi non possiamo subito dare una sanzione punitiva a tanta leggerezza. Perché vorremmo, ma sarebbe pretendere troppo, che la furia di popolo spazzasse via queste montagne di carta bollata, questi commedianti in toga, odiosi non meno dei melodrammatici inquisitori di felice memoria.

E allora ci basterebbe che per effetto del libro romantico, essi fossero inseguiti, vociati per le vie come i gesuiti dai lunghi cappelli a tegola delle vecchie incisioni. Perché, persuasi che una giustizia veramente possa esistere, la nostra irritazione morale potesse trovare sfogo contro queste parodie che alle menti leggere sembra dover essere tutta la giustizia, la sola giustizia possibile.

(2 agosto 1916).

VETERINARIO IN FILM

Alle 11 e mezzo, nella sala di visita medica dello stabilimento, a gruppi stazionano gli operai che aspettano la visita del veterinario che li ha in cura. Veterinario, sicuro, dicono i pazienti, perché esamina a colpo d'occhio. Gli operai parlano, è vero, sanno dire ciò che sentono, ma diamine, si sa che i sintomi da loro denunciati sono montature, esagerazioni per avere la vacanza, per darsi alla baldoria. E allora, è come non parlassero, come fossero dei bruti recalcitranti al lavoro; ma il medico diventa veterinario; l'illazione è semplice, ma logicissima.

L'attesa illanguidisce di piú gli aspettanti; i minuti passano, il mezzogiorno è vicino. Intanto i caposquadra notano la prolungata assenza dei loro subalterni, e accolonnano le multe di due lire. Ah! Questi operai! Date loro un mignolino di tolleranza e se ne prendono una spanna. Gentaccia, già si sa. Un vocio intenso, sorde imprecazioni fra i denti. Il sorvegliante d'ordine osserva e non è avaro nello stendere rapporti contro i sobillatori, contro quelli che predicano la ribellione. Perché, come è noto, il disordine è sempre nel basso, e protestare contro chi non fa il proprio dovere, non è tendenza all'ordine, è ribellione.

Ma il... veterinario arriva finalmente, e i quaranta operai si preparano per sfilargli innanzi a turno. Primo, un piccolo vecchio timidissimo, che si raggomitola tutto innanzi alla superba mole del suo giudice dai baffi spinosamente spavaldi. Dice umilmente che si sente stanco, che le tredici ore di lavoro intenso, gli straordinari lo schiantano; gli dolgono le reni, ha frequenti nausee... Uno sguardo complessivo: un purgante e l'ordine di continuare con le tredici ore.

Il secondo operaio ha una scheggia in un occhio; l'estirpazione è rapidissima; le pinze frugano nella piaga... proprio come nei paesi di montagna i flebotomi con le tenaglie rugginose frugano nella gola del cavallo per togliere la sanguisuga ingurgitata con l'acqua dei ruscelli. E non vale il mal di capo spiegabilissimo; bisogna ritornare alle due. A un tentativo di protesta, il Dulcamara nota nome e cognome annunziando una visitina dei reali carabinieri in caso di assenza.

La sirena annunzia la cessazione del lavoro. Il numero dei visitandi si fa piú esiguo. Molti operai abitano lontano, bisogna essere di ritorno in orario, e bisogna pur mangiare; il dottore è soddisfattissimo: se vanno via... evidentemente non hanno nulla. I suoi ritardi, le multe per i ritardi degli altri... invenzioni. L'operaio è una macchina, che diamine, e bisogna produca. Il malessere, la stanchezza, cose da sovversivi indisciplinati e perversi. Un terzo: gli dolgono le reni, ha una tosse secca che lo squassa tutto ad ogni istante; potrebbe essere tubercolotico, e non domanda che un po' di riposo, per ripigliare dopo con piú vigore. Un po' di acqua di sedlitz, accennano i due baffi. Una protesta: due lire di multa, e l'ordine regna una volta di piú. E cosí via: un quarto, che ha la mano mezza schiacciata, che è stato medicato in fretta e furia, senza nessun esame della ferita, viene rimandato alla prossima visita. Per intanto non deve assentarsi, il ritmo del lavoro non deve illanguidire, gli industriali non devono, per un capriccio della macchina, veder decurtati i loro guadagni onesti. E la parodia continua cosí finché un'automobile non arriva sbuffando a condurre via l'Esculapio per il meritato desinare, ancor fresco, attillato, rubicondo. Non maniche rimboccate, non impuri contatti con pelli arse dalla febbre, con piaghe sanguinolenti, con polsi neri di fuliggine... Quante pretese in questi benedetti proletari; vorrebbero un medico, non un veterinario, vorrebbero le cure complicate, ma l'Esculapio non si lascia scuotere; il dovere è vangelo per lui. Ma già, con tanta predicazione di materialismo, di panciafichismo, non fa piú meraviglia che anche i subalterni tengano alla vita, alla sanità, alla integrità fisiologica. Fossero i cavalli del reggimento, il veterinario diventerebbe subito medico, perché i cavalli costano un occhio del capo e il loro numero è limitato.

Ma si capisce: queste sono frasi da comizio, buone per sobillare gli incoscienti. Mentre la disciplina, l'ordine, riempiono la bocca ed assicurano la vittoria.

(4 agosto 1916).

HEU PUDOR!

Bevione scrive di Leonida Bissolati. L'«Idea nazionale» protesta, e con ragione, perché l'apologia del socialismo e delle passate battaglie socialiste fatta sulla «Lettura» è ripugnante o sollazzevole, a seconda se si abbia voglia di piangere sulla bassezza morale e intellettuale degli uomini ai quali è affidata la rappresentanza della nazione, o di ridere sulle contorsioni acrobatiche di chi ha bisogno di assicurarsi un collegio.

Nessun socialista, scrivendo la passata vita del neo-ministro fino al momento della sua espulsione dal nostro partito, avrebbe potuto forse trovare frasi piú benigne, né valutare piú serenamente i fatti. Tutto è lodato! L'adesione al socialismo dalla corrente mazziniana, la prima opera di propaganda per il risveglio delle plebi agricole, le battaglie parlamentari per la libertà, sono narrate con la massima simpatia. Sembra che Bevione ci sia stato anche lui accanto a Bissolati in quell'epoca; abbia anche lui partecipato a tutte le lotte, abbia sofferto il carcere e non mai combattuto, vilipeso il movimento nostro. Ma oggi Bissolati è ministro e forse domani sarà il Briand d'Italia, e Bevione gli scodinzola intorno, e ne esalta non solo le attuali benemerenze patriottiche, ma anche le altre del tutto opposte. Razza di giullari!

Perché non c'è piú oggi in Italia un cane d'un moderato che abbia il coraggio di difendere le persecuzioni inflitte nei tempi passati agli uomini nostri. Crispi?! Domicilio coatto?! Prigionieri?! Novantotto?! Quando se ne parla ogni buon borghese si stringe nelle spalle, e sembra quasi voglia chiederci scusa se allora, molti anni fa, vi furono dei governi e dei ministri cosí poco liberali! «Che colpa ne abbiamo oggi noi del secolo XX? — sembrano dire. — Già, allora hanno avuto torto, ma oggi... vedete quanta libertà; vi chiamano perfino al governo!»

E se si ricordano i processi, le condanne di oggi: «Oh, sono uomini questi senza testa e senza buon senso, vedete... Bissolati!» Tal è del resto il destino di tutte le grandi idee innovatrici: costare agli assertori dolori e sacrifici, ed essere accettate dalle maggioranze lentissimamente, onde ogni qualvolta un piccolo progresso è conquistato, già nuove aspirazioni urgono!

La borghesia si sta accorgendo ora di quale magnifica opera per la causa del proletariato e della civiltà umana abbiano compiuto i primi socialisti; lo riconosce perché crede che essi non siano piú pericolosi, e riserba tutte le sue ire contro coloro che oggi non vogliono fermarsi, ma vogliono proseguire senza sosta, ad ogni costo, il lavoro iniziato. Certo fra venti anni o cinquanta, qualche altro Bevione scriverà, fra il consentimento generale, che noi anti-patriottici, traditori ecc. non avevamo poi ogni torto, e magari riconoscerà che abbiamo bravamente saputo tener fede alla nostra idea, a delle buone idee che saranno ormai comunemente accettate.

Frattanto è preferibile ridere! C'è tanta tristezza, tanta oppressione, tanto sconforto intorno, che è necessario scuotere qualche volta l'animo nostro.

Ecco Teofilo Rossi sindaco ed ecco Giuseppe Bevione deputato: quali sforzi per rimanere a galla, quale pietoso spettacolo! Ridete. Chi di loro si salverà? Ahimè, purtroppo per la nostra allegria, nessuno!

(7 agosto 1916).

DIMOSTRAZIONI

Infiltratevi in una qualsiasi delle sparute dimostrazioni che in queste radiose giornate vanno di caffè in caffè. Cercate di far tacere i vostri sentimenti per capire; immergetevi, come consiglia Bergson, nel fiume della realtà perché diventiate parte del tutto, e scocchi cosí la scintilla divina dell'intuizione. Ahimè, non trovate realtà in cui immergervi, vi accorgete che non esiste affatto un tutto. Non c'è stoffa per tagliare, non potete neppure dir male, perché non c'è niente da dire. Non un grido che uscendo spontaneo dalle gole significhi che un sentimento solo accomuna questa ibrida accozzaglia che si è venuta raccogliendo dai marciapiedi, dai caffè, dai portici. Non c'è neppure una processione, perché manca il santo da celebrare; non è una sfida, perché troppi questurini vigilano l'integrità dei dorsi e delle guance dei camminanti. Non è niente che abbia un qualsiasi valore storico o sociale. È tutt'al piú irrequietezza fisiologica, ma non affermazione di un'idea.

All'angolo di via Roma e piazza San Carlo un passero scappa dalle mani di un monello col filo ancor legato alla gamba. Il filo rimane preso ad una guglia e l'uccellino svolazza terrificato, impigliandosi sempre piú. I passanti si fermano col naso in aria, si addensano, formano alla folla, per quella curiosità ingenua ed epidemica, che è propria solo degli sfaccendati della città. I tram, le carrozze si fermano, finché i vigili non impongono di circolare e rimandano gli sfaccendati nei caffè, sotto i portici, sui marciapiedi. I giornali dànno una notizia; essa deve essere importante, dicono i portinai, perché riempie pagine e pagine. Si formano i capannelli, si forma una processione e si fa la via Crucis: caffè, piazze, monumenti, un po' di musica, un po' di urli e di fischi, di evviva e di abbasso, e poi si va a centellinare la granata. È uno dei tanti atteggiamenti dell'oziosità cittadina, è uno dei tanti svaghi gratis della vita cittadina. «Siamo in parecchi, dunque si fa la dimostrazione», dice ognuno come il marchese Colombi diceva: «Io sono il presidente, dunque suono il campanello». Ma la dimostrazione non è oziosità, non è curiosità. È manifestazione di forza, è presa di possesso delle vie cittadine, che non appartengono piú a tutti, ma solo a chi ha saputo conquistarsele senza l'aiuto delle pance fasciate dei delegati. È urlo di conquista, non abbiosciamento soddisfatto su una bella notizia di cronaca, è tensione spasmodica di tutta una folla che gomito a gomito sente pulsare in sé i sentimenti, i voleri di tutti gli altri. E sbocca in un pugilato, in una barricata, lascia dei segni sanguinosi sul suo passaggio, non finisce al caffè dinanzi al bicchiere della bibita rinfrescante. Ma essa è suscitata dalle idee, dai fatti anche, che si sono inquadrati in una idea. E in queste dimostrazioni non brillano idee, né coscienze, né carattere.

(12 agosto 1916).

IL CODICE DI PRALUNGO

A Pralungo è avvenuto un gravissimo fattaccio di cronaca, a leggere i giornali cattolici.

La solita dozzina di socialisti affiliati alla teppa ha malmenato dei giovani musicanti clericali che dimostravano, dando fiato agli ottoni, la loro convinzione e la loro gioia patriottica. I cattolici domandano giustizia per la libertà violata, per i sacrosanti diritti dell'uomo calpestati dalla teppa. L'on. Sacchi, che è un radicale e della libertà ha quella larga concezione che è propria del suo partito, specialmente quando sale al potere, deve pensare che la tanto laudata libertà di pensiero è uno specchietto buono per i bimbi, se non è accompagnata dalla libertà di manifestare e propagare questo benedetto pensiero. La libertà di pensare nessuno può darla o toglierla; è un attributo dello spirito, e pertanto non teme carabinieri, né teppisti. È la libertà di far conoscere il pensiero che dipende dall'arbitrio della società e dei ministeri radicali. Cosí ragionano i cattolici, molto giustamente, quando si tratta della loro libertà e del loro pensiero. Perché di quello degli altri non si preoccupano: la reciprocità è parola diabolica per i boccadoro dalle cui labbra non può fluire che la verità, l'unica verità, alla quale tutti, anche i teppisti, devono rendere omaggio. Ma questi, che sono dei miserabili poveri di spirito evidentemente, a quanto pare, ci tengono alla reciprocità. Non riescono a concepire la libertà schiava di particolari uomini e categorie. E poiché si accorgono che lo Statuto, il codice della collettività italiana, è diventato privilegio, promuovono dei codici, degli statuti locali, che affermano pedestremente: ciò che non è concesso a me non deve essere concesso neppure a te; e la cui forma esecutiva è l'antidiluviano bastone. Cose deplorevoli, senza dubbio, per ogni persona bennata e di cuore gentile. Ma, a quanto si dice, indeprecabili, fatali. È sempre successo cosí, e i cattolici ne sanno qualche cosa, essi che attraverso i secoli sono stati i piú strenui difensori della libertà loro, e che hanno tappato con le buone o con le cattive, tante bocche di eretici, e che domandano la semplice libertà che a Pralungo fu negata ai musicanti cattolici. Sempre, quando i diritti della collettività vengono conculcati a benefizio dei singoli, i conculcati si rifanno nei soli modi loro concessi. A Roma mandano in soffitta lo Statuto, a Pralungo entra in esecuzione un nuovo codice, teppistico quanto si vuole, esasperante, umiliante anche, ma fatalmente indeprecabile. I cattolici non capiscono queste cose. E di questa loro limitazione di intelletto incolpano l'educazione nefasta che i socialisti impartiscono alle masse.

(16 agosto 1916).

SCENE DELLA GRAN VIA

La Gran Via è in questo caso un modesto vicolo della vita politica italiana: la regione piemontese, dominata nella sua attività democonservatrice da Giovanni Giolitti. L'uomo che, secondo la devota e servile immagine dei suoi adoratori, rappresenta l'abusato cliché dello schietto spirito paesano, armato di un cappello a larghe falde, rivestito di rude fustagno e calzato delle robuste calzature di montagna, scende al piano, con la pensierosa austerità dei pastori abituati all'aria pura delle alte cime, per ammonire e consigliare il suo re, ha trovato nella regione piemontese un noioso tafano in Delfino Orsi. Un tafano, non un avversario, che dirittamente, lealmente abbia cercato di abbattere questa ridicola idolatria, per uno dei tanti Depretis che il settentrione ha regalato all'Italia. Un tafano che è un ricalco diminutivo dell'uomo che avversa, che gli è fondamentalmente simile nel programma di trasformismo, di confusionismo delle forze politiche italiane, ma che non ha di Giolitti la forza, la volontà, l'abilità di persuasione, la fortuna e l'aiuto della dinastia. Delfino Orsi non si è ancora rifugiato a Parigi, come Giovanni Giolitti a Berlino, dopo i fatti della Banca Romana. Ma se non avesse avuto la fortuna della guerra, che ha creato l'omertà tra i patriotti a buon mercato, ciò avrebbe dovuto succedere. Lo svaligiamento dei contribuenti, attraverso la oculata amministrazione dell'Esposizione del 1911, equivale alle possibili malversazioni e concussioni perpetrate a danno dei clienti della famosa banca. La misura della responsabilità non cambia, se cambiano l'entità e l'estensione della colpa. La baratteria è sempre tale anche se diversi siano Delfino Orsi, amministratore di due milioni e mezzo, e Giovanni Giolitti, ministro e tutore di settanta miliardi di patrimonio. Delfino Orsi, che avversa la guerra libica e poi, a fatto compiuto, a sacrificio inoltrato e ormai indeprecabile e, secondo la tardigrada, paurosa abitudine della mentalità conservatrice, che conserva anche il putrido e il marcio, tanto per rimanere in carattere; e Giovanni Giolitti, che avversa la guerra attuale e poi per mantenersi in istaffa, a fatto compiuto ed a ministero cambiato, glorifica ciò che gli sembrava iniquo, e parla anch'egli di una piú elevata civiltà e di una maggiore giustizia sociale di là da venire per opera dell'eroismo, dovrebbero tutti e due tacere, segregarsi dalle loro vittime, poiché queste non hanno voluto o non hanno potuto dar loro il giusto guiderdone dei meriti indimenticabili. Invece parlano e operano fra l'indifferenza generale, e continuano ad imporre le loro persone ribalde, in omaggio allo spirito democratico, che vuol dire in Italia solo impunità per i birbanti quando essi siano grandi personalità del mondo politico o giornalistico. Contro questi truffaldini dell'opinione pubblica la società borghese si è sempre dimostrata incapace a reagire, impotente a punire. È necessario che una forza estranea intervenga, superiore alle categorie di parte, agli aggruppamenti artificiali intorno alle persone ed ai sistemi demagogici. Il compito nostro ne risulta ingrandito, illuminato da una superiore luce morale. In questa società podagrosa, ammuffita, [due righe censurate] noi porteremo anche l'ordine morale, oltre che quello economico. Spazzeremo via queste combriccole criminali di camorristi, che, dopo fatto il colpo, litigano per la preda. La città che noi costruiremo non deve avere i vicoli per le rappresentazioni atrocemente divertenti della «Gran Via».

(17 agosto 1916).

LOTTA DI CLASSE E GUERRA

La dottrina di Carlo Marx ha dimostrato anche ultimamente la sua fecondità e la sua eterna giovinezza offrendo un contenuto logico al programma dei piú strenui avversari del Partito socialista, ai nazionalisti. Corradini saccheggia Marx, dopo averlo vituperato. Trasporta dalla classe alla nazione i principi, le constatazioni, le critiche dello studioso di Treviri; parla di nazioni proletarie in lotta con nazioni capitalistiche, di nazioni giovani che debbono sostituire, per lo sviluppo della storia mondiale, le nazioni decrepite. E trova che questa lotta si esplica nella guerra, si afferma nella conquista dei mercati, nel subordinamento economico e militare di tutte le nazioni a una sola, a quella che attraverso il sacrifizio del suo sangue e del suo benessere immediato, ha dimostrato di essere l'eletta, la degna.

Perciò Corradini non avversa, a parole, la lotta di classe. «Sopprimere la lotta di classe, egli dice, val quanto sopprimere la guerra. Non è possibile. Entrambe sono vitali, l'una all'interno delle nazioni, l'altra fuori. Servono a muovere e rifornire di materiale umano fresco, classi, nazioni, il mondo». Ma questo saccheggio delle idee marxistiche ai fini nazionalistici ha il torto di tutti gli adattamenti arbitrari; manca di una base storica, non poggia su nessuna esperienza tradizionale. Per cui dal punto di vista della logica formale i ragionamenti corradiniani non fanno grinza, ma perdono ogni valore quando vogliono diventare norma di vita, coscienza di un dovere. La storia non ha esempi di uno uguale a uno; questa uguaglianza è formula matematica, non constatazione di rapporto fra due realtà affermatesi nel passato o attuali. Tizio è uguale solo a se stesso, e volta a volta, anche; non Tizio bambino uguale a Tizio uomo adulto. E cosí la classe non è uguale alla nazione e quindi non può averne le stesse leggi. Tanto vero che dopo affermato il principio, lo stesso Corradini pone tali limitazioni che finisce, senza avvedersene, col fare rovinare tutta la sua costruzione. Egli afferma che bisogna insegnare al proletariato il massimo rispetto per la produzione.

E per produzione egli intende il capitalismo nazionale, cioè quel complesso di attività economiche, buone e cattive, naturali e fittizie, che in parte servono ad aumentare la ricchezza investita in macchine ed in aziende [una parola censurata] i socialisti vogliono socializzare lo sfruttamento, e in gran parte vivono ai danni del benessere generale e quindi specialmente di quello del proletariato. E rispettare questo pare sia alquanto difficile ai proletari, i quali non fanno la lotta di classe solamente per aumentare i salari, come crede il Corradini, ammiratore naturalmente dei riformisti nazionali, ma specialmente per sostituire la propria classe che lavora a quella dei capitalisti che la fa lavorare. E ciò per quei principî fondamentali dello spirito umano, per cui ogni uomo vuole che la sua attività sia autonoma e non subordinata alla volontà e agli interessi di estranei. E come la borghesia francese, esaltata dal Corradini, lottò per la sua autonomia economica e raggiunse contemporaneamente anche la realizzazione dell'autonomia nazionale, che prima non esisteva, cosí ora il proletariato internazionale lotta per una cosa che ancora non esiste, perché si lotta sempre per raggiungere qualche cosa che non si possiede ancora.

E questa nazione proletaria che è l'unificazione di tutti i proletari del mondo, supera la nazione di quanto Carlo Marx, che la sua logica nutriva di realtà storica, è superiore ad Enrico Corradini, che si diverte a riempire la botte senza fondo della logica formale con i torniti periodi della lingua italiana, e di quanto la lotta di classe, morale perché universale, supera la guerra, immorale perché particolaristica, e fatta non per volontà dei combattenti, ma per un principio che questi non possono condividere.

(19 agosto 1916)

NESTORE E LA CICALA

Cinque giorni di stretta intimità. Cinque discorsi senza contare i minori metraggi. Boselli non ha perduto il suo tempo. Ha preso sul serio il mandato specifico che l'ironia della vita parlamentare gli ha affidato. Parlare, solleticare con le frasi bonarie, argute, paternamente familiari i trovatelli del brefotrofio nazionale, che per deficienza costituzionale amano i luccichii delle pietruzze iridate e con esse si trastullano, mentre i pochi adempiono a tutto quanto la vita di un cosí grande ricreatorio richiede. Il pupillo non vuole tutori giovani; il confronto con la sua giovinezza inerme e la giovinezza attiva del tutore lo umilierebbe troppo, lo spingerebbe forse a cercare di far da sé, a scuotere di dosso il fardello. La democrazia in Italia vuol dire oligarchia, ma con le apparenze salvate, con l'illusione in tutti di essere qualcuno. E i vecchi sono delle maschere magnifiche. Chi dei trentaquattro milioni d'italiani vorrà avversare Boselli? Ma volete dunque farlo morire, questo buon vecchio che ha dato alla patria cinquant'anni di discorsi e di «prediche emarginate»? Non fa male a nessuno — si dice — perché dargli dei dispiaceri? E «la buona immagine paterna» si incolla nel cervello, fa dimenticare tutto il resto.

Noi ammiriamo gli antichi. E gli antichi ammirano e rispettano due cose: le cicale e i vecchi. E tutte e due sublimarono nella leggenda. Nestore, dalla cui bocca fluivano sempre parole piú dolci del miele, e Tritone. Ma il vecchio Nestore parlava poco, e operava molto, e l'aiuto del suo braccio era apprezzato tanto quanto quello del suo senno. Tritone è, invece, il vecchio che adora, il vecchio che declama, ma non può fare. Il rispetto per la senilità loquace gli antichi glielo dimostrarono in un modo piuttosto strano per noi. Immaginarono che Tritone diventasse cicala, e adorarono la cicala. Nelle afose serate di agosto, il frinire infinito dell'infecondo animaletto contribuisce a riempire l'essere di torpore, di languidezza, di abbandono. Sembra la voce della terra che assorbe nel suo grembo inturgidito dal solleone e dagli acquazzoni tutte le sue creature. E gli uomini si lasciano ammaliare e dormono tranquilli e buoni. Ma pur ammirando gli antichi, noi, che nel nostro animo abbiamo domato la tendenza all'idillio georgico, finiamo con l'averne abbastanza della cicala e della sua intimità che rompe i timpani.

E rispetteremmo e venereremmo la senilità arguta di Paolo Boselli, se egli si accontentasse di starsene all'angolo del focolare a narrare fole ai nipotini e non tenesse tanto a mettere insieme il venticinquesimo volume dei suoi discorsi politici.

(20 agosto 1916).

DIRITTO COMUNE

Se un qualsiasi cittadino, attraversando di notte una via, si accorge che uno sconosciuto striscia rasente un muro e lo insegue, ha diritto di domandare aiuto alle autorità per essere protetto e di servirsi della sua forza fisica per porre termine al gioco pericoloso. Se un qualsiasi cittadino si accorge che sotto le finestre della sua abitazione uno sconosciuto si pone in ascolto, e sorprende il congegno delle sue abitudini, e segue tutta quella parte della sua vita che il pudore o solamente il buon gusto gli fa volere sia salvata da ogni curiosità, il cittadino crede d'avere il diritto di irrorare il curioso dei liquidi piú eterogenei e di farlo smettere, con le buone o con le cattive. È insomma coscienza diffusa in ogni cittadino che senta la sua dignità di uomo, di avere il diritto di tutelare la sua libertà di vita, la scelta delle sue abitudini, la distribuzione della sua attività, ad ogni costo, e di avere il diritto di proibire agli sconosciuti curiosi di porre il naso nella sua vita privata.

Tutto ciò è semplice, piano e nessuno oserebbe farne argomento di contestazione. Eppure vi sono degli uomini che si vedono inseguiti nella pubblica via alle ore piú impossibili della notte e non possono protestare. Vi sono delle case private che debbono sopportare la sorveglianza degli sconosciuti che spiano, ascoltano, domandano informazioni, senza che determinati inquilini possano protestare. Vi è un edifizio privato, che non può essere chiuso dalla legge perché nessuna autorità lo ritiene covo di malviventi, luogo di convegno di ladri o di assassini, ed i passanti vedono sul suo marciapiede degli sconosciuti accoccolati che ascoltano, prendono appunti, senza che nessuno possa sapere chi sono, e senza che nessuno senta d'avere il diritto di servirsi della frusta contro di essi, come contro i cani randagi.

Perché se uno, inseguito, domanda spiegazioni al pedinatore, può vedersi mettere sotto il naso una targhetta con un numero, oppure piú spicciamente può essere trascinato in un corpo di guardia, essere caricato lui di bastonate, e prendersi una condanna per oltraggio ad un agente. Perché uno deve, nel regno d'Italia, ritenere che ogni borghese sia un agente, e lasciarsi borseggiare per paura che il presunto ladro sia invece un agente e possa fare andare in galera il borseggiato. Perché, nel regno d'Italia, c'è una categoria di persone, che vestono in borghese ma hanno nel portafoglio una patente, ai quali è permesso ciò che a tutti gli altri è proibito, ed i cittadini devono sapere che essi hanno nel portafoglio la patente, e devono sopportare di essere malmenati, derisi, bastonati, senza avere il diritto di protestare. Perché — e questa è la ragione di maggior peso — gli italiani hanno cosí poca coscienza di ciò che veramente è la libertà, da permettere che una ristretta categoria di persone, per lo piú fior di bricconi e schiuma di fogna, sia fuori del diritto comune e possa sottrarsi a quelle sanzioni punitive che la coscienza universale crede giustificate contro tutti i comuni malfattori.

(22 agosto 1916).

IL CONSUMO DELLE BANDIERE

I

L'assessore Cauvin riferisce:

Dall'inizio della nostra guerra a tutti gli edifici municipali venne esposta e lasciata in permanenza inalberata la bandiera nazionale. Ciò fu causa di deperimento dei drappi, tanto che ora occorre addivenire ad una completa sostituzione delle bandiere delle scuole primarie, medie, istituti speciali e servizi diversi.

Già la Giunta nella riunione del 29 maggio u. s. disponeva perché alla chiusura dell'anno scolastico le bandiere completamente logore venissero rimosse, riconoscendo la necessità di una nuova fornitura.

Per dotare le scuole e i servizi pubblici di nuove bandiere e per una sufficiente scorta di magazzino occorre la provvista di metri mille di saia lana bianca, di metri mille di saia verde, e di metri millequattrocento di saia rossa.

La ditta Italo Boggio, fornitrice del municipio, sarebbe disposta a cedere al prezzo di lire due al metro la saia rossa e verde e di lire due e dieci al metro la saia bianca.

Le speciali condizioni del mercato, che per la scarsità dei filati rendono difficili le forniture di grosse partite di merci, e la buonissima qualità della saia presentata dalla ditta Boggio, ne rendono conveniente l'offerta, tanto piú che le ditte specialiste del genere, interpellate, hanno risposto di avere per ora cessato la produzione.

Occorrerà inoltre provvedere per la prima confezione di una prima partita di cento bandiere (con provvista di nastri da lutto e di gala) a mezzo della ditta Bertinetti, specialista in materia, con una spesa prevista in lire 420.

La spesa complessiva che ascende a lire 9000 e cioè lire 6900 per acquisto saia e lire 2100 per la confezione e fornitura nastri di 100 bandiere, verrà applicata per lire 4500 all'art. 31-E.c. e lire 2660 all'art. 34-E-2 del bilancio in corso: le rimanenti lire 840 sono da prelevarsi dall'art. 8-C del corrente bilancio.

Essendo però esaurito lo stanziamento relativo, converrà stornare dal fondo di riserva a favore di detto articolo la somma di lire 20 000 per provvedere a questa ed altre spese che si prevede possano ancora essere necessarie nell'anno in corso.

La Giunta propone al consiglio comunale di autorizzare: 1) la provvista a trattativa privata dalla ditta Italo Boggio di metri 3400 di saia lana nei tre colori suindicati, ai prezzi di lire 2 al metro per il rosso e il verde e di lire 2,10 per il bianco, nonché la confezione di cento bandiere (con provvista dei nastri da lutto e di gala) con affidamento alla ditta Bertinetti, alle condizioni suindicate; 2) lo storno della somma di lire 20 000 dal fondo di riserva (art. 47) del bilancio in corso a favore dell'art. 8-C del bilancio stesso; salvo il disposto dell'art. 183 della legge comunale e provinciale. Col prelievo di cui sopra, il fondo di riserva rimane di lire 135 090,10.

(23 agosto 1916).

II

L'assessore Cauvin ha riferito sullo storno di ventimila lire dal fondo di riserva per provvedere al consumo delle bandiere ed altrettanti generi di chincaglierie municipali, e non vi è dubbio che la maggioranza consiliare approverà la sua solerzia nel risolvere il sempre piú difficile problema dei... consumi. La giunta si mantiene in carattere, non vi è dubbio. L'altro ieri il sindaco alla rappresentanza dei tranvieri recatasi nel suo studio rispondeva con una frase austeramente spartana: «Ho deciso la piú stretta economia; per amore del risparmio non ho neppure piú fatto lavare le strade, quantunque l'igiene della città lo richieda. Bisogna che tutti facciano dei sacrifizi: i torinesi dell'igiene, i tranvieri dei loro bisogni piú urgenti, come io pure ho fatto sacrifizio di tutte quelle pubbliche manifestazioni di giubilo (banchetti, bicchierate, ecc.) che pure per il decoro della città e del suo primo magistrato, sarebbero indispensabili». Un sentimento cosí serio del decoro è veramente commovente. La bandiera è senza dubbio come il pennacchio di Cirano. Bisogna che essa non sia mai bruttata di sudiciume. Dicono che le bandiere dei reggimenti siano piú gloriose quanto piú sono sbrindellate [cinque righe censurate]. Ma la città non è un campo di battaglia, ed il decoro vuole i drappi ben rilucenti e mondi, la bandiera che si deteriora al fronte interno è un'altra; è composta della folla multicolore.

[Sedici righe censurate].

Ed in contraccambio di tutto ciò il sindaco rassicura i suoi amministrati che il decoro sarà tenuto sempre alto, che gli edifizi pubblici avranno sempre delle bandiere nuove di zecca, ed i torinesi non arrossiranno nei confronti con le altre città. Il pennacchio di Cirano starà sempre fieramente diritto sul casco spagnolo di Teofilo Rossi. Tutto il resto per il nobiluomo di Carmagnola non è che letteratura.

(25 agosto 1916).

L'INDIFFERENZA

È invero la molla piú forte della storia. Ma a rovescio. Ciò che succede, il male che si abbatte su di tutti, il possibile bene che un atto di valore generale può generare, non è tutto dovuto all'iniziativa dei pochi che fanno, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa dei cittadini abdica alla sua volontà, e lascia fare, e lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada può tagliare, e lascia salire al potere degli uomini che poi solo un ammutinamento può rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia è appunto l'apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, perché mani non sorvegliate da nessun controllo tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati di piccoli gruppi attivi, e la massa dei cittadini ignora. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare, ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento, e allora sembra che la fatalità travolga tutto e tutti, che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo, chi indifferente. E quest'ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe che apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli è irresponsabile. E alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno, o pochi, si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere di uomo, se avessi cercato di far valere la mia voce, il mio parere, la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno, o pochi, si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro appoggio morale e materiale a quei gruppi politici ed economici che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano. Costoro invece preferiscono parlare di fallimenti di idee, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Continuano nella loro indifferenza, nel loro scetticismo. Domani ricominceranno nella loro vita di assenteismo da ogni responsabilità diretta o indiretta. E non è a dire che non vedano chiaro nelle cose, che non siano capaci di prospettarci delle bellissime soluzioni dei problemi piú attualmente urgenti, o di quelli che vogliono piú ampia preparazione, e piú tempo, ma che sono altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è conseguenza di una curiosità intellettuale, non di pungente senso di responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, nell'azione, che non ammette agnosticismi ed indifferenze di nessun genere. E bisogna perciò educare questa sensibilità nuova, bisogna farla finita con i piagnistei inconcludenti degli eterni innocenti. Bisogna domandar conto a ognuno del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. Bisogna che la catena sociale non pesi solo su pochi, ma che ogni cosa che succede non sembri dovuta al caso, alla fatalità, ma sia intelligente opera degli uomini. E perciò è necessario che spariscano gli indifferenti, gli scettici, quelli che usufruiscono del poco bene che l'attività di pochi procura, e non vogliono prendersi la responsabilità del molto male che la loro assenza dalla lotta lascia preparare e succedere.

(26 agosto 1916).

LA STORIA

Date pure alla vita tutta la vostra attività, tutta la vostra fede, tutto l'abbandono sincero e disinteressato delle vostre migliori energie. Immergetevi pure, creature vive, sul vivo e palpitante divenire umano, fino a sentirvi tutt'uno con esso, fino a riceverlo tutto in voi stessi, e a sentire la vostra personalità atomo di un corpo, vibrante particella di un tutto, corda sonora che riceve e riecheggia tutte le sinfonie della storia che voi sentite cosí di contribuire a creare. Nonostante questo abbandono completo alla realtà ambiente, nonostante questo collegare il vostro individuo al gioco complicato delle cause ed effetti universali, sentite all'improvviso il senso di qualcosa che vi manca, sentite dei bisogni vaghi, e difficilmente determinabili, quei bisogni che Schopenhauer chiamava metafisici.

Siete nel mondo, ma non sapete perché. Operate, ma non sapete perché. Sentite dei vuoti, e desiderereste delle giustificazioni al vostro essere, al vostro operare, e vi pare che le ragioni umane non vi bastino, che risalendo di causa in causa arriviate ad un punto che, per coordinare e regolare il movimento, ha bisogno di una ragione suprema, fuori del conosciuto e del conoscibile per essere spiegata. Proprio come uno che guardando il cielo e risalendo di piano in piano nello spazio che la scienza ha misurato, sente sempre maggiori difficoltà al suo fantastico vagabondare nell'infinito, e arriva al vuoto e non può concepire questo vuoto assoluto, e allora inconsciamente lo popola di creature divine, di entità soprannaturali che coordinano il movimento vertiginoso e pur logico dell'universo. Il sentimento religioso è tutto materiato di queste aspirazioni vaghe, di questi istintivi ed interiori ragionamenti senza sbocco. E a tutti ne rimane nel sangue qualche traccia, qualche fremito, anche a chi piú fortemente è riuscito a dominare queste manifestazioni inferiori, perché istintive, perché impulsive, del proprio io.

Ma è la vita stessa che le vince, è l'attività storica che le cancella. Prodotti della tradizione, depositi istintivi di millenarie epoche di terrore e di ignoranza della realtà circostante, si cerca di rintracciare la loro origine. Spiegarle vuol dire superarle. Farne oggetto di storia vuol dire riconoscere la loro vacuità. E allora si ritorna alla vita attiva, si sente piú plasticamente la realtà della storia. Riconducendo ad essa non solo il fatto ma anche il sentimento, si finisce col riconoscere che solo in essa è la spiegazione della nostra esistenza. Tutto ciò che è storificabile non può essere soprannaturale, non può essere il residuo di una rivelazione divina. Se qualcosa è ancora inesplicabile, ciò è dovuto solamente alla nostra incompletezza conoscitiva, all'ancora non raggiunta perfezione intellettuale. E ciò può renderci piú umili, piú modesti, non già buttarci in braccio alla religione. La nostra religione ritorna ad essere la storia, la nostra fede ritorna ad essere l'uomo e la sua volontà e attività. Sentiamo questa spinta enorme, irresistibile che ci viene dal passato, la sentiamo nel bene che ci apporta, dandoci l'energica sicurezza che ciò che è stato possibile lo sarà ancora, e con maggiori probabilità in quanto noi ci siamo scaltriti per l'esperienza altrui. E la sentiamo nel male, in questi residui inorganici di stati d'animo superati. E cosí è che ci sentiamo inevitabilmente in antitesi col cattolicismo e ci diciamo moderni. Perché il passato noi lo sentiamo bensí vivificare la nostra lotta, ma domato, servo e non padrone, illuminatore e non aduggiatore.

(29 agosto 1916).

BUSCAJE

Due spettacoli. Uno si svolge sul palcoscenico. L'altro fra il pubblico. E il secondo non è il meno interessante. E il dialetto pone piú rapidamente a contatto le due parti del teatro, le fa collaborare, suscita impressioni immediate, perché il dialetto è sempre il linguaggio piú proprio della maggioranza, mentre la lingua letteraria ha bisogno di una traduzione interiore che diminuisce la spontaneità della reazione fantastica, la freschezza della comprensione.

Osservo. Il palcoscenico non ha niente di interessante. L'operetta è una delle solite volgarissime e banalissime riduzioni. Non una frase, non un motivo che esca dalle comunissime spiritosaggini.

Un padre che vuol maritare la figliola senza dote, un susseguirsi di avvenimenti slegati, in cui il motivo dominante è la ricerca del trucco per ingannarsi vicendevolmente. Ma il pubblico, commisto di vari elementi sociali disparati, pare s'interessi. Raggruppato intorno ai tavolini con la bibita rinfrescante, circondato dai grandi alberi stormeggianti, dal fiume che fa sentire lo scroscio delle sue acque costrette dalla chiusa, non suggestionato dal raccoglimento chiuso dei teatri soliti che impone al cervello solo quella fetta di vita che si svolge nel palcoscenico, tuttavia il pubblico segue lo spettacolo. E ride, e sorride, pur senza turbarsi o commuoversi affatto. E lo spettatore imparziale, che osserva, si accorge subito che questo benedetto pubblico dei suburbi è molto piú intelligente di quello chic delle poltrone e dei palchi. Perché non concede alla produzione, agli attori e agli autori piú di quanto si meritano. Lo stesso riso discreto fiorisce sulle labbra del passante che ha visto una portinaia imbizzita che sbraita. Lo stesso sorriso senza malignità e senza cattiveria increspa le facce degli affaccendati che all'angolo di una via sorprendono una frase senza senso di un ubriaco dallo scilinguagnolo sciolto che barcolla incompostamente. Le stesse osservazioni banali si sentono fare dai soliti qualunque per ognuno dei casi banali di cronaca.

E se si guardano questi poveri attori, che goffamente si agitano, goffamente cantano ogni tanto o sgambettano pigramente, e ripetono con convinzione delle freddure stantie, aspettando l'applauso che non viene mai, si sente una infinita pietà. Perché si ha un bel riflettere che, in fondo, chi si riduce a buffoneggiare e a far smorfie non può aspettare l'alloro e la palma. Si ha un bel riflettere che questa accozzaglia di uomini e di donne che non sa far altro che imitare le marionette, in fondo si spoglia di ogni decoro umano, e vuol far dimenticare che esiste una dignità umana. Rimane il dubbio che la punizione sia troppo grave, che il pubblico sia troppo intelligente anche nei suburbi, e che lo stormire delle fronde, lo scroscio delle acque, il raggio di luna che filtra sotto la tettoia dovrebbero fargli fare il sacrifizio del tavolino con la bibita, per lasciare a se stessi, alle loro malinconiche esercitazioni questi uomini e queste donne dai visi troppo coloriti, dagli abiti troppo stonati con le facce che hanno un residuo della placida onestà piccolo borghese. Invece... Invece questi attori credono sul serio di continuare la tradizione dialettale e si propongono di abbandonare per sempre il baraccone e i tavolini con le bibite, per fondare un teatro stabile, e indicono un grande concorso per la miglior commedia che drammatizzi i sentimenti patrio-gianduieschi suscitati dalla guerra. Cosí l'illusione creata dal compatimento benevolo crea sempre le disgrazie e i suicidi.

(30 agosto 1916).

SANT'ABBONDIO

31 agosto: Sant'Abbondio. Un nome che ormai è solo un personaggio, una figura tipica. Un personaggio che vivrà nell'arte eternamente perché ritrae un carattere eterno, quello degli uomini che non hanno carattere. «Don Abbondio non era un leone», dice il Manzoni, e siccome la mala sorte lo fece vivere in un tempo malvagio in cui i non leoni venivano divorati, e in cui la forza era l'unica ispiratrice della cosiddetta giustizia di questo mondo, cosí egli si fece prete, per essere lasciato in pace. Predicò il cristianesimo, ma per paura dei forti abbandonò alla loro sorte i miseri e mentre un suo gesto audace, quanto deve essere audace il compimento del dovere, avrebbe evitato il male, egli lasciò che il male si compiesse perché aveva paura della vendetta e temeva di perdere il suo cantuccino riposato e il suo bicchiere quotidiano di buon vino.

Sant'Abbondio, attraverso Manzoni, ha sostituito S. Pietro nella funzione di pietra angolare della chiesa. Potete immaginare Abbondio che recide un orecchio a chicchessia? Potete immaginare il «Momento» che sconfessa Saverio Fino o Pietro Gribaudi, pietre angolari della sua intellettualità, perché andati a riverire S. E. Filippo Meda e ad applaudire le sue parole di uomo che vuole andare a fondo nella vittoria? Sentite la strigliatina dell'«Osservatore Romano»?

È vero o non è vero che la rivoluzione italiana è stata disgraziatamente fatta tutta in odio alla religione cattolica, al suo capo, ai suoi ministri, alle sue istituzioni? E se ciò è vero, e se è vero che certi sistemi e certe massime fondamentali non sono state mutate e che il massonismo trionfa ancora in molte sfere, dobbiamo essere proprio noi, le vittime cinquantenarie di questi sistemi e di queste massime, a turibulare al vento inni di solidarietà e concioni di supine adesioni?

Non diciamo che le stesse parole sarebbero state usate dal cardinale Borromeo per i moderni Abbondi, né che la cultura storica dell'organo vaticanesco sia molto sopraffina. Ma è tuttavia vero che quelle domande i cattolici se le fanno e rispondono affermativamente, è vero che nelle prediche sono contrari allo Stato liberale e che dicono ingiusto e anticattolico tutto ciò che è sua specifica attività. Come è vero altresí che turibolano al vento inni di solidarietà e concioni di supine adesioni. Come è vero che nel '98 il ministero, di cui era parte Sonnino, scioglieva i circoli cattolici insieme a quelli socialisti e mandava a Finalborgo don Albertario insieme a Paolo Valera e a Filippo Turati. Come è vero che oggi nel ministero, di cui è parte ancora Sonnino, troviamo Filippo Meda. Come è vero che Bissolati e Canepa e Bonomi sono stati scacciati dal Partito socialista che non dimentica le condanne del '98, mentre il «Momento» non sconfessa Meda, Fino, Gribaudi, Mattei, Gentili, perché don Abbondio dimentica ogni singolo scapaccione per paura dei nuovi e perché vuole conservare il suo cantuccino tranquillo e la sua Perpetua che gli propina ogni sera il vinello confortatore.

31 agosto: Sant'Abbondio. Grande santo. Piú grande di S. Pietro e di S. Agostino e anche di Gesú Cristo. Grande santo che bisogna però mandare a tener compagnia a Ponzio Pilato, perché i poveretti ne hanno ricevute abbastanza per colpa sua, e non bisogna fidare piú nelle pesti provvidenziali per togliere di circolazione i don Rodrigo. Salde braccia bisogna preparare, e non eunuchi supinamente turibolanti.

(1° settembre 1916).

SER CIAPPELLETTO

Nel secolo ventesimo ser Ciappelletto ha trovato piú utile per la propria santificazione fare il direttore di giornali democratici. Il Boccaccio conobbe il ser Ciappelletto da Prato, barattiere, falsatore di monete, nemico delle donne ma non dei bei giovani, calunniatore e assassino volgare, il quale riesce tuttavia a farsi credere santo, e il cui cadavere ben conservato e con opportuni richiami arricchiva un convento della Borgogna coi miracoli e le guarigioni. Ser Ciappelletto nel ventesimo secolo non falsa moneta e non ammazza nessuno (gli altri peccati sono meno sindacabili, ed è piú facile occultarli oggi che nel secolo tredicesimo), ma tace. Il silenzio è d'oro, per i direttori dei giornali democratici. E non dell'oro metafisico per cui si ripete il proverbio alle donne chiacchierone e ai bambini saccenti; ma d'un oro che è coniato in bei dischi sonori, con la dolce immagine di un imperatore o di un re. Il giornale democratico ha come programma dei fieri propositi per la tutela degli interessi generali, per il laicismo della scuola, per lo smascheramento degli industriali che si fanno proteggere per gli interessi nazionali e fanno tanto male al povero popolo, per il controllo dei ministri clericali che aiutano i nemici a nutrirsi e rafforzarsi facendo rincarare le frutta fresche, per il disboscamento intensivo delle male piante che la paura della guerra fa moltiplicare, e per altre cose ancora. La sua bandiera è purissima, il suo pennacchio nitidamente candido; la sua canonizzazione non può mancare. Leggete le sue pagine: quante bellissime idee, quale onestà, quale fermezza di carattere! Come non essere solidali, come non aborrire tutto il resto, purulenza marcia di giolittismo, di südekumismo venduto; ser Ciappelletto è veramente abile, è veramente, democraticamente nel solco delle belle sante tradizioni.

Come sanno i lettori che egli è ser Ciappelletto tacendo? Tace che il deputato Corniani lo ha bollato di cattiva amministrazione, perché la cattiva amministrazione sua non è prova di disonestà, come sarebbe in un qualsiasi amministratore socialista. Tace quando gli azionisti della Fiat ricorrono a delle curiose manipolazioni di bilancio per occultare i sopraprofitti o frodare le leggi, perché la Fiat non è mica in mano ai tedeschi. Tace che i gesuiti si sono impadroniti di una chiesa, e tendono a monopolizzare l'istruzione religiosa torinese, perché i gesuiti... sono stati soppressi dalla legge Pinelli e quindi non si può trattare che di invenzioni spiritose. Tace quando un suo collaboratore diventa rappresentante di una ditta austriaca, perché il suo collaboratore non è mica un socialista ufficiale come l'on. Rondani. Tace quando la Navigazione Alta Italia decide di spartirsi i trenta milioni di onesti guadagni, perché il console del Belgio non è... un tedesco, e un anglo-brasiliano non è Otto Joel. Tace tante cose ser Ciappelletto, mai suoi programmi sono sempre lí a dimostrare la sua intemerata coscienza, il suo illimitato patriottismo. I suoi lettori non sanno che esiste nel giornale un'amministrazione, e credono che il proverbio: il silenzio è d'oro, si adatti solo alle donne chiacchierone e ai bambini saccenti. E anche nel secolo ventesimo ser Ciappelletto diventa cosí san Ciappelletto, e fa i miracoli e opera le guarigioni.

(3 settembre 1916).

CARNEADE

Alla Camera del lavoro si è tenuto un comizio... pro Tresca. Chi era costui? Pel pubblico un illustre Carneade; per i socialisti un martire futuro. Tresca è una specie di... Ettor e Giovannitti. I socialisti ora fanno un po' di fracasso per evitargli la sedia elettrica.

Il «Momento» si serve perfettamente della fraseologia di don Abbondio. Carneade? Chi era costui? Certo neppure un canonico e neppure un parroco... di Copparo. È solamente una specie (!?) di... Ettor e Giovannitti. Come è pidocchioso don Abbondio! Quanto schifo fa don Abbondio! Ma chi domandava ai sudici scrittori del «Momento» di conoscere Carlo Tresca, di esibire una delle tante loro allumacature per evitare la sedia elettrica al nostro compagno? Sicuro, i socialisti hanno fatto «un po'» di fracasso, e nove di loro hanno ricevuto le botte dei questurini e il carcere del pretore. E si propongono di farne ancora dell'altro, e non aspettano che i clericali vengano a dare il braccio forte. Sono contenti anzi di essere soli a manifestare il loro sdegno, come sono contenti di essere soli in tutte le altre occasioni. Non si mendicano lacrimucce dai coccodrilli. E don Abbondio non è scontento degli esempi che una qualunque sedia elettrica dà alla specie di Ettor e Giovannitti. Egli è contrario per temperamento a tutti quelli che, come egli dice, possono suscitare dei guai. Ma per guai intende ben altro da ciò che le comuni persone oneste intendono. Guaio è per lui ciò che turba il quieto vivere. E il quieto vivere vuole che le prepotenze siano lasciate consumare, che le ingiustizie siano lasciate consumare. I potenti, dice don Abbondio, sono troppo forti perché si possa loro intralciare il cammino, senza guai. I capitalisti del Minnesota per il «Momento» sono troppo necessari per il mantenimento dell'ordine costituito, perché li si debba combattere per un qualsiasi Tresca. Che un onest'uomo sia sacrificato, ciò non importa. Don Abbondio non è il cardinale Borromeo. Costui aveva, nella fantasia del Manzoni, la scemenza di predicare che per il raggiungimento della giustizia doveva anche farsi perire il mondo. Che per impedire l'arbitrario soffocamento di un uomo, si deve essere pronti a tutte le azioni. Ma per seguire questi precetti non bisogna essere inguainati nella pelle di un coniglio, non bisogna avere troppi interessi mondani da salvaguardare, non bisogna, per esempio, essere cattolici che negli Stati Uniti vogliono prevalga la chiesa apostolica romana senza ragione che non sia quella di Stato, senza ragione che non sia il privilegio concesso dallo Stato. Quando si è privilegiati, o si vuole diventarlo, si difendono anche i privilegi degli altri. E si giustificano tutti gli eccessi di questi privilegi.

Carneade? So forse io chi sia? So forse neppure se in realtà sia un uomo di carne ed ossa come me? Uno che può essere un martire del socialismo, puah! Lasciamo dunque che sia posto a sedere su quella tal sedia. Un mestatore di meno, un creatore di guai in meno. E don Abbondio si forbisce le labbra dal recente bicchierotto di vino.

Questa è la sua realtà, e per essa solo è disposto a strillare.

(4 settembre 1916).

I SOLITI MALINTENZIONATI

I giovanotti che trovano piú igienico, sotto ogni punto di vista, bastonare i soldati italiani in convalescenza che indossare essi stessi la divisa, o magari andare nelle retrovie fra gli esploratori, hanno trovato la giustificazione per le loro prodezze. Il caffè S. Carlo dove essi hanno dato la prova della robustezza che è necessaria per i corpo a corpo, era diventato un agguato di neutralisti malintenzionati. Il soldato che non poté levarsi allo scoppio degli inni fatidici, era un fintone, che invece di riportare delle contusioni, ha massacrato mezzo mondo interventista, ecc. È la solita favoletta che si ripete. Colti nel laccio della loro ebete ubriacatura verbale, questi signori che vogliono fare i lupi senza avere ancora neppure i denti del giudizio, accusano la vittima di provocazione, accusano mezzo mondo di provocazione. Non si può sorridere nel vederli passare per le vie sconciamente gesticolanti, in preda a frenesia isterica, senza essere provocatori e austriaci. Non si può avere compassione per l'umile ruolo al quale li ha destinati la polizia, senza essere dei venduti allo straniero. E scrivono l'ennesimo ordine del giorno, e l'ennesima epistola ai giornali per cercare di far pressione sull'animo del pretore che oggi deve giudicarli, per cercare che un non luogo a procedere faccia ignorare il nome dei mascalzoncelli che se la diedero a gambe dopo il fatto, e ora vogliono evitare al loro nome piú o meno nobilesco l'epiteto infamante di arnesi da questura. Il caso li ha serviti bene; siano rese grazie al caso. Invece di un qualsiasi panciafichista che dopo le busse si sarebbe anche presa una condanna, la vittima è stata un soldato, che ha combattuto in Libia e nel Trentino, che non si è mai curato di politica, che, a quanto si dice, ha un incarico di fiducia, gode la simpatia dei suoi superiori, e attende, nel periodo di convalescenza, a un suo brevetto che perfeziona un esplosivo. La polizia ha reso soggettiva la sua azione; trova sempre i soliti neutralisti malintenzionati sui quali far divergere l'attenzione della collera pubblica. Ma tra il soldato bastonato e gli imboscati bastonatori, la scelta è stata impossibile. Ha dovuto inoltrare la querela, ha dovuto almeno domandare le generalità dei due teppisti, e questi saranno giudicati dai giudici. Perché la giustizia abbia corso, perché il diritto comune per un momento sia ristabilito, non basta piú che la vittima sia galantuomo, bisogna che non sia malintenzionato, che non sia mai stato visto in certe compagnie e in certe case, che possa mostrare delle ferite e delle medaglie, e che minacci per soprappiú uno scandalo. I malintenzionati ringraziano pertanto il dio caso che ha preparato la loro vendetta, che ha fatto sí che almeno si possano conoscere i nomi di alcuni di questi signorini che non si fanno vedere se non circondati da questurini, che lanciano accuse contro tutti e tutto, servendosi delle bocche di leone che la vigliaccheria del fronte interno ha fatto pullulare, per salvarsi dai meritati scapaccioni, unica punizione che, onestamente parlando, si meritano.

(7 settembre 1916).

LA SCUOLA ALL'OFFICINA

L'officina fa scrivere dei ditirambi. L'officina, si legge, trasformerà la scuola, ridarà sangue e spirito giovanile alla scuola. I giovanetti che andranno in mezzo agli operai, che saranno posti a contatto con una vita meno artificiosa, meno mollemente smidollatrice di quella loro solita di famiglia, si trasformeranno, e ne verrà fuori la generazione che si aspetta per rinnovare la vita italiana, per rendere piú realisticamente succosa la vita italiana. È l'Inghilterra che dà il modello per le ipotesi. È una generazione all'inglese che si vuol preparare. Il nuovo ministro dell'istruzione pubblica dà il suo placet. Lascia circolare una infinità di voci. Esenzione dalle tasse, facilitazioni degli esami, riduzioni dei programmi scolastici. E i professori, per non sembrare antipatriotti, dovranno chinare il capo. E i padri di famiglia, per non sembrare sabotatori della guerra, dovranno lasciare che i loro figliuoli non studino per lavorare alle munizioni, e nello stesso tempo non si specializzino nel lavoro, non esagerino nel diventare troppo operai, perché dovranno diventare qualcosa con la scuola e non con l'officina. La solita retorica verbosa sta costruendo la maglia di pregiudizi, di convenienze in cui sarà strozzata la scuola, e sarà strozzata una certa quantità di giovani. Si innalza l'officina e si deprime la scuola, a parole, per imitare l'Inghilterra, dove invece sono tenute alte tanto la scuola che l'officina. Dove la scuola non è pagata dallo Stato e non serve a creare degli impiegati, ma è pagata dai frequentatori che vogliono andarci, perché credono di essere piú utili studiando che lavorando manualmente. Dove una immigrazione di giovani dalla scuola all'officina non rappresenta un fenomeno notevole, perché non esistendo dei titoli d'esame riconosciuti e garantiti dallo Stato, non è possibile avvenga che un Tizio abbia diritto ad entrare nel liceo o nell'università solo perché è stato per un anno in quinta ginnasiale o in terza liceale, e anche se invece di andare a scuola sia andato al caffè o all'officina. Perché in Inghilterra, non essendoci un protezionismo di Stato sui titoli di studio, gli impieghi e le cariche si dànno solo a chi veramente sa e non a chi è stato per un certo tempo nei ruoli dei provveditorati.

Si dice che in Italia, e l'abbiamo detto anche noi, si è data troppa importanza alla scuola del sapere disinteressato, mentre si è trascurata la scuola del lavoro. Ma il ministro Ruffini mostra di non dare importanza né all'una né all'altra. Crede infatti che la qualità della scuola possa mutare perché gli studenti vanno all'officina. Ma la scuola, se è fatta seriamente, non lascia tempo per l'officina e, viceversa, chi lavora sul serio solo con un grandissimo sforzo di volontà può istruirsi. Innestarle una con l'altra, cosí come si sta facendo, è una delle tante aberrazioni pedagogiche che hanno impedito sempre alla scuola in Italia di essere una cosa seria. Fate che a scuola vada solo chi ha l'attitudine, l'intelligenza e la volontà necessaria, e che la scuola non sia un privilegio di chi può spendere; liberate la scuola dagli intrusi, dai futuri spostati, e obbligate questi a lavorare nel modo che li renda piú utili. Fate sí che la scuola sia veramente scuola, e l'officina non sia un ergastolo, e avrete allora solamente una generazione di uomini utili; utili, perché faranno opera proficua nelle arti liberali, e perché daranno all'officina ciò che le manca: la dignità, il riconoscimento della sua funzione indispensabile, l'equiparamento dell'operaio a qualunque altro professionista.

(8 settembre 1916).

DUE PERE...

In via Don Bosco. Una dimostrazione contro un proprietario di casa che ha sfrattato alcuni inquilini, povera gente, per aver modo di aumentare il fitto. Guardie e carabinieri circondano la casa e tengono a bada i dimostranti, procedendo di tanto in tanto a degli arresti. Gavroche immortale è in mezzo alla folla. Si ride degli agenti, e vuole far ridere. Demolisce l'agente col ridicolo, il monello; vuole farlo apparire alla folla nella sua vera realtà, di ridicolo sbirro manzoniano, che la sghignazzata plebeamente gioconda fa squagliare, come il corvaccio spennacchiato dai pulcini petulanti. Gavroche si pianta fieramente sulle due gambe aperte a compasso, guarda con intenzione i carabinieri e urla, come congestionato dall'eroismo, nel suo dialetto: «Farò giustizia io per i poveri, con le due pere che ho in saccoccia». I corvacci si guardano fra loro: il piano strategico è subito preparato. Due agenti in borghese si infiltrano fra la folla, e d'un tratto due braccia immobilizzano Gavroche, e due mani lo frugano febbrilmente dopo un: Ah! di soddisfazione. «Le mie pere — grida il monello in italiano — le pere della mia colazione!» I due agenti si guardano esterrefatti. Due pere, due prüss fanno schiattare dalle risa i presenti, mentre Gavroche se la dà a gambe gridando: «Arrestare un ragazzo perché ha due pere in tasca!» I corvacci si squagliano queti, queti, friggendo. E il delegato Donvito si morde nervosamente i baffi: fossero state davvero due pietre! Che bel processo contro i barabba e che condanna coi fiocchi! Gavroche immortale si vendica cosí! E i Donvito scorbacchiati rimandano l'affissione delle autolapidi commemorative, perseguitati da queste risate che ronzano continuamente nelle loro orecchie.

(12 settembre 1916).

LE IPOTESI E GLI INDIVIDUI

La morale corrente della poltroneria borghese non si stanca dal predicare che bisogna guardarsi dai consequenziari. Cioè. È permesso ragionare astrattamente sul bene e sul male, è permesso dire, a proposito di un fatto concreto, che è in errore chi opera in un certo modo, e merita plauso chi opera invece in un altro, è permesso chiamare criminoso un modo di agire, ma non è permesso andare píú oltre. Le conseguenze individuali non bisogna mai tirarle, altrimenti si è maledici, si è vociatoci, si è teppisti e cosí via.

Leggete nella «Stampa» di ieri l'altro, la ben quadrata risposta ad una lettera di Dante Ferraris. Vi troverete espressioni di questo genere:

Noi riteniamo che lo spettacolo delle facili ricchezze cosi ingentemente accumulate sulle lacrime e sul sangue della nazione, mentre tanti meno fortunati pagano di persona e di averi, costituisca uno dei fenomeni piú ripugnanti delle grandi guerre, contro il quale lo Stato avrebbe il diritto di armarsi con ogni mezzo. E riteniamo, altresì, non dispiaccia al comm. Ferraris, che quei signori i quali, valendosi dell'impossibilità dello Stato di far diversamente, non sentono il patriottismo di andare essi stessi incontro a una ragionevole diminuzione dei prezzi, agiscono socialmente in guisa criminosa.

Ci siamo rallegrati di vedere cosí accuratamente imbalsamate e fasciate di pudiche foglie di fico le stesse cose da noi dette senza ambagi di ipotesi, senza cautele di poltroneria morale. La «Stampa» domanda scusa al comm. Ferraris di ciò che dice, non vuole che il comm. Ferraris possa credere che quell'aggettivo «criminoso» possa adattarsi alla sua persona. Gli individui devono scomparire, che diamine; si ragiona in ipotesi, come ben si intende. Non è consequenziaria la «Stampa»: essa è un giornale serio che non si abbassa al volgare pettegolezzo, al demagogico attacco personale. Tutto ciò, non può essere che triste privilegio dei socialisti, che si sono posti fuori della moralità nazionale, e come i briganti attendono all'angolo delle strade, quaerentes quos devorent. E tuttavia il lettore che segue la «Stampa» sa che lo scrittore vuole anche parlare del comm. Ferraris, sa che la risposta non è una semplice esercitazione retorica, accodata ad un quesito accademico proposto dal presidente amministrativo della Fiat. Sa che il Ferraris nella lettera si difende da una accusa specifica, e che questa accusa è solidamente ribadita. E allora? Perché la «Stampa», che ha pubblicato a suo tempo un'intervista con un azionista della Fiat, che si era opposto all'imbroglio contabile dell'immissione dei superprofitti nel capitale, non dà del mentitore al Ferraris, che afferma nessuno avere sollevato la questione nel momento opportuno? E perché non afferma esplicitamente che «criminali» sono e il Ferraris e gli altri della Fiat, che non sono andati «essi stessi incontro ad una ragionevole diminuzione dei prezzi»? Ma ciò, deve essere compito nostro, naturalmente. Noi non abbiamo paura d'essere consequenziari. Se «criminoso» è l'aggettivo che aderisce perfettamente al fenomeno, «criminale» deve essere l'aggettivo da accompagnarsi ai nomi individuali. Ciò che si adatta al complesso, si adatta ai singoli; è una massima di logica vecchia quanto Aristotele. Ma la logica è lasciata ai vociatori; la poltroneria borghese si trastulla coi fenomeni, a noi abbandona gli individui. E non si accorge di tributarci cosí il massimo onore, e di riconoscere a noi soli la massima consistenza storica. Poiché nella storia i fenomeni sono astrazioni intellettuali, e l'unica realtà viva e solida è l'individuo.

(18 settembre 1916).

COINCIDENZE E CONSEGUENZE

I giornali a grande tiratura sono sull'orlo dell'abisso. Un giornale che abbia una tiratura media di centomila copie, deve registrare nel suo bilancio un deficit annuale di lire 250 000. Gli alti prezzi della carta divorano i soldini degli abbonati e della rivendita spicciola. È il «Mattino» di Napoli che lancia il grido d'allarme, e con l'esperienza che gli viene dalla pratica diuturna spiega come i giornali riescano a colmare questo deficit enorme solo a scapito della loro indipendenza, legandosi cioè ai grandi fornitori, che hanno bisogno del silenzio e degli amichevoli soffietti per varare i loro affari. «Il recente caso della Società Alta Italia, la cui condotta finanziaria, in cosí evidente contrasto con le leggi da necessitare un decreto luogotenenziale apposito, ha tuttavia trovato scarsa eco nella stampa, salvo rare eccezioni, è un esempio tipico». Cosí il «Mattino», cui bisogna prestar fede in questo caso, perché parla di cose che conosce a fondo, molto a fondo.

Io tiro subito le conseguenze, come è mio costume, e mi pongo in traccia delle coincidenze, come mi ha insegnato doversi fare un maestro del giornalismo pedemontano. Lo scandalo dell'«Alta Italia» ha avuto luogo a Torino, è un fatto di cronaca torinese. Cinque giornali si occupano di questa cronaca: l'«Avanti!», la «Stampa», il «Momento», il «Giornale» di Carlo Minetto, e la «Gazzetta del Popolo» di Delfino Orsi. La notizia dello scioglimento dell'«Alta Italia» è data dalla «Stampa» il giorno 26 agosto, nelle ultime di cronaca, in caratteri vistosi, ma senza commenti polemici. Il 28 successivo l'«Avanti!» in un capocronaca divulga il significato truffaldino dell'atto compiuto dalla società, e le sue ragioni sono cosí chiare, e il suo richiamo al decreto sui dividendi è cosí giustificato, che l'on. Grosso-Campana presenta subito al ministero competente una interrogazione in proposito. L'interrogazione è comunicata ai giornali cittadini il 30 agosto e viene pubblicata il 31 con commenti poco benevoli per l'«Alta Italia» dall'«Avanti!», dal «Momento» e dalla «Stampa».

Il 4 settembre la Stefani annunzia il decreto nuovo che dichiara soggette a sequestro quelle società commerciali che, con scioglimenti prematuri e con altri sotterfugi, cerchino eludere le disposizioni sulla limitazione dei dividendi. Intanto il fatto scandaloso non era avvenuto né per il «Giornale» di Carlo Minetto, né per la «Gazzetta del Popolo» di Delfino Orsi. I due giornali non pubblicarono la notizia dello scioglimento, non trovarono lo spazio per dar luogo all'interrogazione dell'on. Grosso-Campana. Incominciarono a sentir rumore solo il 4 settembre, di fronte al comunicato della Stefani, ma neppure il 4 settembre la «Gazzetta del Popolo» di Delfino Orsi fece il nome dell'«Alta Italia», sebbene, con la solita faccia tosta delle donne di marciapiede, commentasse il decreto, dichiarandolo opportuno, ed aggiungesse: «Abbiamo a suo tempo segnalato questo ripiego troppo evidente (artificiosi aumenti di capitali, ecc.); ma non si adottò allora alcun provvedimento». Cosí l'onesto giornale di Delfino Orsi, degnamente accoppiato con quello di Carlo Minetto, salvava la faccia, alla moda cinese. E l'11 settembre cambiava formato, aumentando le sue colonne ed il suo spazio, malgrado il deficit di 250 000 lire annue dei giornali di media tiratura.

Fatta questa parziale cronistoria dello svolgersi dello scandalo «Alta Italia», rileggiamo il «Mattino» e riflettiamo sull'esempio tipico che il giornale napoletano, cosí profondo in materia di indipendenza giornalistica, porta a suffragare il suo grido d'allarme. E traiamo dai fatti le conseguenze logiche, e notiamo le coincidenze di date, di giornali, di nomi. E ci sorgono dei dubbi tremendi. Temiamo che la logica e la mania di dedurre ci conducano troppo lungi. Che sia possibile...? Non vogliamo credere... Ma i fatti sono quelli. Allora noi ci rivolgiamo a Delfino Orsi, commendatore bavarese, che non ha ancora rimandato indietro l'onorificenza al nemico, e che si diletta di coincidenze, perché veda di trovare un'altra risposta alle domande angosciose che da qualche giorno rivolgiamo a noi stessi. Ne saremmo infinitamente lieti.

(20 settembre 1916).

INVITI AL RISPARMIO

Il «Momento» si è decisamente posto sulla strada maestra dei tempi moderni. Il suo economista ufficioso legge piú volentieri Luigi Luzzatti che i fioretti di S. Francesco. E non sembri, questa, un'osservazione oziosa. Non piú di due anni fa, Luigi Luzzatti compí uno di quei suoi atti che tanto lo rendono benemerito della cultura nazionale, perché dimostrano una volta di piú la verità del proverbio: «il calzolaio non parli che di scarpe», e dimostrano che Luzzatti farebbe bene a non parlare di nulla, perché non è neppure calzolaio. Luigi Luzzatti, dunque, ristampò, dando per inedito, uno dei piú conosciuti fioretti di S. Francesco, e che egli stesso aveva già stampato con una prefazione tanto onusta di erudizione, ohimè, quanto poco di prima mano. E poiché nel fioretto S. Francesco diceva che bisogna avere la massima fiducia nella provvidenza divina e che perciò è peccaminoso pensare al domani, il Luzzatti ebbe la barbara pedanteria di scrivere due colonne per confutare il santo di Assisi, e per predicare il risparmio. L'economista del «Momento» si accorda al Luzzatti, e dà una tiratina d'orecchi ai socialisti che non scodellano fresco fresco ai loro lettori un predicozzo al giorno ricantando la favoletta della cicala e della formica e quella, non meno istruttiva, delle bibliche vacche grasse e vacche magre. Ma noi non ci lasciamo invischiare, quantunque lusingatissimi del riconoscimento che i socialisti possano qualche cosa nell'animo degli operai e persuasissimi che il risparmio sia una bellissima cosa. Perché non crediamo affatto all'efficacia dei predicozzi, anche se eloquentissimi, e perché non vediamo a chi rivolgere le nostre prediche. Intanto dovrebbero dimostrarci come questo risparmio possa essere fatto. Lavorando dodici, quattordici e sedici ore al giorno, e privandosi di tutto quel complesso di piccole cose che, inutili in tempi normali, sono indispensabili per tonificare la vita di chi si abbrutisce in fatiche bestiali? L'unico rimprovero che noi possiamo muovere a qualche proletario non è quello di approfittare degli alti salari (e per quanti poi, questi salari sono cosí alti?) per migliorare il proprio regime di vita, ma quello di far la scimmia della borghesia. Di credere che la vita buona sia solo quella borghese, che divertirsi voglia dire divertirsi come i borghesi, nelle crapule viziose, nei gabinetti particolari, nelle idiotissime gazzarre senza senno. Questo sí. Chi è convinto che l'avvento del socialismo debba essere specialmente un rovesciamento dei valori comuni, non può non sentire dispiacere nell'atto in cui sorprende un proletario che mostra credere supremo ideale di vita essere quello borghese. Ma null'altro. E del resto, costoro, in quanto si abbandonano a queste velleità pitecantropesche, mostrano ad esuberanza di non essere dei nostri, di non essere di quella corrente in cui noi siamo e che impone degli obblighi e dei doveri. Per costoro varranno di piú le prediche dell'economista del «Momento», e quelle ancor piú eloquentemente melense di Luigi Luzzatti, perché sono tagliati dalla stessa stoffa, perché si abbeverano alla stessa sorgente, della stessa linfa incolore e insapore. Il socialismo non è una congrega di frati, che seguono una regola. È una libera associazione di uomini liberi, e che solo devono essere immuni da sifilide borghese. Quelli che sono affetti da questa lue sono perduti per noi, e noi ce ne disinteressiamo, lasciandoli volentieri agli altri che se ne intendono e che possono lavorarseli a loro agio.

(21 settembre 1916).

UNITÀ

Nel comizio degli impiegati e commessi di commercio il prof. Mazzini Alati, accennando al problema del protezionismo, ebbe parole di lode per gli organizzatori torinesi che si sono preoccupati di questo grave problema nazionale, che è problema di libertà e insieme di solidarietà con i proletari di tutta Italia. Non sono rivelazioni quelle del Mazzini Alati, ma tuttavia meritano di essere meditate. Crediamo valga di piú la diffusione di una verità già accertata che la enunciazione di nuovi paradossi, di novità brillanti di spirito, spumeggianti di eleganze verbali. Si è iniziata la lotta contro il protezionismo, contro la tendenza, che gli odî suscitati dalla guerra hanno rafforzato, a rincrudire il protezionismo. Ma ci pare che le organizzazioni non ci mettano troppo calore. Ci pare che finora la lotta si sia limitata a pura affermazione di principio, e non abbia accennato ad incanalarsi in azione pratica, in azione coordinata con fini ben chiari e ben concreti. E intanto gli altri si dànno un gran da fare, e avendo dietro di sé le potenti organizzazioni industriali, avendo con sé molti uomini di governo, riusciranno senza dubbio a raggiungere il loro scopo, se non sarà dimostrato coi fatti, con un'azione unitaria di tutto il proletariato italiano, che esiste una forza, con la quale i protezionisti devono fare i conti, una forza che si leverà contro di loro e contro il governo, se abusando dello stato eccezionale di coartazione delle libertà pubbliche, vorranno mettere di nuovo la folla di fronte a un fatto compiuto. La lotta contro il protezionismo si presenta in questo momento in condizioni favorevolissime per il Partito socialista. Questo, con la sua compatta energia, può diventare il centro di attrazione di tutti quelli, e sono la maggioranza quasi assoluta degli italiani, che da trenta anni di regime protettivo hanno visto decurtato il loro salario, reso impossibile il loro benessere, diminuita la ricchezza generale a beneficio di poche bande affaristiche che si sono formate le grandi fortune personali. Il contrasto fra capitalismo e proletariato si chiarisce ancor meglio in questa lotta, acquista una plasticità piú avvincente, si procura nuovi elementi di propaganda. Le organizzazioni torinesi dovrebbero essere loro a prendere l'iniziativa di questa azione pratica. Si parla già di un liberismo torinese, riferendosi alla scuola di economia politica liberista che a Torino si è venuta formando. Ma la pura dottrina non riuscirà mai a trasformarsi in pratica attiva se la scienza non trova in una corrente sociale bene organizzata la forza che le dia una consistenza politica, che la faccia diventare elemento di resistenza. Nel mese di ottobre dovrà tenersi a Milano un convegno di studiosi per la riaffermazione della verità dei principî del libero scambio. I socialisti torinesi dovrebbero far sí che per loro iniziativa, e previo accordo con la direzione del partito, in tutta Italia si abbia una grande manifestazione proletaria che affermi il suo fermo proposito di opporsi a qualsiasi tentativo nuovo di inasprimenti doganali, e domandi che l'economia nazionale sia incanalata nelle vie della libertà. Il proletariato italiano deve fare un atto che dimostri la sua unità, rimasta salda attraverso le vicende della guerra. Il proletariato ha un programma economico; faccia che esso incominci a diventare una realtà.

(23 settembre 1916).

I COMMISSARI CAVALIERI

Non deve far meraviglia che lo Stato dia la croce di cavaliere e la commenda anche ai questurini. Tutt'al piú, può meravigliare che esista chi non sente ribrezzo d'essere compartecipe di onorificenze coi questurini. Ma questi hanno perfettamente diritto al cavalierato. Nessuno è piú cavaliere dei commissari e degli agenti. E ci tengono ad esserlo, specialmente i piú intellettuali, quelli che il loro dovere fanno con zelo intelligente, e che, perciò (oh sorte matrigna!), vengono bocciati nei concorsi.

Il cav. Tabusso, per esempio, è di una cavalleria estrema. Nei piccoli subbugli di piazza, quando non è affatto pericoloso affrontare la situazione, perché la situazione è rappresentata da galantuomini e non da malviventi, il cav. Tabusso diventa un paladino addirittura. Egli ha continuamente dinanzi agli occhi le sante istituzioni. Egli conosce i doveri del suo ufficio di arco di volta della società. E la società «sua» — quella di cui è paladino crociato — la riconosce all'abito, al fiuto. Lo abbiamo visto all'opera una delle scorse sere. Che cavalleria, e che disdegno per i villani! Il paladino crociato disdegna sempre i villani. È nel codice della cavalleria, il disdegno per i villani. E villano è chi veste il camiciotto, chi ha il viso un po' arrugginito dal lavoro appena smesso, chi non ha tutte quelle piccole distinzioni della «buona società» che Tabusso riverisce. Questa genia di villani è buona caccia per il paladino crociato. Ne presenta ogni tanto delle schidionate ben colme ai giudici. Qualcuno si meraviglia che lo schidione infilzi sempre i villani, perché nell'aula della giustizia ci è sempre chi sostiene che l'abito non fa il monaco. Ma il paladino risponde prontamente: altro non ho visto! Gli altri, i villani non arrugginiti dal lavoro, quelli che hanno i segni di distinzione, non c'erano, a delinquere. Essi rimangono a casa e mandano questi bruti al macello.

Tabusso, cosí, ottiene tanti scopi. Dà modo ai giornali di parlare dei capoccia che non s'arrischiano in piazza, mentre «gli ingenui sobillati» vanno al macello (perché poi questa parola, egregio avv. Molar?), e non corre il rischio di essere rimproverato per l'arresto di qualche illustre o figlio di illustre. Il villano può essere sempre arrestato, egli non protesta per l'arbitrio. Se prova di non essere tesserato lo si rilascia, e pace. Ma la giacchetta pulita, il colletto, la faccia bianca, ecc., sono mine subacquee, dalle quali il paladino si guarda con attenzione. Possono coprire un delinquente tesserato, ma possono coprire chissà anche che bandierone tricolore, con relativo ricorso, avallato da un concorrente in brillanti operazioni. E Tabusso gira largo. Ha voglia, il viso bianco (che vuole, putacaso, diventar «martire» e far carriera, come si dice), di assembrarsi con le facce arrugginite. Tabusso non lo cura, Tabusso, anzi, gli fa dei sorrisetti cortesi e per poco non lo prega di dargli man forte. Perché Tabusso è cavaliere e non vuole commettere gaffes pericolose.

Pertanto, ben gli sta la croce. E meglio gli si attaglierà la lapide futura. Peccato però che le brillanti operazioni non possono sostituire gli esami di concorso. Tabusso sarebbe a quest'ora presidente del Consiglio col portafogli per l'interno. Ma in fondo, in fondo, le cose italiane non vanno troppo male. Si dà a Tabusso la croce, la commenda, la pergamena; ma lo si boccia ai concorsi. Anche lo spirito tardigrado della burocrazia capisce che la brillante operazione, che il fiuto dell'abito e della faccia non merita che gingilli da bazar.

E domani Tabusso sarà abbandonato alla nostra rappresaglia. Destino dei cani da pagliaio.

(27 settembre 1916).

BANDIERA GRECA

Aspettando che il prof. Romano compili e dirami alla stampa un ordine del giorno del fascio che con tanta solerzia presiede, vogliamo anche noi anticipare qualche impressione sulla scandalo che si delinea. Il vapore che trasportò il carbone municipale dall'Inghilterra al porto di Savona batteva bandiera greca.

I cittadini torinesi quest'anno si riscalderanno all'ombra della bandiera greca. Ogni comignolo, ogni ciminiera sarà per tutta una stagione impennacchiata da un drappo ellenico, e andremo ogni domenica ad allietarci dai Cappuccini dell'immenso pavese. Ma ci pare già di sentire un po' dell'impressione di incubo che graverà sulla città regale, sulla città che diede alla nazione tutto l'allegro trillo primaverile dei fatidici tre colori. Perché l'animo garibaldino dei patriotti torinesi sentirà certamente l'onta di questo asservimento dei servizi municipali alla bandiera del paese che è piú disprezzato, e sul quale piú volentieri i nostri spiritosissimi umanisti scoccano i dardi della satira e della contumelia. L'assessore Cauvin l'ha proprio fatta grossa. Precisamente lui che, non è molto tempo, ha riferito sullo stanziamento delle ventimila lire per far rinnovare i tricolori cittadini logorati dalle soverchie esposizioni.

Ed è su questa proposta che vogliamo richiamare l'attenzione del sullodato prof. Romano e del fascio che egli presiede. Passiamo tempi difficili. La dignità dell'Italia è insidiata continuamente. Il giolittismo non ha perduto la sua vitalità, e cerca continuamente di risollevarsi dalla polve in cui giacque. E sarebbe veramente disastroso se un giorno (infausto e deprecato giorno) i direttori delle scuole e l'alfiere stesso del Palazzo di Città ricevessero in consegna per ventimila lire di bandiere greche. Il giolittismo dell'amministrazione Rossi è capace di tutto. Come ha pensato ad evitare i disagi e gli infortuni di viaggio al vapore carbonifero, può essere indotto dalla sua fede... greca a preservare i suoi edifici dagli infortuni aerei. E non si deve a cuor leggero scherzare con le bandiere e con l'animo garibaldino. La bandiera è il simbolo piú puro della fede di un popolo. E troppa gente maligna ha finora sostenuto che la fede di Teofilo Rossi e compagni è appunto fede greca. Ci mancava proprio la bandiera per rafforzare questa diceria stupida. Mancava proprio che mettessero sotto la tutela del vessillo piú neutrale d'Europa gli affari del municipio. Per dar modo alla facile caricatura di rappresentare l'italianissimo vinattiere torinese con le vesti del vittorioso basileus di Atene, che anch'egli esporta all'ingrosso il passito di Scio e di Cefalonia, e, come Teofilo Rossi, divide il suo tempo fra le glorie eroiche e il pacifico commercio del dolce succo dell'uva.

Il prof. Romano non aveva certo bisogno del nostro richiamo. Ma abbiamo voluto dimostrargli che anche noi abbiamo una sensibilità, e certe questioni ci stanno a cuore. Tanto piú che da tempo siamo persuasi che l'affare dei carboni municipali sia proprio un affare che puzza di fede greca, e che i consumatori non tarderanno ad accorgersene.

(28 settembre 1916).

IL CALMIERE ALLA QUESTURA

La questura ha comunicato il suo bilancio-profitti per il mese di settembre. Grassi profitti, troppo grassi profitti. Che si prestano alla critica, come quelli delle altre società commerciali esplicanti la loro attività in tempo di guerra. 786 arresti. E di essi solo 180 con giustificazione in bilancio: 126 per tutela del buon costume, 31 per ubriachezza molesta e ripugnante, 23 per porto d'armi proibite. Cifre plausibili, indici di vero lavoro, di lavoro proficuo per la collettività. E perciò troppo basse, troppo sproporzionate nel complesso. 169 arresti per reati e mandati dell'autorità giudiziaria. (Affari in margine, corrispondenti su per giú al servizio cassette delle grandi banche, che non rientrano nel lavoro attivo, nell'opera dovuta all'iniziativa industriale dell'azienda di piazza S. Carlo). Infine 437 arresti per misure di P.S. E su questa cifra richiamiamo l'attenzione delle competenti autorità. Essa è enorme, per il mese di settembre. La «Stampa» e l'on. Grosso-Campana, che nelle sedi rispettive e piú competenti hanno svolto delle brillantissime campagne sui guadagni eccezionali e quindi criminosi in tempo di guerra, dovrebbero rivolgere la loro sollecita attenzione anche ai superprofitti che si nascondono in questa enorme cifra di 437. Abbiamo stabilito le proporzioni. Si tratta con esattezza del 124 per cento sugli affari normali. Di un allargamento del capitale iniziale, per un complesso di nuove disposizioni, di arbitrî, di sopraffazioni, equivalente al 124 per cento. Lo Stato deve intervenire. L'opinione pubblica deve essere posta sull'avviso. Lo stato eccezionale portato dalla guerra è stato indegnamente sfruttato dall'azienda di piazza S. Carlo. Il 21 settembre, in una sola serata, sono stati realizzati degli utili per centoquattro arresti. E vi devono essere delle mascherature di bilancio. Perché i centoquattro che in bilancio figurano come misure di P. S., nel mercato, furono lanciati, a loro tempo, come reati. Ci si vede poco chiaro in queste cifre. Le autorità competenti dovrebbero indire un'inchiesta, e far esaminare con attenzione le pezze giustificative e gli allegati del bilancio. E intanto imporre un calmiere. Tutti sentono che il tempo è maturo per il calmiere. L'azienda di piazza S. Carlo non deve essere lasciata piú a lungo in condizioni di privilegio. Ha abusato indegnamente della fiducia pubblica. I suoi attentati al benessere generale non possono piú essere lasciati senza sindacato. Ci rivolgiamo al prefetto. Il calmiere esisteva. Ristretto, inadeguato al bisogno, per noi non certo soddisfacentissimo. Ma riconosciamo che i tempi sono difficili, e cercheremo di accontentarci. Sia ristabilito il calmiere; esso si chiama semplicemente: lo Statuto.

(4 ottobre 1916).

ZUCCONEIDE

I ribaldi sparafucili del ceto esercentesco che si pascono dello strame clericale del «Momento» ci devono ancora una dimostrazione. Categoricamente avevano promesso di fare la dimostrazione concreta del calmiere a rovescio esercitato dall'Alleanza cooperativa. Messi con le spalle al muro, questi bacchettoni corrosi dalla coscienza della loro infecondità ideologica e pratica, si sono accontentati di abbaiare contro l'istituzione creata dalla nostra volontà economica, e hanno fatto delle piccole malignazioni bottegaie, e hanno ghignato o hanno mostrato di spaventarsi e di far spaventare per il fatto che i socialisti torinesi si propongono di fare del socialismo anche attraverso la cooperazione.

Nessuno ha mai preso sul serio le abbaiate del «Momento»; noi ci abbiamo riso sopra, e abbiamo invano cercato di vedere se fra gli invertebrati del giornale clericale ci fosse un uomo di carattere, che volesse avallare col suo nome le castronerie e le scemenze dei vari Luigi Chiesa. Ma il «Momento» ha ben altro da fare che curarsi di cercare la verità. Gli importa soltanto di ottenere un po' di successo bottegaio, mostrare che compie il suo compito di sparafucile dell'... obolo di S. Pietro. E non si stanca. E riesce anche ad aver dei successi. Perché nel nostro miracoloso paese chiunque accosta le due parole: socialisti e tedeschi, ottiene dei successi mirabili. Le due parole sono certamente le parole fatate che Circe usava per trasformare gli uomini in bestie. Il loro effetto è infallibile. I patriottissimi del «Momento», che non volevano fosse tolto all'ambasciatore austriaco Palazzo Venezia, conoscono i loro polli, sanno a maraviglia l'arte di Circe. Volevano mordere a tutti i costi; sollevare uno scandaletto sul nome dell'Alleanza cooperativa, alla quale non riescono a togliere i clienti, alla quale non riescono a togliere la saldezza, che dà nervi e resistenza al Partito socialista. E lanciano la diffamazione, loyolescamente moderata, furbescamente insinuante. Le farmacie dell'Alleanza hanno in magazzino dei prodotti tedeschi; le farmacie dell'Alleanza possono ancora vendere medicinali tedeschi. E quindi il neutralismo, ecc. Chissà che i tedeschi non forniscano addirittura gratis i socialisti dell'Alleanza? Ciò è sufficientemente idiota, ma tutto serve; se il fatterello potesse diventare uno scandalo e questo potesse essere gonfiato, e l'autorità avesse un pretesto per intervenire! I contrabbandieri di ieri, i paladini del ministro Meda, che dice costar poco la frutta in Italia, mentre si trovano limoni siciliani nelle trincee austriache, insinuano che i socialisti facciano il contrabbando. Gli altri giornali lo affermano addirittura, a mano a mano che il processo circeo si compie e si solidifica. Il «Momento» è soddisfatto; ha lanciato la pietruzza: ora aspetta che la valanga si formi. I suoi padroni saranno soddisfatti e l'obolo di S. Pietro crescerà.

Ma noi ce ne infischiamo. E anche la guerra economica è nelle nostre teorie, e siamo troppo poco cristiani per odiare il «nemico» e seminare l'odio in ogni occasione ed in ogni modo.

Non ci saremmo neppure curati dei lombrichi di corso Oporto, se non fossero riusciti a farsi riportare, a dar respiro ampio al loro chiocciolio piattoloso. Purtroppo nel regno zoologico inferiore in cui il «Momento» vive, il parere vale quanto l'essere. I preti lo sanno, e ne abusano. Che il dio ribaldo che vive nelle loro coscienze sia loro propizio. Noi ripetiamo la frase di Proudhon.

(10 ottobre 1916).

LA PENTOLA BOLLE

Un insolito fervore di carità, di beneficenza si è impadronito delle castissime anime dei componenti l'associazione monarchica Umberto I. In piazza S. Carlo la solerte istituzione ha aperto un banco di beneficenza per aiutare la famiglia del soldato, e nei retrobottega della sua sede sociale di via Genova ha iniziato da qualche giorno una pesca ancor piú miracolosa, un pozzo di S. Patrizio ancor piú a fondo... perduto. La Monarchia è tremendamente preoccupata delle future sorti della patria. Non vuole che vadano perduti i frutti del lavoro che ha svolto in questi due anni ultimi per il rinnovamento d'Italia, non vuole che i suoi uomini, che tanto si sono sacrificati per le opere di preparazione civile, siano defraudati di una equa ricompensa. La pentola bolle in via Genova, e prepara uno squisito menú di deputazioni, di commende, di cavalierati. Le elezioni specialmente interessano i disinteressati patrioti che si nutrono del becchime marca Ferrero di Cambiano. I comitati interni, che dopo l'entrata in guerra dell'Italia non erano stati piú radunati (la concordia dei nobili sensi era cosí perfetta da rendere inutile ogni discussione), hanno tenuto in questi ultimi tempi tutta una serie di sedute clandestine. È buona legge di guerra tener nascosti ai nemici la propria volontà e i propri propositi. Le notizie sulla salute del compagno Casalini avevano montato la testa a parecchi. I preti delle associazioni cattoliche si preoccuparono dell'avvenire serbato alle anime innocenti del terzo collegio. Fu dato come certo il prossimo ritiro dalla vita politica del nostro compagno. I clericali vollero sentire quali intenzioni nutrivano i loro fratelli siamesi liberali. Si trovò facilmente la base dell'accordo, furono fatti i nomi dei candidati. Non si fece la proclamazione per non scontentare fin d'ora i numerosi aspiranti. Gli scontenti però ci sono già, almeno a quanto dice un'autorevole persona, membro dell'immensa associazione, che con gran segretezza va dicendo a tutti che lui... non è scontento.

La sorpresa maggiore è stata riservata al Bevione. Evidentemente la «Gazzetta» non ha perduto le sue buone doti di iettatrice: il povero Panié ne sa qualcosa. I preti hanno trovato il successore per il quarto collegio. L'attivissimo e intellettualissimo figliolo del senatore Badini, molto noto nei salotti dell'aristocrazia nerofumo di Torino, ha trovato modo di dare ad... amministrare alla Monarchica una discreta somma (dalle 100 000 lire in su), che dovrebbero fruttare a lui il quarto collegio, e all'illustre comm. Venanzio Sabbione la successione, senza beneficio d'inventario, di Giulio Casalini. Il Sabbione, per la sua voce robustissima, avrebbe posto come caposaldo del suo programma politico quello di succedere all'on. Cavagnari nel chiedere a ogni fine di sessione parlamentare la chiusura anticipata dei lavori e delle discussioni.

Come si vede, molta carne in pentola. Troppa, secondo qualcuno che non ha perduto completamente la testa, e si accorge del tantino di ridicolo che c'è in tutto questo armeggiare. Ed ha torto. Si è occupata forse di qualcosa d'altro che non siano elezioni ed eleggibili la Monarchica? Pertanto non fa che continuare le sue nobili e serie tradizioni. Con quanto successo il passato insegna.

(14 ottobre 1916).

FARACOVI

Faracovi, Faracovi; ne rimane il ronzio nel cervello, da qualche giorno. È un dottore, il dottor Agostino Faracovi, dottore in medicina, ultimo ritrovato nella medicina, continuatore glorioso della pura tradizione italiana di Balanzon e Dulcamara. Faracovi è un autentico pezzo della farmacia classica: della farmacia, dove si digerisce il giornale e si produce l'opinione pubblica, dove si discutono i piú alti problemi della vita e dello spirito riducendo la filosofia, la letteratura, la poesia, la religione, in pillole a buon mercato, raddolcite con la polvere di liquerizia, per il palato dei buoni villani. Faracovi è un gran grossista di pillole di farmacia politica; volete sapere in quale forma precisa si siano cristallizzate fra gli zoofili delle farmacie suburbane le discussioni suscitate dalla guerra? Leggete una lettera aperta di Faracovi; schiacciate fra il pollice e l'indice una delle pillole della sua bacheca da Balanzon; assaggiate uno dei suoi cachet. Capirete ciò che significa opinione pubblica, piú che dalla lettura di cento giornali. Raccolta di detriti di ogni genere caduti dalla mensa di quei grandi Epuloni del pensiero che sono i giornalisti, stalattizzazione dell'umidiccio reflusso della retorica paesana, cecità di tutte le talpe moltiplicata all'infinito per la stessa. È una presunzione, un'altezzosità, un orgoglio aggressivo che ci dovrebbero far piangere come agnellini sulla devastazione apportata al carattere degli italiani da due anni di polemiche sceme sulla Germania, sui tedeschi, sulla filosofia tedesca, sulla religione tedesca, sulla poesia tedesca, sulla cucina tedesca, sulla donna tedesca e su tutto il cumulo delle sciocchezze italiane che specchiandole in sé, chiacchiera della vita tedesca.

Faracovi non ha colpa di essere uno scemo; non ha colpa di essere un irresponsabile. Egli è uno dell'infinita tribú. Faracovi è uno spacciatore e un consumatore di pillole; ma la pasta di esse la compra nei giornali, nei grandi e piccoli giornali che da due anni fanno opera assidua di incretinimento nazionale. Faracovi appallottola la pasta, e la ricopre della polvere di liquerizia della sua particolare scemenza. Schiacciate queste pillole: «I barbari non creano; i barbari distruggono». Non se ne è accorto? Belle cose che ha creato la sua Germania in questi cinquant'anni di pace e di sviluppo normale. Sono diavolerie, tutte diavolerie miranti ad un unico fine: distruggere, distruggere, distruggere... Il creare, signor direttore, è proprio a Dio, e agli uomini fatti a immagine sua; ma quegli uomini là non sono fatti a immagine di Dio, tant'è che non ne hanno il concetto, come è dimostrato dal fatto che, per nominarlo, adoperano un'antinomia: vecchio Dio. Sa lei che vecchio e dio sono due termini antitetici? Che dio non può essere vecchio, perché è sempre giovane? Se non lo sa, lo domandi al papa, ma non all'attuale (a quale allora, mio dio?) Cosa han creato quei barbari in cinquant'anni di pace e di sviluppo normale? Han creato due cose, ma son due cose diaboliche anche queste: «il socialismo e l'internazionalismo». Schiacciate questo pillolone; di Faracovi non sono che le parole, il tono, la polvere di liquerizia, insomma; il resto: storia, filosofia, religione è la merce, è la olla podrida che da due anni si serve ogni giorno nei giornali al pubblico italiano. Faracovi, Faracovi; Faracovi non è che una trottola ronzante che una mano, la mano dell'opinione pubblica, fa guizzare e roteare per mostrar meglio la sua imbecillità.

(20 ottobre 1916).

STATI D'ANIMO

Sono almeno quindici giorni che io non mi sento piú io. Sono almeno quindici giorni che sento scricchiolare qualcosa nell'impalcatura dell'animo mio, e dubito e diffido. Che lezione per il mio satanico orgoglio! Credere di essere un uomo morale; essere persuaso che pensiero e azione si siano nei propri atti fusi in un blocco granitico non scalfibile dal piú potente acido di autocritica corrosiva. Che lezione! Perché, da quindici giorni almeno, per ogni atto che l'abitudine meccanicamente fa compiere alla persona materiale, dei calcinacci cadono con tonfo lugubre nelle acque stagnanti del foro interno della coscienza, e suscitano frotte di domande lancinanti: sono io un 254

essere morale? O non sono l'ultimo degli uomini? Dieci sigarette, dieci pugnalate nel cuore: il fumo se ne illividisce, l'aspirazione diventa un sibilo viperino. La costellazione delle fibrille tattili del palato è tutto una amarezza di rimproveri pungenti. Quali occhiali frapporre fra la retina e il mondo? Perché il mondo si intestardisce a conservarsi bello e, ad assalire l'intero sensorio (come direbbe l'ineffabile neo-filosofo letterapertario Faracovi) con traditrici e tentatrici sensazioni? Satana, il beffardo sabotatore della guerra, non è in agguato solo per umili monachelle; chi si salva dalle sue malefiche arti? Satana è nei marrons glacés. Satana è nella chicchera di caffè dentro la quale è scivolata una quarta zolletta di zucchero. Satana è nel grappolo d'uva rimasto in Italia dopo l'assunzione di Filippo Meda alle Finanze. Satana è dappertutto, nel tozzo di pane semiunico, nel vinello annacquato dopo le nuove tasse, nell'uovo che si ostina a mancare per fare un torto personale al calmiere; Satana è in ogni miserabile nostro desiderio. Da quindici giorni almeno Satana trionfa. Satana ci perseguita. Satana scuote con le sue braccia nerborute l'impalcatura delle nostre coscienze. E fa crollare i calcinacci dell'edifizio dell'animo nostro, e ne lascia lugubramente scheletrite le travature, al freddo dell'inverno che sopraggiunge, al freddo che ci riporta il lamento degli assiderati, dei privati di tutto, di quelli che vedono Satana nella loro vita, nel loro sangue che zampilla implacabilmente, nel loro cervello che si arrovescia fuori del macabro calice del teschio. Satana non è solamente nelle belle gemme che ornano le fini mani delle dame dei nuovi plutocrati, non è nelle ville, nei poderi, prezzo scellerato dell'industria nazionale che si rassoda per il domani, non è nei guadagni insanguinati dei capitalisti che preparano la nuova Italia piú disciplinata, piú vigile assertrice del dovere. Ebbene, sí: da almeno quindici giorni sembra crollare l'impalcatura del mio animo; ma sembra solamente. Alla nuova tribú dei noiosi quacqueri monorimi, l'animo mio risponde con uno sputo; se è stabilito nel libro del destino che dieci generazioni siano radiate dal mondo che pure ha anche per esse qualche bellezza, non invidi loro la tribú dei quacqueri una zolla di zucchero, un grappolo d'uva, e neanche un marron glacé.

Il canto di domani tanto non sarà dolcificato dalla limitazione odierna di zucchero.

(23 ottobre 1916).

L'ORDINE DEL CRISANTEMO

Si prepara la giornata del crisantemo. L'iniziativa è dovuta all'Unione liberale monarchica, in pieno accordo con le associazioni cittadine e colle autorità. Vorremmo sapere se fra queste associazioni sia compresa la Lega industriale. Perché vogliamo regalare al comitato organizzatore un'idea, che ci è nata dalle meditazioni sulla sua iniziativa, sullo scopo di questa iniziativa, sul fiore che certamente mercoledí trasformerà la nostra città in una enorme serra, vivacemente lugubre. L'onore che si vuole tributare ai morti, non deve far dimenticare i vivi. I soldati morti al fronte, o per ferite riportate al fronte, non devono far dimenticare i demiurghi che nelle città creano armi per la vittoria. La Lega industriale deve essere nello stesso nostro ordine di idee. Ebbene, il crisantemo può servire ad onorare tanto gli uni che gli altri. Il suo nome ci ha suggerito l'idea: crisantemo, fiore d'oro. Si crei l'ordine del crisantemo. La nazione deve riconoscere in modo tangibile la benemerenza dell'industria nazionale. Sempre, nella storia, la devozione a un'idea ha fatto creare un ordine cavalleresco. Si creino i nuovi cavalieri del crisantemo. Una nuova aristocrazia si sta formando. In due anni è stata rivoluzionata la stratificazione economica della borghesia. I nuovi ricchi non devono andare confusi coi vecchi ricchi. La nuova ricchezza non è stata accumulata coi vecchi farisaici modi dello sfruttamento del lavoro; il plusvalore ha solo poco a che vedere con esso, che si è nutrito di sole idee, di soli sacrifici, che si alimenta del sangue purpureo degli eroi. E questa origine non deve essere dimenticata; deve anzi diventare il suo segno di nobiltà. Occorre che i venturi lo sappiano, che i nipoti imparino dagli esempi dei loro avi. Eppoi, si sa, la nazione ha bisogno di altri grandi sforzi, e perché questi siano compiuti ogni stimolo nuovo, originale, non deve essere trascurato. In Francia si propone la Legion d'onore a chi dà maggior numero di figli alla patria. Gli spagnoli facevano cavaliere chi piantava dodici o quindici noci. A noi non mancano i figli, mancano le armi, mancano gli strumenti, le industrie. Si creino i cavalieri del crisantemo. Piú crisantemi sulle tombe, piú crisantemi sui petti dei nuovi demiurghi della grandezza italiana. Alla croce, alla rosellina si aggiunga il crisantemo, il fiore dell'oro, un semplice fiore, con un rubino nel mezzo, un sanguigno rubino che ricordi i crisantemi delle tombe.

Regaliamo l'idea al nuovo comitato. Date crisantemi ai morti delle trincee; ma non dimenticate gli altri combattenti, quelli che creano il domani, che sono costretti ad arricchirsi per la ben piú terribile battaglia del domani contro l'imperialismo economico. Anch'essi aspettano i loro crisantemi.

(30 ottobre 1916).

L'IDEA TERRITORIALE

Non trovo un altro aggettivo. La lingua italiana non ha un altro aggettivo, e anche questo fatto ha la sua significazione. Non si potrebbe tradurre in italiano né la parola, né il concetto che in francese suona déraciner, déracinement, nei libri — per esempio — di Maurizio Barrès. È questa un'idea storica, essenzialmente storica, che presuppone un lungo lavorio di penetrazione culturale, e non può diventare patrimonio delle coscienze per via di ragionamento, perché è un abito mentale, che si prende dalla collettività cosí come il linguaggio, come la fede. Non si tratta solo di sentirsi parte di un tutto sociale che si chiama Italia, o Francia, o Germania, formato di aggruppamenti umani che hanno oltre ai caratteri genericamente astratti di umanità, anche dei caratteri specifici nazionali, creatisi attraverso una differenziazione storica. Si tratta anche di sentire i confini territoriali di questo tutto; far sentire territorialmente la patria è il fine concreto che si propone l'educazione nazionalistica, la quale trova il momento psicologicamente piú adatto alla sua propaganda in tempo di guerra, quando il confine è diventato una cosa viva, che sanguina, è ferito, è lacerato dalla furia belluina della lotta di conquista.

Eppure si fa rimprovero ai socialisti di non vivere questa idea. Anche quelli che non credono alle idee innate, che non credono al principio naturale, che eguagliano perfettamente civiltà e storia, fanno torto ai socialisti di non avere un'idea territoriale della patria, della nazione. Ricadono nel vecchio pregiudizio evoluzionistico, per cui si immagina la storia come un succedersi ferreo di stadi successivi, attraverso i quali tutti gli uomini devono passare, se non vogliono diminuire la loro umanità. Dall'individuo alla famiglia, alla tribú, al campanile, al comune, e cosí via. La natura non fa salti, quindi i socialisti sono degli idolatri e l'internazionalismo è una mitologia putrida. Il cittadino deve avere un'idea territoriale se vuole essere perfettamente uomo, se vuole essere compiutamente se stesso.

Ma non c'è evoluzione, nelle idee. Le idee diventano, sí: ma diventano atto, se sono vitali, se cioè rappresentano una necessità. Non c'è passaggio da idea a idea; c'è sostituzione. Ogni formazione sociale nuova che s'affaccia al limitare della storia, porta con sé le idee che, diventando atto, serviranno a soddisfare le necessità della sua vita futura. Il proletariato non può vivere l'idea territoriale di patria, perché esso è senza storia, perché esso non ha mai partecipato alla vita politica, perché non ha tradizioni di una vita collettiva che esca fuori dalla cerchia del comune. È diventato essere politico attraverso il socialismo; nella sua coscienza il territorio non ha concretezza spirituale; la necessità nazionale non riecheggia in nessun ricordo di passione specifica, di dolori, di martiri specifici. La sua passione, i suoi dolori, i suoi martiri li ha avuti per un'altra idea, per la liberazione dell'uomo da ogni schiavitú, per la conquista di ogni possibilità all'uomo come tale, che non ha territorio, che non conosce limiti all'infuori delle inibizioni della sua coscienza. Per il socialismo l'uomo è cosí ritornato ai suoi caratteri generici: ecco perché parliamo tanto di umanità e vogliamo l'Internazionale.

(3 novembre 1916).

L'UOMO CHE ASPETTA QUALCOSA

Conosco un uomo che ho casellato in una rubrica speciale, della mia memoria: l'uomo che aspetta qualcosa.

Mi trovo volentieri, discorro volentieri con lui. È un osservatore imparziale della storia che gli si svolge intorno. Non è un uomo d'azione, perché non ha dato la sua adesione a nessun programma concreto. Non è un temperamento critico, perché per criticare bisogna distinguere, per distinguere bisogna avere un criterio, una idea generale, un apriorismo polemico, ed egli non ha avuto tempo di formarsi un criterio, di pensare un'idea, di smaltirla, assimilarla, confonderla talmente con la coscienza viva fino a farla diventare un apriorismo logico. Egli aspetta semplicemente, e questa eterna battuta di aspetto della sua vita è diventata una cosa morbosa, un sentimento acuto di nostalgia che lo fa risvegliare durante il sonno con le orecchie tese per cercare di percepire un ronzio di folla nelle strade, il trotto serrato della cavalleria punitrice, il cadenzato ritmo dei fanti territoriali che legheranno coi loro cordoni la belva infuriata della rivoluzione. La sua ansia è talmente esasperata che qualche mattina lo costringe ad uscire ai primi rumori cittadini e gli fa aprire con mano tremante i giornali, nei quali una piccola notizia, un bianco sintomatico, un ordine del giorno gli dànno un tuffo al cuore, gli sbiancano le gote, lo fanno rimanere pensieroso per tutta la giornata.

Cominciò a soffrire di questo orgasmo qualche anno fa; si rassodò nel 1914. Cominciò a cercare degli amici fra i sovversivi; voleva ambientarsi, voleva assottigliare il suo sesto senso, voleva essere in grado di aspettar meglio, percependo meglio i sintomi della qualcosa che si andava preparando. Arrivò fino al punto di dar maggiore importanza alla vittoria del deputato Bevione che all'uccisione di Francesco Ferdinando, annunziata dai giornali nello stesso giorno, nella stessa edizione. La guerra europea pertanto lo sorprese, lo turbò ancor di piú con la sua parvenza di miracolo. Aspettò, l'uomo senza idee generali, l'uomo che non sente la civiltà e la barbarie, il diritto e la prepotenza, ma vuole il fatto, il fatto nuovo, definitivo, che lo guarisca dalla sua morbosa passione, che sia come un cancello nel divenire, che fermi la storia. Non l'avevo piú visto, quasi due anni che mi sfuggiva, perché lo avevo ingannato, perché avevo contribuito a dare un indirizzo falso alla sua aspettativa.

Mi ricerca di nuovo; sente che non può aspettare niente dall'altra parte; è dimagrato, i suoi nervi sono ancora piú sottili, percepiscono tutto, sono la sua disperazione. Non può dimenticare nulla, gli stimoli sono troppi, e lo distruggono. È a un bivio; la sua passione si rivolge di nuovo all'interno; la notte si desta di nuovo per sentire il ronzio della folla tumultuante, il galoppo serrato della cavalleria. Io ne sono impressionato. Non è igienico per la società l'uomo che aspetta qualcosa. La censura dovrebbe cancellarlo dal marciapiede, dal tavolino da caffè. Mi pare che aspettare qualcosa porta a desiderare qualcosa, ad attuare qualcosa. La censura, la questura bisogna che provvedano.

(7 novembre 1916).

BIANCO E NERO

I signori censori ci hanno fatto un piacere personale. Il bianco di ieri ci ha fatto sospirare di soddisfazione. Il costume giornalistico aveva fatto porre sotto una stessa rubrica due avvenimenti: nero e nero. I signori censori hanno sostituito un bianco; involontariamente hanno compiuto un atto estetico, hanno stabilito un chiaroscuro. Il deputato Casalegno e il bianco, la volgare rissa fra un vecchio parlamentare e la sua giovine portinaia e il bianco; una accusa lurida, degradante, un continuo rimescolare di fogna e il bianco. Da una parte un esemplare tarlato del mondo che combattiamo, che siamo obbligati a disprezzare perché non ha piú la forza morale sufficiente per disinfettarsi, per liberarsi dal putridume che lo inquina, e dall'altra una rabbiosa raschiatura di giovinezza, di fierezza, di energia morale. Forse non avremmo pensato a farlo noi questo lavoro di altorilievo.

Si prova sempre schifo a brancicare la materia in decomposizione, anche se si ha la coscienza che ciò sia moralmente necessario. E il vecchio deputato ci fa compassione; tra l'altro, il nostro appetito di giovani lupi non è davvero stuzzicato dalla gelatinosa figura di questo vecchio arnese di Montecitorio, che ributta alla nostra sanità spirituale. Lo lasciamo al gabinetto psichiatrico, alla fredda mano del clinico, allo scanno di Montecitorio, giacché i suoi colleghi pare non si inquietino per la sua vicinanza e non sentano ripugnanza per il suo contatto.

Ma che sospiri di soddisfazione per l'arbitrio dei signori censori. Le raschiature non ci hanno fatto sanguinare questa volta. Bianco, molto bianco per far risaltare meglio il nero livido delle carni martoriate dell'on. Casalegno, il nero livido del nostro costume giudiziario che perseguita le idee e salva gli uomini medagliettati, che sotto lo stimolo dei questurini arresta dei giovani di fede, e per l'idolatria della medaglietta di un inverecondo cerca di toglier di mezzo ogni accusatore delle depravate avventure di un vecchiaccio. I signori censori fanno dell'arte, senza volerlo, e il bulino dell'acquafortista incide spesso piú vigorosamente nell'immagine plastica una realtà di ciò che possa fare il logico piú scaltrito.

(10 novembre 1916).

IL VENTRE

Il demone della contraddizione vorrebbe dettare alla mia penna un elogio del ventre. E sono costretto a riconoscere che il demone non ha tutti i torti. Esso ha incominciato a sussultare il giorno, che incomincia purtroppo ad allontanarsi, in cui fu costretto a sdilinquirsi per la favola di Menenio Agrippa. Oggi è l'egregio avvocato Marconcini, consigliere comunale, che si ripresenta, nuovo Menenio, a favoleggiare sul ventre. E fissa nel ventre la differenziazione tra socialisti e cattolici, e, scrive il «Momento», polemizza col Bebel per la frase, sibillina all'intelligenza del cronista clericale: «La questione sociale è una questione di ventre». Il demone della contraddizione vorrebbe un elogio del ventre. Ma non lo accontento neppure ora, come non l'ho accontentato quando, sul tormentato banco della scoletta, ventre voleva dire tutto ciò che è dolce al palato, e la tentazione era piú forte. Lasciamo pure che vengano elogiati il cervello, l'intelligenza, la ragione e che il povero ventre riceva oltre che le ingiurie del regime di guerra, col pane unico e la restrizione dei consumi, anche le ingiurie teleologiche del prof. Marconcini. Il quale, beato lui, è socialista senza ventre, è socialista generoso, mentre noi siamo socialisti traditori e ingannatori dell'operaio, perché abbiamo la disgrazia di essere nati col ventre. E ci inchiniamo umilmente dinanzi al novello Menenio, senza difficoltà, perché abbiamo il ventre, è vero, ma esso non è ipertrofico, e ci permette l'inchino, Solo vogliamo suggerire al cronista clericale una interpretazione della sibillina frase di Bebel, perché la riferisca all'egregio avv. prof. Marconcini, consigliere comunale, per vedere se possa persuadersi che anche il nostro sistema economico è retto da un principio morale. Per esempio: «La quistione sociale è quistione di ventre che non vuole essere piú solo ventre». Una cosa semplicissima, semplice almeno quanto il cervello dell'egregio professore che in una frase di Bebel fa consistere tutto il socialismo, che di una parola fa la quintessenza di un movimento sociale dei piú complessi, che ha la sua teorica e la sua pratica, la sua morale e la sua economia. Forse per questo non mi sono deciso di fare l'elogio del ventre. Questo modesto organo tanto necessario e tanto disprezzato dagli sciocchi che pongono la nobiltà nelle parole e nelle parti del corpo, non ha neppure bisogno di essere difeso. Le stupidità non meritano contraddizione. Il demone si placa. Chi crede di essere cervello e solo cervello annega nel ridicolo della sua fatuità. Chi afferma che gli avversari sono ventre e niente altro che ventre, è cosí fuori dai domini dell'intelligenza che può essere un buon cattolico con lodevoli tendenze al democristianesimo, ma non può essere discusso. O forse sí, ma da Pietro Aretino, che di fronte alle sciocchezze untuose della moralina cattolica riusciva a trovare l'unica posizione polemica possibile.

(21 novembre 1916).

IL PROSSIMO NUMERO

Da qualche tempo non abbiamo piú pubblicato le solite puntate dell'allegra istoria di Teodoro e soci. Il prossimo numero... è diventato un numero remoto. Ma la puntata odierna dà un sapore nuovo alla commedia allegra (non la chiamiamo pochade perché i personaggi di questo genere letterario, schiettamente parigino, hanno o mostrano di avere dello spirito, della verve, mentre i nostri sono la quintessenza della goffaggine e del bertoldinismo). Entra in scena l'elemento femminile. E noi siamo soliti rispettare le signore. Perché non c'è molto sugo a prendersela con le signore, quando nella vita esse si accontentano di curare la lucentezza del pelo del loro canino o la riuscita di un five o' clock elegante, o altre simili squisitezze proprie delle moderne femmine della grassa borghesia, che amano tanto far le scimmie delle dame della vecchia nobiltà. Ma la gonnella profumata vuol fare anch'essa del femminismo. E del femminismo il quale ci fa arricciare un po' il naso.

Femminismo che è intermediarismo politico, cuscinettismo politico. Una forma di intrigo perfettamente moderno e democratico... la lotta di classe alla violetta di Parma, incipriata, e arricciolata proprio come il cagnolino da manicotto. E qualche categoria proletaria femminile disorganizzata si presta a fare il cagnolino e a strisciare le gonnelle della signora del vice-ministro. E la signora di S. E. Cesare Rossi, socio di Teodoro, si compiace della sua missione di pacificatrice delle lotte sociali. E il modesto miglioramento alle signorine telefoniste diventa l'elegante corrispettivo di un mazzo di rose, di una conversazione da boudoir.

La donna come calmiere sociale; tema suggestivo per operetta!

Noi rispettiamo le signore, anche quelle delle eccellenze e sotto-eccellenze. E rispettiamo le donne in genere, anche le telefoniste non organizzate. E appunto perciò vorremmo che le une si accontentassero di far le signore, e le altre fossero meno servilmente striscianti. Anche e specialmente quando vogliono migliorare le loro condizioni economiche. Perché è semplicemente questione di dignità non far apparire il salario, quando si lavora sul serio e si è utili sul serio, come l'elemosina elegante, la gratificazione elegante per il mazzo di fiori, per il complimento biascicato a fior di labbro.

(24 novembre 1916).

EMICRANIA

Evidentemente è effetto dell'emicrania. Il cervello lavora per conto suo. I silenziosi operai che quotidianamente ricostruiscono ciò che la fatica distrugge sono oggi piú irrequieti. È un ronzio, un brulichio doloroso, come se le pareti corticali fossero calpestate da una infinità di piccoli piedi aguzzi, pungenti, taglienti che offendono crudelmente la materia organica, la irritano, la martoriano. Ed essa reagisce non obbedendo piú alla volontà, sbizzarrendosi in truci fantasmagorie, in violente rappresentazioni grottesche, popolandosi di rossi, rossi fantasmi arrancanti, scalpiccianti, con mille, mille tentacoli aguzzi, mille, mille, infiniti come il numero dei bastoni, il numero delle stampelle che si potranno acquistare col ricavo della nuova sottoscrizione, a Torino, a Milano, nelle cento altre località dove la beneficenza rivolge i suoi appelli al cuore generoso delle persone che possono camminare senza bastone, senza stampelle, che camminano senza bastone, senza stampelle, che hanno la mente serena, il cuore giulebbato delle persone che camminano senza bastone, senza stampelle.

Evidentemente è l'emicrania. Evidentemente è la materia organica del cervello che si ribella alla volontà, e si crea dispettosamente questi truci fantasmi sanguinolenti, questi tronconi di umanità arranchellante su un'infinità di bastoni e di stampelle. Perché il cervello ne è pieno, perché il cervello ne trabocca da tutte le finestre per le quali gli arrivano le sensazioni: perché il ronzio delle orecchie si determina, si distingue, si individua in un ticchettio legnoso, sonoramente scoppiettante sui marciapiedi, sui selciati. Perché le palpebre socchiuse in uno stiramento doloroso non sono piú una membrana arrossata dal malessere, ingorgata di sangue, ma uno schermo, uno schermo truce, dinanzi al quale passa questo interminabile, prodigioso susseguirsi di aste rigide, dal ritmo monotono, che ronzano nell'orecchio, che tagliuzzano la parete corticale, che col ticchettio maligno fanno sprizzare miriadi di scintille vermiglie come goccioline di sangue che riempiono tutta la fantasia, e rendono atroci le visioni, e rendono opaca la volontà. E la volontà non reagisce; e la volontà s'abbandona, e segue nel suo snodarsi serpentino questo sfilare di mostri, che riempiono il mondo, che intristiscono il mondo, che adombrano di un velo infinitamente malinconico la bellezza del mondo, che appesantiscono la snellezza della vita del mondo, in un ritmo legnoso, fatto di ticchettii maligni, di atroci arrancamenti pieni di infinita melanconia dolorosa.

Evidentemente è effetto dell'emicrania. Evidentemente, non può essere che effetto dell'emicrania.

(27 novembre 1916).

PREMIO PER LA VITA

Preso nella tenaglia logica del dover mettere d'accordo il bisogno della celerità con le preoccupazioni della propria pelle, il cittadino che va in tram, sul punto di porre il piede sul fatale predellino, è costretto ad invocare dai propri numi tutelari la suprema grazia di potersi ritrovare incolume sulla superficie della terra. Costretto a calcare questa superficie anche dove essa si insinua negli ingorghi cittadini, nei crocevia squillanti di campanelli e trombette o sbuffanti di soffi repressi, invoca ancora dagli stessi numi l'altra grazia di poter riattraversare la soglia di casa senza l'aiuto del solito pietoso passante. La nuova rubrica di cronaca sul «quotidiano investimento» gli riempie la fantasia di incubi truculenti. Lunghe file di carrozzoni fermi per una disgrazia in via d'accertamento; la barella che si dirige al S. Giovanni, o agli istituti del Valentino coi quarti sanguinolenti da ricomporre e riconoscere; il cittadino manovratore che se la dà a gambe per evitare l'arresto preventivo. Il tram diventa un vascello fantasma senza timone e senza pilota, il cittadino tramviere l'insidia continua alla vita dei passanti. È la guerra tra la celerità e il pedone, senza che si riesca a stabilire un parallelogramma delle forze che sintetizzi i due fattori del traffico, e metta d'accordo le due necessità. Perché un elemento nuovo è entrato a turbare i rapporti: l'improvvisazione. Si è improvvisato il tranviere cosí come si è improvvisato il fabbricante di materiale bellico. Ma l'improvvisazione del fabbricante della morte è stata premiata, è stata assicurata coi sopraprofitti, con l'arricchimento fulmineo. Lo Stato borghese, protezionista nella sua essenza capitalistica, ha premiato il facitore di morti, il moltiplicatore di morti. Verificatasi la nuova necessità, ha applicato immediatamente i suoi schemi economici, e la necessità è stata superata. Ma non dà premi, non s'assicura per ciò che riguarda chi può ammazzare e non dovrebbe ammazzare, che non è necessario non ammazzi. Gli schemi economici della società borghese in questo caso non trovano applicazione, non si vuole che trovino applicazione. Si assicura, si premia l'uccisione del nemico, non si vuole assicurare, premiare la salvezza dei concittadini. Non si vuole pagare la vita dei concittadini. E si tratta solo di pagare, di stabilire un regime di concorrenza nel quale la vita valga un po' piú della morte, l'abilità a salvare sia pagata un po' piú dell'abilità a uccidere.

Il cittadino che va in tram deve federarsi col cittadino che va a piedi, e domandare, pretendere, volere che la sua vita sia assicurata, che si dia un premio a chi riesce ad evitare di togliergli la vita.

(7 dicembre 1916).

SIMPLICITAS

Il «Momento» risponde al «padre di famiglia» che qualche giorno fa protestava, in una lettera diretta al nostro giornale, per il fatto che in una scuola di Torino una maestra fa recitare ai bambini il Padre nostro prima di cominciare la lezione. E fa al «bravo padre di famiglia» questo semplicissimo ragionamento: «Hai notato nella tua bambina qualche cosa che ti preoccupi e che tu possa considerare come una conseguenza di quell'orazione che essa recita tutte le mattine assieme alle sue compagne di scuola? È forse meno ubbidiente e rispettosa verso di te? Commette in casa delle mancanze maggiori di una volta? Perché se questo non avviene io non so vedere il motivo della tua preoccupazione. È vero, tu sei un libero pensatore e vuoi che la tua figliuola cresca libera da ogni pensiero religioso; se le piacerà, se lo procurerà in seguito... Questo tu dici; ma non sei sincero, perché tu sai benissimo che la tua bambina quando sarà diventata una ragazza da marito, e si troverà a combattere in mezzo al mondo non avrà né il modo né il desiderio di pensare ad apprendere quella fede e quella preghiera che tu le hai assolutamente fatto ignorare. E dov'è allora, il tuo rispetto per la sua libertà di pensare? Sei tu che eserciti una violenza sopra di essa, e non la maestra che le fa recitare il Padre nostro». Cosí risponde semplicemente il «Momento». E il «buon padre di famiglia» ci incarica di rispondergli ancor piú semplicemente: «Ci tengo veramente alla qualifica di "buon padre" che il "Momento" adopera con una certa quale ironia, insinuando che io sia un padre fantasma.

«E infatti mi preoccupo del come la mia bambina vada formandosi un carattere attraverso i contatti con la vita scolastica e attraverso quel poco di insegnamento che io stesso le impartisco.

«Mandandola a scuola io intendevo darle la possibilità di apprendere quelle tante cose che da me non sarei stato capace di insegnarle. Ma non intendevo affatto abdicare a ciò che ritengo sia mio massimo dovere e mio compito essenziale a suo riguardo: essere cioè io il maestro dei suoi convincimenti piú profondi, per poter assumermi poi, con piena convinzione, la responsabilità del suo avvenire e del suo comportarsi.

«Questi convincimenti creo in lei seguendo ciò che io ritengo sia la verità, e abituandola, con la persuasione e con l'esempio, a porre sempre come fine delle proprie, anche minuscole azioni, il vero e il giusto. Ogni apriorismo, ogni pregiudiziale assoluta intorno ai fatti è bandito dal mio modo di educazione. Unico apriorismo indiscusso è quello della sincerità, unica pregiudiziale ammessa è quella del disinteresse nella ricerca per la escavazione quotidiana di quegli elementi che devono servire a fare di lei una creatura profondamente umana. Ma io non posso fare tutto. È necessaria l'opera complementare della scuola. Io ammetto che la mia bambina non è diventata cattiva per il fatto che è costretta a sentir recitare quotidianamente il Padre nostro. Ma essa, che è una persona viva, anche se una bambina, e sente profondamente, è disorientata per il fatto che la sua maestra le insegni anche delle cose che il suo papà non le insegna e le spiega diversamente. È turbata per il fatto che ella è quasi sola (solo una sua compagna di famiglia israelita non recita le orazioni) a non compiere quegli speciali atti che tutte le altre bambine compiono. E tra il rispetto e l'affetto per il suo papà e l'affetto e il rispetto per la maestra è presa da un'angoscia che io vorrei evitarle, non essendo ancora matura intellettualmente per comprendere che può anche esistere disaccordo tra due persone che per lei rappresentano tutta la vita spirituale. Io so che in questa angoscia, che non deve essere solo la mia bambina a sentire, è riposto un problema pedagogico che le autorità dovrebbero risolvere nel modo piú liberale, facendo sí che la scuola sia solo una scuola di cultura, e lasciando alle singole famiglie il compito di educare come meglio loro piace i propri figlioli. Se in iscuola insegnassero il Budda nostro o il Nostro Allah, le bambine non diventerebbero perciò cattive: eppure allora il "Momento", si unirebbe a me a protestare, e probabilmente sfodererebbe anch'egli il nome della libertà di coscienza. Io non voglio essere ipocrita con la mia bambina, ecco tutto: e lo sarei se lasciassi che ella potesse credere che non sono abbastanza convinto delle mie idee, per permettere che il suo spirito diventi una specie di valigia di tutte le opinioni correnti nel mondo».

(15 dicembre 1916).

IL DOVERE DELL'ON. QUINDICILIRE

L'on. Quirino Nofri, piú volgarmente noto come l'on. Quindicilire, ha scritto un articolo sulla restrizione dei consumi che ha avuto una discreta fortuna. Pensato come poteva pensarlo l'onorevole, a seconda cioè delle ultime convinzioni di costui, è stato riportato dalla «Gazzetta del Popolo», dal «Messaggero» e non sappiamo da quanti altri organi ed organetti della trionfante democrazia. L'on. Quindicilire lo ha affidato alle tante cassette postali della pubblica opinione, e le cassette postali lo hanno accolto nel loro seno capace. Purtroppo fra di esse c'è stato anche il «Bollettino dell'ACT», e dispiace constatare che anch'esso si è ridotto questa volta all'umile ufficio di cassetta acefala, pur dovendo avere una testa che pensi e sappia distinguere tra il grano e il loglio. Perché ciò che scrive l'onorevole sarà grano ottimo, a rendimento ancor maggiore dell'85 per cento, per coloro che se ne devono cibare, per coloro ai quali idealmente era rivolto, e cioè per i lettori della «Gazzetta», del «Messaggero» e degli altri organi ed organetti della democrazia. Ma per i lettori del «Bollettino» esso è loglio, sterile loglio, tutto ciò che di piú loglio possa esistere sulla superficie della terra. E ciò quantunque quella tal cosa che si chiama dovere, non sia diventata, come mostra credere l'on. Quindicilire, «da troppo tempo un mito e una frase retorica». Anzi appunto perché il dovere, non mito e non frase retorica, è sempre vivo e operante nelle loro coscienze. E significa per essi qualcosa di ben concreto: essere coerenti alle loro convinzioni formatesi liberamente, accettate perché il risultato di un libero e disinteressato esame dei dati storici di dominio universale.

Per il Nofri il dovere ha ora altro significato. Significa essere ritenuto incosciente e settario se non si fa ciò che a lui pare il meglio. Significa «affrontare, ferire, rompere consuetudini inveterate, costumi secolari, mentalità fossilizzate, pregiudizi ciechi», e inoltre «speculazioni politiche e religiose, facenti il loro turpe gioco sulle conseguenze della guerra», come si dice precisamente nel linguaggio della «Gazzetta» e del «Messaggero» e come è lecito faccia un tantino maraviglia nel linguaggio del «Bollettino». E per l'on. Quindicilire, è dovere dire anche queste altre cose: «Siamo in guerra, o signori!, e da piú di due anni; e malgrado ciò pare ci siano parecchi milioni di italiani che lo sanno, ma non lo sentono. Prima che lo sentano troppo, pensi, chi della guerra ha la responsabilità piú nel paese che al fronte, di farglielo sentire quanto basti a risvegliare automaticamente il loro dovere, che è quello di contribuire alla vittoria, che solo può terminare la guerra, almeno col sacrificio di qualche soddisfazione del ventre». Ma in attesa che gli altri siano costretti a compiere automaticamente tutti questi doveri, verso «coloro che dànno quotidianamente, al fronte, la loro vita per la patria e per la civiltà, per la giustizia e per la libertà internazionale», l'on. Quindicilire non si sente di compiere liberamente il dovere di staccare la sua persona dai settari e incoscienti che lo stipendiano. Ed in quanto a restrizioni, egli ne adora una sola: la restrizione del sacrificio pecuniario in favore di quelli che quotidianamente, ecc.: poiché egli che guadagna piú di trentamila lire all'anno, dà a favore dell'eroismo quelle quindici lire al mese che lo hanno reso famigerato.

(16 dicembre 1916).

BREVIARIO PER LAICI

È del poeta inglese Rudyard Kipling e ci piace farlo conoscere ai nostri lettori, come esempio di una morale non inquinata di cristianesimo e che può essere accettata da tutti gli uomini:

Se puoi conservarti calmo, mentre tutti attorno a te hanno perduto la testa, e dicono che ciò è per colpa tua,

Se sei sicuro di te mentre tutti ne dubitano, e tuttavia puoi trovare delle scuse per questo dubbio,

Se puoi aspettare, senza stancarti di aspettare,

Se vivendo in mezzo alla menzogna non mentisci,

O, essendo odiato, non ti lasci trasportare dall'odio, non avendo l'aria, pertanto, di essere troppo buono, né troppo saggio,

Se puoi sognare senza essere schiavo del tuo sogno,

Se sai pensare, senza fare del pensiero il solo scopo della tua vita,

Se, imbattendoti nel successo o nel disastro, tu tratti questi due impostori allo stesso modo,

Se puoi sentirti ripetere la verità che hai espresso, imbellettata dai furbi per prendere in trappola gli scemi,

Se puoi guardare le cose che hai creato spezzarsi, e se, abbassandoti, tu le ricostruisci con strumenti già usati,

Se puoi fare un mucchio di tutti i tuoi guadagni, arrischiarli con un sol colpo di fortuna, gettare il dado, perderli, e ricominciare tutto dal principio, senza mai dir parola sulla tua perdita,

Se puoi costringere il tuo cuore, i tuoi nervi, i tuoi muscoli, a servirti a lungo, anche dopo che essi si sono logorati, e cosí tener fermo, quando non avrai in te altro che la volontà che dice al resto: sii fermo,

Se puoi parlare alle moltitudini conservando la tua virtú, e parlare con i re conservando il senso comune,

Se un nemico non può ferirti, e neppure un amico,

Se tutti gli uomini hanno un valore per te, ma nessuno di essi troppo,

Se riesci a riempire il minuto che non perdona con sessanta secondi che valgono la distanza percorsa...

Allora la terra sarà tua e tutto ciò che essa contiene, e, ciò che piú importa, tu sarai un Uomo.

(17 dicembre 1916).

I MERITI DI CARNEADE

Bella invenzione il vocabolario per chi non ha niente da dire e deve tuttavia scrivere qualche cosa ogni giorno. Esso diventa cuore, diventa cervello, diventa logica, diventa uno scrittore magnifico. Le parole si drizzano su dei trampoli grammaticali e sintattici e se ne vanno a spasso come le persone vive, a farsi ammirare nei mercati della provincia per la spruzzatina di rossetto che sostituisce cosí bene il sorriso lusingatore. Don Abbondio ama le mascherine di tal fatta, perché vuole conservare l'illusione della virilità, e sa che il sorriso lusingatore è solo il rossetto su una faccia illusoria e non porrà mai in pericolo la sua castità professionale. Ma don Abbondio, come tutti i conigli nati, è anche maligno e innocente diffamatore. Non vuol credere alla virilità degli altri; non vuol credere che gli altri siano, in un modo qualsiasi, fecondi. Se nasce loro un figlio, è capace di dire che esso è nato per sbaglio, perché, come è certo, i socialisti sono neomalthusiani. Se Carlo Tresca viene liberato, non c'è dubbio, per i don Abbondio del «Momento», che i socialisti volevano la sua condanna, si aspettavano la sua condanna, avevano preparato, nella sicurezza che la condanna non sarebbe mancata, uno sciopero generale. E don Abbondio è persuaso di ciò, come può esserne persuaso chi al cervello, al cuore, alla ragione ha sostituito il vocabolario e l'ha già bisunto a furia di sfogliazzarlo.

Anzi, i socialisti sono furibondi contro Carlo Tresca, che ha mancato cosí fraudolentemente al preciso impegno assunto di farsi impiccare, squartare e scuoiare per dar modo ai suoi compagni italiani di far del baccano, molto baccano, e magari la rivoluzione. I socialisti, per don Abbondio, sono proprio furibondi come quei mariti ai quali la moglie ha regalato un non desiderato rampollo, un rampollo sabotato. E il ragionamento di don Abbondio fila, bisogna vedere come fila; fila proprio come la bava dalla bocca di un vecchio pretonzolo al quale una madre prosperosa mostri da lontano un bambinetto paffuto, facendo le corna per evitare il malocchio. Don Abbondio non comprende come esista già una forza internazionale, che ha sorpassato il cattolicismo, e non sa che questa forza si chiama desiderio di apparire giusto. Non sa che questa forza è stata imposta dal controllo che esercita il proletariato sul mondo internazionale, e che essa è in dipendenza di un fatto nuovo che è creazione del proletariato e si chiama sensibilità internazionale. Don Abbondio si domanda: che meriti aveva Carlo Tresca? E risponde: nessuno. E conclude: dunque non si tratta di tragedia, ma di commedia, e i Carneadi non hanno meriti. Per non essere Carneadi ed avere dei meriti, don Abbondio vuole almeno che si abbia mezzo milione di rendita, che si sia citati nell'almanacco di Gotha, che si sia vescovi, o cardinali, o almeno, almeno, parroci di Copparo.

(21 dicembre 1916).

LA CASA MUTILATA

Una casa mutilata che stende la mano... Ma non è la solita mano, che domanda il solito obolo di metallo o di carta. La casa mutilata non domanda l'elemosina. La sua mano distesa domanda delle opinioni e delle idee. È stata fulminata dalla forza brutale del fuoco. Non era una delle solite case, allineate in rango come i soldati alla parata. Era essa stessa la personificazione di un'idea, la sentinella avanzata dell'idea di tutti noi. Si era piantata solidamente in un estremo della città. Era uno dei tanti combattenti della nostra idea, che assediano la città della borghesia, che cingono la cittadella della borghesia in una cerchia formidabile che, venuto che sia il momento, si restringerà, darà l'assalto, prenderà definitivamente possesso della città. L'incendio l'ha fulminata. L'incendio ha aperto un varco in questa cinta. L'incendio vorrebbe che i buoni combattenti abbandonassero la casa mutilata e si disperdessero, e illanguidissero la loro compagine unitaria disperdendosi. Perciò la casa mutilata di Borgo Vittoria non domanda l'elemosina. La sua mano distesa domanda opinioni ed idee. Chi crede che sia necessaria l'esistenza della Casa del popolo, dia il suo contributo. Chi crede che i socialisti debbano avere una casa propria, debbano avere una fortezza propria in tutte le barriere, dia il suo obolo. Chi sente che l'indebolirsi di una parte porta necessariamente all'indebolirsi di tutto il corpo, dia il suo obolo. Chi è socialista non solo a parole, ma anche nei fatti, e sente viva nella sua coscienza la solidarietà per tutti i compagni, per le opere di tutti i compagni, per le affermazioni di vita di tutti i compagni, dia il suo obolo.

La casa mutilata di Borgo Vittoria non domanda l'elemosina. Domanda delle opinioni, delle idee. Chi vuole dimostrare di averne, faccia un piccolo sacrifizio, dia di questo avere la prova tangibile e costruttiva. La casa mutilata deve risorgere, piú forte, piú bella, piú minacciosa di prima. Sarà murata di queste idee, sarà cementata di questa solidarietà. E la sua nuova forza, la sua nuova minaccia, avranno un significato ancor piú ampio e comprensivo, perché saranno la forza e la minaccia di tutto il proletariato torinese.

(24 dicembre 1916).

PREOCCUPAZIONI

La posta mi trasmette una circolare della mia parrocchia. Non conosco né il curato né la parrocchia, ma ciò non impedisce che essi esistano, e che io sia una pecorella del loro gregge, e che essi pensino alla mia salute spirituale, e che magari consacrino qualche minuto del prezioso loro tempo per invocare dall'angelo annunziatore il miracolo del rammollimento delle durezze del mio cuore.

Pertanto la circolare mi dispone alla soavità, alla tenerezza. Domanda un contributo per l'elevazione di un tempio votivo a Maria Annunziata, vorrebbe riunire tutta l'Italia ai piedi di Maria SS. per implorare vittoria e pace, protezione ai combattenti, eterno riposo ai caduti. È accompagnata da alcune copie di una pubblicazione periodica, «Votiamoci a Maria!»; ricorda che la SS. Annunziata ha protetto in mille battaglie i magnanimi principi di Casa Savoia, ricorda che la immagine della dea brilla sul petto del nostro eroico sovrano nel collare benedetto, e ricorda perciò che essa è la speciale protettrice degli eserciti e dei soldati d'Italia. Ma questi ricordi non hanno neanche essi la virtù di indispormi, di strappare almeno un piccolo urlo alla mia coscienza di giacobino. La mia coscienza è immersa in un vago crepuscolo mitologico, la mia coscienza è tormentata da altre preoccupazioni. L'attività degli altri non mi irrita, anche se antipodica alla volontà mia e dei compagni in idea. Mi preoccupa il fatto che questa attività ha per fine di lasciare su qualche metro quadrato della superficie del globo una traccia architettonica che consuma pietra e calcina, ingegno e braccia per un edificio, cui non so prevedere un ufficio per domani, quando l'attività attuale sarà definitivamente divenuta mito, quando l'edilizio avrà perduto per tutti del suo carattere ieratico e non sarà piú che sasso e calcina organizzati in edifizio. È una preoccupazione viva e attuale, questa. Si vorrebbe che tutto ciò che si produce in solido, in trasformazione geologica della superficie del mondo, avesse dei caratteri di perpetuità, e pertanto avesse delle possibilità di adattamento a nuove funzioni.

L'uomo passa: una generazione è sostituita dall'altra. La storia degli uomini è una matrice feconda di coscienze sempre nuove, quantunque nutrite di vecchio, di tradizione. Ma la materia bruta non possiede in sé questa elasticità di rinnovamento. Sono gli uomini che gliela dànno, quando hanno la coscienza di questo loro infuturarsi, di questo rivivere del loro sforzo attuale in una forza di domani. E quando trasformano la stratificazione geologica del mondo, quando tolgono granito al monte o calce alla cava per ordinarli in muri e soffitti, cercano di fare tutto con criteri di continuità, per non ferire inutilmente il decrepito mondo, per non ingombrare inutilmente il nuovo mondo che si dibatte per nascere. La circolare del mio curato mi preoccupa molto in questo vago crepuscolo mitologico nel quale l'animo è immerso. Ma non riesco a vincere i sentimenti soavi e teneri.

È la stessa soavità e tenerezza che si prova al cospetto di tutte le creature imperfette. Si pensa alla fatale loro infecondità, all'oblio che le sommergerà completamente in un tempo non lontano. Il mito pagano ha lasciato dei monumenti di bellezza che continuano a vivere per questo loro carattere di perennità, che fanno rivivere qualcuno dei sentimenti ancestrali. Il mito cristiano, almeno nella nostra città, non lascerà che degli ingombri, preda del futuro piccone. C'è da preoccuparsene davvero. Confessiamo che esso se fa pena per la sua impotenza e sterilità, finisce anche per essere seccante.

(31 dicembre 1916).

LA SAGGEZZA DEI POPOLI

Infinita è la saggezza dei popoli; infinita, come l'onnipotenza divina. Essa osserva tutto, commenta tutto, trova in ogni minimo avvenimento, in ogni piú banale rapporto tra uomo e uomo lo spunto per esercitare il suo acume, il suo senno, la sua ironia leggera o profonda.

E abbandona al vento della storia i foglietti sui quali sono scritte le massime universali che testimoniano di questo lavorio popolare, che ha con il mondo il suo inizio. E il caso vi fa svolazzare attorno al viso, dinanzi agli occhi, qualcuno di questi foglietti. Il caso è il migliore maestro di esperienze e lo stimolo piú efficace alla riflessione. Leggete dei libri interi dedicati alla sapienza, e non diventate saggi. Leggete dei libri interi incorniciati di auree massime, e queste ci fanno l'impressione di un bisaccia ricolma di foglie secche. Il caso vi mette innanzi la quarta pagina di un giornale della sera. C'è in essa tanto di sapienza, quanto ne può bastare al piú avido rosicchiatore di Minerva. La sciarada: la sapienza ermetica, per arrivare alla quale occorre possedere le sette chiavi del tempio salomonico, o l'apriti sesamo dei quaranta ladroni della caverna di Alí Babà. Il pensiero dell'uomo illustre, per esempio Arturo Graf, che seriamente, compostamente vi afferma che «l'insolenza nei grandi è odiosa, e nei piccoli è ridicola». C'è la dimostrazione attuale sulla necessità della guerra, di un modesto anonimo. Tre foglie morte. Che inutilmente battono alla soglia della coscienza, che inutilmente frusciano intorno. E invece la quarta vi attrae. È ancor verde la foglietta che forse si è staccata dall'adamitico albero del bene e del male. Cinque parole vi son scritte: cinque parole che messe cosí una dietro l'altra sembrano le piú banali, le piú stupide, le meno sapienti del mondo: «Chi ha bachi non dorma»... Ma perché dunque esse hanno questa virtù ricreatrice, che le impone alla nostra osservazione? Non sorridete: il pensiero maligno che si intravede nel vostro sorriso è privo di fondamento. Voi pensate che quel nome sostantivo sia pregnante, come dicono i grammatici, sia carico di tutti i succhi balsamici del simbolo, e voi pensate... Ma v'ingannate; in questo momento diventa verde anche la fogliuzza dell'uomo illustre; l'insolenza, ecc. Non vogliamo essere insolenti con certa gente; e come non esserlo, paragonando un essere pensante, una creatura che nella sua creta mortale conserva ancora il soffio della divinità, a un vilissimo giuanin che fa avvizzire il frutto saporoso? È proprio il caso che ha fatto sí che questo frutto modesto della sapienza dei popoli venisse a cadere ai nostri piedi proprio quando la nostra coscienza era piú acconciamente preparata a gustarlo, a farne strizzare il gocciolo utile della sua succosità. Pensate: a che è andata a badare la sapienza popolare. Solo ci nasce un dubbio: la sapienza popolare deve aver solo fatto la constatazione: chi ha bachi non dorme. Il popolo della «Gazzetta» ha energicamente sostituito all'indicativo presente, l'imperativo categorico: «non dorma!» Noi, che siamo proletari e siamo piú energici e d'azione, proponiamo un emendamento: chi ha bachi, prenda la santonina. E permettiamo a questo punto il sorriso. Perché è una realtà avvenuta che il proletariato, quando ha i bachi, prende la santonina.

(3 gennaio 1917).

PERIFERICI

Leggo un'interrogazione firmata dai consiglieri Sacerdote, Mussi, Grassi. Altre interrogazioni sono state presentate altre volte, firmate dagli stessi uomini, o da qualche altro loro collega, e i giornali cittadini le hanno pubblicate sotto il titolo: i periferici, il lavoro dei consiglieri periferici, i consiglieri periferici protestano, ecc. Ho sentito parlare qualcuno di questi signori in consiglio. Li ho sentiti declamare per delle ore e ne ho sempre riportato una impressione di stanchezza plumblea, di irritazione sorda. Perché sono tediosi i signori periferici, perché stancano i signori periferici? Forse perché sono essi personalmente noiosi? O perché sono essi personalmente seccanti e imbecilli? Non è per questo. O almeno non è solamente per questo. Sono paziente e capace di sorbirmi un discorso prolisso e seccante per la forma, purché in esso brilli qua e là un raggio di luce, purché in esso riesca a sentire uno sforzo per l'affermazione di una verità sacrosanta. Anzi, preferisco il tedioso discorso di un cittadino che, brancolando negli impacci di una intelligenza mediocre, faccia tuttavia omaggio alla sincerità e alla verità, allo sfarfallare leggero, dilettantesco, senza convinzione di un cosiddetto brillante ingegno.

Ma nell'attività dei signori periferici tutto è opaco: il loro cervello e la loro tesi, i loro discorsi e il loro periferismo. Questa loro etichetta è un'astrazione, non è una realtà. Esiste la città nel suo complesso, non il centro e la periferia; in questa città esistono due classi di cittadini, proletari e borghesi, e non centrali e periferici. Esistono degli interessi unitari, siano essi borghesi, o siano proletari, ma non degli interessi centrali e periferici. Questa divisione geografica della città è assurda; questo voler fare della città due parti materialmente distinte e non distinte spiritualmente, storicamente, è di un assurdo grottesco. Se si deve dare maggiore illuminazione a una via, o si deve costruire una cloaca, o si deve spazzare una piazza, e non lo si fa alla periferia mentre lo si fa al centro, ciò avviene perché l'amministrazione comunale è un'accolta di trafficanti, è un accozzo di cattivi cittadini, che non sa quali siano i suoi doveri, che nel suo operare va a tastoni, caso per caso, senza sapere donde parte e dove voglia arrivare. Non ci devono essere consiglieri centrali e consiglieri periferici; ci sono pochi consiglieri che fanno il loro dovere e hanno coscienza del loro compito, e moltissimi consiglieri che sono solo delle marionette. Il consigliere è eletto per tutelare gli interessi generali della città, di tutta la città. Se un servizio va male in un certo quartiere, non bisogna rivolgersi alla periferia per le doverose proteste: è tutta la città che è interessata al suo buon andamento. La politica cittadina è un'armonia, socialista o borghese; ma deve essere armonia. Ma c'è sempre un po' di mentalità irredentistica in questi uomini. Di quell'irredentismo piattolone, sermoneggiante, seccantissimo, perché non è la voce di un interesse universale espresso da uno spirito alto, ma è la geremiade guaiolante del politicantismo infecondo, del malcontento impaludato in una zona geografica e non vivificato in una superiore zona dello spirito. E il sermone è noioso, e il sermoneggiatore è seccante e tedioso. Non perché le cose che egli dice non possano anche essere vere, ma perché dicendole in quel modo egli le snatura, le falsa, le rende antipatiche. C'è un privilegio: egli non vuole abbatterlo per creare la giustizia. Vuole solo creare un altro privilegio in contrapposto; mettere una categoria geografica contro l'altra; creare due vampiri, non uccidere il vampiro che ora succhia il sangue della maggioranza. In verità questi signori non sono i rappresentanti della periferia; sono semplicemente dei trafficanti e, per di piú, dei trafficanti imbecilli.

(6 gennaio 1917)

FIGLIO DI POVERI...

Figlio di poveri e onesti genitori, come egli stesso ama ricordare di essere, ogniqualvolta vuol tagliar corto alle discussioni imbarazzanti, l'avvocato e professore Costanzo Rinaudo è riuscito a diventare col sudore dei gomiti, piú che coi frutti della sua intelligenza, quel che suol dirsi una personalità spiccata. La semplice elencazione dei suoi titoli fa spavento. A vederlo assiso tranquillamente al suo seggio di assessore delle finanze, roseo e paffuto, non si crederebbe che quell'uomo dalla voce melata e dall'aria di chi sopporta con rassegnazione il contatto impuro con le tante miserie che gli fanno corona, faccia tutto il lavoro che la sterminata quantità delle sue incombenze richiederebbe. Eccone uno specimen. L'avv. prof. Costanzo Rinaudo è assessore delle finanze di Torino, un comune che ha, secondo l'ultimo censimento, 476 000 abitanti. È presidente della commissione per la raccolta di fondi nel Comitato municipale per l'assistenza alla famiglia del soldato. È membro di cinque commissioni municipali, alcune delle quali molto importanti: commissione per l'istruzione, per la biblioteca, per la sezione Risorgimento, per la denominazione delle vie, per la sorveglianza sugli asili infantili sussidiati dal comune. Rappresenta il comune, come capoluogo di provincia, nella giunta provinciale per le scuole medie, e nella commissione amministrativa del consorzio universitario. È membro della commissione d'ordinamento del museo nazionale del libro, della R. Deputazione di storia patria, della commissione per il regesto di documenti storici sul Piemonte nel Risorgimento italiano, della commissione per l'assegnazione delle borse di studio per la R. Scuola superiore di commercio, ed è consigliere della Società nazionale per la storia del Risorgimento italiano.

Queste incombenze di carattere civico servono di contorno all'attività che l'avv. prof. Costanzo Rinaudo esplica, come professore di scienze sociali e di storia generale, alla Scuola di guerra, e come direttore della «Rivista storica italiana».

Tiriamo il fiato. L'attività del professore dovrebbe essere colossale. Consoliamoci per la sua salute. Il prof. Rinaudo lascia che in tutti questi uffici faccia il tempo che vuole. Essi sono altrettanti cadaveri imbalsamati, che puzzano solo di noia e di polvere sottile. Essi hanno però servito magnificamente al prof. Rinaudo; ecco la lista, incompleta, delle sue onorificenze: grande ufficiale dell'ordine equestre militare dei SS. Maurizio e Lazzaro, cavaliere della corona d'Italia, commendatore dell'ordine di S. Alessandro di Bulgaria, ufficiale della Legion d'onore, fregiato della medaglia d'oro dei benemeriti dell'istruzione popolare, dottore aggregato nella facoltà di filosofia e lettere.

Questo figlio di poveri e onesti genitori è davvero una personalità spiccata. Spiccata, ma ingombrante. Se si ripetesse in Italia ciò che è avvenuto in Grecia per il signor Venizelos, se si facessero sfilare per le vie di Torino tutti gli studenti ed ex studenti di liceo, d'istituto tecnico, di scuola normale, di ginnasio, di scuola tecnica che hanno dovuto svolgere il rispettivo programma di storia sui libri di testo del prof. Costanzo Rinaudo, e si concedesse ad ognuno di essi la facoltà di scagliare un sasso sull'emerito lavoratore del gomito, il prof. Costanzo Rinaudo sparirebbe sotto una montagna piú alta del Monte Bianco. È innumerevole la quantità di giovani ai quali questo illustre asino, compilatore pedestre e lautamente stipendiato di abborracciature scolastiche, ha fatto venire in uggia la storia. Egli ha sulla coscienza l'incretinimento intensivo di una ventina di generazioni scolastiche. Questo incretinimento ha fruttato al figlio di onesti ma poveri genitori un bel pacco di biglietti da mille, e uno stipendio fisso da parte delle case editrici Barbera e Vallardi. Costanzo Rinaudo è professore alla Scuola di guerra, dopo essere stato insegnante nei licei. Ha trovato l'impiego a lui piú acconcio. La storia per lui non è altro che un susseguirsi di guerre, di battaglie, di nascite e morti di regnanti. Il suo cervello è una cartapecora disegnata a fiches costellate di date e di nomi. Le sue infinite relazioni, le cariche che copre nei vari uffici e commissioni scolastiche, hanno servito al prof. Rinaudo a far imporre i suoi libri di testo nelle scuole. Chi ha dovuto studiare su essi, odia il loro autore, per il tempo che gli ha fatto perdere, per gli spropositi coi quali ha tentato di impaludargli il cervello. Le persone intelligenti hanno dovuto fare una bella fatica per dimenticare le corbellerie che l'autore dei famigerati testi di storia aveva fatto depositare nei loro cervelli. Il prof. Costanzo Rinaudo dirige la «Rivista storica italiana». Un fascicolo ogni quattro mesi, tutto di recensioni brevi e sciocche sulle ponzature storiche dei vari professori di scuole medie che adottano nelle loro classi i libri di testo del prof. Costanzo Rinaudo. Lusinghe e lodi ai maggiori spacciatori della merce avariata, malignita per quelli che si rifiutano all'onesto commercio.

Il prof. Costanzo Rinaudo, oltre che figlio di poveri ma onesti genitori, è anche un trafficante di prim'ordine. Si è servito dei suoi titoli accademici e delle sue cariche per spacciare i suoi almanacchi di storia. Pensionato dallo Stato come ex professore di liceo (4000 lire all'anno circa), professore ordinario alla Scuola di guerra (piú di 6000 lire all'anno), stipendiato dalle case editrici Barbera e Vallardi (media: altre 5000 lire, per essere molto modesti), si serve della sua carica di assessore delle finanze per imporsi una tassa di famiglia di sole lire 45,10 all'anno, neppure la quarta parte della somma che invece dovrebbe pagare.

E quest'uomo, che non ha mai fatto il suo dovere di uomo, che ha rovinato decine di migliaia di giovani, che di tutta la sua attività non ha fatto che un traffico sfacciato, per giustificare le sue accuse banali al proletariato, tira fuori la sua nascita da poveri e onesti genitori. Se provasse ad imitare i suoi genitori, e cessasse di asfissiarci con le emanazioni putride del suo cervello in deliquescenza, non sarebbe un bel guadagno per la scuola e per la vita italiana?

(8 gennaio 1917).

PICCOLI PROLETARI

Un redattore del «Momento» non può mandar giú che quattro bambinetti si ricordino ogni tanto dell'«Avanti!» e mandino qualche soldo alla sottoscrizione. Ma amore di tesi e spirito di contraddizione gli hanno giocato un brutto tiro; lo hanno trascinato lentamente su un piano inclinato, in fondo al quale c'è l'abisso dell'eresia. Già, al «Momento», malgrado la assidua presenza del canonico-censore, che ha l'incarico di reprimere le bestemmie che possono sfuggire dalla bocca dei tipografi e degli speditori, ed insieme quello di vigilare a che i giornalisti, di origini cosí varie e di un passato cosí compromettente, non violino i confini della dottrina cristiana, ad onta di tutte le varie benedizioni che piovono sovente, c'è al «Momento» un impressionante puzzo satanico.

Persino il critico artistico — Saverio Fino, Savio Fiore, Mario Valli, quanti nomi per... nessuno — si fa tirar le orecchie dai custodi severi della fede. In uno degli ultimi numeri della «Civiltà cattolica» il padre gesuita recensore scrive di un libro per la quarta classe elementare di Saverio Fino e Francesco Mattana (carino questo accoppiamento di un consigliere comunale e d'un direttore di scuole civiche, per confezionare un libercolo che avrà naturalmente larga diffusione nelle elementari cittadine) e dice: «Il libro dei proff. Fino e Mattana ha pochino, pochino di quella dottrina e pratica religiosa che deve supporsi in tutti gli alunni cattolici, e che è parte cosí necessaria all'educazione». Povero Fino; se lo sanno le suore che assistono e sorvegliano le sue lezioni di diritto negli istituti femminili clericali, non lo dipingeranno certo piú alle alunne come un modello di cristiano!

Diceva dunque il «Momento»: nei bambini la politica è difficile faccia presa...

Benissimo, tanto che potremmo quasi essere d'accordo. Sia la fanciullezza lieta, libera e spensierata; non si costringano i piccoli cervelli in schemi preordinati e le piccole anime si espandano al sole, alla vita, senza la cappa di piombo d'una dottrina o... d'una religione. Perché, se la politica è lontana dall'animo infantile... l'idea di Geova è incomprensibile addirittura! Parlare ai bimbi di un grande ideale di giustizia e di fratellanza, ohibò... ma rimpinzarne le testoline con il peccato di Eva, con la verginità di Maria di Nazareth, come con la paternità putativa di Giuseppe, ecco un metodo pedagogico meraviglioso, specialmente se il maestro è don Riva!

«Il pretendere che essi sappiano che cos'è la lotta di classe, è troppo». Certamente. Perché la vita del piccolo proletario è tale un tessuto di piaceri, di indigestioni di dolciumi e di caramelle, di scorpacciate di giocattoli, di visioni cinematografiche e teatrali, che sarebbe ben strano che essi facessero dei confronti, o che essi giudicassero male questa società che dà a tutti i fanciulli eguale porzione di affetti e di gioie! Il piccolo proletario che vede il babbo andare all'officina dalle sette del mattino alle sette della sera ed... ultra, che è lasciato dalla mamma solo in casa, ad arrangiarsi alla meglio, perché anche questa deve andare a fare la serva, la tessitrice, la metallurgica, che abita la soffitta o l'appartamentino stretto, e scuro, e sporco, che mangia molto pane unico e molta minestra e contempla molte caramelle... dietro le vetrine dei pasticcieri, che ammira i bei fantocci ed i cavalli e le vetturette meccaniche nelle mani dei coetanei, che sa quanto costano ai genitori le sue scarpette ed i suoi vestitini, non fa dei confronti, non ragiona, non pensa, non capisce quindi affatto che la sorte lo ha fatto nascere nella classe dei poveri, mentre altri nascono in quella dei ricchi...

II male è, amico s.s., che i bambini oggi nascono con gli occhi aperti. Il male è che al paradiso, dopo morto, piú nessuno aspira! E gli uomini che nella vita dovranno trovarsi di fronte, oppressi contro oppressori, e parteciperanno alle battaglie piú aspre per la difesa dei propri privilegi e la conquista dei propri diritti, cominciano ormai da fanciulli a squadrarsi ed a misurarsi. Ed i piccoli proletari mandano quaranta centesimi all'«Avanti!»; ed i piccoli borghesi dànno il loro obolo per la costruzione di un nuovo tempio, dove ancora possano i preti predicare la «rassegnazione» agli sfruttati, che minacciano, cosí di buon mattino, di ribellarsi.

(12 gennaio 1917).

LA MASCHERA E IL VOLTO

Stasi. Chi parla di stasi? Stasi per il movimento socialista; stasi per la propaganda; fermarsi del divenire sociale. Illusioni della realtà, cinematografia della realtà. Non si parla piú di certe determinate cose, non si fanno piú certe determinate cose: le apparenze della storia sono cambiate. Il bianco non vuol dire il nulla; la mancanza di documenti non vuol dire mancanza di storia. Gli avvenimenti che non lasciano di sé testimonianze dirette, hanno la migliore delle testimonianze quando sfociano clamorosamente in un effetto supremo, e si realizzano in esso. Ciò che noi conosciamo quotidianamente della vita è solo la maschera della vita; ci sforziamo di strapparla, questa maschera, di identificare il volto che essa nasconde. Sforzi vani. La maschera è un suggello inviolabile, giorno per giorno. Domani essa cadrà da sé, e noi sapremo ciò che nascondeva. Domani conosceremo ciò che le nostre opere hanno valso, come esse si sono ripercosse nel mondo, gli echi che hanno fatto risuonare. Vedremo di esse gli effetti consolidati, giudicheremo della loro fecondità. Oggi è silenzio, è bianco. Bianco sui giornali, bianco sulle piazze, bianco a Torino su ciò che si fa a Napoli, e a Napoli su ciò che si fa a Torino. Siamo ridotti, in questo grande mondo, a delle piccole molecole di vita, senza porte e finestre attraverso le quali ci arrivino i riflussi delle altre molecole. Ma la vita, raccolta, non è perciò meno vita. Anzi. La storia ha bisogno dì coscienze per realizzarsi. Il raccoglimento crea le coscienze. La mancanza di avvenimenti esteriori nell'avvicendarsi della storia, corrisponde sempre ad un periodo di maturazione di coscienze. La maschera di quei giorni è anch'essa bianca, scialba, inespressiva. Ma passano i giorni sconfortanti, ed appare la faccia radiosa della verità, della realtà. Si grida al miracolo, alla stranezza, i mistici vaneggiano coi loro inni all'inconoscibile. E non c'è miracolo, né stranezza. E non c'è stato sbalzo inspiegabile. Le molecole di nuova vita che erano andate formandosi, ognuna per conto suo senza splendori collettivi, senza scie luminose nel passato, si raggruppano, si avvicinano. È uno scintillare improvviso, che ha dei precedenti, che forse è nella natura stessa degli avvenimenti del mondo. Ma la gente volgare vuole l'ordine, vuole la continuità regolare. Per lei il bianco è il nulla, ci vuole l'evoluzione, ci vuole il progresso. Ha bisogno di vedere il seme deposto nell'humus, il suo sbocciare, il crescere della pianticella, l'erba che si irrobustisce in legno, che diventa albero e dà finalmente i suoi frutti, dolci o di tosto. E non vuole persuadersi che la società non ha di queste leggi determinate. Si meraviglia quando al posto della rosa spampanata, piena di apparente vitalità trova ad un tratto... il garofano rosso, che non aveva dato di sé fin allora testimonianze di vitalità cosí prodigiosamente fulminea. La gente volgare vuole il volto subito, e confonde perciò con esso la maschera attuale. La maschera che, barbarie orrida nel Medioevo, si è rivelata solo nella rigogliosa vita dei Comuni per il lavoro che era stato compiuto nella chiusa cerchia della vita artigiana. La maschera che oggi è il bianco della censura, e sarà domani la nostra trionfante rivoluzione.

(14 gennaio 1917).

CADAVERI E IDIOTI

È corsa voce — ed è certo uno scherzo malizioso, ma uno scherzo significativo — che la Selezione torinese del partito abbia stabilito nei giorni scorsi di non ammettere d'ora in poi soci che abbiano superato ne' loro studi la terza elementare.

Il «Corriere della Sera» si diverte a incrociare su questo spunto le solite spiritose frasi che piacciono tanto ai suoi lettori, anche quando se le son sentite ripetere per la centesima volta. Socialisti: idioti e nefandi; socialisti: proletari dell'intelligenza; socialisti: protozoi che si rivoltano alla superiore specie dei mammiferi; socialismo: manovali contro intellettuali; socialismo: analfabeti di tutto il mondo unitevi, perinde ac idiotus (come un solo idiota, traduzione ad uso dei nostri soci).

Pesiamo le parole. Idiota: parola nobilissima di origine greca. Idiota significa prima di tutto soldato semplice, soldato che non ha nessun gallone. Significa in seguito: chi pensa con la propria testa, chi è proprio, chi non si è ancora assoggettato alla disciplina sociale vigente. Quando questa mancanza di disciplina all'ordinamento sociale diventa una colpa, la parola incomincia ad assumere un significato offensivo. Ma in sé e per sé non racchiude nessuna offesa. Ha un significato sociale, non individuale. Idiota è chi è diverso, chi pensa e parla diversamente dalla maggioranza. Idiotismo è la parola o il modo di dire proprio di una regione, e non usato nella lingua letteraria o nazionale. Idiota, insomma, corrisponde a refrattario, per ciò che riguarda le relazioni sociali. Nefando: parola altrettanto nobile, di origine latina. Significa: chi parla come la divinità ha proibito di parlare, chi fa affermazioni proibite dalla legge. Due parole che hanno un valore prettamente democratico dal punto di vista sociale. Due parole che hanno acquistato valore offensivo quando la società, la legge, la disciplina sociale erano fondate sul principio divino, su una mistica concezione del destino che presiede all'accadimento dei fatti umani. Idioti e nefandi erano pertanto quelli che non credevano all'efficacia taumaturgica delle frasi fatte, dell'«Iddio l'ha detto»; del «la patria lo vuole», del «le leggi imperscrutabili che guidano l'umanità dicono», ecc., e pertanto operavano e parlavano con la loro testa, sbagliando talvolta senza dubbio, ma pronti a riconoscere lo sbaglio e a correggerlo, lieti se riuscivano a raggiungere un fine anche minuscolo, purché, anche nella sua piccolezza, fosse raggiunto con mezzi loro propri, fosse figlio delle loro opere e non della loro supina obbedienza alla volontà degli altri.

Idioti e nefandi: parole classiche che esprimono l'indipendenza di un piccolo gruppo di fronte alla collettività, di un individuo rispetto all'ambiente in cui vive. Che si contrappongono al cadaver dei gesuiti, al «credo quantunque sia assurdo, anzi appunto perché assurdo», all'ipse dixit (l'ho detto..., e basta, traduzione per i nostri soci) e a tutte le altre formule del pecorile asservimento alla verità rivelata, alla legge, voce di Dio, allo Stato, mistica disciplina per la realizzazione della volontà di Dio sulla terra. Intellettuali, sí, quando intellettuale vuol dire intelligente, e non tiranno per grazia del titolo di studi; seguire gli intellettuali, sí, quando seguirli vuol dire ritrovar in loro meglio chiariti, piú logicamente costruiti quei concetti e quei veri che ognuno sente in sé ancora indistinti. Ma non si vuol sacrificare l'intelligenza all'intelletto, l'indipendenza e la libertà propria all'intelletto degli altri. Quando si proverà che non avere titoli di studi voglia dire essere stupidi, che non essere pecorinamente schiavi voglia dire essere delinquenti, allora ci copriremo i capelli di cenere e ci batteremo il petto. Finora siamo persuasi che stupidi e cretini siano solo coloro che dànno alle parole quel significato che esse avrebbero se si riferissero a loro stessi.

Noi siamo piú classici di loro, e ce ne troviamo bene.

(17 gennaio 1917).

PROMETEO MONOPOLIZZATO

Prometeo è l'ignoto inventore del fiammifero. Prometeo è il simbolo dello spirito umano mai contento dei risultati ottenuti, che cerca sempre, migliora sempre, sostituisce continuamente il migliore al buono, l'ottimo al migliore. Prometeo è stato monopolizzato. Il fisco ha strangolato Prometeo.

Prometeo è lo spirito che soggioga il fuoco, e lo volge all'utile pratico. Il primo fiammifero è la sua torcia che trasporta dal cratere d'un vulcano, da un albero fulminato la fiamma che alimenta innumerevoli focolari. È il fuoco sacro, sempre acceso sotto il simulacro d'una dea, dal quale gli abitatori del mondo dispersi nelle campagne traggono la favilla, quando un acquazzone disperde il loro focolare. È la selce che urtata dall'acciarino alimenta l'esca; è il fosforo, finalmente, che vi permette di avere sempre in tasca cento possibili fiamme. Prometeo non riposa mai. Cento fiamme per due soldi sono troppo poche per l'utilità dell'uomo. Per il maggior benessere dell'uomo. Ritorna all'acciarino. Un pezzetto di selce (quella piú gravida di scintille), una rotellina d'acciaio (quello che meno si ossida), l'esca migliore (la benzina). Due soldi... trecento, quattrocento possibili fiamme. E lavora ancora. Il filo di platino autogeno accenditore del gas. Il filo di rame che sprigiona la scintilla piú a buon mercato: due soldi, un'infinità di scintille.

Prometeo, l'agitatore della luce, ha avuto fortuna. Il suo nemico, il fisco borghese, non era ancora nato. Il monopolio fiscale non ha, per fortuna, impedito un certo numero di sostituzioni. Saremmo ancora al fuoco di Vesta, altrimenti, e il fisco sarebbe capace di far sfilare ogni mattino i patres familias ad attingere la fiamma dal suo monopolizzato focolare, e solo da quello, per mantenere in pareggio il suo bilancio. Come domani sarebbe capace di far trainare le locomobili sui rigidi rulli, quando monopolizzerà la ruota, se Prometeo non avesse ai rulli, ai tronchi d'albero su cui i selvaggi fanno ancora rotolare i volumi pesanti, sostituito a tempo la ruota, la ruota a raggi, la ruota rivestita d'acciaio, la sottile ruota rivestita dallo pneumatico che ha dato lo schiaffo piú vigoroso alla legge della gravità dei corpi. Il fisco è lo strangolatore sempre in agguato. Ha vietato il filo di platino che fa risparmiare i cerini per il gas, ha vietato per un certo tempo l'acciarino automatico, e ora lo vieta del tutto perché troppo difficile da controllare alla gabella, perché contiene troppi fiammiferi, e la grave tassa imposta d'un colpo solo farebbe tramortire il povero contribuente. Il fisco è pesante, è filisteo come tutte le cose borghesi, ma è pesantemente, filisteamente furbo. Non vuol far morire di colpo il contribuente. Tre soldi ogni due o tre giorni, sono una goccerellina di sangue ogni due o tre giorni, venti, trenta lire per un acciarino automatico sarebbero troppo grande salasso: il fisco vieta l'acciarino, come ha vietato il filo di platino per il gas, come vieterebbe volentieri gli interruttori per la luce elettrica, se questa fosse di consumo proletario generale, e non fosse un quasi privilegio.

Il fisco è il nemico di Prometeo. Il monopolio borghese è lo strangolatore di Prometeo, dello spirito che tende a sostituire il migliore al buono, l'ottimo al migliore, affinché una sempre maggiore quantità di uomini godano del benessere, siano cioè piú liberi dai ceppi delle leggi naturali. Il fisco non è un liberatore; è un ragioniere che pensa al pareggio del bilancio borghese. Ecco perché Prometeo, che è rivoluzionario, è talvolta costretto a diventare contrabbandiere per rimanere se stesso.

(19 gennaio 1917).

LE CORNA DELLA LUMACA

Si sfoglia la guida. Per esempio si cerca nell'indice: Adolfo Colombo: pp. 914, 927, 959, 963. Prof. dott. Adolfo Colombo, incaricato della direzione del Museo nazionale del Risorgimento italiano, consigliere della Società nazionale per la storia del Risorgimento italiano, incaricato dell'insegnamento della storia e geografia nel liceo moderno M. d'Azeglio, ordinario delle stesse materie alla scuola tecnica Giulio.

La guida non dice altro. E tutto questo è troppo poco. Si vuol conoscere l'uomo, si vuol sapere di che tessuto sia il carattere dell'uomo. Ne vale poi la pena? Vediamo: il prof. Adolfo Colombo ha tenuto qualche sera fa una conferenza per conto dell'Università popolare sull'Inghilterra nel Risorgimento italiano, è stato nominato cavaliere per meriti acquisiti durante il periodo in cui si sta svolgendo questa guerra, che dev'essere l'ultima del Risorgimento italiano, fa parte dei vari comitati che controllano al fronte interno lo svolgimento di questo Risorgimento italiano. La guida dice troppo poco intorno a lui. Bisogna che se ne occupi la storia, o, almeno almeno, la cronaca che precede la storia di questo nuovo Risorgimento.

Noi amiamo le bestie. Perciò ci scappano volentieri dalla penna delle metafore zoologiche. È questo l'estremo onore che rendiamo agli avversari: li paragoniamo alle creature nostre predilette. Per Adolfo Colombo siamo stati un pezzo titubanti. Il suo cognome turbava il lavoro della concezione. Finalmente ci siamo decisi: il prof. Adolfo è un chiocciolone. Nobile animale il chiocciolone. Come il prof. Adolfo. Osservate, in autunno, lo sbucare di questi saporosi molluschi dai precordi della madre terra. Che andare maestoso, che superbo dispiegamento dei due tentacoli vibratili (volgarmente chiamati le corna della lumaca) che cercano di attingere il cielo. Il prof. Adolfo ha anch'esso proceduto cosí al suo primo sbucare di sotto il sasso dove misconosciuto digeriva i libri di testo da deglutire nelle aule scolastiche. E ha percorso il campicello pieno di verdore delle conferenze patriottiche, dei comitati per le iniziative patriottiche che preludevano all'ultimo Risorgimento. I tentacoli rimanevano pomposamente vibrati verso il cielo, non avevano ancora urtato neppure un sassolino che li facesse almeno rinfoderare in parte. Le classi giovani richiamate partono, prese nel turbine del gorgo che non perdona. Il prof. Adolfo vede il gorgo e sembra che si diriga con tutto il suo pavese al vento. Classi medie! Ahi!... un tentacolo si rinfodera, gocciolante di argentee perline: anche le chiocciole hanno i sudori freddi. Ahi!... sono i due tentacoli che lasciano spoglio di ogni venustà il musetto bizzarro. Il prof. Adolfo è stato dichiarato abile al servizio militare. Procede ancora un po' il chiocciolone, poi tutto il suo vischioso corpicino dispare nella casetta: il prof. Adolfo è stato riformato alla visita per ufficiale, e non crede decoroso per un uomo di tanti risorgimenti fare il semplice soldato. Chiuso nella sua casetta dalle pareti dure e impenetrabili, a chi vi bussa e domanda notizia delle vibratili antenne, risponde che ha altro a che pensare, che ha incominciato la cura per i calcoli alla vescica, o per il verme solitario, o per l'appendicite. Risponde che risorgerà, che scriverà sul Risorgimento, che parlerà dell'Inghilterra nel Risorgimento. Le antenne (volgarmente le corna) sono state messe a riposo: la casetta corazzata si adorna solo di una lucente croce di cavaliere.

E questa è la cronaca del Risorgimento, che servirà domani per la storia del Risorgimento, e che in bocca del prof. Adolfo sarà conchiusa nell'equazione patriottica: cavaliere uguale fantaccino. E chi vive si dà pace.

(20 gennaio 1917).

IL PRIVILEGIO DEL DIABETE

L'occhiuta tutela del doganiere vi ha sempre detto: chi usa saccarina è un delinquente. L'alto senno dei giudici ha sempre stabilito: chi usa la saccarina deve andare in galera. La sapienza ermetica della scienza ha concluso: la saccarina è un veleno. Le tre baionette fieramente inastate, dei tre corazzieri dello Stato, sono rimaste sempre puntate contro la gola dell'italiano. E la gola dell'italiano ha avuto orrore della saccarina, ha ripudiato la saccarina; e il cittadino italiano, nel suo civismo, ha condannato due volte il contrabbandiere: come frodatore del fisco, come untore della peste saccarinica. L'Italia era tutta una Verbicaro: la scienza aveva ridotta l'Italia tutta una Verbicaro, aveva rinchiuso il regno d'Italia in barriere piú salde che non siano i reticolati del confine, le barriere dello sproposito e della superstizione. Per sapere che la saccarina era innocua bisognava, nella Verbicaro-Italia, essere diabetici. La conoscenza della verità scientifica era in funzione del diabete, del maggior o minor numero di diabetici che aveva la ventura di accogliere nel suo seno la popolazione italiana.

Tutte le mele fradice degli orti italici [due righe e mezzo censurate] furono scagliate sugli scienziati tedeschi. Pfui, gli scienziati tedeschi. Pfui, la scienza tedesca asservita al militarismo prussiano. La scienza italiana è povera, ma onesta; è misera, non ha i laboratori, i gabinetti, i seminari della scienza tedesca, ma è disinteressata. La scienza italiana è fiera della sua indipendenza morale. Ripone solo nella ricerca della verità oggettiva lo scopo della sua esistenza, della sua attività. La scienza italiana non è ancella del militarismo aggressivo, è ancella del fisco. Si preoccupa del pareggio del bilancio statale. Riceve la parola d'ordine dai contabili del ministero delle finanze. Non pubblica manifesti collettivi per proclamare il buon diritto della nazione in armi; si accontenta per venti, trent'anni di seminare l'odio per la polverina, la paura degli untori.

Ora che il fisco deve rivendere lo zucchero sottocosto; ora che la mancanza dello zucchero irrita anche la proverbiale pazienza del contribuente italiano, e minaccia disordini, e rompe qualche vetro; ora la scienza italiana scopre che «gli esperimenti clinici e di laboratorio sulla saccarina, ed il largo uso che in altri Stati si fa di tale prodotto, escludono che esso sia di danno all'organismo». E cerca di disfare il lavorio già fatto, e fa pompa della sua funzione educativa sulle masse, e agita la fiaccola disperditrice delle tenebre e della superstizione. Il diabete: la malattia dell'organismo individuale; la carestia: la malattia dell'organismo sociale; senza di esse la scienza italiana non può rivelar tutta la verità. Una parte di essa deve rimanere nascosta nelle pieghe della coscienza scientifica perché il fisco non sia danneggiato, perché il contrabbandiere ucciso dal moschetto della guardia al confine, non appaia come chi libera dalla carestia, ma come l'appestato micidiale. C'è da persuadersi che l'unica opera sincera prodotta dalla scienza italiana sia il capitolo di un libro di Gina Lombroso: Elogio della malattia. Pfui, anche per la scienza italiana.

(23 gennaio 1917).

FRA ME E ME

A una svolta del pensiero il mio io si scinde in due parti: me e me, e tra me e me avviene questo dialogo:

— Credi proprio sul serio di riuscire a indurre il prof. Rinaudo a fare ciò che egli stesso sostiene essere dovere di ogni cittadino, e specialmente di quella categoria ristretta di cittadini che legifera, che determina in quali e quanti modi si concreta la piú elastica delle parole del vocabolario: il dovere? O non è tempo perso quello che tu dedichi al poco illustre magistrato, e per di piú tempo perso nel fare opera selvaggia, perché puoi ottenere l'effetto di far credere che il prof. sia la sola canaglietta che riscaldi i seggi del consiglio comunale?

— Distinguiamo. Non sono e non voglio essere il don Chisciotte della morale, della giustizia ecc. ecc., sebbene persuasissimo che queste virtú siano instaurate non solo nelle parole, ma anche negli atti dei singoli individui come della collettività. Esse sono parole elastiche, è vero. Ma per un borghese sono meno elastiche di quanto possa sembrare. Per un borghese che sia veramente cittadino del suo Stato o della sua città, morale, giustizia, rettitudine si concretano nella legge, per ciò che riguarda i rapporti scambievoli. Essendo il borghese uomo dell'ordine, come si dice, e non sovversivo, accetta le leggi del suo Stato e della sua città. Le accetta integralmente, perché non le combatte, perché non fa alcun tentativo per cambiarle, perché l'attività sua di cittadino tende alla conservazione e non alla sostituzione, alla rivoluzione. Ora osserva: il borghese fa le leggi, ma non le osserva, è impiegato, ma non lavora al suo ufficio, è ufficiale e non vuole andare alla guerra, è prete e non crede in Dio, è giudice ed è Casalegno. Il borghese tende con tutte le sue forze a diventare parassita delle sue idee, del suo programma, della sua nascita, della eredità di suo padre, della ignoranza dei suoi operai, della fama di suo padre, della indifferenza dei suoi amministrati. Il borghese vuole che le strade siano pulite, illuminate, che la patria sia difesa, che abbia molti cannoni, molti soldati, che la posta funzioni, che i treni vadano in orario, che molti poliziotti tutelino il suo portafoglio e tutte le altre infinite cose che gli assicurano il benessere attuale e cercano di portar questo al massimo grado raggiungibile. Bisogna spendere, bisogna sacrificare qualcosa, bisogna limitare questo benessere stesso per conservarlo e dargli incremento. Il borghese cerca di esimersi dal far ciò. Riversa sugli altri gli oneri, tiene per sé gli onori. Bene senza male, godimento senza sofferenza, luce senza buio. Egli ha cento. Tende a conservare tutti i cento. Gli altri hanno dieci. Cerca toglier loro tutto ciò che è possibile togliere, lasciando solo il fiato per respirare. Pone in contraddizione le parole coi fatti, il borghese col cittadino, col legislatore. Nessuno si cura di porlo in risalto, o meglio nessuno si cura di continuare a porlo in risalto fino a quando egli si vergogni, sia coperto di sputi. Allora bisogna al posto di borghese porre un nome: Rinaudo. Ci sono cinquantamila borghesi che non fanno il loro dovere, inteso come sopra. Questi cinquantamila si concretano in un breve gruppo: la giunta. Nella giunta uno, l'assessore delle finanze, ha la responsabilità diretta della imposizione delle imposte. Cogliamolo nell'atto in cui egli si crea il privilegio di non pagare le imposte. Per far odiare il privilegio bisogna cercare di far diminuire il numero dei privilegiati. Ogni non privilegiato odia il privilegio. Se l'assessore non fosse privilegiato, non permetterebbe che gli altri lo fossero. La tolleranza è il prezzo del crimine proprio.

Dopo queste parole me e me si stringono la mano e io, ritornato uno, continua nella sua strada.

L'omaggio al Rinaudo si concreta bene: qualcuno ha cambiato spirito di civismo in cinismo. La variazione può essere accettata.

(28 gennaio 1917).

PROFANAZIONI

Il pane di guerra - fatto con mani pure - è pane di comunione - dove è la Patria intera - transustanziata viva - come il corpo del Redentore - nell'offerta eucaristica - Anno di vittoria MCMXVII.

È l'iscrizione dettata da G. d'Annunzio per la medaglia ai panettieri che meglio preparano il pane di guerra. Per i cattolici l'iscrizione è una bestemia, una profanazione. Nelle chiese di Torino sono stati già celebrati dei tridui di riparazione; l'opinione pubblica cattolica ha protestato in tutte le forme; il D'Annunzio è stato perfino chiamato Rapagnetta, massimo insulto per l'esteta che ama le parole armoniose. Profanazione, sciocchezza. Profanazione per il cattolico, sciocchezza per il razionalista. Il razionalista non rinnega il misticismo. Lo comprende, lo spiega e, quindi, lo svuota del suo significato, del suo valore di propaganda. Il razionalista non disprezza il misticismo. Nega che abbia un'efficacia morale, un'efficacia costruttiva duratura e solida. Il misticismo è intuizione appassionata di una realtà fantastica, è fenomeno individuale, che nei singoli individui può determinare realizzazioni perfette di vita morale. Ma è individuale, non può assurgere a massima, a programma d'azione. È intuizione, non raziocinio. È incomunicabile nella sua vita profonda, e pertanto non può essere, diventando programma di vita, che stucchevole opera di scimmia, bigotteria volgare, sciocco e inconcludente verbalismo. D'Annunzio per i cattolici ha profanato, per essi ha fatto cosa scempia. Ha schematizzato il mistico atto della transustanziazione del Cristo nell'azzimo pane eucaristico, e lo schema ha applicato ad altre realtà: la patria oggi, come ieri e domani la donna, come sempre la parola. E la scempiaggine non è solo dannunziana: è dei cattolici, è dei monarchici, è dei repubblicani, è di tutti quelli che della mistica hanno fatto una massima d'azione e di propaganda. [Quindici righe censurate]. E per qualcuno può ben essere cosí. I santi esistono ed esisteranno; i mistici che bruciano in una fiamma di passione superumana tutte le scorie della loro terrena esistenza e assurgono a puro spirito, esistono ed esisteranno. Ma essi vivono questo misticismo e se ne consumano; non possono comunicarlo. Fare della loro vita una massima è scempio. Massima d'azione può essere la volontà, la ricerca, lo studio, la coerenza, la disciplina, non l'inconoscibile, l'oscurità, il lampo rivelatore, l'intuizione che sgorga dalle profondità dell'essere, senza seguire alcuna legge, senza presentare caratteri di uniformità. Chi ha per massima di vita il misticismo è una scimmia, non un uomo, è un retore, non un maestro, sia egli D'Annunzio, o il predicatore della chiesa cattolica, o il giornalista del trust clericale. È un imbroglione, incosciente qualche volta, quasi sempre cosciente del fine che vuol raggiungere. Profanatore D'Annunzio? Scempi imbroglioni D'Annunzio e i suoi fustigatori che si ricordano di Rapagnetta, ma ammirano quei famosi scocciatori che sono Paolo Bourget o Antonio Fogazzaro.

(29 gennaio 1917).

RIVOLGERSI ALLA PORTINAIA

Ho letto anch'io l'articolo del comm. Sebastiano Lissone sulle «colazioni, pranzi e cene di guerra». Ho voluto provare a fare economia, a spendere solo lire 2,03 o lire 1,02 al giorno, variando ogni giorno le vivande, arricchendo ogni giorno di fosforo ed azoto il mio organismo con pochissima spesa. Ho incominciato dalla colazione regime A: pane gr. 150, latte gr. 250, cacao gr. 10, zucchero gr. 20, e mi sono posto in caccia del pane e del latte, del cacao e dello zucchero. Dello zucchero specialmente: «Signore, mi può dare mezzo chilo, due etti, un etto, due soldi, un soldo di zucchero?» Quante volte ho ripetuto queste domande? Ho battuto tutta la città, ho speso qualche lira nel tramvai, ho consumato qualche centinaio di lire di pazienza e di energia. I pargoletti, le pargolette, gli ascendenti e i discendenti della rispettabile categoria degli esercenti, erano occupati nei retrobottega, nelle cantine, nelle soffitte, a confezionare pacchettini di zucchero da rivendere a un soldo e due soldi ai clienti che acquistano anche un chilo di pasta, o una bottiglia di marsala. Nessuna multa è possibile. Non è l'esercente che domanda l'acquisto supplementare. L'esercente risponde che non ha zucchero a chi vuole solo zucchero. Dà lo zucchero a chi ha prima acquistato un chilo di pasta avariata o una bottiglia di marsala. E il consumatore capisce l'antifona e si riempie la dispensa di pasta e di marsala, o rinunzia allo zucchero. Cosí non ho neppure potuto sfogare il mio malcontento concentrato in qualche sezione di polizia urbana. E stavo per rinunziare all'economia suggeritami dal comm. Sebastiano Lissone, se un fortunato caso non mi avesse posto sulla via buona. Deve capitare spesso il caso di cittadini che escono dai negozi tessendo ad alta voce lunghi soliloqui sullo zucchero, sulla saccarina, sui calmieri, sul diavolo che si porti i zuccherieri, confettieri, liquoristi, pasticcieri. Una donnetta si è avvicinata alla mia anima in pena. Mi ha compianto, e dietro promessa di assoluto silenzio e segreto, mi ha suggerito un indirizzo: via tale, numero tale, rivolgersi al portinaio; al tal piano una signora della buona società cede un po' di zucchero per favore, veh! solo per eccezionale favore, e alla clientela distinta. È vero, bisogna pagare cinque o sei e anche dieci lire al chilo. Ma si può avere fino a un chilo di zucchero. Non è poi pagar troppo. Per un soldo di zucchero a tariffa statale si perdono due, tre ore di tempo. Il tempo è denaro. Ecco che dieci lire diventa un prezzo di favore, di impagabile favore. Tutti se ne devono persuadere. Eppoi c'è il rischio della multa. Non che il pericolo sia troppo: le guardie hanno da pensare a tante cose, che difficilmente si preoccupano di simili bazzecole, ma il pericolo c'è e bisogna pagare anche il pericolo.

Cosí ho avuto un po' di zucchero, per l'interposizione di non so quante persone. E mi sono persuaso che i miei concittadini hanno un fiuto degli affari veramente ammirabile. I pargoletti, le pargolette, gli ascendenti e i discendenti dell'esercente, passano il loro tempo a dosare i pacchettini (carta a prezzo di merce) da un soldo e due soldi, un chilo di zucchero al giorno che permette di mettere fuori tutto lo stock della merce avariata in dieci anni di magazzino. Gli altri chili passano ai piani (rivolgersi al portinaio, con discrezione e segreto) e sono venduti a cinque o sei e dieci lire al chilo. I miei concittadini hanno il vero fiuto degli affari, piú che le guardie non abbiano il fiuto della volpe.

(6 febbraio 1917).

PASTORELLERIE

L'occhio dell'eminentissimo cardinale Agostino Richelmy, per grazia di Dio e della Santa Sede apostolica arcivescovo di Torino, s'è trovato quest'anno «in un gran numero di persone costernate e lacrimanti, che aspettano dal loro vescovo la parola del conforto». Benedetto occhio che si ostina a rimanere aperto, mentre l'altro si è già chiuso da un pezzo, lasciando cosí all'eminentissimo cardinale facoltà di vedere solo metà della vita, di non essere mai per un sí, o per un no, di tacere su una infinità di cose, di non dire ai fedeli che aspettano la parola decisiva che rischiari la loro coscienza, e dica loro se i pastori vogliono trarre il gregge all'abisso o all'eden di ogni dolcezza.

L'eminentissimo cardinale Richelmy deve essere, come si addice a un pastore di greggi, importante membro d'Arcadia. La sua pastorale è tutta una musica di agresti campanacci, il Gesú gli si trasforma tra le mani in un dilettevole giocattolo alla giapponese, buono per i perditempo: una scatoletta, e dentro un'altra scatoletta, e un'altra e un'altra ancora e finalmente il vuoto. Le persone costernate e lacrimanti aspettavano in fondo qualcosa che mitigasse la costernazione e le lacrime. Avevano ben diritto di aspettare che il loro pastore sceverasse dal cumulo di calcinacci del diroccato edifizio di Pietro le pagliuzze d'oro del conforto e della guida in questi tempi di atrocità e di miseria. Ahimè! L'arcade Richelmy ama le svenevolezze del madrigale; l'agnello di Dio è per lui un roseo agnellino infiocchettato di nastrini e ben agghindato di ricciolini, che bela amabilmente, senza che il suo belare diventi verbo di vita attuale, giudizio di cose attuali, norma d'azione attuale. «Come avremo cercato di conoscere i suoi desideri, di intendere i suoi insegnamenti, avremo trovato il riposo alle travagliate anime nostre». Ma dov'è il travaglio dell'anima dell'eminentissimo cardinale? Può essere travagliata un'anima di zucchero filato? Travaglio di arcade. Udite. Il cardinale Richelmy, mentre il suo occhio contempla lacrime e costernazioni per i fatti attuali, è tutto un dolore (oh! quanto lancinante!) per non avere preso parte all'ultima cena degli apostoli, o al succulento desinare delle nozze di Cana. Nessun altro rimpianto, nessun altro desiderio desta in lui la scorribanda melensa e incipriata attraverso la vita dell'«amabile» redentore, gli scritti del «nostro caro» Luca e del «dolcissimo» Gersenio. Aveva promesso di far godere «della presenza di Cristo, dei suoi insegnamenti, degli ineffabili suoi doni», ma si dimentica per istrada della promessa. Troppo pericoloso parlare di certe cose in questi momenti, quando la censura gratta a noi persino gli accenni alla pace contenuti nella messa che i cappellani militari devono pur pronunziare al fronte in cospetto dei guerrieri. «Sillaba di Dio non si cancella. La parola di Gesú è parola di Dio: beati i poveri di spirito... beati i puri di cuore... beati quelli che hanno fame e sete della giustizia... beati i pacifici... beati quelli che soffrono persecuzioni per amore della giustizia... Sii umile e pacifico e Gesù sarà teco». Questo dice, è vero, l'arcade lacrimoso; ma quanta zuppa per sí poco nutrimento; quanto sciroppo dolciastro per un granellino di vero evangelo, che può sentire di aloe e di mirra! Le persone costernate e lacrimanti sono ormai già addormentate (o in estasi, come si dice). «Gesú», che per un momento «si è allontanato dalla terra», ritorna, perché la sua lontananza potrebbe apportar lesione all'unione sacra: «Noi abbiamo Gesú in mezzo a noi». Gesú si è nuovamente incarnato; nell'Ente dei consumi, diretto dal nobile de Ferres, e nelle minestre dei frati: «non è forse Gesú che per mezzo dei suoi discepoli prediletti provvede ogni giorno al mantenimento dei poveri, all'educazione dei pargoli, al sollievo degli infermi, alla redenzione degli infelici negli ampli padiglioni della carità cristiana?» Gesú si è incarnato nel ministro che fa digiunare il venerdí anche i reprobi, e nel pittore Mauzan che ha dipinto l'affiche per il prestito nazionale: «Sottoscrivete al Credito italiano»; e specialmente nell'altro: «Sottoscrivete al Banco di Roma».

L'unico occhio rimasto aperto nella austera, ineffabile, serafica faccia dell'eminentissimo cardinale Richelmy, vede Gesú in ogni alberello del giardino arcadico che l'agreste campanaccio riempie del soave tintinnio. L'altro occhio rimane irrimediabilmente chiuso. E nel giardino arcadico, il nuovo ciclope di Dio suona l'arpa davidica. Come è tenero il concerto e come ineffabile. Possono piú domandarsi le pecorelle del gregge se il pastore le conduca all'abisso o all'eden?

(21 febbraio 1917).

LA TEGOLA

I sociologi vi dividono gli avvenimenti in due grandi categorie: avvenimenti logici, avvenimenti non logici. Avvenimenti logici: quelli che si possono prevedere; non logici: quelli imprevedibili.

C'è un gran numero di persone che ha interesse a dilatare la quantità degli avvenimenti imprevedibili. Chi non osserva i termini d'un contratto, chi, per aumentare i suoi profitti, non si preoccupa di seguire quella linea d'azione che l'esperienza ha dimostrato la migliore e la meno pericolosa per gli altri; costoro hanno interesse a sostenere la teoria, supinamente accettata dai piú, della tegola sul capo. Chi può prevedere, uscendo di casa, che cinquanta metri piú in là il suo capo innocente sarà situato nell'atmosfera proprio nella linea di caduta di una tegola? Certo chi esce di casa non può prevedere l'infortunio. Ma è poi vero che nessun altro potrebbe prevederlo? Per esempio, il padrone del tetto in cui era inserita la tegola, aveva ben l'obbligo di non lasciar trasformare il suo stabile in una trappola per i passanti, aveva ben l'obbligo imposto da un contratto tacito, ma non perciò meno esistente, di non lasciare che i sassi da cui egli trae un profitto, dirocchino uno a uno per scavizzolare i cittadini che non possono prevedere il malanno incombente. Ebbene: la teoria della tegola sul capo è accettata supinamente lo stesso, e gli interessati ne approfittano per fare il comodaccio loro.

Il sottotenente degli alpini, Carlo Mathieu, la sera del 17 febbraio nell'accendere la fiamma a gas della stufa del suo alloggio in via S. Francesco da Paola 27, non poteva certo prevedere che il giorno dopo la portinaia avrebbe trovato nel suo appartamento il cadavere di un asfissiato sostituto a una fiorente giovinezza.

Il sottotenente Mathieu non poteva prevedere, certamente. Aveva sempre pagato con puntualità le bollette. Aveva osservato il contratto, lui. S'aspettava che anche l'altro contraente lo osservasse. Avrebbe dovuto avere tutta la notte, nella sua stufa, il gas a un determinato grado di pressione. A quel determinato grado di pressione che è necessario perché la fiamma continui a bruciare, e non si spenga a un tratto, mentre la chiavetta è sempre aperta, e poi d'un tratto il gas ricominci a fluire, sottile, e invada la stanza, e chiuda la gola al respiro, e avveleni i polmoni, e riduca una giovinezza in un cadavere gonfio e paonazzo. Il sottotenente Mathieu non poteva certo prevedere che il secondo contraente di un contratto di apparente nessuna importanza potesse trasformarsi, per il mancato compimento di un dovere imprescindibile, nella morte silenziosa e senza scampo. Ma per il secondo contraente, per colui che per inveterata abitudine di frode non adempie mai ai suoi obblighi, c'è la comoda teoria della tegola.

Perché, si sa, non si poteva prevedere il cadavere. Perché, si sa, la pecoraggine supina delle possibili vittime della morte imprevedibile, non domanda mai che siano mandati in galera coloro che ora per ora, minuto per minuto possono, per un loro maggior profitto, prendervi alla gola e strozzarvi, anche se il cadavere ci sia, là, paonazzo e gonfio. Il cadavere, non diventa mai, esso, la tegola sul capo nel calcolo delle possibilità di chi non fa il suo dovere.

(23 febbraio 1917).

UNA SANTA

In un loculo della chiesa di Badia a Pacciano, posta nel piano di Canapale, a otto chilometri circa da Pistoia, giacciono da tempo immemorabile delle ossa. La tradizione dice che sono le ossa di una celeberrima santa, vergine e martire. Gli atti dei martiri, i documenti canonici, non parlano di una vergine e martire Settembrina che abbia finito i suoi giorni lacrimosi e lacrimati in Badia a Pacciano nel piano di Canapale. Ma la tradizione s'infischia dei documenti storici; sostiene che Settembrina è santa anche nel mucchietto d'ossa corrose che di lei (o di un'altra persona) rimangono, e adora. Ma bisbetica e bizzarra com'è, la tradizione finisce collo stancarsi, e il mucchietto d'ossa ridiventa materia sorda e inerte. S. Settembrina s'adira fieramente. E un bel giorno scompare. Il loculo viene trovato vuoto, il parroco di Badia a Pacciano nel piano di Canapale ha una rivelazione. La santa ha lasciato il suo sepolcro per protestare contro l'indifferenza dei badiesi. Il miracolo è accecante per il suo splendore. S. Settembrina non è mai stata tanto santa come in quel momento. Il loculo vuoto fa accorrere tutto pian di Canapale, tutta Pistoia, tutta Toscana... La Madonna di Caravaggio, quella di Pompei, quella di Loreto, vedono oscurarsi la propria fama e la devozione dei piú assidui fedeli. Non basta. A Torino, in corso Moncalieri, abita un pio uomo, che fa collezione di reliquie in una cappella privata, vera Casba di tutti i resti della idolatria mondiale. Il pio uomo ha anch'egli una rivelazione. Sull'altare della cappella è stato trovato dopo una notte procellosa, solcata da baleni piú lividi di tutto il livore della coorte infernale, un mucchietto d'ossa: sono quelle di S. Settembrina, che ha cercato rifugio e ristoro alla sua mala sorte nella città dalle mille chiese, nella città delle beghine danarose, che non esitano a rovesciare i calzini di lana sui banchi delle sottoscrizioni permanenti per il maggior incremento della santissima chiesa cattolica. Le ali della fama divulgano per il mondo la notizia. Strida di dolore sul piano di Canapale, osanna e alleluia in corso Moncalieri. La santa ha finito le sue peripezie. Si fa il processo canonico, che è un trionfo per lei. Il calendario si arricchisce di un nuovo nome. Torino ha una nuova chiesa, e un rigagnoletto d'oro di piú fluisce nella nostra città, benedetta dal Signore.

Cosí sarebbe successo. Invece no. La vergine e martire Settembrina non ha finito con le peripezie. Una mano ha turbato il normale e logico svolgersi degli avvenimenti. Perché il ladroncello anonimo ha proprio scelto nel mucchietto dei pacchi postali quello che conteneva una parte delle ossa canapalesi? Mistero della provvidenza divina. Dito di Dio, o coda del diavolo? Altro mistero imperscrutabile. Ma il certo è che il castello fondato sul mistero della traslazione è crollato. E le macerie hanno finito col polverizzare le ossa di Settembrina, che non è piú vergine né martire.

Lo dichiara don Soldi (si chiama proprio cosí), parroco di Badia a Pacciano, sul piano di Canapale. «Non c'è nessuna autenticità di questa religiosa, nessuna dichiarazione delle autorità ecclesiastiche, nessuna teca accertante che queste ossa fossero di S. Settembrina, della quale del resto nulla si sa». Cosí don Soldi al giornale «La Nazione» di Firenze. Settembrina è diventata pericolosa, dopo che l'anonimo ladroncello ha turbato il regolare svolgersi degli avvenimenti. Settembrina santa, vuol dire processo per sacrilegio, per profanazione, vuol dire punizione di parroci e di vescovi. Tutta la dialettica canonica si rivolge alla dimostrazione della non santità di Settembrina. Il calendario non avrà un nome di piú.

Tempi contrari per la religione quelli dei pacchi postali, con obbligo di dichiarazione del contenuto. Piú pericolosi se il «fossile di carbone» è diventato materiale prezioso. Una lacrima di piú sulle sbianchite ossa della povera martire di Badia a Pacciano nel piano di Canapale.

Nessuna santa è stata piú santa di lei. Perciò essa non arriverà piú alla gloria dell'altare e alla distinzione del calendario.

(5 marzo 1917).

RIAPERTURA D'ESERCIZIO

Neve, neve. Caroviveri. Caro carbone. Tristezza universale. L'animo abbiosciato, raggomitolato in se stesso, cerca di rimpannucciarsi, riscaldarsi d'ideale. Rincarato anch'esso. Anch'esso è raffreddato e starnuta. Uno starnuto con titillamenti nasali di riso che non trova un'uscita clamorosa. Una presina di tabacco: la lettura del redivivo fogliucolo di Girola Tulin. Girola Tulin ha riaperto l'esercizio. Girola Tulin, preoccupato della tristezza universale, ha voluto riaprire ai consumatori il suo bazar di paccottiglia polemica, perché qualche faccia almeno si rischiari di lietezza, perché qualcheduno almeno, per la speranza dell'enorme benessere, dell'infinita prosperità avvenire, dimentichi la miseria presente. Rivedremo nelle vetrine delle edicole giornalistiche la fatidica iscrizione: «Qui si vende la Patria». Rivedremo i cittadini fermarsi a meditare pensosamente dinanzi alle cinque parole stampatelle. Meditazioni melanconiche o argute, secondo i temperamenti.

Per me, la lettura di tutto ciò che è in dipendenza dell'intelletto di Girola Tulin è come una scatoletta di tabacco. Ne fiuto una presina ogni tanto, nelle giornate di maggior tristezza e di ideale raffreddato, per eccitare lo starnuto. Mi procura uno sfogo fisiologicamente benefico, l'attività intellettuale del nobiluomo Girola Tulin. Ho letto qualche giorno fa uno scritto di Giovanni Gentile. E vi ho trovato una espressione magnifica, a conclusione di una disamina profondissima dell'ideale nazionalistico: Canis nationalis, asinus universalis. Girola Tulin è il cane nazionale modello: cane da pagliaio, chiassoso, rumoroso, che abbaia alla luna, e cerca mordere irosamente i raggi che filtrano nelle fessure del tetto nazionale, crocchiando a vuoto i denti, riempiendosi la bocca di vento. È l'asino universale modello, perché non può vantare, come i suoi colleghi, altri titoli d'attività all'infuori di quelli che sono conseguenza della sua caninità nazionale. È l'asino universale modello, perché è piú ottuso e meschino degli altri, e perciò piú degli altri suoi soci è privo di comprensione dei valori umani e spirituali. È un pezzo di anatomia sociale immerso nel liquido isolante dell'imbecillità. È l'uomo di una sola opinione (non si può dire idea, perché l'idea è necessariamente universale), accessibile a tutti gli uomini, in qualsiasi latitudine e longitudine essi abitino. È l'uomo che non ha reciproco. Che non comprende gli altri, perché sono uomini ed egli è cane da pagliaio. Che non ha cultura, perché la cultura è saggezza, la saggezza è umanità, ed egli è un cane da pagliaio. Che non conosce la lingua, perché la lingua è patrimonio collettivo, ed egli non fa parte di alcuna collettività, perché è un cane da pagliaio, che latra alla luna quando i raggi furtivamente filtrano nelle fessure del tetto nazionale, e li abbocca a vuoto. È materia grezza, arida, che si può polverizzare e ridurre in polvere da fiuto per eccitare le papille nasali allo starnuto nelle giornate di neve, quando la tristezza universale rende plumbeo il cervello, e l'ideale è raffreddato. Lo starnuto prorompe clamoroso e alleggerisce beneficamente il cervello. E l'animo è grato al Girola da pagliaio per questo benefizio. E gli perdona anche l'iscrizione anacronistica che sarà costretto a rivedere per la riapertura d'esercizio: «Qui si vende la Patria».

(8 marzo 1917).

IL GOLIA, O DELLO SPIRITO

Vorrei scrivere un trattatello sullo «spirito» in genere e sullo «spirito» contemporaneo italiano in ispecie. Vorrei seguire nella trattazione il metodo che in geometria è il piú efficace: la dimostrazione per assurdo. Ho già, su un bel foglio di carta bianca, scritto il titolo del futuro capolavoro: Il Golia, ossia dello spirito. Ma mi manca qualche cosa, ed è di ciò che voglio appunto parlare nella speranza che un munifico Mecenate voglia sovvenirmi coi suoi quattrini per aiutare, in me, le patrie lettere.

Golia è un nome ed un programma. Golia è una entità geometrica, ed una entità spirituale. Per meglio dire: è diventata entità spirituale perché è stata prima entità geometrica. Golia era il piú alto dei filistei: Golia era, geometricamente, uguale a due o tre filistei sovrapposti. Il Medioevo tedesco ha fatto di Golia un'antitesi del filisteismo ed ha creato i goliardi: l'intelligenza contro la volgarità, contro la banalità, la rozzezza, l'ignoranza, dei filistei. La differenziazione geometrica è diventata differenziazione spirituale.

Ma i goliardi non sono i Golia. Golia rimane sempre filisteo, anzi il piú grosso, il piú voluminoso, il piú rappresentativo dei filistei. Rimane, non il gigante Nazir, il puro e consacrato al sacrificio, Sansone che non esita a morire egli stesso per distruggere il bestiame umano, crapulone e impuro, del popolo di filistei, ma la grossa bestia che soccombe per il colpo di sasso dell'agile e intelligente fromboliere, dell'uomo che è molto spirito in poca carne, molto cervello in piccolo corpo. Ma la grossa bestia filistea approfitta delle grosse bestialità degli altri uomini; il bue grasso è sempre l'ideale della Filiste moderna. Un torinese, un pittore tarpato, ha la ventura della vastità geometrica: egli diventa il bue grasso alla moda. La grossa bestia filistea rinviene dalla botta dell'agile e intelligente fromboliere; Golia si rialza. Come grande e massiccio! Il crapulone e impuro bestione umano accompagna coi «glu, glu» disgustosi della sua gola ricolma di rutti, il procedere goffo del rinato Golia. È la sintesi e l'esasperazione geometrica della sua rozzezza, della sua volgarità, della sua piatta banalità, il rinato Golia: sia posto sugli altari il rinato bue grasso. La tradizione di Casimiro Teja sia deturpata dai pupazzi di Golia: lo spirito sottile, leggero, la matita corrosiva di Casimiro Teja si affila alla lama smussata dai biglietti da dieci lire: il ventre si nutre di biglietti di banca, e non si accontenta piú di idee, di sincerità. Perde l'epigramma, è vero, ma il filisteo non è capace di epigrammi; è senza angoli il filisteo, perché gli angoli urtano troppe persone, e impediscono il giro delle cedole bancarie: il ventre non ha angoli che quando è semivuoto e comunica alla matita qualcuno dei suoi urli e dei suoi lancinanti stimoli a vuoto. Il filisteo dall'ampia cubatura geometrica protegge il bestiame della sua tribú, e si adagia comodamente alla mentalità della sua tribú, come il feto nel ventre materno, perché il cordone ombelicale porti il solito fiotto nutriente di sangue mestruale.

Ecco perché aspetto il contributo disinteressato di un ricchissimo Mecenate. Il mio trattatello platonico Il Golia, ossia dello spirito, è una dimostrazione per assurdo. È necessaria, per la mia dimostrazione, la riproduzione integrale della piatta volgarità di Golia, pupazzettata. Quale Mecenate vuole, per amore delle patrie lettere, ingozzare il ventre di Golia di biglietti da dieci lire, perché il mio capolavoro acquisti la massima efficacia possibile?

(13 marzo 1917).

GRANELLI

È incominciata anche a Torino la propaganda dei granelli.

La teoria dei granelli sta conquistando tutta l'Italia. La fortuna dei granelli è assicurata.

Intendiamoci bene sulle parole. I granelli non sono intesi nel significato che dà alla parola il vocabolario delle macellerie. Non c'è nell'uso che noi ne facciamo alcun sottinteso. La parola ricorre spesso in un manifesto che tutti possono leggere sulle cantonate. Il manifesto reca la firma anche di qualche gentile signora della borghesia intellettuale. Perciò il vocabolario delle macellerie non deve averci niente a che fare. I granelli hanno riacquistato un significato filosofico, evidentemente. I firmatari del nuovo manifesto sulla limitazione dei consumi sono tutti diventati dei loici inflessibili. La loro fantasia è tutta piena della figura logica che si chiama: l'acervus ruens (il mucchio che si forma). I granelli sono gli elementi logici del mucchio. Ogni mucchio è un aggregato di granelli. Ogni corpo è un aggregato di cellule. Riducete la produzione a semplice entità aritmetica: astraete dal complesso spirituale e storico che opera nel mondo creando un'armonia di intenti e di risultati logicamente combinati in una unità. La teoria dei granelli, come quella dei pezzetti di terra incolta, diventa subito una teoria affascinante e suggestiva, specialmente per le gentili signore della borghesia intellettuale, che non hanno avuto il tempo, per il cumulo di faccende che ha sempre occupato la vita delle signore intellettuali, di leggere un trattatello di economia, accanto ai romanzi di Marcello Prévost o di Antonio Fogazzaro. La fantasia economica galoppa. Il mucchietto si forma granello per granello dinanzi agli occhi interiori dell'immaginazione riscaldata dai purissimi affetti della carità di patria e della solidarietà di classe.

Il granello è, per esempio, un boccone di pane. Si può risparmiare, senza sacrifizio della propria conservazione fisiologica, un boccone di pane al giorno? Senza dubbio sí. Ebbene, pensate al mucchio. Un boccone di pane non è un mucchio, senza dubbio. Ma si può formare il mucchio senza l'intervento dei singoli bocconi di pane? In Italia ci sono almeno dieci milioni di individui che possono mettere da parte un boccone al giorno. Ogni boccone può pesare almeno dieci grammi. Sono cosí centomila chilogrammi di pane al giorno. Sono cosí trentasei milioni di chilogrammi all'anno. È un bel mucchio, nessuno può dubitarne. Sono almeno trentaseimila tonnellate di grano all'anno che si possono importare di meno ogni anno dall'estero. E cosí una infinità di altri consumi. Tutta l'Italia sarà un mucchio di granelli. Bocconi di pane, straccetti di cotone, zollette di zucchero, penne di canarino, chicchi di caffè, soldini del papà, mucchi, mucchi, granelli, granelli. Tutta l'Italia diventerà una rigatteria. Tutta l'Italia diventerà Porta Palazzo. I bocconi di pane biascicati dalle bocche di dieci milioni d'italiani diventeranno il viatico della nuova Italia gloriosa che il puerperio sanguinoso della vecchia Italia ha messo alla luce. I dieci milioni di bocconi di pane sono l'imbeccata amorosa che la vecchia mamma dalle poppe esauste dà al nuovo nato il cui vagito famelico ha delle tonalità nuove, che risentono di una musica meno infantile, d'una musica che ha qualche cosa del ruggito belluino.

La teoria dei granelli sta acquistando fortuna. Il significato della parola non può neppure far ricordare le macellerie. In questa parola non è rimasto nulla del ricordo «dei segni della maschia possa». Tutt'al piú può far ricordare i Granelleschi, la piacevole accademia veneziana, vistosa testimonianza dell'infrollimento in cui si sbatteva l'aulica virilità della repubblica dei dogi prima del suo tramonto inglorioso.

(19 marzo 1917).

«UMANITARI»

Siamo in dovere di esprimere all'illustrissimo signor cav. Donvito, segretario del defunto questore Domenico Carmarino, le scuse piú sentite. Riconosciamo il nostro torto e ne facciamo onorevole ammenda. Qualche giorno fa siamo stati ingiusti con l'illustrissimo cavaliere, arco di volta del palazzo di piazza San Carlo: non abbiamo compreso il significato dell'epigrafe murata a perenne ricordo del questurino umanitario. Questa parola «umanitario» è stata sulle prime come una botta in pieno contro la nostra coscienza e il nostro giudizio. Ci sono voluti alcuni giorni di meditazione e lo stimolo di qualcuno degli ultimi avvenimenti cittadini, regolarmente censurato, per arrivare a capire ciò che il cav. Donvito intendeva dire.

Come sempre, quando si tratta di interpretare un'opera di pensiero, occorre calarsi nel mondo interiore del cavalier Donvito. Occorre comprendere il meccanismo interiore del raziocinio questurinesco, l'ambiente storico in cui il questurino esercita il suo compito, le condizioni generali dello spirito pubblico italiano. Il questurino è diventato il giudice supremo della vita pubblica italiana. Egli è la verità assoluta, egli è la giustizia assoluta, egli è l'onniscienza e l'onnipotenza assoluta. Non sbaglia mai, non giudica fallacemente, non ignora mai nulla. Egli, quando è in piazza e deve affrontare un assembramento di dimostranti, conosce uno per uno gli individui cui si trova di fronte, sa quali sono pregiudicati e quali «fedina pulita», quali sono teppisti, quali galantuomini. Giudica con lucidità meravigliosa quali di questi dimostranti sono degni dell'esecuzione sommaria, e senza processo, senza accordare alcuna circostanza attenuante, dà subito luogo al carnefice, si sdoppia da giudice in carnefice, ed esegue la sentenza capitale. Egli è infallibile: nessun ricorso in cassazione è possibile contro di lui. Non esiste alcun istituto di controllo superiore che vigili sull'operato del questurino, che dia torto al questurino per qualche operazione compiuta. Egli è l'unto del Signore, è il piccolo padre della vita pubblica italiana. È arbitro, incondizionatamente, della vita e della morte dei cittadini italiani.

Ora riflettete: cosa non potrebbe fare il questurino, che pure non fa? Le strade delle città italiane potrebbero trasformarsi in ruscelletti di sangue; ogni cantonata potrebbe quotidianamente adornarsi di quadri futuristi, naturalisti, con pennellate di materia cerebrale, con brandelli di carne, con vivacissimi colori sanguigni. I cittadini potrebbero essere costretti a passeggiare catafratti, con l'elmetto e la corazza, per evitare gli urti poco piacevoli con le pallottole errabonde. E tutto ciò, per dire il vero, non succede. E allora vuol dire che i questurini sanno porsi dei limiti, vuol dire che hanno una coscienza, vuol dire che pesano pure e dànno un certo valore alla vita umana. Vuol dire, in conclusione, che essi hanno il diritto di chiamarsi scambievolmente «umanitari».

Siamo noi che abbiamo torto a non voler concedere loro questo attributo. Siamo noi che abbiamo il torto di essere poco saggi. La saggezza italiana è tutta conchiusa nella esclamazione: «fortuna che non era forcelluto» di quel saggio che, caduto su uno stecco, si cavò un occhio. Se lo stecco fosse stato forcelluto, il saggio si sarebbe accecato del tutto: la fortuna sua perciò era di incommensurabile valore. Noi siamo troppo poco italianamente saggi. Non vogliamo comprendere quanto grande sia la nostra fortuna per il fatto che siamo ancora vivi, ciascuno di noi individualmente. Non vogliamo comprendere che il diritto alla vita è una chimera, che noi siamo ancora vivi perché i questurini sono umanitari. È malinconico, e profondamente malinconico, dover fare di queste constatazioni di inferiore elasticità mentale, cosí come è profondamente melanconico scrivere intorno ad esse, pur di scrivere qualche cosa, pur di poter dare una qualche voce all'enorme passione che si strozza la coscienza.

(27 marzo 1917).

L'INCETTATORE

Si dice che esista una signora la quale volgarmente è nota col nome di Opinione Pubblica: essa è senza fissa dimora, come tutte le signore cui si addice la qualifica di pubbliche. Si conoscono solo gli indirizzi dei suoi Alphonses: i quotidiani borghesi, cui solo è permesso di essere gli amanti del cuore della nominata Opinione, cui solo è permesso farsi interpreti dei pensieri, degli affetti, delle aspirazioni della nominata Opinione. E i quotidiani borghesi hanno tutta la mentalità, tutta la cultura, tutto il raziocinio degli Alphonses da trivio. Non mancano neppure di quella tal natural furbizia sorniona che è propria dei cervelli elementari, Vedete come essi si comportano nelle varie contingenze della vita, ogniqualvolta la nominata Opinione Pubblica è violentata da qualche celebre personalità del mondo criminale. L'Alphonse avrebbe il dovere di rintracciare il violentatore e fargli pagare lo scotto: ciò rientra nel suo compito sociale e professionale. Ma entra in azione la sorniona furbizia naturale: l'Alphonse è un vigliacco, lo si sa, e non si arrischia in avventure pericolose. Quando potrebbe riuscire a identificare i colpevoli e a fissare fino al centesimo il loro debito, si rifiuta di porsi in caccia, e fa risalire la colpa al sistema. In questo caso il Sistema diventa un fantasma evanescente, poiché l'Opinione Pubblica è stata colpita solo indirettamente, poiché nessuno dei singoli cittadini potrebbe dire con esattezza come e per quanto è stato danneggiato. Il Sistema è stato, infatti, ritenuto il solo colpevole nella verificatasi e verificantesi vendemmia del pubblico denaro fatta dai fornitori militari. Era facile sapere chi aveva fatto dei contratti con lo Stato, era facile sapere fino al centesimo di quanto l'Erario era stato diminuito coi sopraprezzi, con i contratti non osservati, ecc. Esistono i contratti, infatti, ed i contratti necessariamente presuppongono dei contraenti bene individuati. Ma è pericoloso risalire alle persone, quando queste sono identificabili: si concreterebbe lo stato di disagio, lo si oggettiverebbe: e ciò evitano di fare con ogni cautela i quotidiani borghesi. Succede un altro fenomeno: spariscono dalla circolazione gli spezzati; i singoli cittadini sono colpiti ognuno individualmente, cioè lo stato di disagio è questa volta concreto nei singoli, è oggettivato nelle angherie o nei disturbi, nel non poter comprare, nelle perdite di tempo che ogni singolo deve sopportare. Evidentemente un fenomeno come questo, complesso, farraginoso, non può dipendere dalla cattiva volontà di singoli trafficanti: esso è veramente in dipendenza con un sistema, con uno stato di cose generali. Basta pensare che Torino non produce per lo scambio interno o con l'estero, ma produce per lo Stato; che lo Stato paga in carta, che la città consuma ed importa dalla provincia, e che lentamente l'argento se ne va fuori di città per pagare il consumo, e viene sostituito dalla carta con cui lo Stato paga i consumatori. Ma in questo caso far risalire la colpa del disagio al sistema è pericoloso per i benpensanti Alphonses. In questo caso il sistema non sarebbe piú il fantasma evanescente di cui sopra; in questo caso il sistema si concreterebbe nelle perdite, nei fastidi, nelle angherie che i singoli debbono sopportare. Allora si grida all'untore, all'incettatore: perché si sa benissimo che egli non può essere rintracciato; perché si sa benissimo che per rintracciarlo bisognerebbe impedire che al mercato di Porta Palazzo vengano a vendere i produttori del contado, che i viaggiatori viaggino, che i forestieri vadano via. Perché si sa benissimo che mentre sono mille e mille i rivoletti per i quali gli spezzati possono lasciar Torino, non c'è nessun fiume che li riporti, perché il fiume regale, lo Stato, è in periodo di secca. Gli Alphonses sanno tutto ciò, e perciò gridano all'untore: la folla crede sempre un po' agli untori, fino a quando almeno il lazzaretto non sia piú capace di contenere ammalati.

(29 marzo 1917).

SERIETÀ

È incominciata la settimana di Passione. Passione di Cristo nelle nenie catarrose dei vecchi parroci e delle beghine tabaccose, passione dei bambini e dei giovinetti che i familiari costringono a compiere quelli che si è soliti chiamare doveri religiosi. Li abbiamo già visti per la strada molti di questi bambini, candidovestiti, con la palma nelle tenui dita, testimonianza vivente della vanità delle loro madri. E fra di essi c'erano anche dei figliolini di proletari, e forse fra di essi c'era anche il figliolino di qualcuno di quei proletari che piú strillano di anticlericalismo e di laicità. Non potremo mai abbastanza ripetere ai nostri lettori che essi hanno specialmente il dovere di porre d'accordo la teoria con la pratica. E non si tratta di settarismo né di costrizione della libertà di alcuno. Si tratta di una pura e semplice questione di serietà. È necessario che anche l'uomo partecipi alla vita familiare per ciò che riguarda l'educazione dei figli, e non lasci alla donna il monopolio della formazione intellettuale e del carattere dei bambini. E vi partecipi con le sue idee e i suoi principi, che, essendo improntati allo spirito di libertà, non possono che giovare all'educazione delle nuove generazioni. Lasciare che la coscienza dei bambini sia manipolata dai preti, sia invischiata di vanità, di pretismo, di lacrimoso spirito cristiano è un permettere che i bambini soggiacciano ad una violenza. Per una falsa concezione della tranquillità domestica si lascia da molti che ciò avvenga. Tranquillità domestica prende il significato di poltroneria. Poltroneria dell'uomo che rinunzia al proprio compito di educatore, che rinunzia alla verità delle sue idee, che rinunzia alla sua coscienza per evitare qualche piccolo attrito, per evitare una discussione. Mentre non sarebbe difficile trovare un accordo tra l'uomo e la donna sui criteri generali da seguire per l'educazione interiore dei figlioli, sulla base della libertà piú ampia di coscienza. I figli dei proletari devono essere lasciati liberi di poter scegliere nell'età piú matura la via che meglio loro aggradi; nessuna ipoteca sul loro carattere, sul loro avvenire. Si diano loro gli elementi per poter meglio e con maggior sicurezza scegliere. Ma siano elementi di pensiero, non vane vistosità di cerimonie esteriori. Il pericolo è qui appunto: che non si dà ai bambini una vera educazione religiosa, ma li si abitua solo ad appagarsi di pompe vane, di vestitini, di palme, di ipocrisie.

I padri di famiglia proletari devono cercare di impedire che continui questa azione antieducativa delle cerimonie religiose. È un loro dovere categorico. La settimana di Passione di Cristo non deve essere la settimana di passione della coscienza della fanciullezza, indifesa dalla poltroneria di quelli che invece dovrebbero difenderla.

(3 aprile 1917).

LETTERATURA ITALICA: 1) LA PROSA

In un paese dell'Ungheria. Max Nordau entra in una botteguccia del quartiere ebreo. Domanda un francobollo. Una donna, rivolta a uno che sta nel retrobottega, domanda nel gergo spagnolo degli ebrei balcanici: «Dove sono i francobolli?» Max Nordau domanda: «Parlate dunque spagnolo?» «No — risponde la donna — io parlo giudeo». Leggendo l'ultima lettera aperta di Stenterello Cesare Foà ai giornali, abbiamo capito l'intimo significato dell'aneddoto e della campagna che l'egregio avvocato Cesare Foà (via S. Massimo 44, cioè quartiere del ghetto, di felice memoria) conduce con furore rabbioso contro i tedeschi e contro l'imbastardimento della lingua di Dante.

Abbiamo pubblicato un documento della prosa dantesca dell'avvocato italico; abbiamo ammirato la copiosa messe di solecismi, di idiotismi, di ellissi di soggetto, di verbo, di senso comune, che l'egregio riscosso italico (via S. Massimo 44) era riuscito a cogliere in appena quattro righe di cartolina illustrata. Ora comprendiamo. Se qualcuno si permetterà di domandare all'avvocato riscosso: «Dunque ella scrive italiano?», siamo sicuri che egli risponderà: «Italiano? Ma no, io scrivo la lingua di Dante». Strano destino quello dei figli d'Israele. Nella penisola balcanica non sanno di parlar spagnolo, ma conservando un briciolo almeno della loro dignità di stirpe, chiamano il loro gergo spagnolesco «giudeo». In Italia, essendosi italicizzati («noi latini, noi civili latini») e avendo trovato nell'antitedeschismo la bigoncia per le loro profezie («chi è stato austriaco lo sarà per omnia saecula saeculorum»), chiamano il loro gergo «lingua di Dante», con evidente confusione di Dante col Burchiello.

La cultura di Stenterello Cesare Foà è tutta piena di queste confusioni. La cultura non può essere Kultur, già, si capisce, ed essa, come non bada, nello scrivere, ai solecismi, agli idiotismi e alle minori sgrammaticature, cosí non bada, nella storia, agli anacronismi e alla sostituzione di persona. Tutto diventa burchiellesco negli scritti stenterelleschi.

Arrigo VII diventa figlio di Federico Barbarossa, per esempio, e le sue reliquie estreme vengono fatte riposare a Palermo in luogo sicuro da «quegli Unni vigliacchi». Ciò dimostra la profonda conoscenza che Cesare Foà ha degli scritti di Dante, e come egli abbia letto la Divina Commedia e le Epistole, in cui Arrigo VII viene chiamato «agnello di Dio», e vien detto come Dante gli abbia baciato i piedi (orrore, Dante che bacia i piedi di un imperatore tedesco e ne invoca la discesa in Italia, e venuto lo chiama «agnello di Dio»), e come Cesare Foà, il rivendicatore della cultura italica, conosca la cronologia della storia italiana, per far nascere Arrigo VII, contemporaneo di Dante, da Federico Barbarossa vissuto circa duecento anni prima, e per farlo morire in Sicilia, quando al dominio svevo in Sicilia era già succeduto il dominio angioino, e dopo ancora quello aragonese, e nell'impero germanico stesso la casa Sveva si era spenta e l'imperatore era non svevo, ma lussemburghese.

Cosí Stenterello alla Kultur sostituisce la cultura; cosí Stenterello alla lingua italiana, cosmopolita, sostituisce la lingua di Dante, trasformata in gergo giudeo; cosí Stenterello Cesare Foà, facendo italico il ghetto, sostituisce alla concreta e perspicua cultura italiana la biblica confusione di Babele, per dare il colpo di grazia al germanesimo, che ha oscurato, con le oscurità del pensiero nibelungico, la sana tradizione italica di Pitagora e di Ezechiele.

(17 aprile 1917).

LETTERATURA ITALICA: 2) LA POESIA

Il poeta Arturo Foà, crudelmente offeso per un nostro accenno poco riguardoso alle sue versificature, ci ha inviato il suo ultimo volume Mentre la guerra dura, per provarci che la «sua anima paterna può essere tranquilla». «Ho aperto con trepidazione i miei libri di canti. Che i miei versi, nati puri dal cuore, si fossero corrotti nelle pagine stampate come figli traviati per le bettole del mondo? Ma i miei versi non mi avevano tradito. Ragionavano, serenamente, della vita e della morte e della vanità di molti discorsi umani».

Abbiamo letto il nuovo volume del poeta: e vi abbiamo infatti trovato molte vanità. Novanta pagine in ottavo: due di indici, 44 bianche, 44 stampate, e di esse 21 stampate solo a metà (cronaca esatta, per evitare polemiche incresciose). La nostra fatica non è stata grave, e di ciò siamo grati al Poeta; il miglior ragionamento sulla vanità dei discorsi umani non può essere che il bianco volontario: 44 vani e 21 semi-vani: è tutto un palazzo moderno, da mobiliare utilmente da quell'inquilino-lettore che abbia a propria disposizione i mobili sufficienti. I figli, nati puri, del Poeta hanno un bel fare: non riescono ad occupare tutto. Perché questi nati puri, benedetti figliuoli, sono bene educati, molto bene educati; camminano lentamente, composti, pallidini, perché il papà li nutre solo di marzapane e di chiaro di luna. È molto se riescono ad occupare 23 vani e 21 semi-vani; si stiracchiano, gonfiano le gote, ricoprono le sparute personcine di lunghe, arricciolate strisce di coriandolo, ma non basta. Sono troppo sottili, evanescenti, indeterminati: hanno tutta l'aria di vanità che riempiono le vanità di fantasmi di nebbia che sfuggono dalla finestra aperta, sotto l'azione del bel sole primaverile, a ogni apertura di libro. Povero papà! quanta pena deve soffrire per tenerli in casa, per impedire che vadano a traviarsi per le bettole del mondo. Ma non peni troppo: si traviano solo le persone robuste e in buona salute; le creature di ricotta non bevono vino, per incompatibilità di carattere: scoppierebbero al primo bicchiere, i poverini.

Non si offenda crudelmente, di nuovo, il Poeta. La lettura del suo nuovo libro, non può farci cambiare di parere. La poesia non è migliore della prosa, nella nuova letteratura italica di guerra. Ha questo di diverso: la lingua non è ridotta a miscuglio putrido di fondo da rigattiere; non ci sono errori di sintassi; le sgrammaticature sono nel pensiero, nell'immagine; le incongruenze sono nella fantasia, nel barocco modo di concepire del Poeta, che non avendo niente da dire, avvolge questo niente in ampollose amplificazioni verbose, e finge di essere un lago profondo intorbidando il limo retorico nella pozzanghera batracica del suo ingegnuccio.

La profondità consiste, per esempio, nel dire che la regina dei belgi guarda il suo popolo nei propri occhi (vedere qualcosa nei propri occhi è un colmo di strabismo, profondissimo); nel dire che un popolo, fattosi invio, viene spezzato, ma si rimpietra nei cuori, per quindi diventare canto d'epica; nel dire che le calze preparate dalle signorine pietose, conterranno tra maglia e maglia una parola che tremerà sul cuore dei soldati come un bacio; nel dire che in un'urna «c'è chi c'è» e che gli occhi sono «armati come l'armi». Le trenta pagine di nati puri, non traviati nelle bettole del mondo, sono piene di questi profondamente stupidi preziosismi. Poveri nati puri, che casa è la vostra; nessuna bettola del mondo riuscirà ad accumulare tutto il pattume poetico che insozza la vostra purezza. «Piangere nel pianto che uno piange»; «i lunghi oggi d'Egitto» che sono per di piú «grandi, umidi, profondi»; «le chiome» che sono «di neve», i viaggi «fantastici», le diane «fresche», le nevi « gelanti», la sera «molle e pallida», l'amore «amante», l'ombra «simile a una larva», tutte queste immagini sono di una fresca purezza che incanta. E non parliamo dei singhiozzi onomatopeici, ottenuti con bisticci di questo genere: «E siano i figli che verranno i miei — e siano i tuoi, e non i miei, ma i tuoi», e coi «te, te, te, tu, tu, tu» graziosissimi, in fine di verso. La purezza dei nati puri si potrebbe ancora salvare. Ma quale mai tiro birbone ha giocato al Poeta questa sua sdilinquita indeterminatezza, questa spappolata ricotta che gli tiene luogo della fantasia? A pagina si troviamo questi versi: «Già pende una dritta spada — di notte, quando ti risvegli e stai», senza soggetto espresso, ciò che, facendo almanaccare il lettore, può trarlo a identificazioni un po' impoetiche, specialmente per il fatto che nella stessa poesia si parla di una «Gemma» che «Come è nuova, e come è bionda!» Ma non c'è da meravigliarsi. La retorica bolsa fa spesso di questi tiri birboni ai suoi discepoli diretti, specialmente a quelli che di piú tenero amore la amano, che piú volentieri diguazzano nel truogolo del sentimentalismo fatturato. Il sentimentalismo e la pornografia sono fratello e sorella; la seconda non è che la necessaria conseguenza del primo. O figli puri, non fidatevi dei poeti che ripetono troppo spesso di essere puri, di non frequentare le bettole, di nutrirsi solo di marzapane e di chiaro di luna.

(19 aprile 1917).

I CATTOLICI SONO INCONTENTABILI

È successo questo fatto. Mentre «un corteo di pie persone che accompagnava il Santo Viatico per la Pasqua degli infermi» passava dinanzi alla scuola De Amicis, dove sono acquartierati i bersaglieri ciclisti, alcuni soldati, dalle finestre, hanno «insultato con villane imprecazioni» i passanti. I cattolici sono fuori dai gangheri contro questi soldati, «villanzoni, disgraziati, senza educazione, ignobili», e domandano che i superiori distribuiscano loro una congrua razione di consegne e di carcere militare.

Comprendiamo perfettamente la santa collera dei cattolici. Si è mancato di rispetto al loro totem, al loro tabú. In tutti i paesi di questo mondo, i seguaci delle innumerevoli religioni, gli osservanti degli innumerevoli culti, vanno infallantemente in collera quando si insulta i loro totem e i loro tabú. E in tutti i paesi esistono delle leggi che puniscono chi gratuitamente manca di rispetto ai simboli della fede degli altri. Ma tra gli altri paesi del mondo e l'Italia c'è questa piccola differenza. Negli altri paesi non si può insultare, è vero, ma non è neppure obbligo riverire e prostrarsi. I simboli hanno valore per i fedeli, i totem ed i tabú sono tali solo per i praticanti il loro culto, non per tutti. In Italia invece il totem dei cattolici deve essere riverito da tutti; i soldati hanno l'obbligo di prostrarglisi, hanno l'obbligo di immaginare che in esso sia davvero sustanziata una divinità. Hanno l'obbligo di rimanere seri, di non sghignazzare, mentre portano la mano al cappello, mentre presentano le armi ad un oggetto materiale, a un piccolo oggetto cui assolutamente il loro cervello, la loro intelligenza si rifiuta di prestare alcuna virtú taumaturgica, alcuna vita trascendentale. La libertà di non riverire, di non prostrarsi, si vendica però alla prima occasione. Obbligano a dare veramente importanza ad una cosa che non ne ha affatto. La cosa acquisterà importanza non solo per il saluto, ma anche per l'imprecazione. La preghiera e la bestemmia sono le due facce di una stessa realtà: la incomprensione dell'inconoscibile. Si prega perché c'è l'abitudine di credere; si bestemmia perché c'è l'abitudine di non credere.

Anche l'imprecazione è un omaggio alla divinità: è una forma di polemica, è un'abitudine polemica. I cattolici vogliono imporre l'adorazione del loro totem, quando possono, quando riescono a dar peso giuridico alla loro particolare forma di superstizione, impongono il saluto, la preghiera, la pratica religiosa. È naturale che chi subisce l'imposizione finisca per dare una certa importanza al totem e non riuscendo a dargli importanza positiva, gliela dia negativa e lo imprechi: il fatto è che una certa vita gliela dà, il fatto è che finisce per riconoscergli una certa autorità. Perché mentre impreca al totem dei cattolici, non impreca ai sassi delle vie o agli alberi dei viali, ciò che vuol dire che fa distinzione tra il piccolo oggetto materiale tabú e i sassi e gli alberi.

Pertanto, i cattolici hanno torto ad andare in collera contro i «disgraziati» bersaglieri ciclisti. Probabilmente i «disgraziati» bersaglieri erano da poco ritornati dall'audizione sorda di una messa coatta. Non avevano sentito il totem in chiesa per venerarlo; lo sentirono in istrada per imprecarlo.

Lo scopo dei cattolici era ad ogni modo raggiunto: far sentire il loro totem. Essi sono davvero incontentabili, lamentandosi. Si sa che la vita è un continuo compromesso. Un gruppo vuole imporre ad un altro gruppo una sua particolare credenza: riesce a imporne solo una parte, come è naturale che sia. I cattolici sogliono imporre di sentire venerando: ottengono di far sentire imprecando; conquista positiva è il far sentire. Non siano incontentabili.

(22 aprile 1917).

È TROPPO, È TROPPO...

L'on. Giovanni Zibordi ha inviato al ministro delle finanze, on. Meda, questa interrogazione:

Il sottoscritto interroga l'on. ministro delle finanze per sapere se, in vista dei molteplici cespiti di lucro che lo stato d'animo creato dalla guerra ha apportato alla Chiesa, e in considerazione delle numerose forme di speculazione sui rischi di guerra che la Chiesa stessa ha iniziato e va esercitando col richiedere alle famiglie oboli votivi in cambio di funzioni propiziatrici della divina grazia per la incolumità dei loro cari combattenti, non intenda che sia da estendere ai sacerdoti la imposta sui sopraprofitti di guerra.

E l'interrogazione, naturalmente, ha fatto saltare la mosca al naso a uno scrittore del «Momento», al piú intelligente cretino dei redattori del «Momento», che, per essere originale, come si conviene alla sua natura di spiritoso scrittore peregrino suggeritore di idee ai lettori, ripete i soliti banali insulti della piazza interventista contro il compagno Zibordi.

Ma non riesce a obiettare alcunché di concreto alla proposta. Perché non c'è niente da obiettare. Le funzioni ecclesiastiche propiziatrici hanno un doppio carattere. Sono atti di fede, e in quanto tali sono gratuite, perché il nostro anticlericalismo non può arrivare fino al punto di credere che i cattolici vendano la religione come religione. Ma esse sono anche dei fatti economici. Le funzioni religiose domandano anche un certo consumo di energia vitale e occupano del tempo. I fedeli non pagano gli atti di fede, ma pagano questa energia vitale e questo consumo di tempo, i quali per effetto della guerra sono rincarati, valgono di piú nel mercato. Posta la questione in questi termini, i cattolici non possono offendersi dell'interrogazione Zibordi. È vero o non è vero che le funzioni religiose attuali contengono tanto di religione quanto ne contenevano nel periodo anteriore alla guerra? È vero o non è vero che queste funzioni attualmente costano di piú, molto di piú, e che il lucro dei sacerdoti è aumentato in modo impressionante? Anche se i sacerdoti volessero guadagnare di meno, essi non lo potrebbero: è il mercato che impone i prezzi, non i singoli individualmente. A questo malanno ovvia la legge dei sopraprofitti, che va incontro alla volontà di non guadagnar troppo dei singoli, che non riescono a reagire contro le leggi ferree del mercato. E i sacerdoti devono essere anzi contenti di essere tassati: essi non vendono la religione, la quale non può essere pagata in quattrini perché è un tesoro impagabile, e non possono credere che il loro tempo e la loro energia vitale valga, a tariffa oraria, cento volte piú del tempo e dell'energia vitale degli altri poverelli di Cristo che lavorano nei campi e nelle officine. E inoltre saranno contenti perché il troppo guadagno abbassa il livello morale della categoria e spinge troppi pievani a farsi, inconsapevolmente, accaparratori di spezzati d'argento per riempire le calzette di lana.

Siamo sicuri che queste nostre parole ridaranno la tranquillità agli animi esacerbati degli scrittori del «Momento», i quali non ci ripeteranno la solita frase: È troppo, è troppo!

(6 maggio 1917).

IL GRANCHIO E LA MARMOTTA

Russia contro Inghilterra: l'elefante contro la balena. Germania contro Inghilterra: la tigre contro il pescecane. Gli storici e gli aedi hanno descritto e cantato questi antagonismi. Guglielmo Ferrero si è già accinto da un pezzo a ricercare le leggi storiche che si possono sorprendere in questi perenni antagonismi tra l'aratro e il tridente, tra i mostri di terraferma e i mostri acquatici. La storia italiana darà molti documenti in proposito: dall'antagonismo tra Roma e Cartagine a quello di palpitante attualità tra il Piemonte e la Liguria.

Non è colpa nostra se le montagne del Piemonte e il mare di Liguria non hanno la fortuna di albergare nelle loro caverne e nei loro baratri dei mostri quali l'elefante o la balena. L'antagonismo ridotto a termini zoologici, non può che biforcarsi nei nomi di due bestiole molto modeste: il granchio e la marmotta. L'aedo, se vorrà cantare le loro gesta, piú che ad Omero o a Rudyard Kipling dovrà ispirarsi all'autore della Batracomiomachia, e scrivere una nuova serie di Paralipomeni. Non c'è troppo eroismo nei granchi e nelle marmotte; e i loro duci, Teofilo Rossi o Nino Ronco, piú che ad Annibale e a Scipione rassomigliano a Rodiformaggio e a Leccalamacina. Essi difendono i loro egoismi, e questi non hanno neppure il merito di coincidere con gli interessi di una collettività ragguardevole. La formula del «sacro egoismo», cosí angustamente borghese, è stata da loro trasportata da una collettività di 30 milioni di abitanti, culminante negli interessi di poche centinaia di migliaia di capitalisti, a delle piccole regioni in cui vivono gli interessi di poche centinaia di capitalisti. La marmotta vuole tenersi tutta per sé l'acqua dolce; il granchio tutta l'acqua salata. I torrenti alpini devono aspettare a trasformarsi in elettricità fino a quando la marmotta si sia risvegliata dai suoi letarghi periodici e abbia creduto bene di usufruirne essa stessa. La Liguria sitibonda non deve avere acqua dolce finché alla marmotta piacerà di dormire: l'acqua dolce è sua perché è lei che vive nelle montagne, perché lei non ha sete, perché lei può aspettare. E il granchio si vendica: a chi non vuol dare acqua dolce egli non concede acqua salata. Il Piemonte deve rimanere asservito al porto di Genova, non deve avere uno sbocco piú comodo e piú alla mano. I privilegi della città marinara, che vuole accentrare in sé tutto il traffico del dentroterra, si ergono fieri e minacciosi contro i privilegi del montanaro che vuole riserbati a sé direttamente tutti i benefici e gli utili che le acque dei suoi monti possono dare. È l'eterno duello: ogni privilegio si trova contro un altro privilegio, ogni egoismo fa sorgere contro di sé un altro egoismo. E la lotta incomincia. E il granchio attanaglia la marmotta, mentre la marmotta cerca di mordere il granchio. E, intanto, la collettività vede sacrificati i suoi interessi, e intanto la ricchezza collettiva non si sviluppa, perché al granchio e alla marmotta poco importa che il benessere generale aumenti: essi si preoccupano solo di conservare i loro privilegi, di salvaguardare i loro particolari benesseri. E la marmotta e il granchio sono inflessibili nella conservazione di questo particolare benessere: occorre che siano gli uomini liberi del Piemonte e della Liguria, quelli che vengono minacciati nei loro interessi generali, quelli che vogliono che il benessere cresca, che la ricchezza si moltiplichi da per tutto, perché tutti ne siano beneficati, occorre che siano i proletari che intervengano per far cessare queste ridicole batracomiomachie, per ricacciare nei loro rifugi, alpini o marini, le marmotte e i granchi.

(9 maggio 1917).

SOSIA

I giornali romani hanno ieri pubblicato la fotografia di Giovanni Martinenghi, il sosia di Dante Ferraris. E hanno ricordato alcuni episodi per dimostrare come qualmente nessuno avrebbe dovuto confondere l'illustre industriale torinese con questo sosia da strapazzo, che non sapeva la lingua italiana, che intercalava il suo discorso con abbondanti piemontesismi, il cui aspetto «non è certamente quello di un grande industriale dalle linee marcate del volto, dallo sguardo penetrante che rileva un'intelligenza non comune, dalla parola sobria, ma sintetica e persuasiva».

Non so se l'illustre industriale Dante Ferraris abbia il volto dalle linee marcate, lo sguardo penetrante che rivela una intelligenza non comune, la parola sobria, ma sintetica e persuasiva. So che il Martinenghi per piú di sei mesi è stato creduto un illustre industriale, e non da volgari dilettanti del commercio, ma da altri illustri industriali, da banchieri, da capocomici, da direttori d'albergo. E questi altri illustri devono essersi guardati nello specchio piú d'una volta, e aver visto il proprio occhio d'aquila, e devono aver sentito piú d'una volta la propria parola sobria, ma sintetica e persuasiva. So anche questo: che Plauto ha fatto sostituire dal servo Sosia il furbo e sagace iddio (illustre industriale) Mercurio, e non si sarebbe sognato di fare viceversa. Che nelle commedie, e nella vita reale, il sostituito è sempre piú imbecille, meno furbo, meno eloquente, meno occhio d'aquila del sostituente. Perché un furbo può fare l'imbecille, un uomo d'ingegno può fingersi sciocco, ma uno sciocco e un imbecille non possono farsi credere d'ingegno e furbi, ché altrimenti sarebbe loro facile continuare sempre nella finzione e essere realmente ciò che invece non sono.

I lineamenti marcati, lo sguardo penetrante, la parola sobria necessariamente devono avere delle eccezioni fra l'illustre categoria degli industriali. I banchieri, i capocomici, i direttori d'albergo devono essere piuttosto abituati ad avere che fare con gli industriali tipo Sosia Martinenghi, mezzo analfabeti, zotici o pazzamente prodighi del denaro che costa loro cosí poco. Il geniale e sagace Mercurio è poco conosciuto, è poco comune, nel mondo degli illustri industriali. Non occorre ingegno e sagacia per arricchire. È passato il tempo degli industriali di Manchester che studiano economia, che lottano per delle idee, che seguono e predicano le teorie di Cobden, quasi mistici assertori di una vita morale piú alta, che anche nelle industrie, nel lavoro libero, energico e vitale, perché libero, può incarnarsi. È passato il tempo dei gentiluomini toscani, che nell'industria agricola hanno fatto in Italia ciò che i manufatturieri di Manchester in Inghilterra. Questi industriali non potevano essere confusi con lo schiavo Sosia.

Ma gli illustri d'adesso, che contrattano con gli amministratori dei giornali la loro fortuna [cinque righe e mezzo censurate] confusi con i Sosia, perché sono inferiori a Sosia, perché moralmente sono piú in basso di Sosia.

Questi almeno nella commedia antica rischiava le bastonature del padre nobile, e ora va in galera, mentre gli illustri industriali continuano nella carriera degli onori, e aspirano al laticlavio.

(10 maggio 1917).

VINAJ-EINAUDI

La polemichetta Vinaj-Einaudi ha avuto l'ultimo sbocco che il malcostume della vita politica italiana lasciava facilmente prevedere.

I giornali annunziano che il deputato di Mondoví ha interrogato il presidente del Consiglio e il ministro della pubblica istruzione, e per il loro tramite, la regia questura di Torino, per sapere quanti anni di galera intendevano assegnare al loro subalterno professore d'università che ha osato dire che i deputati come l'on. Vittorio Vinaj hanno la stessa levatura e la stessa importanza nazionale dei bidelli scolastici, e meno ancora, perché i bidelli sono utili ed hanno una dignità e i Vinaj sono nocivi ed ignobili. L'on. Vinaj deve essere soddisfatto di questa sua energia nel far rispettare il parlamento in tutti i suoi rappresentanti, tanto piú soddisfatto in quanto non sospetta neppure che il prof. Einaudi gli ritorca la domanda, rivolgendola a un certo presidente di un certo tribunale per sapere quali provvedimenti intenda prendere contro un certo pubblico ministero, che veste certi abiti, il quale si lascia chiamare «sguaiato bugiardo» e inghiotte tranquillamente l'epiteto, come se esso fosse stato rivolto al bidello dell'università e non a lui, proprio a Vittorio Vinaj come Vittorio Vinaj. Ma non c'era bisogno delle nuove prove portate dal prof. Einaudi per sapere chi sia sempre stato l'on. Vinaj, e come abbia sempre interpretato il mandato parlamentare: il voto favorevole al ministero come ricatto per ottenere particolari favoritismi ai suoi grandi elettori. È lo stesso prof. Einaudi che è in causa. L'Einaudi che pubblica a Torino, che cita dinanzi all'opinione pubblica l'Einaudi che pubblica a Milano. L'Einaudi della «Riforma sociale» che polemizza con l'Einaudi del «Corriere della Sera». E il primo Einaudi domanda al secondo se si creda poi cosí lontano dall'on. Vinaj come vorrebbe apparire, e come i bidelli dell'università ardentemente desiderano che sia. Perché nella sua lettera alla «Stampa» Einaudi sostiene che il senatore Albertini rispetta le sue convinzioni, e che pertanto egli è libero di sostenere tutte queste sue convinzioni nel « Corriere della Sera». Eppure, osservano i bidelli, il «Corriere» non è la «Riforma», sebbene medesimo vi sia l'economista che dà il tono. L'Einaudi, liberista completo nella «Riforma sociale», diventa nel «Corriere» liberista solo contro le organizzazioni operaie e le cooperative emiliane, non preoccupandosi di ricercare se queste forme di protezionismo non siano esasperazioni di un malessere diffuso dall'altro e ben piú dannoso protezionismo, e se non sia suo dovere di coerenza esplicare nel diffuso «Corriere» le sue qualità di educatore completo, e non confinarle nella rivista che il grosso pubblico da educare non legge. Un po' di vinajsmo si è incollato anche all'abito del professore educatore. I bidelli, per esempio, sono preoccupati dei contatti che l'Einaudi non evita nel «Corriere» con il Vinaj Luigi Luzzatti, che nella «Riforma sociale» non è molto rispettato, e riceve anzi, molto spesso, stangate poco corrieristiche.

Perché il professore d'università e membro dell'Accademia delle scienze non si preoccupa di decidersi anch'egli tra la toga professorale e la vestarella da bidello? Questa lo avvicina ancora troppo all'on. Vittorio Vinaj, e dà una qualche parvenza di verità alle voci ingiuriose delle ambizioni parlamentari. Tanta parvenza di verità, che da un superiore piano morale non si saprebbe davvero distinguere tra il Vinaj bidello e l'Einaudi in vestarella.

(16 maggio 1917).

L'UOMO PIÚ LIBERO

Leggo la tirata d'occasione dei giornali; spruzzatine di polvere di riso sui motivi piú abusati della polemica quotidiana. Il «Momento», dopo un pesante anfanare tra il sí e il no, se ne rimette a Massimo d'Azeglio: gli uomini credono di mutare essi il mondo, e invece è Iddio che lo muta. La «Gazzetta» di Delfino Orsi rivoga i suoi sottilissimi argomenti da bottegaio: non tende l'uomo alla felicità? Ebbene: i neutri stanno male, soffrono piú degli italiani, il che significa che la guerra ha pure apportato una qualche felicità. Incontro un professore. È contro la guerra; non è giolittiano, non è precisamente ciò che si dice un germanofilo. La guerra ha fatto chiudere l'Istituto germanico di Roma: nell'Istituto era raccolta la piú completa collezione di materiale archeologico classico: il professore non può piú attendere alla messe di titoli per la brillante carriera, e perciò è contro la guerra. Mi dibatto fra queste tre forme di schiavitú spirituale: la mia umanità ne soffre, ne è offesa, sente una diminuzione di sé, della propria libertà. Soffrirebbe meno se fosse sicura di aver subito un sopruso eroico, di essere stata vittima di una violenza volontaria. Si trova presa tra la flaccidità melensa dell'egoismo angusto, che si ripiega su se stesso gemendo sconsolatamente, e l'impotenza a creare ogni pensiero storico della suburra democratica e dell'anchilosi mentale cattolica. Tra la fatalità trascendente che determina la storia e spinge gli uomini, inerti batuffoli imbottiti di illusione, verso la morte, e la fatalità immanente nel regime autoritario, che scatena delle forze demoniache, incontrollabili, indisciplinabili, ormai fuori del regno della volontà, operante brutalmente su tutti, neutri e intervenuti, forti e deboli, innocenti e colpevoli; tra queste due fatalità il mio essere piú profondo, che lotta angosciosamente per sublimarsi in una libertà spirituale perfetta, per raggiungere l'adesione piú completa tra l'atto e il fatto, tra la volontà e il successo, vorrebbe divincolarsi in un canto lirico all'uomo piú libero, alla creatura meglio materiata di sostanza eterna che il nostro pensiero, il nostro operare faticoso in un mondo ottuso e inerte, viene preparando. All'uomo che ha ucciso tutte le fatalità, tutte le forze demoniache incontrollabili, e che perciò ha incominciato oggi col rinnegare la fatalità del mondo borghese, e si sforza oggi, con tutte le armi dialettiche, col sorriso, col ghigno, col sillogismo catafratto di farla rinnegare a un numero sempre maggiore di uomini. Che si sforza, con un lavorio corrodente di critica implacabile, di arrivare, attraverso la purificazione drammaticamente raggiunta col dolore, alla impassibilità stoica della coscienza universale, per giudicare gli avvenimenti con la pupilla ben aperta, col cervello slargato, contenente nel ritmo del suo pensiero gli echi della musica universale, dell'accordo polifonico, delle aspirazioni degli uomini piú liberi di tutto il mondo. E poiché le parole, monete tarlate di un mondo tarlato dalla retorica dei servi padroni, sono sorde a riempirsi dell'empito della coscienza dell'uomo libero, il mio essere piú profondo si alimenta della sua stessa passione, momentaneamente circoscritta a troppo pochi individui, schivando di servirsi, in un mondo di larve vaneggianti in una prigione di nebbia, delle stesse parole che questa prigione servono a infittire e a rendere piú pestilenzialmente nauseabonda.

(25 maggio 1917).

EROSIONI

L'assessore Ratti si è dimesso: nessun dubbio dovrebbe poter piú oltre sussistere sulla realtà di queste dimissioni. C'è una condanna, c'è un'accusa chiaramente espressa e documentata, che ha avuto una chiara sanzione. La sanzione dell'opinione pubblica dovrebbe essere sicura anche essa. Un civico magistrato si è fatto cogliere con le mani nel sacco, come un volgare ladroncello di Porta Palazzo: ha commesso un reato che è grave e infamante qualitativamente, non quantitativamente, per il pervertimento morale di cui è indice, piú che per il danno effettivo che ha arrecato alla collettività. La squalifica morale di un tale individuo dovrebbe essere chiara e sicura, perché solo se chiara e sicura può essere educativa, può servire a formare un criterio di giudizio sociale, e quindi ad elevare il livello di vita, a migliorare il costume.

Queste considerazioni sono piane e oneste; ma appunto per ciò non sono clericali. Osservate con che sottile e furbesco lavorio di erosione il «Momento» cincischia la banale notizia di cronaca:

Le dimissioni sono conseguenza della condanna a sette giorni d'arresto e 140 lire di ammenda inflittagli dal pretore urbano perché incolpato d'avere permesso che nella sua panetteria in via Barbaroux, si fosse fabbricato del pane di peso e forma non corrispondenti alle prescrizioni, ecc.

Pertanto il panettiere Ratti avrebbe commesso una semplice colpa di disattenzione: il crimine l'avrebbero perpetrato i suoi operai, gli infami. Inoltre, il crimine stesso sarebbe molto veniale: peso e forma del pane; non spreco di farina, non privilegiato consumo di pane bianco mentre la maggioranza, anche i bambini e i moribondi, deve consumare il pane nero e legnoso. E quando il lettore ha sorriso dell'accusa, pensando con pietà profonda al povero martire Carlo Ratti, vittima del fiscalismo giudiziario, il «Momento» continua:

Il cav. Ratti sostenne in giudizio che quel pane, sequestratogli dagli agenti in una cesta a parte, nella sala da pranzo, era stato confezionato per sua moglie ammalata e dimostrò, col conforto di testimonianze inoppugnabili, fra cui il dott. comm. Bellosta, che realmente sua moglie necessitava di quel pane speciale. Ma il Magistrato non poté accogliere le giustificazioni, opponendosi l'esplicito disposto dell'art. 60 del Codice penale, che punisce anche la semplice negligenza ed inosservanza nei rapporti dei propri dipendenti.

Saltano di nuovo fuori i dipendenti, che sembravano essere stati messi da parte dopo l'ammissione della necessità familiare, non certamente ignorata dal Ratti. Si tace che il pane bianco sequestrato pesava 720 grammi, quantità un tantino esagerata per una signora ammalata di stomaco. Non si fa notare che la polizia non fece la sorpresa appena commesso il primo crimine, ma che, trattandosi di un assessore, dovette ben essere longanime ed intervenire quando la misura era colma e lo scandalo dilagava.

L'assessore Carlo Ratti, dalla narrazione del «Momento», dopo le opportune e furbesche erosioni dei fatti, appare un poveraccio, che ha peccato per soverchio amore della famiglia. E la famiglia è uno dei puntelli della società, come a tutti è noto. E per il tripode bronzeo della società i clericali sono disposti a tutto: anche a rodere la verità, a rodere la morale, cosí come l'assessore Ratti rodeva il suo dovere di magistrato per conguagliarlo alla sua mentalità di bottegaio. È la morale del rosicchiante che trionfa, ed essa è piú diffusa di quanto non appaia dalle affermazioni che si sogliono fare. I colleghi di giunta terranno conto del lavoro giornalistico del «Momento», e il cav. Ratti continuerà a rimanere assessore e bottegaio, accanto a Teofilo Rossi, e a Costanzo Rinaudo.

(29 maggio 1917).

IL PROGRESSO NELLO STRADARIO

La commissione municipale per la denominazione delle vie si è messa sulla via del progresso. Armata di enciclopedia c di scure essa procede allo sventramento della vecchia Torino. Cadono i vecchi nomi, i nomi tradizionali della Torino popolare, che ricordano la vita fervida del vecchio comune medioevale, la fantasia esuberante e originale degli artigiani del Rinascimento meno enciclopedici, ma piú pratici e di buon gusto dei mercanti odierni. Si sostituiscono i nomi medaglia. Lo stradario diventa un medagliere. Tutta la paccottiglia della bassa erudizione si riversa nelle vie. I nomi sono suoni inerti, che non suscitano alcuna immagine di vita, che piombano nel fondo della coscienza materiale, morta, che non legano al passato, che strappano, con un atto violentemente illogico, i legami tradizionali tra l'uomo e la via. Lo stradario diventa un museo, un cimitero di illustri ignoti, povero ossame ammuffito e sbianchito dalla dimenticanza opportuna, perché meglio pone in rilievo chi veramente ha operato nella storia. La borghesia bottegaia non sa sostituire nulla di originale alla intensa vita spirituale del passato. La sua vita è la medaglia, la decorazione; stimolo, l'enciclopedia; metodo, il conguagliamento, l'appiattimento dei valori. La città degli artigiani era tutta impregnata della vita artigiana, in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue manifestazioni, e perciò anche nel nome delle vie. Ogni nome era un brano di vita, era il ricordo di un momento di vita collettiva. Lo stradario era come un patrimonio comune di ricordi, di affetti, che univa piú strettamente i singoli coi vincoli della solidarietà del ricordo. La borghesia bottegaia ha distrutto questo patrimonio, senza riuscire a sostituirlo con qualcosa di ugualmente vivo. La cortigianeria aulica o la vanità vacua hanno preso il posto della fantasia ricreatrice. Tutti i principi, i regnanti, i ministri, i generali di casa Savoia hanno avuto la loro nicchia, sono stati imposti all'attenzione dei cittadini, che il loro ricordo vorrebbero riempire di soggetti piú degni. L'enciclopedia ha dato il resto. Cosmopoli è la città borghese, cioè una falsa internazionale, una falsa universalità: confusione di valori, regno dell'indistinto, caos disordinato ed antistorico. Michele Lessona è insigne e geniale come Leonardo da Vinci. Elvio Pertinace sembra piú degno di memoria dell'arte dei Carrozzai; un imbecille qualsiasi della storia romana sembra piú insigne di una forma di vita sociale che ha trasformato la storia. Spariscono le popolarissime vie della Zecca, dell'Ospedale, del Deposito, dei Carrozzai, dei Quartieri per i soliti nomi della convenzionalità monumentomaniaca, o per ricordare Quinto Agricola ed Elvio Pertinace. La rozzezza della cultura rigattiera soffoca i palpiti sopravissuti della vita del passato. Il borghese bottegaio armato di scure e di dizionario Melzi procede nelle vie del progresso. Cosmopoli incolore e insapore trionfa.

(1° giugno 1917).

IL BOZZACCHIONE

Succede cosí. Voi siete socialisti. Avete cioè della vita del mondo una concezione quanto è possibile larga, comprensiva, complessa di elementi. Non potete essere faziosi né giacobini per temperamento o per programma. Perciò riconoscete che nella storia che gli altri attuano vi è un elemento di necessità, perché siete voi e non gli altri, e il vostro compito specifico è appunto quello di rovesciare questa necessità eteronoma che cerca travolgervi, per instaurare la libertà, la libertà degli individui armonizzata in una unità possibilmente senza residui. Ebbene. Non basta che voi siate liberi e non siate faziosi e giacobini. Gli altri non lo sono e non vi comprendono. Il loro cervello spappolato non concepisce un cervello che si organizza saldamente intorno a una idea. Essi sono idolatri del fatto singolo, isolato, mentre voi nel fatto vedete specialmente la continuità, il dinamismo. Perciò essi non sono liberi e non comprendono la vostra libertà. Essi diventano cattolici a Peretola perché a Peretola c'è un parroco galantuomo, dopo essere stati atei a Roccacannuccia perché a Roccacannuccia il parroco ingravidava le zelatrici di santa Zita. Non comprendono l'ateismo integrale, solidamente basato su un'idea superiore al cattolicismo e alla religione. I loro antenati erano repubblicani sotto Carlo Alberto e giustificavano il loro atteggiamento con l'invettiva di Giovanni Berchet al Carignano, e diventarono monarchici quando il re si chiamò Galantuomo, e conservatori forcaioli quando il re fu addirittura il Buono. L'idea repubblicana, superiore alla contingenza del Traditore, del Galantuomo e del Buono, era per loro cosa sorda e inerte. Il contenuto della mentalità politica borghese è il trasformismo, cioè il piú triviale degli empirismi politici. Alcuni pseudosocialisti di ieri erano solo borghesi della tradizione trasformistica che avevano cambiato il bazar delle contingenze; il loro cervello era rimpinzato di viete oleografie proletarie, e perciò si dicevano socialisti. E continuano ora: giudicano i socialisti con questa mentalità trasformistica ed empirica. Non hanno altro criterio di distinzione e di giudizio che il fatto singolo, isolato. Perciò se voi dite che il parroco di Peretola è un galantuomo non potete che essere clericali. Se riconoscete che Paolo Boselli non ha ucciso sua madre, che ci sono tra gli interventisti e specialmente tra gli intervenuti dei cuori semplici di eroi, i quali non si sono trasformati da pseudodemocratici in imperialisti, da pseudosocialisti in protezionisti sul modello ultimo patentato dal successo siderurgico dell'«Idea nazionale», voi non potete essere che degli ipocriti o dei poveri martiri del domenicanesimo di Costantino Lazzari. Il vostro cervello organizzato fortemente intorno a un'idea, e non miserabile poltiglia idolatra della contingenza, non può essere compreso da questi iloti ubriachi. Essi non comprendono che un'idea supera i fatti di una determinata contingenza per creare altri fatti diversi e superiori. Che pertanto è avversaria in solido, non in ispecie, è avversaria per ciò che di normale, di eterno c'è nei fatti, non per ciò che può esserci di brillantina occasionale [dieci righe censurate].

(4 giugno 1917).

DE PROFUNDIS

Teofilo Rossi se ne va dal seggio sindacale. «Aria ai monti» si ritira dalla vita pubblica. È impossibile fermare l'irresistibile marcia di una lacrima furtiva.

Teofilo Rossi era un documento prezioso. Il misterioso svilupparsi delle forze naturali e spirituali, che determinano gli avvenimenti umani, avevano in Teofilo Rossi cumulato le caratteristiche negative di una intera età di crisi e di corruzione. Teofilo Rossi era il cliché di 3 milioni e mezzo d'italiani: di quella parte di italiani che nell'aggregato sociale «Italia» costituiscono il decimo sommerso, la palla al piede, la zavorra ingombrante. Industriale, uomo politico, uomo di cultura. Come uomo di cultura era dantista, cioè largamente infetto di quella lebbra letteraria che è stata negli ultimi cinquant'anni il dantismo, l'arcadia melensa e smidollata che al neo e alla cipria aveva sostituito Dante, alla canzonetta sul neo e sulla cipria aveva sostituito la conferenza a rotazione su un canto della Divina commedia. Teofilo Rossi aveva imparato tutta la Divina commedia a memoria: la sua particolare forma di retorica erano le citazioni dantesche: al pensiero aveva sostituito la citazione dantesca; alla sincerità aveva sostituito la citazione dantesca: l'intelligenza di Teofilo Rossi non era che un rimario della Divina commedia. Come industriale avrebbe potuto dedicarsi alla fabbricazione delle casse da morto, delle corone funebri, avrebbe potuto essere un esportatore di birilli o di bocce; fu industriale dell'alcool, si dedicò all'industria dell'incretinimento e del pervertimento nazionale per mezzo dell'alcool. Come uomo politico avrebbe potuto essere sindaco di Carmagnola, buon sindaco di un paese rurale: volle essere ministro giolittiano, deputato giolittiano, sindaco giolittiano. Il giolittismo è la marca politica del decimo sommerso italiano: l'insincerità, l'affarisino, il liberalismo clericale, il liberalismo protezionistico, il liberalismo burocratico e regionalista. Borghese, volle essere nobile, volle fregiarsi di tutta la chincaglieria del feudalismo borghese. Neutralista, volle essere ufficiale degli alpini senza obbligo di trincea. Volle vedere il suo nome stampato nella copertina di ponderosi volumi che erano stati letti solo dalla sua dattilografa: la dattilografa di Teofilo Rossi copiò le sudate carte di Ferdinando Gabotto, e Teofilo Rossi acquistò il diritto di vedere stampato il suo nome sulla copertina dei volumi.

Teofilo Rossi era un documento prezioso. Chi desidera un'Italia migliore, chi desidera degli italiani migliori, che lavorino per cose utili, che non siano vanitosi, che non siano ipocriti, che al parere preferiscano l'essere, e quest'essere attuino vigorosamente, sinceramente, trovava in Teofilo Rossi il modello di pervertimento del carattere da esporre alla riflessione per un fine educativo. Egli se ne va, egli è caduto come un sacco di paglia, come Margutte, il mezzo gigante, il mezzo uomo, il crapulone Margutte ucciso da un granchiolino. È morto da giolittiano: è morto perché nella insincerità costante della sua vita ha avuto un momento di sincerità. Il cliché si è spezzato: è impossibile fermare la marcia irresistibile di una lacrima furtiva.

(12 giugno 1917).

IL FOCOLARE

Il prof. Pietro Romano, presidente del Fascio di tutte le forze interventiste torinesi, da martedì mattina si dibatte nelle strette di un angoscioso problema. Essere o non essere? Fascio o sfascio? Il prof. Pietro Romano è un filosofo, quantunque mai i suoi profondi pensamenti siano riusciti a imporsi alla considerazione dei giudici dei concorsi. Perciò cerca una coerenza fra le diverse sue attività. Come patriota persegue l'ideale della reintegrazione dell'Italia nei suoi naturali confini, come presidente vuole fasciare i nuovi rampolli che ubbidiscono ai suoi cenni presidenziali. Persegue l'unificazione, vuole un focolare. Non c'è famiglia senza focolare, non c'è fascio senza unità, senza contemporaneità di atti, di pensieri, di deliberazioni, ottenuta intorno ad un focolare unico, senza che, in un certo momento, il fascio possa essere imbracciato dai littori, e portato a spasso, per farne ammirare la ben rilucente scure. Il prof. Romano deve, da martedì mattina, risolvere un problema angoscioso quanto quello dei sionisti che si propongono di ridare una patria agli ebrei. Il prof. Romano deve, da martedì mattina, risolvere un problema angoscioso quanto quello di una madre afflitta da numerosa nonché chiassosa prole, cui i padroni di casa si rifiutano di affittare appartamenti. Essere o non essere? Fascio o sfascio? Realtà o vanità? Il prof. Romano ha bussato angosciosamente a tutti gli usci. Si presenta umilmente, cerca nascondere la sua figliolanza; non darà fastidi, non disturberà i vicini, non imbratterà i muri di scarabocchi, il pavimento sarà rispettato. Egli condurrà con sé solo persone serie; niente donne, niente gazzarre: vuol adunare una assemblea di professori, professori che si propongono di discutere i loro interessi di categoria, senza strilli, come è buona abitudine degli ottimi professori italiani. La sua umiltà rassicura: la società operaia «La libertà» concede la sua sala. Il problema sembra risolto. Lo sfascio sarà fascio. Ci sarà il focolare. Ci sarà l'unità. Il littore imbraccerà le verghe strettamente unite con in cima la ben rilucente scure. Lunedì sera il prof. Romano presiede, può far girare i suoi occhi di pio bove sulla massa dei suoi benamati furlotti. Giovedì ci sarà nuova assemblea intorno al focolare. Ma lo sfratto arriva fulmineo: non si vogliono famiglie con troppi bambini. Il chiasso è indesiderabile. Il fascio è di nuovo sfascio. Il prof. Romano deve ricominciare la sua via crucis in traccia del regno di Sion. Essere o non essere?

Gli anarchici del Fascio si ricordano del passato, vorrebbero dar nuovo lustro alle consuetudini libertarie. Propongono la piazza d'armi, l'assemblea al chiaro di luna, pittoresca come le assemblee dei guerrieri barbarici che approvavano scuotendo le lunghe barbe e le pesanti alabarde. E il prof. Pietro Romano fa il sopraluogo, e piú umilmente ricomincia la via crucis. Piazza d'armi è occupata: il commissario dei consumi ha preceduto gli anarchici, e i teneri rampolli della nuova forza del fronte interno sono di già sbucati fuori dal grembo della madre terra, matrigna solo per il prof. Romano e i suoi furlotti.

(22 giugno 1917).

DON FERRANTE

Gaspar è ritornato a Torino, e ha tenuto un altro dei suoi applauditi discorsi. Ma Gaspar ha un tantino cambiato il suo armamentario polemico: ci sarebbe impossibile questa volta paragonare la sua attività oratoria a quella di quei frati per i quali Pascal diceva che era piú facile trovare dei frati che delle buone ragioni. Gaspar questa volta ha tenuto a dichiarare che non polemizza coi socialisti. Anzi egli ha fatto di piú: egli ha tenuto a dichiarare che non conosce socialisti italiani, perché non possono esserci socialisti neutralisti, perché non ci sono piú socialisti neutralisti da che è manifesto che questa guerra è guerra alla guerra, che questa guerra è per il diritto e la giustizia, e non vi possono essere dei socialisti che siano contro la giustizia ed il diritto.

Gaspar ha dato un abito logico alla sua attività oratoria. Questa volta non è necessario uscire d'Italia per rintracciare il tipo ideale cui riaccostarlo. Gaspar ultimo parla e vive in un capolavoro italiano; dopo le Lettere provinciali di Biagio Pascal abbiamo dovuto rileggere i Promessi sposi dell'italiano Manzoni: Gaspar vive in Don Ferrante.

Gaspar si trova di fronte al socialismo italiano nella stessa posizione ideale di Don Ferrante di fronte al contagio. Don Ferrante negava il contagio con le stesse argomentazioni logiche con cui Gaspar nega il socialismo italiano. Il contagio non poteva essere, quindi non era. In natura non vi sono che determinate entità, e il contagio secondo Don Ferrante, non possedendo nessuna delle loro qualità, non poteva esistere, quindi non esisteva: non era visibile, non era pesante, non era voluminoso, ecc. non era. E Don Ferrante morí tranquillamente di contagio, convintissimo di essere la vittima innocente di un'ingiustizia, poiché moriva per causa di un accidente non esistente.

Gaspar non verrà ucciso dal socialismo, ma certamente anch'egli un giorno crederà di essere la vittima di un'ingiustizia. E lo sarà. Ma l'ingiustizia sarà in rerum natura che ha organizzato il cervello di Gaspar cosí come era organizzato il cervello di Don Ferrante. Troppa logica, nessuna logica. Troppa precisione, nessuna precisione. Gaspar è imbozzolato; Gaspar si trova preso nelle strette della necessità dialettica dello stolto che per voler essere coerente si arrampica sui rasoi nell'esasperazione della stoltezza.

Perché i socialisti italiani, sentendosi ben vivi, sentendo anzi questa loro vitalità diventare sempre piú espansiva, sempre piú dilagante, ritorcono a Don Ferrante la sua logica. E ragionano: poiché i socialisti non possono essere contro il diritto e la giustizia, e i socialisti italiani sono contro la guerra, necessariamente questa non è la guerra della giustizia e del diritto. È la guerra, la pura e semplice guerra, che ognuno riempie degli attributi specifici che piú gli son cari, ma che solo una forza caratterizza, la forza della classe borghese, che non è ancora sinonimo della giustizia e del diritto. Gaspar è Gaspar, non è neppure in Belgio; anzi la «Patrie Belge» dice che Gaspar non è neppure un individuo, ma è la maschera della massoneria francese. E la «Patrie Belge» conosce Gaspar piú di quanto Gaspar non conosca i socialisti italiani, i quali però, non esistono.

(25 giugno 1917).

PICCOLE COSE

In corso Duca di Genova, la sera. Nugoli di ragazzetti prendono d'assalto il palco di legno innalzato per i concerti serali, ne schiodano le assi, se le contendono rumorosamente, le distribuiscono sulle panche del corso, e si divertono a far l'altalena. I ragazzetti si propongono il fine naturalissimo e spiegabilissimo di giocare: ne trovano i mezzi adeguati a portata di mano, e giocano. Certo non si preoccupano di vedere se i mezzi, oltre che adeguati, siano anche economici, e se il gioco valga la candela. I cittadini non ragazzetti passeggiano indifferenti e osservano sorridendo. Basterebbe che uno di essi si accostasse, e dicesse poche parole perché il naturalissimo e spiegabilissimo desiderio dei ragazzi prendesse un altro indirizzo, perché il fine fosse raggiunto con dei mezzi piú economici. Ma i cittadini non ragazzetti rimangono indifferenti, non pensano neppure che sia opportuno il loro intervento. Viene danneggiato, è vero, un qualche cosa, che è patrimonio della collettività, che, per essere riparato, domanderà relazioni di ispettori, sopraluogo di periti, prospetti grafici di graffiacarte, firme di autorità competenti, magari votazioni in consiglio comunale. Ma i cittadini rimangono indifferenti, e i tutori dell'ordine sono assenti. Per fortuna. Perché se questi fossero presenti eleverebbero contravvenzione, e ai prospetti grafici, ai sopraluoghi, alle relazioni, al cumulo di carta che gli uffici centrali dedicano ad ogni piccola cosa, si aggiungerebbero i verbali, le notificazioni d'usciere, le sentenze del pretore, lo stupore dei ragazzetti per l'enormità degli effetti causati da un innocentissimo e giustificabilissimo desiderio. Ma i cittadini rimangono indifferenti. Sono piccole cose, non credono dignitoso intervenire, dire le poche parole necessarie. Considerazioni melanconiche. La vita è tutto un fitto tessuto di queste piccole cose, ed è in gran parte malvagia, faticosa, caotica, perché queste piccole cose non sono credute degne di considerazione. I cittadini italiani ridono per queste piccole cose, si rimettono per queste piccole cose all'autorità, ai tutori dell'ordine. Ciò che potrebbe essere evitato se il costume fosse diverso, se i cittadini fossero meno indifferenti, finisce col diventare nella macchina gerarchica dell'autorità, farragine incomposta, giustificazione di burocrazia pletorica: per accertare, riparare e far rifondere un danno di pochi soldi la collettività spende centinaia di lire, e autorizza l'esistenza di una macchina complessa di intermediari e di agenti che costano migliaia di lire. Ma i cittadini rimangono indifferenti e ridono. E la meditazione sulle piccole cose diventa piú malinconica ancora, perché i cittadini hanno una loro ragione inconsapevole. La funzione di tutori dell'ordine è in mano ai questurini: i questurini preferiscono, per tante ragioni, di vestire in borghese. Intervenire per far cessare un piccolo-grande disordine può portare ad essere confusi con un questurino in borghese, e la confusione non sarebbe piccola infamia. Cosí avviene che per i bisticci del costume in voga, i cittadini rimangono indifferenti, i questurini e i vigili assenti, le assi vengono schiodate, disperse, e la macchina funziona: sopraluoghi, ispezioni, e cumuli enormi di carta riempiti di inutilità dall'innumerevole coorte di graffiacarte.

(9 luglio 1917).

L'ORA DEI POPOLI

Il re di Prussia concede ai suoi sudditi diletti il suffragio uguale. Il parlamento inglese concede alle donne dai trenta anni in su il diritto al voto. Il parlamento italiano abolisce... l'autorizzazione maritale. L'ora dei popoli si avvicina. I poteri degli Stati ne sentono vibrare lo scocco, e concedono. Sarà certamente un gran giorno.., quell'ora. I cattolici, che hanno escogitato la formula, già pregustano la gioia di questo affratellamento. E contribuiscono alla democratizzazione del mondo. Anche il loro sovrano si è posto sulla via delle riforme. Anche il loro sovrano, il sovrano per diritto divino per eccellenza, interroga l'anima del suo gregge, accetta il principio del referendum e dell'iniziativa popolare. Un comunicato del Vaticano è di somma importanza come documento di questo nuovo ritmo storico dell'umanità.

Annunziano i giornali dell'«ora dei popoli»: il canone 1247 del nuovo Codice di diritto canonico, che andrà in vigore il 19 maggio 1918, dà l'elenco delle feste cosí dette di precetto: in esse sono comprese nuovamente quelle del Corpus Domini e quella di S. Giuseppe che erano state soppresse da Pio X. Ciò si deve ai replicati inviti rivolti da varie parti alla Santa Sede. Il 19 maggio 1918 nell'orario cattolico sarà adunque la prima tappa verso la nuova èra. Il papa legittimista, il papa che è infallibile per il divino crisma che l'angelica colomba gli ha impartito, accetta gli inviti dei fedeli, cassa con un frego di penna un decreto infallibile di Pio X, riconosce a S. Giuseppe il diritto di far andare all'inferno quei malnati che oseranno non osservare il precetto della sua festa. Non è chi non veda l'enorme portata del canone 1247 del nuovo Codice. Vi aleggia un po' dello spirito che informa la repubblica greca col presidente ereditario, quale il signor Venizelos ha costituito, ponendo anch'egli una pietruzza alla città di dio che sboccerà, miracolo vivente, nell'«ora dei popoli». Venizelos esplicitamente dichiara che Costantino XII ed ultimo ha abusato del principio legittimista, del diritto divino, calpestando la voce e la volontà del popolo. Benedetto XV non esplicitamente, ma implicitamente, ammette che Pio X ha fallito, non ha interpretato l'anima dei suoi fedeli, concedendo ai malnati di non andare all'inferno se non osservano il precetto della festa per S. Giuseppe. E ha raddrizzato i torti, e ha rimesso nei cardini la verità canonica. L'anima dei fedeli può tranquillarsi, e può gonfiarsi di giòlito. L'èra del legittimismo e del diritto divino in senso assoluto sta per tramontare. Essa si integra con la volontà popolare, e dal contemperamento sboccia la felicità del secolo. Benedetto XV segue e segna egli il nuovo ritmo della storia. Venizelos, Guglielmo II, Lloyd George, Paolo Boselli validamente lo fiancheggiano. Cadono i vecchi scenari: la caserma prussiana ha il voto eguale, le suffragette non ricorreranno piú allo sciopero della fame, i greci venderanno nuovamente fichi secchi e zibibbo all'Inghilterra, le contadine italiane venderanno i «pezzi» della loro dote senza l'autorizzazione maritale, i cattolici di tutto il mondo potranno riuscire ad ottenere che chi non festeggia Santa Rosalia o S. Giuseppe o il Benedetto Cottolengo vada all'inferno. Il mondo si evolve.

[Sette righe censurate].

(19 luglio 1917).

LA SANTA

Don Francesco Soldi e Nemesio Coppola da Bagno di Ripoli sono comparsi dinanzi alla pretura del primo mandamento di Pistoia per rispondere: di illegale traslazione delle ossa di S. Settembrina, di falsa denunzia di contenuto nel pacco postale che le ossa doveva miracolosamente trasferire da Bagno di Ripoli a Torino. Non si presentò in pretura il pio signore del Pilonetto, Michele Bert, che fu generosamente rappresentato dal deputato del quinto collegio (il Pilonetto appartiene al quinto collegio), avv. on. Luigi Giordano. Gli imputati sono stati assolti. Il Coppola è stato solo condannato a ottanta lire di ammenda, per aver cercato di contrabbandare ossa di santa sotto l'etichetta di vilissimi «fossili di carbone».

La sola condannata è la infelicissima vergine e martire Settembrina. Nessun difensore per la beatissima. Ella è stata giudicata cosa di nessuno; le sue ossa immarcescibili sono state equiparate al fossile di carbone definitivamente; la sua santità, presa sul serio lo spazio d'un mattino, è ricaduta nel baratro dell'inconoscibile. Potrà diventare santo Voltaire, non potrà piú diventare santa la vergine Settembrina. È pericolosa questa vergine millenaria. Ha procurato troppi dispiaceri a don Soldi, a Nemesio Coppola e a Michele Bert, pio uomo del Pilonetto. Non ha voluto il trionfo. Ha permesso, senza fulminarlo, a un volgare ladruncolo di sottrarre il pacco delle sue ossa, di rompere il mistero di una traslazione. Ha messo in un imbarazzo non comune due arcivescovi, il papa e il tribunale dell'inquisizione pontificia. L'hanno rinnegata tutti. L'ha rinnegata don Soldi, l'ha rinnegata il pio Michele Bert, l'ha rinnegata il tribunale supremo pontificio. E il gallo non ha cantato tre volte, come per S. Pietro. Settembrina non ha avuto difensori. Piuttosto che essere condannati, gli spedizionieri di fossile di carbone hanno lasciato che il giudice non ponesse mano alla legge che contempla la violazione di oggetti e reliquie appartenenti al culto. Hanno lasciato che fosse sancito pubblicamente, loro consenzienti, che le ossa di Settembrina non differenziano in modo alcuno da un solido qualsiasi. E nessuno li ha ripresi. E probabilmente nessuno li riprenderà. Nessuna autorità religiosa domanderà al pio uomo Michele Bert perché si sia tanto affaccendato a far misteriosamente arrivare a Torino delle ossa, che per lui non erano che semplici ossa, comuni ossa da anonimo carnaio. E perché si fosse proposto di farne un presente alla chiesa parrocchiale dell'Addolorata. Si riempiono di ossa qualsiasi le chiese parrocchiali? Si chiamano i fedeli all'adorazione di ossa che si ritengono non avere un valore diverso dai fossili di carbone? Quale truffa preparava all'ingenuità dei buoni cattolici torinesi il pio uomo Michele Bert?

Ecco perché saremmo tentati di aprire una sottoscrizione per erigere, presso Porta Nuova, una lapide «all'ignoto mariuolo che, avendo rubato un pacco postale con la dichiarazione fossile di carbone, evitò ai torinesi la fatica di adorare una nuova santa, e fece loro risparmiare molte migliaia di lire». E non disperiamo di aver solidale il pio uomo Michele Bert, che non si rifiuterà di dare una nuova prova della non santità di Settembrina.

(29 luglio 1917).

QUALCHE COSA

Poiché, a malgrado tutto, la vita continua, ed è necessario riempire con qualche cosa ognuno dei sessanta secondi di ogni minuto primo, parliamo pure di qualche cosa, cerchiamo nelle varie rubriche della nostra memoria una qualche noticina marginale, anche sia essa una di quelle noticine che appena fissata, cancelliamo; perché non bisogna caricarsi di superfluità, perché bisogna costringere anche le proprie circonvoluzioni cerebrali a fissare solo ciò che può essere utilizzato. Una noticina marginale cancellata lascia ancora intravedere un nome: Gius. Vito Galati, tafano inconcludente. Poiché bisogna pur parlare di qualche cosa, parliamo dunque di Gius. Vito Galati, scrittore di politica estera, articolista di alto bordo nel meglio fatto dei giornali torinesi: il giornale dei paperi e delle gazze.

Gius. Vito Galati scrive bene. Oggi scrivono bene tutti, anche i collaboratori del «Tempio di Salomone», organo dell'associazione enigmistica italiana. E pensa. Pensa molto. Il cervello di Gius. Vito Galati deve essere attrezzato come una scuola froebeliana; legnetti d'ogni forma e misura, accatastati su un tavolo, e un bambino è accanto al tavolo, e vuole trovare i legnetti necessari per fare una cattedrale, e ne prende un fascio e ammucchia e sovrappone e poi ammira e si ammira, estasiato. Ci sono dei bambini cosí intelligenti e cosí vispi che sanno fare dei campanili e delle cattedrali proprio con nulla. Cosí Giuseppe Vito Galati, il quale prende un ritaglio dell'«Idea nazionale», che lo ha colpito per il luccichio di una ieratica e veramente solennemente italiana affermazione di Enrico Corradini, e scrive un formidabile attacco contro Gaetano (anzi Gaetanuccio) Salvemini per provare in due e due quattro che il Salvemini non si intende un fico secco di politica estera, e ha finito di stuccare i politici esteri con le sue malinconie mazziniane a proposito degli Jugoslavi. Un altro giorno, in nome dei sacri principi, Gius. Vito Galati scrive una filippica contro Enrico Corradini, o, in nome di Mazzini, prende di petto Carlo Marx e lo scaraventa nella geenna degli oggetti smarriti di poco valore senza proprietario riconosciuto. E cosí periodicamente. E anche periodicamente Gius. Vito Galati spedisce agli organi dell'intellettualità di Bitonto, di Radicofani e di Rivarolo Canavese delle cronache torinesi in cui fa il riassunto dei suoi articoli e li porta a testimonianza di un risveglio dell'intellettualità torinese.

Gius. Vito Galati, si riesce a comprendere qua e là, è un repubblicano. Inoltre è un giovane. È molto conosciuto, e di lui si parla spesso alla mensa dei sottufficiali, ciò che significa essere egli, per lo meno, maresciallo d'alloggio, secondo le ultime informazioni potute racimolare dal nostro reporter. Ha scritto anche un libro; ne scriverà certo molti altri. È giovane ed ha innanzi a sé l'avvenire roseo e fiorito, cioè non è serio, o per usare parole meno di importanza, egli non è ancora in grado di distinguere una mosca da un elefante. Ha fatto una scorpacciata di pagine di Alfredo Oriani e di Raffaele Cotugno, di Francesco Coppola e di Piero Delfino Pesce, di Carlo Cattaneo e di Italo Minunni, e gli è rimasta, nel cervellaccio squinternato, una nube solcata di bagliori di bengala, e specialmente una ridevole vanità di provincialino in tocco. Deve essere un buon figliuolo, rovinato dalle cattive letture, come dicono i parroci. Ma è anche un esemplare della recentissima generazione italiana, impotente a conquistarsi un'anima, a farsi una cultura, una coscienza. Destinato, ora che la vita intensa rende sempre piú difficile la vita di bohème, a diventare il tarlo interiore della compagine borghese, che crea i bisogni senza fare i mezzi per soddisfarli, che ha aperto un mercato di intellettualismo e di dilettantismo cerebrale, ma non riesce piú a educare, non è piú capace di creare una nuova vita morale.

(31 luglio 1917).

MOSCONI

I

Il Comitato «Terza Italia» tenterà, come già altri hanno tentato, di costituire il «corpo volontario dell'ordine per la protezione della città da atti teppistici». Al corpo potranno appartenere tutti i cittadini che abbiano compiuto i diciotto anni, a qualunque partito, a qualunque classe appartengano purché notoriamente abbiano ottima condotta privata e politica. Ogni modalità di effettuazione sarà pubblicata alla prima riunione degli aderenti, i quali potranno inviare la loro adesione in corso Re Umberto II presso la sede del comitato centrale «Terza Italia» (dal «Momento»).

La notizia ci procura una grande soddisfazione. Specialmente perché iniziatore del «corpo volontario» è il comitato «Terza Italia».

La «Seconda Italia», l'Italia del Risorgimento, indicava ai giornali della borghesia una idealità, quella garibaldina. La nazione armata, il cittadino soldato per la difesa del focolare e della patria.

La «Terza Italia» anch'essa propone un ideale, conforme ai tempi e alla temperie morale che cinquant'anni di nuova storia ha suscitato. L'ideale è la polizia, l'opera ideale è esplicare «volontariamente» il compito del questurino. La «Terza Italia» non è stata, infatti, che un susseguirsi al potere di grandi «questurini» o di grandi «burocratici».

Nessun programma ideale, nessuna missione morale: questura e burocrazia. L'educazione dell'esempio ha fruttato: i giovani e i vecchi della borghesia si volontarizzano questurini contro la teppa. Il parassita si arma e riceve il santo crisma: crociata dell'ordine armato, della città armata. Si sente la stessa impressione che provocherebbero dieci scarafaggi vivi nello stomaco.

II

Il 4 settembre gli «esploratori cattolici» terranno una «importante» adunanza mensile. È la piú recente creazione dello spirito clericale di adattamento all'ambiente questo dei boy-scouts cattolici. È gia un'organizzazione completa, molto attiva, molto proficua per la propaganda. Battaglioni di sanfedisti gretti e intolleranti vengono preparati per domani. Le famiglie cattoliche che, come tutte le famiglie borghesi, volentieri cercano di scaricare su altri il compito di educare i bambini, iscrivono i loro figli fra gli esploratori cattolici. Ginnastica e ostia consacrata. Per la montagna, per il canottaggio, i giovanetti inghiottono senza recalcitrare tutte le ostie consacrate che vengono loro offerte, ascoltano i predicozzi sulla buona stampa, sorbono anche tre o quattro funzioni religiose ogni dí di festa.

È interessante da notare anche questa. I boy-scouts sono creazione inglese, e in Inghilterra sorsero come stimolo al self-help, alla vita intensa individuale resa piú facile dalla solidarietà libera e spontanea. In Italia i boy-scouts aconfessionali sono diventati nuova palestra [undici righe censurate].

(1° settembre 1917).

BILANCIO

Abbiamo sostenuto questa modestissima tesi. I boy-scouts sono sorti in Inghilterra col fine educativo di abituare i fanciulli alla vita intensa e libera, per sviluppare il senso della responsabilità personale, per abituare i singoli a guidarsi da sé nelle difficoltà dell'azione e a domandare la solidarietà collettiva solo quando interessi collettivi sono in gioco, per educare insomma alla coscienza di una vita sociale in cui i singoli diano il massimo rendimento in una comunità che raggiunga cosí il massimo di intensità produttrice di valori. Sono stati trapiantati in Italia, ed hanno incominciato col diventare mezzo di compressione di coscienze. Niente libertà, niente auto-responsabilità: ma invece, retorica bizantineggiante come scopo dei boy-scouts laici, palestra di funzioni religiose nei boy-scouts cattolici.

Per aver espresso queste «idee», siano pure idee umilissime, ci hanno sgranato questa coroncina di fioretti cattolici: canaglie, ciurmadori, avvelenatori dell'anima popolare, impudenti propagandisti di vigliaccheria e di disonestà politica, civile, e morale, amareggiati da recenti ricordi che disonorano, ignominiosamente scurrili, volgari bestemmiatori, infami senza nome, lanciatori di bava di una insinuazione stupida e disonesta, portatori di stimmate del vizio, retrogradi, dalla voce sozza di fango, di sangue, di sacrilegio, colossi di creta, insultatori della veste nera, odiatori del santo abito.

Per compenso i boy-scouts cattolici sono chiamati, con intelligente errore di stampa, «potatori di Gesú Cristo».

[Cinquanta righe censurate].

(4 settembre 1917).

LA CALUNNIA

In Francia, per iniziativa di Jean Finot, si è costituita una Lega contro la calunnia. I giornali italiani ne hanno parlato: probabilmente anche in Italia sarà creata un'istituzione del genere.

Non abbiamo alcuna fiducia in questo genere di iniziative. Hanno uno scopo particolaristico; sono il prodotto di una mentalità astratta, materialistica, che spezzetta l'uomo nelle sue singole facoltà ed azioni, e di una di queste — buona o cattiva, per il pro od il contro — fa insegna della propria bottega. L'uomo è un'unità ideale e deve tutto rinnovarsi in sé e nei rapporti cogli altri, perché un malcostume cada, perché un nuovo costume si instauri. Ma nel programma fissato da Jean Finot alla nuova Lega, qualcosa di concreto c'è. E proprio di questa parte, appunto perché concreta, appunto perché materiata di esperienze sensibili, appunto perché ricca di possibilità di lavoro utile e produttivo, i giornali italiani non parlano, i futuri iniziatori italiani non terranno conto. Si è mai sentito che il prof. Bettazzi della Lega per la morale abbia protestato e abbia cercato di suscitare una rivolta dello spirito pubblico perché le donne e le ragazze, arrestate in qualche movimento di piazza, sono state messe nella stessa prigione delle prostitute, negli stessi stanzoni dove vanno a finire le femmine randage raccolte nelle retate poliziesche? Che abbia protestato od abbia cercato di suscitare una qualsiasi commozione nel pubblico per il fatto che queste ragazze, spesso ignare ed aliene da ogni lotta politica, vengono in camera di sicurezza aggredite col piú basso e volgare turpiloquio dai questurini imbestialiti? Il prof. Bettazzi e la sua Lega per la morale esplicano un'attiva azione a base di ordini del giorno, di conferenze predicatorie e perfettamente inutili, ma nulla fanno che possa avere una praticità immediata.

Cosí sarà per la Lega contro la calunnia. Si faranno delle bellissime conferenze moraleggianti, si imbottiranno i crani con opuscoli, fogli volanti e commedie a tesi. Le calunnie continueranno a circolare, le insinuazioni piú spaventosamente cretine continueranno a far presa sugli animi, perché sapute da «ottima fonte». E appunto la proposta piú pratica e concreta di Jean Finot sarà lasciata cadere nel vuoto. Propone Jean Finot: «Volete veramente che una delle maggiori sorgenti di voci calunniose sia essiccata? Fate abolire il servizio segreto della questura, fate abolire il servizio delle schede segrete, nelle quali la questura segna a carico dei cittadini tutte le voci che i suoi agenti raccolgono da informatori inconfessabili o creano per interessi professionali». Appunto perché in questo senso sarebbe possibile un'azione efficace, la mentalità accademica ed arcadica dei predicatori di moralità non ne farà niente. E dalla questura continueranno a sciamare le dicerie piú infami, le voci piú calunniose, e i delegati e i questurini continueranno ad informare i zelatori della pubblica onestà su dati di fatto completamente infondati, ma che circolano, si diffondono subdolamente per tutto un paese attraverso i cenni che la censura lascia passare.

Ma il buon conservatore, il liberale genuino continueranno a rimaner convinti che lo Stato, attraverso i suoi organismi e specialmente attraverso la polizia, vada sempre piú esplicando la sua missione di organo etico della nazione.

(19 settembre 1917).

IL REGOLO LESBIO

Le sanzioni contro i nemici interni, contro i sabotatori della guerra sono venute. Credevamo vedere facce liete, ci aspettavamo che il «sarà punito con la reclusione fino a cinque anni e con la multa fino a lire cinquemila e nei casi di maggiore gravità la reclusione potrà estendersi fino a dieci anni e la multa fino a diecimila lire», riuscisse a riattivare la secrezione dei succhi gastrici negli uomini che da un pezzo digerivano male. Ebbene no; le sanzioni non sono state di pieno aggradimento per tutti. Le sanzioni fissano: «sarà punito chi commetta o inciti a commettere un fatto». Quindi esse sono imprecise, per il cervello dei giuristi della guerra rivoluzionaria. Possono dar luogo a «interpretazioni cavillose ed eccessivamente puritane», da parte dei magistrati.

Se perché ci sia reato la legge richiede ci sia «il fatto» essa è incompleta, essa non serve, non è all'altezza dei tempi. Il fatto irrigidisce la legge; i nostri rivoluzionari, i nostri libertari di ieri, vogliono la legge fatta sul modello del regolo lesbio: pieghevole, adattabile, storcibile a volontà, a capriccio. Tutto deve poter ricadere sotto la sanzione della legge dei cinque e dei dieci anni. Il magistrato stesso diventa una superfluità; interpreti della legge possono essere tutti, anzi devono essere solo gli accusatori; la colpa non potendo adeguarsi in un fatto, essa deve adeguarsi in una impressione; il fatto solo che ci sia una denuncia, deve bastare a stabilire che c'è stata l'impressione, e le sanzioni devono fioccare: cinque, dieci anni a seconda dell'importanza dell'accusatore, a seconda del numero di coccarde di cui è fregiato il petto dell'accusatore.

Cosí sarà raggiunto il regno della felicità e della libertà. I libertari, i rivoluzionari di ieri, hanno risolto facilmente il problema della libertà. Hanno scoperto per esempio che il partito riformista è piú libertario di quello socialista ufficiale. Perché gli iscritti al partito riformista sono liberi di pensarla come vogliono: sono liberi anche e specialmente di non essere riformisti, ma di essere lo stesso onorati di appartenere a un partito che ha un programma, che tiene dei congressi. Cosí continuano a essere libertari domandando nuove leggi, ma domandandole elastiche, pieghevoli, torcibili come il regolo lesbio. È l'ideale perfetto della libertà nella legge, dell'ordine nell'anarchia. Leggi senza garanzie per gli accusati, e con la possibilità per i veri libertari di essere veramente liberi: liberi fino al capriccio, liberi fino all'infamia. Come non ammirare questo ideale? Chi non ammira non può essere che un conservatore, anzi è certamente un conservatore. Ce lo sentiremo dire: sentiremo ripetere fino a sazietà che il Partito socialista ufficiale è la roccaforte del conservatorismo.

Non ammiriamo le leggi libere, non ammiriamo le leggi che non obbligano i magistrati a pensare, a ponderare, a sceverare; non ammiriamo i regoli lesbici che possono abbracciare, perché allungabili e pieghevoli a volontà, tutto il mondo ed altro ancora. Non comprendiamo l'ideale libertario del riformista Ugo Nanni, che ha acquistato, entrando nel partito riformista, la libertà di poter svolgere una campagna d'ufficio per il protezionismo doganale e per la conquista dei mercati necessari per la vendita dei prodotti che gli industriali abbiano il piacere (rispettiamo la libertà) di fabbricare, anche se nessuno li voglia acquistare.

(7 ottobre 1917).

DEMAGOGIA

Demagogico e demagogia sono le due parole piú in voga presso le persone ben pensanti e i pietisti in pantofole per dare il colpo di grazia all'attività dei «caporioni», dei «sobillatori» socialisti. Demagogia, per lo squisito senso linguistico di Tartufo, ha solo questo preciso significato: attività, propaganda socialista in quanto volta a scuotere i dormienti, a organizzare gli indifferenti, a dare stimoli di ricerca, di libertà a quanti finora si sono tenuti in disparte dalla vita e dalle lotte sociali.

La demagogia non è insomma, un modo di fare la propaganda, ma è tutta una certa propaganda, la propaganda socialista. Demagogia non è il giudizio morale che si può dare della leggerezza, della superficialità, dell'avventatezza con cui si cerca di formare una qualsiasi convinzione, ma è un fatto storico, il movimento ideale che è la faccia piú appariscente dell'azione educativa del Partito socialista. Tartufo cosí modifica il vocabolario, determina una certa fortuna alle parole. Ha riabilitato la parola teppista, sta nobilitando la parola demagogia. Tra qualche tempo, quando il movimento socialista avrà tanta forza da imprimere anche alla lingua il suo sigillo di bontà e di libero corso, teppista prenderà definitivamente il significato di galantuomo, e viceversa, e demagogia vorrà dire metodo di politica e di propaganda serio, fondato sulla realtà dei fatti, e non sulle apparenze piú vistose, e perciò piú fallaci.

Aspettando quel giorno, noi continuiamo a dare alla parola il suo vecchio significato, e continuiamo ad applicarla ai demagoghi, cioè a quelli che si servono di sgambetti logici per apparire nel vero, che falsano scientemente i fatti per apparire i trionfatori, che per ubriacarsi della vittoria di un istante sono insinceri o affrettati.

Ci hanno chiamati demagoghi perché ci piace chiamare «pescicani» i fornitori militari. E ci hanno fatto osservare che alcuni di questi pescicani pagano duemila lire la loro inserzione nel nostro giornale. Siamo «demagoghi» perché non ci lasciamo guidare nelle nostre valutazioni dal criterio dell'utile; evviva dunque la demagogia. Siamo demagoghi perché non siamo imbecilli, perché non vogliamo confondere l'inconfondibile. Perché non ci vergognamo che il nostro giornale prenda duemila lire per un contratto di pubblicità liberamente accettato, perché in libera concorrenza con gli altri datori di pubblicità, mentre siamo persuasi che debbono vergognarsi dei loro guadagni, che possono essere chiamati «pescicani» quelli che abusano della loro indispensabilità, della mancanza di concorrenza per svaligiare l'erario pubblico, per imporre i prezzi che permettano gli arricchimenti subitanei e il ritiro in pensione dei fortunati che hanno approfittato del momento buono. Perché non muoviamo dalle apparenze fallaci, perché non giudichiamo dal criterio dell'utile immediato, siamo demagoghi, e gli altri sono persone serie, maestri di bel vivere. Con questi capovolgimenti di senso comune si dimostra la nostra disonestà, la nostra demagogia. E si contribuisce niente altro che a una trasformazione dei significati delle parole del vocabolario italiano.

(10 ottobre 1917).

LA TESSERA EPISTOLARE

Il «Giornale d'Italia», organo ufficioso di tutte le autorità, nell'articolo editoriale del 16 ottobre ci dà uno schema perfetto del come dovranno essere redatte le corrispondenze dei cittadini abitanti in zona di guerra, dopo il bando Cadorna:

La situazione economica è ottima: il movimento degli affari è addirittura vertiginoso, l'espansione industriale ha qualche cosa di prodigioso, l'agricoltura è largamente rimunerativa; circola molto denaro e il rincaro della vita è per molte classi della popolazione, e specialmente per quelle lavoratrici, sopportabile, dato il rialzo dei salari prodotto dalla febbrile produzione e in generale dall'economia di guerra. Le casse si vanno riempiendo di risparmi, sia nelle regioni industriali, sia nelle regioni agricole, e gli impieghi di denaro sono ricercatissimi, e ciò in virtú del fatto che grandissima parte delle spese di guerra vengono fatte in Paese.

La situazione interna è soddisfacente: le popolazioni sono dappertutto tranquille, laboriose, disciplinate, e dimostrano col loro sereno atteggiamento l'infondatezza della leggenda — della quale si nutrono in mancanza di piú vitale nutrimento, i giornali dei paesi nemici — secondo la quale le popolazioni latine sarebbero incapaci di prolungare lo sforzo bellico, di sopportare i disagi, di adattarsi alle privazioni. Queste e quelli sono del resto molto relativi: appena adesso, dopo quasi due anni e mezzo di guerra, cominciamo a razionare i consumi, e quanti conoscono la situazione alimentare dell'Austria-Ungheria e della Germania (come i nostri ufficiali reduci dalla prigionia di guerra) affermano che al paragone noi viviamo in un Eldorado. Una piú saggia e piú oculata organizzazione dei servizi degli approvvigionamenti e dei consumi (la genialità latina non potrà smentirsi neanche in questo campo) basterà ad eliminare gli inconvenienti ed a presidiare robustamente la resistenza del Paese.

Il Paese, dopo quasi due anni e mezzo di guerra, è in condizioni altamente soddisfacenti: l'esercito è magnifico di ardimento, formidabile di armi, fiero per le vittorie conquistate, tale insomma, da incutere timore al nemico ereditario, le nostre forze militari sono in continuo sviluppo, mentre quelle avversarie sono in fatale decrescenza; i nostri soldati accampano solidamente in territorio conquistato e sono in grado di continuare l'irresistibile marcia in avanti, mentre il già orgoglioso e tracotante esercito austriaco è costretto a cedere terreno e si logora in una umiliante ed estenuante difensiva. La marina con la sua silenziosa, energica, vigilante opera taglia al nemico le vie del mare, protegge le coste nazionali, assicura al paese i rifornimenti marittimi e porta le proprie offese e le proprie provocazioni fin sulle rive nemiche, mentre la flotta avversaria rimane ermeticamente chiusa e inoperosa.

La situazione diplomatica, rafforzata dai recenti convegni del nostro ministro degli esteri a Londra e a Parigi, è salda e promettente: l'Italia occupa tra gli alleati un posto degno della sua lealtà e purezza di intendimenti e di opere, degno del suo sforzo bellico conforme alle sue giuste aspirazioni. Il nostro Paese è uno dei fattori essenziali della politica di guerra dell'Intesa, e lo sarà del pari della politica mondiale del dopoguerra; incalcolabile è fin da oggi l'aumento di prestigio morale e di efficienza diplomatica raggiunto dalla nazione e sicuro è il suo sviluppo nell'avvenire purché giunga in perfetto ordine — come è certo — alla fine immancabilmente vittoriosa del conflitto, ecc. ecc.

(18 ottobre 1917).

ANIME IN PENA

Il mutamento di sindaco, la ricomposizione della nuova giunta con uomini nuovi, per quanto scelti nella medesima maggioranza, non è soltanto fatto interno della amministrazione, come parrebbe, a prima vista, ad un osservatore superficiale. Intorno ai favoriti del pubblico ufficio pullula una miriade di clienti (nel senso pagano della parola) che eleva (o si dà l'aria di elevare) al seggio, e ne chiede, in cambio, la professione e il favore quotidiano. Sono centinaia di esseri, e forse piú, che in questi giorni si agitano, perché resti Tizio, se ne vada Caio, si faccia posto a Sempronio. Si assiste ora allo spettacolo del calcio all'asino, gente che si abbarbica e striscia e declama in omaggio all'astro che sorge. Vera settimana di passione per chi sta per perdere il protettore, o spera trovarne uno migliore. Vegeta e pullula come la gramigna una quantità di gente, che si abbarbica e striscia e declama, e confonde il pubblico bene col privato interesse. Esseri che non sanno vivere di vita e risorse proprie, che intorno all'ente comune cercano di sfruttare e campare: che abbisognano di soddisfare le proprie ambizioni, e di tenersi in piedi col poter usufruire dell'appoggio di qualcuno: chi muove le pedine per soddisfare la vanità della croce, chi confida nella promozione o nel sussidio.

In una città, non ancora redenta dalla vittoria elettorale del popolo, dominata dalle cricche e dalle camarille che si formano nei circoli rionali, e che alla vigilia delle elezioni fanno combutta, trovando solo nel privato tornaconto il trait d'union fra preti e massoni, ebrei e clericali, conservatori e democratici, reazionari e repubblicani, non può svolgersi che in questo modo il sottosuolo della vita del comune. Convien ricordare che da cinquant'anni in Torino si sono andate concentrando e succedendo in poche mani, e fra gli stessi parentadi, il dominio assoluto della cassa comunale, delle opere pie, degli enti tutti di erogazioni di cariche, di emolumenti, di beneficenza: cosí che si è consolidata quella camorra, che a torto si volle restringere ad altre regioni in Italia, quale retaggio di servitú borbonica, e che in Torino vive anche maggiormente che colà, e per quanto larvata nelle forme per piú squisita abilità di occultamento: questa è la psicologia vera della nostra città.

Ed è cosí che tremano gli esercenti che manchi in giunta il loro avvocato difensore; teme l'impiegato fannullone di vedersi spezzata l'inonorata carriera; trepidano i professionisti sfugga loro l'ausilio del comune per sbarcare il lunario; si spaventano i contravventori ai numerosi regolamenti comunali venga loro tolto l'assessore compiacente per cancellare o ridurre le ammende meritate.

E noi osserviamo, e passiamo oltre, sorridenti ed increduli che il Frola abbia polso fermo ed energica mano per rinnovare la fatica di Ercole nel pulire le famose stalle di Augia: e pensiamo che fra poco tempo i calmieri saranno quelli di prima; che, cambiato il maestro di cappella, la musica sarà identica alla precedente; che si ricostruiranno le vecchie clientele; che i regolamenti, le tasse e le imposte comunali continueranno ad essere un'arma in mano ai dominatori in odio al partito avversario; che all'entrata in città il contadino continuerà ad essere frugato nella cesta da quella guardia, che al passaggio dell'assessore con un'onusta valigia, si metterà sull'attenti senza punto ricercare se il contrabbando vi sia...

O popolo torinese, soltanto dopo la tua vittoria piena ed assoluta ed incontrastata, tutte quelle povere animucce in pena perderanno la speranza di abbarbicarsi all'albero della cuccagna, e incominceranno a lavorare non di gomito, ma di schiena!

(20 ottobre 1917).

LA SCIMMIA GIACOBINA

La scimmia giacobina è l'ultimo prodotto delle differenziazioni che si stanno determinando nella mandria di bruti che riempie delle sue strida i mercati italiani. Differenziazione meccanica. La scimmia non ha anima; la sua vita è susseguirsi di gesti; i gesti sono diventati frenetici; ecco la differenziazione.

La vita italiana politica è stata sempre piú o meno in balía dei piccoli borghesi; mezze figure, mezzo letterati mezzo uomini; il gesto è tutto in loro. Concepiscono la vita librescamente. Sono imbevuti di letteratura da bancherella. Non concepiscono la complessità delle leggi naturali e spirituali che regolano la storia. La storia è per loro uno schema. E lo schema è quello della Rivoluzione francese. Ma non della Rivoluzione francese che ha profondamente trasformato la Francia e il mondo, che si è affermata nelle folle, che ha scosso e portato alla luce strati profondi di umanità sommersa, ma la Rivoluzione francese superficiale, che appare nei romanzi e nei libri di Michelet, i cui attori sono avvocati rabbiosi ed energumeni sanguinari. Questa superficie l'hanno presa per sostanza, il gesto di un individuo l'hanno preso per l'anima di un popolo. Ripetono il gesto, credono con ciò di riprodurre un fenomeno. Sono scimmie, credono di essere uomini.

Non hanno il senso dell'universalità della legge, perciò sono scimmie. Non hanno una vita morale. Operano mossi da fini immediati, particolarissimi. Per raggiungerne uno solo, sacrificano tutto, la verità, la giustizia, le leggi piú profonde e piú intangibili dell'umanità. Per distruggere un avversario sacrificherebbero tutte le garanzie di difesa di tutti i cittadini, le loro stesse garanzie di difesa. Concepiscono la giustizia come una comare in collera col forcone brandito. La verità è una donna da marciapiede della quale si sono autonominati i d'Artagnan. L'umanità è solo composta da chi la pensa come loro, cioè da chi non pensa affatto, ma sacrifica al dio di tutte le scimmie.

Sono italiani, in un certo senso. Sono gli ultimi relitti di un'italianità decrepita, uscita dalle sètte, dalle logge, dalle vendite di carbone. Un'italianità piccina, pidocchiosa, che contrappone all'autorità dispotica dei principotti una nuova autorità demagogica non meno bestiale e deprimente. Sono i relitti di quell'italianità che ha dato prefetti e questurini al giolittismo, e ora vuole imporsi con altri prefetti e altri questurini.

La loro affermazione ultima, questo loro esagitarsi goffamente, è utile in fondo. Gli italiani nuovi, che si sono formati una coscienza e un carattere in questo sanguinoso dramma della guerra, sentiranno maggiormente la loro personalità in confronto di queste scimmie. Le scimmie giacobine sono utili per questo: che gli uomini vorranno essere piú uomini, per differenziarsene, per non essere confusi coi gaglioffi, che hanno un nido di scarafaggi per cervello e una stinta fotografia di Marat per anima.

(22 ottobre 1917).

GHIRIGORI

Una volta, due volte, tre volte... Scrivi e raschiano, scrivi e raschiano... Intingi la penna, la mano rimane a mezz'aria, titubante. Il cervello è impastoiato, non trasmette alla mano, alle dita, l'impulso a muoversi. La mano cala sulla carta e la punta d'acciaio passeggia sul biancore descrivendo complicatissimi ghirigori, labirinti senza uscita. Si cerca affannosamente l'uscita. Il pensiero si assottiglia nell'angustia, bussa alle pareti per cercar di vedere se esse si spalanchino in una sortita possibile. Si incomincia. Si cancella. Si ricomincia. L'espressione fluisce, il lavorio di conglutinamento delle frasi, dei periodi, riposa, allenta lo sforzo iniziale. Si è persuasi d'aver trovato l'equilibrio necessario tra i bisogni della propria sincerità e le aggressioni irrazionali della censura. Si aspetta trepidanti. Sicuro, trepidanti, perché amiamo tutto ciò che ci ha domandato uno sforzo per nascere, per estrinsecarsi. Sentiamo le stesse impressioni di una volta, dinanzi agli esaminatori, con questa differenza: che negli esaminatori eravamo persuasi di aver a che fare con individui assolutamente superiori, che avevano veramente la capacità di giudicare dei nostri sforzi, dei nostri meriti. Adesso sentiamo invece l'incapacità assoluta, l'impreparazione assoluta, in chi, armato di matita, come allora, giudica e manda. Ma un'uguaglianza c'è, tra gli uni e gli altri: sentiamo che un'uguaglianza c'è. Ci troviamo ora, come allora, dinanzi a italiani, a vecchi italiani (anche se giovanissimi nel tempo) che non dànno nessuna importanza agli altri, al lavoro, allo sforzo degli altri, alla personalità morale degli altri. Che, detentori per un momento di un potere (anche se piccolo potere), vogliono lasciare una traccia di esso, una traccia quanto è possibile maggiore. Il vecchio italiano non è abituato alla libertà: e non già alla libertà con L maiuscolo, astrazione ideologica, ma la piccola, concreta libertà, che si esprime nel rispetto degli altri, del lavoro, degli sforzi, della personalità e dei bisogni morali degli altri: che abbassa le piccole, esasperanti, inutili irritazioni: che impone, a chi ha il potere (sia pure un piccolo potere), di evitare anche l'apparenza di un'ingiustizia, di un sopruso. Che ha fiducia nelle energie buone degli uomini, e non passa l'erpice su un campo di grano per distruggere quattro papaveri e mezza dozzina di teneri steli di loglio. Che crede anzi naturale che cosí sia, che al grano si mescoli loglio e papavero, perché una vita collettiva è sana solo quando c'è lotta, attrito, urto di sentimenti e passioni, e solo nella lotta si rivelano i forti, gli indispensabili, gli uomini di fede e d'azione che chiudono la bocca alla critica agendo fortemente. Ma il vecchio italiano non comprende un potere senza repressioni: se in Italia ci fosse la pena di morte, e nessuno cadesse sotto questa sanzione, il carnefice per non stare con le mani in mano diventerebbe mandatario di assassini e di stupri, per poter lavorare i suoi complici. Cosí come in molti paesi dell'Italia meridionale le guardie campestri danneggiano esse stesse la proprietà privata per far sentire la propria indispensabilità. Cosí come il censore, per far sentire quanto faticoso ed improbo sia il suo ufficio, cancella, cancella, cancella tutto tutto tutto, grano e papaveri, lavoro e noia, bene e male. E la penna continua a tracciare ghirigori, aspettando perché sente che questa barbarie (la confusione nei criteri, l'arbitrio, il sopruso è barbarie) si esaurirà nella propria rabbia.

(14 novembre 1917).

SI DOMANDA LA CENSURA

Hanno chiuso i caffè concerto e i varietà. È proibito divertirsi, comprare il divertimento dei caffè concerto e dei varietà. L'autorità è dovuta intervenire. Ci sarebbe stata ancora una folla di gente che avrebbe continuato a frequentare i ritrovi del piacere piú banale e piú volgare se l'autorità non fosse intervenuta.

Noi comprendiamo che l'autorità sia intervenuta. Ci maravigliamo che non sia intervenuta prima. Non perché sia nei nostri desideri che l'autorità intervenga in ogni cosa a regolare la volontà e la vita dei cittadini, ma perché vorremmo che ogni manifestazione di vita avesse una sua logica, si inquadrasse in un programma, e questo programma si cercasse di realizzare. Lo Stato è intervenuto per regolare la manifestazione delle idee dei cittadini: ha istituito la censura preventiva, ha decretato condanne severissime per chi espone alcuni modi di vedere o di non vedere. Vuole che il pensiero manifestato sia uniforme, di taglio democraticamente uniforme. Ogni originalità gli pare nociva agli interessi pubblici. È proibito il lusso, il divertimento del pensare, del fare sfoggio della propria intelligenza, della propria ricchezza interiore (e sia pure ricchezza di cenci di similoro). La censura di questa ricchezza è stata inesorabile, ha sequestrato, ha bruciato, ha distrutto.

È mancata l'altra censura, la vera tradizionale censura, che colpisce il censo, il lusso, il piacere. Nessuna legge che proibisse l'ostentazione della ricchezza inutile, perché trasformata in gioielli e acconciature, e detratta al lavoro, alla produzione. Il censore dei costumi non è stato creato cosí come quello delle idee. Unico censo da limitare, le idee, unica ricchezza da sequestrare, le idee. Lo Stato si è rivelato sempre meglio per Stato borghese, nel significato piú gretto. Le idee sole sono i nemici dello Stato. Non le idee che possono sorgere in tutti i cittadini nel vedere certi spettacoli, ma determinate idee, quelle di determinate persone, e di determinati aggruppamenti.

[Sei righe censurate].

(16 novembre 1917).

LA VITTIMA DEL GIORNO

La canea giornalistica si è scatenata oggi contro gli affittacamere, gli albergatori di ogni categoria. Questi sono gli strozzini, gli spudorati sfruttatori dei bisogni dei profughi, sui quali si abbatte l'imprecazione sdegnosa di chi ha l'obbligo di riempire qualche mezza colonna di giornale e deve pure, in un modo o nell'altro, dimostrare alla folla dei lettori che il suo giornale è sempre pronto ad ogni giusta e santa battaglia, che sa interpretare i sentimenti, esprimerne le collere. Ed i cittadini leggono soddisfatti e fremono indignati. L'onesto bottegaio vendendo per la misera somma di ventidue soldi ottanta grammi di burro, che sono ufficialmente cento, dice: «Ha letto il "Momento"? Come gliele canta bene a questi osti!» Il padrone di casa che pur ieri ha ottenuto lo sfratto della famigliola che ha il padre al fronte e la madre nell'officina, perché fu oltrepassato di una giornata il termine entro il quale la consuetudine vuole si paghi la pigione, acconsente: «Che canaglie! Ma cosa fanno le autorità?» Le autorità naturalmente intervengono; il prefetto ordina il censimento dei profughi, il questore lancia una grida obbligante alla denuncia degli affitti. Gli albergatori, gli affittacamere brontolano; poi si riuniscono e votano un magnifico ordine del giorno patriottico e continuano a fare il loro mestiere. Con un po' di prudenza e di abilità si arrangia tutto in questo mondo. Può darsi che qualcuno caschi nelle grinfie di un poliziotto: sono gli incerti del mestiere. Si può ricorrere però a due o tre gradi di appello, vi sono trenta o quaranta decreti luogotenenziali, le pene sono miti, vi è la condizionale, la libertà provvisoria; si spera nell'amnistia. I tre anni del decretone si riservano per quegli altri.

[Cinquanta righe censurate].

(22 novembre 1917).

STORIA D'UN UOMO

CHE HA BATTUTO IL NASO CONTRO UN LAMPIONE

Serata di nebbia. È mezzanotte, un'ora nella quale non possono capitare che grandi delitti e strabilianti avventure. L'uomo cammina tutto solo, in mezzo alla via, cautamente. Scoccano lentamente le ore. Ogni ora due passi. Dodici ore ventiquattro passi, un urto. L'uomo si ferma; si palpa la faccia, la sente umidiccia. Asciuga il sangue che scorre dalle narici e riflette. Sente che è scoccata l'ora topica della sua vita: sente di essere a posto con la tradizione che vuole sia la mezzanotte l'ora dei grandi delitti e delle strabilianti avventure. L'uomo continua a forbirsi con tranquillità. La sua avventura va di là da un banale urto del naso, da una banale emorragia. È tutta la sua persona che ha urtato contro il lampione della piazza in incognito, che ha urtato con tutta la terra, con tutti quelli che sulla terra abitano, almeno su quel frammento di terra che l'uomo era riuscito fin allora solo a distinguere, con la Patria, per intendersi, o se si vuole meglio, con l'Intesa, che in questo momento è la patria piú grande.

L'urto ha suscitato scintille, e le scintille hanno dato fuoco al mucchio di sensazioni indistinte, di sentimenti vaghi che l'uomo aveva accumulato da tre anni. Esse si sono fuse in un blocco. L'uomo non aveva mai pensato tanto in tre anni, se è vero che pensare vuol dire connettere, generalizzare, universalizzare. L'uomo aveva vissuto, solamente. Aveva ristretto la sua vita, senza accorgersi che essa si allargava, si tipizzava, perché di giorno in giorno era diventata uguale alla vita degli altri.

Alzarsi al mattino a un'ora determinata. Ecco tre anni fa ciò che rendeva simile l'uomo a una certa quantità di altri uomini. Poi venne il resto. Mangiare solo ciò che gli altri mangiano, leggere solo ciò che gli altri leggono, andare solo dove gli altri vanno; gli altri stringevano l'uomo da presso, gli tagliavano la strada, gli misuravano la vivanda, gli misuravano i passi, gli misuravano se non il pensiero, almeno gli stimoli al pensiero che quotidianamente il giornale gli offriva.

L'uomo non s'era accorto del cambiamento che era avvenuto nei rapporti tra la sua persona e gli altri. Non se n'era accorto distintamente. L'urto del naso nel lampione lo pose a contatto con gli altri: egli sente ora la collettività. Gli hanno misurato la luce, gli hanno dato una luce di un certo colore. La luce è ciò che piú di tutto lo unisce agli altri: la luce dei lampioni che gli uomini hanno inventato per distinguersi meglio dalle fiere, per non urtarsi fra loro, rendere meno probabili gli urti volontari fra gli uomini-fiere e gli uomini-agnelli.

L'uomo sente la collettività. La sente tutta in sé, la misura tutta sulla sua persona, sulla sua vita. Ora sa chi sono gli altri, perché sa come mangiano e quanto mangiano, come vestono, come calzano, o come pensano, ciò che sanno, ciò che devono ignorare. Pensa che il collettivismo sia una cosa ben esecrabile, se fa urtare il naso nei lampioni, se riduce le vite degli uomini a meccanismi tipici, a serie.

L'uomo pensa. In fondo, riflette, non è la collettività che ama battere il naso. La collettività c'entra poco in tutte queste diavolerie. La collettività non conosce l'Imperio, conosce la Libertà. Il collettivismo della luce bleu è il collettivismo di una minoranza, non di una maggioranza: è il collettivismo per decreto luogotenenziale; non è il comporsi armonico di tutte le volontà in una volontà, di tutti i bisogni in un utile universale. Il collettivismo della luce bleu è la caserma che veniva levata come spauracchio dinanzi alle fantasie pavide ieri, quando l'altro collettivismo faceva paura. È collettivismo della sofferenza, ma non della felicità.

L'uomo pensa sotto il lampione, e continua a forbirsi la faccia. Pensa che non troverà una fontanella per lavarsi e che il sangue manda nella sua gola un tanfo acre e dolciastro, insopportabile.

(27 novembre 1917).

LA STORIA DEI CERINI

L'«Idea nazionale» ha fatto una scoperta. Ha scoperto che in una tabaccheria di Napoli, il 27 novembre, per ben quindici centesimi caduna, furono acquistate due scatole di cerini, pericolose per la patria. Erano esplosivi i cerini? Avevano della dinamite nella capocchia o nel gambo? Affatto. Le scatole avevano delle vignette socialiste. Invece delle teste di regnanti, o di scene idilliache, le vignette rappresentavano «I lavoratori che spezzano le catene», «La fede socialista che guida i lavoratori». Nel verso di una era persino riprodotta la prima strofa dell'inno turatiano. Roba da far drizzare i capelli a tutti i Federzoni ed a tutti i Monicelli... cui certi ricordi devono seccare infinitamente. Neppur fumare un sigaro senza che le reminiscenze di tempi meno beati e meno fruttiferi siano risvegliate! L'«Idea nazionale» protesta! Come, in tempo di guerra il Monopolio dello Stato mette in circolazione i cerini rivoluzionari, con inni dei lavoratori, incitamento all'odio di classe, allegorie avveniristiche e tutti gli ingredienti reali e simbolici della propaganda pus1...? L'«Idea nazionale» documenta, riproduce le quattro vignette, in quattro clichés abbastanza brutti, onde non c'è nessun dubbio che il fattaccio sia realmente avvenuto, che i prefetti e i censori non reprimono la propaganda oscena! Vada per l'osceno. Ce ne sono tante a questo mondo di cose oscene... compresa la vendita di penne ai trustaioli della siderurgia...!

Ma noi ringraziamo l'«Idea nazionale» della notizia fornitaci. Poiché quelle scatole di cerini sono il frutto di una iniziativa presa, se non sbagliamo, qualche anno fa da un ex prete, oggi ex socialista ed interventista, regolarmente imboscato. Vi era stato un accordo con una ditta di Trofarello, la quale si impegnava ad usufruire di quei clichés ed a versare in compenso qualche somma alla cassa della nostra Federazione socialista provinciale. Ma i quattrini non si videro mai. Non sappiamo se gli industriali, foraggiatori dell'«Idea nazionale», mantengano cosí i loro impegni. Probabilmente però, i pennaioli nazionalisti riescono sempre a prenderli, i quattrini.

Noi invece, che di affari non siamo pratici, fummo fino ad oggi truffati. Credevamo anzi che la ditta Lavaggi non ne stampasse piú di quelle vignette. L'«Idea» ci avvisa che esse continuano a circolare. Mille grazie! Il nostro amministratore si è affrettato a chiedere la regolarizzazione dei conti. Non solo la propaganda socialista, ma anche i quattrini, avremo. Come sono stati gentili i colleghi romani! Perdoniamo loro l'oscena!

(15 dicembre 1917).

GRANDOLINI

È l'ultimo tappo di sughero venuto a galla nella palude dell'interventismo rivoluzionario. È pittoresco come Tito Livio Cianchettini. Ha delle necessità metafisiche come Tito Livio Cianchettini. Il susseguirsi delle idee che egli travasa nei fogli volanti e che vorrebbe travasare nei cervelli dànno l'idea di una nascita di piccoli scarafaggi dai boli che la madre scarafaggia ha con cura avvoltolato nelle strade per deporvi le uova. Un bolo si squarcia, e lo scarafaggetto grandoliniano ne balza: «Universalista rivoluzionario è colui che pel Diritto sa vivere e sa morire». Voi capite che l'Universalista Grandolini ha fatto una scelta: egli è pel diritto di vivere. «Universalista rivoluzionario è quello che accetta la verità da qualunque parte essa venga, col patto però di non tacerla mai». Quest'aforisma è il programma gnoseologico grandoliniano, è la chiave di volta della sua teoria e della sua pratica.

Per essa Grandolini raccoglie la verità, fa i boli e questi chiama «sintesi storiche». Una «sintesi storica»: per affermare questo suo spirito di violenza e di predominio «sin dagli antichi tempi elevarono la colossale statua al germano Arminio quale simbolo della forza ed orgoglio della razza. Sin da allora uscirono dalle foreste per affermare all'umanità non tedesca la spietata guerra contro il diritto romano, per asservire le altre razze al loro volere». Le sgrammaticature sono i fuscelli del bolo: anch'esse sono verità accettate da qualunque parte e pertanto integrano la sintesi costruita dal cervello storico di Grandolini, che confonde il tempo e lo spazio e fa sorgere il monumento d'Arminio negli antichi tempi dei guerrieri adorni di penne di pollo. E Grandolini continua. Il diritto, la morale, la scienza, l'atavismo, il militarismo, il socialismo rotolano, si arrotondano, maturano, si squarciano e scarafaggi nascono e sgambettano. «I pontefici del socialismo ufficiale ai loro fedeli fanno credere che anche il socialismo è invenzione tedesca». Ma questa «invenzione» è una «invenzione», perché di socialismo si parlava fin dal tempo di Filone Caldeo e di Sanconiatone Assiro, che Grandolini ha letto nei testi originali; Marx ha imparato il socialismo a Bruxelles, Engels in Francia, e il famoso manifesto non è opera loro: i due furono semplicemente «incaricati di firmarlo», anzi si fecero incaricare perché a firmarlo non fossero altri, e alla Germania rimanesse il predominio anche in questo campo. Molte sono le parti donde Grandolini accetta la verità per il suo universalismo rivoluzionario; sono tante che sarebbe difficile trovarle nella carta geografica. Ma le carte geografiche sono anch'esse, come è noto, di fattura tedesca, e Grandolini fa bene a non curarsene. Egli va dritto al suo scopo, come Tito Livio Cianchettini: è un uomo di fede, e la fede muove le montagne, anche se montagne di spropositi.

(16 dicembre 1917).

DANEO

L'on. Daneo si è assunto alla Camera l'ingrato compito di tutelare il buon nome di Torino e il culto delle sante tradizioni del Risorgimento. Parlare di Torino è suscitare un fatto personale con l'on. Daneo. La maggioranza dei torinesi (3556 voti su 100 000 elettori e 500 000 abitanti) è impersonata nell'on. Daneo, che è diventato una sensitiva e s'inalbera ogni qualvolta un qualsiasi Pirolini «mette il dito nella piaga». Non meravigliamoci.

Daneo è uno dei piú grandi disfattisti d'Italia. È uno dei disfattisti della vigilia. È un rappresentante di quel ceto borghese affarista e politicante che ha impacciato lo sviluppo economico ed intellettuale della classe borghese italiana, e ha condotto l'Italia alle condizioni di sfacelo amministrativo e politico in cui la guerra l'ha sorpresa. Ha iniziato la sua carriera politica come crispino. È corresponsabile della politica grandiloquente che ha cacciato l'Italia nelle lotte coloniali, nelle guerre commerciali di tariffe che rovinarono mezza Italia, e determinarono l'emigrazione di sei milioni di italiani. È un leggero immorale. Roso dall'ambizione, senza preparazione tecnica, senza intelligenza sufficiente, ha ricoperto alte cariche portatovi dalla politica di corridoio. È uno dei tanti microbi politici che hanno sforacchiato il gracile organismo del giovane Stato italiano, ne hanno spezzato i tendini e macerato le ossa. Il suo spirito di civismo si è esaurito tutto nei discorsi per la «Dante Alighieri»: retorica bolsa, vernice velenosa che nascondeva i mali, li incancreniva. Non ha mai lavorato, non ha mai preso sul serio nulla. Ministro delle finanze nel gabinetto Salandra, quando piú urgeva risolvere i problemi che avrebbero in seguito ostruito il libero svolgersi delle attività nazionali, se ne stava lontano da Roma, passava le sue mezze giornate a passeggiare sotto i portici di piazza Castello. Quando già incominciavano a farsi sentire le prime ripercussioni dell'entrata in guerra, e tutta la impalcatura dello Stato scricchiolava per le gravezze nuove, Daneo si crogiolava nella beata illusione del migliore dei mondi e dello stellone d'Italia, e lasciava ai burocratici del ministero il disbrigo degli affari d'ordinaria amministrazione. I borghesi seri, che sentono la responsabilità che grava sulla loro classe, dovrebbero essi prendere a pedate questo frustolo d'uomo, questo parassita della loro energia e attività. Dovrebbero essi vergognarsi che Torino sia alla Camera esaltata da questo eletto dagli staffieri di casa reale e dai sacrestani del duomo. A noi socialisti Daneo fa solo nausea: non è solo un borghese, è un cattivo borghese; è doppiamente parassita: della collettività e della propria classe. Il Manifesto dei comunisti è anche un inno (e sia pure quest'inno un epicedio) alla borghesia produttrice, creatrice di scienza, di tecnica, di ricchezza. Daneo è uno spurgo della borghesia. È tafano che si nutre di sangue piagoso. È piccola astuzia, faciloneria, pigrizia mentale e fisica. Certe sue conversazioni private in municipio sono, per la legge borghese, delitti di alto tradimento. Tutta la sua vita è un alto tradimento per la morale del bene sociale.

Ma in Italia Daneo parla per la Patria [cinque righe censurate].

(22 dicembre 1917).

IL TRIANGOLO E LA CROCE

Il «Momento» contro la «Gazzetta del Popolo». La «Gazzetta» riporta le accuse di Pirolini contro i preti, ma non riporta le rettifiche e le smentite. Il «Momento» si arrovella: la sua ira santa si converte in moneta spicciola di ingiurie. Il «Momento» non ha rettificato la sua invenzione sulla morte del brigadiere Fiorucci, dovuta a Francesco Barberis e complici. Io che non sono santo non m'incollerisco e non converto la mia santità in ingiurie. Io mi spiego che il «Momento» e la «Gazzetta» si comportino allo stesso modo verso gli avversari: calunniare e non rettificare. La croce e il triangolo sono due simboli di due mentalità opposte ma simili. Cattolici e massoni, clericali e democratici rappresentano uno stesso momento dello spirito. Iddio equivale al grande architetto: l'occhio che perseguita Caino, i massoni l'hanno imprigionato in un triangolo, forse prima che una condanna a morte eseguita colla croce, secondo l'uso romano, regalasse ai cattolici il loro simbolo. Massoni e cattolici pongono fuori del mondo, della storia, le cause della vita del mondo, del divenire storico. Per i cattolici è la Provvidenza divina, per i massoni e i democratici è l'Umanità, o altri principî astratti: la Giustizia, la Fratellanza, l'Uguaglianza. Sono religiosi, nel senso peggiore della parola, gli uni e gli altri: adorano l'assoluto extraumano. Pertanto sono dilettanti gli uni e gli altri: non comprendono la storia, hanno della morale un concetto tutto esteriore. La sostanza degli avvenimenti storici sfugge al loro senso critico. Sono retori gli uni e gli altri: il verbo è tutto, la declamazione è tutto. Pertanto sono settari e autoritari. Hanno conservato nella loggia e nella sacrestia (con annesso confessionale) anche i segni esteriori della genesi loro.

Sono dissaldati dalla vita storica, che è lavoro e produzione, che è libertà e forza palese, senza infingimenti e ipocrisie. Non comprendono la lotta, se non tra astrazioni: l'Umanità, la Giustizia contro il Militarismo e la Reazione, il Bene contro il Male, Abele contro Caino. Come tutti i dilettanti di astrazioni sono settari e ipocriti. Se trovano, degli avversari sulla loro via, cercano eliminarli con mezzi obliqui, insidiosi: come tutti gli impotenti usano le armi sleali dell'insinuazione, della voce calunniosa. E specialmente tra loro, cattolici contro massoni, clericali contro democratici, e contro tutti gli altri. La «Gazzetta» non perde un'occasione per sollevare le sottane ai preti; il «Momento» non trascura occasione per diffamare e insultare tutti. Messi sull'avviso non rettificano: tacciono, sornionamente, perché credono che il verbo possa diventare carne, e la calunnia possa trasformare la storia. Godo quando si abbaruffano tra loro, facendo, come le ballerine, risuonare le ferraglie dei loro simboli: il triangolo e la croce.

(25 dicembre 1917).

PROPAGANDA

L'onorevole Bevione ha tenuto una conferenza alla Lega esercenti. Ha parlato della «situazione», della Russia, dell'Italia, e ha parlato anche degli esercenti torinesi. Poveri esercenti torinesi, amareggiati, come ben ha detto il cav. Guglielmi, «dalle ingiuste prevenzioni del pubblico che, per vieto preconcetto, non vuole scindere le colpe di pochi dalla totalità dei commercianti», amareggiati «dalla guerra del Partito socialista, che tenta di portare alle sue cooperative il commercio alimentare ed i relativi utili per le spese alla lotta di classe»! L'on. Bevione li ha ricompensati: ha per un paio d'ore affettato in loro presenza le questioni del giorno, ha pesato sulla bilancia del suo senno politico i fattori della vittoria e della sconfitta. Pizzicarolo dell'italianità, merciaiolo della diplomazia, formaggiaio delle alleanze, l'on. Bcvione si è trovato subito all'unisono coi suoi ascoltatori. La mentalità sua è quella degli esercenti, e questi possono esser fieri e superbi del loro deputato. Il mondo per l'uno e per gli altri è solo una pizzicheria ingrandita, in cui si cerca di frodare il calmiere e rubare sul peso. E i reggitori del mondo, con un coltello unto in mano e un grembiulone di fatica, affettano, affettano: tanto a te e tanto a me, e incartano e segnano a registro.

L'esercente, per l'on. Bevione, è diventato il nume tutelare della resistenza interna. Un compito enorme assegna ai suoi colleghi il pizzicagnolo della politica estera: far resistere il popolo minuto. Tra una vendita e l'altra, tra una protesta e una domanda di credito, il buon esercente dovrà far la predica. Chi meglio di lui conosce l'anima del popolo minuto? L'anima si conosce attraverso lo stomaco: dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. L'esercente è il padrone dello stomaco: diventerà il padrone delle anime, diventerà il guidatore delle coscienze italiane.

Dall'alto del suo banco, la testa confusa tra i salami e i prosciutti appesi al soffitto, parlerà di Federico Barbarossa e degli Unni; nell'atto di scoperchiare un bariglione di salacche ricorderà Alberto da Giussano e gli eroi del Carroccio; col coltellaccio pronto a tirare un fendente sulle terga di un bue squartato, canterà, il buon esercente, le gesta dei paladini e dei crociati; brandirà una cotoletta di porco contro i turchi, e vendendo una candela di sego ricorderà le gesta dei croati.

La guerra vista sotto specie esercentesca, acquista, senza dubbio, in pittoresco e in gustosità. Se gli esercenti seguiranno l'impulso impresso loro dall'on. Bevione, molte cose cambieranno. L'opinione pubblica subirà una metamorfosi. Dalle botteghe oscure, allietate dei profumi piú intensi di merluzzo e di cacio pecorino, uscirà l'Italia rinata ai suoi destini sul Piave e sugli altipiani.

È vero che l'on. Bevione quest'opera di propaganda la ritiene indissolubile «dallo scrupoloso ossequio alla legge», ed è anche vero che il cav. Guglielmi non vuol mai decidersi a render conto dell'attività commerciale svolta prima della sua calata a Torino e della sua carriera di rappresentante dell'illustre e benemerita classe degli esercenti.

(1° gennaio 1918).

L'ULTIMO TRADIMENTO

Achille Loria fa sapere, nella «Gazzetta del Popolo», di essere recentemente caduto dal settimo cielo. Lo spintone glielo ha proditoriamente dato Nicola Lenin, e anche di ciò Lenin dovrà rispondere il giorno del giudizio universale.

Loria ha letto (venti anni fa, dice, ma io credo abbia avuto notizia del titolo e del contenuto del libro cinque minuti prima della caduta) un libro di Wladimiro Ileijn sullo sviluppo del capitalismo in Russia. Wladimiro Ileijn non è che Wladimiro Uljanof, ossia che Nicola Lenin. Nel libro si dimostra (con molti documenti) che l'assetto capitalista va svolgendosi in Russia secondo le stesse leggi che han presieduto al suo sviluppo nelle società europee, sebbene con ritmo attenuato, e si trionfa della tesi socialnazionalistica che la Russia sia un paese privilegiato e superiore, che può evitare la tappa capitalista e balzare d'un tratto dalle tenebre del feudalismo ai fulgori del collettivismo integrale. Ora Lenin «si agita» per istituire il socialismo in Russia immediatamente, si rivela in contraddizione irriducibile con la sua opera scientifica di venti anni fa, riabilita clamorosamente la tesi flagellata in altri tempi e sferra lo spintone che ha fatto ruzzolare Achille Loria di cielo in cielo, dal settimo fino all'aiola che ci fa tanto feroci.

Povero Achille! Non bisogna andare in collera con lui, se parla di un «accodarsi» dei rivoluzionari russi «ad un esercito straniero», di un «invocare il soccorso dello straniero» per compiere l'opera rivoluzionaria! Il Loria è sotto l'impressione della caduta, e dimentica di essere uno «scienziato», e dimentica il primo dovere degli scienziati, che è quello di vagliare i documenti e servirsi solo di quelli che hanno il carattere della genuinità e della autenticità. Altrimenti il Loria non attribuirebbe ai rivoluzionari russi tante malefatte, e probabilmente non attribuirebbe neppure al Lenin l'intenzione di istituire il socialismo, nelle forme che il Loria intende con questa espressione. Perché «istituire il socialismo», come tutte le frasi perentorie, può voler dire una infinità di cose. Può voler dire istituire quella tal forma di società che si suppone debba sbocciare quando l'attuale società abbia raggiunto il culmine del suo sviluppo, e la produzione sia tutta capitalizzata, e gli uomini siano divisi con un taglio netto in capitalisti e proletari, tutti i capitalisti da una parte, tutti i proletari dall'altra. Pretendere di istituire immediatamente questa società sarebbe davvero assurdo, come sarebbe assurdo dar moglie a un bambino di due anni e aspettarsi un figliolo dopo i nove mesi dalla cerimonia. Ma istituire il socialismo può significare anche altro, e tra quest'altro c'è anche ciò che si sta facendo in Russia. E vuol dire allora: abolizione di ogni vecchio istituto giuridico, abolizione di ogni vecchio privilegio, chiamare all'esercizio della sovranità statale tutti gli uomini, e all'esercizio della sovranità della produzione [tutti] quelli che producono.

Il ruzzolone scientifico non sarebbe avvenuto se Achille Loria avesse pensato che le rivoluzioni sono sempre e solo rivoluzioni politiche, e che parlare di rivoluzioni economiche è un parlare per metafora e per immagini. Ma per il fatto che economia e politica sono strettamente legate, la rivoluzione politica crea un ambiente nuovo alla produzione e questa si svolge con fine diverso. In ambiente giuridico borghese, la produzione ha fini borghesi; in ambiente giuridico socialista, la produzione ha [fini] socialisti, anche se debba per molto tempo ancora servirsi della tecnica capitalistica, e non possa dare a tutti gli uomini quel benessere che in regime collettivista si immagina tutti gli uomini debbano e possano avere.

Sarebbe bastato per comprendere e giustificare «scientificamente» il socialismo russo domandarsi se era possibile, per esempio, continuare a giudicare i reati col codice czaristico, in cui le pene e le assoluzioni sono strettamente dipendenti dal principio d'autorità e dall'abuso del principio di proprietà privata, e se pertanto far giudicare secondo coscienza non sia, in linea provvisoria, l'unica soluzione possibile. Domandarsi se i socialisti, andati al potere sotto la spinta popolare, potessero non continuare ad essere socialisti e abolire i vecchi istituti e gettare le basi dei nuovi. E se l'atteggiamento dei rivoluzionari russi rappresenta una necessità, cosa può obiettare la scienza che è appunto ricerca e determinazione delle necessità, all'infuori di ogni apriorismo dogmatico? E in un paese che manda alla Costituente quasi il cento per cento dei suoi rappresentanti scelti tra gli assertori del socialismo, non sono necessità spirituali il socialismo, gli istituti giuridici socialisti, un impulso ai fini socialisti della produzione? Se è avvenuto in Russia che i cittadini hanno mandato a fissare la Costituzione quasi solo dei socialisti, ciò ha fatto comprendere a Wladimiro Ileijn che la Russia, pur non essendo il paese dei miracoli, è il paese dove si può evitare che la classe borghese vada al potere e giustifichi una fatalità che esiste solo negli apriorismi libreschi del professor Achille Loria.

(3 gennaio 1918).

CRONACHETTA

I giornali cittadini hanno dato la notizia che sono stati trovati, per le strade i cadaveri di due vecchi uccisi dal freddo. Anche l'«Avanti!» se l'è sbrigata con poche righe, con una piccola notizia di cronaca. Ieri una povera vecchia è stata uccisa dalla sincope, perché sfrattata dal padrone di casa pretendente ad ogni costo un aumento di affitto. Quanto spazio dedicheranno al fatto i grandi quotidiani? I fatti valgono del resto? Anche in questo momento mentre scrivo, e vedo i corpi sporchi, logori, rattrappiti, brutti quasi mi fossero dinanzi nella loro materialità, mormora nella profondità oscura dell'anima mia un'insistente, sottile voce: «Non scrivere parole di pietà, non protestare. Non serve né a te né agli altri. Che puoi tu dire di nuovo, di sentito per fatti cosí comuni?»

[Ventidue righe censurate].

Per questo i giornali borghesi dedicano le colonne ai drammi passionali, pubblicano i ritratti delle vittime dell'amore, costringono in brevissimo spazio le tragedie della miseria e delle prepotenze dei padroni. Ubbidiscono ad interessi ed a desideri di classe. Un quotidiano usa oggi parole aspre contro il proprietario carnefice della vecchia inquilina. [Mezza riga censurata]. Sono ormai anni che i padroni di casa imperversano, che violano i decreti luogotenenziali, che, forti di denaro, di autorità, di capacità, complici magistratura e municipio, abusano della miseria e dell'ignoranza di tanta povera gente. Chi ha mai protestato? Chi ha mai denunciato il trucco del rifiuto del denaro dell'affitto, che è poi accampato come pretesto per il risolvimento del contratto, e che dai conciliatori è, in mala fede, accettato come valido? Ed anche oggi, mentre in terza pagina il giornale clericale si sdegna contro il proprietario, in seconda pagina con un tortuoso e untuoso articolo, un avvocato, nonché consigliere comunale, comincia a lamentare la sorte dei poveri proprietari, cui si possono aumentare le tasse senza che essi abbiano modo di rivalersene. Ed afferma che il summum ius si è tramutato in summa iniuria. Cosí è. Qualche piagnisteo ipocrita, ma nella realtà la tutela energica e pronta degli interessi delle classi ricche.

[Due righe censurate].

(11 gennaio 1918).

LA QUINTA ARMA: IL MENÚ

Il «Popolo» della sera tra la corrispondenza spagnuola (Torino, gennaio), la sciarada ed il pensiero di Gotamo Budda o di Tito Livio Cianchettini, ha introdotto una nuova rubrica: Il pranzo di domani. Ogni sera i torinesi frugali che leggono gli articoli dell'on. Bevione sui doveri civici in politica, e quelli di Gino Borgatta sui doveri civici in economia, trovano un appetitoso menú nel quale si sintetizzano i sacramenti ed i dieci comandamenti del perfetto italiano: risparmio, con conservazione alla patria dei cittadini in buono stato e possibilità di moltiplicazione per i destini progressivi. Anche noi leggiamo il menù ogni sera, pur essendo anabattisti. E ogni sera rimaniamo incantati della saggezza con la quale il signor conte Delfino Orsi è riuscito ad organizzare il suo giornale, dalla politica estera alla scelta delle piú brillanti sciarade, dal romanzo ai consigli della buona massaia. Se il foglio crepuscolare orsino arriva fino alle mani delle vittime dei von Batocki teutonici, non c'è dubbio che anche il menú quotidiano possa diventare una buona arma di guerra. Le massaie berlinesi, monachesi, viennesi, confrontando i menú italiani coi menú germanici, non potranno che misurare meglio il baratro oscuro in cui le ha tratte la pazzia criminale del loro imperatore, e l'insonnia sintomatica dell'imperatrice madre. Perché lo studio accurato e paziente dei menú popolini è veramente rivelatore. Contemplano il pranzo e la cena (prima constatazione: in Italia vige ancora il costume prezioso di integrare il pranzo con la cena). Essi contemplano le famiglie di cinque persone (seconda constatazione: in Italia la media del numero delle persone componenti una famiglia è di cinque: in Germania, sommando il numero dei morti a varie riprese dati dalla «Gazzetta», le famiglie sono composte di una persona e un quarto, una persona e mezza al massimo). Essi contemplano la minestra, il formaggio, la frutta una o due volte al giorno. Essi contemplano la spesa quotidiana di lire diciotto-venti per cinque persone. Le constatazioni si moltiplicano. La «Gazzetta» è del popolo: è plausibile credere che sia il popolo a leggerla, che il menú e la spesa si contemplino, sotto specie di frugalità e di risparmio, per il popolo, non per la borghesia grassa. Dunque un capo di famiglia del popolo può spendere venti lire al giorno per il pranzo e la cena (vino ed acqua di seltz esclusa). Una famiglia di cinque persone non spende solo per il pranzo e la cena. Se è seguita la massima tedesca (seguiamo il nemico nei principî che hanno contribuito a renderli forti e compatti, predica la «Gazzetta»): spendi per mangiare meno di quanto sei, per l'abitazione piú di quanto sei; le venti lire rappresentano solo la metà delle spese quotidiane: altre venti lire dovranno essere spese per gli abiti, la pulizia e l'abitazione. E siccome l'uscita deve essere sempre inferiore all'entrata, è plausibile concludere che un padre di famiglia, che deve pensare al mantenimento di cinque persone, guadagna quotidianamente a Torino cinquanta lire al giorno. Se possono offrirsi i menú popolini dunque, può concludersi che non manca in Italia né burro, né farina, né verdura, né carne, né pomidori (per la salsa), né senape e peperoncini per stuzzicare l'appetito, e non mancano i guadagni superbi (essi non solo non mancano, ma anzi sono comuni, perché il menú è dato per la media dei lettori) che permettono di consumare tutto questo ben di dio di cui riboccano i mercati e le vetrine. Cosí il menù può diventare la quinta arma per lo schiacciamento dei nemici, ed il conte Delfino Orsi accumula i titoli per diventare il terzo giornalista italiano che entra in Senato per apportarvi i lumi e l'intelligenza necessari per renderlo piú adeguato all'altezza dei tempi.

(14 gennaio 1918).

A ME STESSO

Caro me stesso. — Ho riletto oggi il Sotto la Mole di ieri. Ho trovato che esso è unilaterale, mentre la guerra, direbbe il signor de La Palice, non può non essere bilaterale. La guerra, e le ripercussioni di tutte le iniziative e le propagande che i signori oltranzisti prendono e fanno ai fini della guerra.

Cosí anche il menú, come tutte le armi, è un'arma a doppio taglio. Essa ferisce anche chi la impugna, e questa volta la ferita è cosí grave che è lecito affermare trattarsi di uno dei tanti misfatti di disfattismo di cui si sono resi colpevoli la «Gazzetta del Popolo», e il direttore suo, conte Delfino Orsi.

Le constatazioni necessarie dedotte dalla lettura del Pranzo di domani sono: a Torino la media del popolo guadagna 50 lire al giorno, e può offrirsi dei pranzetti e delle cenette in cui non mancano la carne, il burro, il formaggio, la pasta, il riso. Se questa media veramente esistesse, e potesse veramente offrirsi le preziose leccornie su elencate, la lettura del giornale orsino sarebbe innocua come una qualsiasi consultazione di un qualsiasi Cuoco per tutti. Avviene invece che la media e la possibilità sono nient'altro che un'arma di guerra, l'ultima ricetta per tenere alto il morale. E allora le conclusioni interne sono d'una gravità proditoria incalcolabile. Ogni singolo cittadino crede all'esistenza reale della media e della possibilità, e per la diretta conoscenza del proprio bilancio familiare e delle possibilità mercantili della piazza, si persuade di essere egli escluso dalla media, di essere egli escluso dalla possibilità di acquistare pasta, riso, burro, formaggio. Ogni singolo vuol significare tutti, in linguaggio matematico, e cosí si formerà l'opinione diffusa che tutti sono delle vittime, ma che esiste una ipotetica media che si mangia tutte le derrate, che accumula tutte le ricchezze; e questa media non si potrà impersonare in un ceto superiore di classe, ma sarà un fantasma medio-borghese, un fantasma di untori, di monatti, di polverine, di miracolose persone che sono dappertutto e in nessun luogo come l'onnipotenza divina.

Questo il disfattismo del conte Orsi e della «Gazzetta del Popolo»: far nascere uno stato d'animo imponderabile, imprecisabile, perché ognuno crede di essere vittima ed è creduto dagli altri un Lucullo, perché ognuno soffre ed è creduto dagli altri un epicureo. È lo stato d'animo ideale per il diffondersi delle notizie piú strampalate, per l'affermarsi delle credenze piú fantastiche e mirabolanti. Il microbo tedescofilo vi trova la sua cultura naturale, e prospera e intacca il saldo organismo della resistenza nazionale.

Ma chi compie questa opera deleteria è il conte Delfino Orsi, il lampadoforo della tradizione piemontese. È la «Gazzetta del Popolo», la seminatrice di coraggio, la sentinella avanzata dell'italianità e dell'idea nazionale.

Queste constatazioni era necessario farle per integrare l'oltranzismo, e per dimostrare l'altra faccia immancabile: il disfattismo. Ma lo scandalo di Bolo Pascià non ha ancora aperto gli occhi a nessuno. Cordialmente. — Io stesso.

(15 gennaio 1918).

RISPETTO DEI DOCUMENTI

Il signor Italo Minunni si è offeso dell'attributo «canagliesco» con cui abbiamo accompagnato la sua interpretazione (e dell'on. Bevionc) del discorso di Lloyd George, nella parte riguardante la Russia. Il signor Minunni prende lo spunto da quel nostro aggettivo per compiangere «i poveri illusi che credono il socialismo voglia sinceramente la pace per spirito di giustizia». E conclude tragicamente:

Il socialismo vuole la pace, quando fare la guerra significa liberare i nostri fratelli dal giogo austriaco, quando significa abbattere la egemonica potenza politica e militare del tedesco: ma chiama «canaglia» chi afferma che il sangue del nostro proletario e del nostro borghese non deve essere sparso in difesa di chi ha dato prova di tradimento e di vigliaccheria. Il socialismo non vuole la guerra per Trento e Trieste, ma non sarebbe alieno dal pretenderla, per farci difendere i bolscevichi traditori. In questo caso siamo noi, i «guerrafondai», che diciamo: no.

Il signor Minunni si è preso una scalmana proprio a freddo. Non è il «socialismo» che vuole, ecc.; è semplicemente un «individuo» socialista, il quale, avendo letto il discorso di Lloyd George, ha trovato che i signori Minunni e Bevione ne hanno dato, per ciò che riguarda la Russia, un'interpretazione arbitraria, volontariamente (preferisce il Minunni «stupidamente»? si accomodi) contraria allo spirito e alla lettera. Pertanto l'interpretazione non meritava che l'aggettivo «canagliesca».

[Undici righe censurate].

Abbiamo solo rilevato una falsificazione di documento. Lloyd George ha detto testualmente (piú o meno, a seconda della volontà delle agenzie):

Gli attuali governanti della Russia si sono impegnati, senza consultarsi preventivamente coi paesi che la Russia ha tratti alla guerra, in negoziati separati coi comuni nemici. Io non faccio dei rimproveri. Mi limito a enunciare delle constatazioni, per mostrare chiaramente perché la Gran Bretagna non potrebbe essere tenuta responsabile di decisioni prese in sua assenza e sulle quali non è stata consultata.

E dopo aver espresso la sua persuasione che i tedeschi avrebbero, ad ogni costo, conservate le conquiste fatte sul fronte orientale, e avrebbero assoggettato economicamente e politicamente la Russia, conclude:

Deploriamo tutti una tale prospettiva. La democrazia britannica vuole combattere a fondo al fianco delle democrazie di Francia, d'Italia e di tutti gli alleati. Saremo fieri di combattere fino in fondo al fianco della giovane democrazia russa. Ma se quelli che governano la Russia operano indipendentemente dagli alleati, noi non abbiamo alcun mezzo d'intervenire per impedire la catastrofe che minaccia sicuramente il loro paese.

Queste constatazioni, il Minunni e il Bevione hanno fatto diventare volontà di dare la rivoluzione russa in preda ai tedeschi come prezzo di concessioni tedesche agli alleati in occidente.

[Quattordici righe censurate].

(16 gennaio 1918).

CORRISPONDENZA COMMERCIALE

Il signor Mario Tometti (cavaliere o commendatore), banchiere di Catania, spedisce al signor Mario Leoni di Policastro questa letterina:

Sig. Mario Leoni — Policastro — Un giovane ragioniere di Policastro, il nome del quale troverete qui accluso, e che per tre anni fu al vostro servizio, chiede di essere ammesso nei miei uffici in qualità di segretario. Abbiate la compiacenza di informarmi sulla sua moralità e attitudine al lavoro. Gradite i miei ringraziamenti.

Mario Tometti

Il signor Mario Leoni cosí risponde al banchiere catanese Mario Tometti:

Accluso alla pregiata vs/ del 1° corrente ho trovato un foglio volante col nome di un impiegato che fu per tre anni al mio servizio, e che ora sareste disposto ad accettare in qualità di segretario qualora le informazioni fossero favorevoli.

Sono dolente di dovervi dire che ho avuto frequentemente a lagnarmi del contegno tenuto dall'impiegato in questione, e che fu in seguito ad uno spiacevole incidente, provocato dal suo temperamento violentissimo e caparbio, ch'io dovetti prendere la spiacevole misura di licenziarlo.

Non giova poi all'individuo in questione, l'essere iscritto al Partito socialista rivoluzionario, le teorie del quale sfoggiava in maniera inopportuna durante le ore d'ufficio, a danno della quiete e del buon andamento degli affari (!).

È per altro doveroso riconoscere ch'egli è abilissimo nella tenuta dei libri e nella corrispondenza in tedesco. Fate di queste informazioni uso discreto, e vogliate conservarmi la vostra amicizia.

Mario Leoni

Questo scambio epistolare naturalmente non è mai avvenuto. Mario Tometti e Mario Leoni non sono mai esistiti. Le due letterine sono invece contenute nel volume: Corrispondenza commerciale e scritture varie, del prof. R. Gaggero, stampato dalla casa editrice G. B. Paravia di Torino, arrivato alla settima edizione, e libro di testo nelle scuole tecniche, gli istituti e le scuole di commercio. Esse sono tipiche, devono rappresentare, pedagogicamente, tutta una serie di lettere, a domanda e risposta: si domandano informazioni su un impiegato, si risponde che egli non è raccomandabile per essere iscritto al Partito socialista rivoluzionario. Si insinua nell'animo degli scolari la persuasione che essere iscritto al Partito socialista è pericolosissimo per la sicurezza della carriera. Si accumulano sull'innocente capo dell'ipotetico rivoluzionario crimini di temperamento: rivoluzione, uguale violenza e caparbietà.

La lotta politica viene cosí trasportata nella scuola: opera di sobillazione e di capovolgimento dei valori. Si insegna che la capacità tecnica deve essere posposta, nell'attività pratica, alle idee politiche, come criterio per assunzioni di impiegati.

Ma il prof. Gaggero smercia sette edizioni del suo libro e la casa editrice Paravia lo fa adottare come testo nelle scuole di Torino.

(19 gennaio 1918).

I SURROGATI

Pietro Pozzan, missionario catechistico, ha pubblicato per incarico della Pia opera catechistica di Chiari un opuscoletto religioso-patriottico-morale-igienico, dedicato al soldato italiano. La copertina dà parecchie notizie interessanti: Cadorna alla sera, prima di addormentarsi, legge la Teodicea del Rosmini o la Bibbia; Joffre non ha mai voluto entrare in massoneria; Diderot insegnava il catechismo alla figlia; Victor Hugo voleva il carcere per i genitori che mandavano i figli a scuola senza religione. Diderot e Victor Hugo utilizzati per la propaganda clericale! Un bel colmo di sfacciataggine! C'è naturalmente l'approvazione ecclesiastica ed una lettera del vescovo castrense, il quale afferma che l'opuscolo è denso di dottrina soda, buona, ecc. ecc. Tutto ciò rimane nel campo delle solite pubblicazioni clericali, sempre piú numerose, ma delle quali sono molto piú interessanti quelle popolari, perché in esse si manifesta lo spirito della propaganda e dell'attività clericale molto meglio che nelle solenni omelie, o negli articoli dei giornali destreggiantisi gesuiticamente.

Ma non discorriamo di cose serie... L'opuscolo insegna che «ogni superiore comanda per ordine del re, il re comanda per ordine di Dio, quindi ubbidendo al superiore si ubbidisce a Dio». È la teoria del diritto divino riaffermantesi in tutta la sua integrità, mentre nelle note papali si ossequia il diritto dei popoli di disporre di se stessi. E potrebbe impressionare un cittadino del secolo ventesimo, che non fosse messo di buon umore al pensiero del caporale che rappresenta Dio, mentre ordina al cappellone di pulire il cesso. Chi sa poi se Lenin è investito di autorità divina, e se bisogna ubbidirgli? Non approfondiamo... Fra i superiori secolari è stabilita la seguente gerarchia: il capo dello Stato, i magistrati, i genitori, i tutori, i padroni, i maestri. Che anche i padroni lo siano per diritto divino?

Ma la parte piú allegra è quella riguardante le bestemmie. Dopo aver esposto tutti i mali provenienti da queste pessime abitudini, dopo aver provocato la piú grande paura per le pene eterne cui saranno soggetti i reprobi, ed aver consigliati i proponimenti per emendarsi, il buon sacerdote finisce per proporre una serie di surrogati. «Cambia la bestemmia, — dice, — in altra parola: per es., corpo di un cannone, sangue di maiale, per dieci, crispio sarto, per la madocca, porco mio e simili».

Il non plus ultra della scienza modernissima! Che cosa c'è ancora di autentico a questo mondo? Ci hanno abituati ai surrogati di pane, di caffè, di scarpe, di lane, di farina, di combustibili. Adesso anche quelli della bestemmia! Il male è che l'inventore non ha molta fantasia e c'è davvero pericolo che l'allievo malgrado la molta buona volontà si sbagli, e ritorni da capo, con non grande successo della pedagogia clericale che non sa offrirgli che un surrogato di religione!

(20 gennaio 1918).

DIAMANTINO

Oggi vi voglio raccontare la storia di Diamantino, come io stesso la udii, molti anni or sono, intercalata in una lunga e noiosa conferenza pacifista del professor Mario Falchi. Diamantino era un piccolo cavallo nato in una miniera carbonifera di un bacino inglese. Sua madre — povera cavalla! — dopo aver trascorso i primi e piú begli anni della sua vita sulla superficie della terra, soleggiata e allietata dal sorriso dei fiori, tra i quali, garrulo e lascivetto scherza lo zeffiro — era stata adibita al traino dei vagoncini di minerale, a qualche centinaio di metri sotto terra. Diamantino fu generato cosí, tra la fuliggine, nel nerore dell'aspra fatica, e non vide mai, l'infelice, i fiorellini dei prati e non annitrí mai, nell'esuberanza dei succhi giovanili, ai zeffiretti profumati di primavera. E non volle neppure mai prestar fede alle bellissime descrizioni che la mamma sua gli andava, di volta in volta, facendo delle bellezze, della luminosità, dei freschi e grassi pascoli che allietano il genere equino sulla superficie sublunare del mondo. Diamantino credette sempre di essere bellamente preso in giro dalla rispettabile sua genitrice, e morí fra la fuliggine e la polvere di carbone, convinto che le stelle, il sole, la luna fossero fantasmi nati nel cervello un po' tocco della stanca e affaticata trainatrice di vagoncini.

Ebbene, sí, noi siamo tanti Diamantini, ma non «noi uomini» per rispetto alla pace perpetua, come voleva nella sua conferenza il professor Mario Falchi; ma «noi italiani» per rispetto a una ben piú umile e modesta forma di convivenza civile: la libertà individuale, la sicurezza personale, che dovrebbe essere assicurata a tutti i cittadini dal regime individualista borghese.

Ci agitano dinanzi agli occhi lo spettacolo pauroso dello sfacelo sociale in Russia, dei liberi cittadini russi in balía a tutte le aggressioni, non sicuri dei loro averi, vaganti nelle boscaglie, ricoperti i corpi scheletriti di cenciame, strappantisi vicendevolmente le radici per potersi sfamare. E vi contrappongono la nostra libertà, la nostra sicurezza.

Ma noi siamo come Diamantino. La nostra sicurezza, la nostra libertà, non l'abbiamo mai viste. Ci parlano di un mondo che non abbiamo mai visto, dove non abbiamo mai vissuto.

[Quarantadue righe censurate].

Abbiamo sentito dire che questa libertà, questa sicurezza sono in altri paesi garantite ai cittadini: ne abbiamo notizia dai libri e dai giornali, persone di assoluta fiducia ce l'hanno affermato, alcuni di noi lo hanno potuto constatare durante i loro pellegrinaggi forzati all'estero. Ma nel nostro paese? Per il nostro paese noi rimaniamo nello stato d'animo di Diamantino: ci pare sentire descrivere un paese incantato, di sogno, abitato da chissà quali miracolose creature della fantasia. La libertà, la sicurezza? Non riusciamo, sperimentalmente, a rappresentarcele: sono il mito, la favola, l'Eden cui tendiamo quando, in una delle poche notti dell'anno, dopo non aver avuto nella giornata e nella sera alcuna seccatura, dormiamo tranquilli e il magico sogno ci fa vivere in mondi ultraterreni.

(21 gennaio 1918).

SPOLVERO

Il consigliere cattolico Olivieri di Vernier ha presentato al sindaco un'interrogazione sulla deficienza nel servizio dei soccorsi d'urgenza. Il consigliere cattolico prepara facili meriti alla sua parte. Alla sua parte stanno molto a cuore le sorti degli infelici, che devono ricorrere al servizio municipale quando capita loro un infortunio. Un po' di spolvero, una piccola interrogazione; saranno dimenticati i gravi appunti che nel nostro giornale sono stati fatti agli istituti pubblici di ospedalità dove spadroneggiano le suore e i medici cattolici. Saranno dimenticati, per l'amore del prossimo, che si estrinseca nelle interrogazioni, i casi di quegli ammalati, che per la settarietà di una madre superiora e la faziosità di un medico sono stati cacciati dai luoghi di cura stremati dalle infermità, esasperati nel loro sentimento di giustizia, senza mezzi di sussistenza, esposti all'aggressione micidiale del freddo invernale. Un po' di spolvero, un decino di buone parole, una avemaria per le anime dei poveri defunti.

Diciamo queste cose perché risulti sempre piú chiaramente l'intimo carattere demagogico dell'azione clericale. Essa si esaurisce nelle belle parole, nelle esteriorità, non si approfondisce nei fatti, non cerca in nessun modo di operare sulla realtà per trasformarla, e specialmente per creare una coscienza diffusa del come le cose dovrebbero veramente essere. I clericali s'infiltrano nella vita pubblica solo per compiervi opera settaria, puramente particolaristica. Non fanno il bene per il bene, non compiono il dovere per il dovere. Il loro fine religioso stesso finisce con l'essere perduto di vista. Ciò che importa loro è l'apparenza di una loro forza, di una loro esistenza, che si manifesti in una grande quantità di persone che adempiano le pratiche del culto, in una grande quantità di persone che diano il voto ai loro candidati. Purché ci sia la pratica fanno a meno della fede; nel voto non ricercano un'anima, un'adesione ideale, una volontà che si prepara per un'affermazione di vita piú importante e piú profonda. Spolvero, esteriorità, macchinalità. Affermare e non fare, splendere e non rischiare, proclamare la carità ed essere freddamente crudeli, grettamente intolleranti.

E i liberali lasciano che i clericali facciano aumentare l'antipatia per il loro metodo politico, per il loro patrimonio ideale. Passerà quest'inverno; al ricominciare della dolce stagione gli ammalati ritorneranno al lavoro, riprenderanno le loro operosità interrotte. E quando il freddo ricomincerà, e l'infermità non darà loro tregua e saranno costretti a ridomandare ricovero negli istituti pubblici, ritroveranno le stesse suore caritatevolmente ostili, persecutrici dei loro piú intimi e preziosi affetti, gli stessi medici che scroccano lo stipendio per non adempiere il loro mandato.

Ma nel frattempo i consiglieri cattolici avranno manifestato il loro amore per gli infelici in venti interrogazioni, il «Momento» avrà celebrato l'ennesimo elogio del beato Cottolengo, e il senatore Frola avrà conclamato la piena vitalità della dottrina liberale, laica e anticlericale.

(26 gennaio 1918).

MANIFESTAZIONI POLITICHE

Bevione è uomo d'ingegno, dicono, ma ha certamente un difetto: ne vuole fare apparire piú di quello che in realtà ne abbia. Ciò gli nuoce e lo impiccolisce tanto che mentre è un buon riassuntore di fatti e di situazioni politiche, quando vuole aggiungere riflessioni sue cade in enormi contraddizioni ed inesattezze imperdonabili. Scrive il 5 gennaio: «La mentalità dei dominatori di Pietrogrado è cosí assurda, cosí penetrata da utopie, cosí passionale, cosí violenta che tutti gli impreveduti sono possibili». Ed il giorno 13, compiacendosi per il discorso di Pichon, afferma che «dimostrò come una verità luminosa ed irresistibile che i governanti russi sono fedifraghi, usurpatori del diritto di parlare in nome degli alleati, violentatori della volontà nazionale, indegni di accordi». Ma pochi giorni dopo è preso da improvviso entusiasmo e scrive: «I bolscevichi, bisogna riconoscerlo, lottano con intelligenza ed energia contro l'idealità degli avversari; l'ultimo documento di Trotzky in cui accetta la continuazione delle trattative di Brest-Litowski è notevole per logica e fermezza». Nel suo recente discorso alla Monarchia è arrivato fino a dire che il programma dell'Intesa assomiglia a quello di Zimmerwald! Chi avrebbe detto che Bevione sarebbe giunto a tanto? Per sua buona fortuna non è ìl solo a fare di queste capriole. Anche il «Corriere della Sera», quando sente che Kühlmann, per stabilire la validità della Dieta artificiosa di Curlandia, dice a Trotzky: «Non avete fatto lo stesso in Ucraina?», e questi con arguta finezza ribatte: «Ma in Ucraina non abbiamo truppe di occupazione, né diete medioevali, né ministeri di apparenza, ma Soviet di operai e soldati», si mette ad esclamare: «La battuta è buona; si parla a nuora perché suocera intenda». Salvo s'intende a dirne di nuovo di tutti i colori contro Trotzky e i suoi colleghi, non appena questi uomini facciano o dicano qualche cosa che non sia inquadrabile nel pensiero e nella volontà del «Corriere della Sera», o dell'on. Bevione. Questi nel suo recente discorso parlò di libertà di grandi e piccoli popoli, mentre non sarebbe alieno dal sacrificare la Polonia e le province balcaniche pur di ottenere vantaggi in Occidente. Tale è almeno l'interpretazione insidiosa, qualificata già pochi giorni or sono dall'«Avanti!», con altra piú efficace espressione, dell'indifferentismo dimostrato nel suo discorso da Lloyd George per le cose russe.

Ma abbandoniamo il campo delle contraddizioni ed entriamo in quello delle inesattezze, che potrebbero essere prova manifesta d'ignoranza o di voluta deficienza. È troppo superficiale voler combattere il movimento socialista senza conoscerlo. Non è conoscerlo, quando si afferma che Pichon non ripete nel suo discorso che un articolo del leader socialista Thomas. Ebbene appunto nello stesso giorno l'«Avanti!» racconta che il comitato della frazione minoritaria socialista francese protesta contro le dichiarazioni di Thomas relative all'Alsazia-Lorena, e che pochi giorni prima la Federazione socialista della Senna aveva protestato contro di lui perché sì era messo in relazione coi rappresentanti dell'imperialismo inglese — Lloyd George, lord Milner, ammiraglio Smuts — e gli domandava insistentemente il nome di chi era andato a Londra e che rappresentava. Ora può un giornalista non essere informato di tutto ciò? O peggio ancora, per settaria volontà di parte, può fare apparire una concordia maggiore di quella che in realtà non esista, e indurre il suo pubblico a ignorare completamente le correnti d'opposizione? Né ci pare piú avveduto quando vuol teorizzare sulle conseguenze della guerra: «Un senso nuovo — egli disse alla Monarchica — si va diffondendo in questo principio d'anno, una solidarietà sincera di spirito e di classi è in via di formazione». Noi pensiamo tutto all'opposto. Mai come ora si è andata preparando e fucinando una spietata lotta di classe, e non si è mai domandata tanta giustizia economica quanto se ne domanderà dopo la guerra. Già in Russia si è fatto qualche cosa in questo senso, ed in Inghilterra i delegati delle Trade-unions hanno già ieri domandato la coscrizione della ricchezza. In Italia le masse sono obbligate a tacere, causa museruole, guinzagli e minacce da un lato, lusinghe e parvenze di concessioni e provvedimenti statali provvisori ed illusori dall'altro, ma non è detto che rinuncino a presentare i conti dei sacrifici imposti e subiti ed il mantenimento delle promesse fatte, anche se vi fosse il proponimento di eluderle. Invece Bevione calcola nella solidarietà dopo tanta compressione. Ma facciamo punto, che altri troppi commenti ci spunterebbero d'attorno al suo discorso.

(27 gennaio 1918).

LA BARBA E LA FASCIA

Il filosofo Croce ha scritto un paio di monografie per dimostrare che la «storia» è sempre, e non può che essere sempre, «contemporanea». Un fatto passato, per essere storia, e non semplice segno grafico, documento materiale, strumento mnemonico, deve essere ripensato e in questo ripensamento si contemporaneizza, poiché la valutazione, l'ordine che si dà ai suoi elementi costitutivi dipendono necessariamente dalla coscienza «contemporanea» di chi fa la storia anche passata, di chi ripensa il fatto passato.

Il filosofo Croce ha ragione, indubbiamente. E mai questa sua ragione sarebbe apparsa cosí convincente come appare a noi, che viviamo esperienze enormi, d'una profondità ed ampiezza mai verificatesi. Comprendiamo meglio le vicende e la psicologia del passato, degli uomini del passato, di quelli che in iscuola ci hanno abituato a chiamare tiranni, a raffigurarceli grondanti sangue, viso truce, circondati di sgherri, occupanti il loro tempo a firmare condanne alla galera e al patibolo.

La coscienza «attuale» ci smaga, ci fa ripensare quei fatti e quegli uomini in un modo che si avvicina certo di piú alla realtà loro. Essi, i tiranni, avevano un torto che non è meno comune ora di allora: erano, e sono, materialisti, nel senso che misurano la realtà spirituale solo con misure esteriori, e la giudicano solo dalla sua apparenza sensibile. La censura allora permetteva di parlare della libertà cinese, ma non di quella italiana: una libertà lontana tante migliaia di chilometri non faceva spavento. Nei collegi gesuitici sarebbe stato severamente punito uno scolaro che in un componimento avesse parlato di repubblica, di ideali popolari, di diritti della plebe conculcati, ecc. ecc., ma quello stesso scolaro nei momenti di ricreazione poteva accordarsi coi suoi compagni e rappresentare, improvvisando, scene immaginarie della repubblica romana, in cui egli, romano antico, poteva coprire i tiranni di ogni contumelia, e poteva, con la voce tremante d'emozione, esaltare i plebei conculcati dagli odiati patrizi, ed eccitarli alla sommossa, al pronunciamento, alla secessione. La libertà era vista in lontananza, nel passato, e non sembrava pericolosa, anzi il tribuno piú focoso veniva premiato, magari con un esemplare delle opere di S. Ignazio.

L'esteriorità tiranneggiava i tiranni. L'ordine, la disciplina erano voluti nella superficie, e dalla superficie si giudicava la gravità del disordine e della [in]disciplina. Si ricordano le persecuzioni cui andavano soggetti gli uomini barbuti. La barba era segno di sovversivismo come venti anni fa lo erano la cravatta rossa e il cappello a larghe falde. Come adesso lo è... la fascia sotto il gomito. Chi non issa la fascia ben alto e non la ferma con spilli, ma la lascia cadere floscia e stanca fin sull'orlo della manica, non può non essere un sovversivo, meglio ancora un disfattista. L'esteriorità continua a tiranneggiare i cervelli. Il sepolcro deve essere imbiancato, e apparire pulita casetta lillipuziana e non verminaia. La coscienza non esiste, l'interiorità non esiste, il cervello non esiste. Esiste l'abito, esiste la parola, esiste la scatola cranica. Si processa la parola distaccata dal discorso; non potendo mozzare la scatola cranica la si rinchiude in un carcere in compagnia del corpo.

L'«attualità» ci fa vivere davvero il passato, la psicologia degli uomini del passato. E ci chiarisce le idee, e ci obbliga a trasformare il vocabolario. Lasciamo cadere la parola «tiranno»: sostituiamola con quella di «stupido»: faremo del passato storia contemporanea.

(5 febbraio 1918).

LOTTERIE

Domenica prossima si inizierà l'estrazione dei premi della grande lotteria giornalistica: duemila premi, e tra essi, una villa. I giornali pubblicano gli ultimi soffietti, stamburano allegramente: la lotteria deve essere l'ennesima prova della buona volontà torinese, del conformismo torinese.

La «Gazzetta del Popolo» supera, come è naturale, tutti i suoi confratelli in entusiasmo e in scempiaggini. Il soffietto di ieri è un piccolo capolavoro di sotto umanità, di pervertimento intellettuale, di sciocchezza. La «Gazzetta» è da qualche tempo diventata anglofila, come è noto. L'anglofilia dovrebbe esprimersi in maggior serietà, in una maggiore cura dei particolari, in una mentalità positiva, che non trascura pertanto, come è proprio di una mentalità positiva, i valori ideali. Sarebbe tutto ciò su un piano completamente borghese, ma ciò non toglie che potrebbe essere stimabile in sé e per sé, da un pulito di vista obiettivo. Ma la «Gazzetta» sta all'anglicismo come la scimmia sta all'uomo, come la borghesia italiana sta alla borghesia anglosassone, come gli ottanta miliardi di ricchezza italiana stanno agli ottocento miliardi di ricchezza inglese. Per stamburare la lotteria giornalistica la «Gazzetta» riporta il giudizio che sir Robert Kindersley dà sulle lotterie. Il baronetto inglese impregnato di spirito capitalistico, di morale individualista, aborre le lotterie. Per lui esse sono un portato del basso istinto dell'avarizia, del desiderio di farsi ricco in fretta e senza pena. Per lui lo Stato non deve coltivare un'umana debolezza, un vizio che ha causato nella sfera economica disastri e lutti all'umanità; perché non v'è mezzo di ingannare e demoralizzare il paese peggiore della tentazione di un colpo di fortuna che rilassa la tessitura morale dell'individuo, diminuisce in lui la tendenza al risparmio, aumenta la propensione allo sperpero, ed in luogo di stimolare deprime lo spirito di iniziativa e di azione. Per la «Gazzetta» tutto ciò è turco; fa qualche smorfia, qualche sberleffo, da scimmia che sa il fatto suo a maraviglia. L'inglese ad ogni fatto economico applica i principî economici e conseguentemente i principî morali, che hanno guidato e illuminato lo sviluppo della produzione nel suo paese. Per l'inglese non deve neppure essere conservato il sospetto che ci si possa arricchire, che si possa realizzare un guadagno all'infuori della produzione, dell'attività economica effettiva, dell'impresa capitalistica o di un lavoro che dipenda dall'iniziativa capitalistica. Per la mentalità borghese italiana della cui media la «Gazzetta del Popolo» è esponente tipico, queste cose sono incomprensibili, sono argomento di burla, di sberleffo. La lotteria, il colpo di fortuna, ecco la sorgente del benessere: non maggiore produzione, ma passaggio della ricchezza esistente dal portafogli degli uni nel portafogli di altri, piú fortunati, piú furbi. È ideale di vita: non l'attività che continua a esplicarsi anche dopo raggiunto un certo grado di benessere, ma la pensione, il collocamento a riposo, col calduccio delle pantofole e la lettura della «Domenica del Corriere».

Ciò non toglie che la «Gazzetta» sia anglofila, e predichi l'amicizia anglo-italiana. La scimmia cerca di diventare amica dell'uomo e di imitarlo, sia pure tra smorfie e contorcimenti. E Delfino Orsi sta a Robert Kindersley come la scimmia all'uomo, come la borghesia italiana alla borghesia anglosassone, come gli ottanta miliardi di ricchezza italiana agli ottocento miliardi di ricchezza inglese.

(6 febbraio 1918).

LA FORTUNA DELLE PAROLE

Inconsapevolmente ci è scivolata dalla penna, come una goccia di inchiostro, la parola panciafichista. Parola arcaica, ormai, fuori moda, sostituita da altre che meglio riescono a riempire la bocca: disfattista, caporettista e simili. L'altra è scaduta dall'uso, perché è svanita una mentalità, o meglio perché questa mentalità ha cambiato il centro del suo errore. Si immaginava l'atto della guerra da decidersi come in un'assemblea di tribú barbarica: per il battere delle lance al suolo, per l'ululato fiero dei guerrieri assetati di strage e di lotta. Chi si rifiutava di battere la lancia, di diventare corista nella sinfonia sgangherata degli ululi, non era che un vile affamato di fichi, per i quali voleva conservare la pancia.

La mentalità democratica e pseudorivoluzionaria astraeva completamente dall'idea di Stato, non vedeva nel paese che i singoli individui, frantumava l'unità economico-sociale borghese che è lo Stato in una infinità di volontà empiriche che avrebbero dovuto essere il popolo, il popolo generoso che batte la lancia ed emette ululati guerrieri. Lo Stato ha dimostrato di essere l'unico giudice della guerra, e di far la guerra seguendo solo la logica della sua natura: ha assorbito tutto e tutti e ha trovato gli antagonisti solo in quelli che negano l'attuale natura dello Stato e la logica che se ne sviluppa. Cosí è tramontata la parola panciafichista, di conio democratico, prodotto di una mentalità immatura, che non conosce neppure l'essenza vera degli istituti cui affida la risoluzione dei problemi ideologici dai quali si dice angosciata. Ci sono stati i panciafichisti, ma essi possono essere ritrovati tra quelli che delle forze statali si servono, e se ne sono serviti anche per la conservazione della pelle individua.

Curiosa è anche la fortuna di un'altra parola di conio democratico: guerrafondaio. La parola in origine traduceva esattamente l'espressione attuale jusqauboutiste. Fu creata al tempo delle guerre abissine e serviva a indicare gli oltranzisti d'allora, ai quali si opponeva la democrazia lombarda del secolo, e i partiti di opposizione. Oggi questi partiti sono diventati d'ordine: la guerra non è piú fuori del loro programma, e come si compiva lentamente questa conversione cosí la parola guerrafondaio andò acquistando un significato particolare che ondeggia tra quello di «militarista» e di guerraiolo per programma. La mentalità democratica ha stabilito la casistica tra guerra e guerra, tra difesa e offesa, tra guerra democratica e guerra imperialistica: non è arrivata a comprendere la guerra come funzione di Stato, della organizzazione economico-politica del capitalismo. Cosí noi abbiamo trovato la parola già mutata, e abbiamo dovuto crearne delle nuove, o meglio abbiamo dovuto adattarle dal francese: oltranzista e sterminista, mentre sarebbe cosí semplice guerrafondaio per chi vuole la guerra fino in fondo.

Cosí le parole si adagiano nella realtà ideologica dei tempi, si plasmano e si trasformano col mutarsi dei (cattivi) costumi degli uomini. La mentalità democratica, qualcosa che sta nell'organismo, come un gas putrido, non riesce neppure nelle parole a fissare qualcosa di solido e compiuto. Panciafichista al tempo delle guerre d'Africa, il democratico è diventato guerrafondaio, ma ha cercato di far dimenticare le parole, sperando far dimenticare le cose.

(10 febbraio 1918).

BUONA VOLONTÀ

C'è stata la proposta d'un uomo di buona volontà, che desidererebbe restaurare l'equilibrio della propaganda. Esaminiamo la proposta, e la buona volontà.

Proposta: un'accademia, cento o duecento socialisti ufficiali da una parte della sala, cento o duecento (!?) socialisti riformisti dall'altra; un tavolino, due o quattro, o sei, ecc., oratori; argomento: la guerra. Non si capisce cosa c'entrino i riformisti nella rottura dell'equilibrio, ma lasciamo andare: se essi si autonominano rappresentanti autorizzati e responsabili della classe borghese e dello Stato borghese, non possiamo che prendere atto e passare all'ordine del giorno: ognuno ha le sue debolezze.

Cosa si guadagnerebbe? Gli oratori socialisti a chi parlerebbero? Cosa può importar loro il convincere duecento (!?) riformisti? Esistono i riformisti in quanto tali, o non sono un puro atto arbitrario del pensiero, una pura possibilità grammaticale, in quanto qualsiasi nome proprio può essere accompagnato da un aggettivo qualificativo? È il riformista un uomo, o non è esso solo un'astrazione dello spirito pratico? È il riformista un cittadino, o non è egli solo un avvocato, un industriale, uno scribacchino che assume un'etichetta politica per meglio consumare i suoi affari? Sono i riformisti passibili di pensare, di comprendere il pensiero degli altri, di spietrificare il loro cervello, di imprimere, nel disco fonografico che tiene il posto della materia grigia entro le pareti craniche del loro scheletro, questa semplice frase: è possibile che ci sia chi non è riformista?

A che servirebbe dunque l'accademia? L'equilibrio ideale non è stato rotto tra socialisti e riformisti, ma tra socialisti e Stato borghese, e noi non abbiamo affatto intenzione di fare dei sermoni allo Stato borghese, e ai suoi ministri responsabili per indurli a diventare bravi, a concederci la libertà di polemica e di propaganda. Notiamo volta per volta ciò che ci pare interessante tra le manifestazioni della vita borghese, e, per quanto ci è concesso, cerchiamo di promuovere delle spinte ideali dal basso in alto: perché le libertà sono solo tutelate dalle energie sociali organizzate, non dai riformisti e neppure dallo Stato, se non apparentemente.

Veniamo alla buona volontà del proponente. Essa risulta dall'attività svolta finora: attività diffamatoria, questurinesca. Né poteva essere diversamente. Noi comprendiamo benissimo che il ristretto clan interventista non possa che svolgere solo questa attività: lo disprezziamo ma lo comprendiamo. È un'intima necessità logica. C'è un fine particolare da raggiungere: perché ciò sia è indispensabile che tutte le forze materiali siano mobilitate: la mobilitazione delle forze morali richiederebbe troppa fatica e troppo tempo, e non ne sarebbe certa la riuscita. E allora si scatena la campagna diffamatoria, questurinesca. Siccome non è un ideale, che si vuole realizzare, ma un fatto contingente, non si opera universalisticamente, ma contingentemente. A che pro persuadere, se si può far tacere? E si fa tacere in tutti i modi, con la galera, con l'intimidazione, col ricatto: domani, i numi ci penseranno; come dal pervertimento e dalla stortura attuale possa ritornarsi alla pacifica convivenza, non si vede, e non ci si preoccupa di vedere; quale ammoniaca possa far svanire l'ebreità attuale, nessun responsabile prossimo o remoto si preoccupa di pensare e inventare.

E dato tutto ciò: dato che il riformista non è uomo, perché non sente l'umanità negli altri, non è cittadino, perché vorrebbe togliere le prerogative della cittadinanza agli altri, dato che non siamo sicuri che il riformista esista in sé se un altro non lo pensa come tale, arriviamo alla piana conclusione di credere che la buona volontà del proponente l'accademia sia solo buona volontà di togliere dalla circolazione cento o duecento socialisti, per infrazione del decreto Sacchi e per delitto di disfattismo, e portare poi la carniera rigonfia di tanta fresca selvaggina a spasso per le sale e i palcoscenici, a farsi applaudire al suono della marcia reale e dell'inno di Garibaldi.

(12 febbraio 1918).

SPIRITO ASSOCIATIVO

[Quattordici righe censurate].

È una affermazione ripetuta a sazietà quella che in Italia manca lo spirito associativo, lo spirito di solidarietà. Questa deficienza del costume e del carattere italiano si fa risalire alla tradizione cattolica, che comprime le individualità, mentre il protestantesimo, col suo libero esame, le sviluppa, le raggruppa, fa sorgere la solidarietà e la resistenza. Ma non è solo questa la ragione. Lo spirito associativo esiste in Italia. Pullulano le società di mandolinisti, di ex carabinieri, di ex dazieri, di oriundi di Roccacannuccia che abitano fuori del loro paese, le associazioni, insomma, che non hanno una ragione d'essere profonda, che non sono costituite per un fine generale, che stranamente rassomigliano alle associazioni a delinquere, in tutto, fuorché, naturalmente, nel fine particolare di delinquere. È spirito associativo che si accontenta di esteriorità, che non domanda lavoro né sacrifizio, che esaurisce il suo compito in una baldoria, in una serenata, in un furto con scasso, in un ordine del giorno [una riga censurata].

L'altro spirito associativo ha altri intenti educativi, è il vaglio sottilissimo attraverso il quale si passano gli egoismi particolari, per il raggiungimento dell'accordo dei soci su un piano comune.

È un tentativo di superamento dell'individualismo, col maggiore incremento della personalità, la quale riconosce se stessa piú in ciò che ha di comune con gli altri, che nelle peculiari accidentalità differenziatrici. È l'individuo che si arricchisce delle esperienze di tutti gli altri uomini, che vive i dolori e le speranze degli altri uomini, che sente in sé vibrare tutta l'umanità, per gradi, dalla categoria all'associazione internazionale. Ma questo spirito è poco diffuso nel nostro paese. E tutto si oppone al suo svilupparsi. L'attività dello Stato disuguale e poliziesca, che obbliga all'ipocrisia, al sotterfugio furbesco: il predominio delle consorterie locali che perseguitano tutti i non simpatici alla clientela: l'assenza assoluta di controllo, che lascia impuniti i peggiori soprusi, e interrorisce i tranquilli ed onesti. E tutto questo complesso di circostanze fanno sorgere l'altra attività associativa.

I fini particolari trionfano: si vuole ottenerli senza lavoro e sacrifizio. La massoneria è l'associazione tipica per questo lavoro. La furberia, la violenza, l'inganno, la frode sostituiscono l'attività produttrice di idee e di opere. Si aggruppano solo perché l'unione fa la forza, perché il numero spaventa il deputato che vorrebbe negare un sussidio o un favore particolare, perché il numero dei votanti è l'unica giustificazione di certi ordini del giorno, perché il numero rende piú facile una grassazione.

[Tredici righe censurate].

(14 febbraio 1918).

L'APOCALISSE

In Francia va diffondendosi e si sente ogni giorno piú enragée la campagna contro il lusso. Sembrava che bastasse utilizzare il lusso per gli scopi e le esigenze della guerra tassandolo gravemente; ma ora se ne domanda addirittura la soppressione in tutti i suoi elementi!

Questa campagna si agita in Francia, ma essa è apparsa anche fra noi, ha fatto capolino nei giornali. Non solamente nei giornali borghesi.

Noi desideriamo soltanto ammonire coloro i quali sentono o credono di essere socialisti, di avere cioè aperta la propria coscienza ad una concezione radicalmente nuova del mondo, a non indulgere a queste campagne contro il lusso, ché esse nascondono nel loro attraente involucro di austerità morale e di democrazia egualitaria un pregiudizio estremamente conservatore che nega e non interpreta per nulla il nostro spirito socialista.

Noi non siamo dei democratici della vecchia maniera, secondo i quali la democrazia consisteva e consiste nell'essere habitués dell'osteria, bestemmiatori inesauribili e pezzenti in tutto, nella borsa e nella casa, nel vestito e nell'anima, e torvi nemici delle raffinatezze dei godimenti elevati della vita materiale e spirituale.

Niente affatto! Noi aneliamo non alla distruzione dei beni superiori della società, ma alla loro generalizzazione, e lottiamo non per sopprimerli come divenuti dal fasto insultanti, ma per renderli accessibili alla folla come elementi della sua elevazione intellettuale ed estetica.

Una volta gli operai, avendo compreso che la macchina li sfruttava e li impoveriva, si volsero contro di essa con tutto il loro odio e nacque il luddismo, ossia insensato furore di distruzione contro questa espressione culminante della umana ingegnosità produttiva; ma piú tardi gli operai compresero che era bestiale distruggere i moderni istrumenti della produzione e occorreva invece impadronirsene per la collettività intera e che pertanto bisognava difendersi dallo sfruttamento accelerato con la macchina mediante la organizzazione solidale e l'azione di classe di tutti gli sfruttati. E dal luddismo, cioè dalla distruzione, si passò al socialismo, cioè all'emancipazione. Bisogna ora chiudere tutti gli spiragli del nostro spirito ad ogni penetrazione del luddismo che minaccia.

[Quattro righe e mezzo censurate] il buon gusto, l'arte, il patrimonio estetico dell'umanità.

Il proletariato non ha alcun interesse a distruggere un patrimonio che dovrà ereditare per ingrandire e per generalizzarne il godimento.

[Cinque righe censurate].

(16 febbraio 1918).

VOLGARITÀ

Mi sono svegliato oggi con un'incoercibile tendenza ai pensieri volgari. Il ventre ha preso il sopravvento sul cervello, l'argomento dell'inutilità sull'argomento della bellezza. La città mi appare non piú come un monumento inanellato in un'aiuola fiorita, ma come una cascina circondata dall'orto rustico. Abbiamo noi diritto alla bellezza, quando ancora non è esaurito il compito dell'utilità, possiamo, senza rimorsi, sperdere fatica e lavoro per una bella costruzione, quando ancora la metà degli uomini non ha ancora abitazione sufficiente, possiamo preoccuparci di una bella balconata quando ancora i nove decimi delle case non hanno il cesso inglese? Pensieri volgari, preoccupazioni antiestetiche, ma che volete? Stamane esse mi assillano, non riesco a liberarmene; la volontà non riesce a farle tacere, a sbarazzarne le circonvoluzioni cerebrali.

Al Valentino si seminano patate. Coppie di buoi procedono robustamente a dissodare il terreno che ha alimentato finora radici di fiori, che è stato ricoperto dei teneri velluti di erbetta tosata, nei quali i bimbetti in gala rincorrevano i graziosi canini, e canini di razza, nei quali la notte... (stendiamo un velo pudico sulle notti del Valentino). L'aiuola è diventata orto rustico; il bifolco spezza la dura crosta della terra per fecondarla con fette di patate. È un simbolo. L'utilità reale non può essere molta.

Raccolta di patate sufficiente a sfamare per un giorno la metà della popolazione torinese. E il Valentino incolto non può paragonarsi alle terre, già coltivate e fertili, rimaste incolte per la mancanza di braccia. Non è dunque che un simbolo. L'utilità anteposta alla bellezza, il ventre alla fantasia. Si sono accorti che è necessario educare all'utilitarismo, che non è materialismo perché è ricerca del benessere degli altri. Se ne sono accorti perché la guerra fa pericolare il benessere di tutti, può privare tutti del necessario per vivere. Se questi tutti fossero stati solo la maggioranza del popolo, la bellezza non sarebbe stata sacrificata, l'utilitarismo avrebbe continuato ad essere dottrina della classe proletaria, avida di godimenti, solo pensosa del ventre. Non si sarebbero coltivate le patate nel Valentino, perché gli «esteti» non ne avrebbero avuto bisogno, e le patate sono cibo plebeo, zavorra di stomaci volgarmente voraci. La borghesia è antiutilitarista, è idealista, abborre la volgarità. Procura ai suoi figli abitazioni ampie e curate, circondate di giardini e di fiori. Profonde milioni nella bellezza, negli stucchi, nei colori. Procura lavoro, che diamine! Diventa utilitarista solo per altruismo! Costruisce acquedotti quando il tifo minaccia di non limitarsi al sangue plebeo, ma osa aggredire il sangue sottile borghese. Coltiva patate nei giardini, quando la necessità tesserata pare voglia arrivare fino ai ventri dorati. Si accorgerà che è necessario pensare ai cessi inglesi piuttosto che alle balconate, quando l'urbanesimo frenetico farà sorgere il pericolo di maleducate epidemie. Si accorgeranno allora definitivamente che l'utilitarismo è idealistico perché non è egoismo, ma preoccupazione per il prossimo, senso di dovere civico.

La volgarità attuale sarà cantata dai preti: il teatro rappresenterà il dramma morale dell'uomo che lotta, nel dissidio ideale di dover scegliere tra il cesso inglese e la colonnata di stile.

(4 marzo 1918).

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1 Partito socialista «ufficiale».

SI ESAGERA

Il signor Censore fa dei brutti sogni. Raschiare, raschiare, aguzzare il cervello per poter raschiare, leggere per raschiare, ingegno alacre e sempre all'erta perché niente sfugga al raschiamento universale. Il signor Censore fa dei brutti sogni: giornali senza un bianco, articoli incolonnati in corpo 12 dove legge tutto ciò che ha raschiato in due anni e mezzo, frase dietro frase, sulle quali è incanutito in profonda riflessione psicologica: deprimerà o non deprimerà? disfattismo o cosa lecita? Il signor Censore fa brutti sogni. Si sveglia depresso: tutto ciò che avrebbe potuto deprimere trentasei milioni di abitanti si è immagazzinato nel suo cervello, ronza nelle sue circonvoluzioni cerebrali. Il signor Censore è depresso: da un anno non si ricorda neppure piú dei suoi doveri coniugali: i suoi nervi sono spezzati; egli non resiste piú alla minima tensione. Si avvia all'ufficio aguzzando gli sguardi sui manifesti murali, insinuandoli nelle vetrine: ovunque il piú abbietto e scellerato disfattismo può aver sparso i suoi germi venefici. Si ferma ad una vetrina della «Buona Stampa», occhieggia un'immagine: Maria, pallida e sottile, china la testa piena di grazia con adorabile compunzione: [una riga censurata]. Il signor Censore allibisce, rabbrividendo. Tabú, orrore. Scrive sul taccuino: annota, numero e via, insegna, e angolo di vetrina. Svolta in via Alfieri, imbocca la porticina, sale qualche gradino. Orrore, orrore: al primo piano, sul muro bianco sporco, color ricotta, caffè e cannella, una mano furtiva ha tracciato in stampatello con le ombre un gigantesco: Viva [parola censurata]. Orrore orrore. Il signor Censore fa quattro gradini per volta, rovescia un usciere, magro allampanato anche lui per la depressione intensiva cui deve sottostare tutto l'ufficio di censura, chiama, scampanella: un bacile, dell'acqua, una spugna; censura sui muri delle scale. Egli stesso si rimbocca, inzuppa la spugna e soffrega rabbioso: censura sui muri dell'Ufficio di censura, quattro carabinieri per le scale degli uffici di censura a tutelare il candore dei muri, candore di ricotta, cannella e caffè. E poi al telefono: Questura centrale; comunicazione con segretario, capo di gabinetto; una guardia, due guardie, con un brigadiere, via tale, numero tale, una vetrina, cartoline deprimenti, bisogna provvedere. — Va bene, le manderò il brigadiere [parola censurata] della squadra politica.

Il signor Censore barcolla, come colpito da una mazzata: la febbre, il delirio, è una persecuzione dei disfattisti. Lo trovano tremante, attaccato al telefono, che balbetta: Abbasso il brigadiere! Il suo cervello è sconvolto: vede scritto dappertutto, sui muri, sui giornali, sulle cartoline: Evviva! Evviva il brigadiere! e non può, non può censurare, raschiare, lavare: bacili, spugne, matite, raschini di acciaio, tutto finisce, si logora.

Una barella, quattro militi della Croce Verde: una vittima del dovere, un fatto diverso, una nota di cronaca. Qui giace, qui giace il signor Censore, vittima del disfattismo.

(13 marzo 1918).

SCIENZA...

Dalle informazioni odierne:

Si comunica da Heidelberg che l'osservatorio di quella città ha scoperto un nuovo pianeta fra Marte e Giove. Esso ha un satellite, una luna della quattordicesima grandezza...

Oggi, mentre gli sgozzatori e gli esterministi di Germania perseguono i loro fini imperialisti, degli scienziati tedeschi volgono i loro telescopi verso la profondità infinita del firmamento, per sorprendere il passaggio degli astri anonimi. Sono anch'essi fra gli sgozzatori e gli esterministi? Può ben darsi, e la loro carta del cielo potrebbe anche essere una carta dello stato maggiore.

[Trentatre righe censurate].

Tuttavia quando fu loro nota la scoperta tedesca, qualche astronomo italiano si è affrettato a dirigere la lente del telescopio verso la regione celeste ove quelli di Heidelberg hanno scoperto il nuovo pianeta. La duplice ricerca si è molto prolungata allora, ed attraverso gli spazi, l'osservazione italiana e quella tedesca si sono ricongiunte, hanno avuto commercio di intelligenza nella stessa ora forse che gli aviatori tedeschi, insultando alla serenità astrale d'una notte magnifica, si dirigevano su Napoli per seminarvi la morte.

— Ah! Piccolo pianeta, non guardare, in quei momenti, verso di noi!

(16 marzo 1918).

MODERNITÀ

Modernità: l'assassinio non commuove, la morte di un uomo non commuove. L'assassinio è solo motivo di curiosità. La conoscenza ha ucciso il sentimento, l'intelletto ha strozzato il cuore. La conoscenza e l'intelletto sotto forma di pettegolezzo, di morbosa necessità di essere informati dei minimi particolari del fattaccio. I giornali speculano sulla curiosità: aspetto eminentemente moderno della speculazione.

Modernità: il sacerdote specula sui legnami, è banchiere, è sensale, è piazzista, è viaggiatore di commercio; è tutto, fuorché sacerdote.

Modernità: l'impiegato ferroviario specula sui vagoni, si serve del materiale amministrato per i suoi affari personali, commercia in legnami, stringe relazioni col sacerdote-commerciante, il quale non ignora che il commercio corre perché un impiegato prevarica.

Modernità: una contessa affitta camere ammobiliate nel suo palazzo gentilizio. L'impiegato ha duecento lire al mese, ne spende seicento per il quartierino ammobiliato nel palazzo gentilizio. Il sacerdote si reca nel quartierino e sa che l'affitta un impiegato a duecento lire al mese. In commercio tutto è naturale e plausibile, anche se commercianti sono i sacerdoti, edelweiss della moralità e della purezza spirituale. Gli affari sono gli affari e giustificano i contatti piú obliqui.

Modernità: l'impiegato ferroviario vuole por termine alla sua carriera, assicurando un patrimonio alla sua vecchiaia. Il lupetto diventa lupo. Il sacerdote non diffida del lupetto. Perché non diffida? Eppure sa che un impiegato a duecento lire al mese, che fa commercio dei vagoni affidati alla sua amministrazione, che spende seicento lire per l'appartamento a Torino, mentre la sua abitazione è Alessandria, non può essere uno stinco di santo. Perché non diffida? Misteri commerciali del sacerdozio.

Modernità: l'impiegato uccide il sacerdote sperando ricavare quattrocento mila lire dal suo delitto. Se nel tempo antico Parigi valeva una messa, certo nel tempo moderno quattrocento mila lire valgono bene la vita di un socio in affari. Il lupetto non tarda modernamente a diventare lupo maturo. Ma qui finisce la modernità. Una contessa affittacamere; un sacerdote commerciante, banchiere, sensale; un impiegato a duecento lire al mese che spende seicento lire per l'appartamento nella grande città; lo scontro belluino. Basta. Il modo è antico: la scure, non il cloroformio o l'ipnotismo. Il lupo è rimasto l'antico, l'antidiluviano lupo in tanto trionfo di modernità: squarta, immerge le mani nel sangue, ed a ciò la gente si interessa, prende gusto. In ognuno della folla è un po' del lupo che dilata le narici all'acre odore del sangue. E la modernità trionfante soddisfa l'istinto dell'animalità trogloditica.

(18 marzo 1918).

DELITTO E CASTIGO

Il «Momento», per la penna del signor Antonio Simoni, ha impartito una lezioncina al cittadino Politis, presidente del Consiglio ellenico. Il cittadino Politis si è dichiarato favorevole, in nome dei Danai (il «Momento» ricorda i Danai, temibili anche se fanno regali), alla costituzione di uno Stato israelitico in Palestina, e il cittadino Simoni protesta. Con garbo («Lo creda, il signor Politis...»), ma protesta in nome del codice penale. I numerosi cittadini Isaia, Davide, Assalonne che abitano in Italia, in Francia, in Rumenia, in Germania, in Russia, non sono cittadini come tutti gli altri: essi, i miserabili, sono tutti pregiudicati, sorvegliati speciali, condannati al confino. La loro coscienza si è macchiata di un orribile delitto: essi sono deicidi, hanno 1885 anni or sono ucciso il cittadino Gesú Cristo, figlio di incerto genitore e di Maria di Nazareth, nato a Betlemme e vagabondo senza fissa dimora. Lo hanno ucciso, i miserabili: trascinati innanzi al Tribunale supremo dell'onnipossente Creatore furono condannati al confino senza limiti di spazio e di tempo. La sentenza fu eseguita con implacabile e previdente severità. L'onnipossente e onnisciente Creatore già da cinquecento anni aveva iniziato con solerzia e meticolosità la preparazione della mano d'usciere: la terra di Palestina si isteriliva, e quando l'assassinio del cittadino Gesú Cristo fu consumato, già una buona parte dei futuri carnefici aveva preso la via dell'esilio, conscia del destino che incombeva sulle sue colpevoli teste.

Il cittadino Politis, in combutta con altri cittadini, amanti della chiacchiera piú che dello studio dei reali termini del problema, ha espresso l'intenzione di inoltrare ricorso in appello presso l'Alta Corte della Lega delle Nazioni per reintegrare i nominati deicidi nel territorio dei loro padri antichi. Il cittadino Simoni si leva, pubblico ministero del Creatore, e domanda la conferma della condanna. Chi ha mancato, sia punito. Isaia, Davide, Assalonne e consanguinei hanno assassinato il Dio? Sia dichiarato ridicolo il loro alibi, secondo il quale, nel momento del crimine, essi si sarebbero trovati nella mente del Creatore e non in Palestina, secondo il quale anzi non avrebbero mai sfiorato la terra scellerata. La condanna sia confermata; non possano essi mai riabitare il suolo degli antenati.

Il bello sarà che il cittadino Simoni, quando fra un paio d'anni sarà dai fatti dimostrata irrealizzabile la costituzione di uno Stato israelitico in Palestina, esclamerà trionfalmente: «L'avevo detto io, la condanna continua ad avere effetti legali». Perché il cittadino Simoni, che rimprovera al cittadino Politis di non conoscere la storia di Gesú Cristo, non conosce i libri, per esempio, di Leone Caetani sull'Oriente, dai quali si apprende quanto antica sia la condanna e come non estesa solo alla Palestina.

(21 marzo 1918).

PIOVE, GOVERNO LADRO!

Un assiduo manda alla «Sentinella delle Alpi» una lettera in cui è contenuta questa piacevole narrazione:

L'altra sera, nel tragitto da Torino a Cuneo, in un compartimento di seconda classe il calore era tale, e il buon funzionamento della valvola tanto (o i molti milioni stanziati per riparazioni dove se ne vanno?) che non solo il ristretto spazio era immerso in una vera nube di vapore, ma che questo ad un certo punto, a contatto dell'aria fredda che veniva ogni tanto aprendosi lo sportello nelle singole stazioni, o anche semplicemente toccando la volta del vagone, ch'era, per la neve, gelida, si condensò in forma di pioggia. Prima fu ad un angolo, poi ad un altro, vicino ai regolatori. Lo sciagurato che sedeva sotto, prima si stupiva, poi si dimenava, in ultimo abbandonava il comodo sedile, tra i sorrisetti maligni dei compagni di viaggio. Alla prossima stazione un ingenuo saliva, vedeva il posto d'angolo vuoto, se ne impadroniva come di una gran fortuna: figurarsi ora che si viaggia stipati come acciughe! Ma di lí a due minuti, stessa farsa; stupore, esclamazioni: «Ma qui piove?» «Macché», risponde la compagnia ancora illesa, già in attesa del nuovo merlo, il quale, di lí a poco, abbandona il campo anche lui.

Finalmente però cominciò a piovere in tutto il compartimento, sicché si vide una signora flemmatica aprire l'ombrello e finire cosí il viaggio tra l'ilarità dei passeggeri.

Passiamo agli archivi questo sollazzevole documento delle benemerenze della burocrazia italiana. Una volta tanto i cittadini devono aver dovuto esclamare, con convinzione non retorica: «Piove, governo ladro!» Gli studiosi di psicologia popolare ne tengano conto per la storia della fortuna dei motti e dei proverbi piú diffusi.

(24 marzo 1918).

ELOGIO DELL'INGRASSATORE DI PORCI

Misconosciuto pioniere di civiltà, modesto ingrassatore di porci, nessuno dunque impugnerà la penna per far ringoiare all'onorevole Mazzolani l'insulto atroce che egli ha avventato contro di te? Ebbene, io impugnerò la penna. Difenda altri Benedetto XV, cerchi un terzo nei vicoli bui della sua attività letteraria la paroletta da far scivolar in difesa e ad esaltazione di Giovanni Giolitti. Io voglio difendere ed esaltare te, misconosciuto pioniere di civiltà, modesto ingrassatore di porci.

Mentre i tuoi detrattori, figli dell'Olimpo, abbeverati alla fonte di Ippocrene, attivamente lavorano ad arricchire la patria letteratura di sonetti e novelle, diffuse a decine di migliaia di copie nelle colonne dell'«Amore illustrato», mentre gli idealisti tuoi detrattori dall'alto della loro apollinea intellettualità disprezzano l'interesse economico e affermano che «è facile teoria, degna di un ingrassatore di porci, l'affermare che il solo e vero interesse del proletariato sta nel suo interesse economico», tu, misconosciuta mattonella dell'edifizio sociale, umilii francescanamente il tuo spirito tra setole, cotenne e grugniti, affondi i tuoi rozzi calzari nel fimo acre, palpi con esperta mano le rosee natiche dei porcellini, amorosamente stendi il tuo occhio placido sul branco turbolento, e pensi. Non sei tu un sacerdote dell'ideale, o modesto ingrassatore di porci? Non contribuisci tu, saziando l'ingorda animalità dell'uomo, a snebbiare il suo cervello, a concedergli tempo ed agio per scrivere sonetti e novelle? Se tu non esistessi, se la civiltà ordinatrice e preveggente non ti avesse assegnato un compito preciso, le costolette, il bianco lardo, il prosciutto appetitoso, gli uomini dovrebbero essi singolarmente andarselo a rintracciare nelle lande o fra le boscaglie; la vita degli uomini sarebbe ancora una lotta feroce per l'esistenza, un diuturno spreco di energie per conquistarsi il vitto e il giaciglio. Ebbene, no: tu hai preso su di te una parte gravosa della catena sociale. Perché Pirolini possa elaborare nelle insonni notti l'angelico pane spirituale da spartire alla turba dei lettori del suo giornale, turba affamata di ideale. Perché l'on. Mazzolani possa con polso fermo agitare nella notte caliginosa la fiaccola del progresso, possa empire le anime e i cuori dell'immagine guerriera della Repubblica Santa; tu, per loro, per l'ideale comune, per l'ideale umano risorto dopo tre giorni di tuffo odoroso nel cesso carducciano, tu prepari facili e nutrienti costolette, profumati giamboni, prepari il rozzo lardo che allieta i palati delle mense rusticane. Non sei tu un sacerdote dell'ideale? Gli uomini riconoscenti non dovrebbero dedicare alle tue tempie una parte dell'alloro che dedicano ai fegatelli dei tuoi suini? Ingrati uomini, ingrati poeti dell'«Amore illustrato»: perché questo odio semitico contro l'umile, ma tanto necessario ingrassatore di porci? Egli è un potente pilastro dell'edificio sociale, è fattore di progresso e di civiltà. Egli è un elemento della resistenza.

Ahimè, pensa forse malinconico, tastando con esperta mano le rosee natiche dei suoi sudditi, sprofondando i rozzi calzari nell'acre pozzanghera di fimo, ahimè, pensa il misconosciuto ingrassatore di porci, se nel mio paese piú numerosi fossero gli ingrassatori di porci, e l'apollinea intellettualità dei poeti dell'«Amore illustrato» meno in auge, quanto piú ideale e meno chiacchiera, quanto piú lavoro e meno scrocco, quanto piú serietà e meno discorsi per elevare il morale.

(27 marzo 1918).

COMMENTARI DI UNA GIORNATA

Incomincia la giornata del perfetto italiano risparmiatore. Egli si reca al bar per fare la propaganda fra i frequentatori mattutini; per attaccar discorso (solo per attaccar discorso!) prende il bicchierino di marsala che sente comandare da un signore propagandabile; inzuppa un biscotto e discorre; discorre come un angelo, come un avvocato convinto della buona causa. Vi maravigliate se nella foga del discorrere i bicchierini di marsala diventano tre e i biscotti attingono la cospicua mezza dozzina? Il perfetto italiano è contento; non sente rimorsi, perché egli ha parlato, ha convertito (certamente ha convertito) uno del prossimo, lo ha indotto alla frugalità, al risparmio virtuoso, che si paga della soddisfazione morale.

Il perfetto italiano esce dal bar e si avvia a lenti passi al solito caffè: «Una tazza della mezza bevanda, cameriere!» Il signore esce di casa, e rompe il digiuno dello stomaco col caffè e il digiuno del cervello colla «Gazzetta del Popolo». Il signore legge, uno, due, tre giornali: egli si informa dell'opinione pubblica. Le undici. Una leggera colazione: tre uova frullate con qualche biscotto. Un sospiro in cospetto del cittadino cameriere: ahimè, cittadino cameriere, che macchina imperfetta l'uomo! Bisogna nutrirsi, sí, bisogna nutrire questo infame corpaccio, mentre l'animo ribocca d'ideale, e si vorrebbe lasciare tutto il nutrimento agli altri, che lavorano, che soffrono. Il perfetto italiano si intenerisce pensando ai suoi fratelli lontani e una lacrima irrora il biscotto inzuppato d'uovo; cibo amareggiato, cibo bagnato di lacrime, chi si ricorderà del sapore tuo quando l'avvenire sarà lieto, quando il lavoro sarà libero! Mezzogiorno: il perfetto italiano va a casa; un parco desinare lo aspetta. Mezza razione di pane è stata rinunziata; è giovedí, ma la prudente signora ha comprato la carne necessaria fin dal giorno prima.

[Dodici righe censurate].

Le cinque: al caffè dopo la lettura dei giornali nazionali, il tè: qualche tazzina, con un gocciolino di latte, con qualche biscottino. Poi la cena, poi, prima della chiusura dei caffè, qualche altra cosettina, per poter discorrere, per poter propagandare, per convertire. Il perfetto italiano va a letto soddisfatto: e s'addormenta, accanto alla sua consorte, dopo aver riletto un articolo di Giuseppe Prato che dimostra l'influenza degli alti salari nel fenomeno dèlla carestia.

(30 marzo 1918).

ELOGIO D'UN LADRO

Raccontano i giornali che un usciere del ministero della pubblica istruzione fu arrestato perché aveva preso l'abitudine di far sparire dai tavoli degli impiegati le «pratiche» voluminose, per venderle come carta straccia e ricavarne qualche guadagno in questi tempi di caroviveri e di carissima carta.

Naturalmente egli avrà il destino di tutti i genî incompresi; sarà processato, condannato e perderà il posto. Eppure se la giustizia fosse, almeno essa, meno burocratizzata e meno fossile, quell'ignoto dovrebbe essere assolto ed esaltato. Perché lui, mentre da anni imperversano i lamenti contro la burocrazia, mentre si succedono studi e commissioni per la riforma delle amministrazioni pubbliche, mentre ogni ministro, che voglia passare per modernista e scroccare qualche approvazione alla stampa ed alla pubblica opinione, si affretta di iniziare il suo governo con la solenne promessa di sburocratizzare, lasciandosi poi inevitabilmente travolgere dalla consuetudine, dagli ingranaggi della mastodontica ed inesorabile macchina, lui solo, quell'umilissimo travet, ha additato il modo sicuro, rapido, di liberarsi dalle montagne di carta, sotto cui gli uomini del secolo XX gemono oppressi, invano mutando fianco per trovare requie. Pensate quale liberazione se un rogo gigantesco divorasse le «pratiche» che sono ammucchiate su migliaia e migliaia di tavoli e scaffali, e come felici ballerebbero intorno ad esso la danza dell'emancipazione migliaia di travet, carnefici e vittime insieme. Poiché veramente piú disgraziati dei disgraziati, cui tocca aver da fare con le amministrazioni pubbliche, sono quelli che la «pratica» devono emarginare, trattare, gonfiare. Essere costretti ad un lavoro che si sa perfettamente inutile per il novanta per cento, a scrivere delle lettere che si sa non essere prese sul serio dai destinatari uffici competenti, a chiedere con delle domande stereotipate delle risposte che si conoscono già parola per parola, e tutto solo perché la «pratica» dev'essere istruita, perché il capo divisione, il capo sezione, il capo ufficio, il sotto-capo ufficio, il capo gruppo potrebbero piantare qualche «grana» se, per avventura, si accorgessero chi non ha scrupolosamente rispettata la circolare 12501 del 1898, e l'ordine di servizio, ecc., e durare in questa fatica idiota ed idiotizzante tutta la vita, è un supplizio che Dante poteva infliggere a chi aveva ammazzato suo padre! E non c'è niente da fare. Inutile ogni ribellione; bisogna piegarsi ed ubbidire, e tacere anche se un capo ufficio dedica la sua giornata a dividere la corrispondenza ed a prepararla in varie cartelle per le varie firme dei vari superiori, preoccupato se erano state adoperate secondo le buone norme le formule sacramentali «con stima» o «con osservanza», preoccupato di non sbagliare a mettere i timbri, sotto cui i superiori firmeranno; anche se un pezzo grosso perde il suo tempo, che pure i cittadini pagano bene, a correggere una lettera sostituendo frase a frase, parola a parola, tanto per dimostrare forse che lui sa scrivere, anche se ad allietare le lunghe, noiose ore d'ufficio va un collega a raccontare la storia del timbro... Non sapete la storia del timbro?... C'era una volta un capo di un importante ufficio di una grande azienda statale. Avvenne che fu promosso di grado, e destinato ad altra sede. Mentre si svolgeva il movimento di gros-bonnets nel quale egli era stato compreso, dovette rimanere ancora un paio di mesi nel vecchio ufficio. Ma egli aveva già avuto il nuovo grado, e vi pare quindi che potesse continuare ad accontentarsi del vecchio titolo? Ohibò, e la dignità, e l'autorità? Allora egli fece fare una cinquantina di timbri nuovi, e distribuire agli uffici dipendenti affinché su tutte le lettere si stampasse non piú: «Il capo divisione», ma: «Il capo compartimento di I grado reggente la divisione». Naturalmente, giunto il successore, i nuovi timbri furono gettati via e si ritornò ai vecchi, ma frattanto lo Stato aveva speso qualche centinaio di lire!

E voi sperate ancora in un rinnovamento della burocrazia? Non c'è che il fuoco, il rogo, la rivoluzione... E chi sa ancora?!

(3 aprile 1918).

ANTICLERICALISMO SUL SERIO

In alcuni convegni tenuti a Bari per studiare i problemi del dopoguerra, si è cercato di concretare, in una forma che fosse piú capitalisticamente adeguata delle becerate riformistiche dell'on. Drago, la riforma della terra ai contadini. I borghesi delle Puglie hanno trovato che sarebbe ora di risolvere definitivamente la questione dei beni ecclesiastici, rimettendone in circolazione la proprietà, facendoli entrare nel gioco della libera concorrenza. I giornali clericali strillano, naturalmente, e il «Momento» scrive che se la proposta diventasse legge «si arriverebbe al magnifico (!) risultato di togliere alle congregazioni religiose il mezzo per vivere e, soprattutto, per svolgere quella attività sociale ed educatrice che tante simpatie acquista loro in mezzo a coloro che ne sono beneficiati».

Per noi la proposta dei borghesi di Puglia è un sintomo di progresso storico, e la accomuniamo con l'ordine del giorno votato dalla Camera di commercio di Bari che velatamente minaccia una fiera resistenza (senza esclusione di mezzi e che potrebbe arrivare fino a mettere in pericolo l'unità nazionale) alla campagna sfacciata che gli industriali settentrionali conducono per la perpetuazione e un inasprimento del regime protezionistico. Sono due segni del risveglio capitalistico nell'Italia meridionale, dell'ingresso nella storia moderna di una classe economica che si trova subito impacciata nello sviluppo dalle tradizioni feudali, dall'economia feudale, che in mezza Italia continua tranquillamente a sussistere all'ombra e col beneplacito della legislatura unitaria.

I beni ecclesiastici sono uno dei ruderi piú vistosi e ingombranti del feudalismo. In se stessi, perché privano l'attività economica libera di strumenti di lavoro che sarebbero altrimenti redditizi. E anche perché, come dice il «Momento», essi sono «il mezzo per vivere e svolgere l'attività sociale ed educatrice» dei preti. È supremamente immorale che nei tempi nostri, lo Stato borghese individualista lasci ad un partito, che rappresenta il passato superato, i mezzi per continuare in un'attività anacronistica. Non si tratta di fare dell'anticlericalismo sguaiato e volgare. Si tratta di richiamare lo Stato moderno al suo compito preciso di eliminatore delle sopravvivenze anacronistiche, di porre tutte le idee e tutti i programmi in un piano iniziale di partenza eguale, perché esse si affermino e si sviluppino solo in quanto rappresentano una necessità e un progresso, non in quanto protette e artificialmente sorrette.

Il «Momento» vede nella proposta lo zampino della massoneria. Ma non deve essere cosí. Già da tempo la massoneria fa e disfà le cose italiane, ha avuto suoi accoliti al dicastero dei culti, e non ha mai pensato di colpire veramente il clericalismo nella sua radice piú vitale. È la storia che si afferma malgrado tutto, malgrado la stessa massoneria, è il capitalismo che cerca uno sviluppo anche nelle terre dove piú a lungo, per malvagità di uomini e di governi, si è mantenuto vivo il sistema feudale, l'inalienabilità degli strumenti di lavoro, la morale del servaggio, il dominio delle cricche, la disonestà amministrativa. I preti rappresentano meglio questa tradizione, questo sistema, e la borghesia nascente del luogo cerca liberarsene, poiché la borghesia piú evoluta del settentrione non ha, attraverso lo Stato, provveduto prima, e invece si è servita di quel sistema, di quella tradizione per arricchire meglio i suoi ceti improduttivi e poltroni.

(5 aprile 1918).

STORIA DI VETERANI E DI ESERCENTI

Un veterano ritorna dal fronte per un breve periodo di licenza: ha la manica segnata di due ferite, ha il viso solcato dall'indurimento della vita di trincea. Passeggia per le vie con l'aria grave e meditabonda di chi è abituato alle lunghe solitudini, ai soliloqui interiori prolungati per giorni e giorni, ruminati in mezzo al pericolo, alla morte sempre imminente.

Il veterano vuole ritrovarsi una volta a tavola con qualche amico. Intraprende il viaggio di esplorazione attraverso l'intricato bosco dei negozi e degli spacci municipali. Avrete già notato quale rassegnata costanza riportino all'interno i reduci dalle trincee. Pare, ad osservarli, ad accompagnarli, che lo spazio e il tempo siano per loro due categorie abolite. Un chilometro di piú o di meno, bah! una scrollata di spalle, una lisciata a piene mani nei baffi, e sorridono, e riprendono la strada, senza stupori o irritazioni.

È certo che la trincea ha trasformato il carattere di molti italiani, e se ne accorgeranno, dopo la guerra, coloro che di questi mutamenti non si preoccupano, e fidano di aver ancora a che fare con l'abulica indifferenza, coll'allegro menefreghismo d'una volta.

Il veterano dunque mosse in perlustrazione per catturare un po' di cibo rintanato nelle caverne e nelle boscaglie del paese di esercenteria. Batti e scova, trovò la pasta e il burro, non trovò il formaggio. Viaggia, viaggia, in un negozio gli sembrò che la faccia dell'esercente avesse il colore mimetico di alcuni insetti che abitano fra i formaggi, o nel formaggio sogliono presentarsi. Il veterano si stabili dinanzi al bancone, disposto a fermarvisi fino alla consumazione dei secoli o al termine della guerra. Spaventato, l'esercente fece passare qualche tozzo di quel formaggio di capra che il pubblico, commosso e riconoscente per i benefici ricevuti, ha battezzato formaggio del calmiere. E il veterano fermo come una torre. Finalmente l'ottimo esercente, raffinato psicologo, estrasse, coi segni del piú alto giubilo e della piú violenta commozione, un pezzo di formaggio aromatico, giallino, ricoperto delle stigmate piú espressive di una venerabile maturità, e lentamente lo fece transitare sotto le narici del soldato.

— Buono davvero, e quanto?

— Due e cinquanta all'etto, prezzo di vero favore.

Esclamazione di alta meraviglia (strabiliante in un reduce dal fronte) e la risposta fulminea:

— Ma non lo sa lei che siamo in guerra? — Il veterano passa le mani sui baffi, e si ritira. Anche gli esercenti si sono formati un'anima di guerra, e il veterano dice sorridendo con malinconia di aver trattenuto uno schiaffo per non essere arrestato come disfattista.

(7 aprile 1918).

LA RETTA ED I MINARETI

Achille Loria scrive, parla, e... sgonfia. Ha perpetrato anche un articolo a favore dei profughi, che non gli avevano fatto niente di male... poveretti! Ed ha scoperto che la linea retta è la piú lunga e che a Trieste il campanile di S. Giusto è un minareto. Non voglio defraudare i lettori di una risata... sono cosí malamente i tempi... e piove!

Coloro i quali pensano che la linea retta sia il piú breve cammino fra due punti, trovansi ad ogni tratto smentiti dalla storia, la quale dimostra che la meta raggiungesi invece attraverso ogni sorta di cadute, di ondeggiamenti e regressi. Dio non permise che il popolo ebreo movesse diritto, dalla terra del triste servaggio, all'asilo luminoso della libertà, ma volle che errasse per quarant'anni nel deserto, fra le incertezze e le angustie.

Ci voleva tanto poco pel popolo di Francia a procedere dall'assolutismo legale di Luigi XVI all'assolutismo reale di Luigi Filippo; ed invece esso pure dovette, prima di giungervi, sostare quarant'anni nel deserto fra gli opposti flagelli del terrore e della tirannide.

E come i processi della storia, cosí sono involuti quelli della natura. Non potrebbe questa procedere nella formazione delle specie per la via piú retta e piú semplice, creando cioè degl'individui sempre migliori e piú adatti? Ed invece essa si condanna a creare un numero di germi infinitamente superiore a quello che può vivere, acciò si scateni fra questi una lotta, in cui i migliori trionfano. È sempre quel moto a spirale, che Goethe ha genialmente additato, ed in cui si riflette la fatalità irrazionale dei pentimenti e degl'incessanti ricorsi.

Ora, se la carità di patria non fa velo al mio giudizio, a me sembra che gli avvenimenti luttuosi che hanno, non è guari, straziato il nostro cuore di italiani, rientrino, al postutto, nella cerchia di questa legge universale. Noi stavamo percorrendo un sentiero rettilineo, che, nelle nostre visioni, doveva addurci senza colpo ferire ai fulgidi minareti di S. Giusto. Noi ci lusingavamo di poter surrogare la via retta, piú razionale e piú pronta, alle anfrattuosità e alle volute irrazionali della storia. Ma qui, come sempre, la storia ebbe ragione della ragione, la linea retta venne miseramente a spezzarsi, e la spirale goethiana a trionfare. La spirale, oggi angosciosa e dolente, giacché ne percorriamo gli opachi declivi, ma che già sta per iniziarci alle sue luminose ascensioni, ed al suo vertice di fortuna immortale.

Io accuso, io denuncio il prof. Achille Loria, relatore sulla politica estera al convegno torinese del Fascio parlamentare, per disfattismo. Ed in verità se la chiesa di S. Giusto ha un campanile che è un minareto, la chiesa è una moschea... ergo è stata costruita dai turchi, ergo Trieste non fu e non è italiana, ma è turca. Decreto Sacchi: due anni di reclusione, con il beneficio della semi-infermità di mente!

(8 aprile 1918).

I RITARDATARI

Adagio, adagio, senza affannarsi e dopo lunghe ed affannose agitazioni sono arrivati anche i sanitari piemontesi del Comitato di propaganda patriottica. Hanno tenuta una riunione generale — quanti erano? — hanno sentito un discorso contro il disfattismo, si sono sciroppata la lettura di una lettera idem, ed hanno votato un ordine del giorno con il quale «protestano contro l'opera depressiva ed antinazionale svolta in parlamento e fuori da qualche collega che nel momento storico attuale, in cui è tanto sentita necessità di concordia e di spirito e sacrificio, ha cercato di svolgere un'azione o aperta o subdola, sempre nefasta, di disfattismo». E l'ordine del giorno è ancora poco vibrante in confronto alla sullodata lettera del prof. Vinaj, la quale condanna una voce maledetta che cerca di sminuire la resistenza, in nome di una ideologia trascendentale (chi sa che roba è la «trascendenza» per l'illustre Vinaj?!), che potrebbe anche nascondere gli effetti deleteri di una corruzione traditrice, subita anche inconsciamente...

Chi è il colpevole? L'on. Maffi? Ma quanto tempo è già passato e quanto c'è voluto perché i signori sanitari si accorgessero del reato e si riscaldassero? Si capisce che hanno tanto da fare, che hanno da percepire lo stipendio dello Stato e da sostituire nella clientela privata i colleghi al fronte, che è difficile trovar subito il momento propizio per manifestare il loro patriottismo.

E notate con quanta ovatta il prof. Vinaj ha imbottito la sua requisitoria, con quante circonlocuzioni si esprime... per arrivare a alludere ai quattrini tedeschi. E come evita precise identificazioni! Sono evidentemente troppo pericolose e sarebbero troppo ridicole. Fra quelli che voi chiamate disfattisti ci era anche il dottor Bono, che è morto, signori, mentre... e ve ne sono molti altri. Vi è anche un deputato di Torino. Perché non ne chiedete la radiazione dall'ordine dei medici, la espulsione da tutte le pubbliche amministrazioni, visto che ve ne sono nel consiglio del S. Giovanni, e di parecchie altre opere pie? Avanti per la crociata, ma attenti ai fiaschi. Il precedente milanese non è incoraggiante. Del resto quei medici sono veramente patriotti, e del loro civismo non sarà piú possibile dubitare se si effettuerà presto la proposta che sappiamo essere stata fatta in quella riunione. Uno degli intervenuti ha affermato che non era giusto che i medici, lasciati ancora nelle loro residenze, godessero di un triplice beneficio, in confronto ai richiamati al fronte, cioè: 1) di agi e mancanza di pericoli; 2) dello stipendio statale; 3) dei maggiori guadagni prodotti dalla mancanza dei colleghi. Hanno proposto quindi che si rinunziasse almeno al secondo e che si offrisse allo Stato la propria opera gratuita. L'idea ebbe una clamorosa accoglienza, per quanto l'assemblea nella sua modestia non abbia voluto che fosse resa pubblica, e non sia comparsa quindi nel comunicato ufficiale. Ma noi violiamo il segreto, ben lieti di rendere omaggio ad un cosí nobile esempio di disinteresse, ed attendiamo che sia immediatamente messo in attuazione, sicuri che questa volta i medici non impiegheranno troppo tempo! A meno che non si tratti della informazione tendenziosa di qualche maligno.

(9 aprile 1918).

LA MENTE E LE BRACCIA

Decisamente l'avv. cav. Gino Olivetti è un uomo fortunato. Fra tutte le sue fortune, che non sono poche, egli ha anche quella di avere une bonne presse. I maligni vogliono anzi ch'egli abbia dei buoni e bravi servitori nel giornalismo patriottico industriale torinese. I quali giornalisti, che non conoscono, almeno crediamo, che per sentito dire il Comitato operaio-industriale per i profughi e le sue attività, si fanno tuttavia un dovere di attribuire tutti i meriti esclusivamente all'avv. Gino Olivetti, del quale comitato egli sarebbe, nientemeno, che la mente e le braccia.

Qui sarebbe veramente il caso di dire: troppa grazia, sant'Antonio, visto e considerato che il segretario della Lega industriale è già tante belle cose in moltissime altre società ed organizzazioni, istituti, ecc. ecc.

Però, a dire la verità, di quest'ultima sua grande qualità noi non c'eravamo ancora accorti. Sapevamo che il cav. Olivetti rappresentava la Lega industriale in seno al Comitato per i profughi sunnominato; potevamo anche supporre che egli ne fosse, in qualche modo, uno dei dirigenti e la nostra indulgenza poteva arrivare magari a credere che ne fosse la mente. Che ne fosse poi anche le braccia, questo proprio non ci risultava. A noi era accaduto piú di una volta, passando di sotto l'androne della Camera del lavoro, di vedere una folla compatta di borghesi e di militari, di uomini e di donne che stazionavano per ore ed ore alla porta per poter giungere al tavolo della segreteria a farsi firmare un buono per denaro o per indumenti, ma non ci è mai accaduto di vedere seduto a quel tavolo il segretario della Lega industriale, né ci risulta che tanta ressa di profughi avesse mai invaso il suo ufficio. Ci eravamo perciò formata la convinzione che se egli poteva essere la mente del Comitato dei profughi, le braccia che maggiormente agivano per fare muovere il meccanismo non fossero esclusivamente le sue. Ringraziamone la «Gazzetta di Torino» per la informazione molto... disinteressata che ce ne dà e tributiamo noi pure la nostra lode incondizionata all'emerito cavaliere.

Per quanto egli non abbia alcuna colpa, molto probabilmente, in quello che è un eccesso di zelo di qualche suo stipendiato, e sia subito corso ai ripari, con una di quelle circolari-rettifiche ai giornali cittadini, che da qualche tempo sono venute ad aumentare la mole di lavoro che lo opprime. Comincia a diventare pesante il mestiere di padrone di giornale! Specialmente quando si ha da fare con giornalisti che non hanno ancora imparato a non turbare quell'equilibrio, che è norma principale dell'avv. Olivetti. Il quale non se ne avrà a male se lo mettiamo Sotto la Mole. È il destino di tutti gli uomini importanti!

(10 aprile 1918).

AZIONE SOCIALE

Il «Momento» registra con cura meticolosa la cronaca varia dell'attività che i clericali svolgono per organizzare energie sociali ancora scompaginate e in balía del piú basso e animalesco individualismo. C'è da sorridere a tanto ingenuo candore, specialmente quando il «Momento» cerca di porre in rilievo come tutta questa operosità tenda ad arginare il movimento socialista.

Queste cronache clericali saranno un giorno documento interessante per gli storici, i quali si domanderanno come mai il cattolicesimo abbia lasciato corrodere il suo edifizio ideale senza reagire, abbia lasciato che la riforma protestante, combattuta quando dava l'assalto dal di fuori, trionfasse nell'intimità, snaturando lentamente, corrodendo la disciplina e la gerarchia.

Per la logica incoercibile delle idee e degli avvenimenti i cattolici attivi sono divenuti implicitamente luterani: l'on. Micheli, discutendo sulla piccola proprietà, si serve persino del linguaggio nuovo. La storia, lo sviluppo delle attività sociali sono spiegate con la logica interiore della storia stessa, dell'attività stessa: l'autorità, la trascendenza diventano ferrivecchi; l'uomo è egli stesso posto come agente e volontà, e alla volontà si propone un fine tutto terreno, utilitario, proprio dell'economia umana, e non della purificazione religiosa.

La vita e la storia rivendicano i loro diritti. Il cattolicismo, che per la rigidezza della sua disciplina rivolta a fini ultraterreni ha la maggiore responsabilità delle condizioni di sfacelo sociale in cui si trovano i paesi latini, si inserisce nuovamente nel processo di sviluppo e di dissoluzione del cristianesimo. Accanto all'ecclesia, associazione degli individui disciplinati dal dogma, sorgono i sindacati, le cooperative che devono accettare la libertà, il libero esame, la discussione: queste armi demoniache sono rivolte solo contro lo Stato, contro particolari riforme di vita, ma fatalmente finiranno col rivolgersi alla religione, alla morale che dal dogma dipende. Il cattolicismo si suicida, inconsapevolmente: lavora per la laicità, socialista nel proletariato, liberale nella borghesia.

Riprende il principio dell'associazionismo e della resistenza e crede che l'attuazione di esso possa esistere senza l'ideologia connaturata, crede alla possibilità dell'esteriore senza l'interiore corrispondente, crede che l'autorità possa davvero fermare uno sviluppo che segue una tendenza contraria all'autorità stessa, quando il pericolo sia manifesto. È l'illusione del libero arbitrio, che nel pensiero cattolico finisce col diventare puerilmente atto capriccioso, staccato dalla necessità e dalla logicità.

Il cattolicismo lavora inconsapevolmente per il socialismo, si suicida: dal cadavere in decomposizione sboccia la vita nuova, libera e indipendente da dogmi e da autorità esteriori.

(12 aprile 1918).

LA SCUOLA E IL GIARDINO

La scuola e il giardino stanno di fronte. Quando il sole non era ancora stato divorato da chissà che mostro e illuminava il giardino, ora chiuso e deserto, gli scolaretti uscivano di scuola e prima di andare a casa si precipitavano nel giardino a far mezz'ora di gazzarra.

Il giardino era dunque la continuazione della scuola. Osservazione che non è superflua, perché nel discutere di problemi scolastici noi ci dimentichiamo sempre di questa continuazione e ci lamentiamo e rimproveriamo alla scuola una infinità di difetti che sono nelle continuazioni, nella vita sociale, nell'ambiente che accoglie gli scolaretti subito dopo usciti di scuola: la famiglia, la strada, il giardino.

Il giardino era aperto qualche giorno fa, il sole lo illuminava. Gli scolaretti vi si precipitarono, ma non fecero gazzarra: uno spettacolo li attrasse, interessante per loro senza dubbio, perché si disposero a una certa distanza, muti, attenti: gioco nuovo, mai visto forse. Su una panca un giovanotto di una trentina di anni, bruno, ricciuto, col cappello alla guappa, sedeva accanto a una balia asciutta; e si agitava, e si lisciava la pancia e allargava le braccia tutto sorridente, e ogni tanto prendeva la mano della ragazza, con l'espressione mimetica che Angelo Musco pone nelle commedie siciliane. Gli scolaretti guardavano, attenti. La continuazione della scuola era evidentemente piú interessante per loro della scuola stessa. I bambini hanno una logica propria, si sa, e filano dei ragionamenti di una coerenza spaventosa. Alle undici del mattino, quando la città non ha ancora smesso il lavoro antimeridiano, vedere nell'aiuola un giovanotto robusto e sano, dall'aspetto non di signore che vive di rendita, fare i gesti, li stessi gesti press'a poco che fanno i cani quando la mamma dice di non guardare e accelera il passo, è spettacolo di una teatralità gratuita da non perdere per tutto l'oro del mondo.

Qualche passante si ferma anch'egli a guardare, e sorride, come sogliono sorridere gli sciocchi che non pensano alle continuazioni di cui sopra. Qualche altro lascia sfuggire interiezioni poco ortodosse, aretinesche. Uno brontola, domanda perché nessuna guardia intervenga. «Ecco, gli dico, nessuna guardia può intervenire, e il giovanotto non si dà per inteso della curiosità malsana che riesce a destare, appunto perché egli è sicuro che nessuna guardia interverrà. Se ella, signore, prendesse sul serio la sua qualità di cittadino, corresponsabile della particolare forma di civiltà in cui viviamo e vivremo, e intervenisse, quel giovanotto lo condurrebbe al vicino commissariato e la farebbe mettere dentro per oltraggio ad agente nell'esplicazione delle sue funzioni: io sarei in piú condannato per disfattismo. Ella chissà cosa crede faccia quel giovanotto: corruzione, ecc., ebbene, no: egli fa la guardia ai disfattisti di corso Siccardi»

(16 aprile 1918).

IL CIECO TIRESIA

Narra la «Stampa» come ad Ostria, nelle Marche, viva un povero fanciullo cieco, il quale ha profetizzato che la guerra finirà entro l'anno 1918. Il piccolo profeta non era cieco prima della profezia: la cecità era indissolubile però colla sua nuova qualità; egli è diventato cieco subito dopo aver allietato gli uomini con la fausta notizia della prossima loro liberazione dall'incubo del sangue.

Ostria è nelle Marche (presso Senigallia, precisa la «Stampa») l'istituto del Cottolengo è a Torino. Due settimane fa si affermava che nella pia Casa del Cottolengo una bambina, di spirito profetico dotata, incominciò a prevedere tutta una serie di piccoli avvenimenti. D'un tratto affermò di sapere quando la guerra sarebbe finita, ma rifiutò di dirlo perché sicura di diventar cieca. Come il fanciullo d'Ostria (si narra) ella venne visitata da specialisti, i suoi occhi furono riconosciuti immuni da ogni predisposizione alla cecità. Fu indotta a parlare, recitò la profezia, e immediatamente divenne cieca. Torino-stria, come nel 1916 Torino-Padova, S. Antonio e il frate del convento dei Cappuccini. Una profezia all'anno, una pace all'anno. Ma nel 1918 lo spirito popolare ha fatta propria la tradizione, l'ha abbellita della ingenua poesia che vivifica le sue creazioni spontanee. La qualità di profeta fu ricongiunta con la sventura della cecità. Il greco Tiresia era cieco: la limpida chiarità del suo pensiero era chiusa in un corpo opaco, chiuso ad ogni impressione dell'attualità. È la compensazione ineluttabile che la natura domanda alle sue eccezioni: c'è un principio di pensiero di giustizia. È un destino atroce, come quello di Cassandra, che non viene creduta, che conosce gli eventi futuri, li vede avvicinarsi, sa chi sarà travolto e piange e parla, ma trova solo scettici, indifferenti gli uomini che non provvedono, che non si oppongono al destino. Cassandra vive un dramma piú individuale, è creazione di poesia colta, già raffinata letterariamente. Tiresia è popolare, è plastico: la sventura ha un aspetto esteriore nella sua persona, il dramma è fisico prima e piú che interiore, la pietà è immediata, non ha bisogno di riflessioni e di ragionamenti per sorgere. Sembra una cosa da nulla: è invece un'enorme esperienza, che solo la tradizione popolare poteva riuscire a provare e concretare. Il decimo canto dell'inferno dantesco, la fortuna che esso ha avuto nella critica e nella diffusione, è dipendente da questa esperienza. Farinata e Cavalcante sono puniti dell'aver voluto troppo vedere nell'al di là, uscendo fuori dalla disciplina cattolica: sono puniti con la non conoscenza del presente. Ma il dramma di questa punizione è sfuggito alla critica. Farinata è ammirato per il plastico atteggiarsi della sua fierezza, per il suo giganteggiare nell'orrore infernale. Cavalcante è trascurato; eppure egli è colpito a morte da una parola: egli ebbe, che gli fa credere suo figlio essere morto. Egli non conosce il presente: vede il futuro e nel futuro il figlio è morto; nel presente? Dubbio torturante, punizione tremenda in questo dubbio, dramma altissimo che si consuma in poche parole. Ma dramma difficile, complicato, che per essere compreso ha bisogno di riflessione e ragionamento; che agghiaccia d'orrore per la sua rapidità e intensità, ma dopo esame critico. Cavalcante non vede, ma non è cieco, non ha una plastica evidenza corporale della sua sventura. Dante è un poeta colto in questo caso. La tradizione popolare vuole la plasticità, ha una poesia piú ingenua e immediata.

Il bambino di Ostria, la fanciulla della pia Casa del Cottolengo, sono appunto due canti della poesia popolare: poesia, niente altro che poesia...

(18 aprile 1918).

DISCIPLINA

Il poeta guerriero Arturo Foà pubblica nella «Gazzetta di Torino» il suo stato di servizio: «Soldato per cinque mesi (classe 1877, proveniente dai riformati), allievo ufficiale per due mesi, sottotenente, per sua espressa richiesta, al 150° battaglione territoriale, anziché in uno stabilimento industriale o in un comando, come di diritto agli ufficiali della sua classe; domanda di andare in prima linea, con i documenti a disposizione; in procinto di partire ai primi di novembre, trattenuto ai fini della resistenza interna, obbedienza all'ordine per il suo dovere di soldato; encomio sul suo libretto di ufficiale per la sua opera di propaganda».

Lo stato di servizio è innegabilmente lungo, l'attività del soldato è stata innegabilmente operosa. Se a questa attività si aggiungono i chilometri delle linee stampate a mo' di versi, lo stato di servizio sarà ancor di piú allungato, l'operosità apparirà ancora maggiore.

Arturo Foà non è andato in linea. È vero. Ma egli è stato sul procinto di andarci. Non siate maligni! Non pensate ai cori delle opere melodrammatiche che cantano per mezz'ora: Andiamo, andiam! e poi ritornano dietro le quinte! Arturo Foà era in procinto, ma mentre era in procinto è arrivato un ordine superiore, e Arturo Foà ha obbedito. Forse che l'obbedire è una privativa garibaldina? Anche Arturo Foà ha risposto: obbedisco! e il procinto è diventato preterito piú che perfetto. Arturo Foà è uomo di virtú civile. L'obbedienza è stata in lui certamente una virtú. Nel novembre era finalmente in procinto. Da due anni aspettava quel procinto. Leggete i suoi libri (cioè, non li leggete, beh, fate come vi piace!) e sentirete quale desiderio ardente infiammasse lo spirito del poeta; il desiderio era cosí ardente, la fantasia era cosí eccitata, che in qualche poesia il poeta finge addirittura di essere stato nella mischia. Le immagini guerriere sono cosí plastiche che un intelligente industriale potrebbe ricavarne commoventissime cartoline illustrate, cromolitografie da essere conservate nei cartoni del Museo del Risorgimento.

Il desiderio fu frustrato. Con quale accoramento il poeta dovette pronunziare il fatale «obbedisco!» Non piú il dionisiaco fervore della battaglia, la suggestione alata dei bivacchi, la malinconica serenità delle meditazioni in trincea. Non piú. E invece: il poeta diventa burocrate, emargina pratiche, organizza. La fantasia viene aggiogata alla diligenza della praticità, della vile e nauseabonda praticità. Che tragedia, che dramma interiore! Il poeta fa il travet, il poeta si ispira a Mercurio e non alle Muse. Addio, acque di Ippocrene, Apollo agitatore di bellezza e di eleganza, numeri armoniosi! Il poeta emargina una pratica, allinea numeri di cifra arabica. Il poeta ha risposto «obbedisco!», il soldato è disciplinato!

(25 aprile 1918).

LE CONSEGUENZE

Il «Momento» (27 aprile) pubblica questa informazione: «Nella giornata di ieri è stata rimborsata alla nostra amministrazione la somma che rappresenta l'importo dei danni materiali arrecati dagli studenti». Essa è in relazione con questa notizia che il «Momento» ha pubblicato il 26, dopo la narrazione dell'assalto dato ai suoi uffici da un gruppo di studenti:

I bravi marmocchi in berretto goliardico cercarono di squagliarsi, ma due che erano stati sorpresi a far strage di vetri e che erano penetrati, armati di bastoni, entro l'atrio del giornale, vennero acciuffati dalle guardie e dichiarati in arresto, dietro nostra richiesta, per violazione di domicilio, e per tale reato denunziati all'autorità giudiziaria, alla quale ricorreremo per il risarcimento dei danni. Diamo qui i nomi dei due eroi: Ezio Farinelli di Principio, nato nel 1901, studente al liceo M. D'Azeglio, allievo del prof. Monti e abitante in corso V. Emanuele 78, e Alessandro Polonini di Carlo, abitante in via delle Orfane 29.

Il «Momento» è stato rimborsato dei danni. I due arrestati devono essere stati rimessi in libertà. Gli inquieti genitori avranno riacquistato la tranquillità.

Il reato non esiste piú, non piú responsabilità; i danni sono stati rimborsati; il quattrino cancella il delitto. I due eroi (come li chiama il «Momento») si convinceranno cosí che un'azione provoca conseguenze non per la sua essenza, ma a seconda del portafoglio genitoriale. Gli studenti accumulino esperienza: facciano risparmi, costituiscano addirittura una società mutua. Quando il capitale sociale avrà raggiunto una certa altezza, potranno permettersi un ampliamento di attività, rompere vetri, fracassare imposte, invadere privati domicili. Risarciranno, pagheranno, e nessun crimine avranno commesso. L'eroismo si vende un tanto a vetro, il delitto si riscatta un tanto per amministrazione danneggiata.

I due eroi devono essere ormai in libertà. Beati loro, se amano piú la libertà materiale del corpo che la libertà spirituale. Il «Momento» si è vendicato della loro violenza, in modo antieducativo, contro i propri principî, contro i programmi che dice di voler diffondere, ma si è vendicato. I due sono definitivamente due marmocchi. Sapevano essi che infrangevano una legge nazionale rompendo i vetri? Ma no, l'infrazione è un puro atto di meccanica applicata: il cozzo di due corpi differentemente solidi provoca sempre una rottura. I due eroi sono diventati pura forza bruta, naturale, che provoca effetti fisicamente catalogabili. Nessuna luce ideale, nessun elemento politico, nessuna spiritualità. Se la volontà fosse stata presente la legge avrebbe avuto il suo corso, i due eroi ne avrebbero subito le conseguenze. O che si può impunemente violare il codice della propria nazione, della propria patria? Ma i due non hanno violato la legge: sono irresponsabili, sono pura forza naturale; sono niente altro che il portafogli dei loro genitori.

(28 aprile 1918).

PURIFICAZIONE

Poiché il proverbio dice: «Pioggia d'aprile, ogni goccia mille lire», ho cercato, per una buona mezz'ora, di calcolare quante migliaia di lire siano cadute nei soli chilometri quadrati della circoscrizione comunale torinese. Tanti milioni di miliardi da far restare di stucco tutti i cassieri riuniti delle banche anglo-franco-americane. Tanti milioni di miliardi da pagare tutti i debiti di guerra, se i debiti potessero essere pagati in migliaia di lire e non in tonnellate di merce. Ho pensato che l'Italia è diventata una delle piú ricche nazioni del mondo, con tanta acqua d'aprile, e che potrebbe compiere un bel gesto: i giornali hanno pubblicato il bilancio russo, cento miliardi di passivo, tre miliardi di attivo. L'Italia che ha un bilancio meno rivoluzionario, meno bolscevico, dovrebbe fare il bel gesto di colmare lo spaventevole deficit della Russia socialista. Coi giochi di parole degli economisti-giornalisti e con l'acqua d'aprile il bel gesto costerebbe piccolo sacrificio.

[Sessantadue righe censurate].

(30 aprile 1918).

TRUFFATORI

«Ignoti» hanno truffato alcune migliaia di lire a dei faciloni che avevano alcune migliaia di lire da farsi truffare.

Gli ignoti hanno giovato all'economia nazionale. Hanno giovato al risanamento del costume. Le vie della provvidenza sono infinite: anche i truffatori possono essere utili.

Hanno inferto un rude colpo all'istituzione nazionale del lotto. Hanno inoculato del veleno nell'organismo amministrativo del lotto: cosa farà lo Stato per immunizzare il veleno? Dovrà aumentare le spese generali, il lotto sarà meno produttivo, un velo opaco si stenderà su questo specchietto per le magre allodole italiane.

Bisognerebbe scrivere un elogio di questi ignoti truffatori. Essi sono da considerare, all'infuori di ogni valore umano individuale, come pure forze meccaniche che operano ciecamente, determinando conseguenze incontrollabili e irriversabili. Esiste un male organizzato potentemente: il lotto. È un bubbone purulento, un fomite di corruzione, di immoralità: non è solo un portato del basso costume, è anche un conservatore del basso costume. Gioca al lotto chi spera arricchirsi senza lavorare, senza spendere energie e attività; ma l'esistenza stabile, vistosa di una organizzazione della possibilità di arricchirsi, ecc. ecc., è una continua, innaturale, artificiosa tentazione. Che fare? Obbligare lo Stato a chiudere i botteghini? Chiamare la folla in piazza ed eccitarla fino a far radere al suolo gli edifizi dove il nido di vespe è situato? Non varrebbe a nulla. Il processo di eliminazione del male deve avvenire spontaneamente, affinché non si suscitino sentimenti di reazione pericolosi e dannosi alla loro volta.

Ma ecco il processo spontaneo che si rivela in un suo momento. Ignoti truffatori, con bollette vecchie del lotto, sbruffano alcune migliaia di lire. Toh! si può dunque essere truffati col lotto? Chi ancora non aveva pensato a questa probabilità, ci riflette. Nasce un ambiente di sfiducia e di diffidenza. Lo Stato, preoccupato dei suoi gettiti finanziari, corre ai ripari. Carabinieri per tutelare il male, controlli superiori perché il male operi con tutta la sua efficacia. Bene! Il lotto è vulnerato. Esso si regge perché è possibile giocare senza fastidi, senza far conoscere il proprio nome, senza essere seccati. È certo che le giocate diminuirebbero notevolmente solo che i botteghini fossero trasportati dal pian terreno al primo piano. Quanti, per esempio, avrebbero ancora la costanza di giocare, se il botteghino fosse in una soffitta al quinto piano? Solo i piú scalmanati, quelli che hanno la malattia del lotto, che non possono fare a meno di giocare se vogliono mantenersi sani fisicamente.

Lo Stato non porrà mai, volontariamente, difficoltà tra il male e gli ammalati: il bilancio dello Stato deve essere tutelato. Non seguirà la progressione dei piani, per eliminare dal vizio i meno tentati. Ebbene: i truffatori hanno provveduto: le difficoltà nascono da un altro male. La disonestà individuale ucciderà progressivamente la disonestà governativa.

(20 maggio 1918).

COCAINA

Hanno permesso che il Mogol riapra i suoi battenti e le sue sale ai frequentatori? Non ho avuto l'occasione né lo stimolo curioso di accertarmene. Ma la concessione tacita non mi produrrebbe meraviglia.

Il Mogol è stato chiuso per ordine del questore: nelle ore tarde della notte giovani vi si riunivano per inebriarsi con la cocaina. Perché fu chiuso il Mogol? Per il fatto che accoglieva clienti nelle ore interdette dalla legge, o perché questi clienti vi si inebriavano con la cocaina? I nomi di questi infelici non sono stati pubblicati; non è stato pubblicato neppure il nome del farmacista che vendeva loro il veleno. Dunque il fatto per l'autorità non costituisce crimine, i nomi non sono nomi di colpevoli che sia utile dare alla pubblicità come di esseri nocivi al benessere sociale: l'autorità si è solo preoccupata dell'ora non regolamentare.

I giornali benpensanti hanno avuto una breve fuga di moralismo. Uno si è accorto che in Italia la cocainomania non è punita dalle leggi, e se ne preoccupa; un altro ha confezionato una predica d'occasione, ricordando agli sciagurati che la patria è in guerra, che i fratelli soffrono in trincea e altri stimoli morali del genere che per l'enfasi e la fatuità con cui sono espressi suonano sordo come i ventini di piombo.

Come a Torino, anche a Roma e a Bologna sono stati scoperti (!?) amatori dell'ebrezza con gli alcaloidi. E dappertutto la stessa fraseologia di maniera. Ohibò! non è la legge che farà scomparire il vizio. Ma se il vizio è un portato necessario della civiltà moderna!... Civiltà esteriore, che ha per base il lavoro, ma degli altri. Si formano necessariamente queste schiume putride, senza fini, senza morale, senza storia. Cosa è la vita per tanti? Animalità corporea, godimento dei sensi, meccanicità nervosa e muscolare. Perché dovrebbero non inebriarsi con la cocaina? Io mi maraviglio che cosí pochi sdrucciolino per la china dei piaceri che rovinano. La causa della poca diffusione del vizio non è il dovere morale: è l'indifferenza, è la rozzezza. S'accontentano di molto meno, ecco tutto, ma il fenomeno è grave cosí come se i morfinomani fossero mezzo milione invece che cinquecento.

Certo la causa prima è l'assenza di fini morali, ma può un borghese avere fini morali? Se è un eroe, sí, ma la media è tutt'altro che eroica. Il lavoro, l'attività salva i borghesi dalla perversione, ma un certo numero di individui della classe non lavora affatto, non saprebbe come riempire utilmente le ventiquattro ore della giornata. Di milionari che stiano dodici ore al giorno a tavolino come Benedetto Croce ci dev'essere solo Benedetto Croce; gli altri preferiscono le gare ippiche, le stazioni balneari, Montecarlo, i romanzi di Luciano Zuccoli e la cocaina. Li può salvare solo l'ottusità dei sensi e l'avarizia, cioè l'essere al di sotto dell'animalità umana media.

Si possono fabbricare i fini morali, instillarli nelle tenere menti sui banchi della scuola? Ma la scuola continua nella società, e la vita di relazione sociale è ben diversa da quella degli apologhi, dal buon Giannetto al Pinocchio. Il lavoro solo dà impulsi morali, è il crogiolo dal quale si volatizzano le essenze spirituali che possono dare una regola di vita. I piú sono immediati e solo per concatenazione arrivano al generale. La patria, la famiglia, l'umanità, la bontà, la giustizia hanno bisogno, per essere reali, di prender forma piú volte al giorno in attività minime che domandino fatica e sacrifizio, che diano soddisfazione e gioia. Si devono trasformare, queste parole, in carta da annerire con l'inchiostro, in peso da sollevare sulle spalle, in utensili o macchine da mettere in azione. La moralità consiste solo nel mettere in relazione l'azione minima col fine massimo, e perciò è necessaria l'esistenza dell'azione minima, di un rosario infinito di queste azioni da sgranare quotidianamente. Altrimenti, ebrezza di cocaina o ebrezza di parole vuote, allucinamento fisico o allucinamento spirituale per un moscone-parola che sbatte le ali da una parete all'altra del cranio: patria, umanità, popolo, giustizia...

La moralità, — i piú non esistono fuori dell'organizzazione, prenda il nome di Ecclesia o di Partito, — non esiste senza un organo specifico e spontaneo di realizzazione. La borghesia è un momento di caos non solo nella produzione, ma anche nello spirito. Ha disgregato l'Ecclesia, l'organizzazione della vita morale autoritaria, ma nei nostri paesi non è passata per la fase del puritanismo e della clubmania. L'associazione liberale ha determinato solo i circoli danzanti, le società di mandolinisti, ed ora incominciano le congreghe degli amici dell'ebrezza. Le associazioni borghesi sono per il piacere, non per il dovere; per eccitarsi i nervi non fiaccati dal lavoro, non per trovare il modo di rasserenare il corpo dopo il lavoro, equilibrandolo con l'attività del cervello.

L'uso della cocaina è indice di progresso borghese: il capitalismo si evolve. Costituisce categorie di persone completamente irresponsabili, senza preoccupazioni per il domani, senza fastidi e scrupoli. Le autorità ne sono consapevoli. Nuocciono questi individui? No, perché la società, in cui uno è tutti, e tutti sono uno, non è cosa borghese. Essi non nuocciono: i loro nomi non sono pubblicati, il farmacista sarà lasciato dopo una paternale, il Mogol riaprirà le sue sale. Che giova dar di cozzo contro il destino?

(21 maggio 1918).

NAZIONALISMO ECONOMICO

Esiste presso il 40° parallelo, un paesetto, de cuyo nombre non quiero acordarme, per non sollecitare il legittimo risentimento campanilistico, cosí come Michele Cervantes per la stessa ragione non volle ricordare il nome del paese natio di don Chisciotte, posto anch'esso presso lo stesso parallelo.

Il paesetto in questione è celebre, a cinquanta chilometri di raggio dal parafulmine del suo campanile, per gli l sempre raddoppiati (candella ecc.) e per il suo ferro.

Un giorno, nel tempo passato, gli abitanti s'accorsero, con grande rincrescimento, di essere tributari del ferro ai grossisti del capoluogo di provincia. Vollero energicamente provvedere. Uomini d'azione, gelosi del prestigio della loro patria (patria vi significa appunto paese natale) mandarono il fabbroferraio a comprare alcuni quintali di buoni chiodi, accompagnandolo di un agricoltore famoso per i solchi diritti tracciati dal suo aratro. E fu un'orgia di lavoro. I campi furono dissodati come mai si era fatto, e nella terra nera, soffice, i chiodi furono seminati, e la semina fu seguita da grandi feste dionisiache di tripudio per l'èra nuova iniziatasi nei fasti della patria. Non piú negozio di fichi secchi e zibibbo, di cacio e pellami, di sughero e nocciole, ma ferro, ferro. Quei buoni uomini non sapevano che Blanqui aveva detto: Chi ha ferro ha pane. Non sapevano della disputa per cerziorare se la massima dovesse ritenersi del solo Blanqui, o nella sua vaghezza fosse patrimonio anche di Tiburzi, di Tamerlano, di Guglielmo II e di Barabba. Eran lieti, e altro non domandavano.

E quando le prime acque compressero alquanto la terra arata, e punte arrugginite spuntarono, qua e là, nuove feste furono celebrate per i germogli tanto aspettati.

Oggi però gli abitanti del paese del ferro si sono scaltriti; hanno ripreso il commercio dei fichi secchi, del bestiame, dello zibibbo, del cacio; e quando passano, gridando la loro merce, per le strade dei finitimi villaggi, e un buontempone domanda loro scherzosamente: «Ebbene, e il ferro è cresciuto?», diventano scuri in volto e palpano il coltello rispondendo: «Eccone una foglia fresca, fresca». Perché quantunque scaltriti, sono ancora barbari e violenti.

Ma sono tutti scaltriti? Una colonia si è trasportata a Roma e vi ha fondato la scuola del «nazionalismo economico», e un discepolo della scuola romana è venuto a Torino a dirigere l'organo degli industriali piemontesi. Egli odia i fichi secchi, i limoni, i pomodori; vuole ferro, ferro, coltivare tutta l'Italia a ferro. L'esperienza del paesetto lungo il 40° parallelo non ha servito: l'Italia seminerà nuovi chiodi per ubbidire al vecchio adagio popolare.

(23 maggio 1918).

NON INDURRE IN TENTAZIONE

Un proprietario di ristorante scrive a un giornale cittadino per lamentarsi: 1) di non poter nei giorni di mercoledí, giovedí e venerdí servire carne d'agnello ai suoi avventori, mentre gli altri cittadini possono deliziarne il loro palato; 2) di non poter servire negli stessi giorni prosciutto e salame cotto e crudo, mentre gli altri, ecc., ecc. 3) di non poter mai arrivare a tempo ad acquistare formaggio negli spacci municipali.

Il proprietario di ristorante domanda che si provveda. I frequentatori di ristoranti devono essere uguali agli altri cittadini dinanzi all'agnello, al formaggio, al prosciutto, al salame crudo e cotto cosí come lo sono dinanzi alla legge. Il proprietario domanda che i ristoranti abbiano il contingentamento e la rispettiva tessera, e inoltre un luogo dato per ritirare il contingentamento.

Conclude il proprietario: «Questo fatto (la mancanza del luogo dato e del contingentamento) induce a comprare di nascosto favorendo la vergognosa speculazione di gente che offre a prezzi triplicati la merce che si dovrebbe avere al prezzo di calmiere». E la conclusione ci importa.

Il proprietario domanda di non essere lasciato in balía della tentazione. Non induceteci in tentazione! Ma per abolire completamente il regno della tentazione dimentica di domandare un ulteriore provvedimento: il calmiere sul menú.

Non ci preoccupiamo certo della borsa di chi va a mangiare al ristorante e deve spendere cinquanta o sessanta lire per il pane quotidiano, il companatico e il vino da innaffiare l'uno e l'altro. Ma abbiamo il vago dubbio che finché questa cascatella di soldi non sia controllata, la tentazione sarà vigile per costringere i buoni proprietari a servirsi dei bagarini per ampliare i loro affari oltre i limiti del contingentamento. E si ripresenta al nostro angosciato cervello la decrepita domanda: è nato prima l'uovo o la gallina? Chi esiste prima: il bagarino che induce in tentazione il proprietario, o il proprietario che induce in tentazione un cittadino, illibato per mancata occasione al mal fare, e lo fa diventare bagarino?

Il proprietario che protesta risponde alla domanda con troppa semplice ingenuità: dateci il contingentamento e il bagarino morrà d'inedia. Ma il proprietario non ci convince. Gli affari sono gli affari, che diamine, e morto un bagarino se ne trova un altro.

Cosa per cui vorremmo che non si lasciassero morire di fame i frequentatori di ristorante per la mancanza nei giorni di mercoledí, giovedí e venerdí dell'agnello, del formaggio, del prosciutto, del salame cotto e crudo. Ma vorremmo anche che si togliesse ai proprietari il modo di determinare aumenti di caroviveri per poter gareggiare in guadagni coi fornitori militari.

(25 maggio 1918).

IL TABACCO

Mancherà? Non mancherà del tutto? Avremo la tessera del tabacco, o, per dire esattamente, la tessera della possibilità del tabacco?

Non so se Guglielmo Ferrero fumi o annusi. In caso affermativo (lo stimolo del proprio benessere aiuta il pensiero a sdipanarsi meglio) vorrei umilmente supplicarlo di scrivere un libro sull'importanza del tabacco nella storia della società umana e della psicologia dei popoli. Secondo me, il tabacco ha nella storia un'importanza capitale. È il contrassegno unico della civiltà moderna. È documento unico di progresso. È unico segno di distinzione degli individui e delle collettività contemporanee dagli individui a dalle collettività antiche.

Il progresso. Provate a definirlo. C'è progresso intellettuale tra Aristotele ed Emanuele Kant, tra uno schiavo d'Atene e un proletario di Caltanissetta? La capacità di comprendere non è cambiata, la misura dell'intelligenza non è aumentata. È aumentato il numero dei dotti non dei saggi, degli istruiti non degli intelligenti. Il progresso è stato meramente meccanico — e io non lo disprezzo — non è stato progresso qualitativo. Si è imparato a risparmiare, ad economizzare, ecco tutto. Un viaggio di cento chilometri si fa in un'ora, invece che in un giorno, colla ferrovia, invece che colla lettiga, in mille persone servite da cinquanta persone, invece che da una persona sola servita da dieci schiavi. Cambiano i rapporti numerici, non cambiano i rapporti gerarchici, qualitativi. Il Belgio è stato invaso da Guglielmo II coi quattrocentoventi; Giulio Cesare lo invase con la semplice daga dei legionari, espugnò le città con macchine di legno invece che di acciaio. Il fine fu ed è stato lo stesso; gli effetti furono e sono stati i medesimi: morti, distruzione di beni, trionfi.

Gira e rigira siamo persino ritornati agli stessi ordigni; l'accenditore automatico non è che l'acciarino disgrossato e adattato per le persone perbene, che non vogliono riempirsi le tasche di sassi e pezzi d'acciaio. L'amore è sempre ai suoi motivi elementari, la bellezza non ha varcato i limiti contenuti nei canoni alessandrini. Le abitazioni hanno solo un maggior numero di piani, ed è aumentato il numero delle non-catapecchie.

Sempre, in tutte le attività, in tutti i rapporti troviamo il solo fattore numerico. Una diminuzione, o un incremento, mai una novità originaria, un piano superiore totale per tutti, nuovi cardini per l'attività umana.

Unico progresso, unica differenzazione: il tabacco. L'uomo moderno è l'uomo che fuma o che fiuta. Una sensibilità nuova, originale si è aggiunta alle vecchie sensibilità. Kant si distingue da Aristotele, il proletario di Caltanissetta si distingue dallo schiavo d'Atene perché ha fumato (o poteva fumare), perché mastica il mozzicone o fiuta. La civiltà borghese (l'introduzione dell'uso del tabacco coincide col primo nascere della borghesia) non ha altra originalità qualitativa, non ha arricchito l'umanità di altra esperienza originaria. Essa è pertanto la civiltà del tabacco, la civiltà del fumo e del fiuto. La piú diffusa solidarietà è quella che fa esclamare: salute! quando si starnuta. Su questo piano tutti gli uomini sono d'accordo, hanno raggiunto in comunione uno stesso stato d'animo.

Il sociologo potrebbe su questi motivi scrivere un libro utilissimo, sul tipo Fra due mondi di Guglielmo Ferrero. Sarebbe utilissimo davvero perché farebbe riflettere i dirigenti la Regia sulla missione di cui la storia li ha investiti, e il tabacco non verrebbe a mancare agli uomini, gli uomini non correrebbero il rischio di essere sbalzati dalle sublimi vette che hanno raggiunto col sangue di tante guerre, coi patimenti di tante generazioni.

(28 maggio 1918).

I GIORNI

Incomincia a diventare popolare l'istituzione anglosassone dei «giorni». Si legge nei giornali della celebrazione in trincea del «giorno delle madri», della celebrazione, in Inghilterra o negli Stati Uniti, del «giorno dell'Italia», del «giorno dell'alleanza», del «giorno dell'Impero».

L'istituzione è simpatica. È schiettamente democratica, cioè capitalistica. Poiché i cittadini è meglio pensino il meno possibile durante gli affari e il lavoro, si è applicato il metodo Taylor al pensiero e ai ricordi. Per ogni movimento dello spirito, cosí come del corpo, il suo momento. Si stabilisce un calendario spirituale-politico-sociale. Invece di celebrare il martirio di S. Lorenzo, o le virtú di S. Zita, o i miracoli della madonna di Caravaggio, per un giorno intero si pensa alle madri lontane, oppure si riflette all'utilità politica di un'alleanza con l'Italia, o si gioisce per la grandezza dell'Impero di S. M. Britannica.

L'istituzione è simpatica. Del resto i lavoratori di tutto il mondo sono stati i primi a riconoscerla tale e da qualche decina d'anni hanno fatto entrare nella tradizione il «giorno del lavoro», il Primo Maggio. Perché non dovrebbero anche i borghesi accogliere altri giorni, o adottare l'istituzione agli «usi locali»? Sarebbe una prova di maturità economica e politica (ma forse appunto per questo non metterà radici tanto presto). Pensate infatti. Il regime economico scioglie tutti i vincoli che uniscono gli individui gli uni agli altri. Il lavoro d'officina, l'ufficio, il viaggiare per affari, il servizio militare, determinano un continuo spostarsi degli individui, rarefanno i contatti intellettuali, rendono nervose e saltellanti le conversazioni, gli scambi d'opinione. La società viene disgregata dall'azione dell'economia capitalistica, nei suoi organi morali e politici piú efficaci: la famiglia, il comune, la regione. Gli individui reagiscono a quest'azione dissolvente e stabiliscono le date fisse: in una domenica tra tutti gli individui di una nazione si disserta sull'amore familiare, su un problema istituzionale, su una questione di politica internazionale. Risuscita, a data fissa, la comunione spirituale, la società che il regime ha dissolto; risuscita ampliata, con orizzonti piú vasti, ricca di valori nuovi. In queste creazioni della civiltà capitalistica c'è indubbiamente una grandezza che impone rispetto: rispetto che vorremmo fosse sentito per il «giorno del lavoro» che celebrato in tutto il mondo dà già una misura per il paragone di grandezze tra l'Impero borghese e l'Internazionale socialista.

L'istituzione non si radicherà subito fra la borghesia italiana, ma perché non potrebbe diffondersi per opera del proletariato? Quale efficacia non avrebbe per la propaganda il giorno della Rivoluzione russa, il giorno del proletariato inglese, tedesco, francese, americano, ecc., il giorno dei contadini, il giorno delle donne, ecc.?

Sapere che nello stesso momento tante folle pensano allo stesso argomento, si comunicano riflessioni e giudizi sul medesimo problema, amplia la visione della vita, accresce l'intensità e l'efficacia del pensiero. Il proletariato anticipa i momenti storici attraverso i quali la società borghese deve passare. La sofferenza acuisce la fantasia e provoca la visione drammatica del mondo futuro nelle sue manifestazioni di solidarietà e comunione, degli spiriti e del pensiero, e qualcuna di queste manifestazioni può incominciare a riprodursi già ora, pur nell'ambiente avverso. Sono esse come le palafitte della città nuova che il proletariato getta fin d'ora nella melma viscida della palude presente.

(30 maggio 1918).

LA LIBERTA DI DIVERTIRSI

Lo Stato italiano è lo Stato di un paese allegro. I cittadini italiani ignorano persino che lo Stato esista: infatti non sanno come funziona, non sanno come dovrebbe funzionare in ossequio alle leggi fondamentali del regno, e, dinanzi ad un atto dei poteri, non sanno dire se esso sia giusto o ingiusto, se leda o no lo Statuto, e quindi se leda o no i diritti acquisiti dei cittadini, il minimo di libertà che lo Statuto garantisce. La libertà viene concepita in modo grottesco e puerile: non si arriva a comprenderla come garanzia per tutti, impersonalmente tutelata dalle leggi, che le autorità per le prime debbono essere tenute a rispettare. Il popolo italiano non è popolo di liberi, o di cittadini che liberi vogliono diventare: l'Italia è davvero, purtroppo, la nazione carnevale, e la libertà è libertà di divertirsi e grattarsi la rogna al sole.

[Ottanta righe censurate].

I cittadini hanno appena una vaga nozione delle leggi dello Stato, e credono che esse siano soltanto punitive; non concepiscono la legge come garanzia, come sicurezza individuale. Gli italiani sono individualisti, dicono gli psicologi. Ma il vero è che gli italiani sono analfabeti e incolti e che l'Italia è la nazione carnevale, con una libertà, unica desiderata: la libertà di divertirsi.

(1° giugno 1918).

MERCE

Qualche vanerello ha proclamato per l'ennesima volta la disfatta della scienza.

Chimica applicata ai gas asfissianti, lacrimogeni, ulceranti; meccanica applicata ai cannoni di lunga portata... Sí, ma anche la zappa può spaccare i crani, la scrittura può anche servire a falsificare cambiali e a stendere lettere anonime... E non perciò si proclama la disfatta dell'agricoltura e della calligrafia.

La scienza ha il compito disinteressato dì rintracciare rapporti nuovi tra le energie, tra le cose. Fallisce solo quando diventa ciarlataneria. Gli uomini si servono dei ritrovati per straziare e uccidere invece che per difendersi dal male e dalle cieche forze naturali? Entra in gioco una volontà che è estranea alla scienza, che non è disinteressata, ma dipende intrinsecamente dalla società, dalla forma di società in cui si vive. Il ritrovato scientifico segue la sorte comune di tutti i prodotti umani in regime capitalistico; diventa merce, oggetto di scambio e quindi viene rivolto ai fini prevalentemente propri del regime, a straziare e distruggere.

Ecco che il dottor Carrel ha aperto una via nuova alla chirurgia: le possibilità di innesti umani si moltiplicano.

Non siamo ancora giunti all'intensità prevista da Edmondo Perrier: l'innesto del cervello, l'uso degli organi sani dei cadaveri da sostituire nei viventi ai corrispondenti organi logorati. Siamo ancora lontani dalla vittoria scientifica sulla morte promessa da Bergssu1: per ora la morte è la trionfatrice e per trionfare piú rapidamente si serve con prodigalità della scienza e dei suoi segreti. Ma arriveremo. La vita diventerà anch'essa una merce, se il regime capitalistico non sarà stato sostituito, se la merce non sarà stata abolita.

Secondo una comunicazione fatta all'Accademia di medicina di Parigi, il professore Laurent è riuscito a sostituire il cuore di Fox con quello di Bob, e viceversa, senza che i due innocenti cani abbiano troppo sofferto, senza turbare per nulla la vita del viscere delicato. Da questo momento il cuore è diventato una merce: può essere scambiato, può essere comprato. Chi vuol cambiare il suo cuore logoro, sofferente di palpitazioni, con un cuore vermiglio di zecca, povero, ma sano, povero, ma che ha sempre onestamente palpitato? Una buona offerta: c'è la famiglia da mantenere, l'avvenire dei figli preoccupa il genitore; si cambi dunque il cuore per non apparire di esserne sprovvisto.

Il dottor Voronof ha già annunziato la possibilità dell'innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all'attività esploratrice dell'iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l'organo della maternità? Lo cederanno alla ricca signora infeconda che desidera prole per l'eredità dei sudati risparmi maritali. Le povere fanciulle guadagneranno quattrini e si libereranno di un pericolo. Vendono già ora le bionde capigliature per le teste calve delle cocottes che prendono marito e vogliono entrare nella buona società. Venderanno la possibilità di diventar madri: daranno fecondità alle vecchie gualcite, alle guaste signore che troppo si sono divertite e vogliono ricuperare il numero perduto. I figli nati dopo un innesto? Strani mostri biologici, creature di una nuova razza, merce anch'essi, prodotto genuino dell'azienda dei surrogati umani, necessari per tramandare la stirpe dei pizzicagnoli arricchiti. La vecchia nobiltà aveva indubbiamente maggior buon gusto della classe dirigente che le è successa al potere. Il quattrino deturpa, abbrutisce tutto ciò che cade sotto la sua legge implacabilmente feroce.

La vita, tutta la vita, non solo l'attività meccanica degli arti, ma la stessa sorgente fisiologica dell'attività, si distacca dall'anima, e diventa merce da baratto; è il destino di Mida, dalle mani fatate, simbolo del capitalismo moderno.

(6 giugno 1918).

LA SCUOLA ITALIANA

quale la concepiscono il prof. Arnaldo Monti e i suoi colleghi in massoneria e interventismo non è «scuola», è fenomeno di volgarità spirituale e di bassa cultura.

Il prof. Arnaldo Monti cosí ragiona nel suo cervello angusto: «La scuola è una forza nazionale; la nazione fa in questo momento convergere tutte le sue forze per la vittoria nella guerra in cui è impegnata. Gli scolari non possono andare alla guerra per ragioni di età e di sviluppo fisiologico. Devono però pensare alla guerra, a nient'altro che alla guerra, poiché a niente altro che alla guerra deve pensare tutta la nazione. Per ottenere ciò, io dunque non parlerò ai miei scolari altro che di guerra, farò sí che anche fuori della scuola essi non si occupino che di guerra: consiglierò loro pertanto di dedicarsi al tiro a segno, li condurrò attraverso l'Italia a calcare le polveri fatate dei palcoscenici, promuoverò tra di loro associazioni antidisfattiste, ecc. ecc. ».

Cosí deve ragionare il prof. Arnaldo Monti nel suo angusto cervello, se pure il suo cervello è capace di condurre un ragionamento anche elementare e riesce a trovare nessi di pensiero che non siano i punti esclamativi, gli evviva, i pim pum, indietro, avanti, e simili. Che il prof. Monti cosí ragioni può anche essere scusato. Assumendolo all'insegnamento non gli è stato richiesto una prova di logica, non si è preteso che egli dimostrasse di seguire criteri pedagogici un tantino superiori alle rimasticature dei manualetti della «Biblioteca per tutti» Sonzogno. Non è scusabile che il provveditore agli studi permetta al prof. Arnaldo Monti di tradurre in pratica i suoi ragionari. Il provveditore agli studi dovrebbe controllare se il prof. Armando Monti ottempera ai regolamenti scolastici, se il prof. Armando Monti è disciplinato all'impegno di svolgere opera di insegnante che ha assunto fin dal momento che ha riscosso la prima mesata di stipendio. Il prof. Arnaldo Monti riscuote lo stipendio per insegnare ai suoi scolari le materie dei programmi scolastici nei precisi limiti d'orario fissati dai regolamenti, non per insegnare tiro a segno, arte di recitazione, cento maniere di rompere i vetri e le tasche.

Primo canone di disciplina nazionale è che ogni cittadino adempia scrupolosamente gli impegni assunti verso lo Stato o l'azienda che lo stipendia. E che non si arroghi l'arbitrio di occupare il tempo, che ha impegnato per contratto, in altre attività, anche se queste sono da lui ritenute utili. Se ciò vuole fare, si sciolga dall'impegno assunto, e dia il suo tempo all'attività che crede. Ma non stabilisca arbitrariamente gerarchie d'importanza tra le varie attività, e trascuri la sua specifica per altre occasionali.

[Ventitrè righe censurate].

(9 giugno 1918).

GRANDEZZE

Avendo letto nel «Momento» come i due cinquantenari che i cattolici si accingono a celebrare (la consacrazione della chiesa, o meglio, del tempio di Maria Ausiliatrice, e la prima Messa, con M maiuscolo, di don Albera) facciano esultare tutto il mondo pur nelle piú lontane ed inospitabili terre, dove la immancabile luce della fede è da pochi anni arrivata, a suon di trombe e di timballi, a dissipare le non meno immancabili tenebre dell'idolatria; avendo letto inoltre sempre nel «Momento» come la «stessa violenza della guerra è vinta, poiché anche uomini di paesi fra loro nemici, oggi tendono con uguale pensiero di riconoscenza verso l'insigne tempio di Maria Ausiliatrice, si stringono con uguale affetto attorno alla mite, serafica, figura di don Albera»; avendo letto tutto ciò io mi sono trovato a riflettere sulla grandezza inaudita di avvenimenti ai quali la volgar gente non avrebbe dato alcuna attenzione, sulle vibrazioni mondiali di avvenimenti che finiscono, si riassumono e si esprimono anch'essi, come tanti altri, in un banchetto e in numerosi e bene innaffiati brindisi.

Ed ho continuato a riflettere; e il cinquantenario della prima Messa di don Albera mi è apparso in tutta la sua grandezza simbolica. E siccome nelle grandezze simboliche ricerco sempre le grandezze di «cosa» su cui poggiano, la mia mano, quasi inconsapevolmente, ha preso la matita, la matita, ubbidendo a riflessi inconsci della psiche, è corsa sulla carta, ed ha avuto in cifre la grandezza assoluta del cinquantenario della prima Messa.

Cinquanta anni: 18 262, computando i dodici anni bisestili: 18 262 messe, e quindi 18 262 ostie consacrate che il mite e serafico don Albera ha ieraticamente introdotte nella pura bocca perché fossero, attraverso il santissimo gorgozzule, trasportate nel purissimo stomaco.

Ed ho visto tutta la bianca distesa di queste 18 262 ostie, messe in fila, come le briciole della fiaba, per guidare il mite e serafico don Albera attraverso gli sterpeti della tentazione e il pauroso bosco del peccato: se ogni ostia ha il diametro di cinque centimetri, sono 913 metri e dieci centimetri di ostia consacrata che si allungano in sempiterna tenia. Ed ho visto le 18 262 ostie saldarsi insieme e formare un bianco mantello, e il mite e serafico don Albera ricoprirsi del bianco mantello per presentarsi al tribunale di Giosafat, e uno stuolo di splendidi cherubini sorreggere i lembi, poiché il bianco mantello misura trentacinque metri quadrati, nonché 893175 centimetri quadrati e rotti. E quindi, apoteosi finale, ho visto il mite e serafico don Albera ingrandirsi, ingrandirsi, e appoggiato a un bianco baculo procedere verso l'orizzonte, là dove pare che nella lontana nebulosità la terra si confonda col cielo e gli eletti debbano sconfinare senza che i doganieri diano l'allarme e i campanelli delle reti squillino. Era avvenuto che le 18 262 ostie si erano sovrapposte l'una all'altra, elevandosi in un obelisco alto sei metri e il mite e serafico don Albera aveva dell'obelisco fatto bordone al suo fatale andare laggiú, laggiú...

Cosí ebbi una misura concreta della grandezza di questo cinquantenario, compresi che il «Momento» non esagerava, e mi chinai, reverente, dinanzi al mite e serafico erede spirituale di don Bosco.

(10 giugno 1918).

CHE NE SARÀ DEL MULETTO?

Stamane, verso le dieci, nei pressi di Cascina Vica, cioè a pochi passi da Rivoli, un muletto, impauritosi del tram che sopraggiungeva, corse attraverso al binario e, incespicando, si abbatté a terra, cosicché la motrice, invano frenata a tutta forza, gli fu sopra, stroncandolo completamente.

All'improvviso sobbalzo che ne ricevette tutto il convoglio, si unirono le alte grida strazianti del fanciullo che custodiva... cosí bene il muletto, per cui una vera folla di passeggeri, sgomenti, atterriti, credendo che il travolto fosse il fanciullo, precipitò dalle vetture; qualche donna svenne, fu insomma un episodio di paura e di pietà.

Accertata la realtà del caso, cominciarono i ragionari dei passeggeri, reduci dal bagno emotivo; cominciò il quarto d'ora di storia del muletto, diventato vivo nella mente e nel cuore degli uomini! Le donne specialmente con un lungo sospiro di soddisfazione mormoravano un «meno male! si tratta soltanto di un muletto». Un soldato fiorentino, solidamente imboscato, faceva notare invece, come ne facesse un commosso funebre elogio, ch'i muletto poteva costare du boni fogli da mille! Oh dimmi la verità, fiorentino spirito bizzarro, sotto quel grigio-verde di imboscato eroico palpita un generoso cuore di negoziante di vaccine, cavalli e specie affini! non me lo negare.

Ed ora che sarà di te, povero muletto?

Non sei mai stato cosí vivo, come oggi che tu sei morto! non altrimenti avviene per gli uomini, credilo. Domani tu sarai portato a Torino: il mercatante dirà di te che eri giovane, bello e gagliardo, che sei stato reciso da morte violenta, come un fiore, che tu non eri una rozza esausta, una bestia avvizzita, consunta dai malanni, come si suole portare al macello.

Con quale eloquenza diranno le tue lodi i mercatanti, o povero muletto! La tua giovinezza e floridezza sarà esaltata.

E una nobiltà nuova ti attende sicuramente: tu entrerai, fatto a brani, in uno spaccio di carne equina; ma che mulo? cavallo, il nobile cavallo sarai, altro che mulo; e sarai ricercato, pagato stupidamente bene, masticato anche da aristocratiche, ignoranti mascelle; guarda un po' quanto onore ti attende!

E, ahimè, anche vitello tu diventerai! e dico ahimè, perché, uso purtroppo agli intrugli del trattore, forse sarò una tua vittima anch'io.

Ecco tu entrerai sotto forma di una bella portata di vitello, stufatino, in guazzetto, con certi intingoli da far gola all'Artusi e a Stecchetti. Cameriere! ma questa carne è coriacea, è tigliosa, è immasticabile! Ma che? È vitello sano, giovanissimo, e che vuole? tempi grami questi e poi c'è ancora il caldo, non si può tenere la carne sotto pelle, per la necessaria frollatura, ci vuole un po' di tolleranza, d'altronde, tenuto calcolo di questo difettuccio, noi non le facciamo pagare la porzione di vitello che miserabili dieci lire.

Povero muletto, la morte ti ha conferito due gradi di dignità: di vitello e di cavallo, il nobile amico dell'uomo; i mercatanti si contendono la tua spoglia, i consumatori ti pagano imperialmente: non rammaricarti di essere morto.

(11 giugno 1918).

LA PASSIVITÀ

L'assenza del pensiero caratterizza l'azione politica della classe dirigente. Provando e riprovando, è il motto d'ordine, distolto dalla sua sede naturale — la scienza sperimentale, che prova e riprova sulla materia bruta — e trasportato alla politica e all'amministrazione, le quali operano sugli uomini, che nelle prove e riprove soffrono, sono danneggiati, sono taglieggiati in tutti i modi.

Avviene cosí che la molla dello sviluppo storico non sia il pensiero, ma sia il dolore, il male. Il pensiero, antivedendo le logiche conseguenze di una premessa, delibera di operare subito come se quelle conseguenze si fossero verificate, e pertanto evita il male e la sofferenza: la storia si sviluppa allora con una certa armonia, le correzioni da introdurre all'organizzazione degli istituti necessari per la convivenza sociale si riducono al minimo, a quel minimo di imprevedibile che è contenuto nello svolgimento di ogni fatto umano. L'assenza di pensiero, l'empirismo che procede a tastoni per il provando e riprovando, lascia che il male si accumuli, che le sofferenze si moltiplichino: quando la vita ne è diventata insopportabile, provvede e toglie di mezzo la premessa, che di tutto quel male, di tutte quelle sofferenze è stata la sorgente avvelenata. La storia procede cosí per eliminazioni di passività: è un perenne fallimento, una perenne revisione di conti sbagliati, fallimento e sbagli non necessari, ma dovuti al solo fatto che gli amministratori non avevano alcuna capacità per il delicato loro compito.

Riconosciamo dunque nel male il salvatore della fortuna progressiva degli uomini, la sicurezza che alfine qualcosa si farà; la tigna, il colera, il vaiolo hanno costretto, con le stragi d'altri tempi, all'esercizio metodico di norme igieniche che ponessero al riparo dal ripetersi delle stragi. I mali che oggi si verificano costringeranno alla riflessione e ai ripari per l'avvenire. Aspettiamo che la passività cavi gli occhi, che rappresenti un pericolo: la pazienza è ormai diventata la prima virtú cardinale dell'uomo politico e sociale.

Una, due, tre, dieci, venti volte. Dei malandrini si presentano di notte a una portineria. Fanno destare i dormienti. Si dichiarano agenti di polizia agli ordini di un delegato; devono compiere una perquisizione negli appartamenti per assicurarsi che nella casa non siano nascosti dei ricercati speciali, ecc. ecc. Parlano con quella sicurezza e prepotenza che si addice ai rappresentanti della legge che sanno di essere superiori a ogni legge. Alla minima obiezione distribuiscono largamente cazzotti, preludio delle scene selvagge che si svolgono ai commissariati. Il cittadino, abbandonato da ogni forza umana, conoscendo, o per dolorosa esperienza propria o per esperienza raccontata, i costumi della «giustizia», lascia l'ingresso libero, e per una, due, tre, dieci, venti volte gli appartamenti vengono saccheggiati da malandrini.

Che fare? si domanda il cittadino. Aspettare, non c'è altro che aspettare. Che le gesta si moltiplichino, che i malandrini acquistino sempre una maggiore fiducia nell'impunità, ed allarghino il campo della loro azione. Che divenga loro vittima un qualche grasso cittadino, che la grassa proprietà sia in pericolo. Allora l'opinione pubblica sarà satura. Allora si dirà: ma perché non si cerca di dar modo ai cittadini di distinguere subito un malandrino da un agente di polizia? Perché non si dà una divisa a tutti gli agenti di polizia? Perché non si toglie via l'agente in borghese che determina questi equivoci e provoca queste possibilità di malfare?

Lasciate che la passività diventi cumulo, che essa metta in pericolo di fallimento presso i benpensanti e gli indifferenti l'azienda dell'«ordine». Provando e riprovando, si arriverà a provvedere.

Lo sviluppo della storia è tutto cosí, nelle piccole come nelle grandi cose.

(16 giugno 1918).

LA NORMA DELL'AZIONE

Il prof. Achille Loria ha tenuto una conferenza sulla «situazione economica del dopoguerra». La conferenza è stata ammirata da un pubblico composto di docenti, di allievi, di signore, dell'alta magistratura quasi al completo; cosí riferiscono i cronisti che hanno assistito all'avvenimento. Crediamo: un tal pubblico non può che ammirare un tale conferenziere. Crediamo: perché non avendo assistito all'evento, ci siamo pasciuti dell'epitome compilata dall'autore stesso per la «Gazzetta di Torino». Crediamo: poiché fin dall'inizio ci ha riempito l'occhio della mente questa solare sentenza: «Come nell'imperversare delle procelle un guizzo illumina il paesaggio, cosí è nei periodi piú turbinosi della storia che rifulge piú nitida la norma dell'azione». Posando su una tale granitica base, la conseguente dimostrazione non può che aver suscitato ammirazione. Una norma d'azione che guizza qual baleno in una procella, predispone gli animi alla serenità e all'arrendevolezza, tocca i cuori e li infiamma, illumina i cervelli e ne mette in rilievo il paesaggio freniatrico.

Ci siamo esposti al guizzo del baleno per farci illuminare in quella parte del paesaggio dove i paletti recano l'inscrizione: — Disarmo — Federazione dei popoli — Arbitrato. La norma dell'azione ha premesso: cause di guerra esisteranno sempre e si dovrà pensare a prevenirle. Ma come dunque? Norma, segna l'azione! Lega delle Nazioni, no: «avrebbe la conseguenza inevitabile di assoggettare le direttive politiche di una nazione federata alla volontà di un'altra piú forte». Disarmo militare? Ohibò! Arbitrato? Ahimè, come dunque? Semplicemente questo: disarmo politico, disarmo morale, cioè spogliarsi delle aspirazioni di sopraffazione e di conquista. È chiaro? La norma non vi par buona? Notate qualche incongruenza? Già, forse la piccola incongruenza di domandare il disarmo politico e del non accettare la Lega delle Nazioni perché «assoggetterebbe le direttive politiche ecc.». Ma con un piccolo sforzo vedrete che si riuscirà; infatti è piú facile disarmarsi moralmente che materialmente, il disarmo delle volontà è piú facile dello smantellamento delle fortezze. Tutto sta nell'intendersi!

E poi il prof. Loria domanda l'instaurazione della «vera democrazia». Instaurata questa, disarmati moralmente e politicamente, vedrete che roseo avvenire si prospetterà ai nostri trepidi occhi.

(25 giugno 1918).

ELEGIA PER IL COLOR ROSSO

E c'era anche una bandiera rossa; fra le tante bandiere c'era anche una bandiera rossa. Certamente il colore era rosso, obiettivamente doveva essere rosso. Era una bandiera fra molte, troppe bandiere, e in esse anche doveva obiettivamente esistere il color rosso. Successe ciò che succede tra i colori. I colori simpatizzano tra loro e si uniscono tra loro in tenere confusioni, in dolcissime sfumature. Cosí accadde per quella bandiera; tutti gli altri colori simpatizzavano con lei, essa era immersa fra tante bandiere, fra tanti colori, e si confondeva, si lasciava assorbire.

Eppure quella bandiera era obiettivamente di color rosso. L'osservatore imparziale, riunendo nel pensiero astratto le sovrapposizioni sintetiche del quadro generale doveva convenirne: quella bandiera è rossa.

Non è il solito rosso delle bandiere rosse. Le solite, vecchie, convenzionali bandiere rosse tagliano netta la pupilla, si figgono nella pupilla; esse sono come una piaga appena squarciata che brilla; esse ricordano veramente una piaga che non si rimargina, perché mani proterve staccano i lembi e nuovo sangue fanno zampillare.

Quella bandiera non era una piaga; stava alla piaga come la macchia di pomodoro che i comici, morendo di morte violenta nei palcoscenici di provincia, si applicano sulle tempie strizzando nel pugno chiuso l'economica solanacea. Non era una piaga: forse che i piagati, i feriti vanno sotto l'aspersorio di un cardinale a farsi irrorare d'acqua santa? Ebbene, quella bandiera, obiettivamente rossa, andò sotto il santissimo sacramento e fu consacrata dall'aspersorio di un cardinale.

Non bruciò la ferita, non sentí la carne viva il morso salso dell'acqua santa; non c'era ferita, non c'era carne viva, il rosso era obiettivamente rosso come il sugo di pomodoro.

E la bandiera continuò a bighellonare tra le molte, le troppe altre bandiere. Iniziata, la carriera degli onori è facile e vellutata. Andò ad inchinarsi dinanzi al prefetto; la ferita non senti slargarsi i lembi sanguinolenti dalle mani proterve, non zampillò piú vermiglio il sangue. Anzi le molte, le troppe bandiere si unirono piú strettamente e la innata simpatia strinse il nodo della gamma dei tanti colori. La bandiera fu assorbita, il poco rosso obiettivo si confuse ancor piú nella girandola; un papavero in una cesta di barbabietole e insalata.

Povero colore del sangue vivo, povero colore delle bandiere solite a rimaner sole, povero colore che nelle moltitudini sembri una ferita recente. In quella moltitudine, tra le molte, le troppe altre bandiere, scomparivi, scialba, assorbita nella gamma della girandola, slavata dall'acqua dell'aspersorio di un cardinale; ma hai iniziato la carriera, farai fortuna, poiché ti accontenterai del tuo scomparire, poiché non domandi che di dissolverti, proprio come il sugo del pomodoro, saporito condimento per gli stomaci robusti, che hanno molto, troppo appetito.

(26 giugno 1918).

S. PIETRO O LA BOHÈME?

Scrive il «Momento»:

Nell'Ospedale della Croce Rossa Westen-Eden a S. Remo è ricoverato il soldato mitragliere Franco Galeoni rimasto muto in seguito allo scoppio di una granata al fronte.

Ieri l'altro, in occasione della ricorrenza di S. Pietro il soldato Galeoni, che è maestro di musica, veniva pregato dall'aiutante maggiore Dante Vitone di suonare il terzo atto della Bohéme. Il Galeoni assentí e mentre le note in cui vibrava l'anima del povero soldato fluivano rapide sotto le agili dita, fu visto arrestarsi di colpo, alzarsi in piedi, gridando con viva emozione:

— Ma io parlo adesso!

«Tempi tristi!» deve aver pensato il redattore del foglio clericale mentre confezionava il pezzo e lo mandava in tipografia. Una volta un fatto simile sarebbe diventato un famoso miracolo, e chi sa quali benefizi sarebbero piovuti addosso alla santa chiesa ed ai suoi ministri! Nel nostro secolo invece un muto riacquista la favella, semplicemente, senza aforismi, senza neppure un triduo, suonando la Bohème. Se almeno avesse suonato il Te Deum, un qualche appiglio per celebrare l'intervento divino vi sarebbe stato, ed allora la notizia avrebbe ben potuto essere lavorata con qualche opportuno ed edificante accenno alla infinita misericordia del padre eterno, che, dopo aver permessa la disgrazia nella sua imperscrutabile sapienza, concedeva la grazia. Il miracolo sarebbe cosí stato fabbricato, e forse un nuovo quadro si poteva aggiungere alla serie degli ex voto che ornano le pareti dei corridoi e delle chiese, a testimonianza della gratitudine verso qualche pressante intercessore celeste di chi poteva sfracellarsi il cranio, ed ha avuto la grazia di rompersi solo un paio di gambe, o di chi ha scampato da una malattia seguendo scrupolosamente le prescrizioni del medico, che della guarigione non ha però merito, mentre sarebbe certo stato una bestia se l'ammalato fosse morto. Ma il redattore, che sa il suo mestiere, ha introdotto nell'articoletto una frase discreta ed insinuante, che dà qualche modo ai cristiani lettori di pensare che un intervento soprannaturale non è del tutto da escludere. «In occasione della ricorrenza di S. Pietro...» Perché l'altro ieri non era il 29 giugno, era la festa di S. Pietro. E come si può escludere che S. Pietro abbia proprio voluto scegliere il giorno del suo onomastico per manifestarsi?

È proprio cosí invece; il miracolo è avvenuto il giorno di S. Pietro, che è un gran santo... dunque?! La Bohème, la musica, il tumulto dei ricordi che essa suscitò, la scossa nervosa prodotta dall'onda dei suoni o dalle rimembranze, non sono che le misere spiegazioni che la positiva scienza umana può dare del fenomeno, non sono che i mezzi di cui s'è servito l'onnipossente per acconsentire al suo portinaio di farsi ricordare dagli uomini, che lo hanno degradato da santo di prima classe, che non accordano piú alla sua festa lo statale e civile riconoscimento. «La ricorrenza di S. Pietro...»: ecco la spiegazione vera... e se voi, increduli e scettici uomini del secolo XX, imbarbariti dal positivismo, dal materialismo, non la accogliete, è perché Satana ha ottenebrate le vostre menti, chiusi i vostri occhi allo splendore della verità cristiana, che ha bisogno di molta fede per essere accettata e compresa...

Restituire la favella ai muti era una volta solo dato ai profeti e agli dèi. E Cristo fu riconosciuto Dio per avere compiuto un tale miracolo. Oggi basta Puccini... e non c'è nessuno che lo proclami dio, e gli bruci almeno un grano d'incenso sotto il naso. Ah, i tempi sono proprio malamente, malamente assai!

(5 luglio 1918).

VITA NUOVA!

Gli uomini sono cambiati (tutti i giornali bene informati lo affermano); il passato è superato e il piú umile pizzicarolo, pur senza averne esatta coscienza, brucia l'insincerità, la pigrizia, la rozzezza spirituale del passato alla fiamma di una universale palingenesi. Un nuovo ordine si inizia, un nuovo ciclo di secoli, nel quale la storia seguirà il ritmo della consapevolezza.

Cosí, è vero — secondo Rudyard Kipling — le scimmie Bandar Log della giungla cantano ogni minuto di ogni ora, di ogni settimana, di ogni mese, di ogni anno. Cantano e non fanno, parlano e il verbo non diventa mai carne (le scimmie sono erbivore e gli alti prezzi non stimolano in loro le iniziative individuali). La democrazia italiana non è invece tribú di scimmie: alle parole fa seguire i fatti, educa le velleità e le fa diventare volontà consapevoli dei mezzi e dei fini.

Il giorno dell'America ne ha dato una prova. Il giorno dell'America è stato un momento di vita democratica: il «popolo» italiano vagamente sentiva il bisogno di entrare in comunione spirituale col «popolo» degli Stati Uniti. Abbandonato a se stesso questo bisogno vago e indistinto si sarebbe esaurito tutto in vane esteriorità, in manifestazioni di spolvero: cortei, fiaccolate, grida di abbasso ed evviva; non si sarebbe la commemorazione in nulla distinta da una sagra cattolica.

Ma il «popolo» italiano ha la rara fortuna di possedere nel suo seno la democrazia, cioè l'organizzazione politica che trasforma il pensiero in volontà, in consapevolezza le indistinte tendenze dell'«anima» popolare. Cosí fu che il giorno degli Stati Uniti non si esaurí in fiaccolate, cortei, grida di evviva e abbasso; cosí fu che gli anglosassoni circolanti fra la folla poterono affermare: Rudyard Kipling dovrebbe fare un autodafé dei suoi libri della giungla, poiché i latini non sono piú come i Bandar Log, che cantano e non fanno, che dicono di essere i piú saggi, i piú geniali, i piú chiaroveggenti, ma rimandano sempre a domani la traduzione in pratica degli inni e dei discorsi.

Il partito democratico, anzi i partiti democratici vollero che il giorno dell'America rappresentasse un momento di vita democratica. Nei teatri (rappresentazione diurna e serale) furono messi in iscena lavori drammatici di autori americani; un oratore ricordò quale contributo gli americani abbiano dato al teatro, che non è piccola ed inutile attività dello spirito umano. Nelle sale da cinematografo furono tenute conferenze per iniziativa dell'Università popolare, organo di cultura della democrazia: vari oratori ricordarono al pubblico, o gli fecero conoscere per la prima volta, come si sia svolta la storia degli Stati Uniti, come negli Stati Uniti si sia costituito lo Stato, quale arte, filosofia, scienza abbiano prodotto i cittadini americani.

Non fu davvero una giornata perduta. Il popolo italiano apprese a conoscere meglio un altro popolo: furono suscitate simpatie solide, condizione necessaria per la pacifica convivenza internazionale, garanzia preziosa che se domani un gruppetto di scalmanati (tutto è possibile!) predicasse la necessità della guerra agli Stati Uniti, spontaneamente il popolo rigetti le invenzioni interessate e abbia gli elementi per giudicare le manovre interessate.

La democrazia ha svolto opera nobilissima, altamente encomiabile. Ha svolto? Ohibò, ha svolto o svolgerà; il futuro è uguale al presente: se non lo ha fatto quest'anno lo farà l'anno venturo o in un altr'anno. Si farà, si farà... noi siamo i piú saggi, i piú geniali, i piú chiaroveggenti uomini della terra, vedrete cosa saremo capaci di fare... domani, perché la vita nuova incomincerà domani, come per i Bandar Log della giungla di Rudyard Kipling.

(8 luglio 1918).

IL DISORDINE

Ha scritto Villiers de l'Isle-Adam: «Se uno ti ingiuria rifletti che egli ingiuria l'idea che si è fatta di te, cioè se stesso».

I lettori di giornali dovrebbero sempre tener presente questa massima e applicarla a tutti i giudizi coi quali si cerca di condurre il loro pensiero verso un determinato indirizzo.

Essi leggono: i giapponesi sono sbarcati a Vladivostock, poi leggono la smentita, poi rileggono nuovamente la notizia, e una nuova smentita. Leggono che lo czar è stato assassinato: smentita; è stato assassinato non solo Nicola, ma anche Olga e Tatiana: smentita; si tratta solo di un tentativo d'assassinio, non si tratta neppure di un tentativo. Il granduca Michele è stato proclamato czar e marcia su Mosca; il granduca Michele non marcia affatto su Mosca, ma invece marciano solo i czeco-slovacchi; i czeco-slovacchi sono distanti seimila chilometri da Mosca, hanno solo percorso cinque chilometri verso Occidente per inseguire un maialetto e arrostirlo; il generale Alexeief, l'ammiraglio Kolciak, il generale Semenof marciano, marciano, marciano; i suddetti generali e ammiragli si sono fermati essendosi accorti di essere seguiti da due soldati e un tamburino; i samoiedi, gli iperborei e gli esquimesi hanno dichiarato di non saper cosa farsi dei Soviet e vogliono che l'Intesa li aiuti; i suddetti popoli, avendo fallito la caccia alle foche, domandano solo un po' di grasso di marmotta per ungersi i calzoni.

Giudizi dei giornali: «Il caos regna in Russia, mai fu visto un tale disordine».

Giudizio del lettore: «Che tempi, che costumi, che paese è la Russia, che uomini. Tutti marciano e nessuno marcia. Tutti sbarcano e nessuno sbarca. Tutti vogliono e nessuno sbarca. Il mio cervello non ci si raccapezza».

Ecco ciò che si voleva ottenere: il cervello non si raccapezza: il cervello è in disordine. E dice Villiers de l'Isle-Adam: chi ti offende, offende l'idea che si è fatto di te, cioè offende se stesso.

Il disordine è nel cervello, la confusione è nel cervello, nelle idee, nella farragine delle notizie: giudicando la Russia, giornalisti e lettori giudicano se stessi; ingiuriando la Russia e Lenin, ingiuriano se stessi.

Eppure che fare? Come difendersi da tante insidie, dove trovare la verità? In se stessi, nella forza morale della propria coscienza. Aggrappandosi disperatamente a quelle due o tre nozioni fondamentali che nessuna critica, che nessuna obiezione può corrodere e smantellare: 1) È assolutamente impossibile che il male trionfi a lungo e oltre un piccolo spazio di terreno. Se Lenin e i Soviet fossero il disordine, la confusione permanente, poiché il loro potere è basato su poche centinaia di armati, esso sarebbe stato distrutto quindici giorni dopo la sua instaurazione. Se vive, significa che dipende da una necessità, che si basa sulla libera elezione della maggioranza. 2) L'ordine e il disordine non sono concetti assoluti, ma relativi agli schemi sociali dei giudicanti. Per un borghese, il dominio del proletariato è confusione e disordine perché egli ne è escluso: può essere ordine se esso non corrisponde al suo ideale? È naturale che sia cosí, è logico che sia cosí, altrimenti il borghese non sarebbe borghese. 3) Nel passato è avvenuto lo stesso dilagare di notizie tendenziose contro i rivoluzionari. Gli uomini della Rivoluzione francese furono accusati persino di scorticare i cadaveri per conciare la pelle umana e fabbricare calzature. Quale disordine non esisteva a Parigi e nella Francia per il fatto che i privilegi feudali e ecclesiastici erano stati aboliti? E infatti non esisteva piú l'ordine feudale. Ma la Francia che veniva dipinta come sull'orlo dell'abisso, come estenuata dalla fame e dalla piú tetra disperazione, la Francia lasciata dai Capeti piena di debiti, per venticinque anni sostenne le spese di guerra della repubblica e di Bonaparte; come mai un paese in rovina, un paese affamato produsse subito tante ricchezze da pagare tante spese? Perché le notizie erano false, perché un fatto particolare, d'importanza aneddotica veniva ampliato: un francese si ubriacava? Era tutta la Francia ubriaca. Un pazzo faceva una proposta folle? Tutta la Francia era preda della follia devastatrice.

Cosí è per la Russia. Aggrappiamoci a queste massime. Boicottiamo i giornali che vogliono creare la confusione nei cervelli per far credere alla confusione nei fatti, che ci imprigionano nella bugia e nell'oscurità, per farci credere che il sole non illumini piú un paese abitato da cento milioni d'abitanti.

(17 luglio 1918).

PRETE PERO

L'on. Nitti promuove l'accordo fra le banche, la ditta Ansaldo porta a cinquecento milioni il suo capitale, un decreto luogotenenziale nomina una commissione di seicento esperti (!) per lo studio del dopoguerra... e vengono proibite le rappresentazioni della commedia Prete Pero di Dario Niccodemi. Guglielmo Ferrero può essere contento: il governo si è messo sulla buona strada: incomincia il regno della qualità che deve sostituire il regno dell'aborrita quantità. Lo Stato (!) assume la tutela dei cittadini, dell'attività dei cittadini, della ricchezza dei cittadini, del godimento estetico dei cittadini.

Le banche faranno credito solo agli aristocratici della produzione nazionale. Vedrete che qualità, che begli oggetti, che belle macchine, che belle rotaie, che bel commercio; i consumatori poveri forse preferirebbero avere merce a buon mercato e in abbondanza. Impossibile, miei cari: siamo tutti diventati aristocratici, dobbiamo tutti avere la casa ricca di bellezze. Non potete comprare? E chi vi dice che voi dobbiate comprare? E chi dice che voi dobbiate vivere? Il ministro Nitti è un democratico, miei cari: egli vuole poco, ma buono e bello, sebbene vent'anni fa volesse il contrario e si preoccupasse delle poche disponibilità dei cittadini italiani. Ma vent'anni fa egli era all'opposizione e non sperava ancora di diventare candidato alla presidenza del Consiglio.

Che bellezza avere in Italia un'azienda con cinquecento milioni di capitale! Non vi sentite accresciuti nell'estimazione universale? Forse avete qualche preoccupazione; pensate certo: cinquecento milioni devono poter fruttare un dividendo. E se la ditta Ansaldo produce oggetti che nessuno può comprare perché troppo cari, donde saranno tratti questi dividendi? Siete preoccupati: sapete che gli industriali dell'Ansaldo non sono degli scimuniti, per arrischiare tanti capitali devono avere una qualche garanzia. E chi in Italia può garantire i dividendi di cinquecento milioni? Lo Stato (!) voi pensate. Lo Stato, cioè il governo, cioè un uomo che viene e va, il quale impegna il portafogli e il lavoro dei cittadini perché l'Italia abbia una bellissima azienda con cinquecento milioni di capitale. E i cittadini, il «popolo sovrano» non ne sa niente. Ma il popolo sovrano è la quantità, e Guglielmo Ferrero, il santone della Democrazia, sostiene che la quantità deve essere sostituita dalla qualità; la qualità è aristocratica, o mio povero popolo sovrano, e l'aristocrazia che dovrebbe voler dire governo dei migliori, vuol dire solo governo dei pochi, dei Perrone, per esempio, e dei loro cinquecento milioni di capitale.

O popolo sovrano, allietati ancora, perché la commissione dei seicento dipende anch'essa dal concetto di qualità. Tu avresti creduto che un programma come quello enunciato nel decreto luogotenenziale avrebbe dovuto essere discusso in parlamento, anzi avrebbe dovuto essere discusso nei comizi elettorali. La tua sovranità si sarebbe esercitata nell'indicazione dell'indirizzo politico da seguire: statizzazione, monopoli, o libertà? Invece non ti interrogano. Gli esperti, i seicento esperti, si sostituiscono a te: tu sei la quantità, essi sono la qualità. Bisogna striderci: bisogna rinunziare alla propria sovranità, e ritornare sotto tutela.

Ma si tratta di un ritorno allo Stato dispotico! Ma si tratta di una usurpazione che il potere esecutivo fa delle competenze del potere legislativo popolare!

Ritorno, usurpazione? Ma per ritornare bisogna essere avanzati, ma perché ci sia usurpazione ci deve essere stato un esercizio di potere! O popolo sovrano, sei sempre stato minchionato; ma la colpa è tua. Quando mai hai controllato i tuoi rappresentanti? Ti sei sempre interessato piú agli insulti che alla laboriosità parlamentare effettiva. Ora raccogli i frutti della tua indifferenza, del tuo menefreghismo. La commissione dei seicento? Ohibò, una bega tra socialisti intransigenti e socialisti riformisti, e gli intransigenti si sa cosa siano! Serrati è accusato di tradimento... Già, ma la bega coinvolge il tuo potere sovrano, la tutela dei tuoi diritti.

Si comincia dalle banche, si finisce sul palcoscenico: si comincia con le commissioni, dove si finirà? I marxisti del gruppo parlamentare non sosterranno piú che la politica segue l'economia, vogliamo almeno sperare...

(19 luglio 1918).

DISAGIO

Per Torino e per l'Italia si va comunicando e diffondendo una impressione di disagio. Lo nota la «Gazzetta dei tribunali», e l'osservazione ci pare abbia una grande importanza per la storia nazionale: un paese di trentacinque milioni di abitanti «a disagio» non può essere un paese felice, non può essere un paese contento, non può neppure essere un paese appena appena soddisfatto: è necessario che gli uomini politici rivolgano la loro attenzione a questo stato d'animo morboso e provvedano.

La Lega d'azione (!) antitedesca ha già condensato in un ordine del giorno l'impressione di questo disagio che si comunica e si diffonde dall'Alpi al Lilibeo, e la Lega che è d'azione domanda azione: censura per i resoconti giornalistici del processo per i fatti d'agosto, censura in tribunale per gli imputati, per i testimoni di difesa, per gli avvocati; censura per le sedute d'udienza, che dovrebbero essere tenute a porte chiuse; censura per i censori che non sanno censurare.

La Lega d'azione (!) antitedesca ha ragione. Essa continua la sua azione, essa sviluppa la logica della sua azione e del pensiero (!) che anima lo spirito degli uomini che ne fanno parte.

Il pensiero è questo: «La parola è l'azione. La parola è tutto. Il mondo è una parola. L'Italia è una parola. La guerra è una parola. I cittadini sono parole. La resistenza è una parola. La disfatta è una parola».

Il sole camminava. Giosuè disse: Fermati, o Sole! e il sole si fermò, in virtú di quell'alta parola. Piú tardi qualcuno pose in dubbio la «fermezza» del sole, e il sole divenne capriccioso. Ma Galileo sostenne: Eppur si muove! e la partita fu vinta definitivamente. La parola è tutto: ferma e fa muovere il sole.

Questa concezione lessicografica del mondo e della storia ha un grande fascino e una imponente dignità. Il materialismo storico la spiega: ognuno ha la concezione del mondo corrispondente al sistema di vita pratica che segue. La Lega d'azione (!) antitedesca è guidata dal prof. Vittorio Cian. Il prof. Vittorio Cian è un uccellatore di parole: la parola è tutto. I libri valgono battaglie, i discorsi sono mitragliatrici. Gli antitedeschi, i patrioti parlando sgominano le orde teutoniche e magiare: essi ne sono persuasi e parlano il piú che possono per sgominare il piú che possono. Ma purtroppo non essi soli parlano: ecco la disgrazia dell'Italia. Altri parlano e non per dire le stesse cose. Si può comprendere ciò che succede: la maggioranza delle parole antitedesche viene pugnalata alle spalle da queste altre parole, e l'eroico manipolo che sopravvive non può far gran cosa.

Oh, fosse rimasta la parola al solo prof. Cian! Quante disgrazie in meno, quante vittorie in piú!

Certo i fatti di Torino non sarebbero successi. Infatti: sono i fatti di Torino avvenuti perché mancò il pane? Che ingenui! Sono avvenuti perché qualcuno ha detto: manca il pane. La fame... esiste la fame? chi ha mai visto la fame? ma esiste la parola: fame. Ecco, perché mai hanno inventato questa parola? La fame esiste perché esiste la parola. Se avessero dato lo stesso nome alla fame e alla sazietà, alla carestia e alla abbondanza, tutti, avendo fame, avrebbero avuto la persuasione di essere sazi e vedendo vuoti gli scaffali dei panettieri avrebbero detto: quale mai abbondanza di pane!

Voi comprendete quanto suggestiva e ricca di risultati energetici sia questa concezione del prof. Cian e degli antitedeschi. E comprendete come sia evidente la criminalità degli imputati al tribunale di guerra. E comprendete ancora quanto sia giustificata la apprensione per il disagio che si va comunicando e diffondendo a Torino e in tutta Italia.

Il processo è stato male impostato. Si sarebbe dovuto investire dei poteri da tribunale di guerra il consiglio direttivo della Lega antitedesca. Il prof. Vittorio Cian avrebbe funzionato da presidente. Domandati i nomi e cognomi degli imputati tanto per non fare sbagli nel cancellarli dallo stato civile, il prof. Vittorio Cian avrebbe fatto una sola domanda: «Avete detto che nei giorni precedenti ai moti mancava il pane?» Gli imputati avrebbero risposto di sí. Il prof. Vittorio Cian avrebbe subito fatta la requisitoria: «Poiché non la mancanza del pane è deleteria, ma l'accorgersi di questa mancanza, e andar diffondendo la notizia facendo sí che anche gli altri se ne accorgano, e fatti accorti sentano fame, e sentendo arbitrariamente fame si agitino, gli imputati sono rei confessi. Chi approva e condanna alla fucilazione nella schiena alzi la man ». Tutti i presenti avrebbero alzato la mano e l'affare sarebbe stato finito.

Invece... si permette di discutere; si permette di parlare; si permette di accusare. Si permette che il dubbio entri nell'animo dei lettori dei giornali. Si permette che il disagio si diffonda e si comunichi. Le madri balzeran nel sonno esterrefatte e tenderanno nude le braccia sul loro caro lattante onde nol desti il ronzio delle parole disfattiste.

Poiché la parola è tutto, poiché la resistenza è una parola, e la guerra si fa con le parole, e i discorsi sono mitragliatrici, e i libri sono battaglie, non si permetta ai criminali socialisti di puntare le mitragliatrici alle spalle dei patrioti. Come l'Italia potrà dunque vincere la guerra se non il solo prof. Cian parlerà, ma anche Serrati e Barberis?

Largo alla lessicografia, alla lessicomachia: la scienza italiana che abolirà il disagio chiamandolo volontà indomita, che vincerà i tedeschi, dimostrando come per la logica delle idee, per la tradizione delle parole, per la virtú delle frasi, essi siano condannati alla sconfitta fin da quando il padre eterno emise il suo Fiat creatore.

(21 luglio 1918).

L'IDEA LIBERALE

Nella sede sociale ha avuto luogo l'assemblea generale ordinaria dell'Unione liberale monarchica. Aperta la seduta il presidente senatore Ferrero di Cambiano iniziò la sua relazione rivolgendo un pensiero ed un caldo saluto all'esercito: il pensiero è stato indubbiamente liberale ed il saluto oltre che caldo (31 gradi all'ombra) [...2].

Il presidente, senatore marchese di Cambiano, continuò nella sua relazione: ricordò l'azione liberalmente fervida e monarchicamente operosa data a favore delle figlie dei soldati (l'anno venturo l'azione sarà data a favore dei figli: un sesso per anno); citò in particolar modo la Colonia Umberto I ed il Comitato di assistenza, consulenza ed informazioni costituito allo scopo di render servizi alle famiglie dei soldati. Il presidente non volle citare alcuna cifra per non fare arrossire la modestia dei soci; le cifre non hanno niente in comune con l'idea, e specialmente con l'idea liberale.

Il presidente ricordò i nomi dei soci caduti in guerra: due operai, un generale, un conte, un assessore e un impiegato: sei. È vero che l'Unione ha piú di diecimila soci, ma anche sei sono molti; eppoi si badi alla qualità, non alla quantità: per qualità un generale e un conte valgono per lo meno diecimila per uno; l'Unione può andare fiera del contributo di sangue che i suoi soci hanno dato alla quarta guerra dell'indipendenza italiana.

Prima di chiudere la relazione, il presidente citò una delle piú importanti manifestazioni dell'Unione: la costituzione della Cooperativa Savoia. Il nome è specialmente importante e rientra nel programma. A dire il vero, infatti, molti erano persuasi che la cooperazione non rientrasse perfettamente nell'idea liberale; ma poiché l'Unione è anche monarchica e i Savoia regnano felicemente, il nome Savoia fa rientrare nel programma dell'Unione anche la cooperazione.

Cosí il presidente senatore Ferrero di Cambiano pose termine alla sua relazione. I lettori forse si domanderanno: ma quale azione politica svolse l'Unione, che pure deve essere, a quanto si dice, un'associazione politica? I lettori hanno apparentemente ragione: certo l'Unione è un aggruppamento politico, è la depositaria dell'idea liberale, e specialmente in questi tempi di discussione sul dopoguerra, sulle tariffe doganali, sulla commissione dei seicento, l'idea liberale dovrebbe essere divulgata e servire a orizzontare l'opinione pubblica delle classi dirigenti. Ma l'Unione non poteva pronunziarsi: infatti erano in esame alcune proposte modifiche statutarie tendenti a darle unità di azione politica. L'idea liberale era disunita in seno all'Unione: nella seduta lo statuto nuovo di unità è stato approvato. L'anno venturo il presidente riferirà sulle altre iniziative, sulle altre cooperative, sugli altri morti, poi informerà se l'unità avrà dato buoni risultati; in caso contrario altre modifiche saranno proposte. Perché l'Unione liberale monarchica è un'associazione politica, ha lo scopo di educare i cittadini borghesi a ragionare e operare secondo l'idea liberale, ha lo scopo di controllare le pubbliche amministrazioni affinché l'idea liberale fecondi le attività nazionali e comunali.

(23 luglio 1918).

IL REGIME DEI PASCIÀ

L'Italia è il paese dove si è sempre verificato questo fenomeno curioso: gli uomini politici, arrivando al potere, hanno immediatamente rinnegato le idee e i programmi d'azione propugnati da semplici cittadini.

Quando l'on. Orlando proibisce il congresso del Partito socialista, egli continua questa tradizione gloriosa. Infatti l'on. Orlando è un santone del liberalismo, e nei libri, nelle definizioni contenute nei libri essere liberali significa: governare col metodo della libertà, essere persuasi che gli avvenimenti si verificano solo quando sono necessari ed è perfettamente inutile avversarli, che le idee e i programmi d'azione trionfano solo quando corrispondono a bisogni e sono lo svolgimento di premesse solidamente affermatesi, pertanto irriducibili e incoercibili, essere persuasi che il metodo della libertà è il solo utile perché evita conflitti morbosi nella compagine sociale. Ma l'on. Orlando diventa presidente del Consiglio e il suo liberalismo un errore di gioventú.

Cosí l'on. Nitti. Il finanziere F. S. Nitti è sempre stato un liberista: deputato d'opposizione ha pronunziato vigorosi discorsi di critica costruiti su idee larghissime di libertà economica, sulla teoria che lo Stato non deve mai immischiarsi nell'attività privata commerciale, non deve farsi distributore di ricchezze, non deve farsi promotore di consorzi e monopoli. Diventato ministro, l'on. Nitti propugna il cartello delle banche, fa da levatrice alla nascita di elefantiaci bambinelli industriali, che vivono solo in quanto abbondantemente sfamati dall'erario nazionale.

Cosí Giolitti, cosí Crispi, cosí tutta la tradizione gloriosa del nostro geniale paese.

Perché questo fenomeno? È solo esso dovuto alla mancanza di carattere e di energia morale dei singoli?

Anche a ciò, indubbiamente. Ma esiste anche un perché politico: i ministri non sono mandati e sorretti al potere da partiti responsabili delle deviazioni individuali di fronte agli elettori, alla nazione. In Italia non esistono partiti di governo organizzati nazionalmente, e ciò significa che in Italia non esiste una borghesia nazionale che abbia interessi uguali e diffusi: esistono consorterie, cricche, clientele locali che esplicano un'attività conservatrice non dell'interesse generale borghese (ché allora nascerebbero i partiti nazionali borghesi), ma di interessi particolari di clientele locali affaristiche. I ministri, se vogliono governare, o meglio se vogliono rimanere per un certo tempo al potere, bisogna s'adattino a queste condizioni: essi non sono responsabili dinanzi a un partito che voglia difendere il suo prestigio e quindi li controlli e li obblighi a dimettersi se deviano; non hanno responsabilità di sorta, rispondono del loro operato a forze occulte, insindacabili, che tengono poco al prestigio e tengono invece molto ai privilegi parassitari.

Il regime italiano non è parlamentare, ma, come è stato ben definito, regime dei pascià, con molte ipocrisie e molti discorsi democratici.

(28 luglio 1918).

IL MORBO SPAGNOLO

Febbre dei tre giorni, febbre da pappataci. Espressioni non popolari, che non hanno avuto fortuna. In Francia hanno trovato l'aggettivo appropriato: grippe (influenza) spagnola; e i giornali italiani hanno accettato l'aggettivo: «Si ha da Berlino che l'ambasciatore di Turchia, Hakki Pascià, è morto per la malattia spagnola».

I medici-giornalisti hanno dissertato: la malattia non è nuova negli annali della scienza e della esperienza umana. Ma i medici-giornalisti non hanno saputo dar ragione del perché il morbo sia diventato epidemico, e abbia, in breve tempo, infuriato in tutti i paesi europei. È sempre esistito, ma in quanto spazio di terreno, e in quante vittime? E perché, proprio in questi ultimi mesi, ha dilagato, intensificando la sua malignità, fino ad avere degli influssi sul processo degli avvenimenti storici, ritardando da una parte e facendo anticipare dall'altra offensive o controffensive?

Se la malattia è sempre esistita, sono cambiate le condizioni per la sua diffusione, sono cambiati gli uomini e la loro resistenza al male. La malattia è in dipendenza dalla guerra; perciò ha avuto fortuna l'aggettivo... spagnola.

L'aggettivo è un amuleto, è un esorcismo. L'aggettivo «neutrale» allontana dalla fantasia ogni preoccupazione paurosa, ogni dubbio disfattista.

Il morbo non fa vittime (Hakki Pascià ne è morto, ma egli era un turco, e inoltre abitava in Germania). Il morbo è piú che altro una seccatura. Ma l'estensione che ha assunto, il suo diffondersi irresistibile da paese a paese ha una grandiosità, ha una imponenza che fa assomigliarlo a una forza naturale, elementare, contro cui nulla può la volontà degli uomini.

La potenzialità di resistenza umana si è dimostrata incredibile in questi ultimi quattro anni. La sofferenza, il dolore, la privazione, sono state inghiottite, sia pure con un singhiozzo: la compagine ha resistito, è sembrata invulnerabile.

Questo morbo ha intaccato la fiducia. È apparso e si è fulmineamente diffuso, oltre ogni barriera e ogni previsione igienica. Un avviso? Un sintomo? Una minaccia dell'inconoscibile destino agli uomini che tendono troppo l'arco della vita? Si rimedia con l'aggettivo. Il morbo è «spagnolo»: viene dal paese della neutralità, non è intrinsecamente legato con le condizioni nuove di resistenza fisiologica create dalla guerra.

Eppoi: sapete benissimo che la rivoluzione ha suscitato in Russia il colera...

(1° agosto 1918).

IL BRAVO

Due cittadini e una casa. Dopo le ventitre. Nella casa c'è un esercizio, e quantunque siano trascorse le ventitre, l'esercizio ospita buon numero di avventori, i quali fanno chiasso.

I due cittadini s'avvicinano alla casa. Mentre uno sta per introdurre la chiave nel portone, l'altro tende il braccio maiestatico e impone il fermo. È un'autorità, è un addetto all'ordine sociale. Ha il diritto (!) di sindacare i suoi simili, di fermarli, di condurli sotto un lampione, di palparli come fossero dei vitelli alla fiera, di frugarli addosso, di domandar loro giustificazione del perché vivano, del perché si muovano, del perché starnutino secondo un tono piuttosto che un altro.

Il compito è svolto sotto il solito lampione, con la meticolosa cura di chi ha la precisa coscienza di adempiere un dovere improrogabile e necessario. La ricerca non dà risultati. I due cittadini si separano. Nella casa continua lo schiamazzo. Il regolatore dell'ordine sociale ha però compiuto il suo mandato. Il disordine era potenzialmente in tasca dell'altro, non è nello schiamazzo, nella violazione della legge sugli orari dei pubblici esercizi. Egli «non si incarica» di ciò. Esiste forse la legge per lui? Forse che egli sa di essere un esecutore della legge? Egli sa di avere avuto un ordine generico che egli mette in esecuzione. Generico, ma non tanto da coincidere con la legge generale che inibisce le attività moleste alla società cosí com'è costituita, ma non tanto da imporgli un intervento perché a due passi da lui si schiamazza, si viola una norma precisa.

Egli non sa nulla. È come il bravo classico dei romanzi d'appendice. Assumendolo non gli hanno domandato una prova di capacità; gli domandano ora solo di riferire sul particolare mandato. La sua giornata è compiuta. Non ha trovato nulla: sarà per domani. Altre imprese del genere, altri individui particolari da fermare, da palpare come vitelli, da frugare. Perché? E che importa il saperlo? Importava forse al bravo sapere il perché di un ordine del signorotto? Anzi, il non sapere era virtú, come ora. L'ignoranza è obiettività. Sapere vorrebbe dire avere coscienza dei diritti e dei doveri, dei doveri propri e dei diritti altrui. E questo sapere potrebbe trasformarsi in ritegno, in meno scrupoloso adempimento del mandato preciso. Il bravo è ignorantemente obiettivo, è ignorantemente scrupoloso nel non aver scrupoli.

[Dodici righe censurate].

(3 agosto 1918).

UN DRAMMA

Una moglie che fugge con l'amante, abbandonando nel lutto e nella disperazione l'inconsolabile consorte? Coltellate, revolverate che due creature umane si sono reciprocamente scambiate, persuase ognuna di non poter piú vivere se l'altra continua a mangiar pane e vestir panni? No, no, il dramma non è un comune dramma da romanzo d'appendice.

Esso si è svolto in un giardino, in una breve zolla della superficie terrestre, recinta di muraglie, che chiamo giardino perché pensiero alcuno di utilità non ne ha mai scalfito la crosta. La vita sociale si spezza contro le muraglie, non penetra neppure con un mormorio indistinto. La vita sociale è il peccato, la vita individuale stessa è peccato, che si sconta macerandosi il corpo, imprigionandosi volontariamente entro le muraglie di sasso e calcina ed entro muraglie piú spesse e impenetrabili: dell'oblio, dell'ignoranza. Esistono ancora, nel centro stesso delle città piú moderne e piú ferventi di operosità, questi buchi dove si rifugiano gli ultimi relitti del bizantinismo claustrale, del cristianesimo opaco, irriducibile anche alle piú elementari tendenze riformistiche che il cattolicismo ha prodotto nel suo seno, e dalle quali è stato tanto trasformato e sempre piú sta per esserlo.

Il giardino è l'ultimo pezzo di mondo frequentabile, illuminato da una grande finestra, dal quale, incorniciato dai quattro muri, l'occhio umano può ancora affisarsi a mirare il quadro che incessantemente si trasmuta: un lembo di cielo dove il pennello del vento distende le tinte cupe delle nuvole, o spazza, lasciando che piovano i raggi splendenti del sole, o pallidi e tremuli delle stelle.

Il fervore del mondo si rompe contro le muraglie; non vi penetrano notizie, e neppure mormorii. La guerra vi fu ignorata per lungo tempo, e solo una vaga notizia riuscí finalmente a scivolarvi con un ordine di preghiera. Ma un giorno una delle creature umane, marcenti nel buco, uscí nel giardino, passeggiò nel giardino e vide, nel quadro incorniciato dalle quattro creste dei muri, passare un mostro dell'Apocalissi, e svenne, l'innocente sorella, e tutto il buco fu in subbuglio, e tutte le creature umane, marcenti nel buco, dimenticarono la disciplina del chiostro bizantino, e sussurrarono per il peccato mortale che, non potendo irrompere lateralmente, non potendo insinuarsi attraverso le muraglie, trasvolava nel cielo, sussurrarono perché il fauno poteva dall'alto far penetrare il suo cupido sguardo sulla femminilità pallida e sfatta macerantesi per scontare il delitto di essere viva.

Questo il dramma svoltosi nel breve spazio di un monastero torinese, nell'anno di grazia 1918, quinto della guerra mondiale. Cosí si rivelò l'esistenza dell'aeroplano a un frammento di umanità segregatosi dalla vita: come una possibilità nuova del peccato di tentare ed aggredire la carne. E la gerarchia studia per risolvere il problema: come costruire i conventi perché la clausura sia assoluta? Come segregarsi per essere sicuri? La vita moderna distrugge gli ultimi baluardi del bizantinismo, la vita moderna rende impossibile il bizantinismo, e cerca di espellere dal suo plesso come può queste larve senza farfalla che aggiungono volontaria tristezza alla tristezza che fatalmente si accompagna a tutte le forme di vita.

(9 agosto 1918).

CONSULTA ARALDICA

Il signor Belli di Carpenea ha scritto in tre quarti di colonna della «Gazzetta del Popolo» il documento piú importante sui caratteri essenziali e i fini immanenti della storia italiana di questi tre anni di guerra.

La Consulta araldica, nella sua adunanza tenuta in Roma il 15 luglio, ha stabilito di concedere un titolo nobiliare, riconosciuto ufficialmente dallo Stato, a coloro che si sono resi eccezionalmente benemeriti della guerra. Il signor Belli di Carpenea applaude, ed è sicuro che gli italiani applaudiranno, alla proposta, pensando «quale potente mezzo morale» sia una tale forma di riconoscenza nazionale. Il signor Belli di Carpenea riconosce che il «costume» diffuso in Italia è tale da rendere utile e necessario l'uso di questo mezzo morale; riconosce cioè che l'Italia ha conservato una struttura morale feudale, per cui si presuppone che lo Stato sia completamente fuori dall'ambito della volontà dei cittadini, per cui si presuppone che il «lealismo» dei governanti non dipenda dalla coscienza di essere essi stessi lo Stato, ma dalla fiducia che il servo ha di una equa ricompensa dal padrone per una prestazione d'opera militare.

Ai contadini le terre, ai borghesi (gli eccezionalmente benemeriti sono i borghesi, come si capisce) le onorificenze, ai capitalisti la protezione doganale.

La democrazia italiana è fatta cosí. Guglielmo Ferrero scrive un libro per sostenere la qualità contro la quantità, cioè per sostenere il ritorno all'artigianato contro la produzione capitalistica, alla aristocrazia chiusa della produzione contro il regime della libera concorrenza che rovescia sui mercati i cumuli di merce a basso prezzo per i poveri. I riformisti alla Drago predicano i premi di guerra; gli industriali vogliono la doppia tariffa. La democrazia italiana non esce dall'ambito della ideologia reazionaria propria dei monarchici francesi, dell'ideologia propria a una forma di società non ancora rivoluzionata dall'industria capitalistica, non ancora permeata dei valorosi ideali connessi all'individualismo economico, non ancora trasformata nel costume, piccolo borghese, pecorilmente servile, senza fremiti di iniziativa e di indipendenza. La democrazia italiana è essenzialmente «cattolica» e il suo anticlericalismo non è che bizza di fratello minore che crede la mamma dia maggior piatto di minestra al primogenito.

Perciò lo scritto del signor Belli di Carpenea acquista importanza. La Consulta araldica è il fiore piú vistoso e profumato della società italiana, sostanzialmente feudale e fondata sul privilegio di casta. La guerra darà rigoglio alla Consulta araldica: la Consulta araldica diventerà nuovamente la maggiore istituzione del regno, a maggior gloria e decoro della democrazia italiana, della quale la «Gazzetta del Popolo» è cosí autorevole bandiera.

(22 agosto 1918).

INFORTUNIO SUL LAVORO

Il lattoniere-gasista x. y. era intento al suo lavoro, in un appartamento privato, quando d'un tratto... non gli crollò la volta sul capo, no, e neppure la scala scivolando lo fece cadere al suolo, determinando la frattura di un arto con accompagnamento di ferite lacero-contuse e abrasioni. Niente di tutto ciò. Quando d'un tratto... il padrone di casa, che si era levato dal letto e aveva fatto la colazione, entrò nella stanza da bagno in preparazione.

L'operaio era in camiciotto da lavoro; il padrone di casa si accorse cosí di trovarsi dinanzi ad un «autentico» proletario e ne fu lieto. Egli aveva dormito con saporosa tranquillità e aveva fatto colazione; il cervello era senza nubi, e l'oratoria faceva ressa alle labbra per diventare una buona ed utile concione di propaganda.

Qualche passo su e giú. Qualche sbirciatina al lavoro. Un sorrisetto bonario. Si attacca.

La guerra, la pace; i doveri, la libertà; la patria, l'umanità.

L'operaio ha poca voglia di chiacchierare: non è egli venuto per una precisa e definita opera da compiere? Perché dunque lo si solletica, lo si induce a trascurare il suo compito?

Il padrone di casa ha però una missione da compiere. Egli continua imperterrito, e come era da aspettarselo, arriva il giudizio salomonico: «Francesco Barberis era venduto ai tedeschi; i socialisti italiani sono venduti ai tedeschi».

Cosí avvenne che l'operaio si sentí tirato per certi delicati organi a partecipare alla discussione. E gli fu facile mettere in imbarazzo il suo contraddittore e ridurlo ad ammettere che egli parlava a vanvera, che non sapeva nulla di nulla, non solo di quanto riguarda socialisti e socialismo, ma persino di quanto riguarda la guerra, la pace, i ministri, lo Stato, le forze agenti sugli avvenimenti storici, le volontà reali degli attori della tragedia sanguinosa. Il padrone di casa cominciò a trovarsi a disagio; ahimè, quale sfortuna; colui che egli aveva innanzi e si era proposto di propagandare, non era, no, un «autentico» operaio; egli era un «demagogo», egli era un arruffapopoli, un sobillatore. Se fosse stato un «autentico» operaio avrebbe, le ginocchia della mente chine, ascoltato le sue parole e gli avrebbe dato ragione, con entusiasmo, poiché un «autentico» proletario non può concepire neppur di poter discutere e mettere in dubbio il verbo di un signore che si è allora levato di letto e ha fatto colazione ed ha il cervello sgombro di ogni nube.

E cosí fu che l'operaio il giorno dopo, al mattino, uscendo di casa trovò una missiva padronale che lo dispensava di dare ulteriore corso ai lavori della ditta, perché, ecc. ecc., non è contegno da «autentico» proletario dire no, ma l'autentico proletario deve sempre dire sí, sí.

E cosí è che si fa la propaganda per la libertà, la eguaglianza e la fraternità.

(24 agosto 1918).

IL «FOOT-BALL» E LO SCOPONE

Gli italiani amano poco lo sport; gli italiani allo sport preferiscono lo scopone. All'aria aperta preferiscono la clausura in una bettola-caffè, al movimento la quiete intorno al tavolo.

Osservate una partita di foot-ball: essa è un modello della società individualistica: vi si esercita l'iniziativa, ma essa è definita dalla legge; le personalità vi si distinguono gerarchicamente, ma la distinzione avviene non per carriera, ma per capacità specifica; c'è il movimento, la gara, la lotta, ma esse sono regolate da una legge non scritta, che si chiama «lealtà», e viene continuamente ricordata dalla presenza dell'arbitro. Paesaggio aperto, circolazione libera dell'aria, polmoni sani, muscoli forti, sempre tesi all'azione.

Una partita allo scopone. Clausura, fumo, luce artificiale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla faccia dell'avversario o... del complice. Lavorio perverso del cervello (!). Diffidenza reciproca. Diplomazia segreta. Carte segnate. Strategia delle gambe e della punta dei piedi. Una legge? Dov'è la legge che bisogna rispettare? Essa varia da luogo a luogo, ha diverse tradizioni, è occasione continua di contestazioni e di litigi.

La partita a scopone ha spesso avuto come conclusione un cadavere e qualche cranio ammaccato. Non si è mai letto che in tal modo si sia mai conchiusa una partita di foot-ball.

Anche in queste attività marginali degli uomini si riflette la struttura economico-politica degli Stati. Lo sport è attività diffusa delle società nelle quali l'individualismo economico del regime capitalistico ha trasformato il costume, ha suscitato accanto alla libertà economica e politica anche la libertà spirituale e la tolleranza dell'opposizione.

Lo scopone è la forma di sport delle società arretrate economicamente, politicamente e spiritualmente, dove la forma di convivenza civile è caratterizzata dal confidente di polizia, dal questurino in borghese, dalla lettera anonima, dal culto dell'incompetenza, dal carrierismo (con relativi favori e grazie del deputato).

Lo sport suscita anche in politica il concetto del «gioco leale».

Lo scopone produce i signori che fanno mettere alla porta dal principale l'operaio che nella libera discussione ha osato contraddire il loro pensiero (!?)

(26 agosto 1918).

LA GOGNA

Ogni privilegio suppone un'attività indispensabile, quindi un dovere assoluto e perentorio. Ma poiché la «natura» umana è imperfetta, conseguentemente al peccato originale, il privilegio cerca godere il bene sottraendosi al dovere: allora la imperfetta «natura» dei non privilegiati inventa la gogna come correttivo volontario alla volontaria sottrazione. Pertanto noi ci dichiariamo fautori della gogna, pur sapendo di non poter evitare il biasimo del secolo incivilito, libero pensatore e umanitario.

E ragioniamo cosí: l'esercente è assolutamente indispensabile perché gli uomini continuino a nutrirsi, quindi a respirare e per ragione diretta a vivere. L'esercente rappresenta l'obiettivazione della legge naturale: «il piccolo commercio deve vivere». La cooperazione, la municipalizzazione sono scherzi della natura, indegne che la saggezza politica dei reggitori rivolga loro l'attenzione. Ma il dover essere esercentesco impone obblighi agli esercenti. La libertà del commercio è libertà condizionata: dalla carestia, dai trasporti, dalla competenza burocratica. Con tante condizioni questa libertà perde la maggior parte dei suoi attributi e ritorna alla forma mercantile del feudalismo. E allora sorge il concetto di gogna.

La forma mercantile sostiene la legge naturale del dover essere contro la libertà, ma ammette che il mercante deve essere utile ai cittadini. Ai cittadini è limitata la libertà di scelta dell'albero al quale impiccarsi, ma la limitazione implicitamente consente la sicurezza della buona disposizione dell'albero. Il mercante deve esistere, ma deve non fare distinzione tra cittadino e cittadino nello svolgimento della sua attività naturale: egli è oggetto di privilegio, non può diventare datore di privilegio, egli è scelto, non può scegliere. In quanto esce da questo ambito compie un atto di volontà, esce dalla natura, deve essere punito. Ma il codice civile e penale, compilati dopo la Rivoluzione francese, non sono abituati a tale genere di reati: il codice civile e penale sono in dipendenza di una forma di proprietà privata che ha subito innovazioni profonde, che è stata liberata dai vincoli di privilegio mercantile. Il mercante di tempo di guerra, come il mercante del periodo feudale, nuoce piú essenzialmente di quanto possa fare il mercante in libera concorrenza: attenta alla vita, non solo alla borsa. Il macellaio che del manzo ricevuto sotto il vincolo del privilegio, fa due parti: una della carne migliore, per un ristretto numero di eletti, che cosí non mancheranno mai del necessario e del superfluo e sono messi fuori dei rischi di guerra; e l'altra della carne scadente, ossa comprese, per l'Innumerevole che deve contendersi individualmente la preda con gli agguati mattutini; questo macellaio non può cadere sotto le sanzioni dei moderni codici. Egli straccia un contratto sociale che non è contemplato in questi codici. Egli si fa datore di vita a Tizio piú che a Sempronio, egli cade sotto un codice naturale che è quello del taglione.

Noi constatiamo, non auguriamo né ci proponiamo. Constatiamo una realtà, in tutta la sua complessa necessità. E ricordiamo la gogna. Essa era la pena piú mite nei tempi corrispondenti ai nostri, per la forma giuridica regolante la convivenza sociale. Essa era garanzia di vita, di sicurezza. La legge non può evitare che la frode sia esercitata ai danni dei cittadini; le sue sanzioni non impauriscono, non prevengono. Dunque la gogna per gli uomini, la passeggiata sulla groppa dell'asinello per le donne. Su ogni piazza una berlina: la domenica vi siano esposti i mercanti prevaricatori; sia permesso agli sputi di dipingere i loro visi.

Inciviltà, regresso? La civiltà e il progresso sono concetti relativi, giustificati dalla storia e dalla necessità. La forma di società in cui viviamo domanda la gogna; solo facendocene fautori dimostreremo di essere all'altezza dei tempi.

(29 agosto 1918).

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1 Probabile errore di stampa per Bergson.

2 Seguono tre righe incomprensibili.

IL PASSIVO

La questura torinese ha pubblicato il bilancio della sua attività nel mese di agosto: 784 arresti, 784 cittadini privati della loro libertà personale, 203 arresti per reati e mandati, 16 per ubbriachezza, 12 per porto d'arme abusivo: 231 arresti in virtú dei poteri consentiti dalle leggi. E gli altri 553? Con quale garanzia per la libertà individuale sono stati compiuti questi 553 arresti? Chi è responsabile degli errori possibili? Attraverso quali istituti i danneggiati possono far valere le loro ragioni e domandare sanzioni punitive, corporali e pecuniarie, contro gli agenti prevaricatori?

Dei 553 arresti operati arbitrariamente, senza mandato giudiziario e senza flagranza di reato, 258 sono di donne e per ragioni di moralità. I questurini, maestri di vita morale! I questurini, giudici inappellabili del buon costume! I questurini, che si introducono nelle case private e arrestano delle povere figliole operaie perché «hanno sentito dire» e le trattengono in carcere e le sottopongono ai loro lazzi e ai loro sberleffi. Le ragioni di morale sono in qualche caso i pettegolezzi delle comari, o piú spesso le mance delle tenitrici di postriboli che vogliono monopolizzare il commercio del piacere. Nessuna garanzia esiste per la libertà individuale, nessuna garanzia esiste perché, in un qualsiasi momento, un'operaia, che non ha accettato i complimenti di un agente, non possa essere privata della sua libertà per ragioni di morale. L'arbitrio solo sussiste: il dominio della legge non è neppure una frase fatta.

295 arresti per ragioni di «pubblica sicurezza». Anche per essi nessuna responsabilità, nessuna giustificazione che non sia arbitraria, nessuna garanzia per i cittadini. Chiunque può essere considerato «pericoloso»: chiunque può essere trattenuto in arresto senza che un giudice abbia spiccato mandato. Le garanzie costituzionali non servono a nulla, neppure a tutelare il libero svolgimento degli affari. È noto l'episodio del ragioniere trattenuto in carcere dieci giorni per essersi recato alla sezione di polizia per denunciare una truffa patita. Gli episodi potrebbero moltiplicarsi: sono stati perpetrati dei sequestri di persona per impedire a dei commercianti di recarsi su una piazza a definire dei contratti e lasciare libero campo ai concorrenti. Le vittime non hanno nessun mezzo di rivalsa, non hanno nessuna tutela nella legge, nelle istituzioni. Le istituzioni sono arretrate anche in confronto della società quale si è venuta sviluppando pigramente in Italia per lo stimolo della produzione capitalistica: la polizia è organizzata come sotto i Borboni a Napoli o Carlo Alberto in Piemonte, quando i cittadini si muovevano solo per congiurare: essa è una pastoia per la vita civile, determina una passività enorme nel bilancio sociale. La moralità, il costume, gli affari, il commercio sono in balia dell'arbitrio di irresponsabili arruolati senza discernimento, esposti a tutte le tentazioni delle mance e delle promesse di favori. 784 arresti in un sol mese, dei quali solo 231 sotto la responsabilità di un giudice: un terzo.

Due terzi l'incognita: arbitrii, soprusi, ricatti, mance con molte busse e molta fame. Il bilancio della passività democratica dello Stato italiano, costituzionale e parlamentare.

(6 settembre 1918).

LE CAUSE DELLA GUERRA

Il dott. Achille Loria, nella gerarchia sociale professore di economia politica all'università e nella gerarchia cavalleresca uffiziale dell'equestre militar ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e commendatore della Corona d'Italia, è, nella gerarchia dell'intelligenza, un qualche cosa che si potrebbe definire, in questi tempi di ferro, un motore a scoppio con lo scappamento sempre aperto. Egli è lo scopritore di tutte le scoperte, il teorico di tutte le teorie, il palombaro indefesso che dall'oceano pauroso di tutti gli umani misteri trae le scintillanti e preziose perle della conoscenza e della saggezza; il motore della sua sublime intelligenza scoppia con perenne e armonioso ritmo, e non fumo esala dallo scappamento, ma (oh miracolo!) luce mirabile per segnare la via agli umani nella bufera procellosa della storia.

Nel suo ultimo studio (trentadue linee di stampa nel periodico settimanale «La Difesa», che si stampa a Torino ogni venerdí e pubblica i versi del cav. Esuperanzo Ballerini, economo generale del regio economato generale dei benefizi vacanti) il cav. uff. prof. dott. Achille Loria segna una nuova conquista della verità sull'errore, della luce sulle tenebre, della sapienza sulla inerte e cieca ignoranza: egli acquisisce alla storia le cause della conflagrazione mondiale.

La guerra è una conseguenza della sifilide. Infatti: noi troviamo che «i tre grandi assertori della libertà e del positivismo, Lloyd George, Clemenceau e Wilson, emersi prima della procella, ascendono ora verso il periodo — mentre i tre incarnatori del misticismo e della tirannide, lo czar, il kaiser e l'imperatore austriaco scendono al lugubre occaso». Lo czar solo per uno scherzo della natura fu per tanti anni alleato della Repubblica francese; la natura si stancò di scherzare (ogni bel gioco dura poco) e «il triste messere fu inabissato per sempre». L'antitesi si delineò con precisa evidenza: da una parte lo spiritualismo, ossia il misticismo, ossiano il kaiser e l'austriaco imperatore; dall'altra il positivismo, ossia il materialismo della storia, ossia la libertà, ossiano Lloyd George, Clemenceau, Wilson. Ora che cosa sono lo spiritualismo e il misticismo, e quindi cosa è la tirannide? Portati della sifilide, come il dott. prof. uff. comm. Achille Loria ebbe il giubilo di scoprire a Siena, quando, ancora fresco delle sue pubblicazioni sul materialismo storico e prima che Federico Engels dimostrasse che egli aveva saccheggiato Carlo Marx, vi tenne la prolusione a un corso universitario e tutti lo acclamarono, eccettuato un mistico morto dopo qualche mese di sifilide. Cosa è dunque la storia, o signori? Un enigma se non si è studiato patologia. Cosa è dunque la guerra? Fenomeno mostruoso determinato dalla sifilide. Cosa è il mondo? Un ospedale di sciagurati abulici incoscienti cretini che freneticamente si interuccidono per la volontà di due sifilitici.

Questa concezione della storia è per il prof. dott. uff. comm. Achille Loria in dipendenza del materialismo storico. La sintesi di trentadue linee pubblicata dalla «Difesa» si inizia infatti con questa affermazione: «Gli spiritualisti i quali pretendono a monopolio degli ideali sogliono gittare (!?) sul viso a noi, positivisti e materialisti della storia, questa tragica guerra, quasi rimprovero e solenne smentita delle nostre vedute dottrinali».

Lo scappamento sempre aperto finisce col diventare una grave iattura pubblica.

(17 settembre 1918).

LA CHECCA

La Checca cattolica sorride ineffabilmente soddisfatta: «La va benone! Uomini, voi abusate della vita: ponete come fine alla vita il piacere, non volete riconoscere autorità esterne alla vostra volontà individualmente capricciosa, che vi conduce all'abisso. Uomini, soffrite: non piú teatri, non piú cinematografi, non piú caffè concerto e caffè senza concerto; non piú vellicamenti ai sensi vostri: le orecchie non si diletteranno ai suoni, gli occhi non inseguiranno le immagini proterve tentanti di creare la bellezza con gli atteggiamenti plastici delle forme umane; la fantasia muore, deve morire, in tutte le sue forme di vita, ignobili e alte, oscene e rutilanti di creazione: essa è il male, è il piacere, è il peccato, è l'umanità in quanto si distingue essenzialmente dalle altre manifestazioni della vita biologica. La va benone: soffrite, o uomini. Il fantasma della morte incomba, unica preoccupazione, assillo mordente, su di voi: la paura dell'agguato vi umilii, pieghi la vostra cervice. La società si sfasci, sia ridotta alle nuda ossa del suo scheletro elementare: gli individui che si sfuggono, che si evitano perché l'uno vede nell'altro il pericolo, il nemico, la tentazione».

Cosí gode la Checca cattolica, cosí trionfa la Checca cattolica. Il suo ideale è lo sfacelo, è la sofferenza, è l'umiliazione dell'umanità. La va bene, per lei; la morale ha vinto, il peccato è stato inabissato e l'arcangelo fiammeggiante per l'occasione si è impersonato nel prefetto, e la spada diamantina è stata la penna del burocrate che ha steso i decreti di chiusura. La va bene; i mariti sono rientrati al focolare legittimo ad ora lecita; la gioventù ha evitato i bagordi delle notti di tempo di guerra; l'epidemia infuria: viva l'epidemia moralizzatrice; viva la morte che la fa andar bene.

Il male è stato punito. Sí, ma anche il bene è stato stroncato, il bene che è la vita fervida, che è l'attività. Non si può uccidere il male senza uccidere il bene; essi sono inscindibili come la luce e il buio, essi sono concetti relativi, che si continuano, e ognuno dei due prende valore dall'altro. La Checca, la pettegola comare cattolica, non comprende queste cose: essa odia la vita, non il male, e odia la vita degli altri, perché gliene sfugge il dominio, perché la vita non vuole essere schiava dei fantasmi del passato cosí come dei padroni del presente.

Ma la sua esaltazione del morbo micidiale non trova piú le animule tremule. L'incanto è rotto, i fantasmi si dileguano. Progrediscono i crociati zeelandesi e australiani nella liberazione dagli infedeli delle terre che furono teatro dei miti cristiani, e le coscienze non esultano, non trabocca la gioia: l'incanto è spezzato. L'avvento della libertà si è documentato negli spiriti. Cosí la morte non è piú larva dell'inconoscibile, che aleggiando desti il furore mistico ruggente nelle vie e nelle chiese. Non è il piacere il suo scopo, ma non è neppure la purificazione per l'oltretomba. È la purificazione per la vita stessa, che si raggiunge con l'attività creatrice di benessere per dare alla virtú e al dovere il modo di realizzarsi, per tramandare ai venturi condizioni meno laboriose e affaticanti di purificazione. Non è il male nella bellezza, anche se essa cerca la sua espressione in forme ignobili e artificiose; non è il male nelle coscienze cadute originalmente nel peccato, ma è un riflesso dell'esterno, è un riflesso della lotta ineguale, del privilegio ammorbante, attraverso cui si è costretti passare come ad un roveto ardente. E la liberazione è nella lotta stessa, nell'attività creatrice che sfalda e sblocca il passato millenario, nella forza potente che picchia e urta la muraglia del carcere per abbatterla e far entrare la luce.

Ma la Checca stride di gioia per la peste, per la morte che umilia. La lotta e la forza sono per la comare cattolica invenzioni diaboliche.

(9 ottobre 1918).

BISTICCI

La «Gazzetta del Popolo» registra con vivo compiacimento lo spettacolo di senno (!) politico che la cittadinanza torinese ha offerto nell'accogliere e giudicare con serenità di spirito l'annunzio della richiesta di armistizio e di pace fatto dagli Imperi centrali. Non tentiamo neppure di criticare la «registrazione» della «Gazzetta» e di documentare come il senno politico dei torinesi (o della maggioranza di essi) abbia avuto diverse origini e un diverso fine da quelli che la «Gazzetta» insinua. Non ci teniamo troppo all'appariscenza del potere del socialismo e del proletariato torinese: ci importa che esso esista e sia sempre pronto all'azione, anche se non brilli al sole come una spada sguainata.

Qui ci importa la qualità del «senno» come la «Gazzetta» lo concepisce. Esso dipende direttamente da questo giudizio italo-francese, cioè schiettamente latino, che Rastignac ha odiernamente espresso nell'espressione lapidaria: «Non bisogna farsi ingannare dall'idea della pace in tempo di guerra!» Rastignac ha, nella forma sciocca, ridotto all'assurdo l'imperativo categorico, ne ha reso vistoso il suo vizio logico.

Per la «democrazia» italo-francese, per la «vera» democrazia latina, il senno politico dei popoli consiste nel non pensare, nell'inerzia spirituale e politica. In tempo di pace bisogna pensare alla guerra, anzi, se si vuole la pace, bisogna prepararsi alla guerra. Lo dice il proverbio latino, e i proverbi sono dei feroci negrieri che incatenano gli spiriti con l'incanto delle suggestioni innumerevoli del passato. È pazzia invece, anzi è delitto, idiota e nefando, pensare alla pace in tempo di guerra, preoccuparsi della pace mentre la guerra infuria, discutere, propagandare, svegliare il pensiero, drizzare la volontà sul soggetto della pace. Rastignac porta all'assurdo scemo il principio. Secondo la sua espressione, non la pace è la norma e la guerra l'eccezione (intendiamo pace e guerra di eserciti ben s'intende, non pace e guerra come forma di convivenza sociale in regime di proprietà privata), ma viceversa: la pace non si fa in tempo di guerra (non lasciamoci ingannare da questa idea caporettista), ma in tempo di pace. La pace si fa cioè quando la guerra si è estinta automaticamente perché una parte è stata sterminata. O umanitari, o pacifisti belanti, non auguratevi la pace per l'amore delle sacre viscere di San Pacifico; nel vostro augurio è implicito lo sterminio assoluto del nemico, e poiché il nemico non si lascia sterminare senza una qualche reazione micidiale, è implicito lo sterminio relativo dei vostri consanguinei. Questa è la logica dell'esterminismo integrale, dottrina della «vera» democrazia italo-francese, che la «Gazzetta» rappresenta cosí brillantemente a Torino, e col quale si vuole indirizzare gli spiriti a una forma di civiltà luminosa, a cucinare la quale non intervenga briciolo di cultura teutonica, espressione della barbarie pangermanista.

Evviva dunque il senno politico che si manifesta nell'inerzia e nell'assenteismo della storia. I democratici «veri», di marca italo-francese, odiano la dispotica forma di Stato germanica che nega al popolo le vie legali per affermare la sua volontà, per esprimere i suoi giudizi; la odiano in Germania, non in Italia e in Francia. Qui, presso noi latini, «deve» solo il governo pensare alla guerra in tempo di guerra e alla pace in tempo di pace; le soluzioni della guerra deve solo cercarle il governo, il quale, come è noto, nei paesi latini non può che essere composto di uomini nei quali lo Spirito Santo ha infuso l'assoluto della Saggezza, della Sapienza, della Prudenza, della Continenza, della Generosità e di quante altre doti si trovano elencate nei manuali del perfetto uomo. Da noi l'essere, la volontà politica e storica, monopolio di mezza dozzina di individui, responsabili per finzione statutaria, non è dispotismo, non è germanesimo, non è assolutismo, è «vera» democrazia. Consoliamoci dunque; adattiamoci: non pensando alla pace, cercando di non lasciarci ingannare dall'idea caporettista che la pace si possa concludere in tempo di guerra, noi eviteremo lo sterminio assoluto di una parte dell'umanità e lo sterminio relativo dell'altra parte. Signori, tutti possono essere contenti alla stregua di questa visione della tragedia che consuma gli spiriti e la carne: i germanofili e gli intesofili.

(10 ottobre 1918).

SLEALTÀ

Un manifesto nei muri, un manifesto che esprime un atteggiamento politico ben preciso, che è l'emanazione di una corrente sociale esattamente identificabile. E sotto le parole e le frasi il catalogo omerico delle associazioni che manifestano, che predicano, che scongiurano, e nel catalogo anche questa associazione: Partito socialista italiano.

Il Partito socialista italiano dunque anch'esso manifesta, predica e scongiura in questo particolare momento, in unione con associazioni che ha sempre combattuto o non ha potuto combattere solo perché esse sono esistite ed esistono unicamente nei cataloghi, nelle guide per i forestieri, e in calce ai manifesti. Il Partito socialista italiano è dunque uscito dal suo isolamento, ha voltato le spalle alle dottrine e alle norme d'azione di Zimmerwald e Kienthal, ha saltato le ferree barriere di classe, [cinque righe e mezzo censurate]. Ciò è successo. Del fenomeno rimarrà un documento nella copia del manifesto che sarà consegnata alla Biblioteca Nazionale e seppellita in una busta per la gioia dei futuri ricercatori di «documenti» storici.

Vogliamo che in questo numero dell'«Avanti!», che forse il futuro ricercatore esaminerà, rimanga la ennesima protesta contro il malcostume politico della vita italiana, contro la slealtà sistematica dei vecchi partiti conservatori e delle recenti associazioni occasionali o che si propongono di sopravvivere per propugnare quello che il compagno Rappoport chiama «socialismo dei nuovi ricchi».

[Tre righe censurate]. Queste associazioni, questa «manonera» antisocialista, questi funghi putridi che pretendono soffocare le roveri sprofondanti le forti radici nell'humus fecondo della necessità sociale e spingentisi verso la luce, verso l'urto con le energie scatenate senza legge della natura e dei bisogni umani, queste piccole canaglie senza fede in altro che non sia la loro immediata fortuna economica e politica, sono ben spregevole cosa. Mercanti arricchiti senza fatica, senza sforzi d'ingegno e di volontà, piccoli borghesi dall'angusto cervello imbottito dalla fraseologia dell'unico giornale che leggono, intellettuali senza intelligenza che solo nell'organico della carriera hanno la sicurezza di non andare a finire i loro sciocchi ed inutili giorni in un istituto di beneficenza, questo nugolo di mosche cocchiere saziate o cercanti saziarsi con gli spurghi infetti dei sopraprofitti di guerra, sono cosa ben spregevole e miserabile. La loro ideologia prende forma esteriore, si rivela all'azione dopo essere passata attraverso i filtri del costume degli esercenti. La loro mentalità è piccinamente costruita di frode e di slealtà: come il lattaio cerca ingannare il suo cliente vendendogli acqua e amido per latte, e il droghiere vendendo polvere di marmo per bicarbonato, e i fornitori militari dando cartone per suola e cotone per lana e acciaio spurio per acciaio rapido, cosí questi fornitori di civismo, di patriottismo, di senno politico, concepiscono la società come una pizzicheria o lo scranno di un commerciante truffaldino e frodano frodano: la storia è uno sgambetto sleale, la fortuna delle idee è come la fortuna dell'ultimo cerotto strombazzato in quarta pagina, la propaganda politica è simile alla attività del cerretano che deve ogni sera mutar piazza per non essere linciato dalle sue vittime.

Vogliamo lasciare questo documento minimo, ingenuo in sé perché alla slealtà solo può contrapporsi efficacemente la reazione delle società barbariche, cosí per uno sfogo dell'irritazione morale del cittadino che ama la lotta, ama l'urto delle idee e delle forze, ma concepisce la vita con dirittura, aborre la tortuosità dei deboli che conficcano malignamente le unghie sudice in un muscolo teso e gioiscono del piccolo livido provocato, poveri funghi viscidi e senza domani che vorrebbero soffocare le querce.

(12 ottobre 1918).

DISILLUSIONI E SPERANZE

La morte del digiunatore (in tempi di abbondanza) Succi, proprio quando il digiuno è diventato un dovere ed una virtú civica, ha depresso il mio spirito. Sfoglio con tristezza e scoramento il voluminoso manoscritto che tante notti insonni mi è costato, che tanto bagliore di intelligenza e tanta concreta volontà pratica ha trasportato dall'attivo al passivo del mio bilancio spirituale; ahimè, è tutto da rifare, come dice il ministro intraprendente, nella Presidentessa, all'infelice burocrate sottoposto alla sua autorità. È tutto da rifare il progetto che mi avrebbe procurato tanto plauso e tanta commossa ammirazione dai lucidi cervelli della mia patria. Esso era fondato graniticamente sulle esperienze di Succi; la base sperimentale e positiva è mancata, il granito si è spappolato come una ricotta.

Il problema della guerra fino in fondo mi assillava. Come la mia patria avrebbe potuto emulare la Germania e la brillante sua seconda nell'organizzare condizioni alimentari che le permettessero una indefinita capacità guerriera? Il razionamento tesserato era un espediente empirico, degno solo, in tutto, dell'angusta mentalità barbarica dei popoli germanici; bisognava che noi latini sprigionassimo dalla nativa genialità della prodigiosa stirpe nostra una scintilla divina di originalità, creassimo un'organizzazione di resistenza quale mai il sole illuminò sulla rugosa e cincischiata corteccia terrestre.

Un primo progetto balenò al mio spirito infuocato: eliminare dalla concorrenza vitale tutti i vecchi, tutti gli uomini superiori ai sessant'anni. Perciò sarebbe stato opportuno promuovere nuovi comitati di guerra fra i cittadini non legati da vincoli di affetto con alcuna futura vittima, e propagandare, propagandare. Motivo essenziale della propaganda la giustizia ideale e morale che i vecchi — per causa dei quali la guerra è scoppiata, giacché essi non si sono curati, per fiacchezza o per precisa volontà politica, di eliminare le condizioni generatrici dei conflitti armati — fossero eliminati violentemente, ostie consacrate alla fiorente gioventú immolatasi nelle trincee. Dimostrare l'ingiustizia patente del fatto che questi residui delle generazioni responsabili togliessero ai soldati, ai bimbi, ai giovinetti, una notevole parte del patrimonio sociale alimentare, insidiando la integrità fisica permanente delle generazioni in isviluppo, dopo aver determinato il micidiale sterminio delle generazioni mature. Dimostrare come questo fatto anche immediatamente ponesse a repentaglio la vita dei giovani, in quanto questi, obbligati dall'officina, dall'ufficio e dalla trincea a non risparmiarsi, potevano essere distrutti da una epidemia, facendo sí che la pace trovasse il mondo abitato da vecchiardi decrepiti, scimuniti, valetudinari. Una statistica delle vittime piú frequenti dell'influenza avrebbe irrobustito e resa schiacciante quest'ultima parte della dimostrazione.

Non mi piacque questo progetto. Il mondo è ancora troppo ammorbato da pregiudizi. E d'altronde fra i vecchi non sono molte le anime sensibili, cosí che un comitato dei piú illustri poeti, che li perseguitassero con infuocati giambi, potesse dar speranza di far conseguire un suicidio collettivo, alla giapponese.

Succi. Ecco l'uomo che per l'urto di una concatenazione d'idee fece sprizzare da una cellula cerebrale la scintilla divina. Rifeci il progetto, studiai, mi immersi in profondissime riflessioni, compilai specchietti, diagrammi, statistiche. L'organizzazione di resistenza guerriera fiorí nello spirito ardente quale lampada inestinguibile: fiorí vasta, complessa, definitiva, come certo nessuna intelligenza (!) espressa dal funesto ed inverecondo seno della cultura germanica avrebbe mai immaginata.

Lo Stato, secondo il progetto, avrebbe dovuto fissare con esattezza, attraverso i suoi organi amministrativi, quali cittadini fossero indispensabili per la vita di guerra e quali rappresentassero solo un ingombro inutile. Da un parte i soldati, gli operai, maschi e femmine addetti alle industrie di guerra o alle industrie necessarie alla società rinnovata e crivellata, gli agricoltori anch'essi indispensabili e quel minimo di impiegati amministrativi utili per la gestione nuova sociale: una dittatura giovanile ed energica avrebbe dovuto sostituire il governo parlamentare (!), il parlamento, il senato e gli enti locali elettivi; dall'altro i vecchi invalidi e tutta la caterva parassitaria per età o per la non funzione sociale: signore, signorine, signorini, ragazzi, preti, frati, monache, giornalisti, milionari, collaboratori della «Donna» e della «Scena illustrata», abbonati effettivi o virtuali del «Venerdí della Contessa» e della «Gazzetta del Popolo». Ma per non offendere i pregiudizi sociali e d'altronde per conservare intatto il canovaccio su cui si sviluppa il corso delle generazioni e della storia, questi esseri non avrebbero dovuto essere uccisi. Sarebbe bastato sottoporli a una cura di fakiri e conservarli in tombini, in istato catalettico fino alla pace.

Sarebbero sorte nelle campagne sterminate «necropoli di viventi inutili in tempo di guerra», documento del massimo sviluppo della civiltà borghese, che sa far tacere ogni palpito, ogni affetto, ogni ideologia pseudoumanitaria per aver modo di attuare la sua missione nel mondo.

Il progetto era fondato, col piú rigoroso metodo sperimentale e positivo, sul caso Succi; avrebbe anzi servito anche a dimostrare come nel ceto italiano nazionale dei saltimbanchi, giocolieri ed illusionisti si nasconda una miniera di virtú e di energie civili. Succi, che a tanti digiuni si era volontariamente sottoposto in tempo di abbondanza, mi muore quando il digiuno è dovere e civica virtú, insidiosamente insinuando il dubbio che la «necropoli dei viventi inutili in tempo di guerra» non sia un progetto concreto, ma un castello in Ispagna; lo spunto possibile di un romanzo alla Wells o di una novella alla Kipling. Eppure...

Manderò il manoscritto al Presidente della Commissione per il dopoguerra. Poiché nel dopoguerra ci può essere anche una nuova guerra, e non sono che balorde illusioni, degne dei «Felice Umanità», i sogni delle Leghe delle Nazioni, delle paci perpetue e simili grullerie, il progetto potrà essere motivo di utili meditazioni all'on. Pantano e agli altri benemeriti cittadini che si sono sobbarcati al difficile compito di organizzarci una patria piú ammodo, intonacando le screpolature, lucidando i mobili un po' consumati, disinfettando i recessi miasmatici.

Forse la mia fatica non sarà stata vana, e il sogno di gloria immortale, divisa coi piú illustri fondatori della patria, non svanirà come un effimero gioco di fuochi di bengala.

(15 ottobre 1918).

FURORE DIONISIACO

Il cittadino Donato Bachi, che Nietzsche avrebbe preso ed immortalato come modello del perfetto filisteo, si è abbandonato, nelle colonne della «Gazzetta del Popolo», alla furia dionisiaca: ha vendemmiato nelle floride e soleggiate vigne degli opuscoli-appendice alla «Sigaretta», al «420», e ha pigiato, pigiato, tinto di dolcissimo mosto il mento e il crine, rossi i polpacci e le braccia tese a Febo; ha pigiato il «basso, il vile, il servo» popolo tedesco, la «spregevole unnica, gotica, arminica, teutoburgica» razza tedesca. Il cittadino Donato Bachi ha citato i nomi del Sommerfeld, del Frymann, del Bernhardi, di Napoleone, di Orione, del Legien, del Bernstein, del Kautsky, dell'Ostwald, di Federico Neumann, di Federico II, di Goethe, di Schiller, di Heine, di Leibniz, di Kant, di Fichte, di Bach, di Haydn, di Schubert, di Schumann, di Wagner, di Teutobochus, di Mario senza Silla, di Arminio, di Varo, di Treitschke (quanti prontuari degli uomini celebri deve aver pazientemente compulsato il cittadino Donato Bachi), e tutto ciò in due colonne della «Gazzetta del Popolo», tolto il pianterreno di «Chantecoq» e una notizia di cinque righe senza il titolo. Inoltre il cittadino Donato Bachi ha citato il nome di Nietzsche, lo ha difeso da chi in buona parte ne ha travisato le teorie e si è con speciale predilezione fermato su questo giudizio dell'Ecce Homo: «Dovunque giunge la Germania, essa corrompe la cultura».

Il cittadino Donato Bachi disprezza, nell'esaltazione del suo delirio dionisiaco, il popolo tedesco corruttore della «cultura»; vigliacco, basso popolo che s'arrende come uno schiavo frustato, che non vuole piú resistere, che non vuole piú fabbricare armi e munizioni e toglie cosí all'industria nazionale delle forniture militari il diritto di svilupparsi per resistere alla crisi economica del dopoguerra. Vigliacco, schiavo popolo che dove giunge corrompe la cultura. Il cittadino Donato Bachi vendemmia nelle pubblicazioni della cultura nazionale edizione Sonzogno e Nerbini e pigia, pigia, invasato delle dottrine nietzschiane non travisate e bene intese. Aveva ragione Nietzsche; il popolo tedesco è basso, tanto che il cittadino Donato Bachi confonde «cultura», che in italiano significa sapere, con «Kultur», che in tedesco corrisponde alla parola «civiltà»; il popolo tedesco è schiavo, perché — corretto l'errore dell'opuscolo — corrompe, dove giunge, la civiltà dionisiaca ellenica esprimentesi nel trionfo della bellezza e di una gerarchia sociale di eroi e di schiavi, degli eletti per l'intelligenza, la fantasia, la vita etica sublime, e degli strumenti senza anima, senza volontà, senza volontà spirituale; è abietto perché appunto tenta dissolvere una gerarchia sociale superata e arretrata, corrompendo la civiltà degli junker, dei fornitori militari, dei principi, dei burocratici, del Kaiser, eroi dionisiaci che resistendo fieramente, senza flettere, avrebbero permesso all'industria nazionale italiana di svilupparsi e di attingere le cime.

Vendemmia e pigia il pericleo Donato Bachi, seguace del Nietzsche non travisato, vendemmia e pigia, le tempia cinte di pampini, le nude rosse braccia tese a Febo conduttore delle Muse: abietto, schiavo, vile popolo tedesco.

(17 ottobre 1918).

BELLU SCHESC' E DOTTORI!

Il giudice Emanuele Pili non è senza storia, come gli uomini e i popoli felici. Ma la storia del giudice Emanuele Pili ha una lacuna; iniziatasi col protagonista autore drammatico, riprende ora col protagonista «ragionatore» di sentenze, e riprende con una gloriosa e strenua pugna: il «ragionamento» della sentenza per i fatti di Torino, che nell'ultimo numero della «Gazzetta dei tribunali» il misuratore di crani prof. Vitige Tirelli qualifica «dotta».

Benedetto Croce ha scritto: «Chi ha pratica dei tribunali sa che molto spesso un magistrato, presa la decisione e stabilita la sentenza, incarica un suo piú gio1 [dodici righe e mezzo censurate]. E il giudice giovane ha fatto sfoggio di dottrina; e il giudice giovane — poiché nella prima gíoventú aspirava alla gloria di Talia e dedicava le sue fresche energie intellettuali a scrivere commedie nei vari dialetti di Sardegna e non poté studiare tutti i risultati delle ultime ricerche sulla natura del diritto e delle costituzioni — ha ragionato [una riga censurata] nella sentenza dei fatti di Torino, rovistando nei vecchi cassettoni, rimettendo alla luce tutti gli imparaticci scolastici del primo anno universitario, quando ancora si frequentano le lezioni e si prendono gli appunti.

[Venticinque righe censurate].

Gli sono estranee le correnti del pensiero moderno che hanno ringiovanito tutta la dottrina dello Stato e del Giure — superando le concezioni puerilmente metafisiche della dottrina tradizionale, degli imparaticci da scoletta universitaria — colla riduzione dello Stato e del Giure a pura attività pratica, svolta come dialettica della volontà di potenza e non piú pietistico richiamo alle leggi naturali, ai sacrari inconoscibili dell'istinto avito, alla banale retorica dei compilatori delle storiette per la scuola elementare. Il «ragionamento» del giudice Pili è solo una filastroccola di banalità retoriche, di gonfiezze presuntuose: esso è il ridicolo parto di un fossile intellettuale, il quale non riesce a concepire che lo Stato italiano almeno giuridicamente (e come giudice questa apparenza della realtà doveva solo importare al «giovane» da tribunale) è costituzionale, ed è parlamentare per tradizione (l'on. Sonnino è gran parte dello Stato attuale, ma crediamo che il suo articolo Torniamo allo Statuto! non sia ancora diventato legge fondamentale del popolo italiano): [cinque righe censurate]. La «dottrina» del giovane da tribunale infatti si consolida (!) in esclamazioni enfatiche contro chi ha «resistito» o è accusato di aver resistito: non cerca (come era suo compito) di dimostrare, alla stregua delle prove concrete e sicure, un delitto per passare l'esatta commisurazione alla sua entità di una pena contemplata nel codice. No, il «giovane» vuole sfoggiare, come una contadina ricca del Campidano di Cagliari le vesti multicolori che hanno servito alle sue antenate per le nozze e per decine e decine di anni sono rimaste seppellite in un vecchio cassettone a fregi bestiali e floreali tra lo spigo e una dozzina di limoni: e sfoggia tutti i vecchiumi, tutti gli scolaticci dei vespasiani giuridici chiusi per misura d'igiene pubblica.

Il giudice Emanuele Pili ha scritto una commedia dialettale: Bellu schesc' e dottori! (che bel pezzo di... dottore!) L'esclamazione potrebbe essere la conclusione critica della lettura di una sentenza, cosí com'è il titolo di una commedia.

(20 ottobre 1918).

LE VIE DELLA DIVINA PROVVIDENZA

L'Alleanza cooperativa ha votato 5000 lire per l'edizione torinese dell'«Avanti!», e il «Momento» ne prende lo spunto per un predicozzo alla borghesia torinese. La borghesia torinese non ha ideali morali e politici, è grettamente egoista e materialista; molti degli individui che la costituiscono fanno i loro acquisti nei reparti dell'Alleanza e per risparmiare qualche soldarello i vili incoscienti contribuiscono alla floridezza della istituzione socialista, dando ai socialisti i mezzi per la propaganda rivoluzionaria antiborghese, per l'odio, la catastrofe, l'immoralità, il materialismo, il ventre e altre voci del repertorio.

Gli scrittori del «Momento» sono cattolici, ma non conoscono la dottrina cattolica sulla Divina Provvidenza, le cui vie sono infinite. Pensate: la borghesia capitalistica, per instaurare il suo dominio, dissolve gli istituti feudali che vincolano la proprietà privata e la costringono all'immovibilità: il servo della gleba e l'operaio delle corporazioni cittadine, che partecipano della natura giuridica feudale della proprietà privata (con la nazione bene patrimoniale del sovrano) vengono anch'essi liberati e la forza lavorativa diventa merce esportabile e trasportabile nei mercati piú redditizi. Ecco una via della Divina Provvidenza: la borghesia capitalistica, per imporre il suo dominio di classe economica, suscita il proletariato che diventerà il suo mortale avversario. O vili borghesi, egoisti e materialisti!

Il dominio della borghesia capitalistica è all'inizio un compromesso tra il passato e l'attualità: la costituzione politica conserva numerosissime tracce degli istituti feudali; le classi sbalzate dal potere sono sempre in agguato, d'altronde, e vorrebbero prendersi la rivincita. La borghesia capitalistica continua la sua attività liberatrice. La libertà individuale, la sicurezza personale, il diritto di coalizione, la libertà di parola le sono certamente utili per dare incremento agli affari, per viaggiare senza essere arrestati ogni cinque minuti, per promuovere partiti politici e fondare giornali che difendano i loro interessi; ma le leggi liberali promulgate sotto la spinta dell'utile capitalistico portano automaticamente alla costituzione di formidabili organizzazioni operaie: all'individualismo capitalista si contrappone il solidarismo proletario; il «numero» si disciplina e diventa «potenza» intelligente. Ecco la via della Divina Provvidenza: la borghesia capitalistica, per sviluppare la sua potenzialità industriale e commerciale, facilita il potenziarsi del suo nemico mortale. O vili borghesi, egoisti e materialisti!

La borghesia capitalistica ha organizzato la società moderna secondo la legge dell'utile immediato. Solo gli eroi che sentono una inclinazione prepotente per le minestre dei frati ingurgitate su un gradino di chiesa, riescono a sovrapporsi alla legge. L'Alleanza cooperativa, formatasi per le libertà commerciali utili alla borghesia (o vili, vili!), vende facendo risparmiare alla cittadinanza torinese qualche milioncino all'anno: molti borghesi (ma sono poi borghesi, vivono sul profitto capitalistico questi impiegati, avvocati o magistrati?) comprano all'Alleanza cooperativa, contribuiscono alla floridezza della situazione socialista e alla potenza del movimento proletario: quasi-proletari senza coraggio intellettuale, contribuiscono come possono al trionfo dell'ideale e della forza storica che segnerà anche la loro liberazione. Ecco un'altra via della Divina Provvidenza.

Cosí il «Momento» avrebbe dovuto porre la questione se i suoi scrittori conoscessero la dottrina cattolica della Divina Provvidenza. Se conoscessero il Vico, la questione l'avrebbero ancora meglio posta, poiché nel filosofo napoletano la Divina Provvidenza è alquanto piú intelligente che nella dottrina cattolica. In Hegel e in Marx avrebbero infine potuto imparare l'ultimo sviluppo della dottrina: la tesi hegeliana dell'«astuzia della natura» che fa gli uomini, volenti o nolenti, ministri dei suoi maravigliosi disegni e la concezione dialettica della storia colle sue tesi, antitesi e sintesi.

PS. Nell'articolo pubblicato ieri sul giudice Emanuele Pili la censura ha lasciato solo la parte «floreale» che può far supporre aver noi scritto un puro pamphlet per insolentire un magistrato. La censura ha imbiancato le giustificazioni delle insolenze: la giustificazione filosofica trovata nella Logica del senatore Benedetto Croce; la giustificazione storica trovata in una notizia pubblicata dal «Journal des Débats» l'8 novembre 1817 (milleottocentodiciassette!), la giustificazione costituzionale trovata nello Statuto albertino. Un'insolenza giustificata da «pezze» di tal genere crediamo non sia piú insolenza, ma espressione plastica della imparziale giustizia. La censura pertanto ci ha solo diffamati, senza che le leggi ci diano il modo di dar querela.

(21 ottobre 1918).

COLEI CHE NON SI DEVE AMARE

La Royal Society di Londra ha proposto, e i delegati delle Accademie di Parigi, di Roma, di Bruxelles, di Washington, riuniti nella sua sede, hanno acconsentito, di rompere per sempre ogni relazione con la scienza tedesca.

Gli accademici partecipano della stessa natura degli innamorati; nelle novelle di Luigi Pirandello e di Amalia Guglielminetti l'accademico e l'innamorato assumono sempre atteggiamenti simili e confondibili. Ambedue languono e si macerano per un «ideale»; le notti insonni lasciano le stesse tracce nei loro volti austeramente composti in malinconia dolce e rassegnata.

La «scienza nemica» è «colei che non si deve amare». Essa è l'Innominabile, la Sconosciuta; si cancella il suo nome dai libri e dalle vecchie gialle lettere profumate del suggestivo odore del tempo. Si barcolla quando gli occhi cadono sulle sillabe fatali, quando l'orecchio è colpito dal suono di quelle lettere che sprigionano malefizio. «Colei che non si deve amare» diventa cosí l'incubo delle ore di assopimento rubate al progresso scientifico, diventa il folletto implacabile che svolazza intorno all'affaticato cranio e sbatte le sue alucce impertinenti sulla fronte corrugata.

La vita diviene insopportabile; l'accademico diviene nevrastenico. Riposo, riposo per i poveri nervi esauriti, per lo stomaco che non digerisce, per gli arti che hanno perduto ogni elasticità. Riposo ci vuole: la Svizzera, i laghi, i monti, l'Arcadia tranquilla con le sue vaccherelle e le sue pastorelle. La Svizzera, dove avviene sempre nelle novelle l'incontro tra le due creature rapinate nel vortice del Fato. Il «suo» nome non irrita piú la delicata sensibilità dei sensi. Anzi: «ella» diventa il «mistero che attrae». Tutto di lei incuriosisce, tutto attrae l'attenzione. Con esitazione dapprima, con la paura che fa volgere intorno lo sguardo, la si segue, si osservano le sue mosse e i suoi lineamenti. È dessa invecchiata, o si imbelletta per conservare la giovinezza perenne? Cosa ha fatto, cosa ha detto finora? Per quali avventure è trascorsa?

L'accademico patito dimentica i suoi giuramenti, dimentica le sue promesse. E una sera, quando la luna piove sulle cime dei monti i suoi raggi sottilmente incantatori, e stormiscono i grandi alberi, e le acque precipitano nell'abisso schiamazzando turbolentemente, i due si incontrano, si guardano, e quasi condotti dallo stesso filo di un magico burattinaio, vanno ad assidersi su uno stesso muricciolo. L'idillio ricomincia.

La Royal Society ha proposto di rompere per sempre ogni legame con la scienza nemica. Noi concludiamo: la Svizzera è destinata a un meraviglioso avvenire scientifico.

(27 ottobre 1918).

CONSTATAZIONI

Il compagno Zaverio Dalberto è stato trasferito dalle carceri comuni ad un ospedale dipendente dalle carceri. Il provvedimento non è un atto di speciale grazia, non è un favore straordinario. Esistono leggi e regolamenti i quali, direttamente od indirettamente, sono emanazioni della Camera elettiva nazionale. Il carcere non deve mutarsi, in nessun modo, in un patibolo; una condanna alla reclusione, limitata nel tempo, non deve, in nessun modo, diventare condanna alla eterna relegazione nell'oltretomba. È una cosa questa ormai penetrata nel costume, una cosa che appartiene al patrimonio etico delle nazioni civili: ed è diventata legge, e la legge è diventata regolamento. Automaticamente, per via puramente amministrativa, il carcerato infermo dovrebbe essere trasportato nel sanatorio.

Ciò avviene negli Stati dove l'«amministrazione» funziona regolarmente,dove gli impiegati e la gerarchia burocratica esistono per servire la nazione e non per servire gli uomini politici che a volta a volta si sono issati al potere, e non per servire la fortuna politica ed economica di particolari individui, funzionando solo quando è stato introdotto nell'ingranaggio un ventino o un biglietto di raccomandazione.

Il compagno Zaverio Dalberto è stato tolto dalle carceri comuni: la legge, il regolamento non c'entrano. La legge e il regolamento hanno funzionato per lui troppo tardi: la «via amministrativa» era ostruita. La «legge» ha funzionato per il carcerato Cibrario, che non aveva trascorso, come il Dalberto, alcuni mesi di ogni anno nei sanatori, che non aveva come il Dalberto consumato la sua fibra lavorando a organizzare le masse operaie. La «legge» ha funzionato per il carcerato Cibrario, frodatore dei singoli cittadini italiani, volgare ladruncolo dei suoi concittadini; nell'ingranaggio era stato introdotto il ventino o il biglietto di raccomandazione; bisognava tutelare la preziosa salute del carcerato Cibrario, «uomo dell'ordine», «governativo». Per il compagno Dalberto non c'era fretta; cattiva pelle Zaverio Dalberto, uomo pericoloso, questo Zaverio Dalberto, che non truffa, no, i singoli cittadini italiani, che non è un volgare ladruncolo, ohibò, ma è peggio; egli è avversario dello Stato borghese, egli è stato condannato da un Tribunale di guerra per una serqua di crimini tali che al solo pensarci il carcerato Cibrario ne sarebbe incanutito d'orrore. La «legge» non ha funzionato, la legge, garanzia permanente per i cittadini che si vive in un paese civile, garanzia che il carcere non si tramuterà in un patibolo, che la reclusione limitata nel tempo, non diventerà eterna relegazione nei campi Elisi, la legge è rimasta inerte, la macchina non si è automaticamente messa in esercizio. No, ciò non avviene in Italia, dove il dominio della legge non è stato ancora instaurato e vige il dominio del ventino, del biglietto di raccomandazione e della paura; della paura che nasce per gli ordini del giorno votati alla Camera del lavoro.

(30 ottobre 1918).

LA CENSURA

La censura ha intieramente imbiancato la nota di ieri. La censura continua a svolgere il suo compito, quantunque l'esercito nemico non minacci piú i «pingui campi» e l'onore delle donne, quantunque sia in modo assoluto escluso, anche dal punto di vista del piú angusto reazionario, che la discussione delle idee possa aprire i confini all'invasione. La censura continua e noi non ce ne meravigliamo, poiché nel nostro paese essa non ha mai rappresentato una misura provvisoria e contingente di difesa della «salute pubblica», ma è stata un metodo di governo, il metodo necessario dello Stato italiano, poliziesco, protezionista, antiliberale.

Gli italiani mancano di fantasia (l'immaginazione e lo scapricciamento non sono fantasia): essi riescono a comprendere che altri Stati non sono democratici, perché l'unico giornale che leggono ne sottolinea gli atti e le misure reazionarie; non concepiscono che lo Stato di cui sono parte e che anche solo costituzionalmente potrebbero trasformare, è la negazione della democrazia; Giolitti rimane per molti un liberale democratico. Questi italiani hanno l'immaginazione superficiale impressionata dalle «spiritose» interruzioni del parlamentare furbo e imbroglione, e non ricordano invece che Giolitti ha tolto agli italiani la libertà di tenere comizi pubblici (ha cioè soppresso la libertà di parola e di propaganda orale, eccetto che in tempo di elezioni), non pensano che Giolitti rappresentava al potere le cricche piú reazionarie degli agrari e dei siderurgici. Orlando e Nitti sono per gli italiani «uomini che parlano»; gli italiani non riescono a vedere in loro gli «uomini che operano», appunto perché mancano di fantasia, perché sono incapaci a ricreare «drammaticamente» un'azione permanente, in ciò che ha di essenziale, in quanto trasforma la realtà e la rivolge a particolari fini. Gli italiani, il popolo italiano può arrivare anche, per la suggestione dell'unico giornale che legge, a gioire perché una minoranza è perseguitata, non può parlare, non può far conoscere le sue idee e i suoi fini; il popolo italiano non ha fantasia, perché non concepisce che la sua gioia è per un proprio male, perché esso tutto è escluso da quelle idee, dal conoscimento di quei fini, perché è, per lui, ritenuto un'accolta di scimmie urlatrici senza criterio, senza inibizione volontaria, che si escludono quell'idea e quei fini dalla pubblica discussione.

La censura è il metodo di governo dello Stato italiano rimasto paterno e dispotico sotto la superficiale vernice dell'enfasi democratica. I socialisti devono sempre cercare di spiegare gli avvenimenti e le azioni politiche; essi devono farlo perché hanno una dottrina e devono diffondere le conclusioni alle quali arrivano, perché sono i soli democratici, perché aspirano all'instaurazione della sola democrazia storicamente necessaria ed efficiente: la democrazia sociale. Lo Stato italiano è paterno e dispotico, perché rappresenta cricche particolari e non una classe; esso è la negazione della democrazia liberale perché la volontà dei cittadini conta zero, perché i cittadini non possono avere una volontà concreta, perché lo Stato impedisce che questa volontà sorga, inibendo la discussione, impedendo l'arrivo dei giornali stranieri, anche dei paesi alleati dove pur vige la censura. La censura continua a imperversare, e ciò avviene perché le cricche che ci governano vogliono instaurare anche esplicitamente un governo dispotico, vogliono annullare lo Statuto e le altre garanzie di libertà e di sviluppo delle forze storiche nuove.

(4 novembre 1918).

«AZIONE DIRETTA»

La compagnia Tina Di Lorenzo ha sospeso le rappresentazioni di Prete Pero, commedia in tre atti di Dario Niccodemi.

La commedia è un empiastro nell'ordine artistico, è un affare repugnante nell'ordine pratico-commerciale. Ma nel determinare la sospensione, le ragioni d'ordine estetico o d'ordine morale non hanno influito. La commedia è stata sospesa perché un gruppo di giovani clericali si è impadronito del teatro Alfieri e berciando e rumoreggiando si è imposto agli attori e al grosso pubblico.

L'episodio è il momento clericale di una tendenza nuova della «civiltà» italiana creatasi durante la guerra e che oggi, nel dopoguerra, si sviluppa per informare dei suoi valori tutta la società. I clericali, nella divisione del lavoro, si sono applicati al teatro; gli altri gruppi apolitici (l'apoliticismo trionfa, issando segnacolo in vessillo l'idea pura «italiana») si applicano alla politica (degli altri, naturalmente), all'economia (per esempio, ramo pubblicità dei giornali «apolitici»), all'amministrazione comunale, ecc.

La tendenza e i metodi che le sono propri, furono con superlativo buon gusto battezzati soviettisti dall'on. Zibordi. Non abbiamo il buon gusto dell'on. Zibordi. Inoltre, [una riga censurata] ci è possibile definire piú imparzialmente. La tendenza e i metodi in parola dipendono da due fonti, una storica tradizionale, l'altra di cultura. La tradizione, la storicità sprofonda le sue radici in quella corrente sociale che popolarmente si appella da Manonera; la cultura, l'«autocoscienza» del processo di sviluppo storico è rintracciabile nella letteratura poliziesca. I modelli, i maestri di vita morale, gli individui-eroi propostici ad esempio sono Nat Pinkerton, Petrosino, ecc. La casa editrice Barbera ha, nel periodo di sviluppo della nazione italiana, volgarizzato gli Eroi di Carlyle, gli «individui» della borghesia industriale e commerciale e scientifica dello Smiles. La casa editrice diretta e consigliata dall'on. Gio. Batta Pirolini ha volgarizzato i nuovi eroi, i nuovi «individui» apolitici, che oggi operano nelle coscienze come modelli di perfezione civile. La società italiana che si sta formando e vigorosamente affermando è di pretta marca piroliniana (cultura ), manoneresca (tradizione storica).

L'on. Zibordi, che legge con molto profitto il «Corriere della Sera» [una riga e mezzo censurata] ha battezzato soviettista la tendenza trionfante. La qualifica è anch'essa... un episodio. Ormai è acquisito alla cultura che la storia non esiste come obiettività; se la storia è obiettiva si chiama cronaca, ed è noto come gli italiani ripugnino dalla cronaca che significa esattezza, precisione, documento accertato e controllato. Gli italiani sono storici, storici nel significato superbo della parola; giudicano i fatti, non li descrivono. E naturalmente li giudicano «secondo coscienza»; la coscienza si è formata nella tradizione della Manonera, e perciò la Rivoluzione russa e lo Stato dei Soviet sono visti come Manonera; la Manonera nazionale è poi, per reciprocanza, vista come Soviet.

Tutti i concetti, che la tradizione politica aveva costruito, sono stati adattati ai tempi. Democrazia, rivoluzione, popolo, proletariato, socialismo sono stati facilmente «corretti»; è bastato qualificarli veri ossia ben intesi (cultura piroliniana). La tattica è un rinverdimento della tradizione; Manonera diventa autocoscienza attraverso Petrosino e la letteratura individualista assimilata a questo puro eroe.

Per superare i «falsi» socialisti del partito ufficiale anche l'aggettivo massimalista verrà corretto, e anche per esso si avrà un riscontro nella storia.

[Sei righe censurate].

(16 novembre 1918).

PROPOSTA AI CAPOCOMICI

I capocomici delle compagnie nazionali e dialettali che agiscono nei teatri cittadini dovrebbero ritornare ai costumi del buon tempo antico e completare gli spettacoli con una farsa. La pace è ritornata, l'influenza decresce, il «popolo» ha riacquistato il diritto di divertirsi, di spianare le facce immusonite per il cumulo di tanti mali.

Consigliamo ai capocomici una farsa: l'Epidemia, di Ottavio Mirbeau. È una farsa, ma è anche una moralità. È scritta da un antiborghese, ma appunto perciò può essere molto proficua alla borghesia. In questo momento essa è ritornata di attualità. Non perché un'epidemia di tifo minacci di far strage, brillante seconda dell'epidemia spagnola, ma perché la buona borghesia torinese ragiona in confronto di avvenimenti recenti, presenti e che possono diventare endemici nel futuro prossimo, proprio come i buoni borghesi della farsa di Ottavio Mirbeau.

Un grasso e pacifico droghiere descrive un episodio cui ha assistito in via Roma; la sua faccia cicciosa irradia gioia tripudiante. Conclude: «Non mi son mai divertito tanto in vita mia!» Questo cittadino torinese pareva proprio scaturito vivo, parlante, trasudante, dalle pagine del Mirbeau.

Nell'Epidemia si assiste ad una seduta del consiglio comunale di una città marittima francese. Nell'arsenale si è sviluppata la febbre tifoidea: i soldati muoiono; il prefetto marittimo protesta presso il municipio che non sa mai decidersi a risanare le caserme e costruirvi delle buone condutture d'acqua potabile. L'autorità giudiziaria ha tratto in arresto un macellaio, consigliere comunale, debitamente repubblicano, democratico e patriota, perché ha venduto carne guasta ai soldati. Il consiglio rumoreggia, protesta. Il medico consulente, simbolo della scienza e della logica asservite agli interessi di classe, sostiene che l'igiene è una invenzione reazionaria, che la carne corrotta ha virtú stomatiche di prim'ordine, che la febbre tifoidea sa rispettare le gerarchie, cosa per cui colpisce i soldati, ma non gli ufficiali, la plebe, la poveraglia pezzente, ma non il popolo borghese. I consiglieri si entusiasmano alle parole della scienza, e l'entusiasmo arriva al delirio patriottico quando viene ricordata la missione eroica dell'epidemia, che abitua i soldati all'idea della morte per la nazione e per l'ideale.

Quand'ecco che s'avanza un messo di sventura: la febbre tifoidea ha ucciso un borghese, un borghese «piccoletto e rotondetto, dalle gracili gambe, dalla pancetta ben tesa nel panciotto». Succede uno scompiglio. Le piú legittime ed autorevoli opinioni sono state rovesciate. E allora: si riabilita l'igiene, si minaccia la lanterna al collega macellaio, si votano milioni e milioni per l'acquedotto, per il risanamento delle caserme, per tutti quei provvedimenti che assicurino l'integrità fisica dei borghesi, insidiata, minacciata da tanti mali crudeli.

La farsa sarebbe d'occasione, potrebbe dare qualche utile insegnamento ai buoni borghesi di Torino, i quali, una volta tanto, uscirebbero di teatro soddisfatti e non rimpiangenti la spesa fatta. I buoni borghesi di Torino gioiscono per certi avvenimenti e si lisciano la pancia rotondetta. Attenti, signori!

Voi credete che in certi pugni e in certi lucenti arnesi sia simbolizzata un'idea, la vostra idea-interesse. Attenti, signori! Voi siete uomini-portafoglio, le idee finiscono col nauseare certa gente, e i vostri portafogli sono miele molto appetitoso per le vespe. Ci par già di sentire i vostri osanna alla giustizia punitrice, tutelatrice sovrana della libertà e della sicurezza personale.

(19 novembre 1918).

TERZO PIEDIGROTTA

Il negromante conte Delfino Orsi incomincia le evoluzioni magiche per il terzo Piedigrotta torinese. Il negromante conte Delfino Orsi conosce bene l'arte: la carriera è redditizia. Il profitto dà gettiti insperati. Il conte Delfino Orsi continua democraticamente la gloriosa corporazione dei negromanti, degli indovini, degli evocatori di fantasmi e chimere, i quali vendemmiano sul lavoro proletario appropriandosi, con l'astuzia, di una parte del plusvalore. L'astuzia dei negromanti rode il plusvalore in quanto il proletariato è debole: l'astuzia è l'aspetto volpino della violenza capitalistica.

Il conte Delfino Orsi ha promosso due spettacolosi Piedigrotta: 1) il giuramento popolare per la resistenza, prestato dinanzi al Pantheon della Gran Madre di Dio, chiamando a testimonio le divinità della patria, il Padretcrno, il Grande Architetto dell'Universo, lo Stellone d'Italia; 2) lo scioglimento del voto con ringraziamento alla Trimurti propizia.

Oggi si incomincia il rito magico per il terzo: l'omaggio plebiscitario del Piemonte al presidente Wilson. Millecinquecento sindaci, prosindaci, e assessori anziani converranno a Torino verso la metà di dicembre. Ognuno sarà latore di un rotolo: la deliberazione apposita dei consigli comunali per la quale il presidente Wilson è acclamato cittadino onorario di ognuno dei millecinquecento comuni del Piemonte.

Il conte Delfino Orsi si fa promotore dell'omaggio; il conte Delfino Orsi ripeterà quotidianamente nel suo bollettino democratico il richiamo in grassetto. L'incontro avrà tempo di operare; il profitto darà il suo gettito, anzi si voterà un incremento. La cassa del negromante si impinguerà.

Il terzo Piedigrotta sarà anche piú spettacoloso dei primi due. E crediamo sia per essere anche piú ricco di valori. Nel destino dei negromanti c'è un momento ineluttabile, nel quale la Chimera evocata non vuole piú rientrare nel dominio delle larve. La stupidaggine popolare non è poi infinita come il potere del Grande Architetto. La Chimera wilsoniana potrebbe anche divorarsi l'incauto negromante: la democrazia senza aggettivi potrebbe finalmente accorgersi di essere truffata dalla «vera» e «benintesa» democrazia degli astuti indovini.

I millecinquecento consigli comunali del Piemonte discuteranno sulla cittadinanza onoraria del presidente Wilson. È credibile che una parte si domanderà chi sia il futuro cittadino e come nel suo comune originario eserciti la sua parte di sovranità popolare. È sperabile che qualcuno informi i consigli comunali del Piemonte del fatto che negli Stati Uniti non ci siano prefetti che si intromettano negli affari locali, non ci siano questure, e il fisco statale non rapini i cespiti dei bilanci comunali per soddisfare i bisogni delle burocrazie elettorali, che prosperano sugli appalti nazionali, di tutta la caterva parassitaria che professa il culto dell'incompetenza. Le «apposite deliberazioni» potrebbero diventare cahiers de doléance e l'idea della Lega delle Nazioni potrebbe trasformarsi in stimolo per suscitare diffusamente il desiderio di una Costituente dei popoli, trasformantesi per ira come in Russia e in Germania. Il conte Delfino Orsi non ha neppure accennato nel suo giornale al «Piedigrotta » del Soviet in corso Siccardi, ma i Piedigrotta possono essere sempre pericolosi.

(23 novembre 1918).

BALOCCHISMO

I capintesta della Manonera antisocialista (o antibolscevica) sono gelosi della rinomanza di Pietro Balocco. I giornali borghesi, non esclusa la «Gazzetta del Popolo», dedicano colonne e colonne allo squartatore di banchieri, e invece non si occupano mai della fervida attività della Manonera. Di piú: quando i giornali borghesi non possono fare a meno di notare un qualche strepitoso intervento a banchetti, a ricevimenti, a cortei e altre simili sublimi manifestazioni di vita politica democratica, essi non hanno il senso della gerarchia; fanno il nome di picciotti, qualche volta dei guappi, mai però dànno il dovuto spazio alla presentazione dei capintesta, e specialmente del capo dei capi.

E cosí il «Ciccio Capuccio» della Manonera antibolscevica torinese riempie gli organi della Manonera antibolscevica nazionale coi suoi gemiti, coi suoi patetici lamenti; e cosí rivela candidamente la molla della attività sociale.

La Manonera è un momento della concorrenza individuale propria della società borghese. La società borghese è un moto perpetuo, è una rotazione continua di individui, di ceti, di quattrini, di patrimoni. La Manonera è la fabbrica dei servitori della borghesia, servitori che si allenano, che si mettono in vetrina, che millantano un credito illimitato. I borghesi sono placidi, pacifici, ma ammirano la violenza quando è utile alla loro dominazione. I servitori si dichiarano disposti a usare la violenza per difendere la borghesia: si armano, arroncigliano i baffi, grugniscono fieramente, arruolano volontari per una «Guardia bianca» che sappia opporsi ai perversi tentativi bolscevichi, inscenano spettacolosi «gesti» con bandiere nere, pugnali e altri arnesi massonici, ma domandano subito una ricompensa. Subito, perché sanno che la festa non può durare molto, perché la stagione di Dionisio volge al suo termine. Piú tardi la concorrenza diventerà difficile: i concorrenti diventeranno folla e il criterio di scelta sarà il concorso per esami o per titoli d'anzianità. La Manonera domanda oggi pubblicità per i suoi capintesta: la pubblicità è la chiave del successo commerciale rapido; i concorsi sono pericolosi. Bisogna farsi un nome, come che sia; bisogna imporsi alla «piazza». Cosí nasce il «balocchismo», praxis della Manonera. Le signore borghesi hanno sempre dimostrato una grande ammirazione per gli squartatori: bisogna sedurre con lo stesso incanto i signori borghesi. Il «balocchismo» diventerà sociale, sarà disinteressato nei suoi fini immediati. I bolscevichi non offrono ricco bottino, ma la borghesia pagherà lei i suoi servitori, dando rinomanza a dei tapinelli delle professioni liberali, e con la rinomanza il modo di allargare la sfera della attività «commerciale». È nella tradizione di tutte le «onorate» società, di tutti i fenomeni di brigantaggio: i piú illustri briganti degli annali giudiziari italiani hanno potuto, spesso per decine d'anni, sfuggire alla giustizia punitiva perché protetti dai grandi proprietari che se ne facevano degli amici e degli strumenti nella lotta di classe contro il proletariato agricolo. La Manonera politica socializza la funzione: la maggioranza tende all'espropriazione democratica, essa inscena il terrore bianco, millantando di poter impedire che la storia abbia il suo corso.

(27 novembre 1915).

LATIN SANGUE GENTILE

L'avv. Esuperanzo Ballerini, ufficiale dell'equestre militar Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia, si distrae dalle fatiche cui lo costringe la sua carica di economo generale del regio economato generale dei benefizi vacanti scrivendo versi e prose. L'avv. Esuperanzo dimostra cosí di essere un perfetto italiano e, come tale, di professare un ardente culto per le tradizioni nazionali. I burocratici italiani hanno sempre dimostrato un'invincibile vocazione per le arti belle; essi sono tutti geni incompresi, spiriti elettissimi, costretti dalla sorte maligna a emarginar pratiche ed apporre firme, e pertanto si ribellano al fato: lo stipendio lo concepiscono come un doveroso tributo della collettività al loro genio, che ha bisogno di ozio con dignità per affermarsi e glorificare in versi e in prosa la vitalità della stirpe. L'amministrazione dello Stato non funziona, è vero, ma la letteratura accresce i suoi allori; l'amministrare è vile materialità e i burocratici sono idealisti, squisitamente idealisti e raffinati sacerdoti delle Grazie.

L'avv. Esuperanzo, economo generale dei benefizi vacanti, si sforza virtuosamente di ingentilire lo spirito degli italiani, di sollevare i suoi concittadini fino alle vette della gentilezza e del buon gusto: la collettività spende certo con profitto i quattrini assegnati come tributo nazionale all'avv. Esuperanzo. Ed è piú che giusto che le pubbliche associazioni si facciano patronesse del genio vigorosamente produttivo anche fra la vile polvere delle pratiche riguardanti i benefizi. Ed è piú che giusto che l'Alleanza nazionale, presieduta per la Commissione di propaganda dal prof. Giovanni Vidari, rettore magnifico della R. Università, si faccia editore delle prose letterarie dell'avv. Esuperanzo. Il magnifico rettore, prof. Giovanni Vidari, fa spendere certo con profitto i quattrini affidati al suo controllo ed ubbidisce all'imperativo categorico del suo essere rettore di uno dei massimi istituti di cultura e di educazione nazionale, diventando editore degli «Stelloncini della vittoria» che l'avv. Esuperanzo ha affidato all'Alleanza nazionale e l'Alleanza distribuisce prodigalmente nei teatri e nei cinematografi. Il magnifico rettore, prof. Giovanni Vidari, deve essere molto soddisfatto di sapere che alle signore e signorine frequentatrici di cinematografi e teatri si mettano sotto gli occhi «Stelloncini» cosí briosamente e elettamente concepiti:

«Quando ha incominciato a indebolirsi il blocco centrale?»

«Quando ha perduto Durazzo e i Dardanelli?»

«Cos'è questa tanto strombazzata germanica cultura?»

«Non c'è che da scandere il vocabolo per trovarvi l'espressione del piú depravato gusto teutonico».

Di tali «Stelloncini» l'Alleanza nazionale ha fatto stampare decine di migliaia di fogli tricolori; per l'Alleanza nazionale, presieduta dall'on. Daneo, e per la sua Commissione di propaganda, presieduta dal magnifico rettore prof. Giovanni Vidari, gli «Stelloncini» devono essere espressione tipica del latin sangue gentile, se alla loro diffusione dedicano i quattrini affidati al loro controllo. L'on. Daneo e il magnifico rettore Giovanni Vidari devono avere molta stima ed ammirazione per l'avv. Esuperanzo Ballerini e per le sue prose se consentono all'Alleanza nazionale di farsene editrice e diffonditrice. E noi dobbiamo sempre piú convincerci di non essere latin sangue gentile, di non partecipare dell'anima nazionale, se ci sentiamo costretti a domandare perdono ai nostri compagni operai e contadini di aver riprodotto nell'«Avanti!» le scurrilità dell'avv. Esuperanzo, ufficiale e commendatore, autorizzate da un deputato e un magnifico rettore, le scurrilità diffuse da rappresentanti della burocrazia, del parlamento, dell'università, pilastri della Nazione italiana.

(8 dicembre 1918).

LAZZARONISMO

Il popolo italiano si agita a Torino: correnti spirituali nuove lo percorrono e lo fanno vibrare di santo entusiasmo; innalzato dalla vittoria fino alle purissime cime dell'ideale umano, nella pienezza della sua vita nazionale, il popolo italiano percorre a Torino le vie larghe, si stende nelle grandi piazze, guidato da saggissimi cittadini nei quali ripalpitano le anime-stelle polari di Mazzini, Garibaldi e prof. Lollobrigida. Il popolo italiano sono gli scolaretti medi (noi siamo piccoli, ma cresceremo!), le anime polari sono i proff. Lollobrigida, Cian e Mannaggialarocca Monti; nel sacro Carroccio sventolano al bel sol d'Italia gli stendardi delle città romane della Dalmazia. Audaci drappelli, votati agli scapaccioni, rudi anzichenò, degli operai, prendono d'assalto (o Arditi, milizia che esprimi l'energia immanente della stirpe!) i manifesti annunzianti l'uscita dell'«Avanti!» piemontese e vi affondano voluttuosamente i pugnaletti-temperamatite e i pennini: l'idra proletaria boccheggia per le ferite, e la colla trabocca dagli squarci micidiali. Comizi d'una grandiosa imponenza si radunano dinanzi ai templi della cultura e della educazione nazionale: «Italiani! — rimbomba una voce in cui tutto l'avvenire della stirpe infonde armonia e calore mistico — Soldati! la Gesta non è ancora al suo compimento, morire ancora bisogna: strappiamo i manifesti dell'"Avanti!" e in coro gridiamo: Viva la Dalmazia italiana!» La coscienza sotterranea della stirpe si esprime dalle adorabili rosee boccucce, volano coriandoli e scorze di castagne verso l'alto, dove la nebbia nasconde il sole.

Gli spiriti magni di Vittorio Cian e di Arnaldo Monti stillano intanto dagli occhi commosse rugiade di lacrime nazionali; l'opera diuturna di quattro anni non fu spesa invano; la coscienza della Patria è plasmata; i giornali scriveranno: la volontà del popolo italiano arriverà fino ai responsabili e segnerà l'indirizzo per l'opera ricostruttiva.

Cosí a Torino la Storia partorisce la Nazione rinnovata: cosí l'Alta Cultura universitaria e liceale educa le generazioni nuove. E non si può negare che le tradizioni immanenti nella storia d'Italia non prendano forma. Gli scolaretti disertano le lezioni per ascoltare le concioni: i bimbi d'Italia son tutti Balilla, scrivono poemi immortali con una sassata, escono dal conio materno con infusa la sapienza e la saggezza degli avi. La tradizione istintiva di prima della guerra diventa autocoscienza dopo la vittoria: i maestri, gli educatori si pongono alla testa del movimento di riscossa contro la scuola pedantesca, la scuola in cui i professori fanno lezione e gli scolari assistono e studiano. Tutta Italia è una scuola: nelle piazze e nelle vie è la scuola, i testi classici sono i sassi, la saggezza è negli ululati e nei fuggi-fuggi. L'anima eroica delle giovani generazioni si rifiuta di costringersi nei vecchi schemi della disciplina e dell'ordine, cosí come il classico lazzarone si rifiuta di sacrificare la sua bella libertà, pidocchiosa ma assoluta, per costringersi nella disciplina del lavoro permanente e sistematico. Perché la tradizione immanente nella stirpe, la tradizione che trova nei maestri e negli educatori come Vittorio Cian e Arnaldo Monti la sua autocoscienza, è il classico lazzaronismo italiano.

(18 dicembre 1918).

IL GIORNALE-MERCE

Il giornale borghese è il giornale-merce, quale lo determina la concorrenza commerciale tra i proprietari di aziende giornalistiche. È una pizzicheria, dove una schiera di solerti impiegati affetta, impacca, accumula: formaggi, mortadelle, gelatine, molta patata e poco latte, molto cavallo e poco manzo, molta colla e poco brodo. Non importa: importa solo che ci sia una bella vetrina, molte lampadine accecanti, molti nastri e sbrendoli varicolori. Gli uomini passano e si fermano, abbarbagliati, stupiti: che lusso, che buone cose appetitose, che ricchezza, e tutto per una vilissima moneta. E gli uomini entrano e comprano e se ne vanno soddisfatti del lusso, dei colori, del garbo signorile dei nastri, e degli sbrendoli multicolori: e l'illusione fa inghiottire i cattivi cibi senza nausea, senza vomiti, sebbene il corpo si denutrisca e il cervello si atrofizzi e le idee non facciano piú ressa per esprimersi, ma solo lentamente si avanzino a una a una, come vecchiette grinzose appoggiate al bastone che ogni cinque passi si soffermano per frugarsi le tasche ed estrarre la tabacchiera ed annusare lungamente la presina: senza quel tabacco imbalsamante non potrebbero vivere.

Ebbene, no; il nostro giornale «Avanti!» non può essere un giornale-merce, non può essere una pizzicheria imbottita di tutte le cianciafruscole, adorna di tutti gli specchietti che attirino le allodole; il Partito socialista non è una fiera dove Barnum batte la grancassa per attirare gli ingenui. L'«Avanti!» è giornale unico, senza concorrenti, è il «prodotto» necessario che si acquista perché necessario, perché insostituibile, perché corrisponde a un bisogno intimo, irresistibile come il bisogno del pane per uno stomaco sano. Chi compra l'«Avanti!» non sceglie, non può scegliere: si sceglie tra due cose simili, diverse solo per gradi di perfezione, tra due cavalli, tra due case, tra due bastoni, tra due giornali borghesi.

Ma chi è socialista, chi vuole (vuole, intendiamoci, e non già desidera vagamente o sospira o geme o smania, ma vuole concretamente) che il socialismo informi dei suoi valori morali la società degli uomini, chi vuole la società organizzata in modo che ogni uomo abbia un compito utile ed esso sia il piú acconcio alle sue attitudini, in modo che ogni uomo dia il massimo del suo rendimento e la sua attività sia coordinata all'attività universale in una armonia che elimini ogni sofferenza inutile, ogni dispersione di energia e di spiritualità; chi, già oggi, immerso nella società del traffico mercantile, nella società in cui si fa fortuna sacrificando gli altri, pugnalando la propria madre, prostituendo la propria sorella, tesaurizzando la fame e il sangue degli uomini; chi è socialista ed ha ucciso in se stesso, nei rapporti con i compagni di fede, la frenesia individualistica, la brama di arraffare, arraffare per sé dando del suo il meno possibile — costui non può scegliere tra l'«Avanti!» e un altro giornale, non può confondere l'«Avanti!» con un giornale-merce. Egli sa di essere una parte dell'«Avanti!», parte viva, parte attiva; sa che l'«Avanti!» non è un'azienda capitalistica, i cui azionisti arrischiano il denaro altrui per ricavarne utile proprio con l'inganno e l'illusione della merce appariscente e bene strombazzata, ma rappresenta, già oggi, in piena società mercantile, il principio antimercantile, il principio comunistico, che impone la sincerità, la verità, l'utilità essenziale anche quando paia immediatamente dannosa. Comprare l'«Avanti!» significa pertanto essersi resi indipendenti dalle leggi mercantili del capitalismo, vivere già oggi il comunismo e avvicinare quindi la società comunista.

(27 dicembre 1918).

IL DISGUSTO

Stando in una vettura tranviaria, mi venne fatto, giorni sono, di udire le espressioni di vivo compiacimento di un gruppo di lettori torinesi dell'«Avanti!» per la sua nuova tiratura mattutina, che li preservava, dicevano, dal quotidiano disgusto connesso all'obbligatorio acquisto di un foglio borghese.

Piantatosi cosí solidamente nel dominio dei fatti concreti, il prof. Giuseppe Prato, per due colonne e diciassette linee di un foglio borghese, apre la fontanella dei prodotti che di solito seguono al disgusto. Poiché il prof. Prato è invece disgustato, nauseato, rivoltato dalla lettura dell'«Avanti!» torinese: e siccome il prof. Prato è un democratico serio e tende al progressivo sviluppo dell'umanità verso il bello e il buono, consiglia a tutti i borghesi: «Leggete l'"Avanti!", vi disgusterete, sentirete nausea e conato di vomito, ma diventerete "veri e sani borghesi"».

Il «vero e sano borghese» acquista consapevolezza del suo essere quando vomita: egli s'accorge allora come qualcosa di piú alto e piú vasto che gli interessi d'una classe o gli ideali di un partito sia veramente in gioco. Si tratta del patrimonio integrale di cultura e di pensiero che secoli di lavoro, di lotte, di sacrifizi, ecc., ecc. Questo patrimonio è in pericolo. Esso è intatto, naturalmente; la guerra non lo ha diminuito, poiché la guerra ha migliorato gli uomini, li ha affinati, li ha ingentiliti, ha fatto perdere loro ogni abitudine di violenza, di frode, di menzogna; la guerra ha liberato il pensiero da ogni pastoia, rendendolo disinteressato nel perseguire il fine che gli è proprio, la verità. La guerra ha democratizzato la società, il suffragio universale dà al maggior numero la sovranità dello Stato.

L'«Avanti!» invece, quale disgusto! L'«Avanti!» propugna il bolscevismo integrale; vuole abolire il suffragio universale per dare la sovranità dello Stato ai produttori, i quali sono un'oligarchia, anzi una oclocrazia, poiché in Italia lavorano e producono solo gli straccioni, lavora e produce solo un'infima minoranza di irresponsabili, volgari, triviali, iloti ubriachi, mentre il maggior numero amministra il patrimonio integrale di pensiero e di cultura. L'«Avanti!» vuole eliminare dalla società gli intelligenti, i capaci, i luminari delle scienze e delle arti, perché... cosí hanno fatto i bolscevichi russi, i quali, è noto anche ai gatti miagolanti alla luna, mangiano uno scienziato a pranzo e uno scrittore a cena e solo cosí hanno potuto sopravvivere alle leggi economiche liberali abolite. L'«Avanti!» è l'Anticristo, è il pecoro a due teste, è il serpente pitone, è il terremoto, è la febbre spagnola: l'«Avanti!» è un emetico che i borghesi devono ingurgitare per avere la nausea e il vomito e diventare seri e veri. O borghesi «leggete l'"Avanti!"»

Cosí parla il prof. Giuseppe Prato, democratico liberale e scienziato che studia e pensa. Disgusto? Ma no, riso, allegro riso per questo barbassore che scrive della Russia, del bolscevismo, del comunismo, dei Soviet, della produzione, della civiltà, raccogliendo tutti i fondacci giornalistici, che manca dell'elementare spirito critico necessario per distinguere un pettegolezzo da un «documento».

(14 gennaio 1919).

GRAMMANTIERI E CHIARLA

Il generale Pietro Grammantieri — ferito di guerra, decorato al valore, promosso colonnello per meriti speciali di guerra e dopo quattro mesi promosso generale — è stato collocato a riposo, d'ordine del ministero della guerra, per essere intervenuto alla conferenza Bissolati alla Scala quale membro del Consiglio centrale della Famiglia italiana della Società delle Nazioni e aver ricordato agli ufficiali turbolenti il dovere della serietà e della disciplina.

Il generale Chiarla, comandante del presidio militare di Torino, è intervenuto a un banchetto politico offerto agli studenti dalmati nel ristorante Scribe; il generale Chiarla vi ha pronunziato un discorsetto di «parole sincere e spontanee» per salutare i «fratelli dalmati». Il banchetto aveva un preciso significato di azione governativa immediata, perché coronava una riunione di intellettuali demagoghi all'università, nella quale era stato acclamato un ordine del giorno rinnovante, tra la molta retorica pseudoletteraria, il fatidico giuro: Dalmazia o morte!

Ma il generale Chiarla non sarà collocato a riposo, sebbene non sia ferito di guerra e «non abbia avuto l'occasione» di meritarsi promozioni per meriti specialissimi!

I democratici protestano contro la misura presa contro il Grammantieri, protestano contro il militarismo che non si smentisce. I democratici fingono di non essere guariti dalle rosee illusioni; per essi il militarismo «potrebbe smentirsi», potrebbe snaturarsi e non essere piú militarismo pur continuando ad essere militarismo.

Anche la disciplina militare è una finzione giuridica, anche l'«apoliticismo» militare è una leggenda. L'esercito rappresenta, nel regime capitalista, l'aggressività potenziale della classe che domina lo Stato; non può concepirsi un esercito pacifista, come non può concepirsi un proletariato riformista. Il riformismo del proletariato, il pacifismo dell'esercito sono stati di marasma, di alienazione, sono stati transitori. Il proletariato si allena per la rivoluzione, l'esercito si allena per la guerra, la guerra che non può non essere concepita come tattica permanente degli Stati borghesi, come la lotta di classe è tattica permanente del proletariato. Cosí è, cosí deve essere; Grammantieri ha torto, ha ragione Chiarla, sebbene «legalmente» il torto e la ragione siano viceversa. Grammantieri sostiene la pace perpetua e la Società delle Nazioni, che il governo afferma voler conseguire; Grammanticri, servitore dello Stato, si mantiene nel solco verbale dell'attività dello Stato, ubbidisce alla disciplina ideale che lo Stato afferma di volere instaurare nel pubblico costume; Grammantieri non preme per un'azione politica che ponga in pericolo il bene patrimoniale e la vita dei cittadini, che contribuisca a fare iniziare un'intrapresa in cui la sicurezza dello Stato corra un qualsiasi rischio. Eppure egli ha torto, egli viene punito. Le parole sono una cosa, la realtà è un'altra. I generali democratici vengono eliminati in tempo di guerra; ci vuole il cattolico Foch non il repubblicano Joffre, il «guerriero» Chiarla non il «generoso romagnolo» Grammantieri, anche se Chiarla non è disciplinato e partecipa a banchetti che hanno un significato politico, che, nella loro minimezza, vogliono contribuire a spingere lo Stato in una intrapresa che potrà porre in rischio i beni e la vita dei cittadini. Chiarla tiene alto lo spirito bellicoso, il «morale» dell'esercito, allena i subalterni all'idea della guerra potenziale nel regime. Egli acquista merito, egli verrà probabilmente promosso «per merito di guerra».

(21 gennaio 1919).

CRISI... IDEALISTICA

Luigi Grandolini si riabbona all'«Avanti!» e dichiara che «il Partito socialista era nel vero, avversando la guerra delle borghesie dominanti». Luigi Grandolini, in una «lettera aperta al segretario politico torinese dell'Unione socialista italiana» — prolissa e sgangherata quanto si addice all'espressione di una esulcerata coscienza in crisi — protesta indignato contro il governo ladro che non mantiene le promesse che Luigi Grandolini ha fatto al «popolo», protesta indignato contro i re, gli imperatori e i presidenti che fanno orecchio da mercante e dimostrano spudoratamente di voler rimanere al loro posto, intestardendosi nel lasciare Luigi Grandolini in condizioni tali da non poter mantenere la parola data al «popolo» che la guerra mondiale sarebbe stata l'ultima delle guerre e la pace vittoriosa — raggiunta con la resistenza e il virtuoso sacrifizio del popolo generoso ed eroico — avrebbe significato disarmo, Stati Uniti del mondo, radicale trasformazione politica economica sociale, Bengodi con salsicce e gnocchi per tutti i diseredati.

Luigi Grandolini, infine, rivendica la sua buona fede, l'interezza della sua coscienza, l'entusiasmo umanitario e idealistico, che lo spinsero ad «abbracciare» la santa causa della guerra e a propugnare l'Unione socialista nazionale contro l'internazionalismo classista del Partito socialista.

La crisi del pentimento del Grandolini individualmente vale quanto una zirlante zanzara cocchiera; e a Torino l'interventismo «rivoluzionario» non supera, in nessun altro capoccia, la statura intellettuale del ridevole Maddaleno. Ma la crisi è diffusa: tutta la «vera» democrazia italiana, «veramente» rivoluzionaria, è in crisi, e si dispera e si dibatte angosciata. Tutta l'intellettualità italiana — che aveva accettato il dolce incarico governativo di propagandare e persuadere i soldati e il popolo, che aveva promesso, che aveva giurato — è oggi in crisi. Il povero idealismo politico attende spasimoso l'approssimantesi tuffo in poco odorosi recessi.

L'idealismo politico è stato convinto di slealtà; la classe intellettuale italiana è rea confessa di millantato credito e di truffa all'americana. Aveva promesso senza avere la capacità di mantenere, aveva giurato al contadino che, arrischiando la vita o la validità al lavoro, avrebbe conquistato per i figli la pace e la giustizia sociale e la sicurezza alla vita. Perché aveva promesso? Perché aveva giurato? Quali garanzie aveva? Su quale potenza fondava la sua azione di convincimento delle anime semplici e ingenue? Ed è galantuomo chi promette senza avere il mezzo di mantenere, chi spinge alla morte un padre, affidandolo all'avvenire dei figli, e ai figli è capace solo di offrire belle parole? La classe intellettuale italiana è stata sleale, è stata disonesta, negli individui singoli; socialmente è stata piú criminosa, perché ha imbarbarito il popolo, perché ha rincrudito nel popolo la tendenza allo scetticismo e alla diffidenza antisociale. L'omaggio che la zanzara cocchiera Luigi Grandolini rende esplicitamente al Partito socialista oggi e che gli «intellettuali» idealistici democratici implicitamente rendono, non ci lusinga né ci intenerisce: esso viene da gente squalificata moralmente, politicamente e intellettualmente, da individui convinti di slealtà e di truffa, da smidollati senza nobiltà, che per rigenerarsi non sono neppure capaci di un atto eroico di sacrifizio personale quale avrebbero il diritto di pretendere da loro i ciechi e i mutilati, gli orfani dei padri, che essi, con le loro promesse sleali, hanno infervorato nell'opera vanamente gladiatoria.

(23 gennaio 1919).

UN SOVIET LOCALE

La Fiat è diventata una colonia nord-americana, dove i probi pionieri wilsoniani, con tenacia e perseveranza, lavorano per creare il primo nucleo sociale italiano della Società delle Nazioni. Il capitalista Agnelli è convinto assertore della pace perpetua. Convinto e volenteroso. Una grande idea ha conquistato la sua coscienza. Può un uomo d'azione, un realizzatore, un creatore, un demiurgo della statura di Giovanni Agnelli, lasciare che le grandi idee ammuffiscano nelle soffitte della coscienza? La coscienza di Giovanni Agnelli è un granitico blocco senza interessi e screpolature: fede vi significa azione, concetto universale vi significa atto storico concreto. L'Agnelli è un uomo moderno, è un militante dell'ideologia democratica; vuole la libertà dei popoli, il riconoscimento delle nazionalità battezzate e cresimate con l'autodecisione plebiscitaria e la costituente. Vuole concretamente e, pertanto, da fedele milite dell'ideale, suscita, nella sfera d'azione della sua volontà individuale, le condizioni necessarie e sufficienti perché il vero diventi fatto, perché l'ideale si attui in istituto storico efficiente. Ed ecco come la Fiat è diventata nucleo sociale organico della Società delle libere nazioni.

Perché le nazioni siano libere, è necessario che gli individui siano «disciplinati» alla libertà nazionale. Gli individui che, per dovere professionale e per ragion pratica di sussistenza, frequentano la Fiat, possono avere interessi contrari e idealità contrastanti con la Lega delle libere nazioni. È necessario quindi sottoporli a rigoroso controllo e disinfezione, e prevenire ogni loro azione che intralci l'inveramento dell'idea. La Fiat, nucleo originario della veniente Società delle Nazioni, si trasforma in uno Stato sovrano, che ha il suo monarca, il suo ministero esecutivo e gli organi di ordinaria amministrazione statale volgarmente conosciuti col nome di polizia. Ecco dunque la giustificazione storica e razionale delle «colombe» che tutelano l'ordine interno della Fiat («colombe», intuizione gentile linguistica, in cui si contempera la realtà e l'ideale, la pace nell'ordine, la libertà ben intesa e l'autorità; aver scelto la colomba come distintivo della polizia interna nella Fiat, è documento della genialità moderna e wilsoniana del cav. Agnelli). Le «colombe» si sono rapidamente identificate con la dialettica finalistica della Società che sono destinate ad annunciare ed a far nascere; esse capiscono che il metodo migliore di governo è prevenire e non reprimere. Pertanto presuppongono che ogni cittadino del nuovo felice Stato della Fiat sia un ladro, e controllano, controllano, perquisiscono, frugano. Ma non bisogna offendersi; il regime delle libere nazioni ha le sue inevitabili esigenze, cui bisogna sottostare per il felice progresso dell'umanità.

Come bisogna sottostare al controllo politico? Potrebbe realizzarsi l'ordine nuovo wilsoniano, se fosse concessa libertà di propaganda e d'azione agli sconsigliati mestatori che pretendono insolentemente di pensarla in modo diverso da Wilson e da Agnelli? La Società delle Nazioni vuole instaurare la pace perpetua, all'interno e all'estero. La lotta di classe, turbando i rapporti di produzione e di scambio, genera malessere interno e genera necessità di guerre esterne. Il capitalista, per soddisfare le domande delle maestranze, dovrebbe far pressione sullo Stato centrale per indurlo a conquistare nuovi mercati di esportazione; e allora, la pace perpetua, me la saluta lei? È necessario quindi il controllo politico che impedisca la concentrazione degli operai intorno a un'idea, all'idea socialista, che suscita bisogni insolenti e stimola insolenti domande e, insolenza insolentissima, suggerisce i mezzi adeguati e fruttuosi per costringere i capitalisti a soddisfare le insolenti domande. Ecco dunque la giustificazione razionale e storica della creazione, nel felice Stato sovrano della Fiat, di un corpo di sorveglianti politici che «prevenga» gli operai dal fare propaganda per l'«Avanti!» e per l'idea dei Soviet proletari.

Cosí la Fiat diventa nucleo originario ed organico della Società delle Nazioni, si badi, non degli Stati. Lo Stato accentrato politicamente nel parlamento è forma politica piccolo-borghese. Lo Stato capitalista è la Società delle Nazioni, Stato di classe squisitamente cosmopolita com'è il capitalismo. Gli organi efficienti e storici della Società delle Nazioni sono gli aggruppamenti industriali, o Soviet dei capitalisti. In Italia è nato il primo Soviet dei capitalisti, la Fiat di Giovanni Agnelli, piccolo Stato locale con polizia propria, con un organo giudiziario preventivo proprio, con una legge «generale» propria, che dovrà instaurare la Società delle Nazioni, ossia la esplicita dittatura del capitalismo che abolisce la lotta di classe col terrore bianco, per evitare che sorgano i Soviet dei proletari che aboliscano loro le classi col terrore rosso. La dialettica storica continua a svilupparsi, unificando i contrari. Siamo giunti al Soviet. Lo sviluppo ulteriore dirà quale forza storica aggettiverà permanentemente il sostantivo: capitalista o proletario?

(5 febbraio 1919).

COVRE

Falsi capitani, falsi tenenti, falsi eroi, falsi mariti: la cronaca diventa ogni giorno piú ricco repertorio di spunti novellistici e farseschi. Ma la cronaca del falso capitano, falso tenente, falso ardito, falso eroe del Montello, Luigi Covre, è alquanto diversa dalle altre. Covre non è un avventuriero comune. Covre è un «eroe» sociale, è un individuo rappresentativo, ha rappresentato per otto giorni l'«anima» collettiva della classe dirigente torinese, è stato per otto giorni il dittatore di Torino, ha sostituito il prefetto, ha sostituito l'eccellenza sua generale del Corpo d'annata, ha esercitato funzione stataria. Ed era un avventuriero, un falso capitano, un falso tenente, un falso ardito, un falso eroe del Montello, ed era stato licenziato dalla Cassa di risparmio e denunciato per truffa, licenziato dalla Cassa di risparmio della quale è presidente il senatore di Cambiano, il marchese Ferrero di Cambiano, proprio il senatore marchese Ferrero di Cambiano che presiede l'Unione liberale monarchica, proprio il senatore marchese che presiede l'organizzazione politica della classe dirigente torinese e il quale parlò ad una riunione di ufficiali, chiamati a rapporto nel salone Ghersi in seguito alle imprese da Masaniello gallonato del falso capitano, ecc., ecc., avventuriero truffatore Luigi Covre.

Perché Masaniello Covre poté, per ben otto giorni, scorrazzare le vie e le piazze di Torino col suo codazzo di armati di coltello, poté capeggiare un pronunziamento contro la prefettura, poté oltrepassare, le tasche piene di sassi, in un'automobile «ufficiale», il cordone di carabinieri che circondava la Casa del popolo di corso Siccardi, poté lanciare i sassi nel salone gremito di operai, di donne, e di bambini, poté [cinque righe censurare]? Perché non fu arrestato, perché il senatore marchese di Cambiano non lo indicò come un truffatore, il senatore marchese che presiede la Cassa di risparmio e l'organizzazione politica della classe dirigente di Torino? No, non è un avventuriero comune questo falso capitano Luigi Covre; Torino non è una trattoria dove un falso eroe riesca a sbafare cibi e vini; il prefetto, l'eccellenza sua generale del Corpo d'armata non sono ingenui filistei che si possano lasciar abbagliare dal luccichio di medaglie e di discorsetti; gli assembramenti che applaudivano le concioni cannibalesche di questo avventuriero tra il Masaniello e il Coccapieller, non erano lazzaroni napoletani affamati dalla gabella sulle frutta, o artigiani romaneschi incantati dalla fraseologia demagogica di un paranoico della politica.

[Quattro righe censurate]. E Torino ebbe il suo Masaniello, ebbe il suo Coccapieller, Luigi Covre, che non è un avventuriero comune, non è un volgare scroccone, ma un eroe, un eroe sociale, un uomo rappresentativo, il quale continua la serie di quegli eroi rappresentativi che nella Terza Italia, nell'Italia del capitalismo, abbondano piú dei Cromwell, dei Martin Lutero e dei Mazzini.

(19 marzo 1919).

BILANCI ROSSI

I bilanci rossi della Russia soviettista sono passivi, crudelmente passivi. Il «Momento» ne piange come un vitellino, il «Momento» ne soffre con tutta l'anima sua francescana.

Pensate, pensate: 13700 persone fucilate al primo gennaio 1919 come controrivoluzionarie, senza contare quelle condannate «per intuizione»; pensate, pensate, lo ha dichiarato lo stesso commissario Lissoflski. E diciassette miliardi di deficit, pensate, pensate, piangete, piangete, o cuoricini di burro alberganti nei seni di zucchero filato delle tenere Perpetue e dei sentimentali curati! Vade retro, o comunismo, qua l'aspersorio contro il Soviet; crudeli e nefandissimi mostri apocalittici, giammai fascinerete le tenerissime Perpetue, giammai udrete Te Deum in vostra gloria!

Quando mai apparve sulla incruenta terra una macchina di strage, un flagello distruttore di vite e di miliardi, cosí orripilante come la Rivoluzione soviettista?

Cos'è stata la strage degli Albigesi? Un gioco da giardino d'infanzia (e, per carità, non pensate mica che Innocenzo papa sia stato un precursore dell'«intuizionismo», quando predicava di uccidere, di uccidere, poiché tanto il Signor Iddio Misericordioso avrebbe, egli, nel suo onnisapere, sceverato la bianca agnella dalla pecora tignosa; dimostrerete di essere solo un volgare anticlericale, senza rudimento alcuno di teologia e di catechismo). Cosa è stata la guerra dei contadini in Germania? Un giocattolo di Norimberga, sebbene si affermi abbia distrutto dodici milioni di vite umane. Cosa sono state le distruzioni di fiamminghi, di Incas e di marrani commesse dai cattolicissimi re spagnuoli? Servizi alla santa religione sono stati, corvées devotissime di vassalli del Signor Nostro Onnipotente Gesú Cristo.

Cosa sono i dieci milioni di morti e dieci milioni di invalidi e mutilati, eredità della guerra che Sua Santità Benedetto ha definito «inutile strage», ma che il «Momento» crede utilissima, poiché Sua Santità è Pontefice della Chiesa Cattolica, mentre il «Momento» è solo organo del Partito popolare italiano? Cosa sono i venti milioni di morti per grippe o febbre spagnuola o peste polmonare, ossia peste di guerra, determinata e propagata e coltivata dalle condizioni create e lasciate dalla guerra? Cosa sono le migliaia e migliaia, di creature umane che muoiono quotidianamente di fame, di scorbuto, di assideramento in Rumenia, in Boemia, in Armenia, in India, per accennare solo a paesi amici dell'Intesa? Cosa sono gli ottanta miliardi di deficit del bilancio italiano, i centoventi miliardi del bilancio francese, i duemila miliardi di danni determinati dalla guerra? Cosa sono stati i cinquecentomila russi sterminati dal governo czarista nella repressione dei Soviet del 1905? Cosa sarebbero i venti milioni di russi che verrebbero sterminati se trionfasse la controrivoluzione dei generali Krasnof, Denikin e Kolciak, gli amici dell'Intesa che fanno impiccare ed esporre per tre giorni un operaio su dieci dei paesi che riescono a riconquistare, gli amici dell'Intesa che spediscono a Pietrogrado vagoni piombati di soldati soviettisti tagliati a pezzettini? Cosa sono, cosa sono?...

Bazzecole, piccolezze, azioni magnanime, in confronto di 13700 fucilati e 17 miliardi di deficit. La rivoluzione sociale è il flagello, è il mostro apocalittico. Cos'è, cosa vale infatti una vita proletaria in confronto di una vita borghese? Studiate economia, che diamine; un borghese vale almeno diecimila proletari; i 13700 fucilati dai Soviet valgono dunque 137 milioni di proletari e non sono 137 milioni di proletari che il capitalismo internazionale ha svenato per i suoi affari, per concimare le sue messi. Piangete, piangete dunque, tenerissime Perpetue e sensibilissimi curati del Piemonte, e non lasciatevi fascinare dal comunismo, dal Soviet, dalla rivoluzione sociale.

(4 aprile 1919).

PROFUMI DI ROSE

Profumi di rose da due giorni si diffondono per la penisola. Non ve ne sentite imbalsamati? Non vi abbandonate deliziosamente all'incanto che si propaga per le terre brulle di uomini e di frutti?

Un uomo specialmente deve fremere con tutti i suoi nervi, deve aspirare voluttuosamente gli olezzi che promanano dall'Oriente gravido di misteriosi eventi.

Oggi quest'uomo si è impicciolito fino a farsi una umile margheritina prataiola. In tempi remotissimi (cinque anni non sono stati cinque secoli di storia? e poiché la storia è ricordo di gesta, e gli italiani difettano di memoria, cinque anni non sono stati cinque millenni nella coscienza storica degli italiani, che difettano di memoria?) quest'uomo fioriva a Torino come superbo e magnifico girasole, destava molta invidia e molta ammirazione, nutricava coi suoi opulenti semi uno stuolo chiassoso di pappagalli lusingatori, e credeva di essere il motore del sole (debolezza tradizionale di ogni girasole).

Erano allora rinati tutti i miti febei. Il sangue di Enea rifermentava nelle vene arteriosclerotiche di professori e giornalisti e siderurgici ed armatori; le volontà si protendevano verso l'Oriente, ed avremmo gli Argonauti tentanti le difficili strette dardanelliche, e avemmo le infauste Sirti che il miraggio solare, o girasolare, faceva popolate di vigne, d'oliveti e di pingui orti messianici.

Cinque anni sono trascorsi e paiono cinque millenni e pare che tutto sia sprofondato nel buio della preistoria. Ma qualcosa sornuota l'abisso, qualcosa ricongiunge la preistoria all'attualità: questo profumo di rose che giunge da Adalia, questo acuto olezzo orientale che deve far fremere un nitrito feroce nella gola secca dell'arrembato ronzino wilsoniano che fu già stallone di guerriero, che deve far sollevare la pendula corolla pensosa alla margheritina prataiola che fu già superbo e magnifico girasole. Il senatore Frassati deve sentirsi turbato profondamente da due giorni: Adalia è italiana, sono nostri i roseti anatolici. E come la storia si ripete: a braccia aperte sono stati accolti i nostri soldatini, come liberatori, come salvatori. Dove sono i pappagalli lusingatori per solfeggiare le glorie del senatore profeta, per intessere serti all'ardito pioniere che segnò le vie della storia, che mostrò l'Oriente al genio della stirpe dopo avergli mostrato e avergli fatto gustare le delizie degli oliveti cirenaici e degli orti tripolini? I pappagalli si sono dileguati; i donatori di regni e d'imperi non hanno fatto fortuna nel nostro ingrato paese. Che tristezza, che melanconia nostalgica. È davvero sconcertante questo profumo di rose che risveglia il passato remoto; esso turba, come nelle pochades il rivedere appassiti pegni d'amore rifrusta il sangue di due avvizziti melodrammatici ruderi dell'amore. È seccante questo profumo di rose orientali; perché si mescola al profumo del garofano rosso-pallido, col quale si cerca di ritentare oggi la fortuna dei miti solari, e ne risulta un asfittico miasma, né rosa né garofano, e il sole si annebbia e non si sa quale sia: il sole dei miti messianici per la stirpe o il sole dell'avvenire? Che tristezza, quanta melanconia si propaga fino a Torino insieme al profumo delle rose di Adalia.

(10 aprile 1919).

IL BORDELLO BOLSCEVICO

Il Fascio di combattimento di Torino commemora il 24 maggio con un «vibrato manifesto». Ecco le piú notevoli vibrazioni del manifesto del Fascio di combattimento di Torino: 1) Guerra, sangue, torture, martirio, gloria, Italia vittoriosa, strozzamento. 2) Plutocrazia, folle impresa, diminuire, mutilare, immortale Italia. 3) Orde teutoniche, valore nostri soldati, mercato di popoli. 4) Suolo di Francia, neutralità italiana, vittoria Marna, agenti asburgici, Austria assassina. 5) Salvamento intesa e mondo, feudalismo militarista tedesco, ignobilmente tradita, indegnamente spogliata ed insultata. 6) Arnesi luridi del disfattismo, sconcio letamaio, carne da sciacalli, bordello bolscevico...

Fermiamoci. Il manifesto dice proprio che «l'Italia non è carne da bordello bolscevico» e vorremmo domandare ai fascisti, combattenti e vibranti nei manifesti, qualche lume in proposito. Il bordello bolscevico è la Russia dei Soviet come viene dipinta dalle agenzie degli emissari dei Cento neri: un immenso recinto, circondato da un cordone sanitario, abitato da centoventi milioni di uomini e donne, entro il quale ogni legge divina, umana, democratica, civile, giustinianea, napoleonica, zanardelliana, viene violata spudoratamente: si stupra, si ruba, si saccheggia, si incendia, si scuoia, si mangia la carne umana, si mozza la coda ai cani, si fa la barba ai gatti, si condisce l'insalata con succo di scarafaggi, si lubrificano gli alberi di cuccagna con grasso di impiccato; insomma una baraonda, un caos, una repubblica, un Soviet, un inferno, un pandemonio.

Ecco il bordello bolscevico, del quale mai e poi mai l'Italia sarà carne.

Ma se l'Italia fosse già ciò che i fascisti non vorrebbero fosse? Se l'esistenza stessa dei fasci fosse un documento che l'Italia è già ciò che i fascisti non vorrebbero fosse?

Le parole sono paglia: importano le cose. E cos'è questo scatenarsi di forze irresponsabili e incontrollate che si sovrappongono agli organi legittimi dello Stato? Indisciplina, disordine, caos sociale, «bordello bolscevico». Cosa sono questi fasci, queste associazioni, queste leghe di militari e borghesi, di ufficiali e soldati? Faziosità, sbriciolamento, decomposizione, «Soviet». Governo, parlamento, magistratura sono diventati nomi senza soggetto attivo, larve evanescenti in questo crepuscolo di sangue e di follia.

Lo Stato si disfà, corroso da questi microbi impuri che nascono dalla putredine e determinano nuova e piú immonda putredine.

La dittatura del proletariato, il nuovo Stato dei Consigli operai e contadini, è nell'ordine delle cose inevitabili appunto per l'esistenza del «bordello bolscevico». La società non può vivere senza Stato: lo Stato è la società stessa in quanto concreto atto di volontà superiore all'arbitrio individuale, alla fazione, al disordine, all'indisciplina individuale. Gli antibolscevichi «bolscevichi» moltiplicano gli arbitri, la faziosità, il disordine, l'indisciplina individuali; i bolscevichi anti «bolscevichi» si preparano a domarli imponendo loro con le cattive, col tribunale rivoluzionario, con la tessera per i viveri, col controllo degli operai e contadini, di lavorare di piú e di vibrare di meno.

(24 maggio 1919).

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1 «Chi ha pratica dei tribunali sa che molto spesso un magistrato, presa la decisione e stabilita la sentenza, incarica un suo piú giovane collega di "ragionarla", ossia di apporre una parvenza di ragionamento a ciò che non è intrinsecamente e puramente prodotto di logica, ma è voluntas di un determinato provvedimento. Questo procedere, se ha il suo uso nella cerchia pratica o giuridica, è affatto escluso da quella della logica e della scienza» (B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari 1917, pp. 87-88).

VIGLIACCAMENTE

Sono ormai sette settimane (come nella storia del piccolo naviglio) da che un brivido ghiacciato rattrappisce le ossa, i muscoli, i nervi nostri. Sono ormai sette settimane da che il piccolo naviglio tenente Massimo Rava (presentazione autoprotocollare del tenente Rava Massimo: «un avversario deciso, colla mente e coi muscoli sani», «un rompiscatole soldataccio che ha il malvezzo di scagliar fulmini», «uno scavezzacollo che non è abituato a lasciarsi pestare i calli»), dopo aver difeso il proprio paese contro il nemico esterno, è ritornato al natio luogo (a differenza del prode Anselmo, il prode Massimo è ritornato al suo natio luogo), e subito si ha sentito uno scossone, e subito ha fondato la «Riscossa nazionale», settimanale di riscossa nazionalista, e subito riscosso ha iniziato dal suo blockhouse un fiero lanciamento di fulmini contro il nemico interno, contro il bolscevismo, contro la tirannia rossa, contro lo sbafo socialista, contro le tartine alla crema, contro gli evoluti e coscienti analfabeti, contro tutte le turpi superfetazioni, contro i caporioni del Pus, contro l'Avanti-Indietro! Sono ormai sette settimane da che il fresco tambureggiamento dello strenuo manipolo della morte condotto dal prode Rava ci investe, diritto come la fiamma del lanciafiamme, sicuro come il pugnale dell'ardito, implacabile e asfissiante come la prosa del prof. Vittorio Cian. Sono ormai sette settimane da che intorno alle nostre teste guizzano i muscoli potenti e le vibrazioni delle callosità mentali dell'atleta nazionale Rava Massimo, e un incubo ci opprime e ci par di essere trascinati in una sarabanda di giganti calzati di ferro (poveri noi che abbiam le pantofole), che ci urtano, ci pestano e perentoriamente, romanamente, imperialmente ci impongono, col dito teso del prof. Vittorio Cian: «Autonecrofori, in alto le mani!»

Non ne possiamo piú! Proprio, proprio non ne possiamo piú! Non possiamo piú vivere! Non possiamo piú tradire! Non possiamo piú complottare! Non possiamo piú pugnalare alle spalle l'esercito e la patria! Non possiamo piú fare Caporetto! Non possiamo piú torvamente berciare: ben vengano i tedeschi! Non possiamo piú guastare i magnifici frutti della Vittoria!

Cosa faremo, ohi noi? Cosa ci permette di fare sua callosità il signor tenente Rava Massimo? Ecco: la sua callosità ci permette di essere vigliacchi e noi vigliaccamente ne approfittiamo per ripetere: 1) che il signor Rava Massimo è un tenente ed è un nazionalista; 2) che il signor Rava Massimo viola come tenente la disciplina nazionale che propugna come nazionalista; 3) che il signor Rava Massimo viola la disciplina nazionale nel suo nucleo piú sostanziale e originario quale è costituito dalla disciplina militare; 4) che il signor Rava Massimo, il quale, da buon pappagallo nazionalista ripete le tiritere corradiniane e maurrassiane contro l'individualismo corruttore e antinazionale del liberalismo, non si accorge nella sua callosità di essere elemento di decomposizione e di indisciplina, egli che, soldato, al servizio del potere esecutivo, svolge un'attività che intralcia i lavori dell'istituto al quale è subordinato; 5) che il signor Rava Massimo non è ossequente alla gerarchia e allo spirito di corpo, in quanto, tenente dell'esercito, dirige un giornale politico, polemizza con irriverenti demagoghi e arruffapopoli quali noi siamo e ci stimola a mancargli di rispetto e a ricordare ai suoi superiori che l'attività del tenente Rava Massimo è contraria alle leggi dello Stato, alle quali il tenente Rava Massimo e i suoi superiori hanno giurato fedeltà per il bene inseparabile del re e della patria.

Questo possiamo dire e diciamo perché siamo vigliacchi, perché siamo subdoli e specialmente perché ci fa enormemente piacere che ciò che succede succeda. Rava Massimo, tenente e direttore della «Riscossa nazionale», è un granellino di prova documentata della verità socialista: che il vecchio ordine costituzionale parlamentare è in piena putrefazione, poiché l'indisciplina e l'individualismo hanno profondamente corroso anche il palladio della disciplina e dell'obbedienza: l'esercito. Il tenente Rava Massimo ripete ogni settimana che il socialismo è morto; l'esistenza di Rava Massimo come tenente e direttore di un giornale politico, l'assenza di ogni responsabilità costituzionale nelle gerarchie (!) che detengono ed esercitano il potere sono granellini del mucchio di prove storiche che giustificano lo sviluppo e la espansione dell'idea socialista.

(2 giugno 1919).

LA CONSOLATA E IL TRANVAI

Anche i tranvieri hanno una patrona: la Madonna della Consolata. La rivelazione è stata comunicata agli interessati con un manifestino invitante a una cerimonia. Pare che la Consolata abbia già compiuto strabilianti miracoli a beneficio dei tranvieri. La grippe ha colpito i tranvieri meno di altre categorie di cittadini: in questa «scampata mortalità» è riconoscibile l'intervento del gentil ditino della Consolata. È necessario dunque che i tranvieri siano grati e riconoscenti, e per domani, nel Santuario della Consolata, i tranvieri sono invitati a un rendimento di grazia da celebrare «colla onorata divisa» sfilando, bandiere in testa, dalla sacrestia del santuario all'altare della Consolata e dall'altare alla sacrestia, dopo aver ascoltato un discorso di circostanza del «benamato» padre Righini.

Il discorso di circostanza è un appetitoso invito. Mi sono scervellato per qualche ora a ricercare qual nesso possa esistere tra la Consolata e il tram. Nel discorso di circostanza il padre Righini vi accennerà; prego le anime pietose di tenermi informato, di contribuire a erudire il mio cervello sull'agiografia modernissima. Qualche tranviera, nell'impossibilità di recarsi in servizio, è stata sostituita alla manovra dalla Consolata? ovvero la Consolata è apparsa a scongiurare un cozzo? o ha rapito qualche bel tranviere e lo ha trasportato nell'Empireo, perché il sommo fattore lo assegnasse a qualche coro angelico? o esiste veramente, nella storia particolare della Madonna della Consolata, un fatto, un miracolo, un avvenimento che peculiarmente interessi l'introduzione del servizio tranviario a trazione elettrica nella vita moderna? La quistione interessa due categorie di persone: gli studiosi della storia del tranvai nello spazio e nel tempo e gli studiosi di psicologia popolare... Come riesce ai preti di far credere a qualche ingenuo — a un tranviere — che la Consolata particolarmente si interessi alla «categoria» e abbia assunto, presso l'eterno padre, il diritto speciale di intercedere grazie e allontanare la grippe dalla categoria? A quale dimostrazione si attaccherà il padre Righini per convincere i tranvieri che, onorata divisa e bandiera in testa, marceranno dalla sacrestia all'altare e dall'altare alla sacrestia, a convincerli che per questa volta la Consolata ha scampato dalla grippe anche i tesserati del sindacato e del Partito socialista, ma che si tratta di una volta, poiché anche per la Consolata ogni bel gioco dura poco? Ma andranno poi molti o pochi o uno solo, dei tranvieri, a marciare, onorata divisa e bandiera in testa, dalla sacrestia del santuario all'altare della Consolata, per ritornare in sacrestia dopo aver ascoltato il discorso d'occasione del reverendo padre Righini?

(11 giugno 1919).

VALORI

Un agente di borsa, in un giornale italo-francese di Roma, aveva annunziato, con grande sfoggio di entusiasmo lirico-commerciale, il grande evento che si approssimava. L'evento accadde: il figlio unico di un industriale torinese (uno dei «re» dell'industria italiana, proprietario di duecento milioni) si uní in legittime e fauste nozze con una nobildonna romana. Ma allo squillo preventivo degli oricalchi trionfali non segui l'attacco orchestrale. Tutt'altro. Seguirono invece rumorose proteste di gente spaventata: l'insolenza dei nuovi ricchi stimola la «foruncolosi bolscevica»; questa gente che, approfittando di circostanze eccezionali, è riuscita con molta abilità, con poco lavoro e con niente scrupoli a guadagnare milioni e milioni, ha messo su una boria e un'insolenza non affatto minore di quella dell'aristocrazia e non solo butta il danaro, troppo facilmente «intascato», in spese pazze senza accorgersi che intorno a lei il paese soffre angosciosamente di dolori e di disagi; ma pretende anche di essere riverita e inchinata e di portare attorno la tronfia vanità dei suoi biglietti di banca senza che gli onesti protestino e se ne adontino.

Come rappresentanti della «foruncolosi bolscevica», teniamo ad esprimere la nostra opinione sullo scandalo delle nozze tra i duecento milioni torinesi e il blasone romano. E diciamo subito che non siamo stimolati all'odio e al furore, ma invece a una infinita e tenera pietà. Due giovani si sposano, due creature umane uniscono i loro destini? Ma no, sono due valori di borsa che si combinano, che si fondono. Come umanità i due valgono zero: devono essere integrati, devono essere «valorizzati». Egli, per valere qualcosa, ha bisogno di cento milioni, per essere apprezzato deve issarsi su un piedistallo di monete d'oro fino a cento milioni. Ella, anche ella, non vale come umanità, come bellezza, come grazia insostituibile, peculiarmente attuale nella sua personalità, nel suo spirito, nelle sue fattezze insostituibili: anche ella vale se integrata da un titolo, da una tradizione, da un palazzo, da una clientela di parassiti, di adulatori disfattieri, di giornalisti. L'umanità è abolita, l'umanità è offesa: l'umanità è ridotta in cifre, è un gioco di borsa, è il termine di un contratto mercantile. Un matrimonio equivale alla fusione di due istituti di credito o di due aziende industriali, e cosí viene presentato, cosí viene strombazzato dai giornalisti lacchè delle casseforti. L'insolenza, la tronfiezza boriosa è in ciò, piú che nella esibizione dei milioni mal guadagnati: il mal guadagno dipende da tutto il regime, da tutto l'organismo economico-politico. L'insolenza è individuale verso tutti gli uomini come tali. E i poveri borghesi che protestano, non per ciò protestano, ma perché non hanno avuto la mancia, perché non sono stati invitati al pranzo o perché invidiano il vitello d'oro.

Il bolscevismo è specialmente una reazione dello spirito e dell'umanità che vuole essere reintegrata nei suoi valori essenziali, che non vuole piú essere un oggetto di speculazione e di scambio.

(13 giugno 1919).

BUROCRAZIA!

Burocrazia, burocrazia, burocrazia! Ecco un esempio, palpitantissimo d'attualità, dei nefasti della burocrazia: un gruppo di smobilitati si presenta in una caserma (mettiamo che sia la caserma del 50°, in via della Zecca) per ritirare il pacco vestiario e le ottanta lire.

Sono operai che hanno dovuto assentarsi dall'officina (lavorate! produzione, produzione!) e hanno fretta e vorrebbero sbrigare questa faccenduola. No signori, bisogna attendere, la consegna è rimandata: i pacchi non sono pronti, le ottanta lire non sono imbustate. Bisogna ripassare dopo un'ora, dopo due ore, il mattino dopo ecc., ecc. Burocrazia, burocrazia!

Ma se l'operaio, dopo aver aspettato ed essersi stancato, entra in uno dei caffeucci vicino alla caserma (mettiamo in un caffeuccio all'angolo di via della Zecca e via Rossini) per bere un mezzano di birra, egli si accorge che stranissime relazioni esistono tra la «burocrazia» e il caffeuccio. Volete immediatamente il vostro pacco e le ottanta lire? Pagate, pagate, pagate. Si è formato un ceto speciale di speculatori che guadagna sulla «burocrazia»; si è formato durante la guerra, continua a sussistere dopo l'armistizio. Milioni e milioni di lire sono state in tal modo rastrellate; si sono costituite proprietà spesso di centinaia di migliaia di lire. Ogni ufficio dell'amministrazione militare è diventato una sorgente di accumulazione di proprietà privata.

E si prospetta il problema: non è forse questa la natura essenziale della burocrazia? Non si manifesta in questo organo specifico dello Stato democratico parlamentare la funzione essenziale dello Stato stesso, che è quella, non solo di garantire il diritto di proprietà in generale, ma di suscitare in particolare nuovi proprietari, di espropriare continuamente i lavoratori del loro salario, per accentrare moneta e costituire capitali e moltiplicare i proprietari, cioè i pilastri sui quali lo Stato democratico si fonda?

La burocrazia è uno sperpero, dicono i riformatori al dettaglio, non funziona, non serve per i fini ai quali è sorta; bisogna sveltirla, bisogna bonificarla, bisogna renderla utile alla maggioranza. La burocrazia è utilissima, invece: serve a migliaia e migliaia di imbroglioni, di camorristi, di intermediari per viverci su e per realizzare dei risparmi. Tutto il regime capitalista è uno sperpero per la maggioranza (i lavoratori), ma è invece utile per i capitalisti, per i pescicani dell'industria e del commercio. Il regime in genere, accentrato e difeso dallo Stato, ha i pescicani che divorano i milioni; l'organo in ispecie, la burocrazia, ha i pescicani marginali, i pescicani delle migliaia di lire. Per bonificare la specie bisogna bonificare il genere.

(30 agosto 1919).

ODILIO

Il delegato Tabusso, reggente il commissariato di Borgo Dora, è stato nominato vicequestore di Torino. Il delegato Tabusso ha salito un gradino della gerarchia amministrativa e lo ha salito senza esame. Il giorno 29 agosto 1919 rimarrà data memorabile nella vita del delegato Tabusso, al quale un pensiero gentile di madre ha regalato piamente il dolce nome di Odilio.

Tra i motivi costanti che hanno sempre finora operato nel promuovere le azioni degli uomini — il possesso della donna, del denaro e del potere — questo ultimo ha specialmente operato nella crepuscolare coscienza del nostro uomo, che risponde al dolce nome di Odilio. Se i buoni e pii genitori — che la notte, velando con la mano la domestica lucerna, si recavano in punta di piedi a mirare il tenero fantolino Odilio angelicamente addormentato nella rosea culla — avessero intuito l'avvenire, il vicequestore di Torino oggi si farebbe chiamare Napoleone, Baldassarre, Giulio Cesare, Amilcare e non con il dolcemiagolante nome di Odilio. Odilio era nato sotto la stella poliziesca. Egli è diventato il poliziotto-tipo, il vice delegato-tipo, il delegato-tipo, il reggente-tipo di un commissariato, e sarà il vicequestore-tipo. Egli è la praxis poliziesca incarnata. Abborre la teoria, le teorie, le idee generali, lo studio, i libri. Egli è per la pratica.

I gradini della gerarchia del potere li ha superati «sperimentalmente». Tra il fare un esame e l'accoppare un uomo, per distinguersi e acquistare meriti, il dolce Odilio sceglie sempre il pratico accoppamento. Egli conosce un solo principio: il principio di autorità delegato nella sua persona. È avvocato (laureato in legge, ed è noto che oggi sono laureati anche e specialmente i fegatelli), ma ignora la legge. Su lui si dimostra lampantemente come la legge sia una mera finzione, una finzione che diventa tragicamente burlesca quando nella sua persona delegata si inalbera come un asinello infuriato per gli effluvi primaverili e stride e imperversa e accoppa, accoppa, accoppa.

Odilio è diventato vicequestore, senza esame, senza concorso, per riconoscimento di meriti conquistati sperimentalmente. Questa nomina è la somma dialettica di una catena di violenze, di arbitrî, di spavalderie verso l'esterno, verso il vile gregge dei sudditi, verso gli uomini delle strade e delle piazze, verso gli operai, verso i liberi cittadini, in una parola, resi uomini dal trionfo dei sacri principî dell'89, e di vigliaccheria e strisciamenti e bassi servizi verso l'autorità, verso i detentori del potere, una cui particella è delegata nella persona del nostro uomo che risponde al nome mellifluente di Odilio.

Quante violenze, quanti arbitrii, quanti accoppamenti, quanta vigliaccheria, quanti bassi servizi esprimerà la praxis tabussiana perché Odilio veda cadere il vice dalla carica che lo estasia?

(31 agosto 1919).

UN FUNGO PORCINO

Poiché le prime piogge autunnali hanno ammorbidito l'essiccata crosta terrestre (sezione comune di Torino), è naturale sfunghino molti funghi. Queste prime dolci acque hanno avuto conseguenze oneste e liete anche in alcuni crani, non ancora sfracellati da nessuna volante testuggine, perché, avendo la civiltà, sotto specie di fungo da cinciniere, sgombrato il cielo dai rapaci, nessuna aquila può essere tratta dal sicuro istinto a confonderli con le rocce. Pertanto è avvenuto che i cittadini Mazza, Prato, Rosso, Petrignani, Mello, Gastaldi, Battaglia, Baratto, Cuvertino, Torreggiani e Garello — essendosi trovati ad essere precisamente dieci inscritti nel Fascio liberale monarchico, angustiati dal pensiero che tra i tanti comitati, sottocomitati, commissioni, sottocommissioni, leghe, fasci, associazioni, società, sodalizi, confraternite, congreghe, conventicole, congregazioni, consigli, non si era trovato modo di trovar loro un posticino, una carichina, un titolino da inserire nel biglietto da visita; trovando che ad essere in dieci c'era precisamente da costituire un consiglio direttivo con un presidente, un vicepresidente e otto consiglieri — costituissero appunto un consiglio direttivo con un presidente, un vicepresidente e otto consiglieri. Detto fatto, i dieci, costituitisi in consiglio dei dieci, pensarono un programma. Detto pensato, il programma fu scritto. Il programma naturalmente fu apolitico, poiché quanto piú si approssimano le elezioni, e specialmente le elezioni a scrutinio di lista con voti di preferenza, tanto piú tutti i cittadini che non hanno ambizioni e non si umiliano, no, per un biglietto da dieci lire o una croce da cavaliere, a diventare strumenti dell'altrui ambizione, scoprono nell'intimità dei precordi un odio, un odio contro la politica e l'infeudamento ai partiti e la vile sottomissione alla disciplina delle idee, un odio che è altrettanto feroce quanto una gatta in puerperio rinchiusa in una latta di petrolio. E il programma apolitico si propone di migliorare la sorte dei lavoratori con criteri tecnici e, poiché vuole abolire la lotta di classe, non si propone «altra mira fuorché la lotta pel vantaggio economico dei lavoratori».

Cosí dunque è sorta, alle prime piogge autunnali, in via Urbano Rattazzi 9, piano terzo, la «Borsa del lavoro», associazione apolitica e di esclusiva difesa economica dei lavoratori. Essa ha la sede, ha il consiglio direttivo, col presidente, il vicepresidente e otto consiglieri, ed ha la borsa; essendosi aperta col primo ottobre, manca ancora di lavoro; poiché prima di iniziare il lavoro di esclusiva difesa, verranno le elezioni, la borsa aprirà i cordoni di se medesima per affiggere molti proclami alla «vera» classe operaia, «veramente» cosciente ed evoluta; si presenterà con programma apolitico e il candidato preferenziale avrà anch'egli un programma apolitico.

Prime piogge autunnali: i primi funghi sono i funghi porcini...

(3 ottobre 1919).

LA GUERRA CONTINUA, SIGNORI...

Il prof. Romano Pietro e il prof. Cian Vittorio, pilastri intellettuali dei Fasci di combattimento, reparto torinese, continuano la guerra. Dopo avere, con la loro attività di resistenza interna, assicurato all'Italia il trionfo di Vittorio Veneto e aver cosí potentemente contribuito a dissolvere l'impero asburgico, negazione di Dio e della Giustizia umana, i due professori ritengono la lotta non sia finita. L'Italia è minacciata da un'invasione — che fa parte di tutto un rinnovato piano pangermanista, col quale si vuole annientare la vittoria italiana e il suo primato nel mondo — l'invasione dei bambini viennesi. La stirpe teutonica, vinta militarmente dalla virtú dei discendenti di Mario, vuole salvare le sue posizioni facendosi uno strumento della pietà: tutta la manovra è stata preparata con la precisione accurata e metodica propria delle razze inferiori come la germanica. Lo Stato germanico di Berlino abilmente è riuscito a far sí che l'Intesa non permettesse all'Austria di incorporarsi alla Confederazione tedesca; l'Austria è cosí rimasta avulsa da ogni sistema economico.

Una città di tre milioni di abitanti, costituitasi nei secoli con una sua figura e una sua funzione particolare nell'Europa, si è trovata, da capitale di un aggregato di cinquanta milioni di uomini, ad essere la capitale di un aggregato di sei milioni. Vienna si decompone, la sua compagine umana si dissolve; i bambini muoiono, muoiono le donne; la popolazione langue e si esaurisce in una prigione economica senza possibilità di evasione. La guerra continua, implacabile; la distruzione del nemico procede inesorabile. I viennesi dovranno abbandonare la loro sede abituale come un giorno gli ebrei abbandonavano la Palestina; l'emigrazione si è iniziata con l'esodo dei bambini, con l'esodo dei piú deboli, dei piú indifesi che sciamano in cerca della pietà internazionale.

I proff. Cian e Romano si sono fatti un cuore di pietra nella pratica del Fascio di combattimento: essi scendono in lizza contro i bambini di Vienna; essi mobilitano i bambini del Belgio e del Veneto contro i bambini di Vienna, essi svelano il piano pangermanista, che, complice il Pus italiano, vuole annientare la vittoria italiana e il primato dell'Italia nel mondo. Non esistono dunque portinaie nelle case dei proff. Cian e Romano, che siano capaci di misurare sulle teste di questi due mostricciattoli della vecchia stupidaggine nazionale, la lunghezza delle scope professionali?

(20 gennaio 1920).

GLI SPEZZATORI DI COMIZI

È nota agli operai, per dolorosa esperienza, la istituzione capitalistica degli «spezzatori di scioperi». Gli operai hanno scarsi mezzi di resistenza contro la potenza del capitale, ma anche con questi mezzi scarsi possono toccare abbastanza profondamente il profitto e costringere il capitale a venire a patti; il capitale ricorre agli spezzatori di sciopero, sostituisce i ferrovieri, i postelegrafonici, gli elettricisti, i panettieri, i gasisti; con elementi volontari, con la sua guardia bianca, tenta di non lasciare interrompere la produzione, di non scontentare completamente la clientela, di impedire che scadano e si corrompano le condizioni generali del suo profitto.

Oggi è nata un'istituzione «originale»: quella dello spezzatore di comizi. Migliaia e migliaia di operai si radunano a comizio nelle piazze. Gli operai hanno scarse possibilità di riunione. Hanno interesse a usufruire completamente di queste scarse possibilità. Il comizio è per la classe operaia il mezzo piú importante per acquistare una coscienza di classe; il capitalismo attraverso la produzione industriale cerca dividere la classe in tante categorie, in tanti gruppi, in tante comunità slegate e disperse: nelle manifestazioni di massa, nei comizi, la classe si ritrova tutta, il metallurgico accanto al muratore, il calzolaio accanto al falegname, il gommaio accanto al panettiere, e sente la sua unità nella vibrazione comune per uno stesso ideale, nell'accettazione comune di uno stesso programma, di uno stesso metodo di lotta. Ebbene no: lo spezzatore di comizio non può permettere che migliaia e migliaia di operai affermino in un comizio la stessa disciplina che essi attuano in tutte le manifestazioni della lotta di classe, non può permettere che con questa disciplina si creino le condizioni in cui solo un comizio può svolgersi ed essere utile per l'educazione della classe operaia. Lo spezzatore di comizio vuole che la sua personcina, gonfia di vento parolaio e di vanità, sovrasti le migliaia e migliaia di operai, sia superiore alle volontà riunite di migliaia e migliaia di operai: egli priva cosí la classe operaia delle scarse possibilità di riunione di cui dispone, non permette alla classe operaia di svolgere le sue manifestazioni, di dimostrare la sua forza, di acquistare piú chiara coscienza della sua volontà collettiva. Se osservate, vedete che difficilmente lo spezzatore di comizi è un operaio di fabbrica, è un operaio industriale: quasi sempre egli è uno spostato, un uomo dai cento mestieri, che rivela nella sua irrequietezza fisica e... vocale la irrequietezza della sua vita economica, della sua vita di lavoro, che riflette nel suo cervello e nelle sue idee la incertezza e la confusione delle condizioni materiali della sua vita. Perciò anche lo spezzatore di comizi afferma di essere antiautoritario e di essere antimarxista perché Marx era «autoritario»; la verità è che Marx aveva preveduto questo tipo di pseudorivoluzionario e aveva messo in guardia la classe operaia contro i suoi metodi e la sua fraseologia; perché Marx credeva che la rivoluzione non si fa con la gola, ma col cervello, non si fa col vano dimenarsi fisico, col sommovimento del sangue nelle vene, ma colla disciplina della classe operaia che porta nella costruzione della società comunista le stesse virtú di lavoro metodico e ordinato che ha imparato nella grande produzione industriale.

(5 marzo 1920).

NEL «TEMPIO» DELLA SAPIENZA

Stanno avvenendo, in questi giorni, non a torto chiamati rivoluzionari, delle trasformazioni curiose. Scompaiono gli dèi, precipitano gli idoli, tramontano gli ideali, le parole stesse stanno cambiando di valore e di significato. Non eravate soliti anche voi sentir dire che l'università, il luogo dove si forma la mente della gioventú che domani sarà classe di governo, è un «tempio»? Il tempio della scienza. Il tempio aperto alla universale adorazione di questa dea solenne, che voi certo ricordate, nelle vecchie allegorie accademiche, figurata come matrona dall'aspetto maestoso, dallo sguardo sereno e severo, sprezzatrice delle turbe profane, tendente una mano alla giustizia e l'altra alla libertà, dee sorelle. Ahimè! non vi accada di entrare nel cortile dell'Università di Torino, se ancora nutrite nel vostro pensiero queste generose illusioni; non vi accada di entrare a cercare, nel recinto del sacro tempio, i segni della sovranità della severa classica dea.

La nostra università è ancora un tempio? Sí, soltanto se alla parola si dà un significato un pochino diverso da quello primitivo. È diventata, la nostra università, qualcosa di meno pagano di un tempio: la solennità si è perduta, si è perduto anche il raccoglimento che potrebbe fare del tempio una chiesa. È rimasto, del tempio e della chiesa, il lato sordido, volgare, bottegaio; la nostra università non è piú un tempio, è una sacrestia. Sulle colonne voi potete vedere, affissi col permesso delle autorità scolastiche, gli annunzi delle messe, delle penitenze, delle comunioni, dei rosari e dei sacri uffici. È una tappezzeria di nuovo genere, che non stona poi troppo, accanto agli avvisi dell'umile e onesto commercio dei libri usati, delle dispense, delle dissertazioni di laurea e delle camere ammobiliate. Vero è che le autorità le quali hanno permesso l'affissione degli avvisi di sacrestia hanno vietato a un gruppo di giovani studenti animati da sensi di libertà e di giustizia di dare pubblicità nei locali universitari al manifesto e agli atti di un circolo studentesco socialista. Ma che volete? I tempi sono cattivi. Tante nuove divinità ribelli sono in giro che anche la vecchia classica dea Sapienza sente il dovere di correre ai ripari, e perde un po' della sua serenità severa, e raccoglie al seno le mani che prima porgeva alle dee sorelle: Giustizia e Libertà.

Le mani congiunte in atto di devozione stringono la coroncina del rosario, le labbra biascicano giaculatorie, gli occhi si volgono compunti al cielo. La serena classica dea Sapienza non è piú quella, è diventata anch'essa paolotta, è diventata una figlia di Maria... E anche i suoi sacerdoti hanno dimesso gli abiti curiali e gli atteggiamenti liberi e solenni e sono diventati dei sacrestani, sí, anche se ieri erano democratici e massoni...

Ciò che avviene nella nostra università non deve del resto stupire. Ciò fa parte di un piano, di un piano prestabilito che di giorno in giorno sempre piú si viene palesando. Si dà l'assalto alla scuola come agli altri organismi dello Stato, si fa un'opera di invasione continua, ordinata e metodica. E lo Stato è impotente a difendersi. La paura degli uni lo fa precipitare nelle braccia degli altri, la famosa coscienza educativa dello Stato liberale non esiste piú che nei discorsi dei pedagogisti massoni convertiti alla sacrestia, la scuola si rivela sempre piú organo essa pure del dominio di classe e di una classe che non può piú dominare che con l'appoggio di quelli che erano ieri i suoi piú acri nemici. Sono cose che è bene siano conosciute dagli operai, in molti dei quali permane un sentimento di venerazione cieca, di feticismo quasi per la scienza borghese e per i suoi organi; gli operai debbono sapere che da quella parte non esiste piú che illusione, che organi nuovi di cultura e di educazione, vivi e vitali, tocca a loro di crearli.

(7 marzo 1920).

CRONACHE, STORIE E FALSE STORIE

Uno scrittore della «Stampa» ha fissato le Trasformazioni del bolscevismo. Lo scrittore della «Stampa» ha raccolto e coordinato una montagna di notizie, citando soltanto da fonti ufficiali bolsceviche: l'«Economiceskaia Gizn», la «Pravda», le «Isvestia». Il quadro risultante dalla raccolta e dalla coordinazione è spaventoso: rovina, miseria, annientamento della classe operaia russa, sfacelo dell'apparato industriale.

Lo scrittore della «Stampa» potrebbe essere rassomigliato al padre Bresciani, della Compagnia di Gesú; se non ci fosse tra i due questa differenza: il padre Bresciani raccoglieva e coordinava sulla rivoluzione liberale italiana notizie tratte dai giornali dei gesuiti, nemici dei liberali; lo scrittore della «Stampa» trae le notizie dagli stessi giornali bolscevichi; il padre Bresciani era un povero di spirito, digiuno di studi storici e filosofici (il disgraziato padre non possedeva ancora quel perfezionato strumento di ricerca che è il metodo storico); lo scrittore della «Stampa» è un maestro del metodo storico, è un maestro delle discipline storiche e filosofiche.

Lo scrittore della «Stampa» non può essere rassomigliato al padre Bresciani, della Compagnia di Gesú, solo per questo: perché la Compagnia di Gesú è stata enormemente superata dalla manonera giornalistica e perché la manonera giornalistica è stata enormemente perfezionata dall'affiliazione degli specialisti del metodo storico.

Lo scrittore della «Stampa» «sa» che la sua documentazione è un «falso», anche se le singole notizie possono essere vere, «sa» che la storia non si confeziona nel modo che egli ha fatto se non quando si vuole ottenere un fine pratico, se non quando si vuol determinare una certa serie di emozioni, se non quando (per ripetere la efficace espressione di Bergeret) si vuol «far venire i vermi» a qualcuno. Il padre Bresciani era un untorello del gesuitismo storico; lo scrittore della «Stampa» è uno specialista del gesuitismo storico: ecco perché non possono essere rassomigliati.

Lo scrittore della «Stampa» non spiega ai lettori del suo giornale: come mai i giornali bolscevichi pubblicano tali notizie? come mai la pubblicazione di tali notizie in giornali come la «Pravda» e le «Isvestia» che tirano milioni e milioni di copie, che arrivano fino ai piú profondi strati della popolazione russa, non determina la caduta del governo bolscevico? come mai il governo bolscevico, nonostante le condizioni che dovrebbero risultare dalle notizie raccolte e coordinate, non solo si mantiene, ma si rafforza, ma si espande? come mai la classe operaia russa combatte e muore per un tal governo? come mai la classe operaia russa esprime l'istituzione del «sabato comunista», cioè spontaneamente decide di lavorare una giornata senza salario, per rafforzare lo Stato operaio, per rafforzare il governo bolscevico?

Le notizie raccolte e coordinate dallo scrittore della «Stampa» dovrebbero essere il risultato di un processo di decomposizione; coincidono invece con un processo di sviluppo. Si verificano dunque in Russia due serie di avvenimenti, due processi: una società muore, una società si forma; un costume decade, un nuovo costume si crea; muore il «sabato inglese», muore il proletario schiavo del capitalista, legato alla macchina come un cane alla catena, che odiava la macchina, che odiava il lavoro, perché erano un fardello di servitú e di oppressione: questo proletario viene anche fucilato, se si è lasciato corrompere da un qualsiasi mister Dukes, agente dell'Inghilterra e suonatore d'orchestra (quando dà informazioni alla «Stampa»), per spianare la strada del carnefice Judenitch; e nasce il «sabato comunista», nasce il proletario emancipato e rigenerato, il proletario che nelle trincee di Gatcina vive dieci giorni di un'aringa salata quotidiana per respingere il carnefice Judenitch, il proletario che ama la macchina e il lavoro, il proletario che porta, sulla punta della sua baionetta l'idea del Soviet fino a Vladivostock, fino al confine afgano, fino a Odessa, fino all'Oceano Artico, pur senza locomotive e senza vagoni.

In che consiste dunque la «trasformazione del bolscevismo»? Il padre Bresciani della «Stampa» non accenna neppure a mantenere la promessa accennata nel titolo dell'articolo, e non potrebbe mantenerla; nessuno potrebbe dire come si è trasformato il «bolscevismo» russo, poiché il «bolscevismo» è la Rivoluzione russa nella sua totalità, è l'idea della Rivoluzione russa, che è dappertutto e in nessun posto particolarmente, che vive nella coscienza storica del popolo lavoratore di Russia e in nessuna coscienza singola particolarmente; il padre Bresciani della «Stampa» identifica il bolscevismo con una statistica, con un numero di vagoni e di locomotive, come un catalogo di prezzi.

Lo scrittore della «Stampa» è uno specialista del metodo storico, è un maestro delle discipline storiche e filosofiche; ha studiato con amore Francesco De Sanctis, e il capitolo dedicato dal De Sanctis al padre Bresciani; ha studiato le opere di Benedetto Croce e ha spesso consigliato ai suoi discepoli la meditazione dei saggi crociani sulla storia e sulla storiografia. Oggi i discepoli devono richiamare il maestro: «Maestro, mediti il saggio crociano su: Storia, cronache e false cronache».

(10 marzo 1920).

DOVE SI LEGGE COME QUALMENTE IN RUSSIA

ANCHE I CAVALLI PARTECIPINO DEL FASCINO SLAVO

Il «primo» giornalista italiano ha messo la pianta dei piedi nel territorio dello Stato operaio russo; il «primo» giornalista italiano da Reval è passato a Pietrogrado, da Pietrogrado è passato a Mosca, si è convinto per istrada che gli operai russi non hanno ancora tracce visibili di coda, ha mangiato il risotto all'italiana, e ha spedito la sua prima corrispondenza alla «Stampa». Nel ricevere questa prima corrispondenza dalla città dei commissari del popolo, gli statisti della «Stampa», che attendono il momento storico da cogliere al volo per dare al popolo italiano uno Stato restaurato e un potere ricco di autorità, gli statisti della «Stampa» devono essersi precipitati sul documento per essere i primi a conoscere il «segreto» del mistero russo.

Cosa avviene in Russia? E specialmente: perché avviene ciò che avviene in Russia? Il «primo» giornalista italiano ha realmente scoperto il mistero: anticipiamo nell'«Avanti!» l'articolo editoriale che il collegio di statisti della «Stampa» dedicherà al suo fausto scoprimento.

La Russia è l'anima russa. Non esiste la classe operaia russa, come classe operaia che abbia interessi e una psicologia diffusa in tutto il mondo, non esiste la classe operaia russa come parte integrante ed organica dell'Internazionale operaia. La classe operaia russa è parte organica e integrante di un blocco che si chiama: l'anima russa.

Ora si osservi: anche i cavalli russi partecipano dell'anima russa. Un operaio russo non si comprende e non si spiega con un operaio italiano, francese, inglese, americano, tedesco...; un operaio russo si spiega con un cavallo russo: l'operaio e il cavallo sono due aspetti di una stessa realtà, l'anima russa. La Rivoluzione russa, in quanto è espressione e sintesi dello svolgimento storico di questa realtà, l'anima russa, non è un quid che interessi l'Internazionale operaia, che interessi un proletario italiano, francese, inglese, tedesco...; essa interessa l'operaio russo, il cavallo russo, la renna russa, il cane russo, la formica russa, il topo russo, essa interessa la russità, non l'Internazionale. Da questo punto di vista si comprende come abbia sempre avuto ragione la «Stampa» nello sconsigliare agli operai italiani di assumere la Rivoluzione russa come tipo di rivoluzione operaia internazionale, nello sconsigliare agli operai italiani di studiare la Rivoluzione russa nei suoi particolari di organizzazione tecnica e politica. Gli operai italiani non possono comprendere nulla della Rivoluzione russa, come operai, come non possono comprendere nulla i cavalli italiani, gli asini italiani, i cani italiani, i topi italiani, le formiche italiane, tutto il complesso italiano che si chiama «italianità o anima italiana».

Ed ecco perché la «Stampa» informò già i suoi lettori traducendo gli articoli della spia inglese Paul Dukes, ecco perché informò sulla Rivoluzione e sull'essenza della Rivoluzione descrivendo lo stato delle ferrovie, dei tetti e dei mobili delle case in Russia; ecco perché nel passato la «Stampa» si pose verso la Rivoluzione operaia russa nella stessa posizione in cui i gesuiti si ponevano verso la rivoluzione liberale italiana. Paul Dukes sta al «primo» corrispondente come il gesuita sta al moderno commediografo parigino del fascino slavo.

(8 giugno 1920).

UN LADRO AMMAZZATO

Chi ha fermato l'attenzione sopra il fatto che la cronaca ci ha narrato l'altro giorno? Un uomo, sorpreso di notte nel giardino di una villa, inseguito, cacciato, preso a fucilate, lasciato boccheggiante sopra un tetto. I carabinieri hanno raccolto il corpo in agonia, i cronisti hanno raccontato il fatto, nessuno ci pensa piú. Anche i morti, anche i delitti hanno la loro fortuna.

Un innamorato si vendica sopra l'infedele, un marito sgozza l'amante della moglie. Il fatto tocca e scuote le piú riposte fibre dell'animo del pubblico e dei suoi informatori. I cronisti si fanno per l'occasione romanzieri, giudici, difensori, esploratori di anime: la piú sciocca figura di donna isterica è una sfinge di cui bisogna svelare gli inesistenti enigmi psicologici, ogni brutale è un eroe che difende i diritti del sentimento.

Il fattaccio di gelosia, il fattaccio di «amore», smuove tutta una sedimentazione di torbidi sensi che si celano nell'animo dell'uomo civile dei tempi nostri, che alla prima occasione si manifestano in una espulsione purulenta. Questi sentimenti costituiscono l'«onore» della nostra società. Ma che un uomo, presunto per ladro, sia accoppato a fucilate dal proprietario di una villa, che è stato disturbato nei suoi sonni e che rimane sconosciuto, ciò non turba la coscienza degli uomini civili.

Lo Stato ha abolito la pena di morte. L'abolizione della pena di morte è evidentemente un segno di costume civile, è segno che la personalità vivente dell'uomo è comunemente stimata essere un bene superiore ad ogni altro, incommensurabile anzi con ogni altro bene. La classe borghese, garantitasi con la forza di Stato la proprietà, sommo per essa di tutti i beni, ha in seguito garantito a tutti la vita. Perciò lo Stato dei borghesi dispone ai fini suoi della vita dei cittadini ch'esso difende. Ma supponete lo Stato andare in sfacelo, e questa condizione di cose, questa gradazione di valori vi si rivelerà, crudamente. Ecco la pena di morte ristabilita per parte del privato che piú della vita dell'uomo stima cento altri beni: la proprietà, la tranquillità, la buona digestione, il sonno pacifico ch'è stato rotto da un'ombra introdottasi in un giardino del vicinato. Perciò contro i ladri o presunti tali, oggi i privati fanno anche le fucilate e nessuno si ribella, e a tutti la cosa pare la piú naturale del mondo.

La coscienza del valore assoluto della persona vivente chi ce la renderà se non chi a tutti saprà egualmente garantire i beni materiali?

(8 luglio 1920).

UNA RISERVA MENTALE

È un vero peccato che alle assemblee del Partito popolare non possano presenziare altro che quelli che hanno la tessera.

Ci manderemmo i giovani rampolli del liberalismo che ancora devono farsi una coscienza politica, ci manderemmo i cittadini onesti che vanno in cerca di un partito che abbia una coscienza morale. Per ammaestramento, per edificazione e anche, perché no?, per propaganda. Per ora vi possono prendere parte soltanto i tesserati, vi posson parlare soltanto gli avvocati cui il Partito popolare ha dato, finalmente!, una coscienza politica, i pubblicisti che aspettano ch'esso dia loro qualcosa di piú, e i preti che vi celebrano i rinnovati fasti della teologica dottrina della riserva mentale. A dir vero, si dice che, presenziando all'ultima assemblea che il Partito popolare tenne in Torino, si sarebbe potuto prendere lezione del modo come sette questori non siano sufficienti per mantenere calme e concordi alcune centinaia di persone, ma sono voci che raccogliamo per la cronaca, riconoscendo d'altra parte che il tema in discussione era tale da suscitare e giustificare ben altre e piú ardenti contese.

Sono prossime, sono annunciate le elezioni amministrative. Che faranno i popolari? L'argomento è piú che appassionante. Una volta era presto fatto: si trattava nelle sacrestie, si premeva la mano sui parroci e si accarezzavano le beghine e tutto era fatto. Un piccolo contratto: do ut des. Tu mi dài il posto tale e io ti do quell'altro; io avrò quel beneficio e tu quella prebenda; tu signoreggerai dalla tua sacrestia e io andrò in comune a fare gli interessi dei pescicani, pardon!, a fare gli interessi della cittadinanza. E si procedeva d'amore e d'accordo. Ogni tanto un grande giornale cittadino faceva una strepitosa campagna contro l'amministrazione la quale ecc., ecc., tanto per poter, quindici giorni prima delle elezioni, fare un nuovo accordo, stringere un patto nuovo, avere qualche cosa di piú. E i preti benedivano gli elettori in sacrestia, le beghine li accarezzavano nei salotti, i giornali imbonivano il pubblico, Teofilo Rossi prosperava e si leccava i baffi. Quelli erano tempi!

Oggi c'è il partito, c'è la disciplina, c'è l'intransigenza. Chi le ha inventate, chi le ha messe di moda queste diavolerie da bolscevichi? Vi immaginate l'«onesto» esercente che per capirne qualcosa deve leggere gli articoli di alta politica e le considerazioni quasi serie del «Commercio»? Vi immaginate il sacrestano che non può piú contrattare i voti come il prete le messe, vi immaginate la beghina che cessa di essere grande elettrice? Che non ci sia un mezzo per uscirne? Possibile che gli avvocati, che i pubblicisti, che i teologi del partito non sappiano pensarne nessuna? Per questo le assemblee del Partito popolare sono tanto interessanti.

Naturalmente le assemblee di partito prendono tutto sul serio. È il loro dovere. La disciplina, il programma massimo, i principî, l'intransigenza. Il sacrestano e la beghina non ne capiscono nulla, ma per i soci del partito, questa è la sola, questa è la diritta via. Si dice che le parole di alcuno degli oratori spirassero tanta austera intransigenza da scapitarne Robespierre.

Periscano l'universo e l'amministrazione dei borghesi, ma vivano i principî. L'assemblea applaude. Ma l'oratore non si ferma, la sua logica è spietata. Intransigenza è poca cosa, ci vuole l'astensione.

A questo punto l'assemblea giunse al colmo dell'entusiasmo. Ma il sacrestano e la beghina che stavano in un angolo e finora non avevano capito nulla, si rischiararono anch'essi, levarono il viso e scambiarono uno sguardo di furbesca intelligenza. Sí, l'astensione anche essi l'avevano capita. È cosí semplice! Il partito si astiene, e i popolari votano per chi vogliono. Si ritorna al contratto, al do ut des; la sacrestia sarà riportata agli onori della pastetta elettorale: il prete tornerà a benedire gli elettori, le beghine ad accarezzarli, i giornali ad imbonirli e Teofilo Rossi a prosperare. Evviva l'intransigenza!

Non è dunque una fortuna che alla testa del partito vi siano dei teologi, esperti applicatori della teoria della riserva mentale? Anche il sacrestano e la beghina oggi ne sono convinti.

(25 agosto 1919).

SOCIALISTI E CRISTIANI

L'operaio Giacosa è stato arrestato il 1° maggio sotto l'accusa di aver lanciato una mitica bomba in piazza S. Carlo. Una guardia regia giurò di aver visto coi suoi occhi il Giacosa a lanciare la bomba.

L'altro giorno il Giacosa è stato scarcerato, perché prosciolto in istruttoria; egli dimostrò luminosamente di non aver potuto lanciare nessuna bomba. Il Giacosa è cristiano devoto; appena scarcerato egli manda all'«Avanti!» una sottoscrizione di lire dieci con questa dicitura: «Il compagno Giacosa, per grazia ricevuta, mette dieci lire per l'"Avanti!" Crede nel Vangelo di Cristo. Fa voti che Cristo punisca quella degna guardia regia che ha giurato il falso».

Da questo piccolo episodio si possono trarre alcune moralità. Un operaio, cristiano, riconosce nell'«Avanti!», nel giornale della classe operaia, il suo giornale, quello che lo ha difeso, difendendo tutta la classe operaia aggredita a fucilate il 1° maggio. Egli comprende che l'idea religiosa non costituisce motivo di scissione nella classe operaia, come non costituisce motivo di scissione nella classe borghese. I socialisti marxisti non sono religiosi; credono che la religione sia una forma transitoria della cultura umana che sarà superata da una forma superiore di cultura, quella filosofica; credono che la religione sia una concezione mitologica della vita e del mondo, concezione che sarà superata e sostituita da quella fondata sul materialismo storico, cioè da una concezione che pone e ricerca nel seno stesso della società umana e nella coscienza individuale le cause e le forze che producono e creano la Storia. Ma pur non essendo religiosi, i socialisti marxisti non sono neppure antireligiosi; lo Stato operaio non perseguiterà la religione; lo Stato operaio domanderà ai proletari cristiani la lealtà che ogni Stato domanda ai suoi cittadini, domanderà che se vogliono essere in opposizione questa opposizione sia costituzionale e non rivoluzionaria. L'opposizione rivoluzionaria è propria di una classe oppressa contro i suoi sfruttatori; l'opposizione costituzionale è l'atteggiamento proprio di un ceto ideologico della classe verso la maggioranza che esercita il potere politico. L'operaio cristiano Giacosa mostra di aver compreso questo nesso del pensiero politico proletario, se, pure essendo cristiano, egli riconosce nell'«Avanti!» l'organo della sua classe. Egli fa voti perché Cristo punisca la guardia regia che ha giurato il falso; il Partito socialista non riconosce come buona questa tattica e preferisce la sua: espropriare i capitalisti e con la forza dello Stato operaio rendere impossibile, anche per gli operai cristiani, che il giuramento falso di un agente della borghesia faccia marcire in prigione i proletari.

(26 agosto 1920).

UN EROE

Nei nostri uffici è venuto l'altro giorno, e nessuno se ne è accorto, un eroe.

Non se ne è accorto nessuno forse perché noi siamo degli scettici, forse perché sull'eroismo noi abbiamo ancora delle preistoriche idee da utopisti. Per questo non ci siamo accorti che, da quando D'Annunzio ha cambiato con quella di Fiume la villeggiatura di Arcachon, il numero degli eroi è cresciuto tanto che se ne trovano dappertutto e che qualcuno di essi può capitare anche nella nostra redazione.

D'Annunzio, si dice, ha avuto del coraggio. Non discutiamo. Se però egli è un uomo coraggioso, lo sono anch'io che leggo i suoi proclami, dice il ragazzo delle scuole elementari; lo sono anch'io che compro il giornale dov'egli è esaltato, dice il borghese tranquillo; lo sono anch'io che appiccico i francobolli alle sue schede di propaganda, dice il portinaio dell'Associazione nazionalista; lo sono anch'io che dirigo in Torino l'ufficio per Fiume e la Dalmazia, conclude Nino Daniele. Ma poiché Fiume l'hanno già, per modo di dire, conquistata, poiché in Dalmazia non vi è per ora stagione balneare e poiché per essere eroi bisogna pur far qualcosa, anche Nino Daniele si decise ad agire.

Sul da farsi era un po' incerto. Pensò prima se non sarebbe stato un atto eroico per lui andare a prendere un «americano» al caffè Ligure, magari vestito in salopette. Poi pensò di leggere da capo a fondo un numero della «Fiamma», o un manifesto dell'Associazione nazionalista, o un articolo del professor Cian. Troppo poco. Nino Daniele stabilí di fare una spedizione negli uffici della redazione dell'«Avanti!». Venne, e l'impresa sarà ricordata, accanto alle imprese di Ercole, alle campagne di Napoleone e alla ritirata di Senofonte coi diecimila. Peccato, dicevamo, che nessuno se ne sia accorto, che la visita sia passata, cosí, tra quelle dei cento rompiscatole che salgono ogni giorno le scale della redazione, tra quella del venditore ambulante che protesta perché gli hanno inflitto una multa, e quella del cittadino che «vuole un articolo» perché un tranviere gli ha dato una moneta falsa. Nessuno se ne è accorto. Ma Nino Daniele, ritornato a casa e preso un purgante, scrisse le sue memorie per narrare il fatto memorabile. Si dice che un libello cittadino, che or sí or no esce alla luce, le pubblicherà in appendice.

Cosí Nino Daniele passerà alla storia, non solo per essere il segretario dell'ufficio per Fiume e la Dalmazia, non solo per aver fatto, protetto dalla questura e nell'interesse di D'Annunzio, il mercante di carne bianca, ma anche per avere, nel mese di agosto dell'anno millenovecento e venti, compiuto l'eroica impresa di fare una visita alla redazione dell'«Avanti!»

(28 agosto 1920).

LE OPINIONI DEL QUESTORE

In questi giorni i nostri compagni, obbedienti alle leggi dello Stato liberale italiano, si sono recati presso l'autorità di P. S. per sottoporre alla sua approvazione i manifesti murali coi quali intendevano far conoscere a tutti i cittadini le loro idee e i loro propositi; han avuto cosí occasione di conoscer ancora una volta per diretta esperienza, in che cosa consiste e quale forma concreta prende questo famoso organismo dello Stato liberale, cui il destino storico ha affidato la tutela e l'amministrazione della libertà dei cittadini italiani. Perché lo Stato liberale è una parola, e una parola è anche la P. S., e sono frasi quelle in nome delle quali si amministra la libertà dei cittadini, prima fra tutte la libertà di esprimere in pubblico le proprie idee. Queste frasi, che si possono a propria voglia ripetere, l'interesse pubblico, la cura della tranquillità, la ragione di governo, se volete, non dicono ancora nulla della natura e della realtà dello Stato liberale italiano.

Se volete sapere qualcosa di concreto, dovete entrare in un ufficio statale, in una questura, in una prefettura. Ivi, nel gabinetto di un questore, nell'anticamera di un prefetto voi trovate lo Stato italiano che da verbo si è fatto carne, ha cessato di essere idea per diventare un uomo, un funzionario, se volete, ma una realtà che potete osservare, sperimentare, studiare.

Il questore della città di Torino, ad esempio, è convinto di questa transustanziazione, di questa incarnazione dello Stato che in lui avviene. Ne è tanto convinto che in certi momenti giunge a distinguere in sé le due nature e le due realtà, quella umana e quella sopra-umana come facevano i santi padri per la persona del Cristo e i teologi protestanti per l'ostia consacrata.

Il questore è un uomo e come tale può anche essere gentile, può scherzare, può fare un complimento, ma il questore è lo Stato italiano fatto persona e come tale tutte le belle cose di cui sopra non le può far piú, non può far altro che esprimere per la sua bocca la volontà e la legge dello Stato. E quando ciò avviene, voi non avete che da ascoltare e assoggettarvi: l'opinione del sig. Domenico Guida è l'opinione dello Stato liberale italiano.

Ma il piú bello è questo, che se voi gli chiedete di esprimere in pubblico le vostre idee, se voi gli sottoponete, nel caso concreto, un manifesto da vistare, egli sottoporrà voi e le vostre idee e il vostro manifesto a un rigoroso confronto con se stesso, con le sue idee, col manifesto che egli, Domenico Guida, avrebbe scritto. Ciò che è difforme, è fuori della legge, è contro l'opinione dello Stato, poiché è fuori dell'opinione del questore nel quale lo Stato ha preso carne. Che l'Intesa voglia «schiacciare ed asservire» gli operai e i contadini russi, questo io non lo credo, dunque lo Stato non lo crede, dunque non lo si può dire in pubblico. Che il governo italiano abbia finora agito di pieno accordo con gli altri per «far morire di fame e di piombo» gli operai e i contadini comunisti della Russia, questo io credo che non sia vero, dunque lo Stato crede che non sia vero, dunque non lo si pubblica. Un appello agli operai socialisti per la spontanea disciplina? Questo io non lo voglio fare, io che sono per la disciplina «spontanea» creata dai moschetti della regia guardia, dunque voi non lo pubblicherete.

Gli industriali minacciano di licenziamento gli impiegati, e gli operai offrono loro lavoro? Ecco due fatti di indole privata; ma il questore anche in questa materia ha la sua opinione, e conforme alla sua è quella degli industriali che attraverso lo Stato o in altro modo la pagano, non è conforme alla sua quella degli operai che cercano la libertà: si autorizzano dunque i primi, non i secondi, a esprimere i loro propositi. E cosí via. Il questore di Torino non approva che le menzogne documentate della Lega industriale, non condivide che le sporche calunnie che l'AMMA stampa a carico dei capi della classe operaia, non è d'accordo che con le infamie con le quali Cinque Franchi Grappini insozza i muri della città. Il questore è una persona intelligente... Quelle menzogne, quelle calunnie, quelle infamie che concordano con le sue opinioni, concordano pure con l'opinione dello Stato, quindi possono essere pubblicamente espresse, per la maggiore educazione dei cittadini.

Cosí in Torino l'opinione del questore amministra la libertà dei cittadini dello Stato liberale.

(4 settembre 1920).

C'ERA UNA VOLTA...

C'era una volta un giovane avvocato biellese, l'avv. Alfredo Frassati, che aveva scritto un libro sul suffragio femminile. Con questo suo libro, l'avv. Alfredo Frassati, non essendo riuscito a divenire profeta in patria (cioè a divenire professore in una università italiana), aveva cercato di girare la posizione, diventando profeta in Germania per esserlo di riflesso in Italia: con questo suo libro l'avv. Alfredo Frassati divenne cosí, in un primo tempo, popolarissimo tra i dotti commessi delle dotte librerie della dotta Germania. È noto il sistema brevettato presso i bassi agenti di commercio: chiedere una merce come cliente per poterla collocare come piazzisti, domandare per offrire. Il giovane avv. Alfredo Frassati domandava in tutte le librerie germaniche «la traduzione tedesca del celebre libro sul suffragio femminile dovuto alla dottissima penna dell'illustrissimo giurista italiano Alfredo Frassati»; il giovane avv. Alfredo Frassati era divenuto l'incubo dei dotti commessi delle librerie germaniche, ma neppure tanta colossale mole di seccaggine riuscí a porre in movimento la macchina della legge economica della domanda e dell'offerta.

Il libro dell'avv. Alfredo Frassati non fu tradotto in tedesco, le riviste giuridiche tedesche non se ne occuparono per nulla, i registri bibliografici non lo registrarono, e il giovane avv. Alfredo Frassati non poté mettere insieme i titoli necessari e sufficienti per divenire professore in una università italiana. Cosí avvenne che l'indifferenza dei commessi delle librerie tedesche sconfisse l'industre spirito di iniziativa del tenace avvocato biellese; cosí avvenne che l'Italia ebbe un professore di meno, ma ebbe ieri un direttore di giornale di piú ed oggi un ambasciatore di piú. Sconfitto dai commessi di libreria, l'avv. Frascati ritorna in Germania ambasciatore del potente Stato italiano, vittorioso nella guerra mondiale; eliminato dalle aule accademiche entra nelle aule governative; la paziente iniziativa biellese ha, in un secondo tempo, profligato la ottusa indifferenza dei commessi di libreria germanici.

La vittoria è schiacciante. E badate: l'avv. Frassati non va a Berlino come l'on. Orlando andò a Parigi, senza conoscere le lingue. Già da tre mesi la scuola Berlitz ha la fortuna di annoverare tra i suoi piú assidui scolari l'avv. sen. Alfredo Frassati; una ambasciata val bene tre mesi di scuole Berlitz; la serietà del governo restaurato dall'on. Giolitti, che ha la missione storica di restaurare lo Stato italiano in tutte le sue attività, economica, amministrativa, militare, scolastica, religiosa, morale, diplomatica, può andare fiera dell'esempio dato dal senatore Frassati, il quale, in età non piú sottoponibile a leve scolastiche, col solito spirito antiveggente, avendo preveduto di essere per essere nominato ambasciatore, ritorna a frequentare le aule scolastiche (siano pur desse le aule della Berlitz) e impara il francese, lingua della diplomazia internazionale, per piú validamente sostenere la buona ragione del suo paese nelle competizioni tra gli Stati.

Imparate, o giovani, da questo esempio. Imparate come sia possibile in Italia, con lo studio, scrivendo dei libri sul suffragio femminile, non lasciandosi scoraggiare dalla indifferenza dei commessi di libreria, frequentando la scuola Berlitz, essendo amici dell'on. Giolitti, imparate come si possa arrivare ai piú alti fastigi della vita nazionale e della vita dell'intiero mondo abitato.

(25 novembre 1920).