Indice
I giornali e gli operai
“Avanti!” , 22 dicembre 1916
Carattere
"Il Grido del Popolo", 3 marzo 1917
Un anno di storia
"Il Grido del Popolo", 16 marzo 1918
Bilanci rossi
“Avanti!”, 4 aprile 1919
La taglia della storia
"L'Ordine Nuovo", 7 giugno 1919
Democrazia operaia
“L’Ordine Nuovo", 21 giugno 1919
La conquista dello stato
"L'Ordine Nuovo", 12 luglio 1919
Lo sviluppo della rivoluzione
"L'Ordine Nuovo", 13 settembre 1919
Ai Commissari di reparto delle Officine Fiat Centro e Brevetti
"L'Ordine Nuovo", 13 settembre 1919
Sindacati e consigli (I)
"L'Ordine Nuovo", 11 ottobre 1919
I sindacati e la dittatura
"L’Ordine Nuovo", 25 ottobre 1919
La piccola borghesia
Sugli avvenimenti del 2-3 dicembre 1919
"L'Ordine Nuovo", 6-13 dicembre 1919
Operai e contadini
"L'Ordine Nuovo", 3 gennaio 1920
Lo strumento di lavoro
"L'Ordine Nuovo", 14 febbraio 1920
Per un rinnovamento del Partito socialista
"L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1920
Sindacati e consigli (II)
"L'Ordine Nuovo", 12 giugno 1920
Il Partito comunista
"L'Ordine Nuovo", 9 ottobre 1920
Scissione o sfacelo?
"L'Ordine Nuovo", 11-18 dicembre 1920
Il popolo delle scimmie
"L'Ordine Nuovo", 2 gennaio 1921
Un monito
"L'Ordine Nuovo", 15 gennaio 1921
La guerra è la guerra
"L'Ordine Nuovo", 31 gennaio 1921
La Confederazione Generale del Lavoro
"L'Ordine Nuovo", 25 febbraio 1921
Il movimento torinese dei Consigli di Fabbrica
"L'Ordine Nuovo", 14 marzo 1921
Uomini in carne e ossa
"L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1921
Fuori della realtà
"L'Ordine Nuovo", 17 giugno 1921
Gli Arditi del Popolo
"L'Ordine Nuovo", 15 luglio 1921
Il carnefice e la vittima
"L'Ordine Nuovo", 17 luglio 1921
Illusioni
"L'Ordine Nuovo", 8 agosto 1921
La smorfia di Gwynplaine
"L'Ordine Nuovo", 30 agosto 1921
La tattica del fallimento
"L'Ordine Nuovo", 22 settembre 1921
Insegnamenti
"L'Ordine Nuovo", 5 maggio 1922
Lettere da Vienna
gennaio-aprile 1924
Contro il pessimismo
"L'Ordine Nuovo", 15 marzo 1924
Conferenza di Como
"Lo Stato operaio", 29 maggio 1924
Il destino di Matteotti
"Lo Stato operaio", 28 agosto 1924
Né fascismo né liberalismo: soviettismo!
"L'Unità", 7 ottobre 1924
Il partito del proletariato
"L' Ordine Nuovo", 1° novembre 1924
Per una preparazione ideologica di massa
"La Sezione di agitprop del PC",
aprile-maggio 1925
Il Partito combatterà con energia ogni ritorno alle concezioni organizzative della socialdemocrazia
"L'Unità", 7 giugno 1925
Dopo lo scioglimento del "Comitato d'intesa"
L'Unità", 18 giugno 1925
La volontà delle masse
"L'Unità", 24 giugno 1925
Volontà delle masse e volontà dei capi opportunisti
"L'Unità", 26 giugno 1925
Massimalismo ed estremismo
"L'Unità", 2 luglio 1925
La situazione interna del nostro partito ed i compiti del prossimo Congresso
(Relazione al C.C. dell'11-12 maggio 1925)
"L'Unità", 3 luglio 1925
Il Partito si rafforza combattendo le deviazioni antileniniste
"L'Unità", 5 luglio 1925
Opinioni nelle file del partito
"L'Unità", 21 luglio 1925
L'organizzazione per cellule e il II Congresso mondiale
"L'Unità", 28 luglio 1925
L'organizzazione base del partito
"L'Unità", 15 agosto 1925
Critica sterile e negativa
"L'Unità", 30 settembre 1925
Contro lo scissionismo frazionistico per l'unità ferrea del partito
(Interventi pubblicati sotto il titolo di una rubrica dell' "Unità" dedicata alla lotta nel Partito)
"L'Unità", 15 ottobre 1925
Sull'operato del Comitato centrale del partito
"L'Unità", 20 dicembre 1925
Intervento nella Commissione politica
Intervento dal verbale di riunione
"L'Unità", 24 febbraio 1926
Tesi del III Congresso del Partito comunista d'Italia
Lione, gennaio 1926
Cinque anni di vita del partito
Resoconto dei lavori del III Congresso
"L'Unità", 24 febbraio 1926
I giornali e gli operai
Pubblicato sull'Avanti il 22 dicembre 1916
La lotta di classe internazionale è culminata nella vittoria degli
operai e contadini di due proletariati internazionali. In Russia e in
Ungheria gli operai e i contadini hanno instaurato la dittatura
proletaria e tanto in Russia che in Ungheria la dittatura dovette
sostenere un’aspra battaglia non solo contro la classe borghese, ma
anche contro i sindacati: il conflitto tra la dittatura e i sindacati
fu anzi una delle cause della caduta del Soviet ungherese, poiché i
sindacati, se mai apertamente tentarono di rovesciare la dittatura,
operarono sempre come organismi "disfattisti" della rivoluzione e
incessantemente seminarono lo sconforto e la vigliaccheria tra gli
operai e i soldati rossi.
Un esame anche rapido, delle ragioni e
delle condizioni di questo conflitto non può non essere utile
all’educazione rivoluzionaria delle masse, le quali, se devono
convincersi che il sindacato è forse l’organismo proletario più
importante della rivoluzione comunista, perché su di esso deve fondarsi
la socializzazione dell’industria, perché esso deve creare le
condizioni in cui l’impresa privata sparisce e non può più rinascere,
devono anche convincersi della necessità di creare, prima della
rivoluzione, le condizioni psicologiche e obiettive nelle quali sia
impossibile ogni conflitto e ogni dualismo di potere tra i vari
organismi in cui si incarni la lotta della classe proletaria contro il
capitalismo.
La lotta di classe ha assunto in tutti i
paesi d’Europa e del mondo un carattere nettamente rivoluzionario. La
concezione, che è propria della III Internazionale, secondo la quale la
lotta di classe deve essere rivolta all’instaurazione della dittatura
proletaria, ha il sopravvento sulla ideologia democratica e si diffonde
irresistibilmente nelle masse. I Partiti socialisti aderiscono alla III
Internazionale o almeno si atteggiano secondo i principi fondamentali
elaborati al Congresso di Mosca; i sindacati invece sono rimasti fedeli
alla "vera democrazia" e non trascurano nessuna occasione per indurre o
costringere gli operai a dichiararsi avversari della dittatura e non
attuare manifestazioni di solidarietà con la Russia dei Soviet.
Questo atteggiamento dei sindacati fu
rapidamente superato in Russia, poiché allo sviluppo delle
organizzazioni di mestiere e d’industria si accompagnò parallelamente e
con ritmo più accelerato lo sviluppo dei Consigli d’officina; esso ha
invece eroso la base del potere proletario in Ungheria, ha determinato
in Germania immani carneficine di operai comunisti e la nascita del
fenomeno Noske, ha determinato in Francia il fallimento dello sciopero
generale del 20-21 luglio e il consolidarsi del regime di Clemenceau,
ha impedito finora ogni intervento diretto degli operai inglesi nella
lotta politica e minaccia di scindere profondamente e pericolosamente
le forze proletarie in tutti i paesi.
I Partiti Socialisti acquistano sempre più
un profilo nettamente rivoluzionario e internazionalista; i sindacati
invece tendono a incarnare la teoria (!) e la tattica dell’opportunismo
riformista e a diventare organismi meramente nazionali. Ne nasce uno
stato di cose insostenibile, una condizione di confusione permanente e
di debolezza cronica per la classe lavoratrice, che aumentano lo
squilibrio generale della società e favoriscono il pullulare dei
fermenti di disgregazione morale e di imbarbarimento.
I sindacati hanno organizzato gli operai
secondo i principi della lotta di classe e sono stati essi stessi le
prime forme organiche di questa lotta. Gli organizzatori hanno sempre
detto che solo la lotta di classe può condurre il proletariato alla sua
emancipazione e che l’organizzazione sindacale ha precisamente il fine
di sopprimere il profitto individuale e lo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, poiché essa si propone di eliminare il capitalista (il
proprietario privato) dal processo industriale di produzione e di
eliminare quindi le classi. Ma i sindacati non potevano attuare
immediatamente questo fine e pertanto essi rivolsero tutta la loro
forza al fine immediato di migliorare le condizioni di vita del
proletariato, domandando più alti salari, diminuiti orari di lavoro, un
corpo di legislazione sociale. I movimenti successero ai movimenti, gli
scioperi agli scioperi, la condizione di vita dei lavoratori divenne
relativamente migliore.
Ma tutti i risultati, tutte le vittorie
dell’azione sindacale si fondano sulle basi antiche: il principio della
proprietà privata resta intatto e forte, l’ordine della produzione
capitalistica e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo restano intatti e
anzi si complicano in forme nuove. La giornata di otto ore, l’aumento
del salario, i benefici della legislazione sociale non toccano il
profitto; gli squilibri che immediatamente l’azione sindacale determina
nel saggio del profitto si compongono e trovano una sistemazione nuova
nel gioco della libera concorrenza per le nazioni a economia mondiale
come l’Inghilterra e la Germania, nel protezionismo per le nazioni a
economia limitata come la Francia e l’Italia. Il capitalismo cioè
riversa o sulle masse amorfe nazionali o sulle masse coloniali le
accresciute spese generali della produzione industriale.
L’azione sindacale si rivela così
assolutamente incapace a superare nel suo dominio e con i suoi mezzi,
la società capitalista, si rivela incapace a condurre il proletariato
alla sua emancipazione, a condurre il proletariato all’attuazione del
fine alto e universale che si era inizialmente proposto. Secondo le
dottrine sindacaliste, i sindacati avrebbero dovuto servire a educare
gli operai alla gestione della produzione. Poiché i sindacati di
industria, si disse, sono un riflesso integrale di una determinata
industria, essi diventeranno i quadri della competenza operaia per la
gestione di quella determinata industria; le cariche sindacali
serviranno a rendere possibile una scelta degli operai migliori, dei
più studiosi, dei più intelligenti, dei più atti a impadronirsi del
complesso meccanismo della produzione e degli scambi. I leaders operai
dell’industria del cuoio saranno i più capaci a gestire questa
industria, e così per l’industria metallurgica, per l’industria del
libro, ecc. Illusione colossale.
La scelta dei leaders sindacali non
avvenne mai per criteri di competenza industriale, ma di competenza
meramente giuridica, burocratica o demagogica. E quanto più le
organizzazioni andarono ingrandendosi, quanto più frequente fu il loro
intervento nella lotta di classe, quanto più diffusa e profonda la loro
azione, e tanto più divenne necessario ridurre l’ufficio dirigente a
ufficio puramente amministrativo e contabile, tanto più la capacità
tecnica industriale divenne un non valore ed ebbe il sopravvento la
capacità burocratica e commerciale.
Si venne così costituendo una vera e
propria casta di funzionari e giornalisti sindacali, con una psicologia
di corpo assolutamente in contrasto con la psicologia degli operai, la
quale ha finito con l’assumere in confronto alla massa operaia la
stessa posizione della burocrazia governativa in confronto dello Stato
parlamentare: è la burocrazia che regna e governa.
La dittatura proletaria vuole sopprimere
l’ordine della produzione capitalistica, vuole sopprimere la proprietà
privata, perché solo così può essere soppresso lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo. La dittatura proletaria vuole sopprimere la
differenza delle classi, vuole sopprimere la lotta delle classi, perché
solo così può essere completa l’emancipazione sociale della classe
lavoratrice. Per ottenere questo fine il Partito comunista educa il
proletariato a organizzare la sua potenza di classe, a servirsi di
questa potenza armata per dominare la classe borghese e determinare le
condizioni in cui la classe sfruttatrice sia soppressa e non possa
rinascere.
Il compito del Partito comunista nella
dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente
la classe degli operai e contadini in classe dominante, controllare che
tutti gli organismi del nuovo Stato svolgano realmente opera
rivoluzionaria, e rompere i diritti e i rapporti antichi inerenti al
principio della proprietà privata. Ma quest’azione distruttiva e di
controllo deve essere immediatamente accompagnata da un’opera positiva
di creazione di produzione. Se quest’opera non riesce, è vana la forza
politica, la dittatura non può reggersi: nessuna società può reggersi
senza la produzione, e tanto meno la dittatura che, attuandosi nelle
condizioni di sfacelo economico prodotto da cinque anni di guerra
esasperata e da mesi e mesi di terrorismo armato borghese, ha bisogno
anzi di una intensa produzione.
Ed ecco il vasto e magnifico compito che
dovrebbe aprirsi all’attività dei sindacati d’industria. Essi appunto
dovranno attuare la socializzazione, essi dovranno iniziare un ordine
nuovo di produzione, in cui l’impresa sia basata non sulla volontà di
lucro del proprietario, ma sull’interesse solidale della comunità
sociale che per ogni branca industriale esce dall’indistinto generico e
si concreta nel sindacato operaio corrispondente.
Nel Soviet ungherese i sindacati si sono
astenuti da ogni lavoro creatore. Politicamente i funzionari sindacali
suscitarono continui ostacoli alla dittatura, costituendo uno Stato
nello Stato, economicamente rimasero inerti: più di una volta le
fabbriche dovettero essere socializzate contro la volontà dei
sindacati. Ma i leaders delle organizzazioni ungheresi erano limitati
spiritualmente, avevano una psicologia burocratico-riformista, e
temevano continuamente di perdere il potere che avevano fino ad allora
esercitato sugli operai. Poiché la funzione per cui il sindacato si era
sviluppato fino alla dittatura era inerente al predominio della classe
borghese, e poiché i funzionari non avevano una capacità tecnica
industriale, essi sostenevano l’immaturità della classe proletaria alla
gestione diretta della produzione, essi sostenevano la "vera"
democrazia, cioè la conservazione della borghesia nelle sue posizioni
principali di classe proletaria, essi volevano perpetuare ed esasperare
l’era dei concordati, dei contratti di lavoro, della legislazione
sociale, per essere in grado di far valere la loro competenza. Essi
volevano che si attendesse la ... rivoluzione internazionale, non
potendo comprendere che la rivoluzione internazionale si manifestava
appunto in Ungheria con la rivoluzione ungherese, in Russia con la
rivoluzione russa, in tutta l’Europa con gli scioperi generali, con i
pronunciamenti militari, con le condizioni di vita rese impossibili
alla classe lavoratrice dalle conseguenze della guerra.
Carattere
"Il Grido del Popolo", 3 marzo 1917
I
nostri avversari non si preoccupano di giudicare l'atteggiamento dei
socialisti alla stregua dei principi e dei metodi che i socialisti
hanno sempre professato e seguito. Far ciò vorrebbe dire giudicare
veramente, e fare cosa concreta. Essi non tentano neppure questo
giudizio, ne sono incapaci.
Dinanzi
a degli uomini di carattere, perdono la bussola, brancolano nel buio,
si disperano in tutti i vicoli ciechi del pettegolezzo, della
maldicenza, della diffamazione. Non comprendono un contegno rettilineo,
rigidamente coerente. Sono ipnotizzati dai fatti, dall'attualità. Non
comprendono l'uomo di carattere, che i fatti pesa e giudica non tanto
in sé e per sé quanto con la concatenazione che hanno col passato e con
l'avvenire. Che i fatti giudica quindi specialmente per i loro effetti,
per la loro eternità. Sono dei mistici del fatto. E il mistico non può
giudicare, può solamente benedire o odiare.
Ma
è questa la forza dei socialisti italiani. Aver conservato un
carattere. Essere riusciti a vincere i sentimentalismi, essere riusciti
a strozzare i palpiti del cuore, come stimoli all'azione, come stimolo
alle manifestazione di vita collettiva. I socialisti italiani hanno
realizzato, in questo periodo della storia, l'umanità più perfetta per
i fini della Storia. L'umanità che non cade nelle facili trappole
dell'illusione. L'umanità che ha rinnegato come inutili e nocive, le
forme inferiori della vita spirituale: l'impulso del buon cuore e del
sentimentalismo.
Le ha
rinnegate coscientemente. Perché ha saputo assimilare gli insegnamenti
dei suoi maestri più grandi, e gli insegnamenti che scaturivano
spontaneamente dalla realtà borghese morsa dai reagenti della critica
socialista. I socialisti italiani sono rimasti incrollabili entro i
ranghi determinati dall'esigenza delle classi sociali. Non si sono
turbati, come collettività, per gli spettacoli dolorosi che si
presentano ai loro occhi. Non sono svenuti, come collettività, quando è
stato loro scagliato fra i piedi il cadavere ancora palpitante di un
bambino assassinato. La commozione che ogni singolo ha provato, la
stretta al cuore, le simpatie che ogni singolo ha potuto provare, non
hanno scalfito la granitica compattezza della classe.
Se
ogni singolo ha un cuore, la classe, come tale, non ha cuore nel senso
che alla parola è solito dare l'umanesimo infrollito. La classe ha una
volontà, la classe ha un carattere. Di questa volontà, di questo
carattere è plasmata tutta la sua vita, senza alcun residuo. Come
classe non può avere solidarietà che di classe, altra forma di lotta
che quella di classe, altra nazione che la classe, cioè
l'Internazionale. Il suo cuore non è che la coscienza del suo essere
classe, la coscienza dei suoi fini, la coscienza del suo avvenire.
Dell'avvenire che è solamente suo, per il quale non domanda solidarietà
e collaborazione a nessuno, per il quale non vuole che palpiti il cuore
di nessuno, ma palpiti solo, nella sua immensa potenzialità dinamica e
creatrice, la sua volontà tenace, implacabili contro tutto e tutti che
a lei siano estranei.
I
nostri avversari non comprendono questo. In Italia non si conosce il
carattere. Ed è questa l'unica cosa in cui i socialisti possano
giovare, e abbiano giovato all'italianità. Hanno dato all'Italia ciò
che finora le è sempre mancato. Un esempio vivo e drammaticamente
palpitante di carattere adamantino e fieramente superbo di se stesso.
Un anno di storia
"Il Grido del Popolo", 16 marzo 1918
Un
anno è trascorso, dal giorno in cui il popolo russo costringeva lo zar
Nicola II ad abdicare e prendere la via dell'esilio. La commemorazione
dell'anniversario è poco lieta. Dolore, rovina, apparenza di sfacelo,
controffensiva borghese con le baionette e le mitragliatrici
tedesche.
E'
finita la rivoluzione russa? E' fallito, in Russia, il proletariato,
nel più grande dei tentativi di riscossa che esso abbia mai tentato
nella storia? Le apparenze sono sconfortanti: i generali tedeschi sono
arrivati ad Odessa: i giapponesi si dice stiano per intervenire; 50
milioni di cittadini sono stati staccati dalla rivoluzione, e con essi
le terre più fertili, gli sbocchi al mare, le strade della civiltà e
della vita economica. La rivoluzione nata dal dolore e dalla
disperazione, continua nel dolore e nelle sofferenze, stretta in un
anello di potenze nemiche, immersa in un mondo economico refrattario
alle sue idealità, ai suoi fini.
Nel
marzo del 1917 il telegrafo ci annunziò che un mondo era crollato in
Russia: mondo effimero ormai, inanimata parvenza di un potere che era
sorto, si era rafforzato, si era trascinato, con la violenza
sanguinosa, con la compressione degli spiriti, con la tortura delle
carni dilaniate. Aveva questo potere suscitato una grande macchina
statale. 170 milioni di creature umane erano state costrette a
dimenticare la loro umanità, la loro spiritualità per servire. A che?
All'idea dell'Impero russo, del grande Stato russo che doveva arrivare
ai mari caldi e aperti per assicurare all'attività economica sbocchi
sicuri da ogni taglia di concorrenti, da ogni sorpresa di guerra.
L'Impero russo era una mostruosa necessità del mondo moderno: per
vivere, svilupparsi, per assicurarsi le vie dell'attività, dieci razze,
170 milioni di uomini dovevano sottostare a una disciplina statale
feroce; dovevano rinunziare all'umanità ed essere puro strumento del
potere.
Nel
marzo 1917 la macchina mostruosa crolla, imputridita, disfatta nella
sua impotenza congenita. Gli uomini si drizzano, si guardano negli
occhi. Tutti i valori umani hanno il sopravvento. L'esteriorità non ha
più valore; troppo male ha fatto, troppi dolori ha prodotto, troppo
sangue ha versato. Incomincia la storia, la vera storia. Ognuno vuole
essere padrone del proprio destino, si vuole che la società sia
plasmata in ubbidienza allo spirito, e non viceversa. L'organizzazione
della convivenza civile deve essere espressione di umanità, deve
rispettare tutte le autonomie, tutte le libertà. Incomincia la nuova
storia della società umana, incominciano le esperienze nuove della
storia dello spirito umano. Esse vengono a coincidere con le
espressioni che l'ideale socialista aveva dato ai bisogni elementari
degli uomini. I socialisti come ceto politico salgono al potere senza
troppi sforzi: le parole della loro fede coincidono con le aspirazioni
confuse e vaghe del popolo russo.
Essi
devono realizzare l'organizzazione nuova, devono dettare le nuove
leggi, stabilire i nuovi ordinamenti. Il passato continua a sussistere;
viene disgregato. Si ha la parvenza dello sfacelo, del disordine, della
confusione. Sembra che si ritorni alla società barbarica, cioè alla non
società. Il passato continua a sussistere oltre il territorio della
libertà, e preme e vuole prendere una rivincita.
L'ordine
nuovo tarda a realizzarsi. Tarda? O uomini scettici e perversi, non
tarda, no perché non si rifà una società in un fiat, perché il male del
passato non è un edifizio di cartapesta cui si dà fuoco in un attimo.
Doloroso sforzo è la vita, lotta tenace contro le abitudini, contro
l'animalità e l'istinto grezzo che latra continuamente. Non si crea una
società umana in sei mesi, quando tre anni di guerra hanno esaurito un
paese, l'hanno privato dei mezzi meccanici per la vita civile. Non si
riorganizzano milioni e milioni di uomini in libertà, così,
semplicemente, quando tutto è avverso, e non sussiste che lo spirito
indomabile. La storia della rivoluzione russa non si è chiusa e non si
chiuderà con l'anniversario del suo iniziarsi. Come un canto esiste
nella fantasia del poeta prima che sulla carta stampata, l'avvento
dell'organizzazione sociale esiste nelle coscienze e nelle volontà.
Sono gli uomini cambiati: questo importa. Si vuole l'esteriorità, la
carta stampata. Si stride per ogni insuccesso, per ogni rovescio
apparente.
Si
domanda ai russi ciò che gli storici non domandano alle rivoluzioni
passate: la creazione fulminea di un ordine nuovo. Si suppongono
propositi che non sono mai esistiti, speranze che non sono mai state
sognate. E questi propositi, queste speranze sono confrontate con la
realtà attuale per concludere al fallimento, allo sfacelo. Con la
realtà che si dice sortita da un anno di nuova storia, ma che è sortita
da secoli di bestiale soppressione dell'uomo dalla storia. Si domanda
l'impossibile che non è mai stato domandato agli uomini del
passato.
Quante
volte la Rivoluzione francese ha visto occupata la capitale dai nemici?
E l'occupazione veniva dopo che Napoleone aveva organizzato
autoritariamente le forze rivoluzionarie, e aveva condotto gli eserciti
francesi di vittoria in vittoria. E la Francia era ben piccola cosa in
confronto della Russia sterminata.
No,
le forze meccaniche non prevalgono mai nella storia: sono gli uomini,
sono le coscienze, è lo spirito che plasma l'esteriore apparenza, e
finisce sempre col trionfare. Un anno di storia si è chiuso, ma la
storia continua, (sei righe censurate).
Bilanci rossi
L'Avanti, 4 aprile 1919
I
bilanci rossi della Russia soviettista sono passivi, crudelmente
passivi. Il "Momento" ne piange come un vitellino, il "Momento" ne
soffre con tutta l'anima sua francescana. Pensate, pensate: 13.700
persone fucilate al primo gennaio 1919 come controrivoluzionarie, senza
contare quelle condannate "per intuizione"; pensate, pensate, lo ha
dichiarato lo stesso commissario Lissoflski. E diciassette miliardi di
deficit, pensate, pensate, piangete, piangete, o cuoricini di burro
alberganti nei seni di zucchero filato delle tenere Perpetue o dei
sentimenti curati!
Vade retro, o
comunismo, qua l'aspersorio contro il Soviet; crudeli e nefandissimi
mostri apocalittici, giammai fascinerete le tenerissime Perpetue,
giammai udrete Te Deum in vostra gloria! Quando mai apparve sulla
incruenta terra una macchina di strage, un flagello distruttore di vite
e di miliardi, così orripilante come la Rivoluzione soviettista? Cos'è
stata la strage degli Albigesi? Un gioco da giardino d'infanzia: e, per
carità, non pensate mica che Innocenzo papa sia stato un precursore
dell' "intuizionismo", quando predicava di uccidere, di uccidere,
poiché tanto il Signor Iddio Misericordioso avrebbe, egli, nel suo
onnisapere, sceverato la bianca agnella dalla pecora tignosa;
dimostrerete di essere solo un volgare anticlericale, senza rudimento
alcuno di teologia e di catechismo.
Cos'è
stata la guerra dei contadini in Germania? Un giocattolo di Norimberga,
sebbene si affermi abbia distrutto dodici milioni di vite umane. Cosa
sono state le distruzioni di fiamminghi , di Incas, e di marrani
commessi dai cattolicissimi re spagnoli? Servizi alla santa religione
sono stati, corvées devotissime di vassalli del Signor Nostro
Onnipotente Gesù Cristo. Cosa sono i dieci milioni di morti e dieci
milioni di invalidi e mutilati, eredità della guerra che Sua Santità
Benedetto ha definito "inutile strage", ma che il "Momento" crede
utilissima, poiché Sua Santità è Pontefice della Chiesa Cattolica,
mentre il "Momento" è solo organo del Partito popolare italiano?
Cosa
sono i venti milioni di morti per grippe o febbre spagnola, o peste
polmonare, ossia peste di guerra, determinata e propagata e coltivata
dalle condizioni create e lasciate dalla guerra? Cosa sono le migliaia
e migliaia di creature umane che muoiono quotidianamente di fame, di
scorbuto, di assideramento in Romania, in Boemia, in Armenia, in India,
per accennare solo a paesi amici dell'Intesa? Cosa sono gli ottanta
miliardi di deficit del bilancio Italiano, i centoventi miliardi del
bilancio francese, i duemila miliardi di danni determinati dalla
guerra? Cosa sono stati i cinquecentomila russi sterminati dal governo
zarista nella repressione dei Soviet del 1905? Cosa farebbero i
ventimilioni di russi che verrebbero sterminati se trionfasse la
controrivoluzione dei generali Krasnof, Denikin e Kolciak, gli amici
dell'Intesa che fanno impiccare ed esporre per tre giorni un operaio su
dieci dei paesi che riescono a riconquistare, gli amici dell'Intesa che
spediscono a Pietrogrado vagoni piombati di soldati soviettisti
tagliati a pezzettini?
Cosa sono, cosa
sono?... Bazzecole, piccolezze, azioni magnanime, in confronto di
13.700 fucilati e 17 miliardi di deficit. La rivoluzione sociale è il
flagello, è il mostro apocalittico. Cos'è, cosa vale infatti una vita
proletaria in confronto di una vita borghese? Studiate economia, che
diamine; un borghese vale almeno diecimila proletari; i 13.700 fucilati
dai Soviet valgono dunque 137 milioni di proletari e non sono 137
milioni di proletari che il capitalismo internazionale ha svenato per i
suoi affari, per concimare le sue messi.
Piangete,
piangete, dunque, tenerissime Perpetue e sensibilissimi curati del
Piemonte, e non lasciatevi fascinare dal comunismo, dal Soviet, dalla
rivoluzione sociale.
La taglia della storia
Da "L'ordine nuovo ", 7 giugno 1919
Cosa domanda ancora la storia al proletariato russo per legittimare e
rendere permanenti le sue conquiste? Quale altra taglia di sangue e di
sacrifizio pretende ancora questa sovrana assoluta del destino degli
uomini? Le difficoltà e le obiezioni che la rivoluzione proletaria deve
superare si sono rilevate immensamente superiori a quelle di ogni altra
rivoluzione del passato. Queste tendevano solo a correggere la forma
della proprietà privata e nazionale dei mezzi di produzione e di
scambio; toccavano una parte limitata degli aggregati umani.
La
rivoluzione proletaria è la massima rivoluzione: poiché vuole abolire
la proprietà privata e nazionale, e abolire le classi, essa coinvolge
tutti gli uomini, non solo una parte di essi. Obbliga tutti gli uomini
a muoversi, a intervenire nella lotta, a parteggiare esplicitamente.
Trasforma la società fondamentalmente: da organismo pluricellulare;
pone a base della società nuclei già organici di società stessa.
Costringe tutta la società a identificarsi con lo Stato, vuole che
tutti gli uomini siano consapevolezza spirituale e storica. Perciò la
rivoluzione proletaria è sociale: perciò deve superare difficoltà e
obiezioni inaudite, perciò la storia domanda per il suo buon
riuscimento pone taglie mostruose come quelle che il popolo russo è
costretto a pagare.
La rivoluzione russa
ha trionfato finora di tutte le obiezioni della storia. Ha rivelato al
popolo russo una aristocrazia di statisti che nessun'altra nazione
possiede; sono un paio di migliaia di uomini che tutta la vita hanno
dedicato allo studio (sperimentale) delle scienze politiche ed
economiche, che durante decine d'anni d'esilio hanno analizzato e
sviscerato tutti i problemi della rivoluzione, che nella lotta, nel
duello impari contro la potenza dello zarismo, si sono temprati un
carattere d'acciaio, che, vivendo a contatto con tutte le forme della
civiltà capitalistica d'Europa, d'Asia, d'America, immergendosi nelle
correnti mondiali dei traffici e della storia, hanno acquistato una
coscienza di responsabilità esatta e precisa, fredda e tagliente come
la spada dei conquistatori d'imperi.
I
comunisti russi sono un ceto dirigente di primo ordine. Lenin si è
rivelato, testimoni tutti quelli che lo hanno avvicinato, il più grande
statista dell'Europa contemporanea; l'uomo che sprigiona il prestigio,
che infiamma e disciplina i popoli; l'uomo che riesce, nel suo vasto
cervello, a dominare tutte le energie sociali del mondo che possono
essere rivolte a benefizio della rivoluzione; che tiene in scacco e
batte i più raffinati e volpisti statisti della routine borghese. Ma
altro è la dottrina comunista, il partito politico che la propugna, la
classe operaia che la incarna consapevolmente, e altro è l'immenso
popolo russo, disfatto, disorganizzato, gettato in un cupo abisso di
miseria, di barbarie, di anarchia, di dissoluzione da una guerra lunga
e disastrosa.
La grandezza politica, il
capolavoro storico dei bolscevichi in ciò appunto consiste: nell'aver
risollevato il gigante caduto, nell'aver ridato (o dato per la prima
volta) una forma concreta e dinamica a questo sfacelo, a questo caos;
nell'aver saputo saldare la dottrina comunista con la coscienza
collettiva del popolo russo, nell'aver gettato le solide fondamenta
sulle quali la società comunista ha iniziato il suo processo di
sviluppo storico, nell'avere, in una parola, tradotto storicamente
nella realtà sperimentale la formula marxista della dittatura del
proletariato.
La rivoluzione è tale e
non una vuota gonfiezza della retorica demagogica, quando si incarna in
un tipo di Stato, quando diventa un sistema organizzato del potere. Non
esiste società se non in uno Stato, che è la sorgente e il fine di ogni
diritto e di ogni dovere, che è garanzia di permanenza e di successo di
ogni attività sociale. La rivoluzione proletaria è tale quando dà vita
e s'incarna in uno Stato tipicamente proletario, custode del diritto
proletario, che svolge le sue funzioni essenziali come emanazione della
vita e della potenza proletaria.
I
bolscevichi hanno dato forma statale alle esperienze storiche della
classe operaia e contadina internazionale; hanno sistemato in organismo
complesso e agilmente articolato la sua vita più intima, la sua
tradizione e la sua storia spirituale e sociale più profonda e amata.
Hanno rotto col passato, ma hanno continuato il passato; hanno spezzato
una tradizione, ma hanno sviluppato ed arricchito la tradizione vitale
della classe proletaria, operaia e contadina. In ciò sono stati
rivoluzionari, perciò hanno instaurato l'ordine e la disciplina nuovi.
La
rottura è irrevocabile, perché tocca l'essenziale della storia, è senza
possibilità di ritorni indietro, che altrimenti un immane disastro
piomberebbe sulla società russa. Ed ecco iniziarsi un formidabile
duello con tutte le necessità della storia, dalle più elementari alle
più complesse, che occorreva incorporare nel nuovo Stato proletario.
Bisognava conquistare al nuovo Stato la maggioranza leale del popolo
russo. Bisognava rivelare al popolo russo che il nuovo Stato era il suo
Stato, la sua vita, il suo spirito, la sua tradizione, il suo
patrimonio più prezioso.
Lo Stato dei
Soviet aveva un ceto dirigente, il Partito comunista bolscevico; aveva
l'appoggio di una minoranza sociale rappresentante la consapevolezza di
classe, degli interessi vitali e permanenti di tutta la classe, gli
operai dell'industria. Esso è divenuto lo Stato di tutto il popolo
russo e ciò ha ottenuto la tenace perseveranza del Partito comunista,
la fede e la lealtà entusiastiche degli operai, l'assidua e incessante
opera di propaganda, di rischiaramento, di educazione degli uomini
eccezionali del comunismo russo, condotti dalla volontà chiara e
rettilinea del maestro di tutti, Nicola Lenin.
Il
Soviet si è dimostrato immortale come la forma di società organizzata
che aderisce plasticamente ai multiformi bisogni (economici e politici)
permanenti e vitali della grande massa del popolo russo, che incarna e
soddisfa le aspirazioni e le speranze di tutti gli oppressi del mondo.
La guerra lunga e disgraziata aveva lasciato una triste eredità di
miseria, di barbarie, di anarchia; l'organizzazione dei servizi sociali
era sfatta; la compagine umana stessa si era ridotta a un'orda nomade
di senza lavoro, senza volontà, senza disciplina, materia opaca di
un'immensa decomposizione.
Il nuovo
Stato raccoglie dalle macerie i frantumi logori della società e li
ricompone, li rinsalda: ricrea una fede, una disciplina, un'anima, una
volontà di lavoro e di progresso. Compito che potrebbe essere gloria di
un'intera generazione. Non basta. La storia non è contenta di questa
prova. Nemici formidabili si drizzano implacabilmente contro il nuovo
Stato. Si batte moneta falsa per corrompere il cittadino, si stuzzica
il suo stomaco affamato. La Russia viene tagliata da ogni sbocco al
mare, da ogni traffico, da ogni solidarietà: viene privata
dell'Ucraina, del bacino del Donetz, della Siberia, di ogni mercato di
materia prime e di viveri. Su un fronte di diecimila chilometri bande
di armati minacciano l'invasione: sollevazioni, tradimenti, vandalismi,
atti di terrorismo e sabotaggio vengono pagati. Le vittorie più
clamorose si tramutano, per tradimento, in rovesci subitanei. Non
importa.
Il potere dei Soviet resiste:
dal caos della disfatta crea un esercito potente che diviene la spina
dorsale dello Stato proletario. Premuto da forze antagonistiche immani
trova in sé il vigore intellettuale e la plasticità storica per
adattarsi alla necessità della contingenza, senza snaturarsi, senza
compromettere il felice processo di sviluppo verso il comunismo.
Democrazia operaia
L'Ordine Nuovo", 21 giugno 1919
Un problema si impone oggi assillante a ogni socialista che senta vivo
il senso della responsabilità storica che incombe sulla classe
lavoratrice e sul Partito che della missione di questa classe
rappresenta la consapevolezza critica e operante. Come dominare le
immense forze sociali che la guerra ha scatenato? Come disciplinarle e
dar loro una forma politica che contenga in sé la virtù di svilupparsi
normalmente, di integrarsi continuamente, fino a diventare l'ossatura
dello Stato socialista nel quale si incarnerà la dittatura del
proletariato? Come saldare il presente all'avvenire, soddisfacendo le
urgenti necessità del presente e utilmente lavorando per creare e
"anticipare" l'avvenire?
Questo scritto
vuole essere uno stimolo a pensare e ad operare; vuole essere un invito
ai migliori e più consapevoli operai perché riflettano e, ognuno nella
sfera della propria competenza e della propria azione, collaborino alla
soluzione del problema, facendo convergere sui termini di esso
l'attenzione dei compagni e delle associazioni. Solo da un lavoro
comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione
reciproca nascerà l'azione concreta di costruzione.
Lo
Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita
sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata. Collegare
tra di loro questa istituti, coordinarli e subordinarli in una
gerarchia di competenze e di poteri, accentrarli fortemente, pur
rispettando le necessarie autonomie e articolazioni, significa creare
già fin d'ora una vera e propria democrazia operaia, in
contrapposizione efficiente ed attiva con lo Stato borghese, preparata
già fin d'ora a sostituire lo Stato borghese in tutte le sue funzioni
essenziali di gestione e di dominio del patrimonio nazionale.
Il
movimento operaio è oggi diretto dal Partito socialista e dalla
Confederazione del Lavoro; ma l'esercizio del potere sociale del
Partito e della Confederazione si attua, per la grande massa
lavoratrice, indirettamente, per forza di prestigio e d'entusiasmo, per
pressione autoritaria, per inerzia persino. La sfera di prestigio del
Partito si amplia quotidianamente, attinge strati popolari finora
inesplorati, suscita consenso e desiderio di lavorare proficuamente per
l'avvento del comunismo in gruppi e individui finora assenti dalla
lotta politica.
E' necessario dare una
forma politica e una disciplina permanente a queste energie disordinate
e caotiche, assorbirle, comporle e potenziarle, fare della classe
proletaria e semiproletaria una società organizzata che si educhi, che
si faccia una esperienza, che acquisti una consapevolezza responsabile
dei doveri che incombono alle classi arrivate al potere dello Stato. Il
Partito socialista e i sindacati professionali non possono assorbire
tutta la classe lavoratrice, che attraverso un lavorio di anni e di
decine di anni. Essi non si identificheranno immediatamente con lo
Stato proletario; nelle Repubbliche comuniste infatti essi continuano a
sussistere indipendentemente dallo Stato, come istituti di propulsione
(il Partito) o di controllo e di realizzazione parziale (i sindacati).
Il Partito deve continuare ad essere l'organo di educazione comunista,
il focolare della fede, il depositario della dottrina, il potere
supremo che armonizza e conduce alla meta le forze organizzate e
disciplinate della classe operaia e contadina.
Appunto
per svolgere rigidamente questo suo ufficio, il Partito non può
spalancare le porte all'invasione di nuovi aderenti, non abituati
all'esercizio della responsabilità e della disciplina. Ma la vita
sociale della classe lavoratrice è ricca di istituti, si articola in
molteplici attività. Questi istituti e queste attività bisogna appunto
sviluppare, organizzare complessivamente, collegare in un sistema vasto
e agilmente articolato che assorba e disciplini l'intera la classe
lavoratrice. L'officina con le sue commissioni interne, i circoli
socialisti, le comunità contadine, sono i centri di vita proletaria nei
quali occorre direttamente lavorare. Le commissioni interne sono organi
di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte
dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia.
Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella
fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate
ed arricchite, dovranno essere domani gli organi di potere proletario
che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di
direzione e di amministrazione.
Già fin
d'ora gli operai dovrebbero procedere alla elezione di vaste assemblee
di delegati, scelti fra i migliori e più consapevoli compagni, sulla
parola d'ordine: "Tutto il potere dell'officina ai comitati
d'officina", coordinata all'altra: "Tutto il potere dello Stato ai
Consigli operai e contadini". Un vasta campo di propaganda concreta
rivoluzionaria si aprirebbe per i comunisti organizzati nel Partito e
nei circoli rionali. I circoli, d'accordo con le sezioni urbane,
dovrebbero fare un censimento delle forze operaie della zona, e
diventare la sede del consiglio rionale dei delegati dell'officina, il
ganglio che annoda e accentra tutte le energie proletarie del rione.
I
sistemi elettorali potrebbero variare a seconda della vastità delle
officine: si dovrebbe cercare però di far eleggere un delegato ogni 15
operai divisi per categoria (come si fa nelle officine inglesi),
arrivando, per elezioni graduali, a un comitato di delegati di fabbrica
che comprenda rappresentanti di tutto il complesso del lavoro (operai,
impiegati, tecnici). Nel comitato rionale dovrebbe tendersi a
incorporare delegati anche delle altre categorie di lavoratori abitanti
nel rione: camerieri, vetturini, tranvieri, ferrovieri, spazzini,
impiegati, privati, commessi, ecc. Il comitato rionale dovrebbe essere
emanazione di tutta la classe lavoratrice abitante nel rione,
emanazione e legittima e autorevole, capace di far rispettare una
disciplina, investita del potere, spontaneamente delegato, ed ordinare
la cessazione immediata e integrale di ogni lavoro in tutto il rione. I
comitati rionali si ingrandirebbero in commissariati urbani,
controllati e disciplinati dal Partito socialista e dalle federazioni
di mestiere.
Un tale sistema di
democrazia operaia (integrato con organizzazioni equivalenti di
contadini) darebbe una forma e una disciplina alle masse, sarebbe una
magnifica scuola di esperienza politica e amministrativa, inquadrerebbe
le masse fino all'ultimo uomo, abituandole alla tenacia e alla
perseveranza, abituandole a considerarsi come un esercito in campo che
ha bisogno di una ferma coesione se non vuole essere distrutto e
ridotto in schiavitù.
Ogni fabbrica
costruirebbe uno o più reggimenti di questo esercito, coi suoi
caporali, coi suoi servizi di collegamento, con la sua ufficialità, col
suo stato maggiore, poteri delegati per libera elezione, non imposti
autoritariamente. Attraverso i comizi, tenuti all'interno
dell'officina, con l'opera incessante di propaganda e di persuasione
sviluppata dagli elementi più consapevoli, si otterrebbe una
trasformazione radicale della psicologia operaia, si renderebbe la
massa meglio preparata e capace all'esercizio del potere, si
diffonderebbe una coscienza dei doveri e dei diritti del compagno e del
lavoratore, concreta ed efficiente perché generata spontaneamente
dall'esperienza viva e storica.
Abbiamo
già detto: questi rapidi appunti si propongono solo di stimolare il
pensiero e all'azione. Ogni aspetto del problema meriterebbe una vasta
e profonda trattazione, delucidazioni, integrazioni sussidiarie e
coordinate. Ma la soluzione concreta e integrale dei problemi di vita
socialista può essere data solo dalla pratica comunista: la discussione
in comune, che modifica simpaticamente le coscienze unificandole e
colmandole di entusiasmo operoso.
Dire
la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e
rivoluzionaria. La formula "dittatura del proletariato" deve finire di
essere solo una formula, un'occasione per sfoggiare fraseologia
rivoluzionaria. Chi vuole il fine, deve volere anche i mezzi. La
dittatura del proletariato è l'instaurazione di un nuovo Stato,
tipicamente proletario, nel quale confluiscono le esperienze
istituzionali della classe oppressa, nel quale la vita sociale della
classe operaia e contadina diventa sistema diffuso e fortemente
organizzato.
Questo Stato non si
improvvisa: i comunisti bolscevichi russi per otto mesi lavorano a
diffondere e far diventare concreta la parola d'ordine: tutto il potere
ai Soviet, ed i Soviet erano noti agli operai russi fin dal 1905. I
comunisti devono far tesoro dell'esperienza russa ed economizzare tempo
e lavoro: l'opera di ricostruzione domanderà per sé tanto tempo e tanto
lavoro, che ogni giorno e ogni atto dovrebbe poterle essere destinato.
La conquista dello stato
L'Ordine Nuovo", 12 luglio 1919
La concentrazione capitalistica, determinata dal modo di produzione,
produce una corrispondente concentrazione di masse umane lavoratrici.
In questo fatto bisogna cercare l'origine di tutte le tesi
rivoluzionarie del marxismo, bisogna cercare le condizioni del costume
nuovo proletario, dell'ordine nuovo comunista destinato a sostituire il
costume borghese, il disordine capitalistico generato dalla libera
concorrenza e dalla lotta di classe.
Nella
sfera dell'attività generale capitalistica, anche il lavoratore opera
sul piano della libera concorrenza, è un individuo-cittadino. Ma le
condizioni di partenza della lotta non sono uguali per tutti, nello
stesso tempo: l'esistenza della proprietà privata pone la minoranza
sociale in condizioni di privilegio, rende impari la lotta. Il
lavoratore è continuamente esposto ai rischi più micidiali: la sua vita
stessa elementare, la sua cultura, la vita e l'avvenire della sua
famiglia sono esposti ai contraccolpi bruschi delle variazioni del
mercato del lavoro. Il lavoratore tenta allora di uscire dalla sfera
della concorrenza e dell'individualismo.
Il
principio associativo e solidaristico diventa essenziale della classe
lavoratrice, muta la psicologia e i costumi degli operai e contadini.
Sorgono istituti e organi nei quali questo principio si incarna; sulla
base di essi si inizia il processo di sviluppo storico che conduce al
comunismo dei mezzi di produzione e di scambio. L'associazionismo può e
deve essere assunto come il fatto essenziale della rivoluzione
proletaria. Dipendentemente da questa tendenza storica sono sorti nel
periodo precedente all'attuale (che possiamo chiamare periodo della I e
II Internazionale o periodo di reclutamento) e si sono sviluppati i
Partiti socialisti e i sindacati professionali. Lo sviluppo di queste
istituzioni proletarie e di tutto il movimento proletario in genere non
fu però autonomo, non ubbidiva a leggi proprie immanenti nella vita e
nella esperienza storica della classe lavoratrice sfruttata. Le leggi
della storia erano dettate dalla classe proprietaria organizzata nello
Stato.
Lo Stato è sempre stato il
protagonista della storia, perché nei suoi organi si accentra la
potenza della classe proprietaria, nello Stato la classe proprietaria
si disciplina e si compone in unità, sopra i dissidi e i cozzi della
concorrenza, per mantenere intatta la condizione di privilegio nella
fase suprema della concorrenza stessa: la lotta di classe per il
potere, per la preminenza nella direzione e nel disciplinamento della
società. In questo periodo il movimento proletario fu solo una funzione
della libera concorrenza capitalistica. Le istituzioni proletarie
dovettero assumere una forma non per legge interna, ma per legge
esterna, sotto la pressione formidabile di avvenimenti e di coercizioni
dipendenti dalla concorrenza capitalistica. Da ciò hanno tratto origine
gli intimi conflitti, le deviazioni, i tentennamenti, i compromessi che
caratterizzano tutto il periodo di vita del movimento proletario
precedente all'attuale, e che hanno culminato nella bancarotta della II
Internazionale.
Alcune correnti del
movimento socialista e proletario avevano posto esplicitamente come
fatto essenziale della rivoluzione l'organizzazione operaia di
mestiere, e su questa base fondavano la loro propaganda e la loro
azione. Il movimento sindacalista parve, per un momento, essere il vero
interprete del marxismo, vero interprete della verità. L'errore del
sindacalismo consiste in ciò: nell'assumere come fatto permanente, come
forma perenne dell'associazionismo, il sindacato professionale nella
forma e con le funzioni attuali, che sono imposte e non proposte, e
quindi non possono avere una linea costante e prevedibile di sviluppo.
Il sindacalismo, che si presentò come iniziatore di una tradizione
liberista "spontaneista", è stato in verità uno dei tanti camuffamenti
dello spirito giacobino e astratto.
Da
ciò gli errori della corrente sindacalista, che non riuscì a sostituire
il Partito socialista nel compito di educare alla rivoluzione la classe
lavoratrice. Gli operai e i contadini sentivano che, per tutto il
periodo in cui la classe proletaria e lo Stato democratico-parlamentare
dettano le leggi della storia, ogni tentativo d'evasione dalla sfera di
queste leggi è inane e ridicolo. E' certo che nella configurazione
generale assunta dalla società colla produzione industriale, ogni uomo
può attivamente partecipare alla vita e modificare l'ambiente solo in
quanto opera come individuo cittadino, membro dello Stato
democratico-parlamentare.
L'esperienza
liberale non è vana e non può essere superata se non dopo averla fatta.
L'apoliticismo degli apolitici fu solo una degenerazione della
politica: negare e combattere lo Stato è fatto politico tanto quanto
inserirsi nell'attività generale storica che si unifica nel Parlamento
e nei comuni, istituzioni popolari dello Stato. Varia la qualità del
fatto politico: i sindacalisti lavorano fuori dalla realtà, e quindi la
loro politica era fondamentalmente errata; i socialisti parlamentaristi
lavoravano nell'intimo delle cose, potevano sbagliare (commisero anzi
molti e pesanti sbagli) ma non errarono nel senso della loro azione e
perciò trionfarono nella "concorrenza"; le grandi masse, quelle che con
il loro intervento modificano obiettivamente i rapporti sociali, si
organizzarono intorno al Partito socialista.
Nonostante
tutti gli sbagli e le manchevolezze, il Partito riuscì, in ultima
analisi, nella sua missione: far diventare qualcosa il proletariato che
prima era nulla, dargli una consapevolezza, dare al movimento di
liberazione un senso diritto e vitale che corrispondeva, nelle linee
generali, al processo di sviluppo storico della società umana. Lo
sbaglio più grave del movimento socialista è stato di natura simile a
quello dei sindacalisti. Partecipando all'attività generale della
società umana nello Stato, i socialisti dimenticarono che la loro
posizione doveva mantenersi essenzialmente di critica, di antitesi. Si
lasciarono assorbire dalla realtà, non la dominarono.
I
comunisti marxisti devono caratterizzarsi per una psicologia che
possiamo chiamare "maieutica" (metodo di interrogare l'interlocutore
per aiutarlo a mettere in luce il suo pensiero). La loro azione non è
di abbandono al corso degli avvenimenti determinati dalle leggi della
concorrenza borghese, ma di aspettazione critica. La storia è un
continuo farsi, è quindi essenzialmente imprevedibile. Ma ciò non
significa che "tutto" sia imprevedibile nel farsi della storia, che
cioè la storia sia dominio dell'arbitrio e del capriccio
irresponsabile. La storia è insieme libertà e necessità.
Le
istituzioni, nel cui sviluppo e nella cui attività la storia si
incarna, sono sorte e si mantengono perché hanno un compito e una
missione da realizzare. Sono sorte e si sono sviluppate determinate
condizioni obiettive di produzione dei beni materiali e di
consapevolezza spirituale degli uomini. Se queste condizioni obiettive,
che per la loro natura meccanica sono commensurabili quasi
matematicamente, mutano, muta anche la somma di rapporti che regolano e
informano la società umana, muta il grado di consapevolezza degli
uomini; la configurazione sociale si trasforma, le istituzioni
tradizionali si immiseriscono, sono adeguate al loro compito, diventano
ingombranti e micidiali.
Se nel farsi
della storia l'intelligenza fosse incapace a togliere un ritmo, a
stabilire un processo, la vita della civiltà sarebbe impossibile: il
genio politico si riconosce appunto da questa capacità di impadronirsi
del maggior numero possibile di termini concreti necessari e
sufficienti per fissare un processo di sviluppo e della capacità quindi
di anticipare il futuro prossimo e remoto e sulla linea di questa
intuizione impostare l'attività di uno Stato, arrischiare la fortuna di
un popolo. In questo senso Carlo Marx è stato di gran lunga il più
grande dei geni politici contemporanei.
I
socialisti hanno, supinamente spesso, accertato la realtà storica
prodotto dell'iniziativa capitalistica; sono caduti nell'errore di
psicologia degli economisti liberali: credere alla perpetuità delle
istituzioni dello Stato democratico, alla loro fondamentale perfezione.
Secondo loro la forma delle istituzioni democratiche può essere
corretta, qua e là ritoccata, ma deve essere rispettata
fondamentalmente. Un esempio di questa psicologia angustamente vanitosa
è data dal giudizio minossico di Filippo Turati, secondo il quale il
parlamento sta al Soviet come la città all'orda barbarica. Da questa
errata concezione del divenire storico, dalla pratica annosa del
compromesso e da una tattica "cretinamente" parlamentarista, nasce la
formula odierna sulla "conquista dello Stato".
Noi
siamo persuasi, dopo le esperienze rivoluzionarie della Russia,
dell'Ungheria e della Germania, che lo Stato socialista non può
incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalista, ma è una
creazione fondamentalmente nuova per rispetto ad esse, se non per
rispetto alla storia del proletariato. Le istituzioni dello Stato
capitalista sono organizzate ai fini della libera concorrenza: non
basta mutare il personale per indirizzare in un altro senso la loro
attività.
Lo Stato socialista non è
ancora il comunismo, cioè l'instauramento di una pratica e di un
costume economico solidaristico, ma è lo Stato di transizione che ha il
compito di sopprimere la concorrenza con la soppressione della
proprietà privata, delle classi, delle economie nazionali: questo
compito non può essere attuato dalla democrazia parlamentare. La
formula "conquista dello Stato" deve essere intesa in questo senso:
creazione di un nuovo tipo di Stato, generato dalla esperienza
associativa della classe proletaria, e sostituzione di esso allo Stato
democratico-parlamentare. E qui ritorniamo al punto di partenza.
Abbiamo
detto che le istituzioni del movimento socialista e proletario del
periodo precedente all'attuale, non si sono sviluppate autonomamente,
ma come risultato della configurazione generale della società umana
dominata dalle leggi sovrane del capitalismo. La guerra ha capovolto la
situazione strategica della lotta di classe. I capitalisti hanno
perduto la preminenza; la loro libertà è limitata; il loro potere è
annullato. La concentrazione capitalistica è arrivata al massimo
sviluppo consentitole, realizzando il monopolio mondiale della
produzione e degli scambi. La corrispondente concentrazione delle masse
lavoratrici ha dato una potenza inaudita alla classe proletaria
rivoluzionaria. Le istituzioni tradizionali del movimento sono
diventate incapaci a contenere tanto rigoglio di vita rivoluzionaria.
La loro stessa forma è inadeguata al disciplinamento delle forze
inseritesi nel processo storico consapevole. Esse non sono morte.
Nate
come funzione della libera concorrenza, devono continuare a sussistere
fino alla soppressione di ogni residuo di concorrenza, fino alla
completa espressione delle classi e dei partiti, fino alla fusione
delle dittature proletarie nazionali nell'Internazionale comunista. Ma
accanto ad esse devono sorgere e svilupparsi istituzioni di tipo nuovo,
di tipo statale, che appunto sostituiranno le istituzioni private e
pubbliche dello Stato democratico parlamentare. Istituzioni che
sostituiscano la persona del capitalista nelle funzioni amministrative
e nel potere industriale, e realizzino l'autonomia del produttore nella
fabbrica; istituzioni capaci di assumere il potere direttivo di tutte
le funzioni inerenti al complesso sistema di rapporti di produzione e
di scambio che legano i reparti di una fabbrica tra di loro,
costituendo l'unità economica elementare, che legano le varie attività
dell'industria agricola, che per piani orizzontali e verticali devono
costituire l'armonioso edifizio della economia nazionale ed
internazionale, liberato dalla tirannia ingombrante e parassitaria dei
privati proprietari.
Ma la spinta e
l'entusiasmo rivoluzionario sono stati più fervidi nel proletariato
dell'Europa occidentale. Ma ci pare che alla coscienza lucida ed esatta
del fine non si accompagni una coscienza altrettanto lucida ed esatta
dei mezzi idonei, nel momento attuale, al raggiungimento del fine
stesso. Si è ormai radicata la convinzione nelle masse che lo Stato
proletario è incarnato in un sistema di Consigli di operai, contadini e
soldati. Non si è ancora formata una concezione tattica che assicuri
obiettivamente la creazione di questo Stato. E' necessario perciò
creare fin d'ora una rete di istituzioni proletarie, radicate nella
coscienza delle grandi masse, sicura della disciplina e della fedeltà
permanente delle grandi masse, nelle quali la classe degli operai e dei
contadini, nella sua totalità, assuma una forma ricca di dinamismo e di
possibilità di sviluppo.
E' certo che se
oggi, nelle condizioni attuali di organizzazione proletaria, un
movimento di masse si verificasse con carattere rivoluzionario, i
risultati si consoliderebbero in una pura correzione formale dello
Stato democratico, si risolverebbero in un aumento di potere della
Camera dei deputati (attraverso una assemblea costituente) e nella
assunzione al potere dei socialisti pasticcioni anticomunisti.
L'esperienza germanica e austriaca deve insegnare qualcosa.
Le
forze dello Stato democratico e della classe capitalistica sono ancora
immense: non bisogna dissimularsi che il capitalismo si regge
specialmente per l'opera dei suoi sicofanti e dei suoi lacchè, e la
semenza di tale genia non è certo sparita. La creazione dello Stato
proletario non è, insomma, un atto taumaturgico: è anch'essa un farsi,
è un processo di sviluppo. Presuppone un lavoro preparatorio di
sistemazione e di propaganda.
Bisogna
dare maggiori poteri alle istituzioni proletarie di fabbrica già
esistenti, farne sorgere di simili nei villaggi, ottenere che gli
uomini che le compongono siano dei comunisti consapevoli della missione
rivoluzionaria che l'istituzione deve assolvere. Altrimenti tutto il
nostro entusiasmo, tutta la fede delle masse lavoratrici non riuscirà
ad impedire che la rivoluzione si componga miseramente in un nuovo
Parlamento di imbroglioni, di fatui e di irresponsabili, e che nuovi e
più spaventosi sacrifizi siano resi necessari per l'avvento dello Stato
dei proletari.
Lo sviluppo della rivoluzione
Da "L'ordine nuovo ", 13 settembre 1919
Le tesi fondamentali dell'Internazionale comunista si possono così riassumere:
1.
la guerra mondiale 1914-18 rappresenta il verificarsi tremendo di quel
momento del processo di sviluppo della storia moderna che Marx ha
sintetizzato nell'espressione: la catastrofe del mondo capitalista;
2.
solo la classe lavoratrice può salvare la società umana dall'abisso di
barbarie e di sfacelo economico verso il quale la spingono le forze
esasperate e impazzite della classe proprietaria, e può farlo
organizzandosi in classe dominante per imporre la propria dittatura nel
campo politico-industriale;
3. la rivoluzione proletaria è imposta e non proposta.
Le
condizioni create dalla guerra (impoverimento estremo delle risorse
economiche atte a soddisfare i bisogni elementari della vita collettiva
e individuale, concentrazione dei mezzi di produzione e di scambio
internazionali nelle mani di una piccola schiera di detentori,
asservimento coloniale di tutti i paesi del mondo al capitalismo
anglosassone, concentrazione, negli ambiti nazionali, delle forze
politiche della classe proprietaria) possono determinare questi
sbocchi: o la conquista del potere sociale da parte della classe
lavoratrice, coi metodi e gli strumenti che gli sono propri, per
arrestare il processo di dissolvimento del mondo civile e gettare le
basi di un ordine nuovo nel quale sia possibile una ripresa delle
attività utili e uno slancio vitale energetico e rapido verso forme più
alte di produzione e di convivenza; o la morte per inedia ed
esaurimento di una gran parte dei lavoratori; o la strage in permanenza
per la decimazione sociale fino al ricostituirsi di un congruo rapporto
tra la produzione gestita capitalisticamente e la massa consumatrice.
Aderire
alla Internazionale comunista significa pertanto essere persuasi
dell'urgente necessità di organizzare la dittatura proletaria, cioè di
atteggiare il movimento proletario nelle forme e nei modi più idonei
perché il sistema politico proletario risulti una fase normale e
necessaria nella lotta di classe combattuta dalle masse operaie e
contadine. E significa che "l'azione e la forza del proletariato", a
differenza di quanto si afferma nel programma del Partito socialista
approvato a Genova nel 1892, si esplicherà sotto questo doppio aspetto:
1. organizzazione degli operai e dei contadini per unità di produzione
(fabbrica, azienda agricola, villaggio, città, regione, nazione)
rivolta ad addestrare le masse all'autogoverno simultaneamente nel
campo industriale e nel campo politico; 2. sviluppo di un'azione
sistematica e incessante di propaganda da parte degli elementi
comunisti per conquistare rapidamente i poteri di questi organismi
proletari, accentrarli in un nuovo tipo di Stato (lo Stato dei Consigli
operai e contadini) nel quale si incarnerà la dittatura proletaria,
dopo la dissoluzione del sistema economico-politico borghese.
Queste
innovazioni fondamentali da introdurre nel programma del 1892, sono il
risultato delle esperienze concrete attraversate dai lavoratori di
Russia, di Ungheria, di Austria e di Germania nei loro tentativi di
realizzazione rivoluzionaria. Esse sono da assumersi come inerenti
necessariamente allo sviluppo industriale della popolazione
capitalistica mondiale, perché attuate dagli operai inglesi e
americani, indipendentemente dai contraccolpi delle circostanze
politiche generali (disfatta militare ecc.), come riflesso normale
della lotta di classe nei paesi di più intensa vita capitalistica.
Le esperienze concrete rivoluzionarie della classe operaia internazionale si possono riassumere nelle seguenti tesi:
1)
la dittatura del proletariato, che deve fondare la società comunista
sopprimendo le classi e gli inguaribili conflitti della società
capitalistica, è il momento di più intensa vita dell' organizzazione di
classe dei lavoratori, operai e contadini;
2)
l'attuale sistema di organizzazione della classe proletaria:
associazione per mestiere (sindacati), per industria (federazione), per
complesso di produzione locale e nazionale (Camera del Lavoro) e
(Confederazione Generale del Lavoro), sorto per organizzare la
concorrenza nella vendita della merce-lavoro, non è idoneo, per questa
sua natura essenziale concorrentista, ad amministrare comunisticamente
la produzione e ad incarnare la dittatura del proletariato.
L'organizzazione per mestiere è stata un efficace strumento di difesa
dei lavoratori, poiché è riuscita a limitare la strapotenza e
l'arbitrio della classe capitalistica, imponendo il riconoscimento dei
diritti degli oppressi sulle questioni degli orari e dei salari. Essa
continuerà a svolgere questo suo compito, durante la dittatura
proletaria e nella società comunista, funzionando come organismo
tecnico che compone i contrasti di interessi tra le categorie del
lavoro e unifica nazionalmente e internazionalmente le medie di
retribuzione comunista;
3)l'organizzazione
dei lavoratori, che eserciterà il potere sociale comunista e nel quale
si incarnerà la dittatura proletaria può essere solo un sistema di
Consigli eletti nelle sedi di lavoro articolati agilmente in modo che
aderiscano al processo di produzione industriale e agricola, coordinati
e graduati localmente e nazionalmente in modo da realizzare l'unità
della classe lavoratrice al di sopra delle categorie determinate dalla
divisione del lavoro. Questa unificazione si verifica anche oggi nelle
Camere del Lavoro e nella Confederazione, ma senza efficacia coesiva
delle masse, perché mero contatto saltuario e disorganico di uffici
centrali e di individualità dirigenti. Nelle sedi del lavoro questa
unificazione sarà invece effettiva e permanente perché risulterà
dall'armonico e articolato sistema del processo industriale nella sua
vivente immediatezza, perché sarà basata sull'attività creatrice che
affratella le volontà e accomuna gli interessi e i sentimenti dei
produttori;
4) solo con questo tipo di
organizzazione si potrà riuscire a rendere consapevoli le unità di
lavoro della loro capacità a produrre e a esercitare la sovranità (la
sovranità deve essere una funzione della produzione), senza bisogno del
capitalista e di una delegazione indeterminata del potere politico; a
rendere consapevoli, cioè, i produttori che la loro comunità
organizzata, può sostituire, nel processo generale di produzione dei
beni materiali, e quindi nel processo di creazione storica, il
proprietario e i suoi sicari nel potere industriale e nella
responsabilità della produzione;
5) le
unità di lavoro dovranno coordinarsi in organismi superiori, collegati
per interessi locali e per branche industriali nella stessa unità
territoriale di produzione (province, regioni, nazione) costituendo il
sistema dei Consigli. La sostituzione agli individui proprietari di
comunità produttive, collegate e intrecciate in una fitta rete di
rapporti reciproci tendenti alla tutela di tutti i diritti e gli
interessi scaturienti dal lavoro, determinerà la soppressione della
concorrenza e della falsa libertà, gettando le basi dell'organizzazione
della libertà e della civiltà comunista;
6)
amalgamati intimamente nella comunità di produzione, i lavoratori sono
automaticamente portati a esprimere la loro volontà di potere alla
stregua di principi strettamente inerenti ai rapporti di produzione e
di scambio. Cadranno rapidamente dalla psicologia media proletaria
tutte le ideologie mitiche, utopistiche, religiose, piccolo borghesi:
si consoliderà rapidamente e permanentemente la psicologia comunista,
lievito costante di entusiasmo rivoluzionario, di tenace perseveranza
nella disciplina ferrea del lavoro e della resistenza contro ogni
assalto aperto o subdolo del passato;
7)
il Partito comunista non può avere competitori nel mondo intimo del
lavoro. Nel periodo attuale della lotta di classe, fioriscono i partiti
pseudo rivoluzionari: i socialisti cristiani (che hanno facile presa
fra le masse contadine), i "veri" socialisti (ex combattenti, piccoli
borghesi, tutti gli irrequieti spiriti avidi di novità purchessia), i
libertari individualisti (conventicole rumorose di vanità insoddisfatte
e di tendenze capricciose e caotiche). Questi partiti hanno invaso la
piazza ed assordano i mercati elettorali con la loro fraseologia vuota
e inconcludente, con le promesse mirabolanti e irresponsabili, con
rumorosi solleticamenti delle più basse passioni popolari e degli
egoismi più angusti. Questi partiti non avranno presa alcuna sugli
individui lavoratori, se questi dovranno esprimere la loro volontà
sociale non più tra il tumulto e la confusione della fiera
parlamentare, ma nella comunità di lavoro, dinanzi alla macchina di cui
oggi sono schiavi e che dovrà diventare loro schiava;
8)
la rivoluzione non è un atto taumaturgico, è un processo dialettico di
sviluppo storico. Ogni Consiglio di operai industriali o agricoli che
nasce intorno all'unità di lavoro è un punto di partenza di questo
sviluppo, è una realizzazione comunista. Promuovere il sorgere e il
moltiplicarsi di Consigli operai e contadini, determinare il
collegamento e la sistemazione organica fino all'unità nazionale da
raggiungersi in un congresso generale, sviluppare una intensa
propaganda per conquistarne la maggioranza, è il compito attuale dei
comunisti. L'urgere di questa nuova fioritura di poteri che sale
irresistibilmente dalle grandi masse lavoratrici, determinerà l'urto
violento delle due classi e l'affermazione della dittatura proletaria.
Se
non si gettano le basi del processo rivoluzionario nell'intimità della
vita produttiva, la rivoluzione rimarrà uno sterile appello alla
volontà, un mito nebuloso, una Morgana fallace: e il caos, il
disordine, la disoccupazione, la fame inghiottiranno e stritoleranno le
migliori e più vigorose energie proletarie
Ai Commissari di reparto delle Officine Fiat Centro e Brevetti
"L'Ordine Nuovo", 13 settembre 1919
Compagni!
La nuova forma che la commissione interna ha assunto nella vostra
officina con la nomina dei commissari di reparto e le discussioni che
hanno preceduto e accompagnato questa trasformazione non sono passate
inavvertite nel campo operaio e padronale torinese. Da una parte si
accingono a imitarvi le maestranze di altri stabilimenti della città e
della provincia, dall'altra i proprietari e i loro agenti diretti, gli
organizzatori delle grandi imprese industriali, guardano a questo
movimento con interesse crescente e si chiedono e chiedono a voi quale
può essere lo scopo cui esso tende, quale il programma che la classe
operaia torinese si propone di realizzare. Noi sappiamo che a
determinare questo movimento il nostro giornale ha non poco
contribuito. In esso la questione è stata esaminata da un punto di
vista teorico e generale, non solo, ma sono stati raccolti ed esposti i
risultati delle esperienze di altri paesi, per fornire gli elementi per
lo studio delle applicazioni pratiche. Noi sappiamo però che l'opera
nostra ha avuto un valore in quanto essa ha soddisfatto un bisogno, ha
favorito il concretarsi di un'aspirazione che era latente nella
coscienza delle masse lavoratrici. Per questo così rapidamente ci siamo
intesi, per questo così sicuramente si è potuto passare dalla
discussione alla realizzazione.
Il
bisogno, l'aspirazione da cui trae la sua origine il movimento
rinnovatore dell'organizzazione operaia da voi iniziato, sono, crediamo
noi, nelle cose stesse, sono una conseguenza diretta del punto cui è
giunto, nel suo sviluppo, l'organismo sociale ed economico basato
sull'appropriazione privata dei mezzi di scambio e di produzione.
Oggigiorno l'operaio dell'officina e il contadino delle campagne, il
minatore inglese e il mugik russo, i lavoratori tutti del mondo intero,
in modo più o meno sicuro, sentono in modo più o meno diretto quella
verità che gli uomini di studio avevano previsto, e di cui vengono
acquistando certezza sempre maggiore, quando osservano gli eventi di
questo periodo della storia dell'umanità: siamo giunti al punto in cui
la classe lavoratrice, se vuole non venir meno al compito di
ricostruzione che è nei suoi fatti e nella sua volontà, deve
incominciare a ordinarsi in modo positivo e adeguato al fine da
raggiungere.
E
se è vero che la società nuova sarà basata sul lavoro e sul
coordinamento delle energie dei produttori, i luoghi dove si lavora,
dove i produttori vivono e operano in comune, saranno domani i centri
dell'organismo sociale e dovranno prendere il posto degli enti
direttivi della società odierna. Come, nei primi tempi della lotta
operaia, l'organizzazione per mestiere era quella che meglio si
prestava agli scopi di difesa, alle necessità delle battaglie per il
miglioramento economico e disciplinare immediato, così oggi, che
incominciano a delinearsi e sempre maggior consistenza vengono
prendendo nelle menti degli operai gli scopi ricostruttivi, è
necessario sorga accanto e in sostegno della prima, una organizzazione
per fabbrica, vera scuola delle capacità ricostruttive dei lavoratori.
La massa operaia deve prepararsi effettivamente all'acquisto della
completa padronanza di se stessa, e il primo passo su questa via sta
nel suo più saldo disciplinarsi, nell'officina, in modo autonomo,
spontaneo e libero.
Né
si può negare che la disciplina che col nuovo sistema verrà instaurata
condurrà a un miglioramento della produzione, ma questo non è altro che
il verificarsi di una tesi del socialismo: quanto più le forze
produttive umane, emancipandosi dalla schiavitù cui il capitalismo le
vorrebbe per sempre condannate, prendono coscienza di sé, si liberano e
liberamente si organizzano, tanto migliore tende a diventare il modo
della loro utilizzazione: l'uomo lavorerà sempre meglio dello
schiavo.
A
coloro poi che obiettano che in questo modo si viene a collaborare con
i nostri avversari, con i proprietari delle aziende, noi rispondiamo
che invece questo è l'unico mezzo di dominio, perché la classe operaia
concepisce la possibilità di fare da sé e di fare bene: anzi, essa
acquista di giorno in giorno più chiara la certezza di essere sola
capace di salvare il mondo intiero dalla rovina e dalla desolazione.
Perciò ogni azione che voi imprenderete, ogni battaglia che sarà data
sotto la vostra guida sarà illuminata dalla luce del fine ultimo che è
negli animi e nelle intenzioni di tutti voi. Un grandissimo valore
acquisteranno quindi anche gli atti apparentemente di poca importanza
nei quali si esplicherà il mandato a voi conferito.
Eletti
da una maestranza nella quale sono ancora numerosi gli elementi
disorganizzati, vostra prima cura sarà certamente quella di farli
entrare nelle file dell'organizzazione, opera che del resto vi sarà
facilitata dal fatto che essi troveranno in voi chi sarà sempre pronto
a difenderli, a guidarli, ad avviarli alla vita della fabbrica. Voi
mostrerete loro con l'esempio che la forza dell'operaio è tutta
nell'unione e nella solidarietà coi suoi compagni. Così pure a voi
spetterà l'invigilare affinché nei reparti vengano rispettate le regole
di lavoro fissate dalle federazioni di mestiere e accettate nei
concordati, poiché in questo campo anche una lieve deroga ai principi
stabiliti può talora costituire una offesa grave ai diritti e alla
personalità dell'operaio, di cui voi sarete rigidi e tenaci difensori e
custodi.
E
siccome in mezzo agli operai e al lavoro voi stessi vivrete di
continuo, potrete essere in grado di conoscere le modificazioni imposte
dal progresso tecnico della produzione e dalla progredita coscienza e
capacità dei lavoratori stessi. In questo modo si verrà costituendo un
costume di officina, germe primo della vera ed effettiva legislazione
del lavoro, cioè delle leggi che i produttori elaboreranno e daranno a
sé stessi.
Noi
siamo certi che l'importanza di questo fatto non vi sfugge, che esso è
evidente davanti alle menti di tutte le maestranze che con prontezza ed
entusiasmo hanno compreso il valore e il significato dell'opera che voi
vi proponete di fare: si inizia l'intervento attivo nel campo tecnico e
in quello disciplinare, delle forze stesse del lavoro.
Nel
campo tecnico voi potrete da un lato compiere un utilissimo lavoro
informativo, raccogliendo dati e materiali preziosi sia per le
federazioni di mestiere che per gli enti centrali e direttive delle
nuove organizzazioni di officina. Voi curerete inoltre che gli operai
del reparto acquistino una sempre maggiore capacità, e farete sparire i
meschini sentimenti di gelosia professionale che ancora li fanno essere
divisi e discordi; li allenerete così per il giorno in cui, dovendo
lavorare non più per il padrone ma per sé, sarà loro necessario essere
uniti e solidali, per accrescere la forza del grande esercito
proletario, di cui essi sono le cellule prime. Perché non potreste far
sorgere, nell'officina stessa, appositi reparti di istruzione, vere
scuole professionali, ove ogni operaio, sollevandosi dalla fatica che
abbruttisce, possa aprire la mente alla conoscenza dei processi di
produzione, e migliorare se stesso?
Certamente,
per fare tutto ciò sarà necessaria della disciplina, ma la disciplina
che voi richiederete alla massa operaia sarà ben diversa da quella che
il padrone imponeva e pretendeva, forte del diritto di proprietà che
costituisce a lui una posizione di privilegio. Voi sarete forti di un
altro diritto, quello del lavoro che dopo essere stato per secoli
strumento nelle mani dei suoi sfruttatori oggi vuole redimersi, vuole
dirigersi da se stesso. Il vostro potere, opposto a quello dei padroni
e dei suoi ufficiali, rappresenterà di fronte alle forze del passato,
le libere forze dell'avvenire, che attendono la loro ora, e la
preparano, sapendo che essa sarà l'ora della redenzione da ogni
schiavitù.
E così gli organi
centrali che sorgeranno per ogni gruppo di reparti, per ogni gruppo di
fabbriche, per ogni città, per ogni regione, fino ad un supremo
Consiglio operaio nazionale, proseguiranno, allargheranno,
intensificheranno l'opera di controllo, di preparazione e di
ordinamento della classe intiera a scopi di conquista e di governo. Il
cammino non sarà breve, né facile, lo sappiamo: molte difficoltà
sorgeranno e vi saranno opposte, e per superarle occorrerà fare uso di
grande abilità, occorrerà forse talora fare appello alla forza della
classe organizzata, occorrerà sempre essere animati e spinti all'azione
da una grande fede, ma quello che più importa, o compagni, è che gli
operai, sotto la guida vostra e di coloro che vi imiteranno, acquistino
la viva certezza di camminare ormai, sicuri della meta, sulla grande
via dell'avvenire.
Sindacati e consigli (I)
Da "L'ordine nuovo ", 11 ottobre 1919
L'organizzazione proletaria che si riassume, come espressione totale
della massa operaia e contadina, negli uffici centrali della
Confederazione del Lavoro, attraversa una crisi costituzionale simile
per natura alla crisi in cui vanamente si dibatte lo Stato democratico
parlamentare. La crisi è crisi di potere e di sovranità. La soluzione
dell'una sarà soluzione dell'altra, poiché, risolvendo il problema
della volontà di potenza nell'ambito della loro organizzazione di
classe, i lavoratori arriveranno a creare l'impalcatura organica del
loro Stato e vittoriosamente la contrapporranno allo Stato
parlamentare.
Gli operai sentono che il
complesso della "loro" organizzazione è diventato tale enorme apparato,
che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura e
al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha
acquistato coscienza dalla sua missione storica di classe
rivoluzionaria. Sentono che la loro volontà di potenza non riesce ad
esprimersi, in un senso netto e preciso, attraverso le attuali
gerarchie istituzionali. Sentono che anche in casa loro, nella casa che
hanno costruito tenacemente, con sforzi pazienti cementandola col
sangue e le lacrime, la macchina schiaccia l'uomo, il funzionarismo
isterilisce lo spirito creatore e il dilettantismo banale e
verbalistico tenta invano di nascondere l'assenza di concetti precisi
sulle necessità della produzione industriale e la nessuna comprensione
della psicologia delle masse proletarie.
Gli
operai si irritano per queste condizioni di fatto, ma sono
individualmente impotenti a modificarle; le parole e le volontà dei
singoli uomini sono troppo piccola cosa in confronto delle leggi ferree
inerenti alla struttura dell'apparato sindacale. I leaders
dell'organizzazione non si accorgono di questa crisi profonda e
diffusa.
Quanto più chiaramente appare
che la classe operaia non è composta in forme aderenti alla sua reale
struttura storica, quanto più risulta che la classe operaia non è
inquadrata in una confederazione che incessantemente si adatti alle
leggi che governano l'intimo processo di sviluppo storico reale della
classe stessa; tanto più questi leaders si ostinano nella cecità e si
sforzano di comporre "giuridicamente" i dissidi e i conflitti. Spiriti
eminentemente burocratici, essi credono che una condizione obiettiva,
radicata nella psicologia quale si sviluppa nelle esperienze vive
dell'officina, possa essere superata con un discorso che muove gli
affetti, e con un ordine del giorno votato all'unanimità in
un'assemblea abbruttita dal frastuono e dalle lungaggini oratorie.
Oggi
essi si sforzano di porsi all'altezza dei tempi" e, tanto per
dimostrare che sono anche capaci di "meditare aspramente", rivogano le
vecchie e logore ideologie sindacaliste, insistendo penosamente nello
stabilire rapporti di identità tra il Soviet e il sindacato, insistendo
penosamente nell'affermare che il sistema attuale di organizzazione
sindacale costituisce il sistema di forze in cui deve incarnarsi la
dittatura proletaria.
Il sindacato,
nella forma in cui esiste attualmente nei paesi dell'Europa
occidentale, è un tipo di organizzazione non solo diverso
essenzialmente dal Soviet, ma diverso anche, e in modo notevole, dal
sindacato quale sempre più viene sviluppandosi nella repubblica
comunista rossa. I sindacati di mestiere, le Camere del Lavoro, le
federazioni industriali, la Confederazione Generale del Lavoro sono il
tipo di organizzazione proletaria specifico del periodo della storia
dominato dal capitale. In un certo senso si può sostenere che esso è
parte integrante della società capitalistica, e ha una funzione che è
inerente al regime di proprietà privata.
In
questo periodo, nel quale gli individui valgono in quanto sono
proprietari di merce e commerciano la loro proprietà, anche gli operai
hanno dovuto ubbidire alle leggi ferree della necessità generale e sono
diventati mercanti dell'unica loro proprietà, la forza-lavoro e
l'intelligenza professionale. Più esposti ai rischi della concorrenza,
gli operai hanno accumulato la loro proprietà in "ditte" sempre più
vaste e comprensive, hanno creato questo enorme apparato di
concentrazione di carne da fatica, hanno imposto prezzi e orari e hanno
disciplinato il mercato. Hanno assunto dal di fuori o hanno espresso
dal loro seno un personale d'amministrazione di fiducia, esperto in
questo genere di speculazioni, in grado di dominare le condizioni del
mercato, capace di stipular contratti, di valutare le alee commerciali,
di iniziare operazioni economicamente utili.
La
natura essenziale del sindacato è concorrentista, non è comunista. Il
sindacato non può essere strumento di rinnovazione radicale della
società: esso può offrire al proletariato dei provetti burocrati, degli
esperti tecnici in questioni industriali d'indole generale, non può
essere la base del potere proletario. Esso non offre nessuna
possibilità di scelta delle individualità proletarie capaci e degne di
dirigere la società, da esso non possono esprimersi le gerarchie in cui
si incarni lo slancio vitale, il ritmo del progresso della società
comunista.
La dittatura proletaria può
incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico dell'attività
propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il
Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione.
Poiché nel Consiglio tutte le branche del lavoro sono rappresentate,
proporzionalmente al contributo che ogni mestiere e ogni branca di
lavoro dà alla elaborazione dell'oggetto che la fabbrica produce per la
collettività, l'istituzione è di classe, è sociale. La sua ragion
d'essere è nel lavoro, è nella produzione industriale, in un fatto cioè
permanente e non già nel salario, nella divisione delle classi, in un
fatto cioè transitorio e che appunto si vuole superare. Perciò il
Consiglio realizza l'unità della classe lavoratrice, dà alle masse una
coesione e una forma che sono della stessa natura della coesione e
della forma che la massa assume nell'organizzazione generale della
società.
Il Consiglio di fabbrica è il
modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti
all'organizzazione dello Stato proletario, sono inerenti
all'organizzazione del Consiglio. Nell'uno e nell'altro il concetto di
cittadino decade, e subentra il concetto di compagno: la collaborazione
per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i
legami di affetto e fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al
suo posto, e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il più ignorante
e il più arretrato degli operai, anche il più vanitoso e il più
"civile" degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle
esperienze dell'organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per
acquistare una coscienza comunista per comprendere il gran passo in
avanti che l'economia comunista rappresenta sull'economia
capitalistica.
Il Consiglio è il più
idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito
sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dall'esperienza
viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel
sindacato si sviluppava nella lotta contro il capitalismo, nella
sofferenza e nel sacrificio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è
incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione
industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto
organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che
producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua
sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice della storia.
L'esistenza di una organizzazione, nella
quale la classe lavoratrice sia inquadrata nella sua omogeneità di
classe produttrice, e la quale renda possibile una spontanea e libera
fioritura di gerarchie e di individualità degne e capaci, avrà riflessi
importanti e fondamentali nella costituzione e nello spirito che anima
l'attività dei sindacati. Il Consiglio di fabbrica si fonda anch'esso
sul mestiere. In ogni reparto gli operai si distinguono in squadre e
ogni squadra è una unità di lavoro (di mestiere): il Consiglio è
costituito appunto dai commissari che gli operai eleggono per mestiere
(squadra) di reparto. Ma il sindacato si basa sull'individuo, il
Consiglio si basa sull'unità organica e concreta del mestiere che si
attua nel disciplinamento del processo industriale. La squadra (il
mestiere) sente di essere distinta nel copro omogeneo della classe, ma
nel momento stesso si sente ingranata nel sistema di disciplina e di
ordine che rende possibile, con l'esatto e preciso suo funzionamento,
lo sviluppo della produzione.
Come
interesse economico e politico il mestiere è parte indistinta e
solidale perfettamente col corpo della classe; se ne distingue come
interesse tecnico e come sviluppo del particolare strumento che adopera
nel lavoro. Allo stesso modo tutte le industrie sono omogenee e
solidali nel fine di realizzare una perfetta produzione, distribuzione
e accumulazione sociale della ricchezza; ma ogni industria ha interessi
distinti per quanto riguarda l'organizzazione tecnica della sua
specifica attività.
L'esistenza del
Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li
conduce a migliorare il lavoro, instaura una disciplina cosciente e
volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia.
Gli operai portano nel sindacato questa nuova coscienza e dalla
semplice attività di lotta di classe, il sindacato si dedica al lavoro
fondamentale di imprimere alla vita economica e alla tecnica del lavoro
una nuova configurazione, si dedica a elaborare la forma di vita
economica e di tecnica professionale che è propria della civiltà
comunista. In questo senso i sindacati, che sono costituiti con gli
operai migliori e più consapevoli, attuano il momento supremo della
lotta di classe e della dittatura del proletariato: essi creano le
condizioni obiettive in cui le classi non possono più esistere né
rinascere.
Questo fanno in Russia i
sindacati di industria. Essi sono diventati gli organismi in cui tutte
le singole imprese di una certa industria si amalgamano, si connettono,
si articolano, formando una grande unità industriale. Le concorrenze
sperperatrici vengono eliminate, i grandi servizi amministrativi, di
rifornimento, di distribuzione e di accumulamento, vengono unificati in
grandi centrali. I sistemi di lavoro, i segreti di fabbricazione, le
nuove applicazioni diventano immediatamente comuni a tutta l'industria.
La molteplicità di funzioni burocratiche e disciplinari inerente ai
rapporti di proprietà privata e alla impresa individuale, viene ridotta
alle pure necessità industriali. L'applicazione dei principi sindacali
all'industria tessile ha permesso in Russia una riduzione burocratica
da 100.000 impiegati a 3.500.
L'organizzazione
per fabbrica compone la classe (tutta la classe) in una unità omogenea
e cosa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione
e lo domina per impadronirsene definitivamente.
Nell'organizzazione
per fabbrica si incarna dunque la dittatura proletaria, lo Stato
comunista che distrugge il dominio di classe nelle superstrutture
politiche e nei suoi ingranaggi generali. I sindacati di mestiere e di
industria sono le solide vertebre del gran corpo proletario. Essi
elaborano le esperienze individuali e locali, e le accumulano, attuando
quel conguagliamento nazionale delle condizioni di lavoro e di
produzione sul quale concretamente si basa l'uguaglianza comunista.
Ma
perché sia possibile imprimere ai sindacati questa direzione
positivamente classista e comunista è necessario che gli operai
rivolgano tutta la loro volontà e la loro fede al consolidamento e alla
diffusione dei Consigli, all'unificazione organica della classe
lavoratrice. Su questo fondamentale omogeneo e solido fioriranno e si
svilupperanno tutte le superiori strutture della dittatura e
dell'economia comunista.
I sindacati e la dittatura
Pubblicato per la prima volta ne "L’Ordine Nuovo", 25 ottobre 1919
La lotta di classe internazionale è culminata nella vittoria degli
operai e contadini di due proletariati internazionali. In Russia e in
Ungheria gli operai e i contadini hanno instaurato la dittatura
proletaria e tanto in Russia che in Ungheria la dittatura dovette
sostenere un’aspra battaglia non solo contro la classe borghese, ma
anche contro i sindacati: il conflitto tra la dittatura e i sindacati
fu anzi una delle cause della caduta del Soviet ungherese, poiché i
sindacati, se mai apertamente tentarono di rovesciare la dittatura,
operarono sempre come organismi "disfattisti" della rivoluzione e
incessantemente seminarono lo sconforto e la vigliaccheria tra gli
operai e i soldati rossi.
Un esame anche
rapido, delle ragioni e delle condizioni di questo conflitto non può
non essere utile all’educazione rivoluzionaria delle masse, le quali,
se devono convincersi che il sindacato è forse l’organismo proletario
più importante della rivoluzione comunista, perché su di esso deve
fondarsi la socializzazione dell’industria, perché esso deve creare le
condizioni in cui l’impresa privata sparisce e non può più rinascere,
devono anche convincersi della necessità di creare, prima della
rivoluzione, le condizioni psicologiche e obiettive nelle quali sia
impossibile ogni conflitto e ogni dualismo di potere tra i vari
organismi in cui si incarni la lotta della classe proletaria contro il
capitalismo.
La lotta di classe ha
assunto in tutti i paesi d’Europa e del mondo un carattere nettamente
rivoluzionario. La concezione, che è propria della III Internazionale,
secondo la quale la lotta di classe deve essere rivolta
all’instaurazione della dittatura proletaria, ha il sopravvento sulla
ideologia democratica e si diffonde irresistibilmente nelle masse.
I
Partiti socialisti aderiscono alla III Internazionale o almeno si
atteggiano secondo i principi fondamentali elaborati al Congresso di
Mosca; i sindacati invece sono rimasti fedeli alla "vera democrazia" e
non trascurano nessuna occasione per indurre o costringere gli operai a
dichiararsi avversari della dittatura e non attuare manifestazioni di
solidarietà con la Russia dei Soviet.
Questo
atteggiamento dei sindacati fu rapidamente superato in Russia, poiché
allo sviluppo delle organizzazioni di mestiere e d’industria si
accompagnò parallelamente e con ritmo più accelerato lo sviluppo dei
Consigli d’officina; esso ha invece eroso la base del potere proletario
in Ungheria, ha determinato in Germania immani carneficine di operai
comunisti e la nascita del fenomeno Noske, ha determinato in Francia il
fallimento dello sciopero generale del 20-21 luglio e il consolidarsi
del regime di Clemenceau, ha impedito finora ogni intervento diretto
degli operai inglesi nella lotta politica e minaccia di scindere
profondamente e pericolosamente le forze proletarie in tutti i paesi.
I
Partiti Socialisti acquistano sempre più un profilo nettamente
rivoluzionario e internazionalista; i sindacati invece tendono a
incarnare la teoria (!) e la tattica dell’opportunismo riformista e a
diventare organismi meramente nazionali. Ne nasce uno stato di cose
insostenibile, una condizione di confusione permanente e di debolezza
cronica per la classe lavoratrice, che aumentano lo squilibrio generale
della società e favoriscono il pullulare dei fermenti di disgregazione
morale e di imbarbarimento.
I sindacati
hanno organizzato gli operai secondo i principi della lotta di classe e
sono stati essi stessi le prime forme organiche di questa lotta. Gli
organizzatori hanno sempre detto che solo la lotta di classe può
condurre il proletariato alla sua emancipazione e che l’organizzazione
sindacale ha precisamente il fine di sopprimere il profitto individuale
e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, poiché essa si propone di
eliminare il capitalista (il proprietario privato) dal processo
industriale di produzione e di eliminare quindi le classi. Ma i
sindacati non potevano attuare immediatamente questo fine e pertanto
essi rivolsero tutta la loro forza al fine immediato di migliorare le
condizioni di vita del proletariato, domandando più alti salari,
diminuiti orari di lavoro, un corpo di legislazione sociale.
I
movimenti successero ai movimenti, gli scioperi agli scioperi, la
condizione di vita dei lavoratori divenne relativamente migliore. Ma
tutti i risultati, tutte le vittorie dell’azione sindacale si fondano
sulle basi antiche: il principio della proprietà privata resta intatto
e forte, l’ordine della produzione capitalistica e lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo restano intatti e anzi si complicano in forme
nuove. La giornata di otto ore, l’aumento del salario, i benefici della
legislazione sociale non toccano il profitto; gli squilibri che
immediatamente l’azione sindacale determina nel saggio del profitto si
compongono e trovano una sistemazione nuova nel gioco della libera
concorrenza per le nazioni a economia mondiale come l’Inghilterra e la
Germania, nel protezionismo per le nazioni a economia limitata come la
Francia e l’Italia.
Il capitalismo cioè
riversa o sulle masse amorfe nazionali o sulle masse coloniali le
accresciute spese generali della produzione industriale.
L’azione
sindacale si rivela così assolutamente incapace a superare nel suo
dominio e con i suoi mezzi, la società capitalista, si rivela incapace
a condurre il proletariato alla sua emancipazione, a condurre il
proletariato all’attuazione del fine alto e universale che si era
inizialmente proposto.
Secondo le
dottrine sindacaliste, i sindacati avrebbero dovuto servire a educare
gli operai alla gestione della produzione. Poiché i sindacati di
industria, si disse, sono un riflesso integrale di una determinata
industria, essi diventeranno i quadri della competenza operaia per la
gestione di quella determinata industria; le cariche sindacali
serviranno a rendere possibile una scelta degli operai migliori, dei
più studiosi, dei più intelligenti, dei più atti a impadronirsi del
complesso meccanismo della produzione e degli scambi. I leaders operai
dell’industria del cuoio saranno i più capaci a gestire questa
industria, e così per l’industria metallurgica, per l’industria del
libro, ecc. Illusione colossale. La scelta dei leaders sindacali non
avvenne mai per criteri di competenza industriale, ma di competenza
meramente giuridica, burocratica o demagogica. E quanto più le
organizzazioni andarono ingrandendosi, quanto più frequente fu il loro
intervento nella lotta di classe, quanto più diffusa e profonda la loro
azione, e tanto più divenne necessario ridurre l’ufficio dirigente a
ufficio puramente amministrativo e contabile, tanto più la capacità
tecnica industriale divenne un non valore ed ebbe il sopravvento la
capacità burocratica e commerciale.
Si
venne così costituendo una vera e propria casta di funzionari e
giornalisti sindacali, con una psicologia di corpo assolutamente in
contrasto con la psicologia degli operai, la quale ha finito con
l’assumere in confronto alla massa operaia la stessa posizione della
burocrazia governativa in confronto dello Stato parlamentare: è la
burocrazia che regna e governa.
La
dittatura proletaria vuole sopprimere l’ordine della produzione
capitalistica, vuole sopprimere la proprietà privata, perché solo così
può essere soppresso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La dittatura
proletaria vuole sopprimere la differenza delle classi, vuole
sopprimere la lotta delle classi, perché solo così può essere completa
l’emancipazione sociale della classe lavoratrice. Per ottenere questo
fine il Partito comunista educa il proletariato a organizzare la sua
potenza di classe, a servirsi di questa potenza armata per dominare la
classe borghese e determinare le condizioni in cui la classe
sfruttatrice sia soppressa e non possa rinascere.
Il
compito del Partito comunista nella dittatura è dunque questo:
organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e
contadini in classe dominante, controllare che tutti gli organismi del
nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria, e rompere i
diritti e i rapporti antichi inerenti al principio della proprietà
privata. Ma quest’azione distruttiva e di controllo deve essere
immediatamente accompagnata da un’opera positiva di creazione di
produzione. Se quest’opera non riesce, è vana la forza politica, la
dittatura non può reggersi: nessuna società può reggersi senza la
produzione, e tanto meno la dittatura che, attuandosi nelle condizioni
di sfacelo economico prodotto da cinque anni di guerra esasperata e da
mesi e mesi di terrorismo armato borghese, ha bisogno anzi di una
intensa produzione. Ed ecco il vasto e magnifico compito che dovrebbe
aprirsi all’attività dei sindacati d’industria.
Essi
appunto dovranno attuare la socializzazione, essi dovranno iniziare un
ordine nuovo di produzione, in cui l’impresa sia basata non sulla
volontà di lucro del proprietario, ma sull’interesse solidale della
comunità sociale che per ogni branca industriale esce dall’indistinto
generico e si concreta nel sindacato operaio corrispondente.
Nel
Soviet ungherese i sindacati si sono astenuti da ogni lavoro creatore.
Politicamente i funzionari sindacali suscitarono continui ostacoli alla
dittatura, costituendo uno Stato nello Stato, economicamente rimasero
inerti: più di una volta le fabbriche dovettero essere socializzate
contro la volontà dei sindacati. Ma i leaders delle organizzazioni
ungheresi erano limitati spiritualmente, avevano una psicologia
burocratico-riformista, e temevano continuamente di perdere il potere
che avevano fino ad allora esercitato sugli operai. Poiché la funzione
per cui il sindacato si era sviluppato fino alla dittatura era inerente
al predominio della classe borghese, e poiché i funzionari non avevano
una capacità tecnica industriale, essi sostenevano l’immaturità della
classe proletaria alla gestione diretta della produzione, essi
sostenevano la "vera" democrazia, cioè la conservazione della borghesia
nelle sue posizioni principali di classe proletaria, essi volevano
perpetuare ed esasperare l’era dei concordati, dei contratti di lavoro,
della legislazione sociale, per essere in grado di far valere la loro
competenza.
Essi volevano che si
attendesse la ... rivoluzione internazionale, non potendo comprendere
che la rivoluzione internazionale si manifestava appunto in Ungheria
con la rivoluzione ungherese, in Russia con la rivoluzione russa, in
tutta l’Europa con gli scioperi generali, con i pronunciamenti
militari, con le condizioni di vita rese impossibili alla classe
lavoratrice dalle conseguenze della guerra.
La piccola borghesia
Sugli avvenimenti del 2-3 dicembre 1919
"L'Ordine Nuovo", 6-13 dicembre 1919
Gli
avvenimenti del 2-3 dicembre sono un episodio culminante della lotta
delle classi. La lotta non fu tra proletari e capitalisti (questa lotta
si svolge organicamente, come lotta per i salari e per gli orari e come
lavorìo tenace e paziente per la creazione di un apparecchio di governo
della produzione e delle masse di uomini che sostituisca l'attuale
apparecchio di Stato borghese); fu tra proletari e piccoli e medi
borghesi.
La
lotta è stata, in ultima analisi, per la difesa dello Stato liberale
democratico dalle strettoie in cui lo tiene prigioniero una parte della
classe borghese, la peggiore, la più vile, la più inutile, la più
parassitaria: la piccola e media borghesia, la borghesia
"intellettuale" (detta "intellettuale" perché entrata in possesso,
attraverso la facile e scorrevole carriera della scuola media, di
piccoli e medi titoli di studio generali), la borghesia dei funzionari
pubblici padre-figlio, dei bottegai, dei piccoli proprietari
industriali e agricoli, commercianti in città usurai nelle
campagne.
Questa
lotta si è svolta nell'unica forma in cui poteva svolgersi:
disordinatamente, tumultuosamente, con una razzìa condotta per le
strade e per le piazze al fine di liberare le strade e le piazze da una
invasione di locuste putride e voraci. Ma questa lotta, indirettamente
sia pure, era connessa all'altra lotta, alla superiore lotta di classi
tra proletari e capitalisti: la piccola e media borghesia è infatti la
barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il
capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità
servile, abietta, umanità di sicari e di lacché, divenuta oggi la
"serva padrona" che vuole prelevare sulla produzione taglie superiori
non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma
alle stesse taglie prelevate dai capitalisti; espellerla dal campo
sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo
semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l'apparato
nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo
soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l'ambiente
sociale e trovarsi contro l'avversario specifico: la classe dei
capitalisti proprietari dei mezzi di produzione e di scambio. La guerra
ha messo in valore la piccola e media borghesia.
Nella
guerra e per la guerra, l'apparecchio capitalistico di governo
economico e di governo politico si è militarizzato: la fabbrica è
diventata una caserma, la città è diventata una caserma, la nazione è
diventata una caserma. Tutte le attività di interesse generale sono
state nazionalizzate, burocratizzate, militarizzate. Per attuare questa
mostruosa costruzione lo Stato e le minori associazioni capitalistiche
fecero la mobilitazione in massa della piccola e media borghesia. Senza
che avessero una preparazione culturale e spirituale, decine e decine
di migliaia di individui furono fatti affluire dal fondo dei villaggi e
delle borgate meridionali, dai retrobottega degli esercizi paterni, dai
banchi invano scaldati delle scuole medie e superiori, dalle redazioni
dei giornali di ricatto, dalle rigatterie dei sobborghi cittadini, da
tutti i ghetti dove marcisce e si decompone la poltroneria, la
vigliaccheria, la boria dei frantumi e dei detriti sociali depositati
da secoli di servilismo e di dominio degli stranieri e dei preti sulla
nazione italiana; e fu loro dato uno stipendio da indispensabili e
insostituibili, e fu loro affidato il governo delle masse di uomini,
nelle fabbriche, nelle città, nelle caserme, nelle trincee del fronte.
Bene
armati, ben pasciuti, non sottoposti a nessun controllo, nella
possibilità di soddisfare impunemente le tre passioni che i pessimisti
reputano originarie e insopprimibili della natura umana: la passione
del potere assoluto sugli altri uomini, la passione di possedere molte
donne, la passione di possedere molti quattrini per comprare piaceri e
lusso, queste decine e decine di migliaia di corrotti, di poltroni, di
dissoluti si tengono stretti al mostruoso apparato militare-burocratico
costruito durante la guerra. Vogliono continuare a governare le masse
di uomini, ad essere investiti di una assoluta verità sulla vita e
sulla morte delle masse di uomini; organizzano pogroms contro i
proletari, contro i socialisti, tengono le piazze e le vie sotto un
regime di terrore.
Le
elezioni parlamentari hanno mostrato che le masse di uomini vogliono
essere guidate e governate da socialisti, che le masse di uomini
vogliono una costituzione sociale in cui chi non produce, chi non
lavora, non mangia. Questi signori, che continuano a prelevare sul
reddito della produzione nazionale e sul credito estero dello Stato una
taglia di un miliardo al mese, che gridano sui tetti la loro passione
nazionalista e si fanno mantenere dalla patria, che per mantenerli
nell'ozio, nel lusso, nel piacere si vende agli americani, questi
signori, interroriti per l'imminente pericolo, hanno organizzato subito
i pogroms, contro i deputati socialisti. E dalle officine, dai
cantieri, dai laboratori, dagli arsenali di tutte le città italiane,
subito, come una parola d'ordine, appunto come succedeva in Russia e in
Polonia quando i cento Neri tentavano scatenare pogroms gli ebrei, per
annegare in una palude di barbarie e di dissolutezza ogni piccolo
anelito di libertà, subito gli operai irruppero nelle vie centrali
della città e spazzarono via le locuste piccolo-borghesi, gli
organizzatori di pogroms i professionisti della poltroneria. E' stato
questo un episodio, in fondo, di "liberalismo".
Si
era formato un modo di guadagno senza lavoro, senza responsabilità,
senza alee; oggi questo modo di guadagno ha anch'esso le sue alee, le
sue preoccupazioni, i suoi pericoli. Lotta di classe, guerra di
contadini. Il caso ha voluto che le giornate di sciopero e di gravi
tumulti in tutta l'Italia superiore o media coincidessero con lo
scoppio spontaneo di una insurrezione di popolo in una zona tipica
dell'Italia meridionale, nel territorio di Andria. L'attenzione che si
è prestata all'insurrezione del proletariato delle città contro quella
parte della casta piccolo-borghese che ha acquistato durante la guerra
una fisionomia militaristica, e ora non vuol perderla, e contro la
polizia, ha deviato gli sguardi da Andria, ha impedito che si desse
l'esatto rilievo agli avvenimenti di laggiù, che essi fossero
apprezzati nel loro giusto valore.
Noi
speriamo di poter fornire ai nostri lettori importanti dati di
osservazione diretta delle cause e dello svolgimento dei fatti, e ci
limitiamo per ora a notare come il caso, facendo coincidere le due
sommosse, abbia fornito quasi un modello di ciò che dovrà essere la
rivoluzione italiana. Da una parte il proletariato nel senso stretto
della parola, cioè gli operai dell'industria e dell'agricoltura
specializzata, dall'altra i contadini poveri: ecco le due ali
dell'esercito rivoluzionario.
Gli
operai di città sono rivoluzionari per educazione, li ha resi tali lo
svolgimento della coscienza e la formazione della persona nella
fabbrica, cellula dello sfruttamento del lavoro; gli operai di città
guardano oggi alla fabbrica come al luogo in cui si deve iniziare la
liberazione, al centro di irradiazione del movimento di riscossa:
perciò il loro movimento è sano, è forte e sarà vittorioso. Gli operai
sono destinati ad essere, nella insurrezione cittadina, l'elemento
estremo e ordinatore a un tempo, quello che non lascerà che la macchina
messa in moto si arresti e la terrà sulla giusta via; essi
rappresentano sin d'ora l'intervento nella rivoluzione delle grandi
masse, e personificano in modo vivente l'interesse e la volontà delle
masse stesse.
Nelle
campagne dobbiamo contare soprattutto sull'azione e sull'appoggio dei
contadini poveri, dei "senza terra". Essi saranno spinti a muoversi dal
bisogno di risolvere il problema della vita, come ieri i contadini di
Andria, dal bisogno di lottare per il pane, non solo, ma dallo stesso
continuo bisogno, dal pericolo sempre incombente della morte per la
fame o per il piombo, saranno obbligati a far pressione sulle altre
parti della popolazione agricola, per costringerle a creare anche nelle
campagne un organismo di controllo, il consiglio dei contadini, pur
lasciando sussistere le forme intermedie di appropriazione privata del
terreno (piccola proprietà), farà opera di coesione e di trasformazione
psicologica e tecnica, sarà la base della vita comune nelle campagne,
il centro attraverso il quale gli elementi rivoluzionari potranno far
valere in modo continuo e concreto la loro volontà. Oggi bisogna che
anche i contadini sappiano quello che vi è da fare, che l'azione loro
getti radici profonde e tenaci, aderendo come quella degli operai, al
processo produttivo della ricchezza.
Come
gli uni guardano alla fabbrica, gli altri debbono incominciare a
guardare al campo come alla futura comunità di lavoro. La sommossa di
Andria ci dice che il problema è maturo: è il problema, in fondo, di
tutto il Mezzogiorno italiano, il problema della effettiva conquista
della terra da parte di chi la lavora. Il nostro Partito ha l'obbligo
di porselo e di risolverlo. La conquista della terra si prepara oggi
con le stesse armi con le quali gli operai preparano la conquista della
fabbrica, cioè formando gli organismi che permettano alla massa che
lavora di governarsi da sé, sul luogo del suo lavoro. Il movimento
degli operai e quello dei contadini confluiscono naturalmente in una
sola direzione, nella creazione degli organi del potere
proletario.
La
rivoluzione russa ha trovato appunto la sua forza e la sua salvezza nel
fatto che in Russia operai e contadini, partendo da punti opposti,
mossi da sentimenti diversi, si ritrovarono riuniti per uno scopo
comune, in una lotta unica, perché entrambi si convinsero alla prova di
non potersi liberare dall'oppressione dei padroni, se non dando alla
propria organizzazione di conquista una forma che permettesse di
eliminare direttamente lo sfruttatore dal campo della produzione.
Questa forma fu il Consiglio, fu il Soviet. La lotta di classe e la
guerra dei contadini unirono in tal modo le loro sorti in modo
inscindibile ed ebbero un esito comune nella costituzione di un
organismo direttivo di tutta la vita del paese.
Da
noi il problema si pone negli stessi termini. L'operaio e il contadino
debbono collaborare in modo concreto inquadrando le loro forze in uno
stesso organismo. La sommossa li ha trovati uniti e concordi. Il
controllo della fabbrica e la conquista delle terre debbono essere un
problema unico. Settentrione e Mezzogiorno debbono compiere insieme lo
stesso lavoro, preparare insieme la trasformazione della nazione in
comunità produttiva. Deve apparire sempre più chiaro che soltanto i
lavoratori sono oggi in grado di risolvere e in un modo "unitario" il
problema del Mezzogiorno; il problema dell'unità che tre generazioni
borghesi hanno lasciato insoluto, verrà risolto dagli operai e dai
contadini collaboranti in una forma di politica comune, nella forma
politica nella quale essi riusciranno ad organizzare e a rendere
vittoriosa la loro dittatura.
Operai e contadini
Da "L'ordine nuovo ", 3 gennaio 1920
La produzione industriale deve essere controllata direttamente
dagli operai organizzati per azienda; l'attività di controllo deve
essere unificata e coordinata attraverso organismi sindacali puramente
operai; gli operai e i socialisti non possono concepire come utile ai
loro interessi e alle loro aspirazioni un controllo sull'industria
esercitato dai funzionari (corrotti, venali, non revocabili) dello
Stato capitalista, una forma di controllo sull'industria che altro non
può significare che un risorgere dei comitati di mobilitazione
industriale utile solo al parassitismo capitalista.
Il motto "la terra ai contadini" deve essere inteso nel senso
che le aziende agricole e le fattorie moderne devono essere controllate
dagli operai agricoli organizzati per azienda agricola e per fattoria,
deve significare che le terre a cultura estensiva devono essere
amministrate dai Consigli dei contadini poveri dei villaggi e delle
borgate agricole; gli operai agricoli, i contadini poveri
rivoluzionari, e i socialisti consapevoli non possono concepire come
utili ai loro interessi e alle loro aspirazioni, non possono concepire
come utile ai fini dell'educazione proletaria, indispensabile per una
repubblica comunista, la propaganda per le "terre incolte o mal
coltivate". Questa propaganda non può non avere per risultato che una
mostruosa diffamazione del socialismo.
Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o
mal coltivata? Senza macchine, senza abitazione sul luogo del lavoro,
senza credito per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni
cooperative che acquistino il raccolto stesso (se il contadino arriva
al raccolto senza prima essersi impiccato al più forte arbusto delle
boscaglie, o al meno tisico fico selvatico, della terra incolta!) e lo
salvino dalle grinfie degli usurai, cosa può ottenere un contadino
povero dall'invasione? Egli soddisfa, in un primo momento, i suoi
istinti di proprietario, sazia la sua primitiva avidità di terra; ma in
un secondo momento, quando s'accorge che le braccia non bastano per
scassare una terra che solo la dinamite può squarciare, quando
s'accorge che sono necessarie le sementi e i concimi e gli strumenti di
lavoro, e pensa che nessuno gli darà tutte queste cose indispensabili,
e pensa alla serie futura dei giorni e delle notti da passare in una
terra senza casa, senza acqua, con la malaria, il contadino sente la
sua impotenza, la sua solitudine, la sua disperata condizione, e
diventa un brigante, non un rivoluzionario, diventa un assassino dei
"signori", non un lottatore per il comunismo.
Perciò gli operai e i contadini rivoluzionari e i socialisti
consapevoli non hanno visto un riflesso dei loro interessi e delle loro
aspirazioni nelle iniziative parlamentari per il controllo
dell'industria e per le terre "incolte o mal coltivate"; hanno visto in
queste iniziative solo il "cretinismo" parlamentare, l'illusione
riformista e opportunista, hanno visto la controrivoluzione. Eppure
l'azione parlamentare avrebbe potuto essere utile: avrebbe potuto
servire per informare tutti gli operai e tutti i contadini dei termini
esatti del problema industriale e agricolo e dei mezzi necessari e
sufficienti per risolverlo. Avrebbe potuto servire per far conoscere
alla grande massa dei contadini di tutta Italia che la soluzione del
problema agricolo può essere attuata solo dagli operai urbani
dell'Italia settentrionale, può essere attuata solo dalla dittatura
proletaria.
La borghesia settentrionale ha soggiogato l'Italia meridionale
e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato
settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica,
emanciperà le masse contadine settentrionali asservite alla banca e
all'industrialismo parassitario del Settentrione. La rigenerazione
economica e politica dei contadini non deve essere ricercata in una
divisione delle terre incolte o mal coltivate, ma nella solidarietà del
proletariato industriale, che ha bisogno, a sua volta, della
solidarietà dei contadini, che ha "interesse" acché il capitalismo non
rinasca economicamente dalla proprietà terriera e ha interesse acché
l'Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di
controrivoluzione capitalista.
Imponendo il controllo operaio sull'industria, il proletariato
rivolgerà l'industria alla produzione di macchine agricole per i
contadini, di stoffe e calzature per i contadini, di luce elettrica per
i contadini, impedirà che l'industria e la banca sfruttino i contadini
e li soggioghino come schiavi alle casseforti. Spezzando l'autocrazia
nella fabbrica, spezzando l'apparato oppressivo dello Stato
capitalista, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i capitalisti
alla legge del lavoro utile, gli operai spezzeranno tutte le catene che
tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria, alla sua
disperazione; instaurando la dittatura operaia, avendo in mano le
industrie e le banche, il proletariato rivolgerà l'enorme potenza
dell'organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta
contro i proprietari e contro la natura e contro la miseria; darà il
credito ai contadini, istituirà le cooperative, garantirà la sicurezza
personale e dei beni contro i saccheggiatori, farà le opere pubbliche
di risanamento e di irrigazione. Farà tutto questo perché è suo
interesse dare incremento alla produzione agricola, perché è suo
interesse rivolgere la produzione industriale a lavoro utile di pace e
di fratellanza tra città e campagna, tra Settentrione e Mezzogiorno.
In questo senso gli operai e i contadini consapevoli devono
volere sia rivolta l'azione parlamentare socialista: a compiere opera
di educazione rivoluzionaria nelle grandi masse, a unificare i
sentimenti e le aspirazioni delle grandi masse nella comprensione del
programma comunista, a diffondere incessantemente la persuasione che i
problemi attuali dell'economia industriale e agricola possono essere
risolti solo fuori del Parlamento, contro il Parlamento, dallo Stato
operaio.
Lo strumento di lavoro
"L'Ordine Nuovo", 14 febbraio 1920
La rivoluzione comunista attua l'autonomia del
produttore nel campo economico e nel campo politico. L'azione politica
della classe operaia (rivolta a instaurare la dittatura, a creare lo
Stato operaio) acquista valore storico reale solo quando è funzione
dello sviluppo di condizioni economiche nuove, ricche di possibilità,
avide di espandersi e di consolidarsi definitivamente. Perché l'azione
politica abbia buon esito deve coincidere con un'azione economica.
La
rivoluzione comunista è il riconoscimento storico di fatti preesistenti
economici, che essa rivela, che essa difende energicamente da ogni
tentativo reazionario, che essa fa diventare diritto, ai quali, cioè,
da una forma organica e una sistemazione. Ecco perché la costruzione
dei Soviet politici comunisti non può che succedere storicamente a una
fioritura e a una prima sistemazione dei Consigli di fabbrica.
Il
Consiglio di fabbrica e il sistema dei Consigli di fabbrica saggia e
rivela in prima istanza le nuove posizioni che nel campo della
produzione occupa la classe operaia; dà alla classe operaia
consapevolezza del suo valore attuale, della sua reale funzione, della
sua responsabilità, del suo avvenire. La classe operaia trae le
conseguenze dalla somma di esperienze positive che i singoli individui
compiono personalmente, acquista la psicologia e il carattere di classe
dominante, e si organizza come tale, cioè crea il Soviet politico,
instaura la dittatura.
Ogni operaio, per
costituire il Consiglio, ha dovuto prendere coscienza della sua
posizione nel campo economico. Ha sentito di essere inizialmente
inserito in una unità elementare, la squadra di reparto, e ha sentito
che le innovazioni tecniche apportate nell'attrezzatura delle macchine
hanno mutato i suoi rapporti col tecnico: l'operaio ha meno bisogno di
prima del tecnico, del maestro d'arte, ha quindi acquistato una
maggiore autonomia, può disciplinarsi da sé.
Anche
la figura del tecnico è mutata: i suoi rapporti con l'industriale sono
completamente trasformati: egli non è più una persona di fiducia, un
agente degli interessi capitalistici; poiché l'operaio può fare a meno
del tecnico per una infinità di atti del lavoro, il tecnico come agente
disciplinare diventa ingombrante: il tecnico si riduce anch'egli a
produttore, connesso al capitalista dai nudi e crudi rapporti di
sfruttato e sfruttatore. La sua psicologia perde le incrostazioni
piccolo-borghesi e diventa proletaria, diventa rivoluzionaria. Le
innovazioni industriali e l'acquistata maggiore capacità professionale,
permettono all'operaio una maggiore autonomia, lo collocano in una
superiore posizione industriale.
Ma il
mutamento di rapporti gerarchici e di indispensabilità non si limita
alla squadra di lavorazione, all'unità elementare che dà vita al
reparto e alla fabbrica. Ogni squadra di lavorazione esprime nella
persona del commissario la coscienza unitaria che ha acquistato del
proprio grado di autonomia e di autodisciplina nel lavoro, e assume
figura concreta nel reparto e nella fabbrica. Ogni Consiglio di
fabbrica (assemblea dei commissari) esprime nelle persone dei
componenti il comitato esecutivo la coscienza unitaria che gli operai
di tutta la fabbrica hanno acquistato della loro posizione nel campo
industriale. Il comitato esecutivo può accorgersi del come sia avvenuto
per la figura del direttore della fabbrica lo stesso mutamento di
figura che ogni operaio constata nel tecnico.
La
fabbrica non è indipendente: non esiste nella fabbrica
l'imprenditore-proprietario, che abbia la capacità mercantile
(stimolata dall'interesse legato alla proprietà privata) di comprare
bene le materie prime e di vendere meglio l'oggetto fabbricato. Queste
funzioni si sono spostate dalla fabbrica singola al sistema di
fabbriche possedute da una stessa ditta. E non basta: esse si
raccolgono in una banca o in un sistema di banche che si sono assunte
l'ufficio reale di fornitrici di materie prime e accaparratrici dei
mercati di vendita. Ma durante la guerra, per le necessità della
guerra, non è lo Stato divenuto l'approvvigionatore di materie prime
per l'industria, il distributore di esse secondo un piano prestabilito,
il compratore unico della produzione? Dov'è dunque andata a finire la
figura economica dell'imprenditore-proprietario, del capitano
d'industria, che è indispensabile alla produzione, che fa fiorire la
fabbrica con la sua preveggenza, con le sue iniziative, con lo stimolo
dell'interesse individuale? Essa è svanita, si è liquefatta nel
processo di sviluppo dello strumento del lavoro, nel processo di
sviluppo di rapporti tecnici ed economici che costituiscono le
condizioni della produzione e del lavoro. Il capitano d'industria è
diventato cavaliere d'industria, si annida nelle banche, nei salotti,
nei corridoi ministeriali e parlamentari, nelle borse. Il proprietario
del capitale è divenuto un ramo secco nel campo della produzione.
Poiché
egli non è più indispensabile, poiché le sue funzioni storiche sono
atrofizzate, egli diventa un mero agente di polizia, egli pone i suoi
"diritti" immediatamente nelle mani dello Stato perché li difenda
spietatamente. Lo Stato diventa così l'unico proprietario dello
strumento di lavoro, assume tutte le funzioni tradizionali
dell'imprenditore, diventa la macchina impersonale che compra e
distribuisce le materie prime, che impone un piano di produzione, che
compra i prodotti e li distribuisce: lo Stato dei politicanti, degli
avventurieri, dei bricconi. Conseguenze: aumento della forza armata
poliziesca, aumento caotico della burocrazia incompetente, tentativo di
assorbire tutti i malcontenti della piccola borghesia avida di ozio, e
creazione a questo scopo di organismi parassitari all'infinito. Il
numero dei non produttori aumenta morbosamente, supera ogni limite
consentito dalla potenzialità dell'apparato di produzione. Si lavora e
non si produce, si lavora affannosamente e la produzione cala
continuamente. Perché si è formato un abisso spalancato, una fauce
immane che inghiotte e annienta il lavoro, annienta la produttività. Le
ore non pagate del lavoro operaio non servono più a dare incremento
alla ricchezza dei capitalisti: servono a sfamare l'avidità della
sterminata moltitudine di agenti, di funzionari, di oziosi, servono a
sfamare chi lavora direttamente per questa turba di inutili parassiti.
E nessuno è responsabile, e nessuno può essere colpito: sempre
dappertutto lo Stato borghese, con la sua forza armata, lo Stato
borghese che è diventato il gerente dello strumento di lavoro che si
decompone, che va in pezzi, che viene ipotecato e sarà venduto
all'incanto nel mercato internazionale dei ferrivecchi logori e
inutili... Così si è sviluppato lo strumento di lavoro, il sistema dei
rapporti economici e sociali.
La classe
operaia ha acquistato un altissimo grado di autonomia nel campo della
produzione, poiché lo sviluppo della tecnica industriale e commerciale
ha soppresso tutte le funzioni utili inerenti alla proprietà privata,
alla persona del capitalista. La persona del privato proprietario
automaticamente espulsa dal campo immediato della produzione, si è
annidata nel potere di Stato, monopolizzatore della distillazione del
profitto. La forza armata tiene la classe operaia in una schiavitù
politica ed economica divenuta antistorica, divenuta fonte di
decomposizione e di rovina. La classe operaia si stringe intorno alle
macchine, crea i suoi istituti rappresentativi come funzione del
lavoro, come funzione della conquistata autonomia, della conquistata
coscienza di autogoverno.
Il Consiglio di
fabbrica è la base delle sue esperienze positive, della presa di
possesso dello strumento di lavoro, è la base solida del processo che
deve culminare nella dittatura, nella conquista del potere di Stato da
rivolgere alla distruzione del caos, della cancrena che minaccia di
soffocare la società degli uomini, che corrompe e dissolve la società
degli uomini.
Per un rinnovamento del Partito socialista
"L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1920
1) La fisionomia della
lotta delle classi è in Italia caratterizzata nel momento attuale dal
fatto che gli operai industriali e agricoli sono incoercibilmente
determinati, su tutto il territorio nazionale, a porre in modo
esplicito e violento la questione della proprietà sui mezzi di
produzione. L'imperversare delle crisi nazionali e internazionali che
annientano progressivamente il valore della moneta dimostra che il
capitale è stremato; l'ordine attuale di produzione e di distribuzione
non riesce più a soddisfare neppure le elementari esigenze della vita
umana e sussiste solo perché ferocemente difeso dalla forza armata
dello Stato borghese; tutti i movimenti del popolo lavoratore italiano
tendono irresistibilmente ad attuare una gigantesca rivoluzione
economica, che introduca nuovi modi di produzione, un nuovo ordine nel
processo produttivo e distributivo, che dia alla classe degli operai
industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione,
strappandolo dalle mani dei capitalisti e dei terrieri.
2)
Gli industriali e i terrieri hanno realizzato il massimo concentramento
della disciplina e della potenza di classe: una parola d'ordine
lanciata dalla Confederazione Generale dell'Industria italiana trova
immediata attuazione in ogni singola fabbrica. Lo Stato borghese ha
creato un corpo armato mercenario predisposto a funzionare da strumento
esecutivo della volontà di questa nuova organizzazione della classe
proprietaria che tende, attraverso la serrata applicata su vasta scala
e il terrorismo, a restaurare il suo potere sui mezzi di produzione,
costringendo gli operai e i contadini a lasciarsi espropriare di una
moltiplicata quantità di lavoro non pagato. La serrata ultima negli
stabilimenti metallurgici torinesi è stato un episodio di questa
volontà degli industriali di mettere il tallone sulla nuca della classe
operaia: gli industriali hanno approfittato della mancanza di
coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria nelle forze operaie
italiane per tentare di spezzare la compagine del proletariato torinese
e annientare nella coscienza degli operai il prestigio e l'autorità
delle istituzioni di fabbrica (Consigli e commissari di reparto) che
avevano iniziato la lotta per il controllo operaio. Il prolungarsi
degli scioperi agricoli nel Novarese e in Lomellina dimostra come i
proprietari terrieri siano disposti ad annientare la produzione per
ridurre alla disperazione e alla fame il proletariato agricolo e
soggiogarlo implacabilmente alle più dure e umilianti condizioni di
lavoro e di esistenza.
3) La fase attuale
della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista
del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il
passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano
una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della
classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà
trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un
lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi
di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di
incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le
cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese.
4)
Le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di
concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del
Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente
nella della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale
attraversa nell'attuale periodo, e di non comprendere nulla della
missione che incombe agli organismi di lotta del proletariato
rivoluzionario. Il Partito socialista assiste da spettatore allo
svolgersi degli eventi, non ha mai una opinione sua da esprimere, che
sia in dipendenza delle tesi rivoluzionarie del marxismo e della
Internazionale comunista, non lancia parole d'ordine che possano essere
raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e
concentrare l'azione rivoluzionaria. Il Partito socialista, come
organizzazione politica della parte d'avanguardia della classe operaia,
dovrebbe sviluppare un'azione d'insieme atta a porre tutta la classe
operaia in grado di vincere la rivoluzione e di vincere in modo
duraturo. Il Partito socialista, essendo costituito da quella parte di
classe proletaria che non si è lasciata avvilire e prostrare
dall'oppressione fisica e spirituale del sistema capitalistico, ma è
riuscita a salvare la propria autonomia e lo spirito di iniziativa
cosciente e disciplinata, dovrebbe incarnare la vigile coscienza
rivoluzionaria di tutta la classe sfruttata. Il suo compito è quello di
accentrare in sé l'attenzione di tutta la massa, di ottenere che le sue
direttive diventino le direttive di tutta la massa, di conquistare la
fiducia permanente di tutta la massa in modo di diventarne la guida e
la testa pensante. Perciò è necessario che il Partito viva sempre
immerso nella realtà effettiva della lotta di classe combattuta dal
proletariato industriale e agricolo, che ne sappia comprendere le
diverse fasi, i diversi episodi, le molteplici manifestazioni, per
trarre l'unità dalla diversità molteplice, per essere in grado di dare
una direttiva reale all'insieme dei movimenti e infondere la
persuasione nelle folle che un ordine è imminente nello spaventoso
attuale disordine, un ordine che, sistemandosi, rigenererà la società
degli uomini e renderà lo strumento di lavoro idoneo a soddisfare le
esigenze della vita elementare e del progresso civile. Il Partito
socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero
partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti
della democrazia borghese, che si preoccupa solo delle superficiali
affermazioni politiche della casta governativa; esso non ha acquistato
una sua figura autonoma di partito caratteristico del proletariato
rivoluzionario e solo del proletariato rivoluzionario.
5)
Dopo il Congresso di Bologna gli organismi centrali del Partito
avrebbero immediatamente dovuto iniziare a svolgere fino in fondo una
energica azione per rendere omogenea e coesa la compagine
rivoluzionaria del Partito, per dargli la fisionomia specifica e
distinti di Partito comunista aderente alla III Internazionale. La
polemica coi riformisti e cogli opportunisti non fu neppure iniziata;
né la direzione del Partito né l' "Avanti!" contrapposero una propria
concezione rivoluzionaria alla propaganda incessante che i riformisti e
gli opportunisti andavano svolgendo in Parlamento e negli organismi
sindacali. Nulla si fece da parte degli organi centrali del Partito per
dare alle masse una educazione politica in senso comunista; per indurre
le masse a eliminare i riformisti e gli opportunisti dalla direzione
delle istituzioni sindacali e cooperative, per dare alle singole
sezioni e ai gruppi di compagni più attivi un indirizzo e una tattica
unificati. Così è avvenuto che mentre la maggioranza rivoluzionaria del
Partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore
della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi
opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il
loro prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro
posizioni parlamentari e sindacali. La direzione ha permesso loro di
concentrarsi e di votare risoluzioni contraddittorie con i principi e
la tattica della III Internazionale: la direzione del Partito è stata
assente sistematicamente dalla vita e dall'attività delle sezioni,
degli organismi, dei singoli compagni. La confusione che esisteva nel
Partito prima del Congresso di Bologna e che poteva spiegarsi col
regime di guerra, non è sparita, ma si è anzi accresciuta in modo
spaventoso; è naturale che in tali condizioni il Partito sia scaduto
nella fiducia delle masse e che in molti luoghi le tendenze anarchiche
abbiano tentato di prendere il sopravvento. Il Partito politico della
classe operaia è giustificato solo in quanto, accentrando e coordinando
fortemente l'azione proletaria, contrappone un potere rivoluzionario di
fatto al potere legale dello Stato borghese e ne limita la libertà di
iniziativa e di manovra: se il Partito non realizza l'unità e la
simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo
burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia
istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso
le tendenze anarchiche che appunto aspramente e incessantemente
criticano l'accentramento e il funzionarismo dei partiti politici.
6)
Il Partito è stato assente dal movimento internazionale. La lotta di
classe va assumendo in tutti i paesi del mondo forme gigantesche; i
proletari sono spinti da per tutto a rinnovare i metodi di lotta, e
spesso, come in Germania dopo il colpo di forza militarista, a
insorgere con le armi in pugno. Il Partito non si cura di spiegare al
popolo lavoratore italiano questi avvenimenti, di giustificarli alla
luce della concezione della Internazionale comunista, non si cura di
svolgere tutta un'azione educativa rivolta a rendere consapevole il
popolo lavoratore italiano della verità che la rivoluzione proletaria è
un fenomeno mondiale e che ogni singolo avvenimento deve essere
considerato e giudicato in un quadro mondiale. La III Internazionale si
è riunita già due volte nell'Europa occidentale, nel dicembre 1919 in
una città tedesca, nel febbraio 1920 ad Amsterdam: il Partito italiano
non era rappresentato in nessuna delle due riunioni: i militanti del
Partito non sono stati neppure informati dagli organismi centrali delle
discussioni avvenute e delle deliberazioni prese nelle due conferenze.
Nel campo della III Internazionale fervono le polemiche sulla dottrina
e sulla tattica della Internazionale comunista: esse (come in Germania)
hanno condotto persino a scissioni interne. Il Partito italiano è
completamente tagliato fuori da questo rigoglioso dibattito ideale in
cui si temperano le coscienze rivoluzionarie e si costruisce l'unità
spirituale e d'azione dei proletari di tutti i paesi. L'organo centrale
del Partito non ha corrispondenti propri né in Francia, né in
Inghilterra, né in Germania e neppure in Isvizzera: strana condizione
per il giornale del Partito socialista che in Italia rappresenta gli
interessi del proletariato internazionale e strana condizione fatta
alla classe operaia italiana che deve informarsi attraverso le notizie
delle agenzie e dei giornali borghesi, monche e tendenziose. L'
"Avanti!", come organo del Partito, dovrebbe essere organo della III
Internazionale: nell' "Avanti!" dovrebbero trovare posto tutte le
notizie, le polemiche, le trattazioni di problemi proletari che
interessano la III Internazionale; nell' "Avanti!" dovrebbe essere
condotta, con spirito unitario, una polemica incessante contro tutte le
deviazioni e i compromessi opportunistici: invece l' "Avanti!" mette in
valore manifestazioni del pensiero opportunista, come il recente
discorso parlamentare dell'on. Treves, che era intessuto su una
concezione dei rapporti internazionali piccolo-borghese e svolgeva una
teoria controrivoluzionaria e disfattista delle energie proletarie.
Questa assenza, negli organi centrali, di ogni preoccupazione di
informare il proletariato sugli avvenimenti e sulle discussioni
teoriche che si svolgono in seno alla III Internazionale si può
osservare anche nell'attività della Libreria Editrice. La Libreria
continua a pubblicare opuscoli senza importanza o scritti per
diffondere concezioni e opinioni proprie della II Internazionale,
mentre trascura le pubblicazioni della III Internazionale. Scritti di
compagni russi, indispensabili per comprendere la rivoluzione
bolscevica, sono stati tradotti in Svizzera, In Inghilterra, in
Germania e sono stati ignorati in Italia: valga per tutti il volume di
Lenin Stato e Rivoluzione; gli opuscoli tradotti sono poi tradotti
pessimamente, spesso incomprensibili per le storture grammaticali e di
senso comune.
7) Dall'analisi precedente
risulta quale sia l'opera di rinnovamento e di organizzazione che noi
riteniamo indispensabile venga attuata nella compagine del Partito. Il
Partito deve acquistare una sua figura precisa e distinta; da partito
parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del
proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società
comunista attraverso lo Stato operaio, un partito omogeneo, coeso, con
una sua propria dottrina, una sua tattica, una sua disciplina rigida e
implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal
Partito e la direzione, liberata dalla preoccupazione di conservare
l'unità e l'equilibrio tra le diverse tendenze e tra i diversi leaders,
deve rivolgere tutta la sua energia per organizzare le forze operaie
sul piede di guerra. Ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e
internazionale deve essere immediatamente commentato in manifesti
circolari della direzione per trarne argomenti di propaganda comunista
e di educazione delle coscienze rivoluzionarie. La direzione,
mantenendosi sempre a contatto con le sezioni, deve diventare il centro
motore dell'azione proletaria in tutte le sue applicazioni. La sezione
deve promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle
cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti che
diffondano incessantemente in seno alle masse le concezioni e la
tattica del Partito, che organizzino la creazione dei Consigli di
fabbrica per l'esercizio del controllo sulla produzione industriale e
agricola, che svolgano la propaganda necessaria per conquistare in modo
organico i sindacati, le Camere del Lavoro e la Confederazione Generale
del Lavoro, per diventare gli elementi di fiducia che la massa
delegherà per la formazione dei Soviet politici e per l'esercizio della
dittatura proletaria. L'esistenza di un Partito comunista coeso e
fortemente disciplinato, che attraverso i suoi nuclei di fabbrica, di
sindacato, di cooperativa coordini e accentri nel suo comitato
esecutivo centrale tutta l'azione rivoluzionaria del proletariato, è la
condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi
esperimento di Soviet; nell'assenza di una tale condizione ogni
proposta di esperimento deve essere rigettata come assurda e utile solo
ai diffamatori dell'idea soviettista. Allo stesso modo deve essere
rigettata la proposta del parlamentino socialista, che diventerebbe
rapidamente uno strumento in mano alla maggioranza riformista e
opportunista del gruppo parlamentare per diffondere utopie democratiche
e progetti controrivoluzionari.
8) La
direzione deve immediatamente studiare, compilare e diffondere un
programma di governo rivoluzionario del Partito socialista, nel quale
siano prospettate le soluzioni reali che il proletariato, divenuto
classe dominante, darà a tutti i problemi essenziali - economici,
politici, religiosi, scolastici ecc. - che assillano i diversi strati
della popolazione lavoratrice italiana. Basandosi sulla concezione che
il Partito fonda la sua potenza e la sua azione solo sulla classe degli
operai industriali e agricola che non hanno nessuna proprietà privata e
considera gli altri strati del popolo lavoratore come ausiliari della
classe schiettamente proletaria, il Partito deve lanciare un manifesto
nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in
modo esplicito, nel quale il proletariato industriale e agricolo sia
invitato a prepararsi e ad armarsi e nel quale siano accennati gli
elementi delle soluzioni comuniste per i problemi attuali: controllo
proletario sulla produzione e sulla distribuzione, disarmo dei corpi
armati mercenari, controllo dei municipi esercitato dalle
organizzazioni operaie.
9) La sezione
socialista torinese propone, sulla base di queste considerazioni, di
promuovere un'intesa, coi gruppi di compagni che in tutte le sezioni
vorranno costituirsi per discuterle e approvarle; intesa organizzata
che prepari a breve scadenza un congresso dedicato a discutere i
problemi di tattica e di organizzazione proletaria e nel frattempo
controlli l'attività degli organismi esecutivi del Partito.
Sindacati e consigli (II)
Da "L'ordine nuovo, 12 giugno 1920
Il sindacato non è questa o quella definizione del sindacato: il
sindacato diventa una determinata definizione e cioè assume una
determinata figura storica in quanto le forze e la volontà operaie che
lo costituiscono gli imprimono quell'indirizzo e pongono alla sua
azione quel fine che sono affermati nella definizione.
Obiettivamente
il sindacato è la forma che la merce-lavoro assume e sola può assumere
in regime capitalista quando si organizza per dominare il mercato:
questa forma è un ufficio costituito di funzionari, tecnici (quando
sono tecnici) dell'organizzazione, specialisti (quando sono
specialisti) nell'arte di concentrare e di guidare le forze operaie in
modo da stabilire con la potenza del capitale un equilibrio vantaggioso
alla classe operaia.
Lo sviluppo dell'organizzazione sindacale è caratterizzato da questi due fatti:
1)
il sindacato abbraccia una sempre maggior quantità di effettivi operai,
cioè incorpora nella disciplina della sua forma una sempre maggior
quantità di effettivi operai;
2) il
sindacato concentra e generalizza la sua forma fino a riporre in un
ufficio centrale il potere della disciplina e del movimento: esso cioè
si stacca dalle masse che ha irregimentato, si pone fuori dal gioco dei
capricci, delle velleità delle volubilità che sono proprie delle grandi
masse tumultuose.
Così il sindacato
diventa capace a contrarre patti, ad assumersi impegni: così esso
costringe l'imprenditore ad accettare una legalità che è condizionata
dalla fiducia che l'imprenditore ha nella capacità del sindacato di
ottenere da parte delle masse operaie il rispetto degli obblighi
contratti.
L'avvento di una legalità
industriale è stata una grande conquista della classe operaia, ma essa
non è l'ultima e definitiva conquista: la legalità industriale ha
migliorato le condizioni della vita materiale della classe operaia, ma
essa non è più che un compromesso, che è stato necessario compiere, che
sarà necessario sopportare fin quando i rapporti di forza saranno
sfavorevoli alla classe operaia.
Se i
funzionari dell'organizzazione sindacale considerano la legalità
industriale come un compromesso necessario, ma non perpetuamente, se
essi rivolgono tutti i mezzi di cui il sindacato può disporre per
migliorare i rapporti di forza in senso favorevole alla classe operaia,
se essi svolgono tutto il lavoro di preparazione spirituale e materiale
necessario perché la classe operaia possa in un momento determinato
iniziare un'offensiva vittoriosa contro il capitale e sottometterlo
alla sua legge, allora il sindacato è uno strumento rivoluzionario,
allora la disciplina sindacale, per quanto è rivolta a far rispettare
dagli operai la legalità industriale, è la disciplina rivoluzionaria. I
rapporti che devono intercorrere tra sindacato e Consiglio di fabbrica
debbono essere considerati da questo punto di vista: dal giudizio che
si dà sulla natura e il valore della legalità industriale.
Il
Consiglio è la negazione della legalità industriale, tende ad
annientarla in ogni istante, tende incessantemente a condurre la classe
operaia alla conquista del potere industriale, a far diventare la
classe operaia la fonte del potere industriale. Il sindacato è un
elemento della legalità, e deve proporsi di farla rispettare dai suoi
organizzati. Il sindacato è responsabile verso gli industriali, ma è
responsabile verso i suoi organizzati: esso garantisce la continuità
del lavoro e del salario, e cioè del pane e del tetto, all'operaio e
alla famiglia dell'operaio.
Il Consiglio
tende, per la sua spontaneità rivoluzionaria, a scatenare in ogni
momento la guerra delle classi; il sindacato , per la sua forma
burocratica, tende a non lasciare che la guerra di classe venga mai
scatenata.
I rapporti tra le due
istituzioni devono tendere a creare una situazione in cui non avvenga
che un impulso capriccioso del Consiglio determini un passo indietro
della classe operaia, determini una sconfitta della classe operaia, una
situazione cioè in cui il Consiglio accetti e faccia propria la
disciplina del sindacato, e a creare una situazione in cui il carattere
rivoluzionario del Consiglio abbia un influsso sul sindacato, sia un
reagente che dissolva la burocrazia e il funzionarismo sindacale.
Il
Consiglio vorrebbe uscire, in ogni momento, dalla legalità industriale:
il Consiglio è la massa, sfruttata, tiranneggiata, costretta al lavoro
servile, e perciò tende a universalizzare ogni ribellione, a dare
valore e portata risolutiva a ogni suo atto di potere. Il sindacato,
come ufficio responsabile in solido della legalità, tende ad
universalizzare e perpetuare la legalità.
I
rapporti tra sindacato e Consiglio devono creare le condizioni in cui
l'uscita dalla legalità, l'offensiva della classe operaia, avvenga
quando la classe operaia ha quel minimo di preparazione che si ritiene
indispensabile per vincere durevolmente. I rapporti tra sindacato e
Consiglio non possono essere stabiliti da altro legame che non sia
questo: la maggioranza o una parte cospicua degli elettori del
Consiglio sono organizzati nel sindacato. Ogni tentativo di legare con
rapporti di dipendenza gerarchica i due istituti non può condurre che
all'annientamento di entrambi.
Se la
concezione che fa del Consiglio un mero strumento di lotta sindacale si
materializza in una disciplina burocratica e in una facoltà di
controllo diretto del sindacato sul Consiglio, il Consiglio si
isterilisce come espansione rivoluzionaria, come forma dello sviluppo
reale della rivoluzione proletaria che tende spontaneamente a creare
nuovi modi di produzione e di lavoro, nuovi modi di disciplina, che
tende a creare la società comunista. Poiché il Consiglio nasce
indipendentemente dalla posizione che la classe operaia è venuta
acquistando nel campo della produzione industriale, poiché il Consiglio
è una necessità storica della classe operaia, il tentativo di
subordinarlo gerarchicamente al sindacato determinerebbe prima o poi un
cozzo tra le due istituzioni.
La forza
del Consiglio consiste nel fatto che esso aderisce alla coscienza della
massa operaia, è la stessa coscienza della massa operaia che vuole
emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua libertà di
iniziativa nella creazione della storia: tutta la massa partecipa alla
vita del Consiglio e sente di essere qualcosa per questa attività. Alla
vita del sindacato partecipa un numero strettissimo di organizzati; la
forza reale del sindacato è in questo fatto, ma in questo fatto è anche
una debolezza che può essere messa alla prova senza gravissimi
pericoli. Se d'altronde il sindacato poggiasse direttamente sui
Consigli, non per dominarli, ma per diventarne la forma superiore, si
rifletterebbe nel sindacato la tendenza propria dei Consigli a uscire
ogni istante dalla legalità industriale, a scatenare in qualsiasi
momento l'azione risolutiva della guerra di classe.
Il
sindacato perderebbe la sua capacità a contrarre impegni, perderebbe il
suo carattere di forza disciplinatrice e regolatrice delle forze
impulsive della classe operaia. Se gli organizzati stabiliscono nel
sindacato una disciplina rivoluzionaria, stabiliscono una disciplina
che appaia alla massa come una necessità per il trionfo della
rivoluzione operaia e non come una servitù verso il capitale, questa
disciplina verrà indubbiamente accettata e fatta propria dal Consiglio,
diverrà la forma naturale dell'azione svolta dal Consiglio.
Se
l'ufficio del sindacato diventa un organismo di preparazione
rivoluzionaria, e tale appare alle masse per l'azione che riesce a
svolgere, per gli uomini che lo compongono, per la propaganda che
sviluppa, allora il suo carattere concentrato e assoluto sarà visto
dalle masse come una maggiore forza rivoluzionaria, come una condizione
in più (e delle più importanti) per il successo della lotta impegnata a
fondo. Nella realtà italiana, il funzionario sindacale concepisce la
legalità industriale come una perpetuità. Egli troppo spesso la difende
da un punto di vista che è lo stesso punto di vista del proprietario.
Egli vede solo caos e arbitrio in tutto quanto succede tra la massa
operaia: egli non universalizza l'atto di ribellione dell'operaio alla
disciplina capitalistica come ribellione, ma come materialità dell'atto
che può essere in sé e per sé triviale. Così è avvenuto che la
storiella dell'"impermeabile del facchino" abbia avuto la stessa
diffusione e sia stata interpretata dalla stupidità giornalistica allo
stesso modo della storiella sulla "socializzazione delle donne in
Russia".
In queste condizioni la
disciplina sindacale non può essere che un servizio reso al capitale;
in queste condizioni ogni tentativo di subordinare il Consiglio al
sindacato non può essere giudicato che reazionario. I comunisti, in
quanto vogliono che l'atto rivoluzionario sia, per quanto è possibile,
cosciente e responsabile, vogliono una scelta, per quanto può essere
una scelta, del momento di scatenare l'offensiva operaia rimanga alla
parte più cosciente e responsabile della classe operaia, a quella parte
che è organizzata nel Partito socialista e che più attivamente
partecipa alla vita dell'organizzazione. Perciò i comunisti non possono
volere che il sindacato perda della sua energia disciplinatrice e della
sua concentrazione sistematica. I comunisti, costituendosi in gruppi
organizzati permanentemente nei sindacati e nelle fabbriche, devono
trasportare nei sindacati e nelle fabbriche le loro concezioni, le
tesi, la tattica della III Internazionale, devono influenzare la
disciplina sindacale e determinare i fini, devono influenzare le
deliberazioni dei Consigli di fabbrica e far diventare coscienza e
creazione rivoluzionaria gli impulsi alla ribellione che scaturiscono
dalla situazione che il capitalismo crea alla classe operaia.
I
comunisti del Partito hanno il maggiore interesse, perché su di essi
pesa la maggiore responsabilità storica, a suscitare, con la loro
azione incessante, tra i diversi istituti della classe operaia,
rapporti di compenetrazione e di naturale indipendenza che vivifichino
la disciplina e l'organizzazione con lo spirito rivoluzionario.
Il Partito comunista
"L'Ordine Nuovo", 9 ottobre 1920
Il movimento
proletario, nella sua fase attuale, tende ad attuare una rivoluzione
nell'organizzazione delle cose materiali e delle forze fisiche; i suoi
tratti caratteristici non possono essere i sentimenti e le passioni
diffuse nella massa e che sorreggono la volontà della massa; i tratti
caratteristici della rivoluzione proletaria possono esser ricercati
solo nel partito della classe operaia, nel Partito comunista, che
esiste e si sviluppa in quanto è l'organizzazione disciplinata della
volontà di fondare uno Stato, della volontà di dare una sistemazione
proletaria all'ordinamento delle forze fisiche esistenti e di gettare
le basi della libertà popolare.
L'operaio
nella fabbrica ha mansioni meramente esecutive. Egli non segue il
processo generale del lavoro e della produzione; non è un punto che si
muove per creare una linea; è uno spillo conficcato in un luogo
determinato e la linea risulta dal susseguirsi degli spilli che una
volontà estranea ha disposto per i suoi fini. L'operaio tende a portare
questo suo modo di essere in tutti gli ambienti della sua vita; si
acconcia facilmente, da per tutto, all'ufficio di esecutore materiale,
di "massa" guidata da una volontà estranea alla sua; è pigro
intellettualmente, non sa e non vuole prevedere oltre l'immediato,
perciò manca di ogni criterio nella scelta dei suoi capi e si lascia
illudere facilmente dalle promesse; vuol credere di poter ottenere
senza un grande sforzo da parte sua e senza dover pensare troppo.
Il Partito comunista è lo strumento e la
forma storica del processo di intima liberazione per cui l'operaio da
esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio
diviene cervello e volontà; nella formazione del Partito comunista è
dato cogliere il germe della libertà che avrà il suo sviluppo e la sua
piena espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le
condizioni materiali necessarie.
Il
Partito comunista, anche come mera organizzazione si è rivelato forma
particolare della rivoluzione proletaria. Nessuna rivoluzione del
passato ha conosciuto i partiti; essi sono nati dopo la rivoluzione
borghese e si sono decomposti nel terreno della democrazia
parlamentare. Anche in questo campo si è verificata l'idea marxista che
il capitalismo crea forze che poi non riesce a dominare.
I
partiti democratici servivano a indicare uomini politici di valore e a
farli trionfare nella concorrenza politica; oggi gli uomini di governo
sono imposti dalle banche, dai grandi giornali, dalle associazioni
industriali; i partiti si sono decomposti in una molteplicità di
cricche personali.
Il Partito
comunista, sorgendo dalle ceneri dei partiti socialisti, ripudia le sue
origini democratiche e parlamentari e rivela i suoi caratteri
essenziali che sono originali nella storia: la rivoluzione russa è la
rivoluzione compiuta dagli uomini organizzati nel Partito comunista,
che nel partito si sono plasmati una personalità nuova, hanno
acquistato nuovi sentimenti, hanno realizzato una vita morale che tende
a divenire coscienza universale e fine per tutti gli uomini.
I
partiti politici sono il riflesso e la nomenclatura delle classi
sociali. Essi sorgono, si sviluppano, si decompongono, si rinnovano, a
seconda che i diversi strati delle classi sociali in lotta subiscono
spostamenti di reale portata storica, vedono radicalmente mutate le
loro condizioni di esistenza e di sviluppo, acquistano una maggiore e
più chiara consapevolezza di sé e dei propri vitali interessi.
Nell'attuale
periodo storico e in conseguenza della guerra imperialista che ha
profondamente mutato la struttura dell'apparecchio nazionale e
internazionale di produzione e di scambio, è divenuta caratteristica la
rapidità con cui si svolge il processo di dissociazione dei partiti
politici tradizionali, nati sul terreno della democrazia parlamentare,
e del sorgere di nuove organizzazioni politiche: questo processo
generale ubbidisce a una intima logica implacabile, sostanziata dalle
sfaldature delle vecchie classi e dei vecchi ceti e dai vertiginosi
trapassi da una condizione ad un'altra di interi strati della
popolazione in tutto il territorio dello Stato, in tutto il territorio
del dominio capitalistico.
Il
Partito socialista si dice assertore delle dottrine marxiste; il
partito dovrebbe quindi avere, in queste dottrine, una bussola per
orientarsi nel groviglio degli avvenimenti, dovrebbe possedere quella
capacità di previsione storica che caratterizza i seguaci intelligenti
della dialettica marxista, dovrebbe avere un piano generale d'azione,
basato su questa previsione storica, ed essere in grado di lanciare
alla classe operaia in lotta parole d'ordine chiare e precise; invece
il Partito socialista, il partito assertore del marxismo in Italia, è,
come il Partito popolare, come il partito delle classi più arretrate
della popolazione italiana, esposto a tutte le pressioni delle masse e
si muove e si differenzia quando già le masse si sono spostate e
differenziate. In verità questo Partito socialista, che si proclama
guida e maestro delle masse, altro non è che un povero notaio che
registra le operazioni compiute spontaneamente dalle masse; questo
povero Partito socialista, che si proclama capo della classe operaia,
altro non è che gli impedimenta dell'esercito proletario.
Se
questo strano procedere del Partito socialista, se questa bizzarra
condizione del partito politico della classe operaia non hanno finora
provocato una catastrofe, gli è che in mezzo alla classe operaia, nelle
sezioni urbane del Partito, nei sindacati, nelle fabbriche, nei
villaggi, esistono gruppi energici di comunisti consapevoli del loro
ufficio storico, energici e accorti nell'azione, capaci di guidare e di
educare le masse locali del proletariato; gli è che esiste
potenzialmente, nel seno del Partito socialista, un Partito comunista
al quale non manca che l'organizzazione esplicita, la centralizzazione
e una sua disciplina per svilupparsi rapidamente, conquistare e
rinnovare la compagine del partito della classe operaia, dare un nuovo
indirizzo alla Confederazione Generale del Lavoro e al movimento
cooperativo.
Il problema immediato
di questo periodo, che succede alla lotta degli operai metallurgici e
precede il congresso in cui il Partito deve assumere un atteggiamento
serio e preciso di fronte all'Internazionale comunista, è appunto
quello di organizzare e centralizzare queste forze comuniste già
esistenti e operanti.
Il Partito
socialista, di giorno in giorno, con una rapidità fulminea, si
decompone e va in sfacelo; le tendenze in un brevissimo giro di tempo,
hanno già acquistato una nuova configurazione; messi di fronte alle
responsabilità dell'azione storica e agli impegni assunti nell'aderire
all'Internazionale comunista, gli uomini e i gruppi si sono
scompigliati, si sono spostati; l'equivoco centrista e opportunista ha
guadagnato una parte della direzione del Partito, ha gettato il
turbamento e la confusione nelle sezioni.
Dovere
dei comunisti, in questo generale venir meno delle coscienze, delle
fedi, della volontà, in questo imperversare di bassezze, di viltà, di
disfattismi è quello di stringersi fortemente in gruppi, di affiatarsi,
di tenersi pronti alle parole d'ordine che verranno lanciate. I
comunisti sinceri e disinteressati, sulla base delle tesi approvate dal
II Congresso della III Internazionale, sulla base della leale
disciplina alla suprema autorità del movimento operaio mondiale, devono
svolgere il lavoro necessario perché, nel più breve tempo possibile,
sia costituita la frazione comunista del Partito socialista italiano,
che, per il buon nome del proletariato italiano, deve, nel Congresso di
Firenze, diventare, di nome e di fatto, Partito comunista italiano,
sezione della III Internazionale comunista; perché la frazione
comunista si costituisca con un apparecchio direttivo organico e
fortemente centralizzato, con proprie articolazioni disciplinate in
tutti gli ambienti dove lavora, si riunisce e lotta la classe operaia,
con un complesso di servizi e di strumenti per il controllo, per
l'azione, per la propaganda che la pongano in condizioni di funzionare
e di svilupparsi fin da oggi come un vero e proprio partito.
I
comunisti, che nella lotta metallurgica hanno, con la loro energia e il
loro spirito di iniziativa, salvato da un disastro la classe operaia,
devono giungere fino alle ultime conclusioni del loro atteggiamento e
della loro azione: salvare la compagine primordiale (ricostruendola)
del partito della classe operaia, dare al proletariato italiano il
Partito comunista che sia capace di organizzare lo Stato operaio e le
condizioni per l'avvento della società comunista.
Scissione o sfacelo?
"L'Ordine Nuovo", 11-18 dicembre 1920
I socialcomunisti
unitari non vogliono la scissione del Partito, perché non vogliono
rovinare la rivoluzione proletaria italiana. Riconosciamo subito che i
socialcomunisti unitari rappresentano e incarnano tutte le più
"gloriose" tradizioni del grande e glorioso Partito socialista italiano
(che diventerà Partito socialcomunista unitario italiano): gloriosa
ignoranza, gloriosa e spregiudicata assenza di ogni scrupolo nella
polemica e di ogni senso di responsabilità nella politica nazionale,
gloriosa bassa demagogia, gloriosa vanità, gloriosissima ciarlanteria,
ecco il corpo di tradizioni gloriose e italianissime che si incarnano e
sono rappresentate dai socialcomunisti unitari.
Il
Congresso dell'Internazionale comunista ha posto al partito socialista
italiano il problema di organizzarsi sulla base dell'accettazione dei
deliberati approvati dalla sua assemblea. Si trattava di scindersi dai
riformisti, di scindersi cioè da una parte minima del proprio corpo, da
una parte che non ha alcuna funzione vitale nell'organismo, che è
lontana dalle masse proletarie, che non può dire di rappresentare le
masse solo quando esse sono state demoralizzate dagli errori, dalle
incertezze, dall'assenteismo dei capi rivoluzionari.
I
socialcomunisti unitari non hanno voluto accettare le deliberazioni del
II Congresso per non scindere il Partito dai riformisti e affermano di
non voler scindere il Partito dai riformisti per non scindere la massa;
essi hanno piombato le masse, e del Partito e delle fabbriche, nel caos
più cupo; hanno posto in dubbio la correttezza del Congresso
internazionale, hanno ripudiato l'adesione del Partito al Congresso
(Serrati è ritornato in Italia da Mosca come Orlando un giorno tornò da
Versailles, per protestare, per scindere le responsabilità, per salvare
l'onore e la gloria degli italiani), hanno screditato (o hanno cercato
di screditare) la più alta autorità dell'Internazionale operaia, hanno
fatto dilagare, in un ambiente propizio come il nostro, una marea
putrida di pettegolezzi, di insinuazioni, di vigliaccherie, di
scetticismi.
Cosa hanno ottenuto? Hanno
scisso il Partito in tre, quattro, cinque tendenze; hanno, nelle grandi
città, scisso le masse operaie, che erano compatte contro il riformismo
e i riformisti, hanno seminato a piene mani i germi dello sfacelo e
della decomposizione nelle file del Partito.
Cos'è
dunque l'unitarismo? Quale malefizio occulto reca questa parola, che
determina discordia e scissione maggiore e più vasta, affermando di
voler evitare una limitata e ben precisata scissione? Ciò che è, doveva
accadere. Se l'unitarismo ha provocato l'attuale sfacelo, la verità è
da ricercare nel fatto che lo sfacelo esisteva già: l'unitarismo non ha
altra colpa che di avere violentemente strappato una chiusura di cloaca
rigurgitante. La verità è che il Partito socialista non era un'"urbe",
era un'"orda": non era un organismo, era un agglomerato di individui
che avevano il tanto di coscienza classista necessaria per organizzarsi
in un sindacato professionale, ma non avevano in gran parte la capacità
e la preparazione politica necessarie per organizzarsi in un partito
rivoluzionario quale è domandato dall'attuale periodo storico.
La
vanità italiana faceva sempre affermare che da noi esisteva un Partito
socialista tutto particolare, che non poteva e non doveva subire le
stesse crisi degli altri partiti socialisti: così è avvenuto che in
Italia la crisi sia stata artificialmente ritardata e scoppi proprio
nel momento in cui sarebbe stato meglio evitarla e scoppi ancor più
violenta e devastatrice proprio per la volontà e la cocciutaggine di
coloro che sempre la negarono e che ancor oggi la negano verbalmente
(noi siamo unitari, unitari che diamine!).
Sarebbe
ridicolo piagnucolare sull'avvenuto e sull'irrimediabile. I comunisti
sono e devono essere dei freddi e pacati ragionatori: se tutto è in
sfacelo, bisogna rifare tutto, bisogna rifare il Partito, bisogna da
oggi considerare e amare la frazione comunista come un partito vero e
proprio, come la solida impalcatura del Partito comunista italiano, che
fa proseliti, li organizza solidamente, li educa, ne fa cellule attive
dell'organismo nuovo che si sviluppa e si svilupperà fino a divenire
tutta la classe operaia, fino a divenire l'anima e la volontà di tutto
il popolo lavoratore.
La crisi che oggi
attraversiamo è forse la maggiore crisi rivoluzionaria del popolo
italiano. Per comprendere questa verità i compagni devono fare questa
ipotesi: cosa sarebbe successo se il Partito socialista avesse subìto
questa crisi in piena rivoluzione, avendo su di sé tutta la
responsabilità di uno Stato? Cosa sarebbe successo se il governo di uno
Stato rivoluzionario si fosse trovato in mano a uomini che lottano per
le tendenze, e che nella passione di questa lotta mettono in dubbio
tutto il più sacro patrimonio di un operaio: la fiducia
nell'Internazionale e nella capacità e lealtà degli uomini che ne
ricoprono le cariche più alte? Sarebbe successo ciò che è successo in
Ungheria: sbandamento delle masse, rilassamento dell'energia
rivoluzionaria, vittoria fulminea della controrivoluzione.
Gli
unitari per mania ciarlatanesca di unità, hanno oggi solo sfasciato un
partito: domani, essi avrebbero determinato la caduta della
rivoluzione. Per quanto essi abbiano danneggiato la classe operaia e
rafforzato la reazione, il maleficio non è decisivo: gli uomini di
buona volontà hanno ancora un campo sterminato da ricoltivare e far
rendere fruttuosamente.
Il popolo delle scimmie
"L'Ordine Nuovo", 2 gennaio 1921
Il fascismo è stata
l'ultima "rappresentazione" offerta dalla piccola borghesia urbana nel
teatro della vita politica nazionale. La miserevole fine dell'avventura
fiumana è l'ultima scena della rappresentazione. Essa può assumersi
come l'episodio più importante del processo di intima dissoluzione di
questa classe della popolazione italiana.
Il
processo di sfacelo della piccola borghesia si inizia nell'ultimo
decennio del secolo scorso. La piccola borghesia perde ogni importanza
e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione, con lo
sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa
diventa pura classe politica e si specializza nel "cretinismo
parlamentare".
Questo fenomeno che occupa
una gran parte della storia contemporanea italiana, prende diversi nomi
nelle sue varie fasi: si chiama originalmente "avvento della sinistra
al potere", diventa giolittismo, è lotta contro i tentativi
kaiseristici di Umberto I, dilaga nel riformismo socialista. La piccola
borghesia si incrosta nell'istituto parlamentare: da organismo di
controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e
sull'Amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di
chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo.
Corrotto
fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il
Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse
popolari si persuadono che l'unico strumento di controllo e di
opposizione agli arbitri del potere amministrativo è l'azione diretta,
è la pressione dall'esterno. La settimana rossa del giugno 1914 contro
gli eccidi, è il primo grandioso intervento delle masse popolari nella
scena politica, per opporsi direttamente agli arbitrii del potere, per
esercitare realmente la sovranità popolare, che non trova più una
qualsiasi espressione nella Camera rappresentativa: si può dire che nel
giugno 1914 il parlamentarismo è, in Italia, entrato nella via della
sua organica dissoluzione e col parlamentarismo la funzione politica
della piccola borghesia.
La piccola
borghesia, che ha definitivamente perduto ogni speranza di riacquistare
una funzione produttiva (solo oggi una speranza di questo genere si
riaffaccia, coi tentativi del Partito popolare per ridare importanza
alla piccola proprietà agricola e coi tentativi dei funzionari della
Confederazione generale del Lavoro per galvanizzare il
morticino-controllo sindacale) cerca in ogni modo di conservare una
posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia,
scende in piazza.
Questa nuova tattica si
attua nei modi e nelle forme consentiti ad una classe di chiacchieroni,
di scettici, di corrotti: lo svolgimento dei fatti che ha preso il nome
di "radiose giornate di maggio", con tutti i loro riflessi
giornalistici, oratori, teatrali, piazzaioli durante la guerra, è come
la proiezione nella realtà di una novella della jungla del Kipling: la
novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di
essere superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere
tutta l'intelligenza, tutta l'intuizione storica, tutto lo spirito
rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc., ecc.
Era
avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere
governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della
sua prestazione d'opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere
la piazza. Nel periodo della guerra il Parlamento decade completamente:
la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione e si
illude di aver realmente ucciso la lotta di classe, di aver preso la
direzione della classe operaia e contadina, di aver sostituito l'idea
socialista, immanente nelle masse, con uno strano e bislacco miscuglio
ideologico di imperialismo nazionalista, di "vero rivoluzionarismo", di
"sindacalismo nazionale". L'azione diretta delle masse nei giorni 2-3-
dicembre, dopo le violenze verificatesi a Roma da parte degli ufficiali
contro i deputati socialisti, pone un freno all'attività politica della
piccola borghesia, che da quel momento cerca di organizzarsi e di
sistemarsi intorno a padroni più ricchi e più sicuri che non sia il
potere di Stato ufficiale, indebolito e esaurito dalla guerra.
L'avventura
fiumana è il motivo sentimentale e il meccanismo pratico di questa
organizzazione sistematica, ma appare subito evidente che la base
solida dell'organizzazione è la diretta difesa della proprietà
industriale e agricola dagli assalti della classe rivoluzionaria degli
operai e dei contadini poveri. Questa attività della piccola borghesia,
divenuta ufficialmente "il fascismo", non è senza conseguenza per la
compagine dello Stato. Dopo aver corrotto e rovinato l'istituto
parlamentare, la piccola borghesia corrompe e rovina gli altri
istituti, i fondamentali sostegni dello Stato: l'esercito, la polizia,
la magistratura.
Corruzione e rovina
condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l'unico fine
preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il
"popolo delle scimmie" è caratterizzato appunto dall'incapacità
organica a darsi una legge, a fondare uno Stato): il proprietario, per
difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale
per mascherare la sua reale natura, deve assumere atteggiamenti
politici "rivoluzionari" e disgregare la più potente difesa della
proprietà, lo Stato. La classe proprietaria ripete, nei riguardi del
potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del
Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della
classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai
capricci isterici del "popolo delle scimmie", della piccola borghesia.
La piccola borghesia, anche in questa
ultima incarnazione politica del "fascismo", si è definitivamente
mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della
proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche
dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi
compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea
storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere
libri. La piccola borghesia, dopo aver rovinato il Parlamento, sta
rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre più larga
scala, la violenza privata all' "autorità" della legge, esercita (e non
può fare altrimenti) questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa
sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre più larghi
strati della popolazione.
Un monito
"L'Ordine Nuovo", 15 gennaio 1921
E' caso od è fortuna
quella che vuole il Congresso del Partito Socialista italiano si raduni
a Livorno nel giorno anniversario del sacrificio di Carlo Liebknecht?
Noi
non crediamo né alle date fatali né alle fatidiche coincidenze della
storia, e non crediamo nemmeno che lo spirito dei morti abbia potere di
ritornare tra i vivi e di ispirarli. Ma se quelli di cui si commemora
la fine sono i "nostri" morti, sono coloro che caddero con le armi
levate nel fervore della lotta, e con lo spirito teso, nelle
alternative disperate del combattimento, a resistere, ad attendere, a
sperare, - di questi morti anche noi sentiamo la vitalità eterna,
sentiamo noi pure la permanenza dello spirito loro, animatore tra di
noi; - per questi morti anche noi, quasi, ci sentiamo di ripetere le
parole della fiduciosa superstizione cristiana: essi sono vivi ancora,
e giudicano, e attendono.
In realtà siamo
noi stessi che giudichiamo e attendiamo, ma vogliamo pensare l'azione e
il giudizio nostro, in questi momenti supremi, come ispirati, quasi
dettati da un insegnamento sorgente di chi tanto più intensamente di
noi ha operato per l'affermazione e la vittoria dei principi nostri.
Sotto
gli auspici del nome di Carlo Liebknecht ben si apre perciò il
Congresso di Livorno. Chi evocherà, con il nome, i fatti e gli
insegnamenti, non potrà trarre da essi che un monito, conforme con la
nostra attesa, con la nostra fiducia, con i nostri propositi.
Con
la morte di Carlo Liebknecht, nel gennaio 1919, finiva nel sacrificio
cruento la prima grande affermazione dei comunisti dell'Europa centrale
e occidentale. L'insurrezione armata del proletariato tedesco che egli
diresse con l'autorità della sua persona, enorme di fronte alle mezze
figure dei traditori e degli esitanti, e con una precisione di pensiero
e di propositi pari all'ardire e alla tenacia infrangibile della
volontà, quella insurrezione fu in realtà il primo, il solo tentativo
grande, serio e fornito di probabilità di successo, di inserire e
comprendere lo sviluppo della crisi europea postbellica nello stesso
quadro della rivoluzione proletaria russa. L'insurrezione dei comunisti
tedeschi parve per un istante realizzare la saldatura tra la
rivoluzione russa vittoriosa e gli sforzi delle minoranze
rivoluzionarie dei paesi dell'Europa centrale e occidentale.
Se
la saldatura si fosse compiuta, invece di esaurirsi in una serie di
tentativi sporadici e nel grande, epico, ma doloroso sforzo di un
popolo isolato, la rivoluzione europea avrebbe avuto il suo sbocco
naturale in una rivolta di tutto il proletariato contro tutti i governi
dell'intesa.
Perciò nei giorni tragici
del gennaio 1919 il cuore del mondo intero pulsò intorno a Berlino, e
il destino del mondo intero parve sospeso agli esiti degli scontri
rabbiosi nei quali il fiore dei proletari di Germania versava il suo
sangue. Il nome stesso di Liebknecht apparve allora a tutti in modo
concreto, in modo evidente, ciò che era apparso negli anni della guerra
alla fantasia di Henry Barbusse, una sintesi vivente un simbolo: la
sintesi e il simbolo della rivolta proletaria contro le infamie, contro
gli orrori, contro la schiavitù della guerra e della pace
capitalistica.
Ma oggi che a distanza di
due anni ricordiamo quei fatti, noi possiamo aggiungere l'esperienza di
un periodo rivoluzionario apertosi con le più grandi speranze e con la
più grande audacia, e non ancora concluso, benché il ritorno degli
eventi fatto più lento e meno febbrile sembri accennare a una
depressione degli spiriti e della volontà di rivolta. Oggi lo sviluppo
dei fatti ci si presenta anch'esso più chiaro, insieme col logico
incatenarsi delle cause e degli effetti, e il sacrificio di Liebknecht
ci appare in tutta la pienezza del valore ch'esso ha avuto, non solo
nella storia della rivoluzione europea, ma nella stessa intima storia
della formazione nelle file del proletariato di una precisa coscienza e
di una valida capacità di azione.
Perciò,
prima di ogni altra cosa, nel ricordare la morte atroce, noi ricordiamo
che gli strumenti di essa furono apprestati, prima che dalla classe
borghese, dai traditori usciti dalle file del partito del proletariato.
Commemoriamo il martire e l'eroe, l'uomo nella cui vita per un istante
si sono riassunte le sorti di tutta la classe ribelle, e non possiamo
non ricordare, come parte di un insegnamento che non si cancella, che
la sua sorte fu segnata da coloro che erano venuti meno alla fede, che
erano passati nelle file avversarie o rimasti tra le file dei
combattenti per seminarvi dubbio, incertezza, scetticismo.
L'insurrezione
berlinese del gennaio 1919 fallì perché trovò contro di sé, organizzate
dai socialdemocratici, le forze della reazione; dopo di essa, il
proletariato tedesco fino a ieri è stato impedito di risorgere valido e
potente dagli stessi che un giorno erano parsi guide dell'azione e poi
si rivelarono traditori nascosti sotto le spoglie o del teorico, o del
funzionario, o del parlamentare. Soltanto attualmente dopo un lungo
periodo d'elaborazione interiore, dopo un periodo faticoso di
liberazione e di rinnovamento, la classe operaia tedesca sta per
ritrovare la sua vita. E la ritrova sulle direttive segnate da Carlo
Liebknecht.
Ma noi abbiamo detto che nel
suo nome e nell'azione sua vediamo un esempio per tutti i popoli. Più
che un esempio, è una prova. Carlo Liebknecht ci ha provato nel modo
più valido, col sacrificio, quale è la vita e quali sono gli ostacoli.
Chi evocherà il suo nome al Congresso di Livorno saprà esprimere
completo il monito che esso contiene? Sotto gli auspici del suo nome
noi vogliamo porre - e ci pare realmente ora, che la coincidenza sia
fatidica - l'origine del Partito comunista italiano.
La guerra è la guerra
"L'Ordine Nuovo", 31 gennaio 1921
Comprendere e saper
valutare con esattezza il nemico, significa possedere già una
condizione necessaria per la vittoria. Comprendere e saper valutare le
proprie forze e la loro posizione nel campo di lotta, significa
possedere un'altra importantissima condizione per la vittoria.
I
fascisti vogliono evidentemente anche a Torino sviluppare fino in fondo
il piano generale che ha procurato facili trionfi nelle altre città.
Sono stati chiamati contingenti forestieri (bolognesi, truppe scelte,
allenate). Sono state intensificate le passeggiate dimostrative, con i
propri effettivi inquadrati e incolonnati militarmente.
Si
ripetono incessantemente le convocazioni improvvise degli aderenti, con
l'ordine di recarsi armati ai convegni: ciò che serve a creare
l'aspettazione di eventi misteriosi ed a determinare così la psicologia
della guerra. Le voci allarmistiche vengono diffuse a profusione ("il
primo ucciso sarà uno studente socialista, incendieremo "L'Ordine
Nuovo", incendieremo la Camera del lavoro, incendieremo la libreria
dell'Act").
E' questo un espediente che
si propone due scopi: disgregare le forze proletarie, col panico e con
la snervante incertezza dell'attesa, determinare nei fascisti
l'abitudine dell'obiettivo da raggiungere. Avranno i fascisti di Torino
il facile trionfo che hanno avuto nelle altre città? Osserviamo intanto
che l'aver domandato aiuti fuori, è una prova della debolezza organica
del fascismo torinese. A Torino i fascisti si appoggiano e possono
appoggiarsi su una sola categoria della classe piccolo borghese: la
categoria degli esercenti, non certo famosa per sublimi virtù
guerresche. La classe operaia torinese è certo moralmente superiore ai
fascisti e sa di essere moralmente superiore. I controrivoluzionari
della Confederazione generale del lavoro vanno affermando (per avvilire
la massa e toglierle ogni capacità di offesa e di difesa) che gli
operai, non avendo fatto la guerra, non possono combattere e vincere il
fascismo sul terreno della violenza armata.
Per
ciò che riguarda Torino, questa affermazione disfattista e
controrivoluzionaria è falsa anche obiettivamente. Gli operai torinesi
hanno queste esperienze "guerresche": sciopero generale del maggio
1915, insurrezione armata di cinque giorni nell'agosto 1917, azione
manovrata di grandi masse del 2-3 dicembre 1919, sciopero generale con
episodi di tattica irlandese e sviluppo di un piano strategico unitario
nell'aprile 1920, occupazione delle fabbriche nel settembre scorso con
l'accumulazione di infinite esperienze nell'ordine militare.
Questo
quadro obiettivo delle condizioni in cui si svolgerà la lotta; non ha
per nulla lo scopo di attenuare la gravità del pericolo. La classe
operaia torinese si trova certo in una buona posizione di guerra, ma
nessuna buona posizione può, di per sé, salvare un esercito dalla
sconfitta. La buona posizione deve essere sfruttata in tutte le sue
possibilità.
Guai alla classe operaia se
essa permetterà, anche un istante solo, che a Torino i fascisti possano
mettere in esecuzione il loro piano, come hanno fatto nelle altre
città. La minima debolezza, la minima indecisione potrebbe essere
fatale. Al primo tentativo fascista deve seguire rapida, secca,
spietata la risposta degli operai e deve questa risposta essere tale
che il ricordo ne sia tramandato fino ai pronipoti dei signori
capitalisti. Alla guerra come alla guerra, e in guerra i colpi non si
danno a patti.
Intanto la classe operaia
torinese ha già dichiarato, in una mozione del suo partito politico, di
considerare i fascisti solo come strumenti di un'azione che trova i
suoi mandanti e responsabilità maggiori in ben altri ambienti. Anche la
"Stampa" ha pubblicato (il 27 gennaio, cinque giorni fa appena):
"L'attuale potente organizzazione (dei fascisti) è favorita da
commercianti, industriali, agricoltori".
Nella
guerra e nella rivoluzione aver pietà di dieci significa essere
spietati con mille. La classe operaia ungherese ha voluto essere dolce
coi suoi oppressori: oggi sconta, e scontano le donne operaie e
scontano i bambini operai, la sua dolcezza; la pietà per i mille ha
portato miseria, lutto; disperazione a milioni di proletari ungheresi.
I colpi non si danno a patti. Tanto più
implacabili devono essere gli operai, in quanto non c'è proporzione tra
i danni che subisce la classe operaia e i danni che subiscono i
capitalisti. La Camera del lavoro è il prodotto degli sforzi di molte
generazioni di operaie. E' costata sacrificio e stenti a centinaia di
migliaia di operai, è l'unica proprietà di centomila famiglie operaie.
Se essa viene distrutta, sono annientati questi sforzi, questi
sacrifici, questi stenti, questa proprietà.
La
si vuol distruggere per distruggere l'organizzazione, per togliere
all'operaio la garanzia del suo pane, del suo tetto, del suo vestire,
per togliere questa garanzia alla donna e al figlio dell'operaio.
Pericolo di morte per chi tocca la Camera del lavoro, pericolo di morte
per chi favorisce e promuove l'opera di distruzione! Cento per uno.
Tutte le case degli industriali e dei commercianti non possono salvare
la casa del popolo, perché il popolo perde tutto se perde la sua casa.
Pericolo di morte per chi attenta al pane dell'operaio, al pane del
figlio dell'operaio.
La guerra è la
guerra: chi tenta l'avventura deve provare il duro morso della belva
che ha scatenato. Tutto ciò che l'operaio ha creato col soldino del suo
sacrificio, tutto ciò che le generazioni operaie hanno lentamente e
faticosamente elaborato col sangue e col dolore, deve essere rispettato
come cosa sacra. Scoppia la tempesta e l'uragano quando si commettono
sacrilegi, e travolge i colpevoli come pagliuzze. Pericolo di morte per
chi tocca la proprietà dell'operaio, dell'uomo condannato a non aver
proprietà.
La guerra è la guerra. Guai a
chi la scatena. Un militante della classe operaia che debba passare
all'altro mondo, deve avere nel suo viaggio un accompagnamento di prima
classe. Se l'incendio arrossa il pezzo di cielo di una strada, la città
deve essere provvista di molti bracieri per riscaldare le donne e i
figli degli operai andati in guerra.
Guai
a chi scatena la guerra. Se l' ltalia non è abituata alla serietà e
alla responsabilità, se l'Italia non è abituata a prendere sul serio
nessuno, se l'Italia borghese si è per caso formata la facile e dolce
persuasione che neppure i rivoluzionari italiani sono da prendere sul
serio, sia lanciato il dado: siamo persuasi che più di una volpe
lascerà la sua coda e l'astuzia nella tagliola.
La Confederazione Generale del Lavoro
"L'Ordine Nuovo", 25 febbraio 1921
I comunisti non
avranno la maggioranza nel congresso confederale che sta per riunirsi a
Livorno; è anzi quasi certo che neppure nei futuri congressi,
nonostante ogni sforzo di propaganda e organizzazione, i comunisti
avranno la maggioranza.
La situazione si
presenta in questi termini: per avere la maggioranza nei congressi, i
comunisti dovrebbero essere in grado di rinnovare radicalmente lo
statuto, ma per rinnovare lo statuto è necessario avere già la
maggioranza. Se i comunisti si lasciassero impigliare in questo circolo
vizioso, essi farebbero il giuoco della burocrazia sindacale: è
necessario perciò che l'opposizione abbia un indirizzo preciso e un
metodo capace di spezzare l'attuale condizione di cose.
La
Confederazione generale del lavoro (negli altri paesi esiste una
situazione identica a quella italiana) è un meccanismo di governo che
non può essere paragonato allo Stato parlamentare borghese: essa può
trovare dei modelli solo nelle antiche organizzazioni statali assire e
babilonesi o nelle associazioni guerriere che ancor oggi nascono e si
sviluppano in Mongolia e in Cina. Ciò si spiega da un punto di vista
storico. Le masse sono entrate nel movimento sindacale per la paura di
essere schiacciate da un avversario che sanno strapotente e del quale
non sono in grado di prevedere i colpi e le iniziative. Preoccupate di
questa loro condizione di inferiorità assoluta, prive di ogni
educazione costituzionale, le masse hanno completamente abdicato a ogni
sovranità e a ogni potere; l'organizzazione è per loro diventata una
stessa cosa con la persona dell'organizzatore, allo stesso modo che per
un esercito in campo la persona del condottiero diventa il palladio
della salute comune, diventa la garanzia del successo e della
vittoria.
Sarebbe stato il compito del
Partito socialista dare alle masse proletarie la preparazione politica
e l'educazione costituzionale di cui esse difettavano. Sarebbe stato
compito del partito socialista innovare gradualmente le forme
organizzative e trasferire il massimo del potere nelle mani delle
masse.
Il Partito non fece nulla in
questo senso; l'organizzazione fu completamente lasciata in balìa di un
ristretto gruppo di funzionari, che minuziosamente montarono su la
macchina che oggi dà loro l'assoluto dominio. Sette anni senza
congresso hanno permesso di più: tutto un nugolo di funzionari è stato
scaglionato nelle più importanti posizioni, e si è costituita una
fortezza imprendibile e inaccessibile anche ai più tenaci e
volenterosi. Il Congresso socialista di Livorno si spiega solo per
questa condizione di cose esistente nel campo sindacale: il Partito
socialista è completamente caduto nelle mani della burocrazia sindacale
che, del resto, col suo personale e coi mezzi delle organizzazioni,
aveva procurato la maggioranza alla tendenza unitaria; il Partito
socialista è ridotto a far da giannizzero ai mandarini e ai condottieri
che sono alla testa delle Federazioni e della Confederazione.
I
comunisti devono riconoscere questo stato di fatto e operare
conseguentemente. I comunisti devono considerare la Confederazione alla
stessa stregua dello Stato parlamentare, cioè come un organismo la cui
conquista non può avvenire per vie costituzionali. Inoltre la questione
confederale deve essere riguardata tenendo conto di questi altri
postulati: che si vuole raggiungere l'unità proletaria e che si vuole
impostare in senso rivoluzionario il problema del controllo sulla
produzione.
Il campo di attività del
Partito comunista è tutta la massa degli operai e contadini; la
Confederazione è teatro di maggior propaganda e maggiore attività solo
perché numericamente abbraccia la maggior parte degli operai e
contadini italiani organizzati, cioè più consapevoli e preparati. La
lotta per la formazione e per lo sviluppo dei Consigli di fabbrica e di
azienda crediamo sia la lotta specifica del Partito comunista. Essa
deve porre in grado il partito di innestarsi direttamente con una
organizzazione accentrata della massa operaia, organizzazione che deve
essere riconosciuta dalle masse come l'unica competente e autorizzata a
emanare parole d'ordine per l'azione generale.
Con
la lotta per i Consigli sarà possibile conquistare in modo stabile e
permanente la maggioranza della Confederazione, e giungere, se non nel
periodo rivoluzionario, certo nel periodo postrivoluzionario, a
conquistare anche i posti direttivi. Questo processo si è verificato in
Russia: nelle giornate rivoluzionarie del novembre 1917, i proclami e i
manifesti del Partito bolscevico non recavano la firma dell'Unione
panrussa dei sindacati, recavano la firma della Centrale panrussa dei
Consigli di fabbrica.
E' certo importante
avere nel seno della Confederazione una forte minoranza comunista
organizzata e centralizzata, e a questo fine devono essere rivolti
tutti i nostri sforzi di propaganda e di azione. Ma più importante
storicamente e tatticamente è che nessuno sforzo sia risparmiato perché
subito dopo il Congresso di Livorno sia possibile convocare un
congresso dei Consigli e delle Commissioni interne di tutte le
fabbriche e le aziende italiane e che da questo congresso venga
nominata una Centrale che abbracci nei suoi quadri organizzativi tutta
la massa operaia.
Il movimento torinese dei Consigli di Fabbrica
"L'Ordine Nuovo", 14 marzo 1921
Uno dei membri della delegazione italiana,
testé ritornato dalla Russia sovietica, riferì ai lavoratori torinesi
che la tribuna destinata all'accoglienza della delegazione di Kronstadt
era fregiata con la seguente iscrizione: "Evviva lo sciopero generale
torinese dell'aprile 1920". Gli operai appresero questa notizia con
molto piacere e grande soddisfazione. La maggior parte dei componenti
la delegazione italiana recatasi in Russia erano stati contrari allo
sciopero generale d'aprile. Essi sostenevano nei loro articoli contro
lo sciopero che gli operai torinesi erano stati vittime di un'illusione
e avevano sopravvalutato l'importanza dello sciopero. I lavoratori
torinesi appresero perciò con piacere l'atto di simpatia dei compagni
di Kronstadt ed essi si dissero: "I nostri compagni comunisti russi
hanno meglio compreso e valutato l'importanza dello sciopero di aprile
che non gli opportunisti italiani, dando così a questi ultimi una buona
lezione".
Lo sciopero di aprile
Il
movimento torinese dell'aprile fu infatti un grandioso avvenimento
nella storia non soltanto del proletariato italiano, ma di quello
europeo, e possiamo dirlo, nella storia del proletariato di tutto il
mondo. Per la prima volta nella storia, si verificò infatti il caso di
un proletariato che impegna la lotta per il controllo della produzione,
senza essere stato spinto all'azione dalla fame o dalla disoccupazione.
Di più non fu soltanto una minoranza, un'avanguardia della classe
operaia che intraprese la lotta, ma la massa intiera dei lavoratori di
Torino scese in campo e portò la lotta, incurante di privazioni e di
sacrifizi, fino alla fine. I metallurgici scioperarono per un mese, le
altre categorie dieci giorni. Lo sciopero generale degli ultimi dieci
anni dilagò in tutto il Piemonte, mobilizzando circa mezzo milione di
operai industriali e agricoli, e coinvolse quindi circa quattro milioni
di popolazione. I capitalisti italiani tesero tutte le loro forze per
soffocare il movimento operaio torinese; tutti i mezzi dello Stato
borghese furono posti a loro disposizione, mentre gli operai sostennero
da soli la lotta senza alcun aiuto né dalla direzione del Partito
socialista, né dalla Confederazione Generale del Lavoro. Anzi, i
dirigenti del Partito e della Confederazione schernirono i lavoratori e
contadini italiani da qualsiasi azione rivoluzionaria colla quale essi
intendevano manifestare la loro solidarietà coi fratelli torinesi, e
portare a essi un efficace aiuto. Ma gli operai torinesi non si
perdettero d'animo. Essi sopportarono tutto il peso della reazione
capitalista, osservarono la disciplina fino all'ultimo momento e
rimasero fino dopo la disfatta fedeli alla bandiera del comunismo e
della rivoluzione mondiale.
Anarchici e sindacalisti
La
propaganda degli anarchici e sindacalisti contro la disciplina di
partito e la dittatura del proletariato non ebbe alcuna influenza sulle
masse, anche quando, causa del tradimento dei dirigenti, lo sciopero
terminò con una sconfitta. I lavoratori torinesi giurarono anzi di
intensificare la lotta rivoluzionaria e di condurla su due fronti: da
una parte contro la borghesia vittoriosa, dall'altra contro i capi
traditori. La coscienza e la disciplina rivoluzionaria, di cui le masse
torinesi hanno dato prova, hanno la loro base storica nelle condizioni
economiche e politiche in cui si è sviluppata la lotta di classe a
Torino. Torino è un centro di carattere prettamente industriale. Quasi
tre quarti della popolazione, che conta mezzo milione di abitanti, è
composta di operai: gli elementi piccolo-borghesi sono una quantità
infima. A Torino vi è inoltre una massa compatta di impiegati e
tecnici, che sono organizzati nei sindacati e aderiscono alla Camera
del Lavoro. Essi furono durante tutti i grandi scioperi a fianco degli
operai, e hanno quindi, se non tutti, almeno la maggior parte,
acquistato la psicologia del vero proletariato, in lotta contro il
capitale, per la rivoluzione e il comunismo.
Due insurrezioni armate
Durante
la guerra imperialista del 1914-18, Torino vide due insurrezioni
armate: la prima insurrezione, che scoppiò nel maggio 1915, aveva
l'obiettivo di impedire l'intervento dell'Italia nella guerra contro la
Germania (in questa occasione venne saccheggiata la Casa del popolo);
la seconda insurrezione, nell'agosto 1917, assunse il carattere di una
lotta rivoluzionaria armata, su grande scala. La notizia della
Rivoluzione di marzo in Russia era stata accolta a Torino con gioia
indescrivibile. Gli operai piangevano di commozione quando appresero la
notizia che il potere dello zar era stato rovesciato dai lavoratori di
Pietrogrado. Ma i lavoratori torinesi non si lasciarono infinocchiare
dalla fraseologia demagogica di Kerenski e dei menscevichi (...).
Quando nel luglio del 1917 arrivò a Torino la missione inviata
nell'Europa occidentale dal Soviet di Pietrogrado, i delegati Smirnov e
Goldemberg, che si presentarono dinanzi a una folla di cinquantamila
operai, vennero accolti da grida assordanti di "Evviva Lenin! Evviva i
bolscevichi!". Goldemberg non era troppo soddisfatto di questa
accoglienza; egli non riusciva a capire in che maniera il compagno
Lenin si fosse acquistata tanta popolarità fra gli operai torinesi. E
non bisogna dimenticare che questo episodio avvenne dopo la repressione
della rivolta bolscevica del luglio, che la stampa borghese italiana
infuriava contro Lenin e contro i bolscevichi, denunziandoli come
briganti, intriganti, agenti e spie dell'imperialismo tedesco. Dal
principio della guerra italiana (24 maggio 1915) il proletariato
torinese non aveva fatto nessuna manifestazione di massa.
Barricate, trincee, reticolati
L'imponente
comizio che era stato organizzato in onore dei delegati del Soviet
pietrogradese segnò l'inizio di un nuovo periodo di movimenti di masse.
Non passò un mese, che i lavoratori torinesi insorsero con le armi in
pugno contro l'imperialismo e il militarismo italiano. L'insurrezione
scoppiò il 23 agosto 1917. Per cinque giorni gli operai combatterono
nelle vie della città. Gli insorti, che disponevano di fucili, granate
e mitragliatrici, riuscirono persino a occupare alcuni quartieri della
città e tentarono tre o quattro volte di impadronirsi del centro ove si
trovavano le istituzioni governative e i comandi militari. Ma i due
anni di guerra e di reazione avevano indebolito la già forte
organizzazione del proletariato, e gli operai inferiori di armamento
furono vinti. Invano sperarono in un appoggio da parte dei soldati;
questi si lasciarono ingannare dall'insinuazione che la rivolta era
stata inscenata dai tedeschi. Il popolo eresse barricate, scavò
trincee, circondò qualche rione di reticolati a corrente elettrica e
respinse per cinque giorni tutti gli attacchi delle truppe e della
polizia. Caddero più di 500 operai, più di 2000 vennero gravemente
feriti, Dopo la sconfitta i migliori elementi furono arrestati e
allontanati e il movimento proletario perdette di intensità
rivoluzionaria. Ma i sentimenti comunisti del proletariato torinese non
erano spenti.
Nel dopoguerra
Dopo
la fine della guerra imperialista il movimento proletario fece rapidi
progressi. La massa operaia di Torino comprese che il periodo storico
aperto dalla guerra era profondamente diverso dall'epoca precedente la
guerra. La classe operaia torinese intuì subito che la III
Internazionale è un'organizzazione del proletariato mondiale per la
direzione della guerra civile, per la conquista del potere politico,
per l'istituzione della dittatura proletaria, per la creazione di un
nuovo ordine nei rapporti economici e sociali. I problemi della
rivoluzione, economici e politici, formavano oggetto di discussione in
tutte le assemblee degli operai. Le migliori forze dell'avanguardia
operaia si riunirono per diffondere un settimanale di indirizzo
comunista, "l'Ordine Nuovo". Nelle colonne di questo settimanale si
trattarono i vari problemi della rivoluzione; l'organizzazione
rivoluzionaria delle masse che dovevano conquistare i sindacati alla
causa del comunismo; il trasferimento della lotta sindacale dal campo
grettamente corporativista e riformista, sul terreno della lotta
rivoluzionaria, del controllo sulla produzione e della dittatura del
proletariato. Anche la questione dei Consigli di fabbrica fu posta
all'ordine del giorno. Nelle aziende torinesi esistevano già prima
piccoli comitati operai, riconosciuti dai capitalisti, e alcuni di essi
avevano già ingaggiato la lotta contro il funzionarismo, lo spirito
riformista e le tendenze costituzionali dei sindacati. Ma la maggior
parte di questi comitati non erano creature dei sindacati; le liste dei
candidati per questi comitati (commissioni interne) venivano proposte
dalle organizzazioni sindacali, le quali sceglievano di preferenza
operai di tendenze opportuniste che non avrebbero dato delle noie ai
padroni, e avrebbero soffocato in germe ogni azione di massa. I seguaci
dell' "Ordine Nuovo" perorarono nella loro propaganda in prima linea la
trasformazione delle commissioni interne, e il principio che la
formazione delle liste dei candidati dovesse avvenire nel seno della
massa operaia e non dalle cime della burocrazia sindacale. I compiti
che essi assegnarono ai Consigli di fabbrica furono il controllo sulla
produzione, l'armamento e la preparazione militare delle masse, la loro
preparazione politica e tecnica. Essi non dovevano più compiere
l'antica funzione di cani da guardia che proteggono gli interessi delle
classi dominanti, né frenare le masse nelle loro azioni contro il
regime capitalistico.
L'entusiasmo per i Consigli
La
propaganda per i Consigli di fabbrica venne accolta con entusiasmo
dalle masse; nel corso di mezzo anno vennero costituiti Consigli di
fabbrica in tutte le fabbriche e officine metallurgiche, i comunisti
conquistarono la maggioranza nel sindacato metallurgici; il principio
dei Consigli di fabbrica e del controllo sulla produzione venne
approvato e accettato dalla maggioranza del Congresso e dalla maggior
parte dei sindacati appartenenti alla Camera del Lavoro.
L'organizzazione dei Consigli di fabbrica si basa sui seguenti
principi: in ogni fabbrica in ogni officina viene costituito un
organismo sulla base della rappresentanza (e non sull'antica base del
sistema burocratico) il quale realizza la forza del proletariato, la
lotta contro l'ordine capitalistico o esercita il controllo sulla
produzione, educando tutta la massa operaia per la lotta rivoluzionaria
e per la creazione dello Stato operaio. Il Consiglio di fabbrica deve
essere formato secondo il principio dell'organizzazione per industria;
esso deve rappresentare per la classe operaia il modello della società
comunista, alla quale si arriverà attraverso la dittatura del
proletariato; in questa società non esisteranno più divisioni di
classe, tutti i rapporti sociali saranno regolati secondo le esigenze
tecniche della produzione e della organizzazione corrispondente, e non
saranno subordinati a un potere statale organizzato. La classe operaia
deve comprendere tutta la bellezza e nobiltà dell'ideale per il quale
essa lotta e si sacrifica; essa deve rendersi conto che per raggiungere
questo ideale è necessario passare attraverso alcune tappe; essa deve
riconoscere la necessità della disciplina rivoluzionaria e della
dittatura. Ogni azienda si suddivide in reparti e ogni reparto in
squadre di mestiere; ogni squadra compie una determinata parte del
lavoro; gli operai di ogni squadra eleggono un operaio con mandato
imperativo e condizionato. L'assemblea dei delegati di tutta l'azienda
forma un Consiglio che elegge dal suo seno un comitato esecutivo.
L'assemblea dei segretari politici dei comitati esecutivi forma il
comitato centrale dei Consigli che elegge dal suo seno un comitato
urbano di studio per la organizzazione della propaganda, la
elaborazione dei piani di lavoro, per l'approvazione dei progetti e
delle proposte delle singole aziende perfino di singoli operai, e
infine per la direzione generale di tutto il movimento.
Consigli e commissioni interne durante gli scioperi
Alcuni
compiti dei Consigli di fabbrica hanno carattere prettamente tecnico e
perfino industriale, come ad esempio, il controllo sul personale
tecnico, il licenziamento di dipendenti che si dimostrano nemici della
classe operaia, la lotta con la direzione per la conquista dei diritti
e libertà, il controllo della produzione dell'azienda e delle
operazioni finanziarie. I Consigli di fabbrica presero presto radici.
Le masse accolsero volentieri questa forma di organizzazione comunista,
si schierarono intorno ai comitati esecutivi e appoggiarono
energicamente la lotta contro l'autocrazia capitalista. Quantunque né
gli industriali, né la burocrazia sindacale volessero riconoscere i
Consigli e i comitati, questi ottennero tuttavia notevoli successi:
essi scacciarono gli agenti e le spie dei capitalisti, annodarono
rapporti con gli impiegati e coi tecnici per avere delle informazioni
d'indole finanziaria e industriale; negli affari dell'azienda essi
concentrarono nelle loro mani il potere disciplinare e dimostrarono
alle masse disunite e disgregate ciò che significa la gestione diretta
degli operai nell'industria. L'attività dei Consigli e delle
commissioni interne si manifestò più chiaramente durante gli scioperi;
questi scioperi perdettero il loro carattere impulsivo, fortuito e
divennero l'espressione dell'attività cosciente delle masse
rivoluzionarie. L'organizzazione tecnica dei Consigli e delle
commissioni interne, la loro capacità di azione si perfezionò talmente,
che fu possibile ottenere in cinque minuti la sospensione dal lavoro di
15 mila operai dispersi in 42 reparti della Fiat. Il 3 dicembre 1919 i
Consigli di fabbrica diedero una prova tangibile della loro capacità di
dirigere movimenti di masse in grande stile; dietro ordine della
sezione socialista, che concentrava nelle sue mani tutto il meccanismo
del movimento di massa, i Consigli di fabbrica mobilizzarono senza
alcuna preparazione, nel corso di un'ora, centoventimila operai,
inquadrati secondo le aziende. Un'ora dopo si precipitò l'armata
proletaria come una valanga fino al centro della città e spazzò dalle
strade e dalle piazze tutto il canagliume nazionalista e militarista.
La lotta contro i Consigli
Alla
testa del movimento per la costruzione dei Consigli di fabbrica furono
i comunisti appartenenti alla sezione socialista e alle organizzazioni
sindacali; vi presero pure parte gli anarchici, i quali cercarono di
contrapporre la loro fraseologia ampollosa al linguaggio chiaro e
preciso dei comunisti marxisti. Il movimento incontrò la resistenza
accanita dei funzionari sindacali, della direzione del Partito
socialista e dell' "Avanti!". La polemica di questa gente si basava
sulla differenza fra il concetto di Consiglio di fabbrica e quello di
Soviet. Le loro conclusioni ebbero un carattere puramente teorico,
astratto, burocratico. Dietro le loro frasi altisonanti si celava il
desiderio di evitare la partecipazione diretta delle masse alla lotta
rivoluzionaria, il desiderio di conservare la tutela delle
organizzazioni sindacali sulle masse. I componenti la direzione del
Partito si rifiutarono sempre di prendere l'iniziativa di una azione
rivoluzionaria, prima che non fosse attuato un piano di azione
coordinato, ma non facevano mai nulla per preparare ed elaborare questo
piano. Il movimento torinese non riuscì però ad uscire dall'ambito
locale, poiché tutto il meccanismo burocratico dei sindacati venne
messo in moto per impedire che le masse operaie delle altre parti
d'Italia seguissero l'esempio di Torino. Il movimento torinese venne
deriso, schernito, calunniato e criticato in tutti i modi. Le aspre
critiche degli organismi sindacali e della direzione del Partito
socialista incoraggiarono nuovamente i capitalisti i quali non ebbero
più freno nella loro lotta contro il proletariato torinese e contro i
Consigli di fabbrica. La conferenza degli industriali, tenutasi nel
marzo 1920 a Milano, elaborò un piano d'attacco; ma i "tutori della
classe operaia", le organizzazioni economiche e politiche non si
curarono di questo fatto. Abbandonato da tutti, il proletariato
torinese fu costretto ad affrontare da solo, colle proprie forze, il
capitalismo nazionale e il potere dello Stato. Torino venne inondata da
un esercito di poliziotti; intorno alla città si piazzarono cannoni e
mitragliatrici nei punti strategici. E quando tutto questo apparato
militare fu pronto, i capitalisti cominciarono a provocare il
proletariato. E' vero che di fronte a queste gravissime condizioni di
lotta il proletariato esitò ad accettare la sfida; ma quando si vide
che lo scontro era inevitabile, la classe operaia uscì coraggiosamente
dalle sue posizioni di riserva e volle che la lotta fosse condotta fino
alla sua fine vittoriosa.
Il Consiglio nazionale socialista di Milano
I
metallurgici scioperarono un mese intero, le altre categorie dieci
giorni; l'industria in tutta la provincia era ferma, le comunicazioni
paralizzate. Il proletariato torinese fu però isolato dal resto
d'Italia; gli organi centrali non fecero niente per aiutarlo; ma non
pubblicarono nemmeno un manifesto per spiegare al popolo italiano
l'importanza della lotta dei lavoratori torinesi; L' "Avanti!" si
rifiutò di pubblicare il manifesto della sezione torinese del partito.
I compagni torinesi si buscarono dappertutto epiteti di anarchici e
avventurieri. In quell'epoca si doveva avere a Torino il Consiglio
nazionale del Partito; tale convegno venne però trasferito a Milano,
perché una città "in preda a uno sciopero generale" sembrava poco
adatta come teatro di discussioni socialiste. In questa occasione si
manifestò tutta l'impotenza degli uomini chiamati a dirigere il
Partito; mentre la massa operaia difendeva a Torino coraggiosamente i
Consigli di fabbrica, la prima organizzazione basata sulla democrazia
operaia, incarnante il potere del proletario, a Milano si chiacchierava
intorno a progetti e metodi teorici per la formazione di Consigli come
forma di potere politico da conquistare dal proletariato; si discuteva
sul modo di sistemare le conquiste non avvenute e si abbandonava il
proletariato torinese al suo destino, si lasciava alla borghesia la
possibilità di distruggere il potere operaio già conquistato. Le masse
proletarie italiane manifestarono la loro solidarietà coi compagni
torinesi in varie forme; i ferrovieri di Pisa, Livorno e Firenze si
rifiutarono di trasportare le truppe destinate a Torino, i lavoratori
dei porti e i marinari di Livorno e Genova sabotarono il movimento dei
porti; il proletariato di molte città scese in sciopero contro gli
ordini dei sindacati. Lo sciopero generale di Torino e del Piemonte
cozzò contro il sabotaggio e la resistenza delle organizzazioni
sindacali e del Partito stesso. Esso fu tuttavia di grande importanza
educativa perché dimostrò che l'unione pratica degli operai e contadini
è possibile, e riprovò l'urgente necessità di lottare contro tutto il
meccanismo burocratico delle organizzazioni sindacali, che sono il più
solido appoggio per l'opera opportunistica dei parlamentari e dei
riformisti mirante al soffocamento di ogni movimento rivoluzionario
delle masse lavoratrici.
Uomini in carne e ossa
"L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1921
Gli operai della Fiat
sono ritornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità
rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini in carne e ossa.
Hanno resistito per un mese. Sapevano di lottare e resistere non solo
per sé, non solo per la restante massa operaia torinese, ma per tutta
la classe operaia italiana.
Hanno
resistito per un mese. Erano estenuati fisicamente perché da molte
settimane e da molti mesi i loro salari erano ridotti e non erano più
sufficienti al sostentamento familiare, eppure hanno resistito per un
mese. Erano completamente isolati dalla nazione, immersi in un ambiente
generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno
resistito per un mese.
Sapevano di non
poter sperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai alla classe
operaia italiana erano stati recisi i tendini, sapevano di essere
condannati alla sconfitta, eppure hanno resistito per un mese. Non c'è
vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può domandare
a una massa di uomini che è aggredita dalle più dure necessità
dell'esistenza, che ha la responsabilità dell'esistenza di una
popolazione di 40.000 persone, non si può domandare più di quanto hanno
dato questi compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente,
accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere
più oltre o di reagire.
Specialmente noi
comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne
conosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una concezione
realistica, dobbiamo comprendere il perché di questa conclusione della
lotta torinese.
Da troppi anni le masse
lottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di dettaglio,
sperperando i loro mezzi e le loro energie. E' stato questo il
rimprovero che fin dal maggio 1919 noi dell' "Ordine Nuovo" abbiamo
incessantemente mosso alle centrali del movimento operaio e socialista:
non abusate troppo della resistenza e della virtù di sacrificio del
proletariato; si tratta di uomini comuni, uomini reali, sottoposti alle
stesse debolezze di tutti gli uomini comuni che si vedono passare nelle
strade, bere nelle taverne, discorrere a crocchi sulle piazze, che
hanno frame e freddo, che si commuovono a sentir piangere i loro
bambini e lamentarsi acremente le loro donne.
Il
nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempre sostanziato da questa
visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui
inesorabilmente bisogna fare i conti. Già un anno fa noi avevamo
previsto quale sbocco fatalmente avrebbe avuto la situazione italiana,
se i dirigenti responsabili avessero continuato nella loro tattica di
schiamazzo rivoluzionario e di pratica opportunistica. E abbiamo
lottato disperatamente per richiamare questi responsabili a una visione
più reale, a una pratica più congrua e più adeguata allo svolgersi
degli avvenimenti.
Oggi scontiamo il fio,
anche noi, dell'inettitudine e della cecità altrui; oggi anche il
proletariato torinese deve sostenere l'urto dell'avversario, rafforzato
dalla non resistenza degli altri. Non c'è nessuna vergogna nella resa
degli operai della Fiat. Ciò che doveva avvenire è avvenuto
implacabilmente. La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo
compressore della reazione capitalistica. Per quanto tempo? Nulla è
perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si
arrendono ma non gli animi.
Gli operai
della Fiat per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato
del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi
rimangono, per questo loro passato glorioso, all'avanguardia del
proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della
rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne ed ossa;
togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in
essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti.
Fuori della realtà
"L'Ordine Nuovo", 17 giugno 1921
Il popolo italiano ha
seguito la cerimonia d'apertura della XXVI legislatura con la stessa
curiosità con la quale ha seguito la corsa ciclistica per il giro
d'Italia. Ha guardato alla coreografia, non ha meditato sul discorso,
perché sapeva che quel discorso stava a completare la coreografia,
quindi non poteva essere che insincero ed irreale? Gli stessi uomini
politici manifestano segni di nausea e stanchezza. Ma malgrado ciò il
discorso della Corona è stato sventrato, frugato da capo a fondo, ed
ogni partito si è sforzato di trarre da esso il tema per qualche
discorso brillante sia in laude che in opposizione al contenuto.
Ma
mentre sulla scena politica si seguono queste banali rappresentazioni,
nelle quali tutte le ambizioni umane intessono la loro menzogna, sullo
sfondo giganteggia la maschera sghignazzante della realtà. Ardono per
le vie, nelle case, nell'intimità tutte le passioni di cui si sente
capace l'anima umana. L'individualismo ha preso il sopravvento
sull'armonia delle collettività operanti ad un fine. La vita collettiva
si è spezzata in tante singole tragedie. Delitti che abbassano e
riconducono l'uomo allo stato selvaggio; violenze truccate di legalità
che rivelano, sotto la mano inguantata dell'uomo colto e aristocratico,
il callo e l'artiglio del negriero; torture morali e materiali che
strappano gli ultimi veli alle ipocrisie del diritto; arbitrii che
spezzano i rapporti sociali ma non osano mettere a parte i ciarpami
delle tradizioni e lanciare la grande definitiva parola di sfida.
In quest'ambiente arroventato, slegato,
tentennante, distratto, si leva un ministro della monarchia a ripetere,
con la puntualità di un burocrate, le menzogne costituzionali, ed a
colui che simboleggia e riassume il potere monarchico si fanno dire
pensieri che suonano beffa e insulto. Beffa ed insulto l'invocazione
all'equilibrio delle energie di lavoro, all'ordinato ascendere delle
classi lavoratrici, alla collaborazione per il rafforzamento
dell'autorità dello Stato! Questo Stato che vuol farsi paciere fra le
classi a condizione che la lotta della classe lavoratrice segni il
passo col cronometro degli interessi di classe borghese, non si accorge
di vivere fuori della realtà? La realtà non rivela forse tutto un
popolo buono e laborioso sanguinante per mille ferite, per
disoccupazione, fame e miseria, mentre tutto l'affarismo agrario e
siderurgico minaccia, se non si salvano i suoi privilegi, di affamare
l'Italia del lavoro? La realtà non ci fa vedere navi di emigranti che
ritornano, onuste di proletariato, in patria, perché altrove non
s'accettano quelle bestie da soma? Questo spettro di Stato incarognito
in mille delitti, questi ministri adusati nell'arte della menzogna e
del cinismo, questo canagliume che vuol pontificare dalla cattedra del
diritto e della morale crede di bendarci gli occhi e di sollazzarci per
non vedere in faccia la realtà? La sovranità dello Stato per placare le
passioni esorbitanti? Ma chi se non lo Stato ha mandato in briciole
quel poco che era rimasto di puro nei rapporti sociali?
Lo
stesso governo s'è fatto brigante e non osa confessarlo. Il delinquente
che grida viva l'Italia, mentre consuma il suo delitto, spezza tutti
gli ostacoli del codice e non va in galera, ma ci va colui che vuol
tenere fede ad un'idea che ha sposato fra i dolori e le privazioni e
sotto il giogo del lavoro. Non si parli di libertà! Bando agli omaggi
per gli uomini che dettarono leggi e codificarono i rapporti sociali.
Siamo giunti al punto culminante dei contrasti di classe, e la realtà
ci dimostra come il potere statale vada sempre più assumendo carattere
di oppressione e di dominio di classe. Noi non ci lasciamo fuorviare
dalle esteriorità, legga o non legga il re un discorso, abbia o non
abbia fiducia un ministero, si battano o non si battano i partiti per
un progetto di legge, a noi la realtà dà la sensazione che tutto ciò
serva per fare indugiare le masse operaie, per farle desistere dagli
assalti violenti al regime.
Poiché
la realtà ha gettato per le vie la violenza, poiché questa è partorita
dai contrasti di classe, poiché questa classe è la borghesia in orgasmo
per ricacciare indietro il proletariato, poiché ovunque trionfa il
forte in barba alle leggi e alle tradizioni, poiché la vendetta sta in
agguato ovunque porti la sua attività la classe operaia, poiché tutto
questo è e non è fantasia che valga a diminuire la portata e
l'importanza di questi fatti, noi preferiamo la sincerità dei violenti,
mercenari o non della borghesia, perché, rotte le menzogne, essi stanno
insegnando a tutti come può esercitarsi il dominio di classe all'ombra
della legalità.
Chi ha fede, chi
solo alla realtà attinge l'energia necessaria per combattere le lotte
sociali deve rimanere sul terreno della violenza contro la violenza e
non subirà umiliazioni. Se vi è forza nel produrre, si può, si deve
usare la stessa forza perché non sia conculcato il proprio diritto.
Gli Arditi del Popolo
Da "L'ordine nuovo", 15 luglio 1921
Le dichiarazioni fatte ai giornali dall'on. Mingrino a
proposito della sua adesione agli Arditi del popolo servono
magnificamente per mettere in rilievo il comunicato del Partito
comunista sullo stesso argomento . Le dichiarazioni del Mingrino
corrispondono alla vieta e logora psicologia del Partito socialista,
che altre volte abbiamo battezzato neomalthusiana. Secondo questa
concezione, il movimento per gli Arditi del popolo fatalmente
riporterebbe a una ripetizione dei fatti del settembre 1920, quando il
proletariato metallurgico fu condotto nel campo dell'illegalità, fu
messo in condizioni di non poter resistere senza armarsi, senza
manomettere i privilegi più sacri del capitalismo e poi, d'un tratto,
tutto finì, perché l'occupazione delle fabbriche si proponeva solo dei
fini... sindacali. I.'on. Mingrino aderisce agli Arditi del popolo. Dà
all'istituzione il suo nome, la sua qualità di deputato socialista, il
prestigio della sua figura, diventata simpatica al proletariato
rivoluzionario per l'atteggiamento tenuto durante l'aggressione
fascista contro il compagno Misiano.
Ma qual è la missione degli Arditi del popolo, secondo Con.
Mingrino? Essa dovrebbe limitarsi a determinare un equilibrio alla
violenza fascista, dovrebbe essere di pura resistenza, dovrebbe,
insomma, avere dei fini puramente... sindacali. L'on. Mingrino crede
dunque, ancora, che il fascismo sia una manifestazione superficiale di
psicosi postbellica? Non si è ancora persuaso che il fascismo è
organicamente legato all'attuale crisi del regime capitalista e che
sparirà solo con la soppressione del regime? Non si è ancora convinto
che bisogna dare alle ideologie patriottiche, nazionaliste,
ricostruttrici di Mussolini e C. un valore puramente marginale e
bisogna invece vedere il fascismo nella sua realtà obbiettiva, fuori di
ogni schema prestabilito, fuori di ogni piano politico astratto, come
uno spontaneo pullulare di energie reazionarie che si aggregano, si
disgregano, si riassociano, seguendo i capi ufficiali solo quando le
loro parole d'ordine corrispondono all'intima natura del movimento, che
è quella che è, nonostante i discorsi di Mussolini, i comunicati di
Pasella, gli alalà di tutti gli idealisti di questo mondo?
Iniziare un movimento di riscossa popolare, aderire a un
movimento di riscossa popolare ponendo preventivamente un limite alla
sua espansione, è il più grave errore di tattica che si possa
commettere in questo momento. Non bisogna creare illusioni nelle masse
popolari, che soffrono crudelmente e che dalle loro stesse condizioni
di sofferenza sono portate a illudersi, a credere di alleviare il loro
dolore imi landò il fianco. Non bisogna far credere che basti un
piccolo sforzo per salvarsi dai pericoli che oggi incombono su tutto il
popolo lavoratore. Bisogna far comprendere, bisogna insistere per far
comprendere che oggi il proletariato non si trova contro solo
un'associazione piivata, ma si trova contro tutto l'apparecchio
statale, con la sua polizia, i suoi tribunali, coi suoi giornali che
manipolano l'opinione pubblica secondo il buon piacere del governo e
dei capitalisti. Bisogna far comprendere ciò che non fu fatto
comprendere nel settembre 1920: quando il popolo lavoratore esce dalla
legalità e non trova la virtù di sacrifizio e la capacità politica
necessarie per condurre fino in fondo un'azione, viene punito con la
fucilazione in massa, con la fame, con il freddo, con l'inedia che
uccide lentamente giorno per giorno.
Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del
Popolo? Tutt'altro: essi aspirano all'armamento del proletariato, alla
creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di
sconfiggere la borghesia e di presidiare l'organizzazione e lo sviluppo
delle nuove forze produttive generate dal capitalismo. I comunisti sono
anche del parere che per impegnare una lotta non bisogna neppure
aspettare che la vittoria sia garantita per atto notarile.
Spesse volte nella storia i popoli si sono trovati al bivio: o
languire giorno per giorno di inedia, di esaurimento, seminando la
propria strada di pochi morti al giorno, che diventano però una folla
nelle settimane, nei mesi, negli anni; oppure arrischiare l'alea di
morire combattendo in un supremo sforzo di energia, ma anche di
vincere, di arrestare d'un colpo il processo dissolutivo, per iniziare
l'opera di riorganizzazione e di sviluppo che almeno assicurerà alle
generazioni venture un po' più di tranquillità e di benessere. E si
sono salvali quei popoli che hanno avuto fede in se stessi e nei propri
destini e hanno affrontato la lotta, audacemente. Ma se così pensano i
comunisti, per i dati obbiettivi della situazione, per i rapporti di
forza con l'avversario, per le possibilità di dominare il marasma e il
caos creati dalla guerra imperialista, per tutti gli elementi che non
possono essere inventariati e sui quali non sempre si può fare un
esatto calcolo di probabilità, essi però vogliono almeno che i fini
politici siano chiari e concreti, essi non vogliono che si ripeta oggi
ciò che è avvenuto nel settembre 1920, non vogliono almeno per ciò che
può essere previsto, che può essere valutato, che può essere
predisposto dall'attività politica organizzata in partito.
Gli operai hanno modo di esprimere il loro parere; gli operai
socialisti, che sono rivoluzionari, che hanno dall'esperienza di questi
ultimi mesi tratto qualche insegnamento, hanno modo di far pressione
sul Partito Socialista, di costringerlo a uscire dall'equivoco e
dall'ambiguità, di fargli assumere una posizione netta e precisa in
questo problema che è il problema della stessa incolumità fisica
dell'operaio e contadino.
L'on. Mingrino è deputato socialista; se è uomo sincero, come
noi crediamo, prenda egli l'iniziativa di fare uscire dal torpore e
dall'indecisione le masse che seguono ancora il suo partito, ma non
ponga dei limiti alla loro espansione se non vuole avere la
responsabilità di aver procurato per il popolo italiano una nuova
disfatta e un nuovo fascismo moltiplicato per tutte le vendette che la
reazione implacabilmente esercita sui titubanti e sugli indecisi, dopo
aver massacrato le avanguardie d'assalto.
Il carnefice e la vittima
"L'Ordine Nuovo", 17 luglio 1921
Il governo e la stampa
borghese cercano un diversivo per mascherare il fallimento delle
trattative di pace tra i parlamentari fascisti e i parlamentari
riformisti. Il diversivo è già trovato: il Partito comunista. Il
Partito comunista non vuole la pacificazione, il Partito comunista è la
causa di tutte le disgrazie e di tutte le sofferenze che si abbattono
sul popolo italiano, il Partito comunista è un'associazione di
briganti, di assassini, di delinquenti comuni, il Partito comunista è
l'origine sola del fascismo. Siccome il Partito comunista non vuole la
pacificazione, così il governo di Bonomi non può fare a meno di
continuare a lasciar fare ai fascisti tutto ciò che ai fascisti farà
piacere. Le centinaia e migliaia di depositi di armi e munizioni che i
fascisti spesso pubblicamente hanno accumulato non verranno
sequestrati. Le mitragliatrici, i cannoni lanciafiamme, i moschetti
saranno lasciati ai fascisti. I fascisti potranno ancora sfilare nelle
città, incolonnati, col moschetto in spalla, con l'elmetto in testa,
coi tascapane pieni di bombe. Lo Stato non interverrà, non applicherà
le leggi, non aprirà le prigioni, non disturberà i giudici. Lo Stato
non è, per ciò che riguarda i fascisti, un'amministrazione delle leggi,
un'organizzazione repressiva e punitiva; lo Stato non esiste per i
fascisti, lo Stato riconosce nei fascisti una autorità indipendente e
tratta con loro, da pari a pari, e riconosce loro il diritto, se non
avverrà la pacificazione, di continuare impunemente a incendiare, ad
assassinare, a invadere città e villaggi, a decretare esili e
scioglimenti di pubbliche amministrazioni.
C'è
dell'ironia in questa azione pacificatrice del governo italiano. Chi
sarà dunque il custode e il garante del "trattato di pace"? Chi si
fiderà delle parole di un governo che in tal modo, clamorosamente,
confessa o di essere impotente o di essere in malafede? Come farà
rispettare la "carta" che dovrebbe essere giurata dai sovversivi e dai
fascisti, questo governo che non fa rispettare la carta fondamentale
dello Stato giurata dal re al popolo italiano?
I
comunisti non parteciperanno certamente a questo "mercato di sciocchi",
non compiranno certamente questo delitto contro il popolo italiano. Non
può esserci pace tra il carnefice e la sua vittima, non può esserci
pace tra il popolo e i suoi massacratori. Il Partito comunista si
assume tutte le responsabilità di questo suo atteggiamento. Sa di
diventare il bersaglio della coalizione reazionaria, ma è sicuro che
anche se "pacifista" diverrebbe egualmente il bersaglio della reazione
coalizzata.
La classe operaia
italiana ha già visto quanto valgono le parole del governo italiano,
dopo lo sgombero delle fabbriche occupate. Non dovevano esserci
rappresaglie: a migliaia gli operai sono stati cacciati in galera, e i
tribunali sudano sette camicie per imbastire un colossale complotto; a
centinaia di migliaia gli operai sono stati buttati sulla strada a
crepare di fame con le loro famiglie. A Torino anche gli operai
socialisti hanno già avuto la scottatura per la loro fiducia nella
parola dei reazionari: hanno firmato un patto; oggi è venuta la loro
volta, oggi essi vengono licenziati.
Chi
fa rispettare ai reazionari i patti, le promesse, i giuramenti? Ma non
dimostrano essi, già prima della pacificazione, tutta la loro malafede?
Non è coi comunisti, non è col Partito comunista come piccolo nucleo di
individui associati, che la reazione è in collera; essa è in collera
con la classe operaia e contadina, come massa di salariati schiavi del
capitale, essa ha paura che la classe lavoratrice nella sua totalità,
sia essa comunista, socialista, repubblicana, popolare, oppressa,
taglieggiata, affamata, insorga contro i suoi sfruttatori e capovolga
gli attuali rapporti di classe.
A
Ferrara non si era neppure ancora formata una sezione comunista, eppure
a Ferrara il fascismo è stato particolarmente feroce. In tutte le zone
agricole, nel Polesine, nel Reggiano, nelle Puglie, dove il fascismo ha
instaurato il regime coloniale, il Partito comunista, essenzialmente
operaio e urbano, aveva scarsissime forze. Dove il Partito comunista
era specialmente forte, come a Torino, il fascismo ha tardato fino al
mese di aprile ad entrare in campo. La sua aggressività ha coinciso con
la crisi industriale, con la serrata della Fiat, ed è apparsa
luminosamente come una coordinata tattica della lotta capitalistica
contro l'organizzazione sindacale.
Il
fascismo non è una particolare associazione, come non è una particolare
organizzazione il comunismo: il fascismo non è un movimento sociale, è
l'espressione organica della classe proprietaria in lotta contro le
esigenze vitali della classe lavoratrice, della classe proprietaria che
vuole, con la fame e con la morte dei lavoratori ricostruire il sistema
economico rovinato dalla guerra imperialista. In questa lotta
l'iniziativa appartiene ancora alla classe proprietaria, come al
fascismo appartiene l'iniziativa della guerra civile: la classe
lavoratrice è la vittima della guerra di classe e non può esserci pace
tra la vittima e il carnefice.
Chi
oggi vuole trascinare il proletariato alla pacificazione, è già
anch'egli un carnefice: per la pietà che ispirano oggi i dieci uccisi,
costoro preparano per domani la strage di mille. Non è neppure pietà
cotesta, è ipocrisia vile; il Partito comunista non vuole essere né
ipocrita né vile, appunto perché sente davvero la pietà umana per il
destino atroce del popolo lavoratore.
Illusioni
"L'Ordine Nuovo", 8 agosto 1921
I provvedimenti contro
la disoccupazione sono stati discussi alla Camera per ultimi, come un
affare qualunque che interessasse una ristretta categoria di una
piccola borgata. Dal modo con cui essi sono stati discussi ed
approvati, un fatto risulta evidente: la certezza che i provvedimenti
lasceranno il tempo che trovano e che la loro approvazione ha solo
valore formale, per gli sciocchi che ancora si illudono sull'utilità
dei tornei accademici parlamentari.
La
Camera è, nella sua maggioranza, persuasa che la disoccupazione non ha
rimedi e che quelli proposti devono solo servire a mostrare l'apparente
buona volontà del governo a risolvere la crisi. Non ci sono ormai che i
socialisti, i quali credono che il governo con una saggia politica di
lavori pubblici possa far qualche cosa per il milione di operai
disoccupati. Governo e rappresentanza parlamentare borghese sanno
ottimamente che la crisi non può avere altra soluzione che
l'affamamento di una parte della classe operaia e contadina.
Certo
essi trovano legittimo che questo avvenga, poiché per loro entra nel
corso naturale delle cose. Essi spiegano la crisi come una calamità
sociale alla quale gli operai devono sottomettersi con lo stesso animo
con cui affrontano una carestia. Il governo, come rappresentanza
borghese, e tanto più in quanto vuole apparire di essere con tutto il
popolo, studia progetti, presenta disegni di legge, li approva, per far
credere che esso si interessa realmente alla vita degli operai e
contadini. Esiste un limite però: esiste il limite della proprietà
privata, che non può essere violato. L'affamamento degli operai non può
giustificare che si debba ridurre il profitto capitalistico o meglio
violare il diritto della proprietà privata. Governo e rappresentanza
borghesi sono dunque coerenti, quando approvano disegni di legge che
lasciano il tempo che trovano. Essi hanno sempre una scusa a portata di
mano: la difesa del proprio privilegio e l'impossibilità di fare di
più, senza correre il rischio di perire. Facendo rispettare questo
limite, i governi borghesi sono convinti di agire realmente anche
nell'interesse dei lavoratori.
Ora
ai socialisti, come rappresentanza proletaria, se non fossero quello
che sono sarebbe spettato di smascherare questa politica di classe dei
governi borghesi e d'opporvi una politica propria, la quale non potesse
lasciare più alcun dubbio nell'animo dei lavoratori. Ma i socialisti si
pongono anch'essi sul piano delle illusioni e perdono il loro tempo a
discutere questo o quell'altro articolo di progetto di legge, come se
la disoccupazione, specie nel periodo attuale, possa davvero trovare la
soluzione nella proposta di uno o più emendamenti, che accrescano
magari il sussidio giornaliero all'operaio senza lavoro.
Far
credere alle grandi masse di operai disoccupati che essi possono
guardare con fiducia nell'opera di aiuto del governo, è volerle
mantenere nell'inganno. Oggi che il numero dei disoccupati va
rapidamente crescendo e che la classe padronale non ha più alcuno
scrupolo nel mettere sul lastrico centinaia di migliaia di famiglie
operaie, altra parola d'ordine si richiederebbe da coloro che hanno
ricevuto il loro mandato dalla classe lavoratrice. Ma la realtà è fuori
del Parlamento. Gli organizzatori operai che in questo avrebbero dovuto
far risuonare forte la voce di protesta dei lavoratori, che soffrono
nella fame e nella miseria, si sono limitati invece a proporre qualche
emendamento al disegno di legge governativo. Intanto che gli operai
disoccupati crescono e che la fame miete sempre maggiori vittime in
mezzo alle loro famiglie, questa condotta parlamentare degli
organizzatori operai non può che giudicarsi ingannevole e
traditrice.
Essa ribadisce
l'illusione che si tratti di uomini di governo e d'indirizzo politico,
mentre la quistione sostanziale è nel regime. E' questo che si deve
additare alle masse operaie come la causa dei loro mali che si deve
prima togliere di mezzo, per giungere alla loro liberazione da essi.
Tutto il resto è retorica, accademia; ora che la Camera ha di fatto
approvato i provvedimenti contro la disoccupazione, non siamo cattivi
profeti dicendo che la crisi continuerà a rendersi più acuta nel
paese.
A questo non ci prepara forse
l'offensiva degli industriali per la riduzione dei salari? Già i
tessili sono alla vigilia del loro sciopero generale in tutta Italia,
se i padroni non accedono alle proposte della Federazione. Anche in ciò
non bisogna creare illusioni. Nessun aiuto gli operai hanno da sperare
dall'intervento dello Stato. Gli operai ricordano a che cosa è servito
l'intervento di Giolitti nella vertenza metallurgica; né hanno
dimenticato i frutti che ha portato in Inghilterra l'intervento di
Lloyd George nella vertenza dei minatori. Nel primo come nell'altro
caso, il governo non è intervenuto che per sviare dai suoi propositi di
lotta e di resistenza la classe operaia, consegnandola, con la
complicità dei suoi organizzatori, alla volontà padronale.
La
classe operaia non ha nulla da sperare da questo o da quell'altro
ministro; la classe operaia non può fare affidamento che in se stessa.
Ogni decreto, ogni disegno di legge non sono che pezzi di carta per i
padroni, la cui volontà può trovare un limite solo nella forza medesima
degli operai e non mai negli organi dello Stato.
Chi
dalla tribuna parlamentare o in un comizio, si vale della sua autorità,
del suo prestigio, per far credere alle masse che oggi la soluzione
della crisi possa essere all'infuori dell'abbattimento dello Stato
borghese, non si merita titolo diverso da quello di traditore.
Tanto
se si tratti di combattere contro la disoccupazione che contro la
riduzione dei salari, il governo e i suoi organi non possono essere che
coi padroni. Gli operai ricordino il decreto di controllo com'è andato
a finire e stiano in guardia da qualunque intervento dello Stato nelle
loro lotte contro la classe padronale. La sola verità che essi non
devono dimenticare mai è che dai padroni otterranno sempre tanto per
quanto saranno forti e che oggi l'unica via di salvezza consiste non
nell'attendersi aiuti e provvedimenti dai governi della borghesia, ma
nel lottare per il loro abbattimento definitivo.
Non
è inutile se si ripete una volta di più che tutti i problemi inerenti
alla vita della classe operaia oggi possono trovare la loro soluzione
solo nella conquista del potere politico da parte di essa. Ogni altra
via non può condurre che a soluzioni parziali ed ingannevoli per la
classe operaia.
La smorfia di Gwynplaine
"L'Ordine Nuovo", 30 agosto 1921
Ogni volta che la
politica manda a effetto una operazione contro la classe operaia, i
primi a gioirne o, "meglio", i primi a dare manifestazioni esteriori
della loro contentezza non sono i "pezzi grossi", commissari di polizia
od ufficiali delle regie guardie o dei carabinieri, ma sono i più umili
agenti, i più modesti carabinieri, l'ultima delle guardie regie. Sono
cioè gli agenti del governo usciti dalle file del proletariato più
arretrato, costretti a questo passo dalla miseria o dalla speranza di
trovare, abbandonando il campo o l'officina, una vita migliore, dalla
persuasione di divenire qualche cosa di più di un povero contadino
relegato in un paesetto sperduto fra i monti, di un manovale abbruttito
dal quotidiano lavoro d'officina.
Questa
gente odia, dopo averne disertato le file, la classe lavoratrice con un
accanimento che supera ogni immaginazione. "Ecco le armi", urlò
trionfante non so se un agente investigativo od un carabiniere in
borghese, scoprendo una rivoltella durante la perquisizione all'
"Ordine Nuovo". E rimase stupito, spiacente che nonostante tutta la
buona volontà non si riusciva a trovare nulla di compromettente per il
nostro giornale.
Pochi minuti dopo,
un altro agente udendo uno scambio di parole tra il commissario ed un
nostro redattore, esclamò: "Finiremo per arrestarli tutti! Li
arresteremo tutti!" A questo pensiero la sua bocca si aprì ad un riso
tanto cattivo da sbalordire chiunque non sia abituato a questo genere
di fratellanza umana.
Ho compreso
allora perché nelle caserme e nei posti di polizia, carabinieri,
guardie regie ed agenti gareggino nel bastonare gli operai arrestati,
nel rallegrarsi delle loro torture. E' un odio di lunga data. Gli
agenti dello Stato addetti al mantenimento dell'ordine pubblico sentono
attorno a sé il disprezzo che tutta la classe lavoratrice ha per i
rinnegati, per quelli che sono passati nell'altro campo, per i
mercenari che impegnano ogni loro energia per soffocare qualsiasi
movimento del proletariato.
E al
disprezzo del proletariato s'aggiunge quello di gran parte della
borghesia che guarda con occhio diffidente tutta questa puzza di
questura. Perché? Perché questa è la sorte di tutti i mercenari: al
disprezzo e all'odio degli avversari s'aggiunge quasi sempre il
disprezzo dei padroni.
Ed è
naturale, è umano che nell'animo di questa gente mal pagata, che non
sempre riesce a procurarsi quanto occorre per una vita piena di stenti
e di privazioni e che si sente circondata da una barriera che la divide
dagli altri uomini, che la mette quasi fuori dalla società, germogli
l'odio, metta radici la crudeltà: odio contro quelli che prima erano i
fratelli, i compagni di lavoro e che ora disprezzano con maggior forza,
crudeltà che si esplica contro di essi sotto mille forme diverse. Così,
arrestare un operaio è una gioia, un trionfo, bastonarlo e malmenarlo,
una festa, rinchiuderlo in carcere una rivincita. Solo nel momento in
cui essi tengono un uomo fra le mani e sanno di poter disporre della
sua libertà, della sua incolumità, sentono di possedere una forza che
in qualche momento della vita li rende superiori ai loro simili.
La
gioia di acciuffare un uomo non proviene dalla consapevolezza di
servire la legge, di difendere l'integrità dello Stato: è una piccola
bassa soddisfazione personale, è la gioia di poter dire: "Io sono più
forte".
Quale altra gioia possono
essi provare? Quanti di essi sono in grado di formarsi una famiglia
senza che la vita di stenti diventi vita di patimenti? Non è forse vero
che a molti di questi transfughi del proletariato la vita non riserva
altre soddisfazioni che qualche umile offerta di una passeggiatrice
notturna in cerca di protezione?
Noi
li abbiamo visti pochi giorni or sono nella nostra redazione.
Moltissimi, dall'abito, potevano benissimo essere scambiati per operai
in miseria. E' certo che erano umilmente, più che umilmente vestiti non
solo per introdursi tra gli operai, per raccoglierne i discorsi, per
spiarli, ma anche perché non potrebbero fare diversamente. E guardavano
con odio gli operai veri, quelli che si dibattono tra la reazione e la
fame e cercano affannosamente la via della liberazione.
Essi comprendevano, sentivano che chi lotta è sempre superiore a chi serve.
E
quando hanno ammanettato i giovani che difendevano il giornale del loro
partito, il giornale della loro classe, il loro giornale, gli agenti
hanno avuto un lampo di trionfo, hanno riso. Ma non era un riso
spontaneo, giocondo. Era un riso a cui erano costretti dalla rabbia,
dal disprezzo degli altri, dalla loro vita, dal destino a cui non
potevano sottrarsi. Quel riso era la smorfia di Gwynplaine.
La tattica del fallimento
"L'Ordine Nuovo", 22 settembre 1921
Il Partito socialista
italiano è un partito responsabile, un partito che sa quello che vuole,
un partito che dirige e guida le masse nella lotta contro la classe
padronale? Nessuno può negare che il Partito socialista italiano abbia
quest'ultima funzione, che è di guidare e dirigere il proletariato
italiano nella lotta anticapitalistica. In quanto esso ha una simile
funzione, il Partito socialista è responsabile delle sue azioni; il
Partito socialista non può sottrarsi al giudizio e alla condanna della
storia.
Ora, il Partito socialista
italiano ha rivelato più volte di essere inadatto a tale funzione, al
suo mandato storico. Il Partito socialista è venuto meno al suo compito
nel periodo della guerra, durante Caporetto; è venuto meno nel
successivo periodo dell'armistizio, durante i moti del caroviveri,
dell'occupazione delle fabbriche e dell'invasione delle terre.
Questa
incapacità del Partito socialista ad essere un partito di masse è
rivelata in modo più evidente oggi dal suo disagio di fronte all'azione
del fascismo italiano.
Il Partito
socialista credeva che la politica dei compromessi sarebbe stata
sufficiente a porre fine alla tremenda guerra civile che insanguina
l'Italia da quando la classe industriale ed agraria è passata
all'offensiva, organizzando sul terreno della violenza le sue guardie
bianche. Quanto questa politica di compromessi sia stata vana tutti gli
operai sono in grado di notarlo oggi, che il fascismo riprende
dappertutto il suo assoluto vigore. Se la tattica dei compromessi
adoperata dai socialisti è stata utile a qualcuno, si deve riconoscere
che questo qualcuno non può essere che il fascismo.
Il
patto di Roma ha avuto solo questo effetto: di smorzare l'impeto di
sdegno che il fascismo aveva sollevato con le sue inaudite violenze nel
popolo, senza distinzione di ceti. Quando il popolo si stava rivoltando
e pareva essere disposto a porre fine al suo martirio, il Partito
socialista lancia una parola d'ordine di pace e rassegnazione.
Che
cosa poteva nascere da un simile atteggiamento? Il popolo lavoratore
non può vivere tutti i giorni in continua tensione. Non è un orologio,
che può scattare ad ogni ora determinata. Chi non sa comprendere
l'animo delle grandi masse, è assente dalla loro vita; è fuori dalla
realtà della lotta di classe. Il Partito socialista è appunto sempre
stato assente dalla vita delle grandi masse; il Partito socialista non
ha mai compreso nulla della vita del proletariato italiano, la sua
azione non è mai partita dai bisogni concreti degli operai, dai loro
particolari interessi.
Nelle
battaglie che i lavoratori sostengono quotidianamente, il Partito
socialista ha sempre fatto la parte di chi non vede che la superficie
delle cose. Era naturale perciò che dalla tattica del Partito
socialista di fronte al fascismo derivassero sbandamento ed incertezza
in mezzo alle masse, di cui disgraziatamente esso ha ancora la
direzione. Le conseguenze però di questo sbandamento e di questa
incertezza sono unicamente degli operai, della classe
lavoratrice.
Il Partito socialista è
responsabile di quanto accade, poiché solo la sua tattica idiota,
cieca, ne ha colpa. Né si tratta sempre di tattica idiota. Quanto, ad
esempio, è avvenuto nel Pavese non è più soltanto conseguenza di un
metodo errato, bensì ha un contenuto politico, la sua essenza è
puramente malvagia. E infatti non bisogna dimenticare che la lotta di
tendenze nel seno del Partito socialista si ripercuote sul metodo con
cui si conducono le battaglie quotidiane degli operai e contadini. Le
organizzazioni operaie e contadine sono ora nella loro maggior parte
dirette da socialriformisti, le cui opinioni politiche si sa quali
sono: collaborazione, partecipazione al potere e via di seguito. Come
dimostrare che la collaborazione è necessaria, che la partecipazione al
potere s'impone fatalmente? I socialriformisti hanno bisogno di
dimostrare che oggi il proletariato non ha altra via di scampo che la
partecipazione al potere.
Non
importa se l'esempio dei popolari ha dimostrato che una volta al potere
essi saranno zero lo stesso. L'intento di spingere il partito alla
collaborazione non può essere raggiunto dai socialriformisti che
infliggendo alle masse operaie una serie di sconfitte. Ed ecco perché
si proclama lo sciopero dei contadini nel Pavese e poi lo si fa
cessare; ecco perché si respinge la proposta del Comitato sindacale
comunista e si accetta la tattica del caso per caso. Le sconfitte
valorizzano ancor più la tattica socialriformista: le sconfitte aprono
la via al potere, cioè a dire spianano la strada al noskismo.
Così
l'intransigenza del Partito socialista si riduce in pratica, come si
vede, a niente più di una menzognera etichetta. Il Partito socialista,
prigioniero del socialriformismo, non può fare altrimenti.
L'intransigenza che esso tiene a proclamare in ogni ordine del giorno
della direzione è puro inganno, che servirà solo a rendere più
difficile la liberazione delle masse dai suoi traditori.
Ma
a questo le masse, è certo, si preparano. Lentamente forse, le masse
non potranno non accorgersi di essere state finora ingannate. I
contadini del Pavese prima di imprecare contro il fascismo, che ha
adoperato la violenza contro di essi per stroncare lo sciopero,
dovranno riconoscere che i veri loro nemici sono i capi che hanno tolto
dalle loro mani le armi per resistere.
Nessun
operaio, nessun contadino deve oggi scendere in battaglia, senza essere
sicuro che i suoi capi non lo colpiscano alle loro spalle nell'ora
della lotta. Questa è la fine inevitabile di tutte le agitazioni che
verranno iniziate separatamente, caso per caso. Gli operai e i
contadini hanno già l'esempio delle precedenti agitazioni. Imparino
essi da queste a non servire più le mire politiche del socialriformismo
o ad essere gli strumenti di tutti i rivoluzionari opportunisti.
I
fatti dimostrano in modo chiaro che la proposta del Comitato sindacale
comunista di preparare la classe operaia e contadina a difendersi
dall'assalto capitalista col fronte unico e generale è la sola
probabilità di vittoria che sia data oggi. L'appello del Comitato
sindacale comunista acquista un valore di urgente attualità, oggi che
siamo alla vigilia della lotta dei chimici e dei metallurgici e che
altre categorie sono impegnate nella battaglia, come i lanieri.
Solo
gli operai possono impedire che si continui nella tattica disastrosa
del fallimento. Essi che sono i soli interessati nella difesa dei loro
salari e nella lotta contro il terrore bianco possono e debbono
pretendere che l'appello del Comitato sindacale comunista diventi la
base dell'azione generale del proletariato italiano.
Insegnamenti
"L'Ordine Nuovo", 5 maggio 1922
Le conclusioni che si
possono trarre dall'andamento di questa manifestazione di Primo Maggio
sono confortanti. La manifestazione è riuscita come intervento di
masse, come estensione di solidarietà operaia. Ha dimostrato come il
proletariato italiano malgrado la reazione è sempre rosso. Ed è anche
riuscita come prova di spirito di combattività che si risveglia nelle
file dei lavoratori. I fascisti si sono preoccupati di dimostrare col
loro contegno e colle loro stesse dichiarazioni che si trattava di una
manifestazione antifascista. E tale è stato il significato della
astensione dal lavoro e dell'intervento alle dimostrazioni di
grandissime masse, da un capo all'altro d'Italia, e senza escludere le
zone percosse dal fascismo. Se i cortei non si sono fatti si deve alla
imposizione del governo: se si fossero potuti tenere, oggi conteremmo
un maggior numero di morti operai, ma anche un maggior numero di morti
fascisti.
Tuttavia, accanto alla
confortante constatazione della vastità ed imponenza della
manifestazione e dell'elevato morale della massa, dobbiamo porre quella
che l'organizzazione ha lasciato in generale a desiderare. La cosa non
è senza ragione: la tattica dell'unità di fronte adottata in questo
Primo Maggio da tutti gli organismi proletari, esperimento
dell'Alleanza del lavoro italiana, ha recato insieme questo benefizio e
questo vantaggio, che vanno dai comunisti attentamente
considerati.
Ci limitiamo qui ad
accennare brevemente alla cosa, in presenza del comunicato diramato dal
Comitato dell'Alleanza del lavoro dopo il Primo Maggio. Con la tattica
dell'unità di fronte si sono potute radunare ai comizi di Primo Maggio
grandi moltitudini operaie anche dove era ben chiaro nella coscienza
fin dell'ultimo intervenuto che non si trattava della solita e
tradizionale coreografia, ma di una giornata di lotta. Ma questa
dimostrazione dell'avversione del proletariato alla reazione e al
fascismo, dello spirito di classe che tuttora anima le grandi
moltitudini di lavoratori, non è abbastanza per poter aver ragione del
fascismo e della reazione.
Il
fascismo non sarà soffocato da unanimità platoniche: le rivoltelle e i
pugni non saranno rese impotenti col gettarvi sopra una materassa. Il
fascismo non ha il numero, ma ha l'organizzazione, unitaria e
centralizzata, ed è in ciò la sua forza, integrata nella
centralizzazione del potere ufficiale borghese. L'Alleanza del lavoro
che oggi ha permesso di raggruppare masse imponenti deve divenire
capace di inquadrarle con disciplina unitaria. Qui è il compito dei
comunisti, nel conseguire questo risultato, verso il quale non si è
fatto che il primo passo. Quando sarà possibile che le grandi adunate
possano contare sul concorso proletario, e nello stesso tempo su una
razionale preparazione delle nostre forze, allora il proletariato potrà
dominare il suo nemico.
In questo
Primo Maggio si è potuto notare che i comizi e i movimenti concordati
dalle organizzazioni alleate mancavano un po' di preparazione
organizzativa anche al modesto effetto della loro protezione dagli
attacchi degli avversari, e questo dipendeva dal fatto che non era ben
chiaro chi avesse organizzato i comizi e disposto il piano del loro
svolgimento sotto tutti gli aspetti. I comitati locali dell'Alleanza
non sono che di recente formazione, e non hanno chiara consistenza
organizzativa, e sufficienti poteri. Tuttavia, è già un gran vantaggio
quello di aver potuto avere radunate comuni delle masse, perché ciò
eleva il morale proletario e consente ai comunisti di portare a tutto
il proletariato la loro franca parola. Tutto un ulteriore sviluppo
dell'interessante esperimento italiano della tattica del fronte unico
condurrà ad integrare con questo vantaggio innegabile l'altro
dell'effettiva ed intima unità di organizzazione.
L'argomento
si presta ad importantissime considerazioni: vogliamo ora solo notare
che il terreno sindacale su cui l'Alleanza è costituita, permette ai
comunisti di premere perché essa divenga sempre più stretta
organizzativamente, giungendosi così all'unità sindacale proletaria che
sempre noi abbiamo auspicata e che il programma del Partito comunista
solo può e dovrà riempire di contenuto rivoluzionario. Per ora vi è da
reagire contro il carattere pigro ed incerto che ha fino ad oggi la
dirigenza dell'Alleanza del lavoro.
I
comunisti hanno già formulato in modo preciso e concreto le loro
proposte per lo sviluppo, per il ravvivamento, per il potenziamento
dell'Alleanza, che potrebbe, se la campagna non venisse spinta
energicamente innanzi, parallelamente alle eloquenti esperienze
dell'azione proletaria, degenerare in una burocratica ed ingombrante
diplomazia di capi esitanti ed opportunisti.
Quanto
le proposte comuniste siano urgenti lo dimostra il contegno passivo
dell'Alleanza dinanzi alle gravissime provocazioni che hanno subito il
Primo Maggio le folle operaie e, nonostante gli inviti all'azione
giunti da tante parti, lo dimostra la sua insensibilità alla pressione
che viene oggi dal proletariato italiano disposto a procedere
rapidamente sulla via della controffensiva. E lo dimostra,
eloquentissimo documento, il comunicato diramato dal Comitato
nazionale, che con le sue frasi piatte e banali declina la suggestione
sorgente dalle masse anelanti la lotta: comunicato al quale non
vogliamo scrivere altro commento, sicuri che, come la quistione è ormai
irrevocabilmente posta innanzi alle masse, così queste non mancheranno
di commentare e giudicare esse, per trarre da quest'altra delusione
nuovo stimolo a proseguire sull'aspra ma sicura via della loro riscossa.
Lettere da Vienna
gennaio- aprile 1924
5 gennaio 1924 - A Scoccimarro
ti
dirò sinteticamente perché persisto nel ritenere impossibile che io
firmi il manifesto, anche dopo averne letta la seconda redazione. Al
Congresso di Roma era stato dichiarato che le tesi sulla tattica
sarebbero state votate a titolo consultivo, ma che esse, dopo la
discussione del Quarto Congresso, sarebbero state annullate e non se ne
sarebbe parlato più.
Nella prima metà del
marzo 1922 l'Esecutivo del Comintern ha pubblicato uno speciale
comunicato in cui le tesi sulla tattica del partito venivano confutate
e rigettate e un articolo dello Statuto dell'Internazionale dice che
ogni deliberazione dell'Esecutivo deve diventare legge per le singole
sezioni. Ciò sia detto per la parte formale e giuridica della
questione. La quale ha una sua importanza.
In
verità dopo le pubblicazioni del manifesto la maggioranza potrebbe
essere squalificata del tutto e anche esclusa dal Comintern. Se la
situazione politica dell'Italia non si opponesse a ciò io ritengo che
l'esclusione avverrebbe. Alla stregua della concezione di partito che
deriva dal manifesto la esclusione dovrebbe essere tassativa. Se una
nostra federazione facesse solo la metà di ciò che la maggioranza del
partito vuol fare verso il Comintern, il suo scioglimento sarebbe
immediato.
Non voglio, firmando il
manifesto, apparire un completo pagliaccio. Ma io non sono neppure
d'accordo nella sostanza del manifesto. Ho un'altra concezione del
partito, della sua funzione, dei rapporti che devono stabilirsi fra
esso e le masse senza partito, fra esso e la popolazione in generale.
Non
credo assolutamente che la tattica che si è sviluppata attraverso gli
esecutivi allargati e il Quarto Congresso sia sbagliata. Né per
l'impostazione generale, né per dettagli rilevanti. Così credo sia
anche per te e per Togliatti e non posso comprendere perciò come voi, a
cuore così leggero, vi imbarchiate in una galera così pericolosa. Mi
pare che voi vi troviate nello stesso stato d'animo in cui mi sono
trovato nel periodo del Congresso di Roma. Forse perché nel frattempo
sono stato lontano dal lavoro interno di partito, questo stato d'animo
è svanito; in realtà esso è svanito anche per altre ragioni. E una
delle più importanti è questa: non si può assolutamente fare dei
compromessi con Bordiga. Egli è una personalità troppo vigorosa ed ha
una così profonda persuasione di essere nel vero, che pensare di
irretirlo con un compromesso è assurdo. Egli continuerà a lottare e ad
ogni occasione ripresenterà sempre intatte le sue tesi.
Penso
che abbia torto Togliatti nel ritenere che il momento non sia propizio
per iniziare una nostra azione indipendente e per dar luogo a una
formazione nuova che solo "territorialmente" apparirebbe come di
centro. E' innegabile che la concezione che finora è stata ufficiale
intorno alla funzione del partito ha portato a cristallizzarsi nelle
sole discussioni di organizzazione e quindi a una vera e propria
passività politica. Invece del centralismo si è ottenuto di creare un
morboso movimento minoritario e se si parla coi compagni emigrati
perché più attivamente partecipino all'azione esterna del partito si ha
l'impressione che per essi il partito è in realtà ben poca cosa e che
ben poco sarebbero disposti a dare per esso.
L'esperienza
della Scuola di Pietrogrado è molto espressiva. In realtà io mi sono
persuaso che la forza maggiore che tiene insieme la compagine del
partito è il prestigio e l'idealità dell'Internazionale, non già il
legame che l'azione specifica del partito sia riuscita a suscitare e
abbiamo creato una minoranza a fregiarsi della qualifica di vera
rappresentanza dell'Internazionale in Italia.
E'
proprio oggi, quando si è deciso di portare la discussione dinanzi alle
masse che bisogna assumere un posto definitivo e la propria esatta
figura. Fino a quando le discussioni avvenivano in una cerchia
ristrettissima e si trattava di organizzare cinque, sei, dieci persone
in un organismo omogeneo era ancora possibile, sebbene non fosse
neppure allora totalmente giusto, venire a dei compromessi individuali
e trascurare certe questioni che non avevano una immediata attualità.
Oggi si va dinanzi alla massa, si discute, si determinano delle
formazioni di massa che avranno una vita non solo di poche ore. Ebbene,
è necessario che questo fatto avvenga senza equivoci, senza sottintesi,
che queste formazioni abbiano una organicità e possano svilupparsi e
diventare tutto il partito.
Perciò io non
firmerò il manifesto. Non so ancora con esattezza che fare. Non è la
prima volta che mi sono trovato in queste condizioni e Togliatti deve
ricordare che nell'agosto 1920 io mi sia staccato anche da lui e da
Terracini. Allora ero io che volevo mantenere dei rapporti piuttosto
colla sinistra che colla destra, mentre Togliatti e Terracini avevano
raggiunto Tasca, che si era staccato da noi fin dal gennaio. Oggi mi
sembra che avvenga il contrario. Ma in realtà la situazione è molto
diversa e come allora nell'interno del partito socialista bisognava
appoggiarsi agli astensionisti, se si voleva creare il nucleo
fondamentale del futuro partito, così oggi bisogna lottare contro gli
estremismi se si vuole che il partito si sviluppi e che finisca di
essere niente altro che una frazione esterna del partito socialista.
Infatti,
i due estremismi, quello di destra e quello di sinistra, avendo
incapsulato il partito nella unica e sola discussione dei rapporti col
partito socialista, l'hanno ridotto a un ruolo secondario.
Probabilmente
rimarrò solo. Come membro del CC del partito e dell'Esecutivo del
Comintern, scriverò una relazione in cui combatterò contro gli uni e
contro gli altri, accusando gli uni e gli altri di questa stessa colpa
e ricavando dalla dottrina e dalla tattica del Comintern un programma
d'azione per l'avvenire della nostra attività.
Ecco
quanto volevo dire. Vi assicuro che qualsiasi vostro ragionamento non
riuscirà a smuovermi da questa posizione.
12 gennaio 1924 - A Terracini
la
vita interna di un partito comunista non può essere concepita come
l'arena di una lotta di tipo parlamentare in cui le varie frazioni
svolgono un ufficio che è determinato, come quello dei diversi partiti
parlamentari, dalle loro origini diverse, dipendenti dalle diverse
classi della società. Nel partito è rappresentata una sola classe e i
diversi atteggiamenti che a volta a volta diventano correnti e frazioni
sono determinati da apprezzamenti disparati sugli avvenimenti in corso
e perciò non possono solidificarsi in una struttura permanente.
Il
CC del partito può aver avuto un determinato indirizzo in determinate
condizioni di tempo e di ambiente, ma esso può cambiare questo suo
indirizzo, se il tempo e l'ambiente non è più quello di una volta. La
minoranza, facendo dei contrasti un qualche cosa di permanente e
cercando di ricostruire una mentalità generale propria della
maggioranza, che giustifichi questo processo permanente, ha posto, pone
e porrà la maggioranza in contrasto continuato col Comintern, cioè con
la maggioranza del proletariato rivoluzionario e specialmente col
proletariato russo che ha fatto la rivoluzione, in realtà solleva i
primi elementi di una questione che dovrebbe portare sicuramente alla
esclusione della maggioranza del partito dal Comintern.
Ma
noi neghiamo ogni base a tutto questo procedimento astrattamente
dialettico della minoranza e dimostriamo coi fatti che siamo sul
terreno del Comintern, che ne applichiamo e ne accettiamo i principi e
la tattica, che non ci cristallizziamo in un atteggiamento di
opposizione permanente, ma sappiamo mutare i nostri atteggiamenti a
seconda che mutano i rapporti delle forze e i problemi da risolvere si
pongono su altra base.
Se nonostante ciò
la minoranza continua a porsi, verso la maggioranza, nell'atteggiamento
in cui si è posta finora, saremo noi a ricercare se in ciò non esistono
gli elementi per dimostrare che la minoranza è un portato delle
tendenze liquidatrici che si verificano in ogni movimento
rivoluzionario dopo una disfatta e che sono inerenti alle oscillazioni
e al panico propri della piccola borghesia, cioè di una classe che non
è quella sulla quale si basa il nostro partito. Non ci sarà difficile
dimostrare come l'ortodossia della minoranza per la tattica del
Comintern sia solo una mascheratura per avere la dirigenza del partito:
l'esame della composizione dei gruppi che formano la minoranza ci dà
facile modo di dimostrare che essa è fondamentalmente contraria al
Comintern e che non tarderà a rivelare questa sua natura.
Così
abbiamo parlato al Tasca e ricordo che io con te e con Scoccimarro ho
ripetuto più volte che ritenevo questo ragionamento non una mossa per
intimidire momentaneamente Tasca e per indebolirlo dinanzi all'EA
(Esecutivo Allargato), ma una nuova piattaforma su cui la maggioranza
del partito doveva risolutamente porsi per liquidare onorevolmente il
passato e porsi in grado di risolvere i suoi problemi interni. E
ricordo che tu e Scoccimarro eravate d'accordo in ciò. Penso che voi
siate ancora d'accordo e perciò non so spiegarmi la vostra attuale
posizione. In verità noi ci troviamo a una grande svolta storica del
movimento comunista italiano. E' questo il momento in cui occorre con
grande risolutezza, e con molta precisione porre le nuove basi di
sviluppo del partito.
Il manifesto non
rappresenta certamente questa nuova base. Esso dà ogni ragione per far
apparire la minoranza come la frazione che al Quarto Congresso e all'EA
vedeva bene, diffidando della buona volontà e della sincerità della
maggioranza, e facendo apparire questa come un'accolta di piccoli
politicanti che volta per volta salvano la loro situazione con mezzucci
meschini. Voi dimenticate troppo spesso che il nostro partito ha
responsabilità di carattere internazionale e che ogni atteggiamento
nostro si ripercuote negli altri paesi, spesso in forme morbose e
irrazionali. Insisto nel mio atteggiamento perché lo ritengo il più
opportuno e doveroso.
La tua lettera non
fa che confermarmi in questa decisione, specialmente per quello che
dici a proposito del ponte che voi avreste rappresentato in questo
periodo passato. Bisogna che anche tu, Scoccimarro e Togliatti vi
decidiate per la chiarezza, per una posizione che sia la più vicina ai
vostri intimi convincimenti e non alla vostra qualità di "ponti".
Potremo così insieme fare un grande lavoro e dare al nostro partito
tutto lo sviluppo che la situazione gli permette. E' inutile voler
conservare un'unità formale di frazione che ci costringe continuamente
all'equivoco e alle mezze misure. Se Bordiga vuole insistere, come
certamente farà, nel suo atteggiamento, ciò sarà forse un bene, al
patto che la sua sia una manifestazione individuale o di un piccolo
gruppo; diventando invece, col vostro consenso, manifestazione della
maggioranza, essa comprometterebbe irrimediabilmente il partito.
27 gennaio 1924 - A Togliatti
io
mi sono convinto anche a mie spese che il tanto lodato ed esaltato
centralismo del partito italiano nella realtà si risolveva in una molto
banale assenza di divisione del lavoro e assegnazione precisa delle
responsabilità e delle competenze. Nelle conversazioni che ho avuto con
Fortichiari ho avuto la netta impressione che anch'egli condivideva in
gran parte questo apprezzamento ed è non poco demoralizzato per il poco
riguardo con cui la sua attività viene trattata e bistrattata. Ognuno
prende delle iniziative senza avvertire il centro responsabile, che
spesso ha già iniziato in quello stesso senso un lavoro e deve
interromperlo; la continuità delle iniziative finisce col mancare; un
numero troppo grande di elementi finisce col conoscere le cose più
riservate, ogni possibilità di controllo e di verifica viene a mancare;
si introducono nel movimento elementi della cui serietà e
responsabilità non è stato fatto preventivamente nessun accertamento.
Io ho avuto l'impressione che Fortichiari fosse enormemente stanco e
sfiduciato per questo cumulo di cose e che perciò così tenacemente
abbia cercato di farsi mettere a riposo.
La
questione è molto grave e se essa non viene risolta con criteri di
buona organizzazione la situazione può diventare catastrofica. Io sono
persuaso che la situazione del nostro partito dal punto di vista della
legalità andrà sempre aggravandosi. La vita dei nostri dirigenti e la
sicurezza dell'organizzazione saranno tanto più in pericolo quanto più
l'opposizione costituzionale al fascismo, imperniandosi intorno al
partito riformista, mette in pericolo la base stessa del governo di
Mussolini. I fascisti cercheranno di risolvere tutte le situazioni con
la caccia ai comunisti e con l'agitare lo spauracchio della sommossa
rivoluzionaria.
Costruire un buon
apparecchio tecnico, mettere nei suoi ingranaggi elementi selezionati,
di grande esperienza, disciplinati, a tutta prova, dal sangue freddo
necessario per non perdere la testa in nessun frangente, diventa per
noi ragione di vita o morte. Per ottenere ciò bisogna veramente
liquidare molto della situazione passata del partito, con le sue
abitudini di menefreghismo, di non fissazione precisa e netta delle
responsabilità, di non verifica e immediata sanzione degli atti di
debolezza e di leggerezza.
Il partito
deve essere centralizzato, ma centralizzazione significa prima di tutto
organizzazione e criterio dei limiti. Significa che quando una
decisione è stata presa essa non può essere modificata da nessuno, sia
pure uno degli addetti al centralismo e che nessuno può creare dei
fatti compiuti. Non ti nascondo che io, in questi due anni che sono
rimasto fuori dall'Italia, sono diventato molto pessimista e molto
guardingo. Io stesso sono stato spesse volte in bruttissime condizioni
per la situazione generale del partito e non per ciò che riguarda la
mia situazione personale di cui mi infischio discretamente e che
d'altronde non credo neppure abbia sofferto (mi sono tutt'al più
involontariamente guadagnato la fama di una volpe dall'astuzia
infernale), ma nella mia posizione di rappresentante del partito,
chiamato spesso a risolvere questioni che avrebbero avuto un effetto
immediato sul movimento italiano. Andato a Mosca senza essere informato
neppure di un decimo delle questioni in corso, ho dovuto fingere di
sapere e fare delle acrobazie inaudite per non far rilevare con quanta
leggerezza venissero nominati i rappresentanti, senz'altro viatico che
quello del dottor Grillo: "Che Dio te la mandi buona".
Ho
sopportato molte cose perché la situazione del partito e del movimento
era tale che ogni anche apparenza di scissione nelle file della
maggioranza sarebbe stata disastrosa e avrebbe dato ossigeno alla
minoranza scriteriata e senza direttive. Anche le mie condizioni di
salute, che non mi permettevano un lavoro intenso e intensamente
continuativo, mi hanno distolto dall'assumere una posizione che avrebbe
domandato, oltre che il carico di una responsabilità generale politica,
anche la necessità di un intenso lavoro.
La
situazione è oggi di molto cambiata. Le questioni sono sul tappeto non
certo per colpa mia, ma in parte perché non si è voluto a tempo seguire
qualche mio suggerimento e risolverlo automaticamente. Così ho creduto
necessario di prendere l'atteggiamento che ho preso e che manterrò fino
in fondo. Non so cosa tu faccia in questo momento.
PS
- Naturalmente io non credo che, in tutto ciò che ti ho esposto, si
tratti solo di problemi di organizzazione. La situazione del Partito,
che si riflette nell'organizzazione, è la conseguenza di una concezione
politica generale. Il problema è quindi politico e investe non solo
l'attività attuale, ma quella futura; oggi è problema di rapporti tra i
dirigenti del partito e la massa degli iscritti da una parte, tra il
partito e il proletariato dall'altra; domani sarà un problema più vasto
e influenzerà l'organizzazione e la solidità dello Stato operaio. Non
porre oggi la questione in tutta la sua ampiezza, significherebbe
ritornare alla tradizione socialista, attendere a differenziarsi quando
la rivoluzione è alle porte o addirittura quando già si sviluppa.
Abbiamo commesso un grave errore nel 1919 e 1920 a non attaccare più
decisamente la direzione socialista e anche a correre l'alea di una
espulsione, costituendo una frazione che uscisse fuori da Torino e
fosse qualcosa di più della propaganda che poteva fare l'"Ordine
Nuovo". Oggi non si tratta di andare a questi estremi, ma mutato il
rapporto, la situazione è quasi identica e deve essere affrontata con
risolutezza e ardimento.
28 gennaio 1924 - A Leonetti
la
tua lettera mi è stata molto gradita perché ha dimostrato che non sono
solo ad avere certe preoccupazioni e a ritenere necessarie determinate
soluzioni dei nostri problemi. Condivido, quasi completamente,
l'analisi che tu hai fatto. Purtroppo però la situazione è molto più
grave e difficile di quanto tu possa immaginare e perciò ritengo
necessaria una certa prudenza. Sono persuaso che Bordiga è capace di
giungere ai più gravi estremi se vede che la situazione del partito
diventa difficile per causa sua. Egli è fortemente e recisamente
convinto di essere nel vero e di rappresentare gli interessi più vitali
del movimento proletario italiano e non indietreggerà neanche dinanzi
alla eventualità di una sua espulsione dall'Internazionale. Ma qualche
cosa bisogna pur fare e dovrà essere fatta da noi.
Non
condivido il tuo punto di vista che si debba rivalorizzare il nostro
gruppo di Torino formatosi intorno all'"Ordine Nuovo". In questi due
anni ho visto come la campagna fatta dall'"Avanti" e dai socialisti
contro di noi abbia influenzato e lasciato profonde tracce anche tra i
membri attuali del nostro partito. A Mosca gli emigrati erano divisi in
due campi su questo punto e qualche volta le liti giungevano fino alla
rissa e alla colluttazione. D'altronde Tasca appartiene alla minoranza
avendo condotto fino alle estreme conseguenze la posizione assunta fin
dal gennaio 1920 e culminata nella polemica fra me e lui. Togliatti non
sa decidersi come era un po' sempre nelle sue abitudini; la personalità
"vigorosa" di Bordiga lo ha fortemente colpito e lo trattiene a mezza
via in una indecisione che cerca giustificazioni in cavilli puramente
giuridici. Terracini credo sia fondamentalmente anche più estremista di
Bordiga, perché ne ha sorbito la concezione, ma non ne possiede la
forza intellettuale, il senso pratico e la capacità organizzativa. In
che cosa dunque potrebbe rivivere il nostro gruppo? Sembrerebbe
nient'altro che una cricca raccoltasi attorno alla mia persona per
ragioni burocratiche. Le stesse idee fondamentali che hanno
caratterizzato l'attività dell'"Ordine Nuovo" sono oggi o sarebbero
anacronistiche.
Apparentemente, almeno
oggi, le questioni assumono la forma di problemi di organizzazione e
soprattutto di organizzazione del partito. Apparentemente, dico, perché
di fatto il problema è sempre lo stesso: quello dei rapporti fra il
centro dirigente e la massa del partito e fra il partito e le classi
della popolazione lavoratrice.
Nel 1919-20
noi abbiamo commesso errori gravissimi che in fondo adesso scontiamo.
Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti e carrieristi,
costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta Italia. Non
abbiamo voluto dare ai Consigli di fabbrica di Torino un centro
direttivo autonomo e che avrebbe potuto esercitare un'immensa influenza
in tutto il paese, per paura della scissione nei sindacati e di essere
troppo prematuramente espulsi dal partito socialista. Dovremmo, o
almeno io dovrò, pubblicamente dire di aver commesso questi errori che
indubbiamente hanno avuto non lievi ripercussioni.
In
verità se dopo la scissione di aprile avessimo assunto la posizione che
io pure pensavo necessaria, forse saremmo arrivati in una situazione
diversa alla occupazione delle fabbriche e avremmo rimandato questo
avvenimento ad una stagione più propizia. I nostri meriti sono molto
inferiori a quello che abbiamo dovuto strombazzare per necessità di
propaganda e di organizzazione; abbiamo solo, e certo questo non è
piccola cosa, ottenuto di suscitare e organizzare un forte movimento di
massa che ha dato al nostro partito la sola base reale che esso ha
avuto negli anni scorsi.
Oggi le
prospettive sono diverse e bisogna accuratamente evitare di insistere
troppo sul fatto della tradizione torinese e del gruppo torinese. Si
finirebbe in polemiche di carattere personalistico per contendersi il
maggiorasco di una eredità di ricorsi e di parole.
Praticamente
io penso di influire in questo modo nella situazione. Se verrà
pubblicato il manifesto della cosiddetta sinistra comunista, e forse a
quest'ora è già stato pubblicato nel primo numero del risorto "Stato
Operaio", scriverò un articolo o una serie di articoli per spiegare il
perché la mia firma non vi appaia e schizzare un progettino di compiti
pratici che il partito deve risolvere nella situazione attuale.
Se
verrà preparata una conferenza del partito e la discussione si svolgerà
per vie interne, con solo un minimo di pubblicità, farò una specie di
memoriale per i funzionari di partito e i capi gruppo nel quale sarò
più esplicito e più diffuso. In ogni caso ritengo indispensabile
evitare di inasprire la polemica. Ho visto come sia facile, col nostro
temperamento e con lo spirito settario e unilaterale proprio degli
italiani, arrivare ai peggiori estremi e alla rottura completa fra i
vari compagni.
Ti sarò grato se vorrai
scrivermi ancora per comunicarmi le correnti principali che prevalgono
nel partito e l'atteggiamento dei compagni che io conosco, specialmente
quelli di Torino.
9 febbraio 1924 - A Togliatti, Terracini e C.
uno
dei più gravi errori che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano
l'attività del nostro partito può essere riassunto con le stesse parole
con cui si esprime la seconda delle tesi sulla tattica: "Questi due
fattori di coscienza e di volontà sarebbe erroneo considerarli come
facoltà che si possano ottenere e si debbano pretendere dai singoli,
poiché si realizzano solo per la integrazione dell'attività di molti
individui in un organismo collettivo unitario". Questo concetto, giusto
se riferentesi alla classe operaia, è sbagliato ed estremamente
pericoloso se riferito al partito. Prima di Livorno esso era il
concetto di Serrati, il quale sosteneva che il partito nel suo
complesso era rivoluzionario anche se in esso coabitavano socialisti di
diverso pelo e colore. Nel congresso di scissione della
socialdemocrazia russa questo concetto era sostenuto dai menscevichi, i
quali dicevano che il partito nel suo complesso conta e non i singoli
individui. Per questi, basta che essi dichiarino di essere socialisti.
Nel nostro partito questa concezione ha
solo parzialmente determinato il pericolo opportunista. Non si può
negare infatti che la minoranza sia nata e abbia fatto proseliti per la
assenza di discussioni e di polemiche nell'interno del partito, cioè
per non aver dato importanza ai singoli compagni e non aver cercato di
indirizzarli un po' più concretamente di quanto non possa avvenire coi
comunicati e le disposizioni tassative. Nel nostro partito si è avuto a
lamentare un altro aspetto del pericolo: l'isterilirsi di ogni attività
dei singoli, la passività della massa del partito, la ebete sicurezza
che tanto c'era chi a tutto pensava e a tutto provvedeva.
Questa
situazione ha avuto gravissime ripercussioni nel campo organizzativo.
Mancò al partito la possibilità di scegliere, con criteri razionali,
gli elementi di fiducia ai quali assegnare determinati lavori. La
scelta fu fatta empiricamente, secondo le conoscenze personali dei
singoli dirigenti, e cadde il più delle volte su elementi che non
godevano la fiducia delle organizzazioni locali e quindi si vedevano
sabotare. E si aggiunga che il lavoro svolto non veniva controllato che
in minima parte, e quindi nel partito si produsse un vero e proprio
distacco fra la massa e i dirigenti.
Questa
situazione permane ancora e mi pare piena di innumerevoli pericoli.
Nella mia permanenza a Mosca non ho trovato uno solo degli emigrati
politici, ed essi venivano dai punti più diversi d'Italia e sono tra
gli elementi più attivi, che comprendesse la posizione del nostro
partito e che non criticasse acerbamente il CC pur facendo si capisce
le premesse più ampie di disciplina e di obbedienza.
L'errore
del partito è stato quello di aver messo in primo piano e in modo
astratto il problema della organizzazione del partito, che poi ha
voluto dire solamente creare un apparecchio di funzionari i quali
fossero ortodossi verso la concezione ufficiale. Si credeva e si crede
tuttora che la rivoluzione dipende solo dalla esistenza di un tale
apparecchio e si arriva fino a credere che una tale esistenza possa
determinare la rivoluzione.
Il partito ha
mancato di una sua attività organica di agitazione e propaganda che
invece avrebbe dovuto avere tutte le nostre cure e dar luogo al
formarsi di veri e propri specialisti in questo campo. Non si è cercato
di suscitare fra le masse, in ogni occasione, la possibilità di
esprimersi nello stesso senso del partito comunista. Ogni avvenimento,
ogni ricorrenza di carattere locale o nazionale o mondiale avrebbe
dovuto servire per agitare le masse attraverso le cellule comuniste,
facendo votare mozioni, diffondendo manifestini.
Ciò
non è stato casuale. Il partito comunista è stato perfino contrario
alla formazione di cellule di fabbrica. Ogni partecipazione delle masse
alla attività e alla vita interna del partito, che non fosse quella
delle grandi occasioni e in seguito a un ordine formale del centro, era
vista come un pericolo per l'unità e per l'accentramento. Non si era
concepito il partito come il risultato di un processo dialettico in cui
convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la
volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come una qualche
cosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse
raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta
dell'ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando
il centro del partito ritenga di dover iniziare una offensiva e si
abbassi alla massa per stimolarla e portarla all'azione.
Naturalmente,
poiché le cose non procedono in questo modo, si sono formati
all'insaputa del centro dei posti di infezione opportunistica. E questi
avevano il loro riflesso nel gruppo parlamentare e poi lo ebbero, in
una forma più organica, nella minoranza. Questa concezione ha influito
nella questione della fusione. La domanda che sempre veniva rivolta al
Comintern era questa : si crede che il nostro partito sia ancora allo
stato di nebulosa, oppure che esso sia una formazione compiuta? La
verità è che storicamente un partito non è mai definito e non lo sarà
mai, poiché esso si definirà quando sarà diventato tutta la popolazione
e cioè sarà sparito.
Fino alla sua
sparizione per aver raggiunto i fini massimi del comunismo esso
attraverserà tutta una serie di fasi transitorie e assorbirà volta per
volta elementi nuovi nelle due forme storicamente possibili: per
adesione individuale o per l'adesione di gruppi più o meno grandi. La
situazione era resa ancor più difficile per il nostro partito, date le
dissensioni con il Comintern. Se l'Internazionale è un partito
mondiale, anche inteso ciò con molti grani di sale, è evidente che lo
sviluppo del partito e le forme che esso può assumere dipendono da due
fattori e non solamente da uno. Non solo cioè dall'Esecutivo nazionale,
ma anche e specialmente dall'Esecutivo internazionale, che è il più
forte.
Per sanare la situazione, per
ottenere di imprimere allo sviluppo del nostro partito l'impulso che
Bordiga vuole è necessario conquistare l'Esecutivo internazionale, cioè
diventare il perno di tutta un'opposizione. Politicamente si arriva a
questo risultato ed è naturale che l'Esecutivo internazionale cerchi di
spezzare le reni all'Esecutivo italiano. Bordiga ha tutta una
concezione a questo proposito e nel suo sistema tutto è logicamente
coerente e conseguente. Egli pensa che la tattica dell'Internazionale
risenta i riflessi della situazione russa, sia cioè nata sul terreno di
una civiltà capitalistica arretrata e primitiva. Per lui questa tattica
è estremamente volontaristica e teatrale, perché solo con un estremo
sforzo di volontà si poteva ottenere dalle masse russe un'attività
rivoluzionaria che non era determinata dalla situazione storica. Egli
pensa che per i paesi più sviluppati dell'Europa centrale ed
occidentale questa tattica sia inadeguata o addirittura inutile. In
questi paesi il meccanismo storico funziona secondo tutti i crismi
marxistici: c'è la determinazione che mancava in Russia, e perciò il
compito assorbente deve essere quello di organizzare il partito in sé e
per sé.
Io credo che la situazione sia
molto diversa. In primo luogo perché la concezione politica dei
comunisti russi si è formata su un terreno internazionale e non su
quello nazionale; in secondo luogo perché nell'Europa centrale ed
occidentale lo sviluppo del capitalismo ha determinato non solo la
formazione di larghi strati proletari, ma anche e perciò creato lo
strato superiore, l'aristocrazia operaia con i suoi annessi di
burocrazia sindacale e di gruppi socialdemocratici. La determinazione
che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all'assalto
rivoluzionario, nell'Europa centrale ed occidentale si complica per
tutte queste superstrutture politiche, create dal più grande sviluppo
del capitalismo, rende più lenta e più prudente l'azione della massa e
domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una
tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono
necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo ed il novembre
1917.
Ma che Bordiga abbia questa sua
concezione e che cerchi di farla trionfare non solo su scala nazionale,
ma anche su scala internazionale, è una cosa: egli è convinto e lotta
con molta abilità e con molta elasticità per ottenere il suo scopo, per
non compromettere le sue tesi, per dilazionare una sanzione del
Comintern che gli impedisca di continuare fino alla saldatura col
periodo storico in cui la rivoluzione nell'Europa occidentale e
centrale abbia tolto alla Russia il carattere di egemonia che oggi essa
ha.
Ma che noi, che non siamo persuasi
della storicità di questa concezione, continuiamo politicamente ad
affiancarla e a darle quindi tutto il suo valore internazionale è
un'altra cosa. Bordiga si pone dal punto di vista di una minoranza
internazionale. Non possiamo perciò volere il governo del partito sia
dato a rappresentanti della minoranza perché questi sono d'accordo con
l'Internazionale, anche se dopo la discussione aperta del manifesto la
maggioranza del partito rimane con gli attuali dirigenti. E' questo
secondo me il punto centrale, che deve politicamente determinare il
nostro atteggiamento.
Se poi fossimo
d'accordo con le tesi di Bordiga, naturalmente dovremmo porci il
problema se avendo con noi la maggioranza del partito convenga rimanere
nell'Internazionale, diretti nazionalmente dalla minoranza per dar
tempo al tempo e giungere fino a un capovolgimento della situazione che
ci dia ragione teoricamente, o se convenga romperla. Ma se non siamo
d'accordo con le tesi, firmare il manifesto significa assumersi tutta
la responsabilità di questo equivoco. Se si ottiene la maggioranza
sulle tesi di Bordiga accettare la direzione della minoranza noi che
non siamo d'accordo con queste tesi e che potremmo quindi risolvere la
situazione organicamente, oppure rimanere in minoranza, quando per le
nostre concezioni siamo d'accordo con la maggioranza, che si
schiererebbe intorno all'Internazionale. Ciò significherebbe la nostra
liquidazione politica e il distacco da Bordiga in seguito a un tale
stato di cose assumerebbe l'aspetto più antipatico e odioso.
Indicazioni per il lavoro avvenire
Non
voglio dilungarmi molto in questa parte perché essa domanderebbe molto
spazio per essere trattata adeguatamente. Mi accontenterò di alcune
indicazioni.
Il lavoro futuro del partito
dovrà essere rinnovato nei due punti, organizzativo e politico. Nel
campo organizzativo penso sia necessario valorizzare il CC e farlo
lavorare di più, per quanto è possibile data la situazione. Penso che
sia necessario stabilire meglio i rapporti che devono intercorrere fra
i vari organismi di partito, stabilendo più esattamente e rigorosamente
la divisione del lavoro e la fissazione delle responsabilità.
Due
organi e due attività nuove devono essere create: una commissione di
controllo costituita prevalentemente di vecchi operai che deve
giudicare in ultima istanza le questioni litigiose che non abbiano una
immediata ripercussione politica, per le quali non sia quindi
necessario l'immediato intervento dell'Esecutivo. E deve esaminare
continuamente la situazione dei membri del partito per le revisioni
periodiche; un comitato di agitazione e di propaganda che deve
raccogliere tutto il materiale locale e nazionale necessario e utile
per il lavoro di agitazione e di propaganda del partito. Esso deve
studiare le situazioni locali, proporre agitazioni, compilare
manifestini e tesine per indirizzare il lavoro degli organismi locali;
esso deve poggiare su tutta una organizzazione nazionale, il cui nucleo
costitutivo sarà il rione per i grandi centri urbani e il mandamento
per le campagne; esso deve cominciare il suo lavoro da un censimento
dei soci del partito i quali devono essere divisi ai fini della
organizzazione a seconda della anzianità e delle cariche che hanno
coperto, delle capacità che hanno dimostrato oltre evidentemente alle
doti morali e politiche.
Dovrà essere
stabilita una precisa divisione del lavoro tra L'Esecutivo e l'UI.
Stabilite precise responsabilità e competenze che non possano essere
violate senza gravi sanzioni disciplinari. Io penso che questo sia uno
dei lati più deboli del nostro partito e quello che più ha dimostrato
come il centralismo instaurato fosse più una formalità burocratica e
una banale confusione delle responsabilità e delle competenze che un
rigoroso sistema organizzativo.
Nel campo
politico occorre stabilire con esattezza delle tesi sulla situazione
italiana e sulle possibili fasi del suo sviluppo ulteriore. Nel 1921-22
il partito aveva questa concezione ufficiale: che fosse impossibile
l'avvento di una dittatura fascista o militare; a gran stento io
riuscii a far togliere dalle tesi che questa concezione avesse a
diventar scritta, facendo modificare fondamentalmente le tesi 51 e 52
sulla tattica. Ora mi pare che si cada in un altro errore strettamente
legato a quello d'allora. Allora non si valutava l'opposizione sorda e
latente della borghesia industriale contro il fascismo e non si pensava
che fosse possibile il governo socialdemocratico, ma solo una di queste
tre soluzioni: dittatura del proletariato (soluzione meno probabile),
dittatura dello stato maggiore per conto della borghesia industriale e
della corte, dittatura del fascismo; questa concezione ha legato la
nostra azione politica e ci ha condotto a molti errori.
Ora
nuovamente non si tiene conto della emergente opposizione della
borghesia industriale e specialmente di quella che si delinea nel
Mezzogiorno con carattere più recisamente territoriale e quindi
affacciando alcuni aspetti della questione nazionale. E' un po'
opinione che una ripresa proletaria possa e debba avvenire solo a
beneficio del nostro partito. Io credo invece che ad una ripresa il
nostro partito sarà ancora di minoranza, che la maggioranza della
classe operaia andrà con i riformisti e che i borghesi democratici
liberali avranno ancora da dire molte parole. Che la situazione sia
attivamente rivoluzionaria non dubito e che quindi entro un determinato
spazio di tempo il nostro partito avrà con sé la maggioranza; ma se
questo periodo forse non sarà lungo cronologicamente esso sarà
indubbiamente denso di fasi suppletive, che dovremo prevedere con una
certa esattezza per poter manovrare e non cadere in errori che
prolungherebbero le esperienze del proletariato.
Credo
inoltre che il partito debba porsi praticamente alcuni problemi che non
sono mai stati affacciati e la cui soluzione è stata lasciata agli
elementi che ad essi erano strettamente legati. Il problema della
conquista del proletariato milanese è un problema nazionale del nostro
partito, che deve essere risolto con tutti i mezzi che il partito ha a
sua disposizione e non solo con i mezzi milanesi. Se non abbiamo con
noi stabilmente la maggioranza schiacciante del proletariato milanese
non possiamo vincere e mantenere la rivoluzione in tutta Italia.
Occorre perciò portare a Milano elementi operai di altre città,
introdurli a lavorare nelle fabbriche, arricchire l'organizzazione
legale ed illegale di Milano con i migliori elementi di tutt' Italia.
Penso che così ad occhio e croce sia necessario immettere nel corpo
operaio milanese almeno un centinaio di compagni disposti a lavorare a
corpo perduto per il partito.
Un altro
problema di questo tipo è quello dei lavoratori del mare, strettamente
legato al problema della flotta militare. L'Italia vive del mare; non
occuparsi come di uno dei problemi più essenziali e ai quali il partito
deve dedicare le sue maggiori attenzioni, del problema marinaro
vorrebbe dire non pensare concretamente alla rivoluzione. Quando penso
che per molto tempo il dirigente della nostra politica tra i marinai è
stato un ragazzo come il figlio di Caroti mi vengono i brividi.
Altro
problema è quello dei ferrovieri, che noi abbiamo sempre guardato da un
punto di vista puramente sindacale, mentre esso trascende questa
qualità ed è problema nazionale e politico di prim'ordine.
Quarto
ed ultimo di questi problemi è quello del Mezzogiorno, che noi abbiamo
misconosciuto così come facevano i socialisti e abbiamo creduto fosse
risolvibile nell'ambito normale della nostra attività politica
generale. Io sono sempre stato persuaso che il Mezzogiorno diventerebbe
la fossa del fascismo, ma credo anche che esso sarà il maggiore
serbatoio e la piazza d'armi della reazione nazionale e internazionale
se prima della rivoluzione noi non ne studiamo adeguatamente le
questioni e non siamo preparati a tutto.
Credo
di avervi dato un'idea abbastanza chiara della mia posizione e le
differenziazioni che esistono tra essa e quella che risulta dal
manifesto. Poiché penso che voi in gran parte siate più d'accordo con
la mia posizione, nella quale ci siamo trovati insieme per non breve
tempo, spero che abbiate ancora la possibilità di decidere diversamente
da quanto eravate in procinto di fare.
Coi più fraterni saluti
1 marzo 1924 - A Scoccimarro e Togliatti
il
lavoro organizzativo, la tenace e dura lotta per mantenere l'apparato
del partito, sono certo grandi cose: ma non su di esse può farsi il
bilancio di un partito. Vivere non è abbastanza: bisogna avere una
storia, bisogna muoversi e svilupparsi per poter affermare di essere un
organismo politico che ha una base propria e l'avvenire per sé, come
noi vogliamo.
La vostra decisione
migliora enormemente la situazione, evita ogni imbozzolamento
definitivo: evidentemente le difficoltà saranno ancora molte, ma esse
non saranno così inestricabili come si presentavano anteriormente. Noi
possiamo costituire il centro di una frazione che ha per sé tutte le
probabilità di diventare l'intero partito.
La
questione più grave per noi è indubbiamente quella di distinguerci dai
destri: ma non mi pare che essa sia insormontabile, e penso che in gran
parte essa è questione di persone. La distinzione dai sinistri avverrà,
purtroppo, automaticamente, per il solo fatto della nostra posizione.
Credo
sia indispensabile preparare una serie di tesi sulla situazione
italiana, che sia la nostra piattaforma. Per il contenuto delle tesi,
voglio sentire il vostro parere, perché la mancanza di contatto diretto
con gli avvenimenti italiani, che conosco solo per la lettura dei
quotidiani più importanti, mi fa sempre dubitare della fallacia delle
mie conclusioni. Dirò in breve ciò che penso. Dobbiamo insistere poco
sul passato specialmente per ciò che riguarda il nostro Partito.
Accenneremo all'estrema confusione che si è prodotta in Italia per il
fenomeno fascista, determinato dalla mancanza di unità della nazione,
dal dissolvimento dello Stato per l'entrata nella vita storica di
enormi masse popolari che non sapevano contro chi lottare, per la
debolezza di sviluppo del capitalismo che di fatto non ha sottomesso al
suo controllo l'economia del paese, poiché esistono ancora in Italia un
milione di artigiani e la stragrande maggioranza dell'agricoltura è
precapitalistica.
Inoltre la questione
dei rapporti tra città e campagna si pone in Italia, per la questione
meridionale, su una base territoriale netta, determinando la nascita di
partito autonomisti o partiti come la democrazia sociale, di tipo
originale.
Questa confusione la facciamo
servire per spiegare l'incertezza di molti atteggiamenti del Partito e
di un certo settarismo che aveva paralizzato il Partito. Questa
disposizione nei rapporti delle forze politiche del nostro paese ci dà
l'indicazione dell'indirizzo da seguire.
1)
Propaganda minuta e incessante della parola d'ordine del governo
operaio e contadino, che deve scaturire da tutto l'insieme della
situazione italiana e non deve più essere una formula teorica.
2)
Lotta contro l'aristocrazia operaia, cioè contro il riformismo, per
l'alleanza degli strati più poveri della classe operaia settentrionale
con le masse contadine del Mezzogiorno e delle Isole. Creazione di un
Comitato d'organizzazione per il Mezzogiorno che conduca la lotta con
il massimo vigore. Studio delle possibilità militari di una
insurrezione armata nel Mezzogiorno e nelle Isole. Studio della
possibilità di fare alcune concessioni di carattere politico a queste
popolazioni con la formulazione di "Repubblica federativa degli operai
e contadini" invece di governo operaio e contadino.
3)
Riorganizzazione del partito: saturazione di educazione politica per
evitare gravi discussioni e discordie nei momenti culminanti della
nostra attività. Allargamento delle sfera dirigente del partito:
creazione di uno strato nel partito, ottenuto mediante la costituzione
di un Comitato di organizzazione e propaganda, che faccia un inventario
degli elementi aderenti, compili per ognuno un dossier, domandi a
ognuno la sua biografia politica, si tenga a contatto con i migliori,
li stimoli, li controlli, li guidi incessantemente con comunicati e
tesine.
4) Cura maggiore
dell'emigrazione. Creazione all'estero di scuole di partito in ogni
centro importante, con una direzione centrale. Nel CC nuovo mettere tre
o quattro emigrati, come membri effetti e aggiunti che all'estero
tengano alto il prestigio del partito e lavorino efficacemente.
Nei
rapporti internazionali dobbiamo essere espliciti per quanto è
possibile. Dobbiamo affermare la nostra fedeltà al CE, spiegando che
riteniamo le decisioni dal Terzo Congresso in poi, anche per l'Italia,
le uniche che potessero permettere un reale contatto con le masse nel
periodo dell'offensiva capitalistica.
Per
il PSI dobbiamo affermare che è nostro compito risolvere la questione,
che rimarrà fino a quando ci sarà un PS indipendente dagli unitari. La
risolveremo con tutti i mezzi, nessuno escluso. Su questo argomento vi
dirò francamente ciò che penso; solo la nostra debolezza organizzativa,
il nostro scarso contatto con le masse del nostro Partito, ci ha
impedito di accettare le deliberazioni del Comintern. Tutte le teorie e
le concezioni che abbiamo escogitato erano solo un portato della nostra
debolezza. Se il nostro partito si rafforza, come vuole, e come avverrà
se noi sapremo imprimergli una direzione giusta, se riusciamo a creare
un nucleo centrale vasto e bene educato politicamente, quali pericoli
può presentare la tattica del Comintern?
Nessun
altro pericolo che questo: che fuori del partito esistono gruppi più
rivoluzionari del nostro nucleo costitutivo, i quali entrando nella
nostra organizzazione, ne prendano la dirigenza: pericolo che sarebbe
una fortuna dal punto di vista rivoluzionario... a meno che non si cada
nella puerilità di credere che la rivoluzione è garantita solo perché a
capo del Partito proletario ci sono determinate persone che si chiamano
Tizio e Caio invece che Sempronio e Vegenzio.
19 aprile 1924 - A Terracini
voglio
spiegare meglio ciò che ho inteso dire a proposito della azione
sindacale che noi dobbiamo svolgere, perché non sorgano malintesi ed
equivoci dannosi.
Data la mia assenza
dall'Italia per tanto tempo e la mancanza di impressioni concrete e
minute che in queste questioni sono indispensabili, io mi guarderò
sempre bene dal suggerire determinate forme di organizzazione
specialmente illegale.
Io pongo solo alla
discussione dei compagni questo preciso problema: in Italia oggi non
esiste più neppure un minimo di azione sindacale centralizzata. La CGL
e tutte le sue organizzazioni sono cadute in letargia, applicando in
pieno la tattica della passività, del dar tempo al tempo ecc. Noi per
principio e per tutta una serie di considerazioni pratiche che oggi
sostengono il principio, non vogliamo creare una nuova centrale
sindacale. Ma pure qualcosa bisogna fare: le masse operaie sono
relativamente tranquille: scioperi isolati si verificano continuamente.
Se noi poniamo in esecuzione, in tutta la loro estensione, le norme per
l'organizzazione delle cellule d'officina, se noi, come anche tu sei
d'accordo, convochiamo la conferenza di operai di fabbrica, a un certo
punto, anche se non lo vogliamo, ci troviamo dinanzi alla necessità di
svolgere una vera e propria azione sindacale. Se creiamo nella fabbrica
una forza politica, non potremo evitare che essa, automaticamente,
diventi il centro, la rappresentanza di tutta la fabbrica, che da essa
gli operai si attendano consigli e direttive.
Questa
azione sarà vera e propria azione sindacale, dovrà porsi i medesimi e
identici problemi che si ponevano nel passato i consigli di leghe. Noi,
data l'assenza degli organismi ufficiali, dovremo soddisfare tutte le
esigenze delle masse. Che fare dunque? Rinunciare anche
all'organizzazione e all'agitazione, perché da esse, in un certo punto
del loro sviluppo, scaturisce la necessità di una vera e propria
azione? Certamente no. Dunque bisogna risolvere il problema e trovare
una forma che contenga questa sostanza nelle condizioni date
dell'Italia.
Ecco il terreno della
discussione che io ho posto, nei suoi termini più generici. Poiché non
vogliamo creare una nuova centrale sindacale, L'Organizzazione deve
essere illegale, è evidente; praticamente poi noi avremo un vero e
proprio sindacalismo illegale. E' pericoloso? Indubbiamente. Ma in
generale non può essere evitato, se vogliamo lavorare. Credi che le
grandi masse si interessino molto dello scambio di lettere dei comitati
sindacali dei vari partiti? Ciò serve per i comitati stessi e per una
ristretta cerchia di operai simpatizzanti, che in tempi meno aspri
sarebbero nel partito: non servono per nulla a influenzare le grandi
masse. Queste possono solo risentire l'efficacia di un'azione pratica,
che può essere svolta solo da un'organizzazione diffusa nel seno della
grande massa stessa.
Quale è la debolezza
principale della classe operaia italiana? L'isolamento, la dispersione:
noi dobbiamo lottare contro questo stato di cose. Ma faccio un esempio:
se noi avessimo già una diffusa organizzazione nelle fabbriche, è certo
che attraverso una metodica, sistematica campagna, si riuscirebbe ad
ottenere per il primo maggio una buona affermazione.
Come
si crea fra gli operai la convinzione che esiste già una
centralizzazione, che in tutte le fabbriche si fa un uguale lavoro, che
si può tentare un movimento senza che ogni fabbrica tema di rimanere
isolata e quindi schiacciata? Attraverso mezzi molteplici, che nel loro
complesso danno la sensazione voluta. Bisogna, secondo me, far votare
ai nostri gruppi mozioni sugli avvenimenti in corso, a nome
dell'intiera maestranza della fabbrica A,B,C, ecc.; i giornali nostri
pubblicheranno, gli operai leggeranno e sapranno. E così via.
Io
penso che tutta una tecnica nuova deve essere trovata di agitazione e
propaganda e anche di organizzazione. Bisogna ottenere che una grande
parte della massa si abitui all'azione illegale, a mantenere il segreto
ecc.; penso che in questo campo gli operai italiani abbiano fatto molti
passi in avanti, per la dura esperienza. Tanto che, secondo me, si
dovrebbe addirittura porre il problema: a Torino, a Milano, in qualche
altra grande città, organizzare una manifestazione pubblica. Esagerato,
tu dirai. Parlo senza voglia di scherzare. Penso che se a Torino ed a
Milano si riuscisse a concentrare, con una organizzazione ben disposta,
in un dato punto della città, 50.000 operai, non succederebbe una
catastrofe e la cosa avrebbe una enorme ripercussione.
Certo,
pensare oggi a fare qualcosa di simile sarebbe pazzesco, ma dico che
dobbiamo, nello svolgere l'attività che ho sopra accennato, porci il
problema di arrivare ad ottenere un risultato di tal genere. Credo di
essermi spiegato abbastanza. In ogni modo tieni presente che io
propongo queste considerazioni alla discussione dei compagni e
nient'altro. Penso che non siano assolutamente utopistiche. Bisogna
pure uscire dalla morta gora. Bisogna pure uscire dalla situazione
attuale che poi si conclude in scambi di lettere ed in sedute di
comitati. Certo occorre molto riflettere, ponderare, trovare le forme
migliori di organizzazione, abituare i compagni al lavoro concreto ecc.
ecc. Ma, insomma, bisogna pure incominciare, e almeno incominciare a
discutere tra noi, per avere idee chiare e direttive precise. In ciò
almeno credo che tu sia d'accordo.
aprile 1924 - A Tresso
io
non faccio questioni di maggior pericolo a sinistra che a destra. Per
noi, nella attuale situazione, la questione concreta è quella di
differenziarsi dalla sinistra, ecco tutto. Sono, sì o no, in questi
termini i fatti? Ecco la domanda a cui bisogna rispondere e, dopo aver
risposto, occorre tirarne tutte le conseguenze logiche che dalla
risposta dipendono.
Tu non hai voluto
firmare il manifesto delle sinistre. Ma che cosa era questo manifesto?
Era l'unico terreno che Bordiga riteneva possibile per continuare nella
collaborazione con quella che dirò la nostra tendenza generale. Tu non
hai voluto firmare il manifesto, così come ho fatto io; perché? Perché
hai ritenuto che questo unico terreno fosse piuttosto una bottiglia. Ma
allora cosa intendi fare? Quali suggerimenti offri? Delle frasi
generali: il pericolo è maggiore a destra che a sinistra ecc. Questo
può essere vero a lungo andare, cioè negli sviluppi ulteriori della
nostra situazione.
Ma oggi,
immediatamente, bisogna spiegare alle masse del partito perché nella
maggioranza sia avvenuta la rottura. Questa spiegazione tu non la puoi
solo dare facendo la polemica contro la destra, ciò che sarebbe puerile
ed avrebbe l'aria di un ripiego furbescamente ridicolo. Questa
spiegazione la puoi dare solo facendo una polemica con Bordiga: non c'è
scampo, non si può sfuggire a ciò, altro che ritirandosi nell'ombra e
lasciando che gli altri tolgano le castagne dal fuoco. Entro quali
limiti dovrà essere tenuta questa polemica? In quali punti del nostro
gruppo siamo perfettamente d'accordo ed in quali invece non lo siamo? I
punti su cui siamo d'accordo sono essenziali o secondari; offrono il
terreno per un raggruppamento permanente e suscettibile di sviluppo
oppure no? Ecco le questioni concrete che noi dobbiamo porci e alla
soluzione delle quali tu non contribuirai se continui solo ad esprimere
dubbi, timori, a vedere pericoli, a fare affermazioni generali.
Non
so da quale mia affermazione tu abbia tratto la conseguenza che io
voglia assimilare a destra ed espellere a sinistra. Ciò è fantastico.
Per me il problema si presenta così: a destra non potremo mai espellere
gli elementi anticomunisti, fino a che la destra si presenterà come un
insieme apparentemente omogeneo nel sostenere e difendere il punto di
vista del Comintern. Ecco uno dei punti su cui io mi baso per criticare
la sinistra: aver lasciato creare una posizione simile, che nel quadro
del "partito mondiale" è contro di noi. La minoranza infatti si
presenta come la maggioranza internazionale e noi, che diciamo di
essere per il partito mondiale, ci insacchiamo bellamente, a meno che
non accettiamo il punto di vista di Bordiga del credo internazionale,
dell'organizzazione rigida, ecc.: accettazione che ci salverebbe solo
la faccia, d'altronde, perché nei congressi questo punto di vista
sarebbe respinto come meccanico ed astratto.
D'altronde
il partito non è un club di amici cordiali che si sbaciucchiano ad ogni
istante e si fanno continuamente dichiarazioni di stima fino al
millesimo spaccato. Il partito è specialmente un organismo politico e
da questo punto di vista bisogna sempre porre le questioni. Bisogna
essere cauti? D'accordo. Ma che forma pratica deve assumere questa
cautela? Ecco il punto. Consisterà nell'aver sempre il viso allarmato,
nella diffidenza continua di carattere esteriore, nel piantar grane ad
ogni passo? D'altra parte si risponderà con mezzi dello stesso calibro,
con le insinuazioni, con le diffamazioni e il partito sarà nel suo
insieme avvelenato dallo spirito di fazione e dalle questioni
personali.
La soluzione deve essere
quindi politica e nella lotta politica devono trovare il loro
equilibrio e la loro giusta fisionomia le diverse posizioni
individuali. Per la sinistra. Nessuna prospettiva di espulsione. Ma
tuttavia occorre porsi chiaramente il problema di ciò che può avvenire
se Bordiga spinge sino alle estreme conseguenze la sua posizione.
Caro
Tresso, non io pongo artificialmente il problema: esso esiste di per sé
e sarebbe criminoso non accorgersene, per le conseguenze che ne possono
derivare. Penso che tu non ti renda conto sufficientemente che Bordiga
non è un uomo di paglia, che fa dei bei gesti per i bei gesti: egli è
fermamente convinto di ciò che pensa e può darsi non esiterà a spingere
fino in fondo. Può darsi e non può darsi evidentemente. Ma noi dobbiamo
sempre porci l'ipotesi peggiore per essere più vicini alla realtà.
Che
fare? Non abbiamo da scegliere, come pare tu creda. Dobbiamo
organizzare il nostro gruppo in modo che qualsiasi atteggiamento
Bordiga prenda, esso sia il meno dannoso per l'insieme del partito. Io
penso addirittura che se Bordiga ha l'impressione di aver pochi
seguaci, sarà più prudente e sarà anche possibile che egli lavori nel
centro. E' un uomo pratico, non un Donchisciotte, e vuole che le
iniziative diano dei frutti e non siano solo dei gesti. Così non sono
d'accordo con te per ciò che dici sulla disciplina, che mi pare sia
concepita deccanicamente e soldatescamente. Per imporre
una disciplina bisogna possedere un centro forte che svolga una
politica adeguata.
Contro il pessimismo
"L'Ordine Nuovo", 15 marzo 1924
Nessun modo migliore
può esistere di commemorare il quinto anniversario dell'Internazionale
comunista, della grande associazione mondiale di cui ci sentiamo, noi
rivoluzionari italiani, più che mai parte attiva e integrante, che
quello di fare un esame di coscienza, un esame del pochissimo che
abbiamo fatto e dell'immenso lavoro che ancora dobbiamo svolgere,
contribuendo specialmente a dissipare questa oscura e greve nuvolaglia
di pessimismo che opprime i militanti più qualificati e responsabili e
che rappresenta un grande pericolo, il più grande forse del momento
attuale, per le sue conseguenze di passività politica, di torpore
intellettuale, di scetticismo verso l'avvenire.
Questo
pessimismo è strettamente legato alla situazione generale del nostro
paese; la situazione lo spiega, ma non lo giustifica, naturalmente. Che
differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, tra la nostra
volontà e la tradizione del partito se anche noi sapessimo lavorare e
fossimo attivamente ottimisti solo nei periodi di vacche grasse, quando
la situazione è propizia, quando le masse lavoratrici si muovono
spontaneamente, per impulso irresistibile, e i partiti proletari
possono accomodarsi nella brillante posizione della mosca cocchiera?
Che
differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, se anche noi,
partendo sia pure da altre considerazioni, da altri punti di vista,
avendo sia pure un maggior senso di responsabilità e dimostrando di
averlo con la preoccupazione fattiva di apprestare forze organizzative
e materiali idonee per parare ogni evenienza, ci abbandonassimo al
fatalismo, ci cullassimo nella dolce illusione che gli avvenimenti non
possono che svolgersi secondo una determinata linea di sviluppo, quella
da noi prevista, nella quale troveranno infallibilmente il sistema di
dighe e di canali da noi predisposti, incanalandosi e prendendo forma e
potenza storica in esso?
E' questo il
nodo del problema, che si presenta astrusamente aggrovigliato, perché
la passività sembra esteriormente alacre lavoro, perché pare ci sia una
linea di sviluppo, un filone in cui operai sudano e si affaticano a
scavare meritoriamente.
L'Internazionale
comunista è stata fondata il 5 marzo 1919, ma la sua formazione
ideologica e organica si è verificata solo al II Congresso, nel
luglio-agosto 1920, con l'approvazione dello statuto e delle 21
condizioni. Dal II Congresso comincia in Italia la campagna per il
risanamento del Partito socialista, comincia su scala nazionale, perché
essa era stata già iniziata nel marzo precedente dalla sezione di
Torino con la mozione da presentare all'imminente Conferenza nazionale
del partito che appunto a Torino doveva tenersi ma non aveva trovato
ripercussioni notevoli (alla Conferenza di Firenze della frazione
astensionista, tenuta nel luglio del 1920, prima del II Congresso, fu
respinta la proposta fatta da un rappresentante dell' "Ordine Nuovo" di
allargare la base della frazione, facendola diventare comunista, senza
la pregiudiziale astensionista che praticamente aveva perduto gran
parte della sua ragione di essere).
Il
Congresso di Livorno, la scissione avvenuta al Congresso di Livorno
furono riallacciati al II Congresso, alle sue 21 condizioni, furono
presentati come una conclusione necessaria delle deliberazioni
"formali" del II Congresso. Fu questo un errore, e oggi possiamo
valutarne tutta l'estensione per le conseguenze che esso ha avuto. In
verità le deliberazioni del II Congresso erano l'interpretazione viva
della situazione italiana, come di tutta la situazione mondiale, ma
noi, per una serie di ragioni, non muovemmo, per la nostra azione, da
ciò che succedeva in Italia, dai fatti italiani che davano ragione al
II Congresso, che erano una parte e delle più importanti della sostanza
politica che animava le decisioni e le misure organizzative prese dal
II Congresso: noi, però, ci limitammo a batter sulle quistioni formali,
di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la
maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto,
non venne con noi, quantunque noi avessimo dalla nostra parte
l'autorità e il prestigio dell'Internazionale che erano grandissimi e
sui quali ci eravamo fidati.
Non avevamo
saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di
raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli
elementi costitutivi del Partito socialista; non avevamo saputo
tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino
italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni
1919-20; non abbiamo saputo, dopo Livorno, porre il problema del perché
il congresso avesse avuto quella conclusione; non abbiamo saputo porre
il problema praticamente, in modo da trovarne la soluzione, in modo da
continuare la nostra specifica missione che era quella di conquistare
la maggioranza del popolo italiano.
Fummo
- bisogna dirlo - travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un
aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata
un crogiolo incandescente, dove tutte le tradizioni, tutte le
formazioni storiche, tutte le idee prevalenti si fondevano qualche
volta senza residuo: avevamo una consolazione, alla quale ci siamo
tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo aver
previsto matematicamente il cataclisma, quando gli altri si cullavano
nella più beata e idiota delle illusioni.
Siamo
entrati, dopo la scissione di Livorno, in uno stato di necessità. Solo
questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti, alla
nostra attività dopo la scissione di Livorno: la necessità che si
poneva crudamente, nella forma più esasperata, nel dilemma di vita o di
morte. Dovemmo organizzarci in partito nel fuoco della guerra civile,
cementando le nostre sezioni col sangue dei più devoti militanti;
dovemmo trasformare, nell'atto stesso della loro costituzione, del loro
arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, della
più atroce e difficile guerriglia che mai la classe operaia abbia
dovuto combattere.
Si riuscì tuttavia: il
partito fu costituito e fortemente costituito; esso è una falange di
acciaio, troppo piccola certamente per entrare in una lotta contro le
forze avversarie, ma sufficiente per diventare l'armatura di una più
vasta formazione, di un esercito che, per servirsi del linguaggio
storico italiano, possa far succedere la battaglia del Piave alla rotta
di Caporetto.
Ecco il problema attuale
che si pone, inesorabilmente: costituire un grande esercito per le
prossime battaglie, costituirlo inquadrandolo nelle forze che da
Livorno a oggi hanno dimostrato di saper resistere, senza esitazioni e
senza indietreggiamenti, all'attacco violentemente sferrato dal
fascismo. Lo sviluppo dell'Internazionale comunista dopo il II
Congresso ci offre il terreno adatto a ciò, interpreta, ancora una
volta, - con le deliberazioni del III e del IV Congresso, deliberazioni
integrate da quelle degli Esecutivi allargati del febbraio e giugno
1922 e del giugno 1923, - la situazione e i bisogni della situazione
italiana.
La verità è che noi, come
partito, abbiamo già fatto alcuni passi in avanti in questa direzione:
non ci rimane che prendere atto di essi e arditamente continuare. Che
significato hanno infatti gli avvenimenti svoltisi nel seno del Partito
socialista con la scissione dai riformisti in un primo tempo, con
l'esclusione dei redattori di "Pagine rosse" in un secondo tempo e col
tentativo di escludere tutta la frazione terzinternazionalista in un
terzo ed ultimo tempo? Hanno questo preciso significato: che mentre il
nostro partito era costretto, come sezione italiana, a limitare la sua
attività alla lotta fisica di difesa contro il fascismo e alla
conservazione della sua struttura primordiale, esso, come partito
internazionale, operava, continuava a operare per aprire nuove vie
verso il futuro, per allargare la sua cerchia di influenza politica,
per far uscire dalla neutralità una parte della massa che prima stava a
guardare indifferente o titubante.
L'azione
dell'Internazionale fu, per qualche tempo, la sola che abbia permesso
al nostro partito di avere un contatto efficace con le larghe masse,
che abbia conservato un fermento di discussione e un principio di
movimento in strati cospicui della classe operaia, che a noi era
impossibile, nella situazione data, altrimenti raggiungere. E' stato
indubbiamente un grande successo l'aver strappato dalla ganga del
Partito socialista dei blocchi, aver ottenuto, quando la situazione
pareva peggiore, che dall'amorfa gelatina socialista si costituissero
nuclei i quali affermavano di aver fede, nonostante tutto, nella
rivoluzione mondiale, i quali, coi fatti se non con le parole, che pare
brucino più dei fatti, riconoscevano di aver errato nel 1920-21-22.
E'
stata questa una sconfitta del fascismo e della reazione: è stata, se
vogliamo essere sinceri, l'unica sconfitta fisica e ideologica del
fascismo e della reazione in questi tre anni di storia italiana.
Occorre reagire energicamente contro il pessimismo di alcuni gruppi del
nostro partito, anche dei più responsabili e qualificati. Esso
rappresenta, in questo momento, il più grave pericolo, nella situazione
nuova che si sta formando nel nostro paese e che troverà la sua
sanzione e la sua chiarificazione nella prima legislatura fascista.
Si
approssimano grandi lotte, forse più sanguinose e pesanti di quelle
degli anni scorsi: è necessario perciò la massima energia dei nostri
dirigenti, la massima organizzazione e centralizzazione nella massa del
partito, un grande spirito di iniziativa e una grandissima prontezza di
decisione. Il pessimismo prende prevalentemente questo tono: ritorniamo
a una situazione pre-Livorno, dovremo rifare lo stesso lavoro che
abbiamo fatto prima di Livorno e che credevamo definitivo.
Bisogna
dimostrare a ogni compagno come sia errata politicamente e teoricamente
questa posizione. Certo bisognerà ancora lottare fortemente; certo il
compito del nucleo fondamentale del nostro partito costituitosi a
Livorno non è ancora finito e non lo sarà per un pezzo ancora (esso
sarà ancora vivo e attuale anche dopo la rivoluzione vittoriosa). Ma
non ci troveremo più in una situazione pre-Livorno, perché la
situazione mondiale e italiana non è, nel 1924, quella del 1920, perché
noi stessi non siamo più quelli del 1920 e non lo vorremmo mai più
ridiventare. Perché la classe operaia italiana è molto mutata, e non
sarà più la cosa più semplice di questo mondo farle rioccupare le
fabbriche con, per cannoni, dei tubi di stufa, dopo averle intronato le
orecchie e smosso il sangue con la turpe demagogia delle fiere
massimaliste. Perché esiste il nostro partito, che è pur qualcosa, e
nel quale noi abbiamo una fiducia illimitata, come nella parte
migliore, più sana, più onesta del proletariato italiano.
Conferenza di Como
"Lo Stato operaio", 29 maggio 1924
L'intervento di Gramsci
Ho
constatato che lo stato d'animo dei compagni si esprime soprattutto
contro il cosiddetto "centro" del partito e trovo strano che in seno al
Partito comunista abbia ancora tanto valore una questione di
nomenclatura. E' necessario studiare i problemi da un punto di vista
più serio e più concreto.
Il
compagno Bordiga afferma di non avere neppure tentato di costituire una
vera e propria frazione in seno al partito. Ma è indiscutibile che da
quando un compagno che ha una personalità come quella del Bordiga si
tiene in disparte senza più partecipare attivamente al lavoro del
partito, questo solo fatto è sufficiente a creare nei compagni uno
stato d'animo di frazione. Di questo fatto bisogna tenere conto per
giudicare il nostro atteggiamento nel presente dibattito.
Noi
non dobbiamo del resto faticare molto per trovare quali sono le nostre
origini. Nel 1919-20 esistevano in Italia tre tendenze che si sono poi
riunite nel Partito comunista: quella che era rappresentata dall'
"Ordine Nuovo" di Torino, quella astensionista ed una terza infine, che
solo ora tende a chiarificarsi e che riuniva tutti quei compagni che
sono entrati nel partito colla scissione di Livorno pur non
appartenendo a nessuna delle due tendenze a cui ho accennato in
precedenza. Noi della tendenza dell' "Ordine Nuovo" abbiamo sempre
ritenuto necessario, anche prima della costituzione del partito,
appoggiarci alla sinistra anziché alla destra. Un diverso contegno
ritenevamo avrebbe portato alla valorizzazione di tendenze da cui ci
sentiamo molto lontani. A questo proposito rammento che a Torino,
immediatamente prima e dopo lo sciopero generale dell'aprile 1920,
siamo venuti a una rottura con il gruppo di cui il compagno Tasca era
l'esponente e, vedendo il pericolo opportunistico della destra, abbiamo
preferito allearci con gli astensionisti e in un certo momento anzi
lasciare nelle loro mani tutta la dirigenza della Sezione.
Secondo
molti compagni l'occupazione delle fabbriche rappresentò il punto
massimo dello sviluppo rivoluzionario del proletariato italiano. Per
noi con quell'avvenimento si iniziava il periodo della decadenza del
movimento operaio. Ebbene, considerando allora quali forze del
movimento socialista fossero le più capaci ad arginare la sconfitta noi
fummo ancora una volta colla sinistra. E pensammo che senza gli
astensionisti il Partito comunista non si potesse costituire. Anche
attualmente noi manteniamo questo punto di vista, ma non possiamo,
d'altra parte nasconderci gli errori che la sinistra ha compiuto.
E' bene, a questo proposito, che si ricordi
che il voto sulle tesi di Roma ebbe carattere puramente di massima e
consultivo e che quelle tesi avrebbero dovuto essere ripresentate al
partito - con qualche modificazione, eventualmente - dopo il IV
Congresso della III Internazionale. Purtroppo questo non è potuto
avvenire a causa dell'aggravarsi della situazione generale.
Ma
oggi la situazione non è più uguale a quella esistente nel 1921 e nel
1922. Vi è un inizio di ripresa del movimento operaio. Quale
svolgimento avrà essa? E' certo che essa non potrà non subire le
influenze dell'esperienza che tutte le classi e tutti i partiti
politici hanno compiuto negli ultimi anni. Questa esperienza ha fatto
assumere ad ogni gruppo una sua fisionomia. Nel 1919 e nel 1920 tutta
la popolazione lavoratrice - dagli impiegati del Nord e della capitale
ai contadini del Mezzogiorno - seguiva, magari inconsciamente, il
movimento generale del proletariato industriale. Oggi la situazione è
mutata, e solo attraverso ad un lungo e lento lavoro di
riorganizzazione politica il proletariato potrà tornare ad essere
fattore dominante della situazione. Noi riteniamo che questo lavoro non
può essere svolto mantenendosi sulle direttive che il compagno Bordiga
vorrebbe mantenere al partito.
La
recente affermazione elettorale del nostro partito ha certamente un
grande valore, ma è indiscutibile che manca al nostro movimento
l'adesione della maggioranza del proletariato.
BORDIGA
- L'avremmo se non avessimo mutato la nostra tattica nei confronti del
Partito socialista! Del resto noi non abbiamo fretta.
GRAMSCI
- Noi invece abbiamo fretta! Vi sono delle situazioni in cui il "non
aver fretta" provoca la disfatta. Nel 1920, ad esempio, bisognava aver
fretta. Io mi ricordo che nel luglio di quell'anno mi recai al Convegno
astensionista di Firenze a proporre la creazione e la costituzione di
una frazione comunista nazionale. Il compagno Bordiga anche allora "non
ebbe fretta" e respinse la nostra proposta, in modo che l'occupazione
delle fabbriche avvenne senza che esistesse in Italia una frazione
comunista organizzata capace di lanciare una parola d'ordine nazionale
alle masse che seguivano il Partito socialista. Anche il fattore
"tempo" ha importanza. Talvolta esso ha anzi un'importanza
capitale.
Ho l'impressione che i
compagni i quali fino ad ora hanno espresso il loro pensiero abbiano
dimenticato quale è il problema fondamentale che oggi si pone al nostro
partito: quello dei rapporti coll'Internazionale comunista.
L'atteggiamento del compagno Bordiga può anche, in un certo senso,
essere utile, ma il suo errore consiste nel non rendersi conto della
necessità per il partito di aver risolto il problema dei rapporti
coll'Internazionale.
L'atteggiamento
di Bordiga non può del resto avere altra conseguenza se non quella di
far sorgere un gruppo di elementi eterogenei, i quali possono trovare
un motivo di unità e di consistenza nel fatto di dichiararsi "per
l'Internazionale". Questa conseguenza che già si è avuta a deplorare
una volta, sta a provare quanto l'atteggiamento di Bordiga sia in sé
sbagliato. Ad esso è da attribuire l'origine della "minoranza". Nei
confronti dei compagni della minoranza la situazione è oggi in parte
modificata in seguito alla dichiarazione avvenuta in mezzo ad essi, ma
non tutte le divergenze sono scomparse. Sul programma politico attuale
la minoranza afferma che non esiste alcun disaccordo; in realtà io
ricordo che a Mosca, ad esempio, il compagno Tasca si è opposto alla
formula dello spostamento dei sindacati nella fabbrica. Oggi questo
problema è uno dei più importanti che si presentino al nostro
partito.
Esso si pone in questi
termini: come il Partito comunista - centro effettivo dell'avanguardia
rivoluzionaria - deve guidare le lotte sindacali della classe operaia?
Creare le cellule di officina, sta bene: ma che lavoro queste debbono
svolgere? Noi siamo convinti che scomparse, se non formalmente almeno
come funzione, le commissioni interne, gli operai si rivolgeranno alle
cellule comuniste non solo per le questioni di carattere politico ma
anche per la loro difesa sindacale, e che è perciò necessario che i
compagni si trovino preparati a compiere anche questo lavoro. Occorrerà
che questi problemi siano ampiamente esaminati e approfonditi, tanto
più perché ci troviamo a un punto decisivo della storia del movimento
operaio italiano. I compagni della sinistra protestano la loro
disciplina all'Internazionale. Noi diciamo loro: "Non basta dichiarare
di essere disciplinati. Bisogna mettersi sul piano di lavoro indicato
dall'Internazionale". Se l'Internazionale ha fatto finora - per ragioni
a tutti note - delle concessioni ciò non può continuare nell'avvenire
poiché porterebbe alla disgregazione dell'Internazionale stessa.
(…)
Non tutti i lavoratori possono
comprendere tutto lo sviluppo della rivoluzione. Oggi ad esempio i
lavoratori italiani del Mezzogiorno sono senza dubbio rivoluzionari,
eppure continuano a giurare per Di Cesarò e per De Nicola. Noi dobbiamo
tener conto di questi stati d'animo e cercare i mezzi per vincerli. Se
i comunisti vanno tra i contadini del Mezzogiorno a parlare del loro
programma non sono compresi. Se uno di noi andasse al mio paese a
parlare di "lotta contro i capitalisti" si sentirebbe dire che i
"capitalisti" non esistono in Sardegna... Eppure anche queste masse
debbono essere conquistate.
Noi
abbiamo la possibilità; date le condizioni stesse create dal fascismo,
di iniziare nel Mezzogiorno un movimento antireazionario di masse. Ma
bisogna conquistare queste masse e questo si fa soltanto partecipando
alle lotte che esse conducono per conquiste e rivendicazioni parziali.
Queste sono le nostre idee sui problemi dell'ora. Ripeto che i compagni
non devono fare una questione di nomenclatura: nel 1919 Buozzi
rimproverava a noi di fare - attraverso i Consigli di fabbrica -
un'opera troppo riformista. Noi ridemmo allora, e i fatti hanno
dimostrato chi era riformista e chi era rivoluzionario. Si pongano, i
compagni, delle questioni concrete e rammentino che in questo momento
la più importante questione è quella dei rapporti del partito nostro
con l'Internazionale comunista.
Il destino di Matteotti
"Lo Stato operaio", 28 agosto 1924
Vi è una espressione incisiva del compagno Radek, da lui usata nel commemorare, in una assemblea di comunisti, al congresso della Internazionale, un militante del nazionalismo tedesco fucilato nella Ruhr dai nazionalisti francesi che ci torna a mente ogni volta che pensiamo al destino di Giacomo Matteotti. «Pellegrino del nulla» chiamava il compagno Radek il combattente sfortunato, ma tenace fino al sacrificio di sé, di una idea la quale non può condurre i suoi credenti e militanti ad altro che ad un inutile circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultato e senza via di uscita. «Pellegrino del nulla» appare a noi Giacomo Matteotti quando consideriamo la sua vita e la sua fine in relazione con tutte le circostanze che danno ad esse un valore non più «personale», ma di indicazione generale e di simbolo.
Esiste una crisi della società italiana, una crisi che trae la sua origine dai fattori stessi di cui questa società è costituita e dai loro irriducibili contrasti; esiste una crisi che la guerra ha accelerata, approfondita, resa insuperabile. Da una parte vi è uno Stato che non si regge perché gli manca l'adesione delle grandi masse e gli manca una classe dirigente che sia capace di conquistargli questa adesione; dall'altra parte vi è una massa di milioni di lavoratori i quali si sono lentamente venuti risvegliando alla vita politica, i quali chiedono di prendere ad essa una parte attiva, i quali vogliono diventare la base di uno «Stato» nuovo in cui si incarni la loro volontà. Vi è da una parte un sistema economico che non riesce più a soddisfare i bisogni elementari della maggioranza enorme della popolazione, perché è costruito per soddisfare gli interessi particolari ed esclusivistici di alcune ristrette categorie privilegiate; vi sono dall'altra parte centinaia di migliaia di lavoratori i quali non possono più vivere se questo sistema non viene modificato dalle basi.
Da quarant'anni la società italiana sta cercando invano il modo di uscire da questi dilemmi. Ma il modo di uscirne è uno solo. È che le centinaia di migliaia di lavoratori, che la grande maggioranza della popolazione lavoratrice italiana sia guidata a superare il contrasto spezzando i quadri dell'ordine politico ed economico attuale e sostituendo ad esso un ordine nuovo di cose, nel quale gli interessi e le volontà di chi lavora e produce trovino soddisfazione ed espressione complete. Il risveglio degli operai e dei contadini d'Italia iniziatosi, sotto la guida di animosi pionieri, or sono alcune decine di anni, lasciava sperare che questa strada stesse per essere presa e seguita, senza esitazione e senza incoerenze, fino alla fine.
Anche Giacomo Matteotti fu, se non per l'età, per la scuola politica cui appartenne, di questi pionieri. Egli fu di coloro a cui il proletariato italiano chiedeva di essere guidato a creare in se stesso la propria economia, il proprio Stato, il proprio destino, fu di coloro da cui dipese la soluzione, la sola possibile soluzione, della crisi italiana. Ricordare come la guida sia, praticamente, venuta meno e il movimento sia esaurito in se stesso, lasciando aperta la via al trionfo sfacciato dei suoi più fieri nemici, è superfluo, forse, ricordare oggi, se non per mettere in luce la contraddizione interna, insanabile che viziava dalle fondamenta la concezione politica e storica di questi primi capi della riscossa degli operai e dei contadini d'Italia, che condannava l'azione a un insuccesso tragico, pauroso.
Il risvegliare alla vita civile, alle rivendicazioni economiche e alla lotta politica le decine e centinaia di migliaia di contadini e di operai è cosa vana, se non si conclude con la indicazione dei mezzi e delle vie per cui le forze risvegliate delle masse lavoratrici potranno giungere a una concreta e completa affermazione di sé. A questa conclusione, i pionieri del movimento di riscossa dei lavoratori italiani non seppero giungere. L'azione loro, mentre faceva crollare i cardini di un sistema economico, non prevedeva la creazione di un diverso sistema, nel quale i limiti del primo fossero per sempre superati e abbattuti. Iniziava una serie di conquiste e non pensava alla difesa di esse. Dava ad una classe coscienza di sé e dei propri destini, e non le dava la organizzazione di combattimento senza la quale questi destini non si potranno mai realizzare. Poneva le premesse di una rivoluzione, e non creava un movimento rivoluzionario. Scuoteva le basi di uno Stato, e credeva di poter eludere il problema della creazione di uno Stato nuovo. Scatenava la ribellione, e non sapeva guidarla alla vittoria. Parlava da un desiderio generoso di redenzione totale, e si esauriva miseramente nel nulla di una azione senza vie di uscita, di una politica senza prospettiva, di una rivolta condannata, passato il primo istante di stupore e di smarrimento degli avversari, a essere soffocata nel sangue e nel terrore della riscossa reazionaria.
Il sacrificio eroico di Giacomo Matteotti è per noi l'ultima espressione, la più evidente, la più tragica ed elevata, di questa contraddizione interna di cui tutto il movimento operaio italiano per anni ed anni ha sofferto. Ma se l'impeto di riscossa e gli sforzi tenaci durati nel passato, hanno potuto essere vani, se ha potuto crollare paurosamente, in tre anni, l'edificio pezzo a pezzo così faticosamente costruito, non deve, non può rimanere vano questo sacrificio supremo, in cui tutto l'insegnamento di un passato di dolori e di errori si riassume.
Ieri, mentre i resti di Giacomo Matteotti scendevano nella tomba, e al triste rito volgevano le menti, da tutte le terre d'Italia, tutti i lavoratori delle officine e dei campi, e dal Polesine e dal Ferrarese schiavi muovevano, a frotte per essere in persona presenti ad esso, i contadini e gli operai che della loro redenzione non disperano ancora, ieri, commemorando Matteotti, un gruppo di operai riformisti chiedeva la tessera del Partito comunista d'Italia. E noi abbiamo sentito che in questo atto vi è qualche cosa che spezza il circolo vizioso degli sforzi vani e dei sacrifici inutili, che supera le contraddizioni per sempre, che indica al proletariato italiano quale insegnamento deve trarsi dalla fine del pioniere caduto sulle proprie orme, senza più avere una via aperta a sé.
I semi gettati da chi ha lavorato per il risveglio, della classe lavoratrice italiana non possono andare perduti. Una classe che si è una volta risvegliata dalla schiavitù non può rinunciare a combattere per la sua redenzione. La crisi della società italiana che da questo risveglio è stata acuita fino alla esasperazione non si supera col terrore; essa non si concluderà se non con l'avvento al potere dei contadini e degli operai, con la fine del potere delle caste privilegiate, con la costruzione di una nuova economia, con la fondazione di un nuovo Stato. Ma per questo occorre che una organizzazione di combattimento sia creata, alla quale gli elementi migliori della classe lavoratrice aderiscano con entusiasmo e convinzione, attorno alla quale le grandi masse si stringano fiduciose e sicure.
È necessaria una organizzazione nella quale prende carne e figura una volontà chiara di lotta, di applicazione di tutti i mezzi che dalla lotta sono richiesti, senza i quali nessuna vittoria totale mai ci sarà data. Una organizzazione che sia rivoluzionaria non solo nelle parole e nelle aspirazioni generiche, ma nella struttura sua, nel suo modo di lavorare, nei suoi fini immediati e lontani. Una organizzazione il cui proposito di riscossa e di liberazione delle masse diventi qualcosa di concreto e definito, diventi capacità di lavoro politico ordinato, metodico, sicuro, capacità non solo di conquiste immediate e parziali, ma di difesa di ogni conquista realizzata e di passaggio a conquiste sempre più alte e a quella che tutto le deve garantire: la conquista del potere, la distruzione dello Stato dei borghesi e dei parassiti, la sostituzione ad esso di uno Stato di contadini e di operai. Queste cose hanno inteso gli operai riformisti che nel ricordare il loro capo caduto hanno chiesto di entrare nel nostro partito.
Il sacrificio di Matteotti - essi dicono ai loro compagni - si celebra lavorando alla creazione del solo strumento per cui l'idea da cui egli era mosso, l'idea della redenzione completa dei lavoratori, possa ricevere attuazione e realtà: il partito di classe degli operai, il partito, della rivoluzione proletaria. Il sacrificio di Matteotti è celebrato nel solo modo degno e profondo dai militanti che nelle file del partito e della Internazionale comunista si stringono per prepararsi a tutte le lotte del domani. Solo per essi la classe operaia cesserà di essere «pellegrina del nulla», cesserà di passare di delusione in delusione, di sconfitta in sconfitta, di sacrificio in sacrificio, per voler risolvere il contraddittorio problema di creare un mondo nuovo senza mandare in pezzi questo vecchio mondo che ci opprime, solo per essi la classe operaia diventerà libera e padrona dei propri destini.
Né fascismo né liberalismo: soviettismo!
"L'Unità", 7 ottobre 1924
Nella crisi politica
di liquidazione del fascismo il blocco delle opposizioni appare sempre
più come un fattore di secondario ordine. La sua composizione sociale
eterogenea, le sue esitazioni e la sua avversione ad una lotta della
massa popolare contro il regime fascista, riducono la sua azione ad una
campagna giornalistica e a degli intrighi parlamentari che si urtano
impotenti di fronte alla milizia armata del Partito fascista.
Nel
movimento di opposizione al fascismo la parte più importante è passata
al Partito liberale perché il blocco non ha altro programma da opporre
al fascismo che il vecchio programma liberale della democrazia borghese
parlamentare, il ritorno alla costituzione, alla legalità, alla
democrazia. Nella discussione sulla successione al fascismo a proposito
del congresso del Partito liberale, il popolo italiano è posto, dalle
opposizioni, di fronte alla scelta: o fascismo o liberalismo; o un
governo Mussolini di dittatura sanguinaria o un governo Salandra,
Giolitti, Amendola, Turati, don Sturzo, Vella, tendente a ristabilire
la buona vecchia democrazia liberale italiana sotto la cui maschera la
borghesia continuerà ad esercitare il suo dominio di sfruttamento.
L'operaio,
il contadino, il quale odia il fascismo che da anni l'opprime, crede
dunque necessario per abbatterlo di allearsi alla borghesia liberale,
di appoggiare coloro che nel passato, quand'erano al potere, hanno
sostenuto e armato il fascismo contro gli operai e i contadini quali
ancora pochi mesi or sono formavano un solo blocco con il fascismo e ne
condividevano pienamente tutta la responsabilità dei delitti? Ed è così
che si pone il problema della liquidazione del fascismo? No! La
liquidazione del fascismo deve essere la liquidazione della borghesia
che lo ha creato.
Quando il Partito
comunista, all'indomani dell'assassinio di Matteotti, ha lanciato la
parola d'ordine: "Abbasso il governo degli assassini! Scioglimento
della milizia fascista!", non ha pensato che il governo degli assassini
dovesse essere sostituito con un governo di coloro che con tutta la
loro politica avevano aperta la via e armato gli assassini; non ho mai
creduto che Giolitti, Nitti, Amendola, che erano al potere quando si è
formata la milizia fascista, fossero capaci di disarmare questa milizia
che così avevano favorito e armato contro la classe operaia.
Lanciando
la sua parola d'ordine il nostro partito non intendeva sostituire il
fascismo in fallimento con il vecchio liberalismo di cui la marcia su
Roma aveva segnato il fallimento obbrobrioso e la definitiva
liquidazione. Il Partito comunista dal principio della crisi del
fascismo ha affermato che la classe operaia e contadina ne doveva
essere il becchino e il successore al potere.
Per
vincere il fascismo è necessaria l'azione della massa del proletariato
industriale e dei contadini; la lotta di classe con tutte le
conseguenze. Il proletariato potrà e dovrà senza dubbio utilizzare
nella sua lotta contro il fascismo le opposizioni e le lotte che si
sono sviluppate nel seno della borghesia e della piccola borghesia, ma
senza l'azione diretta il fascismo non potrà mai essere abbattuto.
Porre così il problema era, nel tempo stesso, porre chiaramente la
questione della successione al fascismo. Vinto il fascismo dall'azione
delle masse operaie e contadine, il liberalismo non ha nulla a che fare
nella successione; questo diritto appartiene al governo degli operai e
dei contadini che solo sarà capace ed avrà la sincera volontà di
disarmare la milizia fascista, armando la classe operaia ed i
contadini.
Nell'ora attuale si tratta di
ben altro che di ritorno alla Costituzione, di democrazia e di
liberalismo. Sono queste ultime delle parole melliflue che la borghesia
cerca di far ingoiare ai lavoratori della città e della campagna per
evitare che la crisi acquisti il suo vero carattere, cioè di rivincita
degli operai e dei contadini contro il fascismo che li ha soppressi e
contro il liberalismo che li ha ingannati e che, ancor mesi or sono,
collaboravano o cercavano di collaborare (D'Aragona, Baldesi, ecc.) con
Mussolini.
La crisi italiana non può
essere risolta che coll'azione delle masse lavoratrici. Sul terreno
degli intrighi parlamentari non vi è possibilità di liquidazione del
fascismo, ma solo di un compromesso che lascia padrona la borghesia ed
il fascismo armato al suo servizio. Il liberalismo, anche se innestato
delle glandole della scimmia riformista, è impotente. Appartiene al
passato. E tutti i don Sturzo d'Italia, uniti a Turati e a Vella, non
riusciranno a rendergli la giovinezza necessaria alla liquidazione del
fascismo.
Un governo di classe di operai
e di contadini, che non si preoccupa né della Costituzione, né dei
sacri principi del liberalismo, ma che è deciso a vincere
definitivamente il fascismo, a disarmarlo e a difendere contro tutti
gli sfruttatori gli interessi dei lavoratori della città e della
campagna; ecco la sola forza giovane capace di liquidare un passato di
oppressione, di sfruttamento e di delitti e di dare un avvenire di vera
libertà per tutti coloro che lavorano.
Oggi
il Partito comunista è il solo a ripetere queste verità al
proletariato. La sua influenza si accresce; la sua organizzazione si
sviluppa, ma la maggioranza degli operai e contadini, trascinata dalla
Confederazione del lavoro, dal Partito massimalista, a loro volta a
rimorchio delle opposizioni costituzionali, non ha ancora riacquistato
la propria coscienza di classe; non ha compreso che la classe operaia e
contadina è il principale fattore della crisi, perché è il numero
irresistibile e la grande forza giovane, e che se non vuole illudersi,
deve agire sul terreno della lotta di classe come una forza
indipendente, che sarà presto determinante, e non sul terreno della
collaborazione di classe per cambiare soltanto la maschera alla
borghesia italiana.
Il compito essenziale
del nostro Partito consiste nel far penetrare fra gli operai e i
contadini queste idee fondamentali: Soltanto la lotta di classe delle
masse operaie e contadine vincerà il fascismo. Soltanto un governo di
operai e di contadini è capace di liquidare il fascismo e di
sopprimerne le cause. Soltanto l'armamento degli operai e dei contadini
potrà disarmare la milizia fascista. Quando queste verità essenziali
saranno penetrate nello spirito della massa operaia e contadina per
mezzo della nostra instancabile propaganda, i lavoratori delle officine
e dei campi, a qualunque partito appartengano, comprenderanno la
necessità di costituire i Comitati operai e contadini per la difesa dei
loro interessi di classe e per la lotta contro il fascismo.
Essi
comprenderanno che questi sono gli strumenti necessari della lotta
rivoluzionaria e della loro volontà di sostituire il governo degli
assassini con un governo degli operai e dei contadini. Nel momento in
cui si chiude il Congresso liberale che cerca ancora una volta
d'ingannare il popolo lavoratore, da un capo all'altro dell'Italia, gli
operai ed i contadini rispondano alle sue chiacchiere sonore e vuote:
Né fascismo né liberalismo: soviettismo!
Il partito del proletariato
"L' Ordine Nuovo", 1° novembre 1924
Il Partito comunista
non è soltanto l'avanguardia della classe operaia, esso deve esserne
anche il distaccamento organizzato. In regime capitalista, esso ha dei
compiti estremamente importanti e vari. Esso deve dirigere il
proletariato nella sua lotta fra difficoltà di ogni sorta, condurlo
all'of- fensiva quando la situazione lo esige, sottrarlo, guidan- dolo
alla ritirata, ai colpi del suo avversario quando esso rischia di
essere schiacciato da quest'ultimo, inculcare nella massa dei senza
partito i principi della disciplina, di metodo di organizzazione, di
fermezza necessari alla lotta. Ma il partito non verrà meno a questi
suoi compiti soltanto se sarà esso stesso la personificazione della
disciplina e dell'organizzazione, se sarà il distaccamento organizzato
del proletariato. Altrimenti esso non potrà pretendere di conquistare
la direzione delle masse proletarie.
Il
partito è dunque l'avanguardia organizzata della classe operaia. Il
Partito comunista è l'avanguardia organizzata, ma non la sola
organizzazione della classe operaia. La classe operaia ha una serie di
altre organizzazioni che le sono indispensabili nella lotta contro il
capitale: sindacati, cooperative, comitati di officina, frazioni
parlamentari, unioni delle donne senza partito, stampa, associazioni,
organizzazioni di cultura, unione della gioventù, organizzazioni di
combattimento rivoluzionarie (nel corso dell'azione rivoluzionaria
diretta), Soviet dei deputati, Stato (se il proletariato è al potere),
ecc.
La maggior parte di queste
organizzazioni sono apolitiche: qualcuna soltanto aderente al partito o
totalmente o per ramificazione. Tutte sono, in certe condizioni,
assolutamente necessarie alla classe operaia, per consolidare le sue
posizioni di classe nelle differenti sfere della lotta e farne una
forza capace di sostituire l'ordine borghese con l'ordine
socialista.
Ma come ottenere l'unità
di direzione in organizzazioni così diverse? Come evitare che la loro
molteplicità non porti con se i dissensi nella direzione? Queste
organizzazioni, si dirà, compiono ciascuna il proprio lavoro in una
sfera speciale e, per conseguenza, esse non possono importunarsi
vicendevolmente. E' giusto. Ma tutte devono condurre la loro azione con
una direzione unica, perché esse servono tutte una sola classe: quella
dei proletari. Chi dunque determina questa direzione unica? Qual è
l'organizzazione centrale sufficientemente sperimentata per elaborare
questa linea generale e capace, grazie alla sua autorità, di incitare
tutte le organizzazioni a seguirla, di ottenere l'unità di direzione ed
escludere la possibilità di colpi di testa?
Questa
organizzazione è il partito del proletariato. Esso ha, veramente, tutte
le qualità necessarie. Prima di tutto, esso racchiude in se la parte
migliore della classe operaia, una avanguardia legata direttamente con
le organizzazioni senza partito del proletariato, che i comunisti
frequentemente dirigono. In secondo luogo il partito è, per la sua
autorità, la sola organizzazione capace di centralizzare la lotta del
proletariato e di trasformare così le organizzazioni politiche della
classe operaia in organi suoi di collegamento.
Il partito è la forma superiore dell'organizzazione di classe del proletariato.
Per una preparazione ideologica di massa
"La Sezione di agitprop del PC",
aprile-maggio 1925
Da quale bisogno specifico della classe operaia
e del suo partito, il Partito comunista, è sorta l'iniziativa della
scuola per corrispondenza, che finalmente comincia ad attuarsi, con la
pubblicazione della presente dispensa?
Da
quasi cinque anni il movimento operaio rivoluzionario italiano è
piombato in una situazione di illegalità o di semilegalità. La libertà
di stampa, il diritto di riunione, di associazione, di propaganda sono
praticamente soppressi. La formazione dei quadri dirigenti del
proletariato non può quindi più avvenire per le vie e coi metodi che
erano tradizionali in Italia fino al 1921.
Gli
elementi operai più attivi sono perseguitati, sono controllati in ogni
loro movimento, in ogni loro lettura; le biblioteche operaie sono state
incendiate o altrimenti disperse; le grandi organizzazioni e le grandi
azioni di massa non esistono più e non possono attuarsi.
I
militanti non partecipano affatto o partecipano solo in misura
limitatissima alle discussioni e al contrasto delle idee; la vita
isolata o la riunione saltuaria di piccoli gruppi riservati,
l'abitudine che può venire formandosi a una vita politica che in altri
tempi pareva d'eccezione, suscitano sentimenti, stati d'animo, punti di
vista che sono spesso errati e talvolta persino morbosi.
I
nuovi membri che il partito acquista in una tale situazione,
evidentemente sono uomini sinceri e di vigorosa fede rivoluzionaria,
non possono venire educati ai nostri metodi dall'attività ampia, dalle
larghe discussioni, dal controllo reciproco che sono propri del periodo
di democrazia e di legalità di massa.
Si
prospetta così un pericolo molto grave: la massa del partito,
abituandosi, nell'illegalità, a non pensare ad altro che agli
espedienti necessari per sfuggire alle sorprese del nemico, abituandosi
a vedere possibili e organizzabili immediatamente solo azioni di
piccoli gruppi, vedendo come i dominatori apparentemente abbiano vinto
e conservino il potere con l'opera di minoranze armate e inquadrate
militarmente, si allontana insensibilmente dalla concezione marxista
dell'attività rivoluzionaria del proletariato, e mentre pare si
radicalizzi, per il fatto che si sentono spesso enunziare propositi
estremisti e frasi sanguinolente, in realtà diventa incapace di vincere
il nemico.
La storia della classe
operaia, specialmente nell'epoca che attraversiamo, mostra come questo
pericolo non sia immaginario. La ripresa dei partiti rivoluzionari,
dopo un periodo di illegalità, è spesso caratterizzata da un
irrefrenabile impulso all'azione per l'azione, dall'assenza di ogni
considerazione dei rapporti reali delle forze sociali, dello stato
d'animo delle grandi masse operaie e contadine, delle condizioni
d'armamento, ecc.
E' avvenuto così troppo
spesso che il partito rivoluzionario si sia fatto massacrare dalla
reazione non ancora disgregata, e le cui riserve non erano state
giustamente apprezzate, tra l'indifferenza e la passività delle grandi
masse, le quali, dopo ogni periodo reazionario, diventano molto
prudenti e sono facilmente colte dal panico ogni qualvolta si minaccia
un ritorno alla situazione da cui sono allora uscite.
E'
difficile, in linea generale, che tali errori non si verifichino; è
perciò doveroso che il partito se ne preoccupi e svolga una determinata
attività che specialmente tenda a migliorare la situazione e la sua
organizzazione, ad elevare il livello intellettuale dei membri che si
trovano nelle sue file nel periodo del terrore bianco e che sono
destinati a diventare il nucleo centrale e più resistente ad ogni prova
e ad ogni sacrificio del partito che guiderà la rivoluzione ed
amministrerà lo Stato proletario. Il problema appare così più largo e
più complesso.
La ripresa del movimento
rivoluzionario e specialmente la sua vittoria, riversano nel partito
una grande massa di nuovi elementi. Essi non possono essere respinti,
specialmente se di origine proletaria, poiché appunto la loro adesione
è uno dei segni più sintomatici della rivoluzione che sta compiendosi;
ma il problema si pone di impedire che il nucleo centrale del partito
sia sommerso e disgregato dalla nuova impetuosa ondata.
Tutti
ricordiamo ciò che è avvenuto in Italia, dopo la guerra, nel Partito
socialista. Il nucleo centrale, costituito dai compagni rimasti fedeli
alla causa durante il cataclisma, si restrinse fino a ridursi al numero
di 16.000 circa. Al Congresso di Livorno erano rappresentati 220.000
soci, cioè esistevano nel partito 200.000 aderenti del dopoguerra,
senza preparazione politica, digiuni o quasi di ogni nozione della
dottrina marxista, facile preda dei piccoli borghesi declamatori e
fanfaroni che costituirono negli anni 1919-20 il fenomeno del
massimalismo.
Non è senza significato che
l'attuale capo del Partito socialista e direttore dell'"Avanti!" sia
proprio Pietro Nenni, entrato nel Partito socialista dopo Livorno, ma
che riassume e sintetizza in sé tutte le debolezze ideologiche e i
caratteri distintivi del massimalismo del dopoguerra. Sarebbe veramente
delittuoso che nel Partito comunista si verificasse per rispetto al
periodo fascista ciò che si è verificato nel Partito socialista per
rispetto al periodo di guerra: ma ciò sarebbe inevitabile se il nostro
partito non avesse una direttiva anche in questo campo, se esso non
provvedesse a tempo a rinforzare ideologicamente e politicamente i suoi
attuali quadri e i suoi attuali membri, per renderli capaci di
contenere e inquadrare masse ancora più larghe senza che
l'organizzazione subisca troppe scosse e senza che la figura del
partito ne venga mutata.
Abbiamo posto il
problema nei suoi termini pratici più importanti. Ma esso ha una base
che è superiore ad ogni contingenza immediata. Noi sappiamo che la
lotta del proletariato contro il capitalismo si svolge su tre fronti:
quello economico, quello politico, e quello ideologico.
La
lotta economica ha tre fasi: di resistenza contro il capitalismo, cioè
la fase sindacale elementare; di offensiva contro il capitalismo per il
controllo operaio sulla produzione; lotta per l'eliminazione del
capitalismo attraverso la socializzazione.
Anche
la lotta politica ha tre fasi principali: lotta per infrenare il potere
della borghesia nello Stato parlamentare, cioè per mantenere o creare
una situazione democratica in equilibrio tra le classi che permetta al
proletariato di organizzarsi; lotta per la conquista del potere e per
la creazione dello Stato operaio, cioè un'azione politica complessa
attraverso la quale il proletariato mobilita intorno a sé tutte le
forze sociali anticapitalistiche (in prima linea la classe contadina) e
le conduce alla vittoria; fase della dittatura del proletariato
organizzato in classe dominante per eliminare tutti gli ostacoli
tecnici e sociali, che si frappongono alla realizzazione del
comunismo.
La lotta economica non può
essere disgiunta dalla lotta politica, e né l'una né l'altra cosa
possono essere disgiunte dalla lotta ideologica. Nella sua prima fase
sindacale la lotta economica è spontanea, cioè essa nasce
ineluttabilmente dalla stessa situazione in cui il proletariato si
trova nel regime borghese, ma non è di per sé stessa rivoluzionaria,
cioè non porta necessariamente all'abbattimento del capitalismo, come
hanno sostenuto e continuano a sostenere con minor successo i
sindacalisti. Tanto è vero che i riformisti e persino i fascisti
ammettono la lotta sindacale elementare, anzi sostengono che il
proletariato come classe non debba esplicare altra lotta che quella
sindacale.
I riformisti si differenziano
dai fascisti solo in quanto sostengono che se non il proletariato come
classe, i proletari come individui, cittadini, lottino anche per la
"democrazia generale", cioè per la democrazia borghese, in altre parole
lottino solo per mantenere o creare le condizioni politiche della pura
lotta di resistenza sindacale.
Perché la
lotta sindacale diventi un fattore rivoluzionario occorre che il
proletariato l'accompagni con la lotta politica, cioè che il
proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta
generale che investe tutte le questioni più vitali dell'organizzazione
sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. L'elemento
"spontaneità" non è sufficiente per la lotta rivoluzionaria: esso non
porta mai la classe operaia oltre i limiti della democrazia borghese
esistente. E' necessario l'elemento coscienza, l'elemento "ideologico",
cioè la comprensione delle condizioni in cui si lotta, dei rapporti
sociali in cui l'operaio vive, delle tendenze fondamentali che operano
nel sistema di questi rapporti, del processo di sviluppo che la società
subisce per l'esistenza nel suo seno di antagonismi irriducibili, ecc.
I tre fronti della lotta proletaria si
riducono a uno solo per il partito della classe operaia, che è tale
appunto perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta
generale. Non si può certo domandare ad ogni operaio della massa di
avere una completa coscienza di tutta la complessa funzione che la sua
classe è determinata a svolgere nel processo di sviluppo dell'umanità:
ma ciò deve essere domandato ai membri del partito.
Non
ci si può proporre, prima della conquista dello Stato, di modificare
completamente la coscienza di tutta la classe operaia; sarebbe
utopistico, perché la coscienza della classe operaia come tale si
modifica solo quando sia stato modificato il modo di vivere della
classe stessa, cioè quando il proletariato sarà diventato classe
dominante, avrà a sua disposizione l'apparato di produzione e di
scambio e il potere statale.
Ma il
partito può e deve, nel suo complesso, rappresentare questa coscienza
superiore; altrimenti esso non sarà alla testa, ma alla coda delle
masse, non le guiderà ma ne sarà trascinato. Perciò il partito deve
assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale, come
leninismo. L'attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è
sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano.
In
Italia il marxismo (all'infuori di Antonio Labriola) è stato studiato
più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso
della politica borghese, che dai rivoluzionari. Abbiamo visto perciò
nel Partito socialista italiano convivere insieme pacificamente le
tendenze più disparate, abbiamo visto essere opinioni ufficiali del
partito le concezioni più contraddittorie. Mai le direzioni del partito
immaginarono che per lottare contro l'ideologia borghese, per liberare
cioè le masse dall'influenza del capitalismo, occorresse prima
diffondere nel partito stesso la dottrina marxista e occorresse
difenderla da ogni contraffazione. Questa tradizione non è stata, per
lo meno, ancora interrotta nel nostro partito, interrotta in modo
sistematico e con una attività notevole e continuata.
Si
dice tuttavia che il marxismo ha avuto molta fortuna in Italia e in un
certo senso ciò è vero. Ma è vero anche che una tale fortuna non ha
giovato al proletariato, non ha servito a creare nuovi mezzi di lotta,
non è stato un fenomeno rivoluzionario. Il marxismo, cioè alcune
affermazioni staccate dagli scritti di Marx, hanno servito alla
borghesia italiana per dimostrare che per le necessità del suo sviluppo
era necessario fare a meno della democrazia, era necessario calpestare
le leggi, era necessario ridere della libertà e della giustizia: cioè,
è stato chiamato marxismo, dai filosofi della borghesia italiana, la
constatazione che Marx ha fatto dei sistemi che la borghesia adopera,
senza bisogno di ricorrere a giustificazioni... marxiste, nella sua
lotta contro i lavoratori.
E i
riformisti, per correggere questa interpretazione fraudolenta, sono
essi diventati democratici, si sono essi fatti i turiferari di tutti i
santi sconsacrati del capitalismo. I teorici della borghesia italiana
hanno avuto l'abilità di creare il concetto della "nazione proletaria",
cioè di sostenere che l'Italia tutta era una "proletaria" e che la
concezione di Marx doveva applicarsi alla lotta dell'Italia contro gli
altri Stati capitalisti, non alla lotta del proletariato italiano
contro il capitalismo italiano; i "marxisti" del Partito socialista
hanno lasciato passare senza lotta queste aberrazioni, che furono
accettate da uno, Enrico Ferri, che passava per un grande teorico del
socialismo.
Questa fu la fortuna del
marxismo in Italia: che esso servì da prezzemolo a tutte le più
indigeste salse che i più imprudenti avventurieri della penna abbiano
voluto mettere in vendita. E' stato marxista in tal modo Enrico Ferri,
Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini...
Per
lottare contro la confusione che si è andata in tal modo creando è
necessario che il partito intensifichi e renda sistematica la sua
attività nel campo ideologico, che esso ponga come un dovere del
militante la conoscenza della dottrina del marxismo e del leninismo
almeno nei suoi termini più generali. Il nostro partito non è un
partito democratico, almeno nel senso volgare che comunemente si dà a
questa parola. E' un partito centralizzato nazionalmente e
internazionalmente. Nel campo internazionale il nostro partito è una
semplice sezione di un partito più grande, di un partito mondiale.
Quali
ripercussioni può avere e ha già avuto questo tipo di organizzazione,
che pure è una ferrea necessità della rivoluzione? L'Italia stessa ci
dà una risposta a questa domanda. Per reazione all'andazzo solito del
Partito socialista, in cui si discuteva molto e si risolveva poco, la
cui unità, per l'urto continuo delle frazioni, delle tendenze e spesso
delle cricche personali si frantumava in una infinità di frammenti
sconnessi, nel nostro partito si era finito col non discutere più di
nulla. La centralizzazione, l'unità d'indirizzo e di concezione era
diventata una stagnazione intellettuale. A ciò contribuì la necessità
della lotta incessante contro il fascismo, che proprio alla fondazione
del nostro partito era già passato alla sua prima fase attiva ed
offensiva, ma contribuì anche la concezione errata del partito, così
come è esposta nelle "tesi sulla tattica" presentate al Congresso di
Roma.
La centralizzazione e l'unità erano
concepite in modo troppo meccanico: il Comitato centrale, anzi, il
Comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e
dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il
partito perderebbe cioè la sua forza di attrazione, si staccherebbe
dalle masse. Perché il partito viva e sia a contatto con le masse
occorre che ogni membro del partito sia un elemento politico attivo,
sia un dirigente.
Appunto perché il
partito è fortemente centralizzato, si domanda una vasta opera di
propaganda e di agitazione nelle sue file, è necessario che il partito,
in modo organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello
ideologico. Centralizzazione vuol dire specialmente che in qualsiasi
situazione, anche dello stato d'assedio rinforzato, anche quando i
comitati dirigenti non potessero funzionare per un determinato periodo
o fossero posti in condizione di non essere collegati con tutta la
periferia, tutti i membri del partito, ognuno nel suo ambiente siano
stati posti in grado di orientarsi, di saper trarre dalla realtà gli
elementi per stabilire una direttiva, affinché la classe operaia non si
abbatta ma senta di essere guidata e di poter ancora lottare.
La
preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta
rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria.
Il Partito combatterà con energia ogni ritorno alle concezioni organizzative della socialdemocrazia
"L'Unità", 7 giugno 1925
Quando,
dopo il V Congresso dell'Internazionale comunista, il Comitato Centrale
del partito affermava che l'atteggiamento assunto dai compagni
dell'estrema sinistra di fronte alle decisioni di quel congresso e
particolarmente il loro rifiuto a far parte degli organi direttivi del
partito, non solo del Comitato esecutivo, ma persino del Comitato
centrale, in seno al quale sarebbe stato sempre possibile precisare la
propria responsabilità politica sulle questioni generali e su ciascun
problema politico in particolare, aveva sostanzialmente un significato
frazionistico per la concezione e il metodo politico che in tale
atteggiamento si esprimeva e per le conseguenze che ne sarebbero
praticamente derivate, molti compagni rispondevano negando recisamente
questo giudizio, anzi protestando contro tali affermazioni che essi
dicevano essere fatte a puro scopo polemico.
E
quando nei congressi federali convocati dopo il V Congresso mondiale,
il Comitato centrale del partito pose praticamente tale questione
affermando la necessità che gli esponenti della tendenza di estrema
sinistra entrassero a far parte del Comitato centrale, da parte di
alcuni compagni - la stragrande maggioranza del partito era invece
consenziente con tale soluzione - si reagì violentemente definendo tale
proposta una provocazione ed un atto di ostilità.
Ora
i nomi di coloro che così parlavano alcuni mesi fa, li ritroviamo nel
sedicente "Comitato di intesa" che altro non è, come risulta dai
documenti che qui pubblichiamo, che il Comitato centrale di una
frazione che si tenta segretamente di creare e di organizzare in seno
al partito. Dopo aver respinto a parole, pochi mesi fa, quanto noi
dicevamo, essi confermano oggi con i fatti le nostre affermazioni.
Per
la verità e l'esattezza si deve anche dire che taluni compagni pur
essendosi dichiarati d'accordo in un primo momento con la posizione
assunta dall'estrema sinistra, certamente perché non ne vedevano
chiaramente il contenuto e il significato politico, oggi sono
recisamente contro una così insana iniziativa ed ogni tentativo di far
degenerare la discussione ideologica che sta per iniziarsi nel partito
e che noi tutti riteniamo utile e necessaria, in una lotta di frazioni
estremamente dannosa e pericolosa. I fatti che qui documentiamo sono di
una tale gravità da imporsi alla più severa attenzione di tutti i
compagni.
Mai si era vista nel nostro
partito più audace offesa alle norme più elementari di organizzazione e
di disciplina di un partito comunista. Bisogna guardare la realtà in
faccia e non aver paura di chiamare le cose col loro vero nome:
l'iniziativa del Comitato d'intesa porta in sé il germe di una
scissione del partito. Basta leggere i documenti che la circolare
segreta che tale comitato ha illegalmente inviato a qualche suo
fiduciario nella nostra organizzazione per convincersene. I compagni
tutti devono reagire con la massima energia a questo attentato
all'unità ed alla compagine del nostro partito.
In
un momento in cui la reazione contro il nostro movimento si aggrava, i
pericoli aumentano e la situazione si presenta sempre più gravida di
minacce, ogni tentativo di compromettere ed indebolire la coesione
interna e la solidità organizzativa dell'avanguardia rivoluzionaria
organizzata nel Partito comunista, è un atto delittuoso che merita le
più grandi sanzioni e il biasimo più severo.
Noi
siamo certi che ogni tentativo frazionistico è destinato al fallimento:
i germi di infezione frazionistica, che qua e là tendono a dare
manifestazioni di vita, saranno inesorabilmente schiacciati ed
eliminati. L'organismo del partito è sano e vigoroso e saprà resistere
ottimamente. Al di sopra di ogni reazione psicologica e di ogni voce di
sdegno che insorge spontanea nella coscienza di ogni militante
rivoluzionario che non abbia smarrito il senso dei doveri che gli
impone la milizia rivoluzionaria, noi dobbiamo porre tale quistione sul
terreno ideologico per scoprire e porre in chiaro l'errore di principio
da cui essa deriva. I compagni tutti dovranno rendersi conto degli
errori pratici e delle aberrazioni alle quali si può giungere partendo
da concezioni teoricamente viziate ed in gran parte erronee.
Ponendosi
sulla via per la quale si sono incamminati i compagni del sedicente
"Comitato d'intesa", si va dritti fuori del partito e
dell'Internazionale comunista. E porsi fuori del partito e
dell'Internazionale significa porsi contro il partito e
l'Internazionale comunista, significa cioè rafforzare gli elementi
della controrivoluzione. E' bene parlare chiaro perché non si formino
illusioni.
Dei documenti che qui
pubblichiamo, sarà necessario riparlarne. Essi meritano un esame
intrinseco, sia per ciò che in essi si afferma, sia per il doppio gioco
che essi svelano nell'azione dei compagni del "Comitato d'intesa", da
alcuni dei quali, almeno, ci attendevamo una condotta di maggior lealtà
e di maggior senso di responsabilità. E sarà necessario anche mettere
in chiaro che la manovra che si nasconde nell'assenza del nome del
compagno Bordiga, col quale certamente è concordata l'iniziativa del
"Comitato d'intesa".
E' doloroso dover
fare simili constatazioni, quando fra i firmatari troviamo il nome di
compagni che furono con noi fra i fondatori del partito e per esso
lottarono e operarono. Ma la realtà è quella che è, ed ogni debolezza
in questo momento sarebbe colpa grave. Al di sopra di ogni cosa deve
porsi l'interesse del partito, per il quale dobbiamo essere pronti in
ogni momento ad affrontare ogni sacrificio. Amicizie, vincoli personali
ed i più tenaci e più profondi legami d'affetto non possono e non
devono limitare il dovere che la milizia rivoluzionaria ci impone.
Se
non avessimo la forza di far ciò, non saremmo dei rivoluzionari
militanti ed avremmo perciò il dovere di trarci in disparte. Tutti i
compagni devono far propria questa norma. Diciamo questo perché nel
nostro partito troppa influenza hanno avuto finora le forze
sentimentali. Questa è una debolezza dalla quale dobbiamo saper
guarire, se vogliamo veramente portare il nostro partito all'altezza di
un vero partito bolscevico.
Dopo lo scioglimento del "Comitato d'intesa"
L'Unità", 18 giugno 1925
Napoli, 8 giugno 1925
Cari compagni,
in
seguito al comunicato apparso nel numero di ieri dell' "Unità", chiedo
di poter dichiarare con lo stesso mezzo che appartengo al "Comitato
d'intesa della sinistra" e che la mia firma non figura nel documento
pubblicato per sole ragioni di ordine pratico.
Domando
inoltre se è ammesso rispondere sulla stampa di partito non tanto ad
argomentazione quanto ad affermazioni prive di fondamento sul conto dei
compagni della sinistra, anche come persone in certi casi, contenute in
documenti che la Centrale ha già creduto di fare pubblicare, aprendo
così di fatto la discussione.
Non credo
che si vorrà pretendere di aprire la discussione ad uso di una sola
delle parti, soprattutto quando questa si compiace di attribuire
all'altra opinioni e atteggiamenti che sono il contrario della verità.
Con saluti comunisti
AMADEO BORDIGA
La
dichiarazione con la quale il compagno Bordiga si affretta ad
annunciare la propria solidarietà col Comitato d'intesa non può
sorprendere nessuno; essa era implicita in tutto il suo atteggiamento
dal V Congresso in poi, ed in armonia con l'attiva opera frazionistica
da lui svolta nella sezione di Napoli, ove per il succedersi di
riunioni riservate e "clandestine" di frazione (assai scarse di
seguito, in verità) il Comitato esecutivo ha dovuto intervenire
promuovendo un'inchiesta i cui risultati saranno portati a conoscenza
del partito.
Sostanzialmente dunque nulla
di nuovo. Da un punto di vista formale la situazione diviene più chiara
per molti compagni e pone apertamente ciascuno di fronte alle proprie
responsabilità. Rileviamo solo il fatto che mentre il Comitato
esecutivo condanna il Comitato d'intesa e ne ordina lo scioglimento, il
compagno Bordiga si schiera apertamente al suo fianco contro il
Comitato esecutivo del partito. Così il compagno Bordiga si pone
automaticamente nella stessa posizione disciplinare dei componenti il
comitato di frazione, con l'aggravante delle maggiori responsabilità
che a lui derivano dal fatto di essere membro del Comitato esecutivo
dell'Internazionale.
Ad evitare equivoci
dobbiamo un chiarimento alla lettera che qui pubblichiamo. Il compagno
Bordiga espone il dubbio che la Centrale voglia "pretendere di aprire
la discussione ad uso di una sola delle parti". Questa insinuazione non
ha alcuna giustificazione; nessun elemento può essere portato che
autorizzi chicchessia ad avanzare il sospetto, divenuto argomento di
lotta dell'"Avanti!" contro il nostro partito, che vi sia nella
Centrale l'intenzione di restringere o comunque limitare nella
discussione il diritto di parola.
Continuino
pure i compagni dell'estrema sinistra, se ciò fa loro piacere, a
portare acqua al mulino degli opportunisti. In ogni caso, stia
tranquillo il compagno Bordiga: la Centrale è profondamente convinta
che tanto più favorevoli saranno i risultati della discussione per la
politica del partito e dell'Internazionale, quanto maggiore sarà la
partecipazione ad essa dei compagni dell'estrema sinistra.
Ma
non bisogna confondere la campagna antifrazionista che il Comitato
centrale attualmente conduce con la discussione che dovrà svolgersi nel
partito e che da quella campagna non è stata affatto aperta. Essa è
determinata da un fatto concreto: l'organizzazione clandestina di una
frazione del partito; e tende ad uno scopo altrettanto preciso:
stroncare ogni tentativo di una sua pratica attuazione. Nessuno dei
problemi che saranno oggetto della discussione, né alcuno degli
elementi di dissenso politico e tattico esistenti fra noi sono stati in
essa toccati. La sua stessa impostazione al di sopra di ogni tendenza e
contro il frazionismo e per l'unità assoluta del partito, deve far
comprendere il suo carattere speciale ben distinto dalla discussione
che da questo spiacente episodio della vita del partito potrà essere
ritardata ma non limitata.
E' vero che la
quistione del frazionismo si collega in realtà al merito dei problemi
più generali sui quali le nostre opinioni divergono e dei quali dovremo
discutere; essa sarà certamente uno degli elementi della discussione.
Ma non è sotto questo aspetto che per ora viene trattata la quistione;
l'obiettivo più urgente ed immediato che con questa campagna noi ci
proponiamo non è quello di "discutere", ma di impedire che si dividano
organicamente le forze del partito e si creino le condizioni di una
scissione.
Poiché è bene che il compagno
Bordiga non finga di ignorare questa elementare verità: in un Partito
comunista, porre il problema dell'organizzazione di una frazione
significa porre un problema di scissione. E quando un tale pericolo
incomincia ad apparire una realtà concreta, prima di divenire argomento
di discussione esso si pone come obiettivo di lotta immediato e senza
quartiere; ecco perché su tale quistione il Comitato centrale "non ha
aperto una discussione", ma conduce una campagna diretta a mobilitare
contro ogni tentativo e manovra frazionista tutte le forze del partito,
indipendentemente da ogni divisione e tendenza, e quindi anche quelle
dell' estrema sinistra che non hanno degenerato fino al punto del
Comitato d'intesa.
Avremo poi il tempo di
discutere; sarà anzi tale questione un elemento di maggior
chiarificazione politica. E quando la discussione si aprirà, il che non
potrà tardare molto, vi sarà piena libertà di parola. Dopo questi
chiarimenti, diciamo subito che non v'è alcun impedimento che sulla
stampa di partito gli interessati rendano pubblica una loro
dichiarazione. Allo stato attuale delle cose anzi riteniamo necessario
che ciò avvenga. Il Comitato esecutivo ha preso delle decisioni
precise, quali lo scioglimento del Comitato d'intesa, la consegna del
materiale frazionistico, e la cessazione di ogni attività in questo
senso.
Sarà bene che il compagno Bordiga
ed i suoi amici di frazione prendano su questo deliberato un impegno
aperto e preciso di fronte al partito. I compagni dell'estrema sinistra
tengano presente la gravissima responsabilità che si assumerebbero, se
ponessero il Comitato centrale di fronte alla inderogabile necessità di
dover prendere provvedimenti tali nei loro confronti da compromettere
la stessa discussione del partito.
Quanto
poi all'asserzione che siano state pubblicate affermazioni prive di
fondamento, anche sul conto di alcuni compagni come persone, che si
siano attribuite ad essi opinioni ed atteggiamenti contrari alla verità
non nascondiamo il nostro stupore. Questa ci sembra un'affermazione
arbitraria e priva di fondamento: non riusciamo a vedere a cosa intenda
riferirsi il compagno Bordiga, il quale avrebbe anche potuto nella
lettera alla Centrale smentire e rettificare tutto quello che credeva.
In ogni modo attendiamo con curiosità le annunciate rettifiche...
La volontà delle masse
"L'Unità", 24 giugno 1925
A proposito della crisi di frazionismo
manifestatasi nel nostro partito, l'"Avanti!" ha pubblicato una serie
di articoli che possono dare lo spunto per ribadire alcuni principi
fondamentali del comunismo internazionale. E' molto probabile che le
storture ideologiche dell'"Avanti!" non siano proprie solo degli
scrittori dell'"Avanti!" e degli sparuti drappelli che costituiscono il
partito massimalista. Il nostro partito è formato di elementi
staccatisi dal Partito socialista al Congresso di Livorno e, nella sua
maggioranza attuale, di elementi venuti a noi per la campagna di
reclutamento fatto dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti; ripetere
certe verità, distruggere certi pregiudizi che erano stati radicati
nella coscienza di decine e decine di anni di tradizione
socialdemocratica, può essere perciò compito necessario e urgentemente
necessario.
Nell'articolo La volontà
delle masse è contenuta la quintessenza dell'opportunismo massimalista
italiano e dell'opportunismo socialdemocratico in generale. Esiste una
volontà delle masse lavoratrici prese nel loro complesso e può il
Partito comunista porsi sul terreno di "ubbidire alla volontà delle
masse in generale"? No. Esistono nel complesso delle masse lavoratrici
parecchie e distinte volontà: esiste una volontà comunista, una volontà
massimalista, una volontà riformista, una volontà democratica liberale.
Esiste una volontà fascista, in un certo senso ed entro certi limiti.
Fino
a quando sussiste il regime borghese, col monopolio della stampa in
mano al capitalismo e quindi con la possibilità per il governo e per i
partiti borghesi di impostare le quistioni politiche a seconda dei loro
interessi, presentati come interessi generali, fino a quando sarà
soppressa e limitata la libertà di associazione e di riunione della
classe operaia o potranno essere diffuse impunemente le menzogne più
impudenti contro il comunismo, è inevitabile che le classi lavoratrici
rimangano disgregate, cioè abbiano parecchie volontà.
Il
Partito comunista "rappresenta" gli interessi dell'intera massa
lavoratrice, ma "attua" la volontà solo di una determinata parte delle
masse, della parte più avanzata, di quella parte (proletariato) che
vuole rovesciare il regime esistente con mezzi rivoluzionari per
fondare il comunismo. Cosa significa la formula dell'"Avanti!":
"bisogna seguire la volontà delle masse", in generale? Significa
cercare di giustificare il proprio opportunismo, nascondendosi dietro
la constatazione che esistono ancora strati arretrati di popolazione
lavoratrice sotto l'influenza della borghesia, che "vogliono" la
collaborazione con la borghesia. Ma questi strati esisteranno sempre
fino a quando il regime borghese sarà il regime dominante; se il
partito "proletario" ubbidisse a "questa volontà", in realtà
ubbidirebbe alla volontà della borghesia, cioè sarebbe un partito
borghese, non un partito proletario.
Il
partito proletario non può "accodarsi" alle masse, deve precedere le
masse, pur tenendo conto oggettivamente dell'esistenza di questi strati
arretrati. Il partito rappresenta non solo le masse lavoratrici, ma
anche una dottrina del socialismo, e perciò lotta per unificare la
volontà delle masse nel senso del socialismo, pur tenendosi sul terreno
reale di ciò che esiste, ma che esiste muovendosi e sviluppandosi.
Il
nostro partito attua la volontà di quella parte più avanzata della
massa che lotta per il socialismo e sa di non potere avere alleata la
borghesia in questa lotta, che è appunto lotta contro la borghesia.
Questa "volontà", in quanto coincide con lo sviluppo generale della
società borghese e con le esigenze vitali di tutta la massa
lavoratrice, è progressiva, si diffonde, conquista sempre nuovi strati
di lavoratori, disgrega gli altri partiti operai, operai per la loro
composizione sociale, non per il loro indirizzo politico. Naturalmente
l' "Avanti!" nega ogni giorno che questo fatto avvenga, stampa ogni
giorno che il Partito comunista è abbandonato dalle masse, ricorre
nientemeno che alla testimonianza di Hoeglund per dire che il nostro
partito è una cosa insignificante, ecc. Ma non meno naturale,
l'"Avanti!" non riesce mai a spiegare come avvenga che, abbandonato
dalle masse, il nostro partito sia il partito relativamente più forte
della Confederazione generale del lavoro, non riesce a spiegare come a
Torino, a Trieste, a Bari, a Taranto e in una serie di altre città noi
siamo il partito più forte anche in modo assoluto, non riesce a
spiegare come mai gli operai di Torino, che il nostro partito avrebbe
condotto al macello ed alla catastrofe, colgano ogni occasione per
affermarsi fedeli alle nostre direttive.
La
quistione se noi rappresentiamo la volontà delle masse più avanzate e
se questa volontà attraverso la lotta si diffonda e diventi la volontà
della maggioranza dei lavoratori, si decide e può decidersi solo
praticamente; gli avvenimenti di questo ultimo periodo hanno dimostrato
ch'essa si decide favorevolmente al nostro partito, nonostante gli
esorcismi dell'"Avanti!" e di tutta la stampa dell'Aventino. Da cinque
anni il Partito massimalista è fuori di ogni organizzazione
internazionale; questo fatto non è rimasto e non poteva rimanere senza
risultati.
Il carattere
internazionalistico è essenziale di un partito operaio; non può venire
meno senza portare ineluttabilmente a una completa degenerazione
ideologica e pratica nei dirigenti e nelle file del partito. Per
l'"Avanti!" infatti è chiaro che il Comitato centrale di una partito
deve rappresentare solo la massa del partito nazionale, deve anzi
"ubbidire alla volontà" di questa massa. Per noi tutto ciò è
mostruosamente falso. Il Comitato centrale del nostro partito, non solo
rappresenta e guida la massa del partito italiano, ma rappresenta anche
il programma e la tattica del partito quali sono venuti definendosi
attraverso cinque congressi dell'Internazionale. Del resto: come e
perché si è costituito il nostro partito? Esso si è staccato dal
Partito socialista proprio nella quistione del riconoscimento
dell'autorità dell'Internazionale: al Congresso di Livorno noi volevamo
l'applicazione dei 21 punti, la lotta contro il riformismo, una
politica agraria diversa da quella tradizionale, un nuovo indirizzo
sindacale, nuovi metodi organizzativi, ecc.
La
massa ha aderito all'Internazionale e quindi ha costituito un partito
in quanto ha accettato un programma ben determinato. Il partito si è
sviluppato, in quanto era ed è una sezione dell'Internazionale. E'
certo che un tale processo non si è verificato meccanicamente, secondo
uno schema matematico per cui uno è sempre uguale a uno; si è trattato
di un processo politico, al quale gli uomini hanno partecipato con
tutte le loro passioni e sentimenti individuali, con tutte le virtù e i
difetti che sono propri di questo basso mondo. Ma è certo che se molti
elementi sono venuti all'Internazionale e al partito è anche perché
avevano aderito al programma comune singole persone più o meno
conosciute, come Bombacci, Misiano, Repossi, Bordiga, Gramsci, Gennari,
Marabini, ecc. ; essi sono venuti essenzialmente per il programma
comune e non per le differenziazioni di individui e di gruppi.
Ed
ecco il dovere del Comitato centrale di illuminare sempre più le masse
del partito sulla portata reale del programma comune, sul suo valore,
sul suo significato. Ed ecco perché nel nostro partito la discussione
verte e deve vertere normalmente su quistioni concrete, non sui
principi; sull'applicazione pratica dell'indirizzo generale, non
sull'indirizzo stesso. Secondo i criteri dell'"Avanti!", ogni partito
dovrebbe ogni giorno ripetere le discussioni fondamentali: siamo
fascisti o no? Siamo riformisti, massimalisti, liberali, popolari,
democratici o no? Il porre così la quistione da parte dell' "Avanti!" è
caratteristico e sintomatico della situazione interna del Partito
massimalista. Poiché questo partito non appartiene ad una
organizzazione internazionale, e poiché la sua direzione non ha
direttive, i soci del partito che si trovano a dover stare gomito a
gomito con i diversi Di Cesarò, Amendola, Anile, Giolitti, Salandra,
Orlando, hanno finito col perdere ogni coscienza della loro
individualità politica e sono costretti ogni giorno a porsi questa
domanda: siamo ancora massimalisti o siamo fascisti come Di Cesarò e
Salandra, o siamo popolari come Anile e De Gasperi, o siamo democratici
come Amendola?
Nel nostro partito non si
verifica niente di tutto ciò. La maggioranza del partito così com'era
al momento dell'assassinio di Giacomo Matteotti, cioè la maggioranza
della vecchia guardia si era organizzata politicamente al Congresso di
Livorno intorno al programma dell'Internazionale, per le lotte contro
tutti i partiti borghesi, compresi i partiti operai che fanno la
politica della borghesia. L'altra massa di soci, numericamente
superiore alla vecchia guardia, è entrata nel partito dopo l'assassinio
di Giacomo Matteotti sulla base del programma generale
dell'Internazionale così come era applicato dal nostro Comitato
centrale: lotta su due fronti, contro il fascismo e contro le
opposizioni aventiniane (due fronti per modo di dire, perché si tratta
dello stesso fronte borghese), per l'azione autonoma del proletariato
rivoluzionario, per organizzare la lotta dei poveri contro i ricchi
intorno al proletariato rivoluzionario che solo può schiacciare la
reazione instaurando un nuovo Stato, instaurando la sua dittatura.
Le
discussioni che avvengono nell'interno del nostro partito non possono
riguardare le basi fondamentali su cui l'organizzazione comunista è
nata e si è sviluppata. Tuttavia può avvenire che si formi una corrente
che pretende di fare un'opera di revisione anche in questo campo.
Certo, può avvenire. Viviamo in un mondo dove si verificano i fatti più
curiosi e strani.
Specialmente quando la
situazione diviene obiettivamente difficile, si verifica che singoli
individui e anche interi gruppi perdano la testa e credano, anche in
buona fede, di aver trovato lo specifico buono per l'occasione o
credano di poter risolvere la quistione costituendo un tribunale che
giudichi le colpe di alcuni individui, al fatidico grido di "dagli
all'untore". Sono queste cose che possono capitare e che capitano. Ciò
che non deve avere per conseguenza è che il Comitato centrale le lasci
dilagare e non lotti invece energicamente per eliminarle.
Volontà delle masse e volontà dei capi opportunisti
"L'Unità", 26 giugno 1925
L'"Avanti!", l'organo della "libertà per
tutti", trova strano che "L'Unità" affermi non esservi una "volontà
delle masse" in generale ed esistere nel complesso delle masse
lavoratrici parecchie distinte volontà. E si meraviglia perché abbiamo
scritto che porsi sul terreno di "ubbidire alla volontà delle masse in
generale" è la quintessenza dell'opportunismo.
Poiché
il Partito comunista vuole realizzare soltanto la volontà del
proletariato rivoluzionario, volontà che coincide con gli interessi di
tutte le classi oppresse e quindi della intiera popolazione
lavoratrice, l'"Avanti!" scopre in questa "volontà" una mentalità molto
affine a quella "fascista". E' evidente che gli scrittori massimalisti
non sanno né cos'è fascismo né cos'è un Partito comunista. Essi che
alla "verità rivelata da Mosca" preferiscono la "libertà critica", in
sostanza preferiscono la "verità rivelata della borghesia", poiché è
proprio dei liberali borghesi nascondere la loro dittatura sotto la
maschera di essere i "servi del popolo", gli esecutori della "volontà
delle masse popolari".
Quando noi diciamo
che tutti gli opportunisti amano nascondersi dietro alla "volontà delle
masse" e che per i comunisti esiste soltanto la volontà del
proletariato rivoluzionario, che coincide con gli interessi di tutti
gli strati della popolazione lavoratrice, non affermiamo un "dogma", ma
scopriamo l'opportunismo dei capi massimalisti, i quali sotto la
parvenza di secondare la "volontà delle masse" sostituiscono a questa
la loro volontà anti-rivoluzionaria, cioè la volontà della borghesia.
Agli
scrittori dell'"Avanti!", che tanto spesso amano porre la loro merce
avariata sotto la bandiera del leninismo, vogliamo ricordare
l'insegnamento di Lenin: "Si parla di spontaneità delle masse
(l'"Avanti!" dice oggi volontà delle masse); ma lo sviluppo spontaneo
del movimento operaio conduce - scrive Lenin - alla subordinazione di
questo alla ideologia borghese, poiché il movimento operaio spontaneo è
il trade-unionismo (lotta economica) e il trade-unionismo è
l'asservimento ideologico degli operai alla borghesia.
Ecco
perché il compito di noi comunisti è di combattere la spontaneità, di
deviare il movimento operaio da quest'aspirazione spontanea che ha il
trade-unionismo di rifugiarsi sotto le ali della borghesia, e di
attirarlo al contrario sotto l'ala del marxismo-rivoluzionario, cioè
del comunismo".
Lo stesso Kautsky, quando
era ancora un marxista, negava una volontà socialista delle masse,
scrivendo: "La coscienza socialista, la "volontà socialista" è un
elemento importante dal di fuori nella lotta di classe del proletariato
e non qualche cosa che sorge in esso spontaneamente. E Lenin illustra
ancora meglio: "Si dice sovente che la classe operaia va spontaneamente
al socialismo. Ciò è perfettamente giusto nel senso che, più
profondamente e più esattamente che tutte le altre, la teoria
socialista determina le cause dei mali del proletariato; ed è per
questo che gli operai se l'assimilano tanto facilmente, se tuttavia
essa non si piega davanti alla spontaneità" (volontà delle masse, come
scrive l'"Avanti!"), quando avviene il contrario, quando cioè è la
spontaneità, la volontà delle masse a sottomettersi il socialismo, è
l'ideologia borghese che, non meno spontaneamente, si impone
all'operaio.
In altri termini la volontà
delle masse corrisponde all'istintivo; sottomettersi all'istintivo è
sottomettersi alla ideologia borghese, poiché nella società
contemporanea la prima ideologia è sempre ideologia borghese. E' quello
che ha sempre fatto il Partito socialista in Italia: sottomettersi alla
"volontà istintiva" delle masse, senza essere mai capace di portare
queste masse sotto l'ala del marxismo rivoluzionario.
Il
fallimento del Partito socialista in Italia come partito della
rivoluzione proletaria è appunto in questa incomprensione della
funzione dei partiti proletari. Il Partito socialista continua ancora
oggi a "sottomettere il socialismo" all'ideologia borghese, asservendo
le masse socialiste ai semifascisti dell'Aventino.
Ecco
in che consiste la diversa "volontà" dei comunisti dalla volontà
massimalista: il Partito comunista lotta per strappare le masse
all'ideologia borghese e portarle sul terreno della lotta
rivoluzionaria; il Partito socialista, sotto la specie di sottomettersi
alla volontà delle masse, sottomette le masse alla borghesia.
Massimalismo ed estremismo
"L'Unità", 2 luglio 1925
Il compagno Bordiga si offende perché è stato
scritto che nella sua concezione c'è molto massimalismo. Non è vero, e
non può essere vero - scrive Bordiga -. Infatti il tratto più
distintivo dell'estrema sinistra è l'avversione per il Partito
massimalista, che ci fa schifo, ci fa vomitare, ecc. ecc.
La
quistione però è un'altra. Il massimalismo è una concezione fatalistica
e meccanica della dottrina di Marx. C'è il Partito massimalista che da
questa concezione falsificata trae argomento per il suo opportunismo,
per giustificare il suo collaborazionismo larvato da frasi
rivoluzionarie. Bandiera rossa trionferà perché è fatale e ineluttabile
che il proletariato debba vincere; l'ha detto Marx, che è il nostro
dolce e mite maestro! E' inutile che ci muoviamo; a che pro muoversi e
lottare se la vittoria è fatale e ineluttabile? Così parla un
massimalista del Partito massimalista.
Ma
c'è anche il massimalista che non è nel Partito massimalista, e che può
essere invece nel Partito comunista. Egli è intransigente, e non
opportunista. Ma anche egli crede che sia inutile muoversi e lottare
giorno per giorno; egli attende solo il grande giorno. Le masse - egli
dice - non possono non venire a noi, perché la situazione oggettiva le
spinge verso la rivoluzione. Dunque attendiamole, senza tante storie di
manovre tattiche e simili espedienti. Questo, per noi, è massimalismo,
tale e quale come quello del Partito massimalista.
Il
compagno Lenin ci ha insegnato che per vincere il nostro nemico di
classe, che è potente, che ha molti mezzi e riserve a sua disposizione,
noi dobbiamo sfruttare ogni incrinatura nel suo fronte e dobbiamo
utilizzare ogni alleato possibile, sia pure incerto, oscillante e
provvisorio. Ci ha insegnato che nella guerra degli eserciti, non può
raggiungersi il fine strategico, che è la distruzione del nemico e
l'occupazione del suo territorio, senza aver prima raggiunto una serie
di obiettivi tattici tendenti a disgregare il nemico prima di
affrontarlo in campo.
Tutto il periodo
prerivoluzionario si presenta come un'attività prevalentemente tattica,
rivolta ad acquistare nuovi alleati al proletariato, a disgregare
l'apparato organizzativo di offesa e di difesa del nemico, a rilevare e
ad esaurire le sue riserve. Non tener conto di questo insegnamento di
Lenin, o tenerne conto solo teoricamente, ma senza metterlo in pratica,
senza farlo diventare azione quotidiana, significa essere massimalisti,
cioè pronunziare grandi frasi rivoluzionarie, ma essere incapaci a
muovere un passo nella via della rivoluzione.
La situazione interna del nostro partito ed i compiti del prossimo Congresso
(Relazione al C.C. dell'11-12 maggio 1925)
"L'Unità", 3 luglio 1925
Nella sua ultima riunione, l'Esecutivo
allargato dell'Internazionale comunista non aveva da risolvere
quistioni di principio o di tattica sorta fra l'insieme del Partito
italiano e l'Internazionale. Un tal fatto si verifica per la prima
volta nella successione delle riunioni dell'Internazionale. Perciò i
compagni più autorevoli dell'Esecutivo dell'Internazionale comunista
avrebbero preferito che non si parlasse neppure di una commissione
italiana: dato che non esisteva una crisi generale del partito
italiano, non esisteva neppure una "quistione italiana".
In
realtà occorre subito dire che il nostro partito, pur avendo già prima
del congresso, ma specialmente dopo, modificato i suoi atteggiamenti
tattici per accostarsi alla linea leninista dell'Internazionale
comunista, non ha tuttavia subito nessuna crisi nelle file dei suoi
soci e di fronte alle masse: tutt'altro. Avendo saputo porre i suoi
nuovi atteggiamenti tattici in relazione alla situazione generale del
paese creatasi dopo le elezioni del 6 aprile e specialmente dopo
l'assassinio di Giacomo Matteotti, il partito è riuscito ad ingrandirsi
come organizzazione e a estendere in modo notevolissimo la sua
influenza tra le masse operaie e contadine.
Il
nostro partito è uno dei pochi, se non forse il solo partito
dell'Internazionale, che può affermare un successo simile in una
situazione così difficile come quella che si è venuta creando in tutti
i paesi, specialmente europei, in rapporto alla relativa
stabilizzazione del capitalismo ed al relativo rafforzarsi dei governi
borghesi e della socialdemocrazia, che del sistema borghese è diventata
una parte sempre più essenziale. Occorre dire, almeno tra parentesi,
che è appunto per il costituirsi di una tale situazione ed in rapporto
alle conseguenze che essa ha avuto non solo in mezzo alle grandi masse
lavoratrici, ma anche nel seno dei partiti comunisti, che si deve
affrontare il problema della bolscevizzazione.
La fase attuale dei partiti dell'Internazionale
Le
crisi attraversate da tutti i partiti dell'Internazionale dal 1921 ad
oggi, cioè dall'inizio del periodo caratterizzato da un rallentamento
del ritmo rivoluzionario, hanno mostrato come la composizione generale
dei partiti non fosse molto solida ideologicamente. I partiti stessi
oscillavano con spostamenti spesso fortissimi dalla destra all'estrema
sinistra con ripercussioni gravissime su tutta l'organizzazione e con
crisi generali nei collegamenti tra i partiti e le masse.
La
fase attuale attraversata dai partiti dell'Internazionale è
caratterizzata invece dal fatto che in ognuno di essi si è andato
formando attraverso le esperienze politiche di questi ultimi anni, e si
è consolidato, un nucleo fondamentale il quale determina una
stabilizzazione leninista della composizione ideologica dei partiti e
assicura che essi non saranno più attraversati da crisi e da
oscillazioni troppo profonde e troppo larghe.
Ponendo
così il problema generale della bolscevizzazione sia nel dominio
dell'organizzazione che in quello della formazione ideologica,
l'Esecutivo allargato ha affermato che le nostre forze internazionali
sono giunte al punto risolutivo della crisi. In questo senso,
l'Esecutivo allargato è un punto di arrivo, e la constatazione dei
grandissimi progressi compiuti nel consolidamento delle basi
organizzative e ideologiche dei partiti è un punto di partenza, in
quanto tali progressi devono essere coordinati, sistematizzati, devono
cioè diventare coscienza diffusa operante di tutta la massa. Per alcuni
aspetti, i partiti rivoluzionari dell'Europa occidentale si trovano
solo oggi nelle condizioni in cui i bolscevichi russi si erano trovati
già fin dalla formazione del loro partito.
In
Russia, non esistevano prima della guerra le grandi organizzazioni dei
lavoratori che invece hanno caratterizzato tutto il periodo europeo
della II Internazionale prima della guerra. In Russia, il partito, non
solo come affermazione teorica generale, ma anche come necessità
pratica di organizzazione e di lotta, riassumeva in sé tutti gli
interessi vitali della classe operaia; la cellula di fabbrica e di
strada guidava la massa sia nella lotta per le rivendicazioni sindacali
come nella lotta politica per il rovesciamento dello zarismo.
Nell'Europa
occidentale invece si venne sempre più costituendo una divisione del
lavoro tra organizzazione sindacale e organizzazione politica della
classe operaia. Nel campo sindacale andò sviluppandosi con ritmo sempre
più accelerato la tendenza riformista e pacifista; cioè andò sempre più
intensificandosi l'influenza della borghesia sul proletariato.
Per
la stessa ragione nei partiti politici l'attività si spostò sempre più
verso il campo parlamentare, verso cioè forme che non si distinguevano
per nulla da quelle della democrazia borghese. Nel periodo della guerra
e in quello del dopoguerra immediatamente precedente alla costituzione
dell'Internazionale comunista ed alle scissioni nel campo socialista,
che portarono alla formazione dei nostri partiti, la tendenza
sindacalista-riformista andò consolidandosi come organizzazione
dirigente nei sindacati. Si è venuta così a determinare una situazione
generale che appunto pone anche i partiti comunisti dell'Europa
occidentale nelle condizioni in cui si trovava il Partito bolscevico in
Russia prima della guerra.
Osserviamo ciò
che avviene in Italia. Attraverso l'azione repressiva del fascismo, i
sindacati erano venuti a perdere, nel nostro paese, ogni efficienza sia
numerica che combattiva. Approfittando di questa situazione, i
riformisti si impadronirono completamente del loro meccanismo centrale,
escogitando tutte le misure e le disposizioni che possono impedire a
una minoranza di formarsi, di organizzarsi, di svilupparsi e diventare
maggioranza fino a conquistare il centro dirigente. Ma la grande massa
vuole, ed a ragione, l'unità e riflette questo sentimento unitario
nell'organizzazione sindacale tradizionale italiana: la Confederazione
Generale del Lavoro. La massa vuole lottare e organizzarsi, ma vuole
lottare con la Confederazione generale del lavoro e vuole organizzarsi
nella Confederazione generale del lavoro.
I
riformisti si oppongono all'organizzazione delle masse. Ricordate il
discorso di D'Aragona nel recente congresso federale in cui affermò che
non più di un milione di organizzati deve costituire la Confederazione.
Se si tiene conto che la Confederazione stessa sostiene di essere
l'organismo unitario di tutti i lavoratori italiani, cioè non solo
degli operai industriali ed agricoli ma anche dei contadini, e che in
Italia ci sono almeno quindici milioni di lavoratori organizzati,
appare che la Confederazione vuole, per programma, organizzare un
quindicesimo, cioè il 7,50 per cento, dei lavoratori italiani, mentre
noi vorremmo che nei sindacati e nelle organizzazioni contadine fossero
organizzati il cento per cento dei lavoratori. Ma se la Confederazione
vuole per ragioni di politica interna confederale, cioè per mantenere
la dirigenza confederale nelle mani dei riformisti, che solo il 7,50
per cento dei lavoratori italiani siano organizzati, essa vuole anche -
per ragioni di politica generale, cioè perché il partito riformista
possa collaborare efficacemente in un governo democratico borghese -
che la Confederazione, nel suo complesso, abbia un'influenza sulla
massa disorganizzata degli operai industriali ed agricoli e vuole,
impedendo l'organizzazione dei contadini, che i partiti democratici con
i quali intende collaborare mantengano la loro base sociale.
Essa
allora manovra nel campo specialmente delle commissioni interne che
sono elette da tutta la massa degli organizzati e dei disorganizzati.
Essa, cioè, vorrebbe impedire che gli operai organizzati, all'infuori
di quelli della tendenza riformista, presentassero liste di candidati
per le commissioni interne, vorrebbe che i comunisti, anche dove sono
in maggioranza nell'organizzazione sindacale locale e tra gli
organizzati delle singole officine votassero per disciplina le liste
della minoranza riformista.
Se questo
programma organizzativo fosse da noi accettato, si arriverebbe di fatto
all'assorbimento del nostro partito da parte del partito riformista, e
nostra sola attività rimarrebbe l'attività parlamentare.
Il compito delle "cellule"
D'altronde
come possiamo noi lottare contro l'applicazione e l'organizzazione di
un tale programma senza determinare una scissione che noi assolutamente
non vogliamo determinare? Per ottenere ciò non c'è altra via d'uscita
che l'organizzazione delle cellule e il loro sviluppo nello stesso
senso in cui esse si svilupparono in Russia prima della guerra.
Come
frazione sindacale, i riformisti ci impediscono, mettendoci alla gola
la pistola della disciplina, di centralizzare le masse rivoluzionarie
sia per la lotta sindacale che per la lotta politica. E' evidente
allora che le nostre cellule devono lottare direttamente nelle
fabbriche per centralizzare attorno al partito le masse, spingendole a
rafforzare le commissioni interne dove esse esistono, a creare comitati
di agitazione nelle fabbriche dove non esistono commissioni interne o
dove esse non assolvono ai loro compiti, spingendole a volere la
centralizzazione delle istituzioni di fabbrica come organismi di massa
non solamente sindacali, ma di lotta generale contro il capitalismo e
il suo regime politico.
E' certo che la
situazione in cui noi ci troviamo è molto più difficile di quella in
cui si trovavano i bolscevichi russi, perché noi dobbiamo lottare non
solo contro la reazione dello Stato fascista, ma anche contro la
reazione dei riformisti nei sindacati. Appunto perché è più difficile
la situazione, più forti devono essere le nostre cellule sia
organizzativamente che ideologicamente. In ogni caso, la
bolscevizzazione per ciò che ha riflesso nel campo organizzativo è una
necessità imprescindibile. Nessuno oserà dire che i criteri leninisti
di organizzazione del partito siano propri della situazione russa e che
sia un fatto puramente meccanico la loro applicazione all'Europa
occidentale.
Opporsi all'organizzazione
del partito per cellula significa ancora essere legati alle vecchie
concezioni socialdemocratiche, significa trovarsi realmente in un
terreno di destra, cioè in un terreno nel quale non si vuole lottare
contro la socialdemocrazia.
I cinque punti di Lenin per un buon partito bolscevico
La
commissione che avrebbe dovuto discutere specialmente col compagno
Bordiga, ha in sua assenza fissato la linea che il partito deve seguire
per risolvere la quistione delle tendenze e delle possibili frazioni
che da esse possono nascere, cioè per far trionfare nel nostro partito
la concezione bolscevica. Se esaminiamo la situazione generale del
nostro partito, alla stregua delle cinque qualità fondamentali che il
compagno Lenin poneva come condizioni necessarie per la efficienza del
partito rivoluzionario del proletariato nel periodo della preparazione
rivoluzionaria e cioè:
1) ogni comunista deve essere marxista;
2) ogni comunista deve essere in prima linea nelle lotte proletarie;
3)
ogni comunista deve aborrire dalle pose rivoluzionarie e dalle frasi
superficialmente scarlatte, cioè deve essere non solo un
rivoluzionario, ma anche un politico realista;
4)
ogni comunista deve sentire sempre di essere subordinato alla volontà
del suo partito e deve giudicare tutto dal punto di vista del suo
partito, cioè deve essere settario nel senso migliore che questa parola
può avere;
5) ogni comunista deve essere internazionalista.
Se
esaminiamo la situazione generale del nostro partito alla stregua di
questi cinque punti osserviamo che, se si può affermare per il nostro
partito che la seconda qualità forma uno dei suoi tratti
caratteristici, non altrettanto si può affermare per le altre quattro.
Manca nel nostro partito una profonda conoscenza della dottrina del
marxismo e quindi anche del leninismo. Sappiamo che ciò è legato alle
tradizioni del movimento socialista italiano, nel seno del quale mancò
ogni discussione teorica che interessasse le masse e contribuisse alla
loro formazione ideologica.
E' anche vero
però che il nostro partito non contribuì affatto a distruggere questo
stato di cose, e che anzi il compagno Bordiga, confondendo la tendenza
riformista a sostituire una generica attività culturale all'azione
politica rivoluzionaria delle masse con l'attività interna di partito
diretta ad elevare il livello di tutti i suoi membri fino alla completa
consapevolezza dei fini immediati e lontani del movimento
rivoluzionario, contribuì a mantenerlo.
Il fenomeno dell'estremismo
Il
nostro partito ha abbastanza sviluppato il senso della disciplina, e
cioè ogni socio riconosce la sua subordinazione al complesso del
partito, ma non altrettanto si può dire per ciò che riguarda i rapporti
con l'Internazionale comunista, cioè per ciò che riguarda la coscienza
di appartenere al partito mondiale. In questo senso solamente bisogna
dire che lo spirito internazionalista non è molto praticato, non certo
nel senso generale della solidarietà internazionale. Era questa una
situazione esistente nel Partito socialista e che si rifletté a nostro
danno al Congresso di Livorno.
Continuò a
sussistere in parte sotto altre forme per la tendenza suscitata dal
compagno Bordiga a ritener speciale titolo di nobiltà di dirsi seguaci
di una cosiddetta "sinistra italiana". In questo campo il compagno
Bordiga ha ricreato una situazione simile a quella creata dal compagno
Serrati dopo il II Congresso e che portò all'esclusione dei
massimalisti dall'Internazionale comunista. Egli cioè crea una specie
di patriottismo di partito che rifugge dall'inquadrarsi in una
organizzazione mondiale. Ma la debolezza massima del nostro partito è
quella caratterizzata dal compagno Lenin nel punto terzo: l'amore per
le pose rivoluzionarie e per le superficiali frasi scarlatte è il
tratto più rilevante non del Bordiga stesso, ma degli elementi che
dicono di seguirlo.
Naturalmente, il
fenomeno dell'estremismo bordighiano non è campato in aria. Esso ha una
duplice giustificazione. Da una parte è legato alla situazione generale
della lotta di classe nel nostro paese, e cioè al fatto che la classe
operaia è la minoranza della popolazione lavoratrice e che essa è
agglomerata prevalentemente in una sola zona del paese. In una tale
situazione, il partito della classe operaia può essere corrotto da
infiltrazioni delle classi piccolo-borghesi che, pur avendo interessi
contrari come massa agli interessi del capitalismo, non vogliono però
condurre la lotta fino alle sue estreme conseguenze.
Dall'altro
ha contribuito a consolidare l'ideologia di Bordiga la situazione in
cui venne a trovarsi il Partito socialista fino a Livorno e che Lenin
caratterizzò così nel suo libro "L'estremismo come malattia infantile
del comunismo": "In un partito dove c'è un Turati e c'è un Serrati che
non lotta contro Turati è naturale che ci sia un Bordiga". Non è però
naturale che il compagno Bordiga si sia cristallizzato nella sua
ideologia anche quando Turati non era più nel partito, non vi era lo
stesso Serrati, e Bordiga in persona conduceva la lotta contro l'uno o
contro l'altro.
Evidentemente, l'elemento
della situazione nazionale era preponderante nella formazione politica
del compagno Bordiga e aveva cristallizzato in lui uno stato permanente
di pessimismo sulla possibilità che il proletariato e il suo partito
potessero rimaner immuni da infiltrazioni di ideologie piccolo-borghesi
senza l'applicazione di una tattica politica estremamente settaria che
rendeva impossibile l'applicazione e la realizzazione dei due principi
politici che caratterizzarono il bolscevismo: l'alleanza tra operai e
contadini e l'egemonia del proletariato nel movimento rivoluzionario
anticapitalista.
La linea da adottare per
combattere queste debolezze del nostro partito è quella della lotta per
la bolscevizzazione. La campagna da farsi deve essere prevalentemente
ideologica. Essa però deve diventare politica per ciò che riguarda
l'estrema sinistra, cioè la tendenza rappresentata dal compagno
Bordiga, che dal frazionismo latente passerà necessariamente all'aperto
frazionismo e nel congresso cercherà di mutare l'indirizzo politico
dell'Internazionale.
La quistione delle tendenze
Esistono
nel nostro partito altre tendenze? Qual è il loro carattere e quale
pericolo possono rappresentare? Se esaminiamo da questo punto di vista
la situazione interna del nostro partito, dobbiamo riconoscere che esso
non solo non ha raggiunto il grado di maturità politica rivoluzionario
che riassumiamo nella parola "bolscevizzazione", ma che non ha
raggiunto neanche la completa unificazione delle varie parti che
influirono alla sua composizione.
A ciò
ha contribuito l'assenza di ogni largo dibattito che purtroppo ha
caratterizzato il partito fin dalla sua fondazione. Se teniamo conto
degli elementi che al Congresso di Livorno si schierarono per
l'Internazionale comunista possiamo constatare che delle tre correnti
che costituirono il Partito comunista:
1) gli astensionisti della frazione Bordiga;
2) gli elementi raggruppatisi intorno all'"Ordine Nuovo" e all'"Avanti!" di Torino ;
3)
gli elementi di massa che seguivano il gruppo che chiameremo
Gennari-Marabini, cioè i seguaci delle figure più caratteristiche dello
strato dirigente del Partito socialista venute con noi, solamente due,
cioè quella astensionista e quella "Ordine Nuovo" "Avanti!" torinese,
avevano prima del Congresso di Livorno svolto un certo lavoro politico
autonomo, avevano nel loro seno dibattuto i problemi essenziali
dell'Internazionale comunista ed avevano quindi acquistato una certa
capacità ed esperienza politica comunista.
Ma
queste correnti, se riuscirono ad avere il sopravvento nella direzione
del nuovo Partito comunista, non ne costituivano la maggioranza di
base. Inoltre, di queste due correnti una sola, astensionista, fin dal
1919, cioè da due anni avanti Livorno, aveva un'organizzazione
nazionale, aveva formato fra i suoi aderenti una certa esperienza
organizzativa di partito, ma nel periodo preparatorio si era
esclusivamente occupata di quistioni interne di partito, della
specifica lotta delle frazioni, senza avere nel suo complesso
attraversato esperienze politiche di massa altro che nella quistione
puramente parlamentare.
La corrente
costituitasi intorno all'"Ordine Nuovo" e all'"Avanti!" piemontese non
aveva suscitato né una frazione nazionale e neppure una vera e propria
frazione nei limiti della regione piemontese in cui era sorta e si era
sviluppata. La sua attività fu prevalentemente di massa; i problemi
interni di partito furono da essa sistematicamente collegati con i
bisogni e le aspirazioni della lotta generale di classe, generale della
popolazione lavoratrice piemontese e specialmente del proletariato di
Torino: ciò, se diede ai suoi componenti una migliore preparazione
politica e una capacità maggiore nei suoi singoli membri anche di
massa, a guidare dei movimenti reali, la pose in condizioni di
inferiorità nell'organizzazione generale del partito.
Se
si eccettua il Piemonte, la grande maggioranza del nostro partito venne
a costituirsi degli elementi rimasti a Livorno con l'Internazionale
comunista, perché con l'Internazionale comunista erano rimasti tutta
una serie di compagni del vecchio strato dirigente del Partito
socialista, come Gennari, Marabini, Bombacci, Misiano, Salvadori,
Graziadei, ecc.: su questa massa che per le concezioni non si
differenziava in nulla dai massimalisti, s'innestarono i gruppi
astensionisti locali dandole la forma dell'organizzazione del nuovo
Partito comunista.
Se non si tenesse
conto di questa reale formazione nel nostro partito non si
comprenderebbe né la crisi che esso ha attraversato e neanche la
situazione attuale. Per le necessità di lotta senza quartiere che
s'imposero al nostro partito fin dalla sua origine, la quale coincise
con lo sferrarsi più furioso della reazione fascista e per cui si può
dire che ogni nostra organizzazione fu battezzata dal sangue dei nostri
migliori compagni, le esperienze dell'Internazionale comunista, cioè
non solo del partito russo ma anche degli altri partiti fratelli, non
giunsero fino a noi e non furono assimilate dalla massa del partito
altro che saltuariamente e episodicamente. In realtà il nostro partito
si trovò ad essere staccato dal complesso internazionale, si trovò a
sviluppare la sua ideologia arruffata e caotica sulla sola base delle
nostre immediate esperienze nazionali, si creò cioè in Italia una nuova
forma di massimalismo.
Questa situazione
generale è stata aggravata l'anno scorso dall'ingresso nelle nostre
file della frazione terzinternazionalista. Le debolezze che ci erano
caratteristiche, esistevano in una forma ancora più grave e pericolosa
in questa frazione, la quale da due anni e mezzo viveva in forma
autonoma nel seno del partito massimalista, creando così vincoli
interni fra i suoi aderenti che dovevano prolungarsi anche dopo la
fusione. Inoltre anche la frazione terzinternazionalista, per due anni
e mezzo, fu assorbita completamente dalla lotta interna con la
direzione del Partito massimalista, lotta che fu prevalentemente di
carattere personale e settario e solo episodicamente trattò le
quistioni fondamentali sia politiche che organizzative.
La bolscevizzazione
E'
evidente dunque che la bolscevizzazione del partito nel campo
ideologico non può solo tenere conto della situazione che riassumiamo
nell'esistenza di una corrente di estrema sinistra e nell'atteggiamento
personale del compagno Bordiga. Essa deve investire la situazione
generale del partito, cioè deve porsi il problema di elevare il livello
teorico e politico di tutti i nostri compagni. E' certo per esempio che
esiste anche una quistione Graziadei, cioè che noi dobbiamo basarci
sulle sue recenti pubblicazioni per migliorare l'educazione marxista
dei nostri compagni combattendo le deviazioni cosiddette scientifiche
in esse sostenute.
Nessuno però può
pensare che il compagno Graziadei rappresenti un pericolo politico,
cioè che sulla base delle sue concezioni revisionistiche del marxismo
possa nascere una vasta corrente e quindi una frazione che metta in
pericolo l'unità organizzativa del partito. D'altronde non bisogna
neppure dimenticare che il revisionismo di Graziadei porta ad un
appoggio alle correnti di destra che, sia pure allo stato latente,
esistono nel nostro partito. L'entrata in esso della frazione
terzinternazionalista, cioè di un elemento politico che non ha perduto
molto dei suoi caratteri massimalisti e che, come si è già detto,
meccanicamente tende a prolungare oltre la sua esistenza di frazione
nel seno del Partito massimalista i vincoli creatisi nel periodo
precedente, può indubbiamente dare a questa potenziale corrente di
destra una certa base organizzativa, ponendo dei problemi che non
devono assolutamente essere trascurati.
Tuttavia
non è possibile che nascano forti divergenze su questa serie di
apprezzamenti; le quistioni alle quali abbiamo accennato e che nascono
dalla composizione originaria del nostro partito pongono
prevalentemente dei problemi ideologici fortemente legati a due
necessità:
1)
che la vecchia guardia del partito assorba la massa dei nuovi iscritti
venuti al partito dopo il fatto Matteotti e che hanno triplicato gli
effettivi del partito;
2) alla
necessità di creare dei quadri organizzativi di partito che siano in
grado non solo di risolvere i problemi quotidiani della vita di
partito, sia come organizzazione propria sia nei suoi collegamenti coi
sindacati e con le altre organizzazioni di massa, ma che siano in grado
di risolvere i più complessi problemi legati alla preparazione della
conquista del potere ed all'esercizio del potere conquistato.
Il pericolo di destra
Si
può dire che potenzialmente esiste nel nostro partito un pericolo di
destra. Esso è legato alla situazione generale del paese. le
opposizioni costituzionali, quantunque storicamente siano scadute dalla
loro funzione fin da quando hanno rigettato la nostra proposta di
creare l'antiparlamento, continuano tuttavia a sussistere politicamente
accanto ad un fascismo consolidato.
Poiché
le perdite subite dall'opposizione, se hanno rafforzato il nostro
partito, non l'hanno però rafforzato nella stessa misura in cui si è
consolidato il fascismo che ha nelle mani tutto l'apparato statale, è
evidente che nel nostro partito, di fronte ad una tendenza di estrema
sinistra, che crede giunto ad ogni istante il momento di passare
all'attacco frontale del regime che non può disgregarsi per le manovre
dell'opposizione, potrà nascere se già non esiste una tendenza di
destra, i cui elementi, demoralizzati dall'apparente strapotere del
partito dominante, disperando che il proletariato possa rapidamente
rovesciare il regime nel suo complesso, incominceranno a pensare che
sia per essere migliore tattica quella che porti, se non addirittura a
un blocco borghese-proletario per la eliminazione costituzionale del
fascismo, per lo meno ad una tattica di passività reale, di
non-intervento attivo del nostro partito, la quale permetta alla
borghesia di servirsi del proletariato come di una massa di manovra
elettorale contro il fascismo.
Di tutte
queste possibilità e probabilità il partito deve tener conto affinché
la sua giusta linea rivoluzionaria non subisca deviazioni. Il partito,
se deve considerare il pericolo di destra come una possibilità da
combattersi con la propaganda ideologica e con mezzi disciplinari
ordinari ogni volta che ciò si dimostra necessario, deve invece
considerare il pericolo di estrema sinistra come una realtà immediata,
come un ostacolo allo sviluppo non solo ideologico ma politico del
partito, come un pericolo che deve essere combattuto non solo con la
propaganda ma anche con l'azione politica, perché immediatamente porta
alla disgregazione dell'unità anche formale della nostra
organizzazione, perché tende a creare un partito nel partito, una
disciplina contro la disciplina del partito.
Vuol
dire questo che noi si voglia giungere ad una rottura con il compagno
Bordiga e con quelli che si dicono suoi amici? Vuol dire che noi
vogliamo modificare la base fondamentale del partito quale si era
costituita al Congresso di Livorno ed era stata conservata al Congresso
di Roma? Certamente e assolutamente no. Ma la base fondamentale del
partito non era un fatto puramente meccanico: essa si era costituita
sull'accettazione incondizionata dei principi e della disciplina
dell'Internazionale comunista.
Ma non
siamo noi che abbiamo posto in discussione questi principi e questa
disciplina; non sarebbe quindi da ricercare in noi la volontà di
modificare la base fondamentale del partito; occorre inoltre dire che
il 90 per cento se non più dei suoi membri, il partito ignora le
quistioni che sono sorte tra la nostra organizzazione e
l'Internazionale comunista. Se, specialmente dopo il Congresso di Roma,
il partito nel suo complesso fosse stato messo in grado di conoscere la
situazione dei nostri rapporti internazionali, esso probabilmente non
sarebbe ora nelle condizioni di confusione in cui si trova.
In
ogni caso, teniamo ad affermare con molta energia, perché sia sventato
il triste gioco di alcuni elementi irresponsabili che pare trovino la
loro felicità nell'inasprire le piaghe della nostra organizzazione, che
noi riteniamo possibile venire ad un accordo col compagno Bordiga e
pensiamo che tale sia anche la opinione del compagno Bordiga stesso.
L'impostazione della discussione
E'
secondo questo indirizzo generale che noi riteniamo debba essere
impostata la discussione per il nostro congresso. Nel periodo che
abbiamo attraversato dalle ultime elezioni parlamentari, il partito ha
condotto un'azione politica reale che è stata condivisa dalla grande
maggioranza dei nostri compagni. Sulla base di questa azione, il
partito ha triplicato il numero dei suoi soci, ha sviluppato in modo
notevole la sua influenza nel proletariato, tanto che si può dire
essere il nostro partito il più forte tra i partiti che hanno una base
nella Confederazione generale del lavoro.
Si
è riusciti in questo periodo a porre concretamente il problema
fondamentale della nostra rivoluzione: quello dell'alleanza tra operai
e contadini. Il nostro partito, in una parola, è diventato un fattore
essenziale della situazione italiana. Su questo terreno dell'azione
politica reale si è creata una certa omogeneità tra i nostri compagni.
Questo elemento deve continuare a svilupparsi nella discussione del
congresso e deve essere una delle determinanti essenziali della
bolscevizzazione.
Ciò significa che il
congresso non deve essere concepito solo come un momento della nostra
politica generale, del processo attraverso il quale noi ci leghiamo
alle masse e suscitiamo nuove forze per la rivoluzione. Il nucleo
principale dell'attività del congresso deve essere perciò visto nelle
discussioni che si faranno per stabilire quale fase della vita italiana
e internazionale noi attraversiamo, cioè quali sono i rapporti attuali
delle forze sociali italiane, quali sono le forze motrici della
situazione, quale fase della lotta delle classi è l'attuale. Da questo
esame nascono due problemi fondamentali:
1)
come noi possiamo sviluppare il nostro partito in modo che esso diventi
una unità capace di condurre il proletariato alla lotta, capace di
vincere e di vincere permanentemente. E' questo il problema della
bolscevizzazione;
2) quale azione reale
politica il nostro partito debba continuare a svolgere per determinare
la coalizione di tutte le forze anticapitalistiche guidate dal
proletariato (rivoluzionario) nella situazione data per rovesciare il
regime capitalistico in un primo tempo e per costituire la base dello
Stato operaio rivoluzionario in un secondo tempo.
Cioè,
noi dobbiamo esaminare quali sono i problemi essenziali della vita
italiana e quale loro soluzione favorisce e determina l'alleanza
rivoluzionaria del proletariato coi contadini e realizza l'egemonia del
proletariato. Il congresso quindi dovrà almeno preparare lo schema
generale del nostro programma di governo. E' questa una fase essenziale
della nostra vita di partito. Perfezionare lo strumento necessario per
la rivoluzione proletaria in Italia: ecco il compito maggiore del
nostro congresso; ecco il lavoro al quale invitiamo tutti i compagni di
buona volontà che antepongono gli interessi unitari della loro classe
alle meschini e sterili lotte di frazioni.
Il Partito si rafforza combattendo le deviazioni antileniniste
"L'Unità", 5 luglio 1925
Vogliamo
esaminare pacatamente e serenamente questi "punti di sinistra" che
pretendono di dare al nostro partito e alla Internazionale soluzioni
italiane "originali" ai problemi di tattica e di organizzazione, degne
di poter sostituire il leninismo.
La situazione italiana
Non
c'è nei punti un paragrafo dedicato esplicitamente alla situazione
italiana; tuttavia un apprezzamento sulla situazione può ricavarsi dal
paragrafo dedicato alla quistione delle cellule, e non si può negare
che sia un apprezzamento discretamente originale. Si dice: in Italia
non c'è la situazione che c'era in Russia negli anni dal 1905 al 1917,
cioè in Italia non c'è una situazione rivoluzionaria. In Russia c'era
il terrore zarista; in Italia evidentemente non c'è nessuna specie di
terrore. In Russia non c'erano grandi organizzazioni di massa
(sindacati, ecc.), mentre in Italia, evidentemente, c'è la più grande
libertà di organizzazione, le masse possono riunirsi, discutere come
vogliono le loro quistioni, preparare le agitazioni. In Russia non
erano possibili le... pacifiche conquiste; in Italia, invece, ogni
giorno le masse passano di conquista in conquista.
Compagni
operai di Milano, di Torino, di Trieste, di Bari, di Bologna, non vi
pare questo un apprezzamento "originale" della situazione italiana?
Tanto originale che voi non ci avevate mai pensato; ora vi è caduto un
velo dagli occhi e potete giudicare tra il Comitato centrale del
partito e il Comitato d'intesa che afferma la possibilità di conquiste
pacifiche. Che l'estremismo si costituisca in frazione per le conquiste
pacifiche: ecco una originalità veramente inaspettata!
Il partito
Secondo
la dottrina del leninismo, il Partito comunista è l'avanguardia del
proletariato, è, cioè, la parte più avanzata di una classe determinata
e solo di questa. Naturalmente nel partito possono entrare anche altri
elementi sociali (intellettuali e contadini), ma deve rimanere ben
fermo che il Partito comunista è organicamente una parte del
proletariato.
Secondo il Comitato
d'intesa, il partito non è una parte di una classe, ma è una "sintesi"
di proletari, di contadini, di disertori della classe borghese e anche
di altri (c'è un ecc. molto misterioso nei "punti"). Per il Comitato
d'intesa il partito è dunque un'organizzazione interclassista, una
sintesi di interessi che non possono invece sintetizzarsi in nessun
modo; naturalmente questo pasticcio "originale" viene gabellato per
marxismo.
Secondo il marxismo il
movimento proletario, che viene creato oggettivamente dallo sviluppo
del capitalismo, diventa rivoluzionario, cioè si pone il problema della
conquista del potere politico solo quando la classe operaia è divenuta
consapevole di essere la sola classe capace di risolvere i problemi che
il capitalismo pone nel suo sviluppo, ma non riesce e non può riuscire
a risolvere.
Come la classe operaia
acquisti questa consapevolezza? Il marxismo afferma e dimostra contro
il sindacalismo che ciò non avviene spontaneamente, ma solo perché i
rappresentanti della scienza e della tecnica, essendo in grado di far
ciò per la loro posizione specifica di classe (gli intellettuali sono
una classe che serve la borghesia, e non sono tutta una cosa con la
classe borghese), sulla base della scienza borghese costruiscono la
scienza proletaria, dallo studio della tecnica quale si è sviluppata in
regime capitalistico arrivano alla conclusione che un ulteriore
sviluppo è impossibile se il proletariato non prende il potere, non si
costituisce in classe dominante, imprimendo a tutta la società i suoi
specifici caratteri di classe.
Gli
intellettuali sono necessari, adunque, per la costruzione del
socialismo; sono stati necessari, come rappresentanti della scienza e
della tecnica, per dare al proletariato la coscienza della sua missione
storica. Ma ciò è stato un fenomeno individuale, non di classe: come
classe, solo il proletariato diventa rivoluzionario e socialista prima
della conquista del potere e lotta contro il capitalismo.
Inoltre:
una volta la teoria socialista nata e sviluppatasi scientificamente,
anche gli operai se l'assimilano e ne traggono nuove conseguenze. Il
Partito comunista è appunto quella parte del proletariato che si è
assimilato la teoria socialista e continua a diffonderla. Il compito
che agli inizi del movimento fu svolto da singoli intellettuali (come
Marx ed Engels) ma anche da operai che avevano una capacità scientifica
(come l'operaio tedesco Dietzgen), oggi è svolto dai partiti comunisti
e dall'Internazionale nel loro complesso. Per il Comitato d'intesa noi
dovremmo concepire il partito così come poteva essere concepito agli
inizi del movimento: una "sintesi" di elementi individuali e non un
movimento di massa.
Perché ciò? In questa
concezione c'è una tinta di forte pessimismo verso la capacità degli
operai come tali. Solo gli intellettuali possono essere "veramente"
rivoluzionari comunisti, solo gli intellettuali possono essere "uomini
politici". Gli operai sono operai e non possono che rimanere tali fino
a quando il capitalismo li opprime: sotto l'oppressione capitalistica
l'operaio non può svilupparsi completamente, non può uscire dallo
spirito angusto di categoria.
Che cos'è
allora il partito? E' solo il ristretto gruppo dei suoi dirigenti (in
questo caso è solo il Comitato d'intesa) che "riflettono" e
"sintetizzano" gli interessi e le aspirazioni generiche della massa,
anche del partito. La dottrina leninista afferma e dimostra che questa
concezione è falsa ed è estremamente pericolosa; essa ha, tra l'altro,
portato al fenomeno del "mandarinismo" sindacale, cioè alla
controrivoluzione.
Secondo la dottrina
leninista, se è vero che la classe operaia nel suo complesso non può
divenire compiutamente comunista che dopo la conquista del potere, è
vero però che una sua avanguardia può invece, anche prima della
rivoluzione, divenire tale. Gli operai entrano nel partito comunista
non solamente come operai (metallurgici, falegnami, edili, ecc.), ma
entrano come operai comunisti, come uomini politici cioè, come teorici
del socialismo, quindi, e non solo come ribelli in generale; e col
partito, attraverso le discussioni, attraverso le letture e le scuole
di partito, si sviluppano continuamente, diventano dirigenti. Solo nel
sindacato l'operaio entra solo nella sua qualità di operaio e non di
uomo politico che segue una determinata teoria.
Le cellule
Quanto
siano importanti queste quistioni e come esse possono avere gravi
ripercussioni se malamente risolte (il Comitato d'intesa direbbe
"originalmente" risolte), si vede nella quistione delle cellule, che il
partito vuole siano alla sua base, in luogo delle vecchie sezioni o
delle vecchie assemblee territoriali.
Il
Comitato d'intesa è contro le cellule. Perché? E' chiaro: le cellule di
officina sono costituite e devono tendere ad essere costituite solo di
operai. Ma l'operaio non può essere rivoluzionario; invece è
rivoluzionario nell'assemblea territoriale, evidentemente perché in
questa ci sono anche gli avvocati, i professori, ecc. Tutto il
paragrafo sui sistemi organizzativi del partito del programma intesista
è un cumulo di errori e di affermazioni abbastanza ridicole.
Quando
mai, per esempio, il Labour Party è stato organizzato sulle cellule?
Quando mai i sindacati sono stati organizzati sulle cellule? E perché i
sindacati devono essere controrivoluzionari? I sindacati di per sé non
sono rivoluzionari, ma non sono neanche controrivoluzionari: i
dirigenti possono essere rivoluzionari o controrivoluzionari. Il Labour
Party non è organizzato per cellule. E' una federazione di sindacati e
di partiti politici.
Se fosse così come
dice il Comitato d'intesa, perché dunque il Partito bolscevico russo
conservò e ampliò la sua organizzazione per cellule anche dopo la
caduta dello zarismo e perché è organizzato per cellule anche oggi,
quando la classe operaia è al potere e i sindacati (che sarebbero
controrivoluzionari, secondo il Comitato d'intesa) hanno tutta la
libertà di organizzazione e di riunione?
E
perché il sistema delle cellule dovrebbe essere federalista, mentre non
sarebbe federalista il sistema delle sezioni territoriali? E' ben noto
cosa significa federalismo: significa, per esempio, parità di poteri
alle organizzazioni di base, qualunque sia il numero degli organizzati
di ciascuna: nel movimento sindacale francese si vota per sindacato,
non per tesserati, sicché una lega di parrucchieri di una piccola città
conta quanto il sindacato dei metallurgici di Saint-Etienne (questo
sistema era in vigore nell'Unione sindacale italiana). Federalismo
significa che nei congressi si va con un mandato imperativo; è
federalista il Comitato delle opposizioni, nel quale il piccolo Partito
sardo d'azione ha gli stessi poteri del "grandissimo" Partito
massimalista.
Tutto questo paragrafo
sulle cellule è un mucchio di corbellerie senza senso comune e senza
fondamenti di prospettiva storica. Nella realtà, la concezione che del
Partito comunista ha il Comitato d'intesa è una concezione arretrata,
propria del periodo iniziale del capitalismo, mentre la concezione
leninista, quale si riflette nel sistema organizzativo delle cellule è
la concezione propria della fase imperialista, cioè della fase in cui
si organizza la rivoluzione.
Fino alla
Comune di Parigi poteva dirsi che "il partito è l'organo che sintetizza
ed unifica le spinte individuali e di gruppi provocate dalla lotta di
classe", cioè il partito si limita a registrare i progressi della
classe operaia e a fare opera di propaganda ideologica; ma oggi non
siamo nel 1848, esiste oggi un profondo e largo movimento
rivoluzionario di massa, e il partito guida la massa, dirige la lotta
di classe e non si limita a fare il notaio. Tuttavia è abbastanza
"originale" che si gabelli per sinistrismo una concezione arretrata e
reazionaria.
Contro il leninismo. Contro l'Internazionale comunista
Abbiamo
dato solo qualche spunto della risposta esauriente che occorrerà dare a
questo documento, che è la "carta" fondamentale del Comitato d'intesa e
che dovrebbe diventare la "carta" del partito e dell'Internazionale.
In
esso non vi è nulla di nuovo e di originale. Si tratta di un cumulo
indigesto di vecchi errori e di vecchie deviazioni dal marxismo, che
possono apparire "originalità" solo a chi non conosce la storia del
movimento operaio. Ciò che impressiona in questo documento, non è tanto
l'errore politico, quanto la decadenza intellettuale di chi l'ha
compilato. Occorre esaminarlo e discuterlo solo perché più vivamente
risalti, nei suoi confronti, l'energia, il vigore intellettuale, la
profonda giustezza storica della dottrina leninista, che non ha
permesso al fascismo korniloviano di giungere al potere in Russia, ma
invece ha saputo guidare il proletariato alla vittoria rivoluzionaria.
Si può escludere a priori che tale
documento "sintetizzi" una posizione di "sinistra". Sulla sua base si
può giungere invece alle più pericolose deviazioni di destra: basta
pensare alla concezione veramente reazionaria che in esso si ha del
proletariato e della sua capacità politica. Da questo punto di vista si
può dire che l'attuale discussione tra il Comitato centrale e gli
estremisti abbia un contenuto di classe. Il Comitato centrale
rappresenta l'ideologia del proletariato rivoluzionario, che ha
coscienza di essere divenuto una classe degna di esercitare il potere:
il Comitato d'intesa rappresenta un ultimo conato di sparuti gruppi
d'intellettuali rivoluzionari, ancora impregnati di diffidenza
piccolo-borghese verso l'operaio, ritenuto inferiore, incapace di
emanciparsi da sé, oggetto della rivoluzione, non protagonista della
grande opera di emancipazione di tutti gli oppressi dal capitale.
Perciò la lotta è già vinta "storicamente" prima ancora di essere
combattuta.
Opinioni nelle file del partito
"L'Unità", 21 luglio 1925
Abbiamo sul tavolo esattamente 40 tra lettere
ed articoli giunti da ogni parte d'Italia e dai compagni italiani
residenti all'estero e dedicati alla polemica suscitata dal tentativo
frazionistico dell'ex Comitato d'intesa. Vorremmo pubblicarli tutti,
questi articoli, anche se essi non danno un contributo importante alla
discussione e alla chiarificazione delle idee; sono l'opinione media
della massa del partito; rappresentano stati d'animo diffusi tra gli
elementi più attivi del movimento rivoluzionario, tra gli elementi che
in ultima analisi sono la spina dorsale del partito; sono la forza per
il cui merito progrediamo e siamo capaci d'azione.
Ma
il Comitato esecutivo ha deciso di troncare la campagna contro il
frazionismo con la pubblicazione (che avverrà domani) di una lunga
lettera di Bordiga, e perciò riassumiamo solo e diamo puramente notizia
di questi articoli. Nessuno dei 40 scritti ha sia pure una frase che
significhi appoggio aperto all'ex Comitato d'intesa. Solo un
piccolissimo numero di essi (7-8) contiene spunti o motivi che
dimostrano, in chi scrive, concordanza di opinioni coi compagni che si
sono resi responsabili del tentativo frazionistico. La grande
maggioranza dimostra di aver capito ottimamente la necessità della
campagna fatta dal Comitato centrale e di aver capito quale pericolo
abbia corso il partito, ciò che significa come tentativi simili siano
ormai destinati a fallire subito all'inizio.
L'avventura
intesista ha offerto una formidabile lezione al partito; essa ha
mostrato che anche per ciò che riguarda la vita interna del partito
stesso, non bisogna mai lavarsi la bocca con frasi fatte, nella
persuasione che la nostra organizzazione, perché è comunista, sia
immunizzata a priori da ogni tentativo frazionistico e scissionistico.
Finché c'è la lotta di classe, fino a quando esisterà una società
divisa in classi (e cioè, quindi, anche dopo la vittoria
rivoluzionaria, poiché la dittatura del proletariato non è che la forma
suprema della lotta della classe proletaria), il partito può sempre
diventare il teatro di lotte interne, provocate dall'influenza delle
classi non proletarie e specialmente di quelle che storicamente possono
diventare e diventeranno alleate degli operai, cioè i contadini e gli
intellettuali.
Se il partito non si è
consolidato, se attraverso l'esperienza non è riuscito a capire come le
manovre tendenti a mutare il suo carattere proletario possono assumere
inizialmente anche le più innocenti apparenze di pure quistioni
organizzative, il partito può sempre correre il rischio di essere
deviato o disgregato: nessuna garanzia può essere data perché ciò non
avvenga all'infuori della coscienza proletaria e della preparazione
ideologica e politica della massa.
Un
articolo discretamente interessante ha inviato da Napoli un compagno
che firma Tini. La tesi del compagno Tini è molto semplice: la critica
è buona in sé, il malcontento è sempre stato il lievito della storia,
ecc. Occorre però precisare: nell'interno del partito la critica è
utile e necessaria quando tende a correggere gli errori commessi
nell'applicazione di un determinato metodo (per usare la fraseologia
cara ai nostri estremisti), in questo caso del metodo fissato dai
congressi dell'Internazionale. Ma quando la critica stessa diventa un
metodo e si crede che occorra sempre essere originali a tutti i costi e
si crede di essere furbi perché si mette in dubbio tutto e tutti,
allora si cade proprio nella posizione piccolo-borghese.
Noi,
per esempio, crediamo che sia più originale studiare e capire il
leninismo, piuttosto che servire al proletariato piatti nuovi presunti
originali, ma che viceversa sono spessissimo vecchi cavoli riscaldati
dalle cucine anarchica, sindacalista, socialdemocratica. Il cuoco può
crederli originali, perché ogni cuoco ama i suoi piatti, può condirli
con salse e brodi piccantissimi; rimangono cavoli riscaldati,
rimasticature pappagallesche di vecchissimi errori. In realtà il
compagno Tini ripete una vecchia musica, quella della libertà di
opinione, diventata "libertà di critica", libertà di spazzar razzi
originali, libertà di portare il proprio contributo di esperienze.
Anche Turati voleva questa libertà nel 1920, e se gli fosse stata
concessa sarebbe rimasto nell'Internazionale comunista. L'argomento è
interessante e merita di essere trattato più largamente. Altri compagni
si preoccupano di quistioni come: la possibilità della discussione che
può nuocere al partito dinanzi alle masse, il fatto che le masse
possano credere che si tratti di lotta fra persone preoccupate di
mantenere o di acciuffare il cadreghino, ecc.
La
quistione fondamentale è però questa: la discussione era ed è
necessaria o no? Se era necessaria, il male che può fare la sua
pubblicità, sarà sempre minore del male che avrebbe fatto il
soffocarla, nascondendo le nostre debolezze, lasciando che il partito
fosse disgregato. Le masse non vedono mai malvolentieri che si affronti
apertamente e decisamente una situazione. Potranno oscillare per un
momento, poi si stringeranno più fortemente intorno al partito che
dimostra di saper risolvere con energia le sue quistioni. Quanto alla
lotta di persone e al cadreghino, le masse vedono ogni giorno come
avere cariche di responsabilità nel nostro partito non sia una sinecura
fruttuosa: vuol dire andare in prigione, o prendersi una randellata
all'angolo della via. L'interesse personale porterebbe piuttosto a
scomparire dalla circolazione, a farsi dimenticare, ad andare a piantar
cavoli nel proprio paesello.
Un compagno
parla anche del fatto che l'attuale Comitato centrale rappresenta la
minoranza del partito. Perché mai dunque? Il partito, in questo
periodo, ha triplicato i suoi effettivi, da 10.000 membri che contava
nei primi mesi del '24 è giunto a più di 30.000. Questi nuovi 20.000
membri sono forse entrati nel partito perché accettavano la politica
degli estremisti, o perché accettavano la tattica leninista
dell'Internazionale applicata dal Comitato centrale in Italia? E poi.
Prendiamo i compagni del Comitato centrale eletto nel Congresso di
Roma: è la maggioranza di questo Comitato centrale che si è dichiarata
per l'Internazionale contro l'estrema sinistra, e non una piccola
maggioranza, ma 12 a 3.
Dunque anche
della vecchia guardia comunista la maggioranza non era rappresentata
dall'estrema sinistra, ma dal Comitato centrale eletto a Roma, che ha
isolato l'estrema sinistra appunto quando la sinistra è diventata
estrema sinistra, cercando di spostare il terreno su cui il partito si
era costituito. Il compagno T.U. di Milano che più insiste su questo
argomento, accenna anche al fatto che gli attuali estremisti sarebbero
stati i fondatori del partito. Piano, compagno. Sono stati tra i
fondatori, non i fondatori. Crediamo per esempio che alla fondazione
del partito abbia contribuito parecchio il fatto che a Torino i
compagni abbiano nel 1920 assicurato alla frazione di Imola l'edizione
piemontese dell'"Avanti!" , divenuta col 1° gennaio 1921 "l'Ordine
Nuovo", e che a Trieste sia stato assicurato al nostro partito il
"Lavoratore". Questi due giornali hanno molto contribuito alla
formazione del partito; ed essi non furono conquistati con la tattica
estremista, rappresentata allora dall'astensionismo, ma con la tattica
leninista. Si potrà riparlare anche di questo argomento, poiché è
necessario che i compagni, specialmente i più giovani di partito,
conoscano la storia della nostra organizzazione.(…)
Abbiamo
detto che tra i 40 articoli-lettere che abbiamo davanti solo pochissimi
sostenevano sia pure indirettamente la posizione del Comitato d'intesa,
mentre la grandissima maggioranza esprime punti di vista contrari
radicalmente al tentativo frazionistico e svolge considerazioni che
dimostrano come nei compagni è stato capito il nesso esistente tra la
concezione tattica erronea dell'estremismo e l'avventura frazionistica
stessa. Da questo mucchio di scritti una cosa risulta in forma chiara e
con energia: la formidabile compattezza proletaria del nostro partito,
che non vuole seguire le persone ma i programmi e che riconosce come
valido un solo programma, quello dell'Internazionale comunista.
I
proletari comunisti vedono la lotta di classe reale, non lo schema
libresco della lotta di classe; vogliono la verità, non
l'"originalità"; sentono pulsare nella dottrina leninista lo spirito
realistico, concreto, fattivo della loro classe, mentre vedono
contrapporgli degli schemi freddi, inamidati, dei figurini
intellettuali senza consistenza che si reggono non per una coerenza
propria, ma per l'abilità esteriore del sapere adoperare le parole ad
effetto. Una cosa colpisce specialmente; come non faccia più effetto
l'uso e l'abuso dell'aggettivo "sinistro"; l'esperienza fascista ha
dimostrato agli operai italiani che non gli aggettivi contano, ma le
cose: nessuna teoria può essere più a "sinistra" del leninismo che ha
guidato la vittoriosa rivoluzione russa.
Il
compagno Bordiga scrive: ma Lenin è morto, e perciò la sua teoria può
degenerare nei suoi discepoli. Certo, gli rispondono gli operai, tutto
può avvenire, ma se i singoli possono degenerare e può quindi
degenerare lo stesso Bordiga, non può degenerare invece l'intiero
partito, l'intiera Internazionale. E poi non basta porre la quistione
della possibile degenerazione dei singoli: occorre proporre rimedi ai
malanni possibili. Quali rimedi propone Bordiga? Il frazionismo, cioè
ad una degenerazione possibile nel futuro contrappone una degenerazione
reale nel presente. La sostituzione delle persone e dei metodi? Ma dove
sono questi metodi e quanto essi hanno subito la prova del fuoco di una
rivoluzione?
Il compagno Bordiga ha
applicato il suo metodo astensionista negli anni 1919-20: è forse
riuscito a far vincere la rivoluzione agli operai? Eppure allora il
compagno Lenin era vivo; ma era anche contro il compagno Bordiga. E nel
1921-22, forse che l'estremismo ha impedito l'avvento al potere dei
fascisti? Purtroppo una cosa appare da queste lettere: che il compagno
Bordiga appena ha enunciato nudo e crudo il suo pensiero come ha fatto
nei Punti della sinistra è apparso ai compagni molto, ma molto
inferiore alla sua fama.
Egli era come
una dama velata e misteriosa, che viene creduta chissà mai quale
bellezza; si toglie il velo, ed appare una donna comune, non
completamente spiacevole, ma che potrà fare i figli allo stesso modo di
tutte le altre donne, né più e né meno, senza che si debba uscir pazzi
per lei... Proprio così, e ciò spiega perché tanti compagni
rimproverino alla Centrale di non essere stata più energica e di non
aver subito ricorso ai mezzi chirurgici anziché all'omeopatia.
L'organizzazione per cellule e il II Congresso mondiale
"L'Unità", 28 luglio 1925
Nel suo articolo sulla natura del Partito comunista il compagno Bordiga scrive:
Al
II Congresso in cui vennero stabilite da Lenin le basi
dell'Internazionale, pur essendo già in possesso dell'esperienza delle
cellule in Russia, non si accennò nemmeno a tale criterio
organizzativo, oggi presentato come indispensabile e fondamentale, in
nessun di quei classici documenti: statuto dell'Internazionale, 21
condizioni di ammissione in essa, tesi sul compito del partito, tesi
sui compiti dell'Internazionale. Si tratta di una "scoperta" fatta
molto dopo, e ci sarà agio di vedere come si collochi nel processo di
sviluppo dell'Internazionale.
L'affermazione
del compagno Bordiga non è esatta. Nelle tesi su compiti fondamentali
dell'Internazionale comunista, e precisamente nel secondo capitolo, In
che cosa debba consistere la preparazione immediata e generale della
dittatura del proletariato, Lenin aveva scritto:
La
dittatura del proletariato è la realizzazione più completa della
direzione di tutti i lavoratori e di tutti gli sfruttati - che sono
stati soggiogati, calpestati, oppressi, terrorizzati, dispersi,
ingannati dalla classe capitalista - per parte dell'unica classe che
per una tale missione dirigente sia stata preparata da tutta la storia
del capitalismo. Perciò bisogna iniziare dappertutto ed immediatamente
la preparazione della dittatura del proletariato, procedendo nel modo
seguente: in tutte le organizzazioni, federazioni, associazioni senza
eccezione, in primo luogo in quelle proletarie, poi in quelle non
proletarie della massa lavoratrice e sfruttata (politiche, sindacali,
militari, cooperative, culturali, sportive, ecc.) si debbono creare
gruppi o cellule di comunisti, in prima linea apertamente, ma anche
clandestine; le quali ultime sono obbligatorie ogni qualvolta ci si
debba aspettare dalla borghesia lo scioglimento, l'arresto o l'esilio
dei loro soci. Queste cellule strettamente collegate fra di loro e
collegate alla direzione centrale, debbono scambiarsi le loro
esperienze, fare il lavoro di agitazione, propaganda ed organizzazione,
adattarsi assolutamente a tutti i campi della vita pubblica, a tutti
gli aspetti e gruppi della massa lavoratrice; e con questo molteplice
lavoro debbono educare sistematicamente sé stessi, il partito, la
classe, le masse.
Nelle 21 condizioni di ammissione, al paragrafo 9 si dice:
Qualunque
partito desideri appartenere all'Internazionale comunista deve
sistematicamente e tenacemente spiegare un'attività comunista entro i
sindacati, nei consigli degli operai, nei consigli d'azienda, nelle
cooperative di consumo e in tutte le organizzazioni operaie. Entro
queste organizzazioni è necessario organizzare cellule comuniste, che,
con un lavoro persistente e tenace, guadagnino alla causa del comunismo
i sindacati, ecc. Queste cellule sono obbligate, nel loro lavoro
quotidiano, a smascherare dappertutto il tradimento dei socialpatriotti
e le oscillazioni dei centristi. Le cellule comuniste devono essere
completamente subordinate al partito.
Nelle Tesi sui compiti del Partito comunista nella rivoluzione proletaria al paragrafo 18 si dice:
Base
di tutta l'attività organizzatrice del partito comunista deve essere
dappertutto la creazione di una cellula comunista; e ciò, anche se
talora sia molto piccolo il numero di proletari e semiproletari. In
ogni soviet, in ogni sindacato, in ogni cooperativa di consumo, in ogni
azienda, in ogni consiglio di inquilini, dovunque si trovino foss'anche
tre soli uomini che si adoperano per il comunismo si deve
immediatamente fondare una cellula comunista. Solo la compattezza dei
comunisti dà all'avanguardia della classe operaia la possibilità di
condurre dietro a sé l'intiera classe operaia. Tutte le cellule del
Partito comunista, che lavorano nelle organizzazioni non aventi
partito, sono assolutamente subordinate alla organizzazione del partito
e ciò tanto se, in quel momento, il partito lavora legalmente quanto se
illegalmente. Le cellule comuniste di ogni specie debbono essere
subordinate l'una alle altre sulla base del più rigoroso regolamento
gerarchico secondo un sistema il più possibilmente preciso.
Il
II Congresso pose il problema dell'organizzazione dei partiti comunisti
per cellule. L'impostazione non fu chiara per i partiti europei. Si
confuse l'organizzazione delle cellule, base del partito, con
l'organizzazione delle frazioni comuniste nei sindacati, nelle
cooperative, ecc.; in realtà le due forme organizzative non si
distinguono bene tra loro nelle enunciazioni riportate, quantunque la
distinzione sia fatta chiaramente nella parte riassuntiva delle Tesi
sui compiti del partito. Al punto IV del riassunto si dice: "Dovunque
esista foss'anco una dozzina di proletari o semiproletari, il Partito
comunista deve avere una cellula organizzata". Al punto V: "In ogni
istituzione non di partito, deve esserci una cellula del Partito
comunista rigorosamente sottoposta al partito".
E'
evidente che in questi due punti si vuole fare la distinzione tra la
cellula, base organizzativa del partito, e la frazione, organismo di
lavoro e di lotta del partito nelle associazioni di massa. Che sia così
risulta: dalle tesi scritte da Lenin nel 1915 per l'ala sinistra di
Zimmerwald, cioè per il nucleo rivoluzionario che fonderà nel 1919
l'Internazionale comunista. E risulta dal discorso tenuto da Lenin al
III Congresso sul comma speciale dedicato all'organizzazione ed alla
struttura dei partiti comunisti.
Lenin si
pone la quistione: Perché solo il Partito comunista russo è organizzato
per cellule? Perché non sono state messe in esecuzione le disposizioni
del II Congresso che indicavano nel sistema delle cellule il sistema
proprio dei partiti comunisti? E Lenin risponde a queste domande
affermando che la responsabilità di ciò è dei compagni russi e sua
propria, in quanto nelle tesi del II Congresso si è parlato un
linguaggio troppo russo e poco "europeo", cioè si è fatto riferimento
alle esperienze russe senza renderle attuali, senza spiegarle,
supponendo che esse fossero conosciute e comprese.
Le
tesi del III Congresso sulla struttura del Partito comunista, scritte o
direttamente da Lenin o sottoposte al suo controllo, sono dunque non
una "scoperta", come dice il compagno Bordiga, ma la traduzione in
linguaggio comprensibile agli "europei", delle enunciazioni rapide e
per accenni contenute nelle tesi del II Congresso.
Ma
perché il compagno Bordiga vuole fare questa distinzione nella storia
dell'Internazionale tra il II Congresso ed i successivi tre congressi?
Nell'articolo sulla Quistione Trotzki il compagno Bordiga sostiene che
la storia dell'Internazionale si divide in due parti: fino alla morte
di Lenin, dopo la morte di Lenin. Nell'articolo sulla natura del
partito invece la seconda fase incomincia già dal III Congresso, cioè
da un periodo in cui Lenin era vivo ed era nel massimo della sua
efficienza intellettuale e politica. Dal corso della discussione
apparirà chiaro questo punto che è fondamentale per la discussione del
partito: apparirà che per il compagno Bordiga il movimento
rivoluzionario italiano si trova nuovamente in una fase simile a quella
che intercorse tra il II Congresso e Livorno, in una fase cioè in cui
si debbano organizzare frazioni perché ci possiamo trovare (anzi ci
troviamo) dinanzi a un problema di scissione.
Come
spiegare altrimenti gli accenni che il compagno Bordiga ha fatto, nei
punti della sinistra e nell'articolo sulla natura del partito, al
gruppo dell' "Ordine Nuovo", accenni malevoli, pieni di astio e di
rancore, non rivolti a cancellare le differenziazioni ma invece ad
inasprirle e a farle apparire incolmabili? Il compagno Bordiga, tra
l'altro, ha però dimenticato una "piccola" cosa: che anche ponendo il
II Congresso come pietra di paragone per comprendere la situazione
attuale nel nostro partito, non è certo il gruppo dell'"Ordine Nuovo"
che può venire diminuito nella funzione che ha sempre svolto per la
preparazione del movimento comunista italiano.
Al
II Congresso il compagno Lenin dichiarò di far sue le tesi presentate
dal gruppo dell'"Ordine Nuovo" al consiglio nazionale del Partito
socialista dell'aprile del 1920 e volle che nelle deliberazioni del
congresso risultasse:
1) che le tesi dell' "Ordine Nuovo" corrispondevano a tutti i principi fondamentali della III Internazionale;
2) che al congresso del Partito socialista dovevano essere prese in esame le tesi dell' "Ordine Nuovo".
Nessun
"estremista" vorrà negare che tra il giudizio del compagno Lenin e il
giudizio del compagno Bordiga, il giudizio del compagno Lenin sia
ritenuto da noi più importante e dettato da uno spirito marxista un po'
più approfondito e sicuro di quello del compagno Bordiga.
L'organizzazione base del partito
"L'Unità", 15 agosto 1925
Nel mio precedente articolo sulle cellule ho
voluto non dimostrare, ma solamente ricordare una cosa molto semplice
che dovrebbe essere sempre presente alla memoria di ogni compagno che
voglia partecipare con serietà alla discussione del congresso, che
abbia l'intenzione cioè di giovare all'educazione del partito e non
quella di confondere le idee.
Ho voluto
ricordare che il tipo di organizzazione per cellule è strettamente
legato alla dottrina del leninismo e che, nel campo internazionale, il
compagno Lenin indicò questo tipo di organizzazione fin dal 1915, fin
dall'epoca della sinistra zimmerwaldiana. Una delle caratteristiche più
spiccate del leninismo è la sua formidabile coerenza e
conseguenzialità; il leninismo è un sistema unitario di pensiero e di
azione pratica, in cui tutto si tiene e si dimostra reciprocamente,
dalla concezione generale del mondo fino ai più minuti problemi di
organizzazione. Il nucleo fondamentale del leninismo nell'azione
pratica è la dittatura del proletariato, ed alla quistione della
preparazione e dell'organizzazione della dittatura proletaria sono
collegati tutti i problemi di tattica e di organizzazione del
leninismo.
Se fosse vero ciò che il
compagno Bordiga ha affermato - che cioè l'organizzazione delle cellule
come base del partito sia stata una "scoperta" del III Congresso -
sarebbe dimostrata una gravissima incoerenza del leninismo e
dell'Internazionale, e sarebbe veramente necessario domandarsi se nel
III Congresso non si sia verificata una deviazione verso destra, verso
la socialdemocrazia, cioè uno spostamento del terreno dell'azione
rivoluzionaria verso un terreno di semplice attività organizzativa
estranea alla preparazione della dittatura proletaria. Questo infatti è
l'assunto polemico dei compagni estremisti: "dimostrare" che
l'organizzazione del partito sulla base delle cellule non è parte
essenziale del leninismo, con l'affermazione che l'organizzazione per
cellule è una "scoperta" posteriore al II Congresso per giungere a
dimostrare che l'indirizzo dell'Internazionale è stato mutato dal III
Congresso in quanto sono stati assegnati ai partiti comunisti, dal III
Congresso in poi, compiti fondamentali ed essenzialmente organizzativi
e non d'azione. Così si spiegherebbe, secondo gli estremisti, come
diversi partiti, quando si è presentato un momento propizio per
l'azione, abbiano fallito al loro compito storico (realizzare la
insurrezione armata e la conquista del potere); essi erano stati
distratti da compiti secondari di organizzazione interna o di
organizzazione delle grandi masse (quistione delle cellule, tattica del
fronte unico e del governo operaio, lotta per l'unità proletaria,
ecc.).
Nel mio precedente articolo, ho
"dimostrato" come uno degli elementi su cui dovrebbe basarsi l'assunto
polemico degli estremisti sia insussistente; non sarà difficile
dimostrare come siano altrettanto inconsistenti gli altri. La quistione
delle cellule è certamente anche un problema tecnico di organizzazione
generale del partito, ma prima di tutto essa è una quistione politica.
La quistione delle cellule è la quistione della direzione delle masse,
cioè della preparazione della dittatura proletaria, è la migliore
soluzione tecnica organizzativa della quistione fondamentale della
nostra epoca.
Gli argomenti pro e contro
le cellule portati finora in discussione (se sia più sicura la strada o
la fabbrica, se agli intellettuali come classe sia più facile, con le
cellule o con l'assemblea territoriale, far deviare il proletariato od
inquinare la sua ideologia) sono argomenti secondari, osservazioni di
dettaglio, che influiscono in modo subordinato nell'accoglimento della
forma organizzativa per cellule invece che della forma per assemblee
territoriali. Il compagno Mangano trova che l'aver ricordato il
discorso del compagno Lenin al III Congresso sulla "potente ignoranza"
dei partiti comunisti "europei" sulla struttura dei loro stessi partiti
sia una... trovata.
La quistione è molto
più complessa di quanto il compagno Mangano non sospetti e non possa
sospettare, data la sua ferma volontà di mantenersi nella stessa
"potente ignoranza" e di disprezzare come "centrista" e "opportunista"
ogni insegnamento dell'esperienza proletaria degli altri paesi e della
stessa Italia.
Io ricordo un "piccolo"
episodio del 1920. Nel giugno 1920 si riunì a Genova la conferenza
nazionale Fiom per fissare il piano di battaglia dell'agitazione
metallurgica che nel settembre successivo portò all'occupazione delle
fabbriche. Noi, miserabili "ordinovisti", "centristi", "opportunisti",
ecc. ecc., che abbiamo avuto sempre una miserabile abitudine di
occuparci del reale svolgimento degli avvenimenti operai, informati che
nella conferenza di Genova era stato delineato il piano di lotta
dell'occupazione delle fabbriche, ponemmo alla direzione del Partito
socialista, attraverso il compagno Terracini, la quistione
dell'intervento del partito nell'agitazione e proponemmo di creare le
cellule come base organizzativa del partito stesso nelle fabbriche. La
proposta fu respinta dopo il discorso dell'allora estremista Baratolo,
il quale trovò che la creazione delle cellule avrebbe significato la
denuncia del patto di alleanza, in quanto il partito con le cellule
avrebbe soppiantato i sindacati (cioè i riformisti) nella direzione
delle masse.
Battuti dinanzi alla
direzione, uno degli "ordinovisti", e precisamente il sottoscritto, si
recò, per incarico della sezione socialista torinese, alla conferenza
nazionale della frazione astensionista che si tenne a Firenze nel
luglio, per proporre la formazione di una frazione comunista sulla base
dei principi organizzativi e politici dell'Internazionale comunista
(cellule, consiglio di fabbrica). Anche qui la proposta fu respinta
perché si riteneva che per dirigere le masse fossero inutili le "pure
forme organizzative", mentre erano sufficienti le affermazioni di
astensionismo parlamentare.
Così la
classe operaia arrivò all'occupazione delle fabbriche senza direzione
politica rivoluzionaria e i riformisti poterono essi dirigere le masse
verso la rinunzia alla lotta. L'episodio italiano, come l'esperienza
"europea" dopo il II Congresso, dimostra come fosse difficile ai vecchi
partiti socialisti comprendere concretamente cosa sia la dittatura del
proletariato, come non basti affermarsi per la dittatura e credere di
lavorare per essa, per essere tali e lavorare in tal senso. Secondo il
compagno Mangano l'aver tardato a comprendere dovrebbe aver per
conseguenza non di affrettarsi a recuperare il tempo perduto, ma di
rinunziare a comprendere ed a operare.
Critica sterile e negativa
"L'Unità", 30 settembre 1925
Nel lungo articolo (di Bordiga n.d.r.), una
cosa vi è di veramente notevole: lo scetticismo elegante, il quale si
guarda bene dal prendere posizione chiara sui punti su cui l'autore
afferma tuttavia di dissentire; l'oscillazione continua fra la tesi e
l'antitesi, senza peraltro indicare una propria tesi "originale".
Il
compagno Bordiga si limita a mantenere una posizione guardinga su tutte
le questioni che la sinistra ha sollevato. Egli non dice: i tali e tali
problemi l'Internazionale li pone e li risolve in questa maniera,
secondo me e secondo la sinistra vanno invece posti e risolti in
quest'altra. Egli invece dice: il modo in cui l'Internazionale pone e
risolve i problemi non mi convince, io temo che si cada
nell'opportunismo, non vi sono garanzie sufficienti, ecc. La sua dunque
è una posizione di sospetto e di dubbio permanente. In tal modo la
posizione della "sinistra" è puramente negativa: essa esprime delle
riserve, senza specificarle in forma concreta, e soprattutto senza
indicare in forma concreta i suoi punti di vista, le sue soluzioni.
Essa finisce per seminare il dubbio e la sfiducia, senza nulla
costruire.
L'articolo incomincia con una
caratteristica ipotesi metafisica. Il compagno Bordiga domanda: si può
escludere al cento per cento la possibilità che l'Internazionale
comunista cada nell'opportunismo? Ma allora si può ugualmente dire che
non si può escludere a priori che il compagno Bordiga divenga
opportunista anche lui, che il papa divenga ateo, che l'industriale
Ford divenga comunista, ecc. Nel campo delle possibilità metafisiche ci
si può sbizzarrire finchè si vuole, ma un marxista dovrebbe porre così
la quistione: vi è la possibilità che l'Internazionale comunista non
sia più l'avanguardia del proletariato, ma si incammini a diventare
l'espressione della aristocrazia operaia corrotta dalla borghesia? Così
va marxisticamente posta la questione, e allora riesce facile ad ogni
compagno risolverla.
L'articolo è tutto
un tessuto di errori teorici e pratici, che i compagni certamente
rileveranno. Ci limitiamo a rilevarne i punti più caratteristici. Il
compagno Bordiga dice a proposito delle cellule che il tipo di
organizzazione di partito non può per se stesso assicurarne il
carattere politico o garantirlo contro le degenerazioni opportuniste.
Ma noi affermiamo che il tipo di organizzazione per cellule assicura il
carattere proletario del Partito comunista meglio di qualunque altro, e
meglio di qualunque altro garantisce il partito contro l'opportunismo.
E dopo aver ripetuto la curiosa
affermazione che il sistema delle cellule è adatto per la Russia, sia
prima che dopo la conquista del potere, ma che esso non va nei paesi a
regime democratico-borghese, il compagno Bordiga conclude: "noi non
siamo contro le cellule, nemmeno come gruppi di inscritti nelle
fabbriche, con date funzioni". Ma allora la sinistra è o non è contro
le cellule? E quali sono queste date funzioni che il compagno Bordiga
evita di specificare? La sinistra ed il compagno Bordiga non si
dichiarano esplicitamente contro la bolscevizzazione, ma soltanto
diffidano di essa perché si basa sull'organizzazione per cellule cui
sovrasterebbe una rete onnipotente di funzionari selezionati con
criterio dell'ossequio cieco al leninismo.
Che
la dirigenza locale del partito debba essere costituita da elementi
ideologicamente selezionati è cosa fuori di ogni dubbio, perché senza
di ciò il Partito comunista non sarebbe tale. Quanto all'ossequio cieco
si tratta di un mezzo polemico non poco volgare, sul quale è inutile
soffermarsi.
Curioso è anche quanto il
compagno Bordiga scrive riguardo al leninismo. Egli scrive che se il
leninismo non è altro che marxismo, allora è inutile usare un termine
simile, ma subito dopo aggiunge che la sinistra userà tutti e due i
termini indifferentemente. Non solo vi è in questo contraddizione
palese, ma vi è contraddizione anche fra l'asserzione di usare i due
termini indifferentemente e il contemporaneo riconoscimento che Lenin è
il "completatore per parti importantissime del marxismo, e che la sua
interpretazione dell'imperialismo, le formulazioni della questione
agraria e nazionale sono contributi fondamentali allo sviluppo del
marxismo".
Circa i dissensi con Lenin, il
compagno Bordiga rimane poco abilmente sulle generali, ma non li
specifica affatto. Le frasi "abbiamo discusso e criticato Lenin e delle
sue controdeduzioni tuttora non siamo convinti" e "le strigliate di
Lenin non mi hanno convertito", possono fare molto effetto fra i
piccolo borghesi, ma di fronte ad esse i comunisti e gli operai
rivoluzionari in genere scrollano le spalle.
Il
compagno Bordiga, senza specificare per nulla la portata dei suoi
dissensi con Lenin, se la cava affermando di non ritenere esatto il
sistema tattico di Lenin, perché non contiene garanzie contro la
possibilità di applicazioni opportuniste. Ma più sincero sarebbe il
compagno Bordiga se dichiarasse che egli respinge ogni manovra tattica,
in quanto ogni manovra tattica presenta il pericolo di deviazioni
opportuniste.
La garanzia contro le
deviazioni non consiste nella tattica in sé, ma in noi, nella nostra
coscienza comunista, nella vigilanza e nella autocritica di tutto il
partito, nella fermezza ai principi, nello sforzo di non perdere mai di
vista il fine rivoluzionario. Non intendiamo di avere esaurito con la
presente nota le obiezioni all'articolo del compagno Bordiga. Esso è
veramente una miniera di errori e di incongruenze di ogni genere.
Vogliamo
solo rilevare ancora quelle riguardanti l'antiparlamento e la tattica
del partito verso le masse operaie aventiniane. La tattica adottata dal
partito - dice il compagno Bordiga - non è stata prevista da nessun
congresso. Ma, a parte il fatto che nessun congresso ha previsto né il
delitto Matteotti, né la reazione delle grandi masse col loro
contemporaneo schieramento verso le illusioni aventiniane, quale è la
tattica che secondo il compagno Bordiga avrebbe dovuto essere adottata?
Egli si guarda dall'enunciarla sotto qualsiasi forma, e si limita a
dire "che si è fatto poco, mentre si poteva fare molto".
Tutto
l'articolo è un documento di vera decadenza intellettuale. Il compagno
Bordiga non solo si guarda dal trarre le logiche conseguenze delle sue
negazioni, ma si guarda soprattutto dal contrapporre alle direttive
critiche nuove direttive in forma chiara e completa. Limitarsi, come
egli fa, alla critica negativa, seminare dubbio, scetticismo e
sfiducia, senza indicare nulla di positivamente costruttivo, ciò
costituisce non solo mancanza di carattere, ma rivela altresì scarso
rispetto e scarso attaccamento al partito e all'Internazionale.
Contro lo scissionismo frazionistico per l'unità ferrea del partito
(Interventi pubblicati sotto il titolo di una rubrica dell' "Unità" dedicata alla lotta nel Partito)
"L'Unità", 15 ottobre 1925
La lotta contro la frazione e la discussione nel Partito
Secondo
dunque la delicata dizione della lettera in data 22 maggio del Comitato
d'intesa, "il lavoro di carattere organizzativo e propagandistico" che
il gruppo di compagni recentemente denunciati dal Comitato esecutivo
alla massa dei militanti incrollabilmente fedeli alla disciplina
rivoluzionaria, aveva iniziato, fino dal mese di aprile, tale lavoro
superava il fatto del congresso e mirava a creare in tutto il partito
una specie di collegamento spirituale fra i compagni della
sinistra".
Il congresso doveva
quindi, nelle loro intenzioni, soltanto offrire l'occasione ed il
pretesto, sotto le parvenze della partecipazione alla discussione e del
contributo alla risoluzione dei formidabili problemi posti
all'avanguardia del proletariato dalla situazione storica nella quale
essa è chiamata ad assolvere i suoi compiti, di porre nel partito le
basi di un permanente processo di disgregazione. Dare un'esatta analisi
della situazione internazionale per dedurne le direttive tattiche
dell'Internazionale? Esaminare le condizioni concrete della società
italiana, fissando le attuali reciproche posizioni del proletariato e
della borghesia e dei vari raggruppamenti politici? Stabilire le
direttive per ridare alla massa dei lavoratori italiani una forma
organica di schieramento, un inquadramento più saldo, un'organizzazione
più adatta alle lotte imminenti? Tracciare le grandi linee di una
soluzione comunista dei problemi economici dell'Italia considerata nel
suo aggregato di 40 milioni di operai e contadini, nelle sue terre,
nelle sue miniere, nelle sue fabbriche? Ohibò! I compagni del comitato
nazionale della frazione hanno ben altri compiti cui applicarsi.
Bisogna
superare le differenze contingenti per creare l'unità ideologica del
partito, sostanza e contenuto dell'unità organizzativa? Ma no,
rispondono essi, "oggi ciò che è necessario (sic!) è lo sviluppo del
processo critico di differenziazione". Bisogna, dinanzi all'offensiva
reazionaria, alla legge contro le associazioni, allo stagnamento
minacciante il movimento proletario, rinsaldare la nostra compagine,
serrare i ranghi, divenire una muraglia intangibile e ferrea, sia pure
con qualche sacrificio di qualche concezione tattica, con rinuncia di
qualche affermazione? Ma no, assolutamente no, rispondono i nostri
ottimi compagni frazionisti: l'imperativo del momento è per il buon
rivoluzionario italiano di "dimostrare come non sia giusto e
conveniente fingere di ignorare l'esistenza di tutta una corrente del
movimento comunista nel nostro paese"; "la richiesta ai compagni di una
immediata presa di posizione critica che investe in pieno l'attività
del partito".
Investire in pieno
l'attività del partito, ingaggiato nella lotta più aspra contro
fascismo e Aventino; impegnato a difendere contro i riformisti, l'unità
sindacale, contrastando loro passo a passo la libertà e l'autonomia
delle masse organizzate; preso alla gola dalle nuove leggi che mirano,
sotto la maschera dell'antimassonismo, a dare i legali pretesti per
sciogliere la nostra organizzazione! Ecco davvero un ottimo programma
per dei "vecchi combattenti dell'idea comunista", i quali sanno che
investire significa abbattere e spezzare.
Queste
affermazioni del comitato della frazione precisano in modo perfetto
l'ambito e gli scopi della campagna cui il Comunicato del Comitato
esecutivo del partito dà inizio. Essa deve restare la campagna per il
ritorno alla disciplina, per la condanna dei misconoscitori della
tradizione di buon costume politico del nostro partito, per la
purificazione d'esso di tutti i residui improvvisamente affioranti di
mentalità socialdemocratica. E questa lotta nella quale il partito
intero, senza diversità di correnti, si schiererà all'allarme dei
dirigenti, non avrà nulla a che vedere colla discussione politica alla
quale il partito sta approntandosi.
Occorre
evitare che la manovra dei frazionisti, creando l'equivoco, impedisca
alla prossima discussione di giungere, col contributo della massa dei
compagni, a risolvere la crisi ideologica sorta dopo il IV Congresso
dell'Internazionale ed è ormai giunta a maturazione. Non è
evidentemente possibile confondere una questione di disciplina, di pura
o semplice disciplina, con una questione politica.
La
cosa migliore sarebbe stata per il partito di potere giungere al
congresso attraverso una larga discussione non inceppata da incidenti
come l'attuale, destinato a creare un certo turbamento fra i ranghi dei
compagni, i quali mai più immaginavano potessero attecchire nel Partito
comunista italiano simili germi degenerativi. Ed il Comitato Centrale
aveva scelto infatti tale via, evitando - salvo in un caso
particolarmente deplorevole verificatosi nella federazione di Milano -
di ricorrere a sanzioni disciplinari contro i compagni
dell'opposizione, anche quando con la loro condotta essi avevano offeso
i principi costitutivi del partito.
Ma
oggi, che per volontà deliberata di alcuni di essi la disciplina è
stata spezzata in modo scandaloso ed inatteso, occorre risolvere
rapidamente e radicalmente quest'episodio senza collegarlo coi grandi
problemi politici che si pongono. La grande massa dei compagni,
infatti, sta reagendo con decisione contro il tentativo frazionistico
che è stato loro denunciato, senza diversità fra fautori ed oppositori
della tattica del partito. L'amore e l'attaccamento per esso, la
coscienza della gravità del momento di reazione contro cui solo la più
salda unità dà garanzia di vittoriosa resistenza, la sottomissione
piena e completa alla disciplina dell'Internazionale comunista, la
fedeltà incrollabile alla milizia rivoluzionaria sono bene virtù
essenziali di tutti i comunisti italiani. Nessuna confusione è
possibile fra gli attentatori alla saldezza del partito ed i
sostenitori di criteri tattici contrastanti con quella centrale.
Quelli
non possono avere e non avranno diritto e possibilità di difendere e
sostenere comunque dinanzi ai compagni la loro attività nemica del
partito; questi potranno e dovranno, senza restrizione, nel corso della
discussione, esporre e sostenere le loro idee e le loro convinzioni. E
se un breve ritardo forse sarà frapposto all'inizio di essa, ne renda
grazie il partito all'incoscienza delittuosa della frazione mascherata.
("L'Unità", 10 giugno 1925)
Democrazia interna e frazionismo
Pubblichiamo una lettera di M.V. non già perché
una discussione si possa aprire fra i violatori della disciplina ed il
partito, ma perché essa riflette - e non a caso - le ingenue abilità
con cui si vorrebbe da parte dei pochi difensori del frazionismo
gabellare il Comitato d'intesa per una coserella lecita ed onesta e la
Centrale del partito, che ha la piena approvazione in questa sua azione
da parte dell'Internazionale, per un gruppo di frazionisti, accaniti e
pervicaci.
Vi è la storiella antica
sul lupo e l'agnello che bevevano allo stesso ruscello. Il lupo stava a
monte e intorbidiva le acque: "tu intorbidi l'acqua che io bevo", gridò
l'agnello che stava a valle, e lo sbranò. Si costituisce una frazione
nel partito; il Comitato esecutivo la scopre; ahimè!, si la scopre,
poiché la frazione era segretamente organizzata. Ed il Comitato
esecutivo getta l'allarme. "Si crea il frazionismo! Lotta al
frazionismo! ".
Ma ecco il compagno
M.V. se ne viene: "Chi lotta contro la frazione è un frazionista. Chi
lotta contro la frazione getta il turbamento nel partito e lo abbassa
nell'influenza fra le masse". Per cui non il Comitato d'intesa, che ha
fatto quanto, documentariamente, il Comitato esecutivo ha denunciato al
partito, viola i principi dell'Internazionale; ma bensì il Comitato
esecutivo stesso non si è accorto che il Comitato d'intesa non è che la
formazione normale dei "comunisti in meditazione" (?), che una "presa
di posizione precongressuale" non è che la "democrazia" nel
partito.
Che cosa è successo nel
partito? Ecco: dei compagni "che erano uniti da puri e semplici vincoli
ideologici e di affinità di vedute su determinati problemi" si
incontrarono per gettare le basi "di un lavoro organizzativo e
propagandistico il quale supera il fatto del Congresso". Quando fanno
questo? Naturalmente quando il Congresso offre loro il motivo acconcio.
Quale lo scopo dell'organizzazione? "Sviluppare il processo critico di
differenziazione nel partito". Quale il primo strumento all'uopo? Una
circolare segreta e personale, dalla quale si apprende la necessità di
iniziare senz'altro un serio ed efficace lavoro di collegamento con
tutte le regioni, gruppi, cellule, ecc., scegliendo i compagni più
fidati e politicamente più provati. Ed il secondo strumento? "Una
scappata a Milano per conferire coi compagni incaricati del
lavoro".
Quali i risultati che si
attendono da questa attività? "Ottenere al più presto un efficiente
collegamento atto a rendere unitaria e omogenea l'opera diretta ad
investire in pieno l'attività attuale del partito e la posizione
teorica che l'esprime". E come quest'opera viene accelerata ?
Incaricando alcuni compagni deputati e non (e fornendo i non deputati
di abbonamento ferroviario) di fare un sopralluogo presso tutti i
centri federali e presso i compagni adescabili; valendosi possibilmente
di indirizzi riservati del partito procacciatisi in modo senza dubbio
sleale; e possibilmente mettendo a profitto le conoscenze organizzative
acquistate in un periodo in cui si svolgeva per conto della Centrale un
lavoro di fiducia. Non si negligono neppure i convegni a base di
inviti, la diffusione di documenti di cui l'Internazionale ha chiesta
la non pubblicazione, le parate di sapore massimalista nelle ore
piccole della notte.
Che c'è di male
in tutto questo? Chiede il compagno M.V. Tutto ciò egli ci afferma, non
è frazionismo ma democrazia nel partito, ma presa di posizione per la
discussione. "E voi intorbidate le acque!" grida alla Centrale.
("L'Unità", 21 giugno 1925)
I documenti frazionisti
Se
si considerano da una parte la lettera inviata dal Comitato d'intesa
all'Esecutivo del partito e dall'altra i documenti illegali, dei quali
il Comitato esecutivo non avrebbe dovuto aver conoscenza, si comprende
subito il loro valore e significato. La lettera al Comitato esecutivo è
un tentativo del Comitato d'intesa di procurarsi presso gli organi
responsabili il diritto di cittadinanza nel partito, in seno al quale
avrebbe svolto "clandestinamente" il lavoro di frazione: in sostanza è
la richiesta di un lasciapassare per introdurre di contrabbando nella
nostra organizzazione la merce avariata del frazionismo di cui troviamo
tracce nei documenti riservati.
Anche se
questi ultimi non fossero venuti alla luce, con un minimo di buon senso
si poteva comprendere dal testo stesso della lettera il fine reale che
essa si proponeva. Basta esaminare le proposte in essa contenute. Esse
si possono dividere in due parti: la prima comprende i punti a e b: con
essi si chiede che alla discussione venga dato il tempo necessario al
suo svolgimento e che i congressi provinciali vengano tenuti dopo la
discussione.
Quale valore potrebbe
avere un congresso al quale presenziassero delegati di federazioni
nelle quali non si sia precedentemente discusso con serietà e
conoscenza, ecc. ecc.? si afferma nella prima parte di questa lettera.
Queste proposte sono superflue: noi vorremmo sapere quando e come sia
mai stato affermato che il Comitato centrale intenda soffocare la
discussione, convocare i congressi provinciali prima che i compagni
siano preparati a discutere. Quando e come sia stata fatta una
qualsiasi dichiarazione che giustifichi il brano che abbiamo
riportato.
Si vuol forse credere che
il Comitato centrale sia interessato a fare l'opposto di quanto si
chiede con quella lettera? E' il contrario che è vero: non per nulla lo
stesso Esecutivo internazionale affermava che il nostro partito aveva
bisogno ora di una vasta ed ampia discussione per convincersi della
bontà della politica e della tattica dell'Internazionale comunista e
dell'errore in cui si trova l'estrema sinistra italiana.
Noi
siamo d'avviso che se qualcuno può avere interesse ad evitare una ampia
discussione questo è proprio l'estrema sinistra. Quelle proposte
avrebbero dovuto colmare delle lacune ed essere delle critiche alle
norme per la discussione. Come si può far ciò prima di conoscere quelle
norme? E' logico pensare che bisognava almeno attendere di conoscere le
disposizioni che avrebbero regolato la discussione e la convocazione
dei congressi, disposizioni che erano preannunciate nelle deliberazioni
del Comitato centrale rese pubbliche sull' "Unità" del 26 maggio.
In quelle deliberazioni vi è un passaggio
che dice anche con quale spirito e con quali criteri il Comitato
centrale intende dirigere la discussione nel partito. Ma tutto ciò non
ha valore per il Comitato d'intesa, il quale deve ben trovare una
ragione qualsiasi per giustificare la propria esistenza e perciò finge
di ignorare e di non capire, tentando così di sorprendere la buona fede
dei compagni e creare un'atmosfera di sospetto intorno al Comitato
centrale.
Lo stesso fatto di essersi
accinta ad organizzare la frazione è una manifestazione di debolezza
dell'estrema sinistra, poiché si vuole con i vincoli disciplinari
interni che essa crea ostacolare ed infrenare il libero sviluppo del
processo di chiarificazione politica e di comprensione dei principi e
del metodo leninista, la cui conoscenza ed assimilazione spingerebbero
strati sempre più numerosi di compagni ad abbandonare le concezioni
erronee dell'estrema sinistra.
E
passiamo alla seconda parte delle richieste: i punti c, d, e. Questi
non hanno bisogno di troppi commenti: essi presumono tutti la esistenza
nel partito di frazioni contrastanti organizzate.
1.
Si chiede che ai congressi provinciali venga data facoltà di parlare in
contraddittorio ai compagni "riconosciuti" delle diverse correnti. Chi
ha mai pensato che sia reso impossibile e vietato il contraddittorio?
Nei congressi qualunque delegato può prendere la parola, parlare pro e
contro, presentare tutti gli ordini del giorno che gli aggrada. Ma cosa
significa la domanda di questo diritto per i compagni "riconosciuti"?
Cosa è questa nuova categoria di compagni che verrebbe a stabilirsi nel
partito? Riconosciuti o non, il diritto di parola non deriva
dall'appartenere all'una o all'altra corrente, dall'essere o meno
"riconosciuti" da esse ma dal fatto di appartenere a quella determinata
organizzazione. E ciascuno ha il diritto di fare tutti i contraddittori
che crede.
E' naturale poi che i
congressi provinciali non possono e non devono divenire il pretesto per
una fiera "oratoria nel partito", per cui ad ogni congresso provinciale
o sezionale ogni corrente manda i suoi "commessi viaggiatori". Ciò
contrasta con le direttive organizzative del partito. Ognuno partecipa
alla riunione della propria organizzazione di base, nella propria
cellula. I delegati partecipano poi ai congressi di grado superiore.
Meno grandi discorsi e maggiore discussione reale ed effettiva fra i
compagni operai: questa deve essere la pratica del nostro partito.
Altro che mancanza di libertà. Non c'è bisogno che vi siano dei
compagni appositi, indicati di diffondere il verbo di ogni tendenza;
per portare a conoscenza di tutto il partito il pensiero delle diverse
correnti, serve la stampa sulla quale verrà pubblicato tutto il
materiale di discussione con relative tesi e controtesi.
Il
Comitato esecutivo del partito ha già preso disposizioni perché essa
possa arrivare ovunque, in tutte le nostre organizzazioni. Nei
congressi provinciali le diverse correnti si manifestano attraverso i
delegati che vi partecipano. Esse si incontrano e si misurano poi
definitivamente al congresso nazionale. E' proprio necessario ricordare
queste norme elementari della nostra organizzazione?
2.
Si chiede che la nomina dei delegati al congresso sia fatta dai
rispettivi congressi federali. Qui veramente si superano tutti i
limiti. Chi ha mai pensato ed affermato il contrario? Si vuol forse far
credere che la Centrale intenda eleggere essa stessa direttamente i
delegati al congresso? L'"Avanti!" non avrebbe mai pensato di trovare
migliori alleati nella sua campagna di denigrazione del nostro partito.
3. Si continua: se la nomina verrà fatta
con altri sistemi, venga data facoltà di scelta degli elementi chiamati
a far parte di eventuali comitati ai "fiduciari" delle diverse
correnti. Cosa c'entrano i fiduciari? Chi sono costoro? I delegati al
congresso nominano essi stessi gli elementi chiamati a far parte di
eventuali comitati, rispettando tutte le correnti secondo le norme che
verranno a suo tempo emanate. Nessuna autorità e nessun diritto
speciale a dei "fiduciari" che non devono esistere. Se questi elementi,
che nella mente dell'estrema sinistra assolverebbero alla funzione di
"fiduciari", sono delegati al congresso, essi hanno gli stessi diritti
degli altri compagni delegati, né più né meno. Se non sono compresi fra
i delegati o non fanno parte di quell'organizzazione essi non hanno
nulla a che vedere col congresso.
Non
si comprende perché ed in base a quale criterio un socio, puta caso, di
una cellula di Milano debba avere il diritto di recarsi, mettiamo, al
congresso provinciale di Girgenti nella qualità di "fiduciario" e come
tale possa limitare i diritti dei delegati regolarmente eletti al
congresso di quella federazione per la facoltà che verrebbe a lui
conferita e riconosciuta da un organo superiore incontrollato e
incontrollabile. Veramente ci sembra di sognare ad occhi aperti. E si
ha il coraggio di avanzare proposte di questo genere proprio in un
periodo di illegalità come quello che il partito sta attraversando!
4.
Si chiede infine il diritto al comitato di frazione di nominare e
disciplinare gli oratori della propria corrente al congresso nazionale.
E' necessario ricordare l' abc della nostra organizzazione: il
congresso è convocato dal Comitato centrale e da questo diretto in
tutta la sua fase di preparazione fino al momento in cui, riunitisi i
delegati, questi nominano un "presidium" che assume la direzione dei
lavori del congresso ed al quale quindi spetta il diritto di
disciplinare gli oratori senza distinzione di tendenza, e di prendere
ogni altra deliberazione riguardante il congresso stesso.
Altri
organi non hanno proprio nulla a che fare. Dalle osservazioni su
esposte si manifesta il contrasto netto che c'è fra la direzione del
partito ed il Comitato d'intesa. Per i compagni del Comitato esecutivo
ogni quistione deve essere concepita ed impostata dal punto di vista di
partito; per esso tutto si pone dal punto di vista di frazione. Tutte
le richieste dell'estrema sinistra presumono non una discussione che
deve svolgersi nel seno di uno stesso partito, ma una lotta fra due
organismi contrastanti, fra due partiti avversi.
Si
poteva ammettere e sanzionare un simile criterio? Ed ora appare ancora
più chiaro lo scopo della lettera inviata al Comitato centrale. E'
evidente che se il Comitato esecutivo l'avesse accettata anche solo in
parte, esso avrebbe riconosciuto il diritto di una intesa "organizzata"
fra gli elementi di una stessa corrente. Praticamente il Comitato
d'intesa si sarebbe dedicato ad organizzare la frazione la cui
costituzione avrebbe dovuto "superare il fatto stesso del congresso"
(lettera del 22 maggio).
E quando il
Comitato esecutivo si fosse accorto che non si trattava più soltanto di
una intesa congressuale o fosse intervenuto come è suo dovere, gli si
sarebbe risposto: ma come, prima ci autorizzate ad un determinato
lavoro e poi ci colpite per lo stesso lavoro da voi autorizzato? Era
evidente che non era possibile stabilire una intesa senza un minimum di
organizzazione.
Naturalmente si
sarebbe respinta con indignazione l'accusa di voler organizzare la
frazione, di voler "scindere le forze" del partito, ecc. Quanta fede si
sarebbe dovuta prestare a queste dichiarazioni di lealismo, sarà
dimostrato all'esame dei "documenti illegali". Si prenda la circolare
n. 1 (personale e riservata dell'aprile). Questo documento rispecchia
fedelmente il formalismo che caratterizza la mentalità dei compagni
dell'estrema sinistra. Essa incomincia col lamentare che
l'Internazionale "mira a bersagliare il compagno Bordiga" fingendo di
ignorare l'esistenza di una "sinistra italiana", cioè dell'estrema
sinistra.
E' così banale questo
rilievo che in verità non merita risposta: è mai possibile che dei
compagni, non degli ultimi venuti nel movimento, non sappiano che
quando nelle nostre discussioni si fa il nome di questo o di quel
compagno esponente di una determinata tendenza, si intende riferirsi a
tutta la tendenza che egli rappresenta e non solo a lui personalmente?
Stiano tranquilli i componenti del Comitato d'intesa: quando si parla
di Bordiga si intende parlare anche di tutti coloro che la pensano come
lui, quindi loro compresi.
Certo che
fra Bordiga ed un ristretto numero di compagni, la cui mentalità si è
irrigidita e anchilosata nell'errore e che, se è passibile di mutamento
e di correzione, muterà solo sotto la sferza degli avvenimenti e della
storia, e la massa che li ha seguiti per ragioni diverse che non hanno
nulla a che vedere con le loro erronee affermazioni teoriche c'è una
differenza notevole, che impone una distinzione di valutazione politica
di cui bisogna tener conto: per Bordiga e compagni questa distinzione
non esiste e non si deve fare: il disconoscimento di questo principio è
sempre stato una caratteristica dell'errore di concezione di
Bordiga.
Volete sapere, continua la
circolare, fino a che punto si arriva a bersagliare il compagno
Bordiga? Si arriva "nientemeno" a dire che Bordiga è passato alla
destra. Se i compagni del Comitato d'intesa giudicassero i fatti e le
cose con intelligenza politica e non con il formalismo proprio di una
mentalità "notarile", forse avrebbero meglio compreso il vero
significato di quella dichiarazione. Il compagno Bordiga che è sempre
stato all'estrema sinistra e si è trovato quindi sempre lontano e
contro le posizioni della destra, oggi, nonostante tutte le sue
affermazioni estremiste in teoria, praticamente, nell'azione concreta,
e di ciò bisogna sempre tenere conto in un giudizio politico, col suo
atteggiamento rafforza la destra dell'internazionale e su molte
quistioni si trova sul suo stesso piano. (…)
Là
dove poi la posizione di Bordiga è la stessa di quella di tutta la
destra dell'Internazionale è nella rivendicazione del diritto alle
frazioni, all'organizzazione delle tendenze. E qui abbiamo accennato
solo ad alcune quistioni. Qual meraviglia dunque se con un giudizio
dato da un punto di vista oggettivo e non soggettivo (i sentimenti di
Bordiga verso la destra non interessano: ciò che conta sono gli atti) e
che si basa sulla situazione internazionale e non soltanto sull'Italia
(l'estrema sinistra dovrebbe ricordarsi qualche volta di essere parte
di una organizzazione internazionale), si è ritenuto necessario
richiamare l'attenzione dei compagni sull'esempio Bordiga, il cui
estremismo lo porta di fatto a collegarsi alla destra.
Ma
tutto ciò non interessa i compagni del Comitato d'intesa. La sostanza
della quistione viene da essi lasciata da parte: ci si arresta alla
forma. Si osa "nientemeno" avvicinare il nome di Bordiga alla parola
"destra"? Ma è inaudito! Si lancia un allarme: tutto il campo è a
rumore. Un gruppo di "vecchi e provati compagni" sorge in armi e si
costituisce in Comitato d'intesa. Si mobilitano i "vecchi combattenti
dell'idea comunista" , si fa appello alle loro "energie" in difesa "del
pensiero, della tattica e di tutta una tradizione di capacità
rivoluzionaria" contro l'Internazionale comunista che calpesta e
distrugge quanto vi è di più rivoluzionario, "il patrimonio ideologico
e tattico della sinistra italiana".
La
cosa sarebbe enormemente buffa se non fosse estremamente pericolosa e
dannosa per il partito. Un po' più di linea e di serietà, cari compagni
del Comitato d'intesa. Vi siete gettati a corpo perduto
nell'organizzazione clandestina di una frazione nel partito, e non pare
che vogliate smetterla, per prepararvi a dimostrare ancora una volta
"come non sia giusto e conveniente circoscrivere la lotta all'obiettivo
Bordiga". Ma chi vi ha detto che la lotta sarà limitata all'obiettivo
Bordiga? Di più, chi vi ha mai detto che Bordiga personalmente sia
l'obiettivo della lotta? L'obiettivo reale sta negli errori che il
compagno Bordiga sostiene e di cui deve correggersi: essi non saranno
combattuti nei confronti di Bordiga soltanto ma di tutti coloro che lo
sosterranno.
Voi parlate di
capacità, di tradizioni rivoluzionarie e di lotta da salvare. Da chi
sono esse minacciate? Questo della tradizione rivoluzionaria del
movimento italiano sarà il terreno più propizio per battere in breccia
tutte le deviazioni e gli errori che caratterizzano la vostra
posizione. Per ora osserviamo solo questo: con la vostra opera voi
state distruggendo ciò che vi è di meglio nella tradizione
rivoluzionaria, mentre tendete a mantenere in vita ed a perpetuare ciò
che in essa deve invece essere corretto ed eliminato. Un errore, anche
se è vecchio ed ha una tradizione, è sempre un errore.
E
passiamo oltre. I compagni sono pregati di riflettere alle seguenti
parole: "...la sinistra italiana deve saper dimostrare come non sia
stato vano ogni tentativo di assorbimento e di deviazione". Si prega di
prendere la collezione dell'"Avanti!" e constatare quante volte queste
parole sono state adoperate dai vari Vella e Nenni nella loro lotta
contro l'Internazionale. Il loro significato è gravissimo: esse sono
indice di una situazione dalla quale può sorgere una vera e propria
forma di massimalismo comunista.
I
compagni del Comitato d'intesa ascrivono a loro merito il non essersi
fatti assorbire dall'Internazionale comunista. Essi si considerano
dunque qualche cosa di eterogeneo e di estraneo ad essa, fino al punto
di porsi il problema di non farsi assorbire per non perdere i propri
connotati. E questi compagni vogliono organizzare una frazione al fine
di mobilitare il partito od almeno una parte di esso affinché questo
dimostri di aver reso vano ogni tentativo di assorbimento
nell'Internazionale. Il pericolo che il partito ha corso senza
accorgersi sotto la direzione del Comitato centrale è stato senza
dubbio gravissimo: è stato quello di deviare verso l'Internazionale
comunista e farsi assorbire da essa! E' per questo che ad un dato
momento i compagni dell'estrema sinistra sono scesi in campo per
impedire che un tale assorbimento ed una tale deviazione
avvenisse.
Continuando di questo
passo questi compagni si accorgeranno ben presto che non altrettanto
vani saranno gli altri tentativi di deviazione in senso opposto a
quello dell'Internazionale comunista. Logicamente ne deriva che bisogna
investire in pieno tutta l'attività del partito e la posizione teorica
che la esprime. E per far ciò non si ritiene sufficiente la
discussione, ma si organizza clandestinamente una frazione. Così questo
"investimento" assume un significato molto preciso. Conseguentemente
occorre al più presto un "collegamento atto a rendere unitaria ed
omogenea quest'opera".
Come si vede
per il Comitato d'intesa il problema dell'unità ed omogeneità non si
pone nei confronti del partito ma solo di una parte di esso, di una
frazione. Chi non intende il significato scissionista di una tale
impostazione del problema? Non ci si pone neanche il problema
dell'unificazione ideologica del partito attraverso la discussione.
Anzi, questa e lo stesso congresso che seguirà diventano motivo di
maggiore e più profonda divisione e differenziazione. Proprio tutto
l'opposto.
Si legge infatti nella
lettera del Comitato d'intesa in data 22 maggio: "il congresso del
partito che sarà tenuto tra non molto ci dà motivo ad un lavoro di
carattere organizzativo e propagandistico il quale, in sostanza, supera
il fatto nel congresso stesso e mira a creare in tutto il partito una
specie di collegamento tra i compagni della sinistra atto allo sviluppo
di un processo critico di differenziazione"...
A
queste parole facciamo seguire un brano della mozione votata dal
Comitato centrale: "Il suo (della discussione) scopo essenziale non
deve essere quello di aprire in seno al partito una lotta di tendenze o
frazioni, ma al contrario essa deve tendere attraverso la discussione
dei problemi essenziali della teoria e della pratica del leninismo
all'elevazione dell'educazione e della capacità politica di tutti i
nostri militanti ed alla creazione di quella omogeneità ed unità
ideologica che è la premessa essenziale di una reale ed effettiva
bolscevizzazione del partito". Ed ora i compagni giudichino: ogni
commento è superfluo.
("L'Unità", 23-25 giugno 1925)
Si tratta veramente di frazionismo?
Il
segretario generale di Teramo rifugge dalle abilità verbali e dalle
inutili schermaglie. Egli giudica con freddezza, precisa il suo
pensiero, dice senza sottintesi quello che pensa e che vuole. E cosa
egli vuole? Null'altro che "organizzare" la frazione di sinistra.
Questo diritto egli rivendica meravigliandosi che la centrale di un
Partito comunista si prefigga di "schiacciare qualsiasi movimento
tendente a frazione".
Oggi sono i
sinistri che si organizzano; domani in una situazione capovolta, colla
sinistra cioè della direzione del partito e con i sostenitori della
tattica dell'Internazionale all'opposizione, saranno questi gli
organizzatori di un'altra frazione, di un altro Comitato d'intesa. Oh!
Il nostro compagno è in queste cose assolutamente imparziale: piena
libertà per tutti di organizzare e disorganizzare nel seno del partito!
Vi possono essere dei dubbi su questi suoi concetti? Egli adopera
parole non possibili di equivoco: "la sinistra si organizza", "la
frazione di sinistra", ecc.
Ma dove
mai qualche compagno bizantineggiante vi fosse il quale volesse esitare
a credere possibile una tale esplicita denuncia di uno dei più
importanti principi organizzativi di un Partito comunista, il
segretario federale di Teramo si affretta a darci alcuni paragoni od
esempi destinati a scolpire il suo pensiero. Ed ecco allora la
meravigliosa invettiva: "Ma voi rinnegate tutta la lotta che avete
condotta contro i massimalisti quando espulsero la frazione
terzinternazionalista e quella che conducete attualmente contro i
riformisti!".
Che vi sia nel partito
un compagno il quale, da tutta l'azione sviluppata nel corso dei primi
mesi del '24 contro il Partito massimalista allo scopo di sgretolarne
la compagine e di spezzarne la rete organizzativa, abbia tratto nessun
altro insegnamento che non sia quello della liceità dell'applicazione
di una uguale tattica nel seno del partito; che vi sia un compagno il
quale, dalla viva polemica che stiamo conducendo contro i riformisti
per rivendicare il nostro diritto ad organizzare le nostre frazioni
comuniste nei sindacati, tragga la convinzione che un uguale diritto
sia concedibile ai singoli compagni nell'interno del partito, è cosa
davvero triste e sconsolante.
Quale
differenza vi è tra un partito opportunista contro il quale si lotta,
dal quale si vuole strappare gli elementi operai rivoluzionari che
ancora vi sono inquadrati, nel cui seno si provoca quindi la formazione
di una frazione, la quale deve cercare di restarvi il più a lungo
possibile per potere sempre più profondamente portarvi il
perturbamento, l'inerzia, la dispersione, ed un partito comunista?
Quale differenza vi è fra principi di organizzazione e principi di
tattica? Il nostro segretario risponde a questi interrogativi con
un'unica monosillabica risposta: nessuna.
Quando
il Partito massimalista espulse la frazione terzinternazionalista noi
gridammo al sopruso, all'arbitrio, al colpo di mano. Perché? Perché
nessun statuto massimalista ha mai vietato l'esistenza di frazioni e
anzi, appunto per non accettare questo principio, il Partito
massimalista ruppe i suoi rapporti colla Internazionale; perché tale
espulsione era motivata con l'alleanza costituita dai
terzinternazionalisti col Partito comunista per un'azione comune
antifascista, azione che i massimalisti non volevano condurre ed
avrebbero voluto rendere impossibile anche agli altri gruppi o partiti
proletari; perché tale espulsione era in pieno contrasto col criterio
di "libertà per tutti" che i massimalisti inalberavano come stendardo
della loro organizzazione opportunista.
Ed
invece il compagno segretario federale di Teramo aveva creduto che,
rivendicando il diritto di cittadinanza nel Partito massimalista alla
frazione terzinternazionalista, noi sostenessimo un principio generale
ed assoluto proprio di tutte le organizzazioni politiche, di tutti i
partiti, anche del Partito comunista. Ed era per lui questo l'argomento
principe per far tacere gli anarchici e le loro accuse che
continuamente gli ronzano nelle orecchie. Quali argomenti potrà ancora
trovare per controbattere le scemenze di costoro ora che la Centrale
del partito afferma niente di meno, di voler "schiacciare" ogni
movimento tendente a creare una frazione?
Rinunciamo
a parlare del richiamo alla nostra lotta nei sindacati contro i
dirigenti riformisti i quali tentano di impedirci un'azione organizzata
contro la loro attività anticlassista. Siamo qui veramente ai primi
elementari precetti del comunismo: che diversità vi è tra un sindacato
e un partito? Il segretario federale di Teramo che fu già buon
organizzatore sindacale dovrebbe esserci maestro in queste quistioni
nelle quali invece miseramente si incaglia. Ma ciò è ben naturale.
Sostenere il diritto alla frazione nel seno del nostro partito non può
essere che la conseguenza dell'ignoranza completa di tutte le tesi di
tutti i congressi dell'Internazionale. E ciò spiega ampiamente gli
errori madornali sui quali abbiamo dovuto intrattenerci.
("L'Unità", 25 giugno 1925)
Rettifiche
Vi
è un opportunismo dei più pericolosi per un partito rivoluzionario, ed
è quello che gli suggerisce e consiglia una determinata tattica non già
perché essa lo avvicina di più alle masse, o perché fa comprendere a
queste il contenuto di una determinata situazione storica, o perché lo
sospinge verso uno sbocco di detta situazione più favorevole alla lotta
rivoluzionaria, o perché provoca il superamento di una situazione e un
passo verso una situazione più avanzata della guerra di classe; ma che
basa una determinata tattica sul timore delle critiche dei partiti
avversari, proletari o peggio borghesi; quasi che vi possa essere un
episodio qualunque della tattica di un partito rivoluzionario che non
provochi le più aspre critiche, per più precise rampogne, le accuse più
veementi contro di esse.
Il giudizio degli
avversari non deve mai essere un elemento delle decisioni di un partito
comunista, il quale non deve preoccuparsi che del giudizio delle masse
e della necessità della sua azione, la quale, sempre, urta e cozza
contro gli interessi, le intenzioni, la tattica degli altri partiti.
("L'Unità", 9 luglio 1925)
Per una lettera del compagno Ferragni
I
commenti del compagno Ferragni dimostrano che egli non ha una giusta
concezione delle funzioni che spettano in un Partito comunista al
Comitato centrale. Il Comitato centrale è, in qualsiasi momento della
vita del partito, il solo potere e non abdica mai, per nessun motivo e
in nessuna circostanza, a nessuna parte della sua autorità.
E'
bene che questo principio venga ricordato, perché non è escluso che le
obiezioni che si muovono ora, in sede di preparazione congressuale,
vengano avanzate anche in circostanze e per motivi molto più
gravi.
Per fare un esempio, il primo
che ci corre alla mente: quando esisterà nel partito un potere
militare, esso sarà in ogni caso e sempre subordinato al potere e al
controllo del Comitato centrale. A parte questo esempio, una rinuncia
del Comitato centrale ai suoi poteri in precedenza del congresso, per
lasciare "libera" di formarsi l'opinione del partito, non è concepibile
se non in un organismo socialdemocratico. Per noi, la "libertà" è
garantita appunto dal fatto che la Centrale non rinuncia al suo potere,
ma continua a esercitarlo normalmente per regolare e dirigere la
discussione preparatoria.
L'errore
dell'attuale Comitato centrale consisterebbe però nel fatto che esso,
nel regolare la discussione, non dimentica di avere una sua opinione,
anzi, fa attiva propaganda perché essa abbia ad essere compresa,
accolta e condivisa dalla maggioranza degli inscritti. Anche su questo
punto, la risposta nostra sta nell'ammettere che la cosa viene fatta,
nell'affermare, anzi, che essa viene fatta con piena certezza di far
bene e di adempiere a un dovere.
Nemmeno
in condizioni "normali" il Comitato centrale non è mai un organismo il
quale possa assistere passivamente a una discussione che si svolge nel
partito. Questo per il semplice fatto che la discussione parte da esso,
che nel seno di esso le aspirazioni divergenti si formano e vengono a
un primo contrasto; che non è in linea generale possibile concepire una
tendenza che in seno ad esso non sia rappresentata. Questo fatto
risolve, anzi tronca, ogni problema della legittimità e delle forme
dell'azione regolatrice della Centrale sul dibattito. E' la centrale
stessa, infatti, che deve discutere di esso e deciderne la
portata.
La tutela della minoranza
si esercita nel suo seno, e la minoranza formatasi nel Comitato
centrale è per questo solo fatto riconosciuta come una corrente di
opinione nel partito. Essa avrà i suoi rappresentanti nelle commissioni
che elaborano le tesi, presenterà emendamenti a seconda che crederà
opportuno e così via. Il "riconoscimento" di essa non giungerà però mai
a ispirare provvedimenti che ledano la compagine del partito o spezzino
il processo di formazione "organica" - e non "parlamentare" - del suo
centro dirigente. L'integrità di quella compagine e la continuità di
questo processo non hanno garanzia se non nel fatto che la Centrale non
sopprima mai se stessa come organismo che ha un pensiero, una volontà,
un potere.
("L'Unità", 1 ottobre 1925)
Contro lo scetticismo
Nella
nota dell'articolo precedente del compagno Bordiga rilevavamo come
carattere essenziale di esso fosse il dubbio, lo scetticismo, la
diffidenza e la cura di non opporre concretamente una soluzione propria
alle questioni discusse. Nell'articolo che segue, la critica alla
politica dell'Internazionale è ristretta al "metodo di lavoro", e
questo ancora è circoscritto ai rapporti fra i dirigenti, le sezioni
nazionali e il centro dell'internazionale.
La
Centrale del partito risponderà ampiamente, anche in linea di fatto, al
compagno Bordiga. Ma intanto occorre rilevare che la posizione da lui
presa è invariabilmente la seguente: egli rimane all'opposizione perché
"non si fida". Ma non occorre ripetere che la sfiducia metafisica si
può applicare a chiunque, non escluso il compagno Bordiga. Qualunque
sia la dirigenza internazionale può allora sempre avvenire che sulla
linea attuale di Bordiga si stacchi una tendenza la quale giustifichi
il proprio "astensionismo" col pretesto di "non fidarsi".
Il
compagno Bordiga osserva: ma perché fare delle proposte alla
socialdemocrazia, quando si riconosce che essa è l'ala sinistra della
borghesia? Ciò che il compagno Bordiga non comprende è questo: che si
tratta di un'ala sinistra borghese, la quale comanda a una parte
notevole o addirittura alla maggioranza del proletariato, la quale lo
ignora; che il partito non deve privarsi della possibilità che la
situazione gli offre di combattere le illusioni operaie anche
dall'interno, e di dimostrare agli operai "coi fatti" che la
socialdemocrazia è la mano sinistra della borghesia; che, fino a quando
la maggioranza decisiva del proletariato non sarà passata sotto le
nostre bandiere, è questa la vera lotta di classe che noi dobbiamo
condurre contro la socialdemocrazia.
Certo,
si tratta di una tattica che comporta pericoli; tuttavia essa è
incontestabilmente giusta. Il problema consiste nell'evitare i pericoli
e nel saperla rettamente applicare. Abbandonarla per timore del
pericolo, è un altro opportunismo: opportunismo di sinistra.
Sull'operato del Comitato centrale del partito
"L'Unità", 20 dicembre 1925
1) La linea politica adottata dalla Centrale e
seguita dal V Congresso in poi è stata pienamente adeguata alla
situazione politica italiana, ha consentito al nostro partito di
sviluppare le sue forze, e lo ha portato ad avere un grado di influenza
politica reale quale esso mai aveva posseduto. Essa ha fatto compiere
al partito passi considerevoli sulla via di una preparazione
rivoluzionaria effettiva. Noi siamo oggi collegati politicamente con la
classe operaia in modo di gran lunga superiore a quanto mai non siamo
stati durante la vita del nostro partito. Noi abbiamo inoltre, favoriti
dalla situazione oggettiva, risolutamente impostato e avviato a una
soluzione il problema del collegamento politico con la classe dei
contadini, in modo come prima non si era riusciti a fare.
Affermiamo
che la linea seguita dal partito durante il primo periodo della sua
esistenza, e soprattutto quando si resero acuti i dissensi con
l'Internazionale, non avrebbe mai potuto portarci al punto in cui ora
ci troviamo. Se il partito avesse adottato la tattica che Bordiga
propugna, esso non avrebbe in nessun modo potuto trarre profitto dalla
situazione determinatasi dopo il delitto Matteotti, non sarebbe affatto
riuscito a esercitare in ogni momento della sua azione una influenza
sopra vasti strati di massa, sarebbe venuto meno al compito di
strappare le masse lavoratrici all'influenza dei partiti intermedi
controrivoluzionari, e di estendere quindi gradualmente la sua
influenza sino al grado attuale.
Affermiamo
che soltanto la tattica che la Centrale ha seguito, in conformità con i
deliberati dei congressi mondiali, negli ultimi due anni, ha consentito
di porre nei suoi termini reali il problema di creare in Italia il
partito della classe operaia come partito di massa e non come setta
completamente staccata dalle masse e fossilizzata nella ripetizione di
una vuota fraseologia rivoluzionaria. Affermiamo inoltre che un ritorno
alla tattica "bordighiana" ci farebbe perdere rapidamente tutto ciò che
abbiamo acquistato, e avrebbe quindi le più gravi conseguenze non solo
per il partito, ma anche per la classe operaia.
Posta
tra la organizzazione settaria "bordighiana" e le formazioni politiche
controrivoluzionarie in sfacelo (massimalisti, unitari, aventiniani e
simili) la classe operaia ricadrebbe nella passività, nella inerzia,
nella disgregazione, dalle quali invece noi la stiamo strappando;
2)
per quanto riguarda la politica del partito nel periodo tra il IV e il
V Congresso mondiale, se è vero che in quel periodo vi furono, per
quanto riguarda le stesse direttive generali, delle incertezze ed
oscillazioni, è altrettanto vero che la responsabilità di questo fatto
risale a chi, per condurre una lotta contro l'Internazionale, non aveva
esitato ad aprire nel partito una gravissima crisi, soprattutto
favorendo la formazione di una "destra" che non trovava una ragione
d'essere altro che per la sua "fedeltà" alle direttive della
Internazionale contro le quali il partito veniva schierato. Seguire
Bordiga oggi, vorrebbe dire riprodurre una situazione eguale a quella
di allora. Ma, per fortuna, non vi è nessun segno che il partito voglia
seguirlo;
3) per quanto riguarda
l'organizzazione noi non esitiamo ad affermare che una organizzazione
qual ebbe il nostro partito nel primo periodo della sua esistenza, se
rappresentò un progresso enorme in confronto della consuetudine
socialdemocratica e massimalista e se era adeguata alla situazione di
allora, non sarebbe in nessun modo adeguata a risolvere i problemi che
oggi al partito si sono posti, in prima linea il problema di mantenere
in qualsiasi condizione i contatti con i più vasti strati della classe
operaia, e il problema di funzionare come una parte della classe
operaia stessa. Il problema di organizzare il partito comunista come
parte della classe operaia e come partito di massa fu posto solo dalla
attuale Centrale. La Centrale che fu guidata da Bordiga non vide questo
problema, in conseguenza del suo indirizzo politico generale. Che oggi
esso sia risolto, noi non lo diciamo, certo esso è impostato bene e si
sono fatti enormi progressi verso la sua risoluzione;
4)
quanto al lavoro pratico di organizzazione, noi non crediamo che tutto
dalla attuale Centrale sia fatto bene. Crediamo che difetti e
manchevolezze ve ne furono, e ve ne sono tuttora. Se però noi teniamo
conto delle condizioni in cui il lavoro del partito si è svolto dopo il
V Congresso mondiale non possiamo fare a meno di dire che questi
difetti scompaiono di fronte alla enorme opera riorganizzativa compiuta
per giungere alla situazione odierna, partendo da una situazione in cui
tutta la vecchia impalcatura era crollata e dovette essere ricostruita
con nuovi criteri e impiegando "materiale" nuovo.
Il
compagno Bordiga queste cose le sa; così come egli sa che, tenendo
conto delle diverse condizioni oggettive (oggi per fare arrivare una
lettera dal centro alla periferia occorre un "lavoro" dieci volte più
grande di quanto ne occorresse ai tempi di Bordiga), l'apparato attuale
del partito è più piccolo di quello di una volta, il che vuol dire che
è minore, relativamente, il numero dei funzionari. Ma anche se essi
fossero di più, noi affermiamo che essi sono scelti in base al più
rigoroso criterio, e che in base ai più rigorosi criteri il loro lavoro
viene controllato. Noi siamo certi che i tanto deprezzati "funzionari"
del partito sono oggi un gruppo disciplinato e cosciente di
"rivoluzionari professionali" che alla causa del partito e della classe
operaia non verranno mai meno;
5) rimane a
vedere se sia vero che la Centrale ha "avvelenato la convivenza" nel
partito col settarismo. Orbene, se Bordiga si riferisce, come non v'è
dubbio, alla energica e implacabile azione della Centrale per stroncare
il tentativo frazionista che prese nome dal "Comitato d'intesa", noi
non dobbiamo dirgli altro se non che siamo pronti, oggi, domani e
sempre, quando un altro tentativo di quel genere fosse compiuto
un'altra volta, a stroncarlo con la stessa implacabile energia.
Non
solo, ma siamo convinti che, quando a tutti i compagni sarà noto il
punto a cui l'azione disgregatrice del Comitato d'intesa stava per
arrivare, essi troveranno che forse si doveva essere anche più aspri
nello stigmatizzare l'azione. Chi nel Partito comunista vuole lavorare
disciplinato, sulle direttive che l'Internazionale ha tracciato e
collaborando per l'applicazione di esse, non troverà mai che la
convivenza nelle sue file è "avvelenata". Ma per chi volesse ripetere
l'insano tentativo di spezzare l'unità del partito, di porlo contro
l'Internazionale, di disgregarne la compagine, per questi, non vi è
dubbio, l'aria del nostro partito, dopo il III Congresso, sarà poco
respirabile.
Intervento nella Commissione politica
Intervento dal verbale di riunione
"L'Unità", 24 febbraio 1926
(…) Vi è tra il lavoro di "bolscevizzazione"
che oggi si sta compiendo e l'azione esercitata da Carlo Marx in seno
al movimento operaio una analogia fondamentale. Si tratta, oggi come
allora, di combattere contro ogni deviazione della dottrina e della
pratica della lotta di classe rivoluzionaria, e la lotta si svolge nel
campo ideologico, in quello organizzativo e in quello che si riferisce
alla tattica e alla strategia del Partito del proletariato.
Nel
nostro partito però la discussione più ampia si è svolta sul piano
organizzativo: ciò si spiega perché oggi è su questo piano che le
conseguenze delle diverse posizioni ideologiche e tattiche appaiono
immediatamente evidenti a tutti i compagni, anche a quelli che sono
meno preparati a un dibattito puramente teorico.
Tutti
i punti di dissenso che esistono tra la Centrale del partito e la
estrema sinistra si possono raggruppare attorno a tre fondamentali
problemi:
1) il problema dei rapporti tra il Centro dirigente del partito e la massa dei compagni iscritti ad esso;
2) il problema dei rapporti tra il Centro dirigente e la classe operaia;
3) il problema dei rapporti tra la classe operaia e le altre classi anticapitalistiche.
Tutti
questi rapporti devono essere stabiliti in modo esatto se si vuole
poter giungere alla conclusione storica della dittatura del
proletariato. Perché si giunga a questa conclusione infatti è
necessario che la classe operaia diventi classe dirigente della lotta
anticapitalistica, che il Partito comunista diriga la classe operaia in
questa lotta, e che esso sia internamente costruito in modo da poter
adempiere a questa sua funzione fondamentale.
Ognuno
dei tre problemi accennati si collega quindi al fondamentale problema
della attuazione del compito rivoluzionario del Partito comunista. Ai
primi due problemi è collegata la questione della natura del partito e
degli organi che lo dirigono. Noi riteniamo che nel definire il partito
è necessario sottolineare il fatto che esso è una "parte" della classe
operaia, mentre la estrema sinistra trascura e sottovaluta questo lato
della definizione del partito per dare invece importanza fondamentale
al fatto che il partito è un "organo" della classe operaia.
La
nostra posizione deriva da ciò che noi riteniamo si debba porre nel
massimo rilievo il fatto che il partito è unito alla classe operaia non
solo da legami ideologici, ma anche da legami di carattere "fisico". E
questo è in stretta relazione con i compiti che debbono essere
attribuiti al partito nei confronti della classe operaia.
Secondo
la estrema sinistra il processo di formazione del partito è un processo
"sintetico"; per noi esso invece è un processo di carattere storico e
politico, legato strettamente a tutto uno sviluppo della società
capitalistica. La diversa concezione porta a determinare in modo
diverso la funzione e i compiti del partito. Tutto il lavoro che il
partito deve compiere per elevare il livello politico delle masse, per
convincerle e portarle sul terreno della lotta di classe rivoluzionaria
viene, in conseguenza della errata concezione della estrema sinistra,
svalutato e ostacolato, per via del distacco iniziale che si è creato
tra il partito e la classe operaia.
La
errata concezione che ha l'estrema sinistra circa la natura del partito
ha innegabilmente un carattere di classe. Non già che, come avvenne in
seno al Partito socialista, si tenda a far prevalere in seno alla
organizzazione politica del proletariato la influenza di altre classi,
ma nel senso che si dà una errata valutazione del peso che nel partito
debbono avere i diversi elementi che la compongono. La concezione della
estrema sinistra, la quale pone su uno stesso piano gli operai e gli
elementi che provengono da altre classi sociali e non si preoccupa di
salvaguardare il carattere proletario del partito, corrisponde a una
situazione in cui gli intellettuali erano gli elementi politicamente e
socialmente più avanzati, ed erano quindi destinati ad essere gli
organizzatori della classe operaia.
Oggi,
secondo noi, gli organizzatori della classe operaia devono essere gli
operai stessi. Occorre quindi, nel definire il partito, sottolineare in
modo particolare quella parte della definizione che mette in rilievo la
intimità dei rapporti che esistono tra esso e la classe da cui esso
sorge. Questo problema di natura teorica ha dato origine alla
discussione sulla organizzazione per "cellule", cioè secondo la base
della produzione. E' stato anzi questo il punto che nella discussione
preparatoria del congresso è stato toccato più e dal maggior numero di
compagni.
Tutti gli argomenti di
carattere pratico che rendono utile e indispensabile la trasformazione
della organizzazione del partito sulla base delle cellule sono quindi
stati ampiamente esposti e i compagni li conoscono. La estrema sinistra
presenta delle obiezioni, di cui le principali consistono in una
sopravvalutazione del problema di superare la concorrenza tra diverse
categorie di operai, cioè del problema della unificazione classista del
proletariato. E' certo che questo problema esiste ma è un errore fare
di esso un problema fondamentale, dal quale debba essere determinata la
forma che il partito dà alla sua organizzazione. Questo problema
inoltre ha trovato in Italia una risoluzione già da tempo nel campo
sindacale, e la esperienza ha dimostrato che la organizzazione per
fabbrica consente di combattere con la maggiore efficacia ogni residuo
di corporativismo e di spirito di categoria.
In
realtà, se il problema che la estrema sinistra sembra presentare come
fondamentale e dal quale sono determinate le sue preoccupazioni fosse
davvero problema essenziale nell'attuale periodo storico, in Italia,
allora veramente gli intellettuali sarebbero organizzativamente
l'avanguardia del movimento rivoluzionario. Ma così invece non è.
Una seconda questione fondamentale è quella
dei rapporti che debbono essere stabiliti tra la classe operaia e le
altre classi anticapitalistiche. E' questo un problema che può essere
risolto soltanto dal partito della classe operaia mediante la sua
politica. In nessun paese il proletariato è in grado di conquistare il
potere e di tenerlo con le sole sue forze: esso deve quindi procurarsi
degli alleati, cioè deve condurre una tale politica che gli consenta di
porsi a capo delle altre classi che hanno interessi anticapitalistici e
guidarle nella lotta per l'abbattimento della società borghese. La
questione è particolarmente importante in Italia, dove il proletariato
è una minoranza della popolazione lavoratrice ed è disposto
geograficamente in forma tale che non può presumere di condurre una
lotta vittoriosa per il potere se non dopo avere data una esatta
risoluzione al problema dei suoi rapporti con la classe dei
contadini.
Alla impostazione e
risoluzione di questo problema dovrà dedicarsi in particolar modo il
nostro partito nel prossimo avvenire. Esiste del resto una reciprocità
tra il problema della alleanza tra operai e contadini e il problema
della organizzazione della classe operaia e del partito; questi ultimi
saranno risolti più agevolmente se il primo sarà stato avviato a una
soluzione. Il problema della alleanza tra operai e contadini è stato
già impostato dalla Centrale del partito, ma non si può affermare che
tutti i compagni ne abbiano bene compreso i termini e abbiano la
capacità di lavorare per la risoluzione di esso, e ciò soprattutto
nelle zone dove occorrerebbe lavorare di più e meglio, cioè nel
Mezzogiorno.
Così la estrema
sinistra fa oggetto di critica tutta la azione che Centrale ha svolto
verso Miglioli, esponente della sinistra contadina nel Partito
popolare. Queste critiche dimostrano che la estrema sinistra non coglie
i termini e la importanza del problema dei rapporti tra il proletariato
e le altre classi anticapitalistiche. L'azione che il partito ha
condotto verso Miglioli è stata condotta appunto allo scopo di aprire
la via alla alleanza tra gli operai e i contadini per la lotta contro
il capitalismo e contro lo Stato borghese. Sullo stesso piano si pone
la questione del Vaticano come forza politica controrivoluzionaria. La
base sociale del Vaticano è data appunto dai contadini, che i clericali
hanno sempre considerato come esercito di riserva della reazione e che
si sono sforzati di mantenere sempre sotto il loro controllo.
La
realizzazione della alleanza tra operai e contadini per la lotta contro
il capitalismo suppone la distruzione della influenza del Vaticano sui
contadini dell'Italia centrale e settentrionale in particolar modo. La
tattica seguita dal partito verso Miglioli tende precisamente a questo
scopo. Il problema dei rapporti tra il proletariato e le altre classi
anticapitalistiche non è che uno dei problemi della tattica e della
strategia del partito.
Anche sugli
altri punti esiste un profondo dissenso fra la Centrale e l'estrema
sinistra. La Centrale ritiene che la tattica del partito deve essere
determinata dalla situazione e dal proposito di conquistare una
influenza decisiva sopra la maggioranza della classe operaia, per
poterla guidare di fatto verso la rivoluzione. La estrema sinistra
ritiene che la tattica deve essere determinata da preoccupazioni di
natura formale e che il partito non deve porsi in ogni momento il
problema della conquista della maggioranza, ma limitarsi per lunghi
periodi di tempo ad una semplice azione di propaganda dei suoi principi
politici generali. L'esempio migliore della natura ed estensione del
dissenso si ha nella tattica seguita dal partito dopo il delitto
Matteotti e nelle critiche che la estrema sinistra muove ad essa.
E' certo che in un primo momento, cioè
subito dopo il delitto Matteotti, le opposizioni costituzionali erano
il fattore predominante della situazione, e che le loro forze erano
essenzialmente date dalla classe operaia e dai contadini. Era quindi in
sostanza la classe operaia la quale si trovava sopra una posizione
sbagliata e si muoveva senza avere coscienza della propria funzione e
della posizione politica che le spettava nel quadro delle forze in
contrasto. Bisognava far acquistare alla classe operaia coscienza di
questa sua funzione e posizione.
Che
atteggiamento doveva assumere a questo scopo il nostro partito? Sarebbe
stato sufficiente lanciare delle parole di propaganda e condurre una
campagna di critica ideologica e politica tanto contro il fascismo
quanto contro la opposizione costituzionale (Aventino)? No, questo non
sarebbe stato sufficiente. La propaganda e la critica politica che si
svolgono sugli organi del partito hanno una cerchia di influenza molto
ristretta; esse non giungono molto al di là delle masse degli iscritti.
Era necessario condurre una azione politica, e questa doveva essere
diversa nei riguardi del fascismo e delle opposizioni. Infatti, anche
la estrema sinistra asserisce che i fattori della situazione in quel
momento erano tre: il fascismo, le opposizioni e il proletariato.
Questo vuol dire che tra i due primi noi
dovevamo fare una distinzione e porci, non solo teoricamente, ma
praticamente, il problema di disgregare socialmente e quindi
politicamente le opposizioni, per togliere loro le basi che avevano tra
le masse. A questo scopo fu rivolta la azione politica del partito
verso le opposizioni. E' certo che, per il proletariato e per noi in
quel momento esisteva un problema fondamentale: quello di rovesciare il
fascismo. Appunto perché volevamo che il fascismo fosse abbattuto con
qualsiasi mezzo, le masse seguivano in grandissima parte le
opposizioni. E in realtà non si deve negare che se il governo di
Mussolini fosse caduto, con qualunque mezzo lo si fosse fatto cadere,
si sarebbe aperta in Italia una crisi politica assai profonda, di cui
nessuno avrebbe potuto prevedere o frenare gli svolgimenti.
Ma
questo sapevano anche le opposizioni e perciò esse esclusero fin
dall'inizio "un" modo di far cadere il fascismo, che era il solo
possibile, cioè la mobilitazione e la lotta delle masse. Escludendo
questo solo possibile modo di far cadere il fascismo le opposizioni in
realtà tennero in piedi il fascismo, furono il più efficiente puntello
del regime in dissoluzione.
Ebbene,
noi, con la azione politica svolta verso le opposizioni (uscita dal
Parlamento, partecipazione alla assemblea delle opposizioni, uscita da
essa) riuscimmo a rendere evidente alle masse questo fatto, cosa che
assolutamente non ci sarebbe riuscito di fare con una semplice attività
di propaganda, di critica, ecc. Noi riteniamo che la tattica del
partito deve sempre avere il carattere che ebbe allora la tattica
nostra: il partito deve portare alle masse i problemi in modo reale e
politico, se vuole ottenere dei risultati.
Il
problema della conquista di una influenza decisiva sopra la maggioranza
della classe operaia e quello dell'alleanza tra gli operai e i
contadini sono strettamente collegati con il problema militare della
rivoluzione, che si pone oggi a noi in modo del tutto particolare dato
l'ordinamento delle forze armate che la borghesia italiana ha al suo
servizio. Anzitutto vi è un esercito nazionale, il quale è però
estremamente ridotto e nel quale esiste una altissima percentuale di
ufficiali che controlla la massa dei soldati. E' quindi tutt'altro che
facile esercitare una influenza sull'esercito in modo da averlo alleato
in un momento rivoluzionario. Nella migliore delle ipotesi e secondo
quanto è possibile prevedere oggi, l'esercito potrà restare
neutrale.
Ma oltre l'esercito vi
sono dei corpi armati numerosissimi (polizia, carabinieri, milizia
nazionale) i quali sono ben difficilmente influenzabili dal
proletariato. In conclusione su 600 mila armati che la borghesia ha al
suo servizio, 400 mila almeno non sono conquistabili alla politica
della classe operaia. Il rapporto delle forze che esiste tra il
proletariato e la borghesia è quindi modificabile soltanto in
conseguenza di una lotta politica che il partito della classe operaia
abbia condotto e che lo abbia portato a collegarsi e a dirigere la
maggioranza della popolazione lavoratrice.
La
concezione tattica della sinistra è un ostacolo alla attuazione di
questo compito. Tutti i problemi che si sono presentati nella
discussione tra la centrale del partito e la estrema sinistra sono
legati alla situazione internazionale e ai problemi della
organizzazione internazionale del proletariato, cioè della
Internazionale comunista. La estrema sinistra assume in questo campo un
atteggiamento singolare analogo in parte a quello dei massimalisti, in
quanto considera la Internazionale comunista come una organizzazione di
fatto, alla quale si oppone la "vera" Internazionale che ancora
dovrebbe essere creata. Questo modo di presentare le questioni contiene
in sé, potenzialmente, un problema di scissione.
Gli
atteggiamenti assunti dalla estrema sinistra in Italia prima e durante
la discussione precongressuale (frazionismo) ne hanno del resto data la
prova. Occorre esaminare quale è la situazione del nostro partito quale
organismo internazionale. Nel 1921 il nostro partito si è costituito
sul terreno indicato dalle tesi e dalle risoluzioni dei primi due
congressi della Internazionale comunista. Chi si è staccato da queste
tesi per assumere una posizione contrastante con quelle della
Internazionale? Non la Centrale del partito che è ora fondamentalmente
la stessa che venne eletta dai congressi di Livorno e di Roma, ma un
gruppo di dirigenti del partito, quelli che costituiscono la tendenza
della estrema sinistra.
La posizione
di questo gruppo è errata, e il partito, opponendosi ad essa e
condannandola, non fa che continuare la sua tradizione politica.
L'ampiezza della discussione che si è fatta e si dovrà fare al
congresso con i compagni della estrema sinistra deriva dal fatto che
questi compagni, per individuarsi nel partito come frazione, hanno
sentito il bisogno di differenziarsi sopra tutti i problemi che
potevano essere posti in discussione, conducendo in pari tempo una
azione che avrebbe potuto portare alla disgregazione della base del
partito. Questa azione dovrà essere condannata dal congresso e dovrà
essere esclusa per l'avvenire la possibilità di essa.
La
discussione che si svolgerà a questo congresso ha una enorme importanza
in quanto tocca tutti i problemi della rivoluzione italiana e interessa
quindi profondamente lo sviluppo del nostro partito per un intero
periodo storico. Occorre quindi che ogni compagno abbia coscienza della
responsabilità proletaria e rivoluzionaria che gli incombe.
La
discussione che si svolge tra il Comitato centrale e la estrema
sinistra del partito non è una discussione puramente accademica. La
estrema sinistra ad esempio dà del partito una definizione che la porta
a compiere degli errori di tattica. Questo è avvenuto nel periodo in
cui essa era nella direzione del partito. Lo stesso dicasi per quanto
riguarda la analisi dei movimenti e dei partiti della borghesia. Per il
fascismo ad esempio. Quando il fascismo sorse e si sviluppò in Italia
come bisognava considerarlo? Era esso soltanto un organo di
combattimento della borghesia, oppure era anche un movimento sociale?
La estrema sinistra che allora dirigeva il partito non lo considerò che
sotto il primo aspetto, e questo errore ebbe come conseguenza che non
si riuscì ad arginare la avanzata del fascismo come forse sarebbe stato
possibile fare. Nessuna azione politica venne compiuta per impedire
l'avvento al potere del fascismo.
La
Centrale di allora commise l'errore di pensare che la situazione del
1921-22 potesse protrarsi e consolidarsi, e che non fosse né necessario
né possibile l'avvento al potere di una dittatura militare. Questo
errore di valutazione era la conseguenza di un errato sistema di
analisi politica, cioè del sistema che Bordiga oggi oppone a quello
sostenuto dal Comitato centrale, che è il sistema leninista. La
situazione italiana è caratterizzata dal fatto che la borghesia è
organicamente più debole che in altri paesi e si mantiene al potere
solo in quanto riesce a controllare e dominare i contadini. Il
proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza
della borghesia e porli sotto la sua guida politica. Questo è il punto
centrale dei problemi politici che il partito dovrà risolvere nel
prossimo avvenire.
E' certo che si
debbono esaminare con attenzione anche le diverse stratificazioni della
classe borghese. Anzi occorre esaminare la stratificazione del fascismo
stesso perché, dato il sistema totalitario che il fascismo tende ad
instaurare, sarà nel seno stesso del fascismo che tenderanno a
risorgere i conflitti che non si possono manifestare per altre vie. La
tattica del partito nel periodo Matteotti ha cercato sempre di tenere
conto delle stratificazioni della borghesia, e la nostra proposta
dell'antiparlamento fu fatta allo scopo di giungere a prendere contatto
con masse arretrate le quali erano fino ad allora rimaste sotto il
controllo di strati della grande o della piccola borghesia. E' certo
che vi sono delle masse di contadini nel Mezzogiorno le quali solo
quando noi facevamo la proposta di antiparlamento vennero a conoscere
la esistenza di un Partito comunista.
Riguardo
al problema delle cellule il compagno Bordiga confonde la concorrenza
corporativa tra le diverse categorie operaie con la scissione politica
della classe operaia. Oggi è essenziale combattere contro la scissione
politica della classe operaia, ed è una scissione politica quella che i
fascisti cercano di tenere aperta nel seno del proletariato, mentre la
lotta contro la concorrenza corporativa, se pure deve essere condotta,
non è un problema essenziale. Certamente non è vero quanto afferma
Bordiga, e cioè che il problema della organizzazione del partito si
ponga per noi in termini essenzialmente diversi che per il partito
russo, il quale era organizzato sulla base della produzione. Bordiga
afferma che lo zarismo era una forma reazionaria e non una forma
capitalistica. Questo non è vero. Basta conoscere la storia della
rivoluzione del 1905 e del modo come si è sviluppato il capitalismo in
Russia prima e durante la guerra per essere in grado di smentire
l'affermazione di Bordiga.
Il
problema che oggi si pone a noi, e che è in fondo lo stesso che si
poneva al partito russo sotto la reazione, è quello del livellamento e
della unificazione politica della classe operaia. Per risolvere questo
problema il partito deve essere organizzato sulla base delle cellule di
officina. Assolutamente inadeguata la soluzione propugnata dalla
estrema sinistra di fare delle cellule semplici organi di lavoro del
partito. Esistono oggi nel partito due organismi di lavoro: il comitato
sindacale e il gruppo parlamentare, ed essi sono proprio i due punti
deboli del partito stesso. Non ci può essere organismo di lavoro il
quale non sia in pari tempo organismo politico.
Se
noi dessimo al problema delle cellule la soluzione propugnata dalla
estrema sinistra verremmo alla conseguenza che le cellule o non
lavorerebbero più politicamente come invece debbono fare oppure
diventerebbero il veicolo di una deviazione del partito. Non è vero poi
che la questione delle cellule, come dice Bordiga, non sia una
questione di principio. Nel campo organizzativo essa è una questione di
principio. Il nostro partito è un partito di classe e la organizzazione
politica della avanguardia del proletariato. Compito dell'avanguardia
del proletariato è quello di guidare tutta la classe operaia alla
costruzione del socialismo. Ma per attuare questo compito appunto è
necessario che la avanguardia del proletariato sia organizzata sulla
base della produzione. Per quanto riguarda la tattica il compagno
Bordiga, quando è costretto a dare alle sue critiche una veste
concreta, si limita a dire che esistono dei "pericoli" nella
applicazione della tattica leninista. Ma esistono pure gravissimi
pericoli in conseguenza della applicazione della tattica di cui egli è
fautore.
E' vero che bisogna
guardare alle conseguenze che la tattica del partito ha sulle masse
operaie ed è pure vero che è da condannarsi una tattica la quale induca
le masse nella passività. Ma proprio questo avvenne nel 1921-22 in
conseguenza dell'atteggiamento tenuto dalla Centrale sulla questione
degli arditi del popolo. (...) Quella tattica se da una parte
corrispondeva alla esigenza di evitare che i compagni iscritti al
partito fossero controllati da una centrale che non era la centrale del
partito, servì d'altra parte a squalificare un movimento di massa che
partiva dal basso e che avrebbe potuto invece essere politicamente
sfruttato da noi.
E' assurdo
affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e
una situazione reazionaria, e che, anzi, in una situazione democratica
sia più disagevole il lavoro per la conquista delle masse. La verità è
che oggi in una situazione reazionaria si lotta per organizzare il
partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe per
organizzare la insurrezione. (…)
Bordiga
ha detto che è favorevole alla conquista delle masse nel periodo
immediatamente precedente alla rivoluzione. Ma come si fa a sapere
quando si è in questo periodo? Dipende proprio dal lavoro che noi
sappiamo svolgere tra le masse che questo periodo si inizi o meno. Solo
se noi lavoriamo e otteniamo dei successi nelle conquiste delle masse
si giunge al periodo prerivoluzionario.
Il
compagno Napoli ha protestato contro il modo che è stata condotta la
campagna contro il frazionismo della estrema sinistra. Sostengo che
quella campagna fu pienamente giustificata. Fui io a scrivere che il
costituire una frazione nel partito comunista, nella situazione attuale
nostra, era opera di agenti provocatori e sostengo ancora oggi quella
affermazione. Se si tollera il frazionismo per gli uni, bisogna
tollerarlo per tutti, e una delle vie che la polizia può seguire per
rovinare i partiti rivoluzionari è proprio quella di far sorgere in
seno ad essi dei movimenti di opposizione artificiali.
Il
compagno Napoli ha pure detto che se la Centrale ha fatto qualcosa di
bene questo è stato per la pressione della periferia. E' molto strano
che se alla periferia esisteva una così forte pressione di "sinistra",
tutta questa forza di sinistra si sia poi squagliata in seguito ad
alcuni commenti degli articoli della discussione. La realtà è che un
vasto movimento di sinistra alla base non esisteva e che la
costituzione della frazione fu una cosa del tutto artificiale.
Quanto
all'orientamento politico del partito alla base nel periodo Matteotti
esso fu tutt'altro che di sinistra. La Centrale dovette fare uno sforzo
per trascinare il partito sulle posizioni di opposizione tanto al
fascismo che all'Aventino. Questa del resto era una conseguenza della
situazione in cui si era trovato il partito nel 1923, anno in cui non
aveva condotto una sua azione politica. Perciò mentre si era isolato
dalle masse in pari tempo il partito seguiva la influenza delle masse
stesse, le quali alla loro volta erano sotto la influenza di altri
partiti.
Sulla situazione attuale
del partito non si può essere pessimisti. Il nostro partito è in una
fase di sviluppo più avanzata degli altri partiti della Internazionale.
Vi è in esso un nucleo proletario fondamentale stabile e si sta
costituendo un centro omogeneo e compatto. Ma appunto per questo è
necessario chiedere al nostro partito più di quanto non si chieda agli
altri partiti della Internazionale, e la lotta contro il frazionismo
può e deve essere condotta nel suo seno con la più grande decisione.
Tesi del III Congresso del Partito comunista d'Italia
Lione, gennaio 1926
1.
La trasformazione dei partiti comunisti, nei quali si raccoglie
l'avanguardia della classe operaia, in partiti bolscevichi, si può
considerare, nel momento presente, come il compito fondamentale
dell'Internazionale comunista. Questo compito deve essere posto in
relazione con lo sviluppo storico del movimento operaio internazionale,
e in particolare con la lotta svoltasi nell'interno di esso, tra il
marxismo e le correnti che costituivano una deviazione dai principi e
dalla pratica della lotta di classe rivoluzionaria. In Italia il
compito di creare un partito bolscevico assume tutto il rilievo che è
necessario soltanto se si tengono presenti le vicende del movimento
operaio dai suoi inizi e le deficienze fondamentali che in esse si sono
rivelate.
2. La nascita del movimento
operaio ebbe luogo in ogni paese in forme diverse. Di comune vi fu in
ogni luogo la spontanea ribellione del proletariato contro il
capitalismo. Questa ribellione assunse però in ogni nazione una forma
specifica, la quale era il riflesso e conseguenza delle particolari
caratteristiche nazionali degli elementi che, provenendo dalla piccola
borghesia e dai contadini, avevano contribuito a formare la grande
massa del proletariato industriale. Il marxismo costituì l'elemento
cosciente, scientifico e superiore al particolarismo delle varie
tendenze di carattere e origine nazionale e condusse contro di esse una
lotta nel campo teorico e nel campo dell'organizzazione.
Tutto
il processo formativo della I Internazionale ebbe come cardine questa
lotta, la quale si conchiuse con la espulsione del bakuninismo dalla
Internazionale. Quando la I Internazionale cessò di esistere, il
marxismo aveva ormai trionfato nel movimento operaio. La II
Internazionale si formò infatti di partiti i quali si richiamavano
tutti al marxismo e lo prendevano come fondamento della loro tattica in
tutte le questioni essenziali. Dopo la vittoria del marxismo, le
tendenze di carattere nazionale delle quali esso aveva trionfato
cercarono di manifestarsi per altra via, risorgendo nel seno stesso del
marxismo come forme di revisionismo.
Questo
processo fu favorito dallo sviluppo della fase imperialistica del
capitalismo. Sono strettamente connessi con questo fenomeno i seguenti
tre fatti: il venir meno nelle file del movimento operaio della critica
dello Stato, parte essenziale della dottrina marxista, alla quale si
sostituiscono le utopie democratiche; il formarsi di un'aristocrazia
operaia; un nuovo spostamento di masse dalla piccola borghesia e dai
contadini al proletariato, quindi una nuova diffusione tra il
proletariato di correnti ideologiche di carattere nazionale,
contrastanti col marxismo. Il processo di degenerazione della II
Internazionale assunse così la forma di una lotta contro il marxismo
che si svolgeva nell'interno del marxismo stesso. Esso culminò nello
sfacelo provocato dalla guerra.
Il
solo partito che si salvò dalla degenerazione è il Partito bolscevico,
il quale riuscì a mantenersi alla testa del movimento operaio del
proprio paese, espulse dal proprio seno le tendenze antimarxiste ed
elaborò, attraverso le esperienze di tre rivoluzioni, il leninismo, che
è il marxismo dell'epoca del capitalismo monopolista, delle guerre
imperialiste e della rivoluzione proletaria. Viene così storicamente
determinata la posizione del Partito bolscevico nella fondazione e a
capo della III Internazionale, e sono posti i termini del problema di
richiamare l'avanguardia del proletariato alla dottrina e alla pratica
del marxismo rivoluzionario, superando e liquidando completamente ogni
corrente antimarxista.
3. In Italia le
origini e le vicende del movimento operaio furono tali che non si
costituì mai, prima della guerra, una corrente di sinistra marxista che
avesse un carattere di permanenza e di continuità. Il carattere
originario del movimento operaio italiano fu molto confuso; vi
confluirono tendenze diverse, dall'idealismo mazziniano al generico
umanitarismo dei cooperatori e dei fautori della mutualità e al
bakuninismo, il quale sosteneva che esistevano in Italia, anche prima
dello sviluppo del capitalismo, le condizioni per passare direttamente
al socialismo. La tarda origine e la debolezza dell'industrialismo
fecero mancare l'elemento chiarificatore dato dalla esistenza di un
forte proletariato, ed ebbero come conseguenza, che anche la scissione
degli anarchici dai socialisti si ebbe con un ritardo di una ventina
d'anni (1892, Congresso di Genova).
Nel
Partito socialista italiano come uscì dal Congresso di Genova due erano
le correnti dominanti. Da una parte vi era un gruppo di intellettuali
che non rappresentavano più della tendenza a una riforma democratica
dello Stato: il loro marxismo non andava oltre il proposito di
suscitare e organizzare le forze del proletariato per farle servire
alla instaurazione della democrazia (Turati, Bissolati, ecc.).
Dall'altra parte un gruppo più direttamente collegato con il movimento
proletario, rappresentante una tendenza operaia, ma sfornito di
qualsiasi adeguata coscienza teorica (Lazzari). Fino al '900 il partito
non si propose altri fini che di carattere democratico. Conquistata nel
'900, la libertà di organizzazione e iniziatasi una fase democratica,
fu evidente la incapacità di tutti i gruppi che lo componevano a dargli
una fisionomia di un partito marxista del proletariato. Gli elementi
intellettuali si staccarono anzi sempre più dalla classe operaia, né
ebbe un risultato il tentativo, dovuto a un altro strato di
intellettuali e piccoli borghesi, di costituire una sinistra marxista
che prese forma nel sindacalismo.
Come
reazione a questo tentativo trionfò in seno al partito la frazione
integralista, la quale fu la espressione, nel suo vuoto verbalismo
conciliatorista, di una caratteristica fondamentale del movimento
operaio italiano, che si spiega essa pure con la debolezza
dell'industrialismo, e con la deficiente coscienza critica del
proletariato. Il rivoluzionarismo degli anni precedenti la guerra
mantenne intatta questa caratteristica, non riuscendo mai a superare i
confini del generico popolarismo per giungere alla costruzione di un
partito di classe operaia e alla applicazione del metodo della lotta di
classe. Nel seno di questa corrente rivoluzionaria si incominciò, già
prima della guerra, a differenziare il gruppo di "estrema sinistra" il
quale sosteneva le tesi del marxismo rivoluzionario, in modo saltuario
però e senza riuscire ad esercitare sullo sviluppo del movimento
operaio una influenza reale.
In
questo modo si spiega il carattere negativo ed equivoco che ebbe la
opposizione del Partito socialista alla guerra e si spiega come il
Partito socialista si trovasse, dopo la guerra, davanti ad una
situazione rivoluzionaria immediata, senza avere né risolto, né posto
nessuno dei problemi fondamentali che la organizzazione politica del
proletariato deve risolvere per attuare i suoi compiti: in prima linea
il problema della "scelta della classe" e della forma organizzativa ad
essa adeguata; poi il problema del programma del partito, quello della
sua ideologia, e infine i problemi di strategia e di tattica la cui
risoluzione porta a stringere attorno al proletariato le forze che gli
sono naturalmente alleate nella lotta contro lo Stato e a guidarlo alla
conquista del potere. La accumulazione sistematica di una esperienza
che possa contribuire in modo positivo alla risoluzione di questi
problemi si inizia in Italia soltanto dopo la guerra. Soltanto col
Congresso di Livorno sono poste le basi costitutive del partito di
classe del proletariato il quale, per diventare un partito bolscevico e
attuare in pieno la sua funzione, deve liquidare tutte le tendenze
antimarxiste tradizionalmente proprie del movimento operaio.
Analisi della struttura sociale italiana
4.
Il capitalismo è l'elemento predominante nella società italiana e la
forza che prevale nel determinare lo sviluppo di essa. Da questo dato
fondamentale deriva la conseguenza che non esiste in Italia possibilità
di una rivoluzione che non sia la rivoluzione socialista. Nei paesi
capitalistici la sola classe che può attuare una trasformazione sociale
reale e profonda è la classe operaia. Soltanto la classe operaia è
capace di tradurre in atto i rivolgimenti di carattere economico e
politico che sono necessari perché le energie del nostro paese abbiano
libertà e possibilità di sviluppo complete. Il modo come essa attuerà
questa sua funzione rivoluzionaria è in relazione con il grado di
sviluppo del capitalismo in Italia e con la struttura sociale che ad
esso corrisponde.
5. L'industrialismo, che
è la porta essenziale del capitalismo, è in Italia assai debole. Le sue
possibilità di sviluppo sono limitate e per la situazione geografica e
per la mancanza di materie prime. Esso non riesce quindi ad assorbire
la maggioranza della popolazione italiana (4 milioni di operai
industriali stanno di fronte a 3 milioni e mezzo di operai agricoli e a
4 milioni di contadini). Si oppone all'industrialismo una agricoltura
la quale si presenta naturalmente come base della economia del paese.
Le variatissime condizioni del suolo, e le conseguenti differenze di
colture e sistemi di conduzione, provocano però una forte
differenziazione dei ceti rurali, con una prevalenza degli strati
poveri, più vicini alle condizioni del proletariato e più facili a
subire la sua influenza e ad accettarne la guida. Tra le classi
industriali ed agrarie si pone una piccola borghesia urbana abbastanza
estesa e che ha importanza assai grande. Essa consta in prevalenza di
artigiani, professionisti e impiegati dello Stato.
6.
La debolezza intrinseca del capitalismo costringe la classe industriale
ad adottare degli espedienti per garantirsi il controllo sopra tutta la
economia del paese. Questi espedienti si riducono in sostanza a un
sistema di compromessi economici tra una parte degli industriali e una
parte delle classi agricole, e precisamente i grandi proprietari di
terre. Non ha quindi luogo la tradizionale lotta economica tra
industriali ed agrari, né ha luogo la rotazione di gruppi dirigenti che
essa determina in altri paesi. Gli industriali non hanno d'altra parte
bisogno di sostenere, contro gli agrari, una politica economica la
quale assicuri il continuo afflusso di mano d'opera dalle campagne alle
fabbriche, perché questo afflusso è garantito dalla esuberanza di
popolazione agricola povera che è caratteristica dell'Italia. L'accordo
industriale-agrario si basa sopra una solidarietà di interessi tra
alcuni gruppi privilegiati, ai danni degli interessi generali della
produzione e della maggioranza di chi lavora. Esso determina una
accumulazione di ricchezza nelle mani dei grandi industriali, che è
conseguenza di una spoliazione sistematica di intiere categorie della
popolazione e di intiere regioni del paese. I risultati di questa
politica economica sono infatti il deficit del bilancio economico,
l'arresto dello sviluppo economico di intiere regioni (Mezzogiorno,
Isole), l'impedimento al sorgere e allo sviluppo di una economia
maggiormente adatta alla struttura del paese e alle sue risorse, la
miseria crescente della popolazione lavoratrice, l'esistenza di una
continua corrente di emigrazione e il conseguente impoverimento
demografico.
7. Come non controlla
naturalmente tutta la economia così la classe industriale non riesce a
organizzare da sola la società intiera e lo Stato. La costruzione di
uno Stato nazionale non le è resa possibile che dallo sfruttamento di
fattori di politica internazionale (cosiddetto Risorgimento). Per il
rafforzamento di esso e per la sua difesa è necessario il compromesso
con le classi sulle quali la industria esercita una egemonia limitata,
particolarmente gli agrari e la piccola borghesia. Di qui una
eterogeneità e una debolezza di tutta la struttura sociale e dello
Stato che ne è espressione.
7 bis. Un
riflesso della debolezza della struttura sociale si ha, in modo tipico,
prima della guerra, nell'esercito. Una cerchia ristretta di ufficiali,
sforniti del prestigio di capi (vecchie classi dirigenti agrarie, nuove
classi industriali), ha sotto di sé una casta di ufficiali subalterni
burocratizzata (piccola borghesia), la quale è incapace di servire come
collegamento con la massa dei soldati indisciplinata e abbandonata a se
stessa. Nella guerra tutto l'esercito è costretto a riorganizzarsi dal
basso, dopo una eliminazione dei gradi superiori e una trasformazione
di struttura organizzativa che corrisponde all'avvento di una nuova
categoria di ufficiali subalterni. Questo fenomeno precorre l'analogo
rivolgimento che il fascismo compirà nei confronti dello Stato su scala
più vasta.
8. I rapporti tra industria e
agricoltura, che sono essenziali per la vita economica di un paese e
per la determinazione delle sovrastrutture politiche, hanno in Italia
una base territoriale. Nel Settentrione sono accentrate in alcuni
grandi centri la produzione e la popolazione agricola. In conseguenza
di ciò, tutti i contrasti inerenti alla struttura sociale del paese
contengono in sé un elemento che tocca la unità dello Stato e la mette
in pericolo. La soluzione del problema viene cercata dai gruppi
dirigenti borghesi e agrari attraverso un compromesso. Nessuno di
questi gruppi possiede naturalmente un carattere unitario e una
funzione unitaria. Il compromesso col quale l'unità viene salvata è
d'altra parte tale da rendere più grave la situazione. Esso dà alle
popolazioni lavoratrici del Mezzogiorno una posizione analoga a quella
delle popolazioni coloniali. La grande industria del Nord adempie verso
di esse la funzione delle metropoli capitalistiche: i grandi
proprietari di terre e la stessa media borghesia meridionale si pongono
invece nella situazione delle categorie che nelle colonie si alleano
alla metropoli per mantenere soggetta la massa del popolo che lavora.
Lo sfruttamento economico e la oppressione politica si uniscono quindi
per fare della popolazione lavoratrice del Mezzogiorno una forza
continuamente mobilitata contro lo Stato.
9.
Il proletariato ha in Italia una importanza superiore a quella che ha
in altri paesi europei anche di capitalismo progredito, paragonabile
solo a quella che aveva nella Russia prima della rivoluzione. Ciò è in
relazione anzitutto con il fatto che per la scarsezza di materie prime
l'industria si basa in preferenza sulla mano d'opera (maestranze
specializzate), indi con la eterogeneità e con i contrasti di interessi
che indeboliscono le classi dirigenti. Di fronte a questa eterogeneità
il proletariato si presenta come l'unico elemento che per la sua natura
ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società. Il
suo programma di classe è il solo programma "unitario", cioè il solo la
cui attuazione non porta ad approfondire i contrasti tra i diversi
elementi della economia e della società e non porta a spezzare l'unità
dello Stato. Accanto al proletariato industriale inoltre esiste una
grande massa di proletari agricoli, accentrata soprattutto nella Valle
del Po, facilmente influenzata dagli operai della industria e quindi
agevolmente mobilitabile nella lotta contro il capitalismo e lo Stato.
Si ha inoltre in Italia una conferma della tesi che le più favorevoli
condizioni per la rivoluzione proletaria non si hanno necessariamente
sempre nei paesi dove il capitalismo e l'industrialismo sono giunti al
più alto grado del loro sviluppo, ma si possono invece aver là dove il
tessuto del sistema capitalistico offre minori resistenze, per le sue
debolezze di struttura, a un attacco della classe rivoluzionaria e dei
suoi alleati.
La politica della borghesia italiana
10.
Lo scopo che le classi dirigenti italiane si proposero di raggiungere
dalle origini dello Stato unitario in poi, fu quello di tenere soggette
le grandi masse della popolazione lavoratrice, e impedire loro di
diventare, organizzandosi intorno al proletariato industriale e
agricolo, una forza rivoluzionaria capace di attuare un completo
rivolgimento sociale e politico e dare vita a uno Stato proletario. La
debolezza intrinseca del capitalismo le costrinse però a porre come
base dell'ordinamento economico e dello Stato borghese una unità
ottenuta per via di compromessi tra gruppi non omogenei. In una vasta
prospettiva storica questo sistema si dimostra non adeguato allo scopo
cui tende. Ogni forma di compromesso fra i diversi gruppi dirigenti
della società italiana si risolve infatti in un ostacolo posto allo
sviluppo dell'una o dell'altra parte della economia del paese. Così
vengono determinati nuovi contrasti e nuove reazioni della maggioranza
della popolazione, si rende necessario accentuare la pressione sopra le
masse e si produce una spinta sempre più decisiva alla mobilitazione di
esse per la rivolta contro lo Stato.
11.
Il primo periodo di vita dello Stato italiano (1870-1890) è quello
della maggiore debolezza. Le due parti di cui si compone la classe
dirigente, gli intellettuali borghesi da una parte e i capitalisti
dall'altra, sono uniti nel proposito di mantenere l'unità, ma divisi
circa la forma da dare allo Stato unitario. Manca tra di esse una
omogeneità positiva. I problemi che lo Stato si propone sono limitati;
essi riguardano piuttosto la forma che la sostanza del dominio politico
della borghesia; sovrasta a tutti il problema del pareggio, che è un
problema di pura conservazione. La coscienza della necessità di
allargare la base delle classi che dirigono lo Stato si ha soltanto con
gli inizi del "trasformismo". La maggiore debolezza dello Stato è data
in questo periodo dal fatto che al di fuori di esso il Vaticano
raccoglie attorno a sé un blocco reazionario e antistatale costruito
dagli agrari e dalla grande massa dei contadini arretrati, controllati
e diretti dai ricchi proprietari e dai preti. Il programma del Vaticano
consta di due parti: esso vuole lottare contro lo Stato borghese
unitario e "liberale" e in pari tempo si propone di costituire, con i
contadini, un esercito di riserva contro l'avanzata del proletariato
socialista, che sarà provocata dallo sviluppo della industria. Lo Stato
reagisce al sabotaggio che il Vaticano compie ai suoi danni e si ha
tutta una legislazione di contenuto e di scopi anticlericali.
12.
Nel periodo che corre dal 1890 al 1900 la borghesia si pone
risolutamente il problema di organizzare la propria dittatura e lo
risolve con una serie di provvedimenti di carattere politico ed
economico da cui è determinata la successiva storia italiana. Anzitutto
si risolve il dissidio tra la borghesia intellettuale e gli
industriali: l'avvento al potere di Crispi ne è il segno. La borghesia
così rafforzata risolve la questione dei suoi rapporti con l'estero
(Triplice alleanza) acquistando una sicurezza che le permette dei
tentativi di piazzarsi nel campo della concorrenza internazionale per
la conquista dei mercati coloniali. All'interno la dittatura borghese
si instaura politicamente con una restrizione del diritto di voto che
riduce il corpo elettorale a poco più di un milione di elettori su 30
milioni di abitanti. Nel campo economico l'introduzione del
protezionismo industriale-agrario corrisponde al proposito del
capitalismo di acquistare il controllo di tutta la ricchezza nazionale.
Viene a mezzo di esso saldata una alleanza tra gli industriali e gli
agrari. Questa alleanza strappa al Vaticano una parte delle forze che
esso aveva raccolto attorno a sé, soprattutto tra i proprietari di
terre del Mezzogiorno, e le fa entrare nel quadro dello Stato borghese.
Il Vaticano stesso avverte del resto la necessità di dare maggiore
rilievo alla parte del suo programma reazionario che riguarda la
resistenza al movimento operaio e prende posizione contro il socialismo
con l'enciclica Rerum Novarum. Al pericolo che il Vaticano continua
però a rappresentare per lo Stato le classi dirigenti reagiscono
dandosi una organizzazione unitaria con un programma anticlericale,
nella massoneria. I primi progressi reali del movimento operaio si
hanno infatti in questo periodo. L'instaurazione della dittatura
industriale-agraria pone nei suoi termini reali il problema della
rivoluzione determinando i fattori storici di essa. Sorge nel Nord un
proletariato industriale e agricolo, mentre nel Sud la popolazione
agricola, sottoposta a un sistema di sfruttamento "coloniale", deve
essere tenuta soggetta con una compressione politica sempre più forte.
I termini della "questione meridionale" vengono posti, in questo
periodo, in modo netto. E spontaneamente, senza l'intervento di un
fattore cosciente e senza nemmeno che il Partito socialista tragga da
questo fatto una indicazione per la sua strategia di partito della
classe operaia, si verifica in questo periodo per la prima volta il
confluire dei tentativi insurrezionali del proletariato settentrionale,
con una rivolta di contadini meridionali (fasci siciliani).
13.
Spezzati i primi tentativi del proletariato e dei contadini di
insorgere contro lo Stato, la borghesia italiana consolidata può
adottare, per ostacolare i progressi del movimento operaio, i metodi
esteriori della democrazia e quelli della corruzione politica verso la
parte più avanzata della popolazione lavoratrice (aristocrazia operaia)
per renderla complice della dittatura reazionaria che essa continua ad
esercitare, e impedirle di diventare il centro insurrezionale popolare
contro lo Stato (giolittismo). Si ha però, tra il 1900 e il 1910, una
fase di concentrazione industriale ed agraria. Il proletariato agricolo
cresce del 50 per cento a danno delle categorie degli obbligati,
mezzadri e fittavoli. Di qui una ondata di movimenti agricoli, e un
nuovo orientamento dei contadini che costringe lo stesso Vaticano a
reagire con la fondazione dell' "Azione Cattolica" e con un movimento
"sociale" che giunge, nelle sue forme estreme, fino ad assumere le
parvenze di una riforma religiosa (modernismo). A questa reazione del
Vaticano per non lasciarsi sfuggire le masse corrisponde l'accordo dei
cattolici con le forze dirigenti per dare allo Stato una base più
sicura (abolizione del non exspedit, patto Gentiloni). Anche verso la
fine di questo terzo periodo (1914) i diversi movimenti parziali del
proletariato e dei contadini culminano in un nuovo inconscio tentativo
di saldatura delle diverse forze di massa antistatali, in una
insurrezione contro lo Stato reazionario. Da questo tentativo viene già
posto con sufficiente rilievo il problema della necessità che il
proletariato organizzi, nel suo seno, un partito di classe che gli dia
la capacità di porsi a capo della insurrezione e di guidarla.
14.
Il massimo di concentrazione economica nel campo industriale si ha nel
dopoguerra. Il proletariato raggiunge il più alto grado di
organizzazione e ad esso corrisponde il massimo di disgregazione delle
classi dirigenti dello Stato. Tutte le contraddizioni insite
nell'organismo sociale italiano affiorano con la massima crudezza per
il risveglio delle masse anche le più arretrate alla vita politica
provocato dalla guerra e dalle sue conseguenze immediate. E, come
sempre, l'avanzata degli operai dell'industria e dell'agricoltura si
accompagna a una agitazione profonda delle masse dei contadini, sia del
Mezzogiorno che delle altre regioni. I grandi scioperi e la occupazione
delle fabbriche che si svolgono contemporaneamente alla occupazione
delle terre. La resistenza delle forze reazionarie si esercita ancora
secondo la direzione tradizionale. Il Vaticano consente che accanto
all' "Azione Cattolica" si formi un vero e proprio partito, il quale si
propone di inserire le masse contadine entro il quadro dello Stato
borghese apparentemente accontentando le loro aspirazioni di redenzione
economica e di democrazia politica. Le classi dirigenti a loro volta
attuano in grande stile il piano di corruzione e di disgregazione
interna del movimento operaio, facendo apparire ai capi opportunisti la
possibilità che una aristocrazia operaia collabori al governo in un
tentativo di soluzione "riformista" del problema dello Stato (governo
di sinistra). Ma in un paese povero e disunito come l'Italia,
l'affacciarsi di una soluzione "riformista" del problema dello Stato
provoca inevitabilmente la disgregazione della compagine statale e
sociale, la quale non resiste all'urto dei numerosi gruppi in cui le
stesse classi dirigenti e le classi intermedie si polverizzano. Ogni
gruppo ha esigenze di protezione economica e di autonomia politica sue
proprie, e, nell'assenza di un omogeneo nucleo di classe che sappia
imporre, con la sua dittatura, una disciplina di lavoro e di produzione
a tutto il paese, sbaragliando ed eliminando gli sfruttatori
capitalistici ed agrari, il governo viene reso impossibile e la crisi
del potere è continuamente aperta. La sconfitta del proletariato
rivoluzionario è dovuta, in questo periodo decisivo, alle deficienze
politiche, organizzative, tattiche e strategiche del partito dei
lavoratori. In conseguenza di queste deficienze il proletariato non
riesce a mettersi a capo della insurrezione della grande maggioranza
della popolazione e a farla sboccare nella creazione di uno Stato
operaio; esso stesso subisce invece l'influenza di altre classi sociali
che ne paralizzano l'azione. La vittoria del fascismo nel 1922 deve
essere considerata quindi non come una vittoria riportata sulla
rivoluzione, ma come la conseguenza della sconfitta toccata alle forze
rivoluzionarie per loro intrinseco difetto.
Il fascismo e la sua politica
15.
Il fascismo, come movimento di reazione armata che si propone lo scopo
di disgregare e di disorganizzare la classe lavoratrice per
immobilizzarla, rientra nel quadro della politica tradizionale delle
classi dirigenti italiane, e nella lotta del capitalismo contro la
classe operaia. Esso è perciò favorito nelle sue origini, nella sua
organizzazione e nel suo cammino da tutti indistintamente i vecchi
gruppi dirigenti, a preferenza però dagli agrari i quali sentono più
minacciosa la pressione delle plebi rurali.
Socialmente
però il fascismo trova la sua base nella piccola borghesia urbana e in
una nuova borghesia agraria sorta da una trasformazione della proprietà
rurale in alcune regioni (fenomeni di capitalismo agrario nell'Emilia,
origine di una categoria di intermediari di campagna, "borse della
terra", nuove ripartizioni di terreni). Questo fatto è il fatto di aver
trovato una unità ideologica e organizzata nelle formazioni militari in
cui rivive la tradizione della guerra (arditismo) e che servono alla
guerriglia contro i lavoratori, permettendo al fascismo di concepire ed
attuare un piano di conquista dello Stato in contrapposizione ai vecchi
ceti dirigenti.
Assurdo parlare di
rivoluzione. Le nuove energie che si raccolgono attorno al fascismo
traggono però dalla loro origine una omogeneità e una comune mentalità
di "capitalismo nascente". Ciò spiega come sia possibile la lotta
contro gli uomini politici del passato e come esse possano
giustificarla con una costruzione ideologica in contrasto con le teorie
tradizionali dello Stato e dei suoi rapporti con i cittadini.
Nella
sostanza il fascismo modifica il programma di conservazione e di
reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un
diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze
reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso
sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le
forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo
di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il
governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di
resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al
fascismo di raccogliere le adesioni della parte più decisamente
reazionaria della borghesia industriale e degli agrari.
16.
Il metodo fascista di difesa dell'ordine, della proprietà e dello Stato
è, ancora più del sistema tradizionale dei compromessi e della politica
di sinistra, disgregatore della compagine sociale e delle sue
sovrastrutture politiche. Le reazioni che esso provoca devono essere
esaminate in relazione alla sua applicazione sia nel campo economico
che nel campo politico. Nel campo politico, anzitutto, l'unità organica
della borghesia nel fascismo non si realizza immediatamente dopo la
conquista del potere.
Al di fuori
del fascismo rimangono i centri di opposizione borghese al regime. Da
una parte non viene assorbito il gruppo che tiene fede alla soluzione
giolittiana del problema Stato. Questo gruppo si collega a una sezione
della borghesia industriale e, con un programma di riformismo
"laburista", esercita influenza sopra strati di operai e piccoli
borghesi. Dall'altra parte il programma di fondare lo Stato sopra una
democrazia rurale del Mezzogiorno e sopra la parte "sana" della
industria settentrionale ("Corriere della sera", liberismo, Nitti)
tende a diventare programma di una organizzazione politica di
opposizione al fascismo con basi di massa nel Mezzogiorno (Unione
nazionale).
Il fascismo è costretto
a lottare contro questi gruppi superstiti molto vivacemente e a lottare
con vivacità anche maggiore contro la massoneria, che esso considera
giustamente come centro di organizzazione di tutte le tradizionali
forze di sostegno dello Stato. Questa lotta, che è, volere o no,
l'indizio di una spezzatura del blocco delle forze conservatrici e
antiproletarie, può in determinate circostanze favorire lo sviluppo e
l'affermazione del proletariato come terzo e decisivo fattore di una
situazione politica.
Nel campo
economico il fascismo agisce come strumento di una oligarchia
industriale e agraria per accentrare nelle mani del capitalismo il
controllo di tutte le ricchezze del paese. Ciò non può fare a meno di
provocare un malcontento nella piccola borghesia la quale, con
l'avvento del fascismo, credeva giunta l'era del suo dominio. Tutta una
serie di misure viene adottata dal fascismo per favorire una nuova
concentrazione industriale (abolizione della imposta di successione,
politica finanziaria e fiscale, inasprimento del protezionismo), e ad
esse corrispondono altre misure a favore degli agrari e contro i
piccoli e medi coltivatori (imposte, dazio sul grano, "battaglia del
grano").
L'accumulazione che queste
misure determinano non è un accrescimento di ricchezza nazionale, ma è
spoliazione di una classe a favore di un'altra, e cioè delle classi
lavoratrici e medie a favore della plutocrazia. Il disegno di favorire
la plutocrazia appare sfacciatamente nel progetto di legalizzare nel
nuovo codice di commercio il regime delle azioni privilegiate; un
piccolo pugno di finanzieri viene, in questo modo, posto in condizioni
di poter disporre senza controllo di ingenti masse di risparmio
provenienti dalla media e piccola borghesia e queste categorie sono
espropriate del diritto di disporre della loro ricchezza.
Nello
stesso piano, ma con conseguenze politiche più vaste, rientra il
progetto di unificazione delle banche di emissione, cioè, in pratica,
di soppressione delle due grandi banche meridionali. Queste due banche
adempiono oggi la funzione di assorbire i risparmi del Mezzogiorno e le
rimesse degli emigranti (600 milioni), cioè la funzione che nel passato
adempivano lo Stato con la emissione di buoni del tesoro e la Banca di
sconto nell'interesse di una parte dell'industria pesante del Nord. Le
banche meridionali sono state controllate fino ad ora dalle stesse
classi dirigenti del Mezzogiorno, le quali hanno trovato in questo
controllo una base reale del loro dominio politico. La soppressione
delle banche meridionali come banche di emissione farà passare questa
funzione alla grande industria del Nord che controlla, attraverso la
Banca commerciale, la Banca d'Italia e verrà in questo modo accentuato
lo sfruttamento economico "coloniale" e l'impoverimento del
Mezzogiorno, nonché accelerato il lento processo di distacco dallo
Stato anche della piccola borghesia meridionale. La politica economica
del fascismo si completa con i provvedimenti intesi a rialzare il corso
della moneta, a risanare il bilancio dello Stato, a pagare i debiti di
guerra e a favorire l'intervento del capitale inglese-americano in
Italia. In tutti questi campi il fascismo attua il programma della
plutocrazia (Nitti) e di una minoranza industriale-agraria ai danni
della grande maggioranza della popolazione le cui condizioni di vita
sono progressivamente peggiorate.
Coronamento
di tutta la propaganda ideologica, dell'azione politica ed economica
del fascismo è la tendenza di esso all' "imperialismo". Questa tendenza
è la espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti
industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli
elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in
essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per
l'espansione italiana ma nella quale in realtà l'Italia fascista sarà
uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialisti che si
contendono il dominio del mondo.
17. Si
determinano, in conseguenza della politica del fascismo, profonde
reazioni delle masse. Il fenomeno più grave è il distacco sempre più
deciso delle popolazioni agrarie del Mezzogiorno e delle Isole dal
sistema di forze che reggono lo Stato. La vecchia classe dirigente
locale (Orlando, Di Cesarò, De Nicola, ecc.) non esercita più in modo
sistematico la sua funzione di anello di congiunzione con lo
Stato.
La piccola borghesia tende
quindi ad avvicinarsi ai contadini. Il sistema di sfruttamento e di
oppressione delle masse meridionali è portato dal fascismo all'estremo;
questo facilita la radicalizzazione anche delle categorie intermedie e
pone la questione meridionale nei suoi veri termini, come questione che
sarà risolta soltanto dalla insurrezione dei contadini alleati del
proletariato nella lotta contro i capitalisti e contro gli agrari.
Anche i contadini medi e poveri delle altre parti d'Italia acquistano
una funzione rivoluzionaria, benché in modo più lento.
Il
Vaticano - la cui funzione reazionaria è stata assunta dal fascismo -
non controlla più le popolazioni rurali in modo completo attraverso i
preti, l' "Azione Cattolica" e il Partito popolare. Vi è una parte dei
contadini, la quale è stata risvegliata alle lotte per la difesa dei
suoi interessi dalle stesse organizzazioni autorizzate e dirette dalle
autorità ecclesiastiche, ed ora, sotto la pressione economica e
politica del fascismo, accentua il proprio orientamento di classe e
incomincia a sentire che le sue sorti non sono separabili da quelle
della classe operaia. Indizio di questa tendenza è il fenomeno
Miglioli. Un sintomo assai interessante di essa è anche il fatto che le
organizzazioni bianche, le quali, essendo una parte dell' "Azione
Cattolica", fanno capo direttamente al Vaticano, hanno dovuto entrare
nei comitati intersindacali con le Leghe rosse, espressioni di quel
periodo proletario che i cattolici indicavano fin dal 1870 come
imminente alla società italiana.
Quanto
al proletariato, l'attività disgregatrice delle sue forze trova un
limite nella resistenza attiva della avanguardia rivoluzionaria e in
una resistenza passiva della grande massa, la quale rimane
fondamentalmente classista e accenna a rimettersi in movimento non
appena si rallenta la pressione fisica del fascismo e si fanno più
forti gli stimoli dell'interesse di classe. Il tentativo di portare nel
suo seno la scissione con i sindacati fascisti, si può considerare
fallito. I sindacati fascisti, mutando il loro programma, diventano ora
strumenti diretti di compressione reazionaria al servizio dello Stato.
18.
Ai pericolosi spostamenti e ai nuovi reclutamenti di forze che sono
provocati dalla sua politica il fascismo reagisce facendo gravare su
tutta la società il peso di una forza militare e un sistema di
compressione il quale tiene la popolazione inchiodata al fatto
meccanico della produzione senza la possibilità di avere una vita
propria, di manifestare una propria volontà e di organizzarsi per la
difesa dei propri interessi. La cosiddetta legislazione fascista non ha
altro scopo che quello di consolidare e rendere permanente questo
sistema.
La nuova legge elettorale
politica, le modificazioni dell'ordinamento amministrativo con la
introduzione del podestà per i comuni di campagna ecc. vorrebbero
segnare la fine della partecipazione delle masse alla vita politica ed
amministrativa del paese. Il controllo sulle associazioni impedisce
ogni forma permanente "legale" di organizzazione delle masse. La nuova
politica sindacale toglie alla Confederazione del lavoro e ai sindacati
di classe la possibilità di concludere dei concordati per escluderli
dal contatto con le masse che si erano organizzate attorno ad essi. La
stampa proletaria viene soppressa. Il partito di classe del
proletariato ridotto alla vita pienamente illegale. Le violenze fisiche
e le persecuzioni di polizia sono adoperate sistematicamente,
soprattutto nelle campagne, per incutere il terrore e mantenere una
situazione da stato d'assedio.
Il
risultato di questa complessa attività di reazione e di compressione è
lo squilibrio tra il rapporto reale delle forze sociali e il rapporto
delle forze organizzate, per cui a un apparente ritorno alla normalità
e alla stabilità corrisponde una acutizzazione di contrasti pronti a
prorompere ad ogni istante per nuove vie.
18
bis. La crisi seguita al delitto Matteotti ha fornito un esempio della
possibilità che l'apparente stabilità del regime fascista sia turbata
dalle basi per il prorompere improvviso di contrasti economici e
politici approfonditisi senza che fossero avvertiti. Essa ha in pari
tempo fornito la prova della incapacità della piccola borghesia a
guidare ad un esito, nell'attuale periodo storico, la lotta contro la
reazione industriale-agraria.
Forze motrici e prospettive della rivoluzione
19.
Le forze motrici della rivoluzione italiana, come risulta ormai dalla
nostra analisi sono, in ordine alla loro importanza, le seguenti:
1) la classe operaia e il proletariato agricolo;
2) i contadini del Mezzogiorno e delle Isole e i contadini delle altri parti d'Italia.
Lo
sviluppo e la rapidità del processo rivoluzionario non sono prevedibili
al di fuori di una valutazione di elementi soggettivi: cioè dalla
misura in cui la classe operaia riuscirà ad acquistare una propria
figura politica, una coscienza di classe decisa e una indipendenza da
tutte le altre classi, dalla misura in cui essa riuscirà a organizzare
le sue forze, cioè a esercitare di fatto un'azione di guida degli altri
fattori in prima linea a concretare politicamente la sua alleanza con i
contadini? Si può affermare in generale, e basandosi del resto sulla
esperienza italiana, che dal periodo della preparazione rivoluzionaria
si entrerà in un periodo rivoluzionario "immediato" quando il
proletariato industriale e agricolo del settentrione sarà riuscito a
riacquistare, per lo svolgimento della situazione oggettiva e
attraverso una serie di lotte particolari e immediate, un alto grado di
organizzazione e di combattività.
Quanto
ai contadini, quelli del Mezzogiorno e delle Isole devono essere posti
in prima linea tra le forze su cui deve contare la insurrezione contro
la dittatura industriale-agraria, per quanto non si debba attribuir
loro, all'infuori di un'alleanza col proletariato, una importanza
risolutiva. L'alleanza tra essi e gli operai è il risultato di un
processo storico naturale e profondo, favorito da tutte le vicende
dello Stato italiano. Per i contadini delle altre parti d'Italia il
processo di orientamento verso l'alleanza col proletariato è più lento
e dovrà essere favorito da una attenta azione politica del partito del
proletariato. I successi già ottenuti in Italia in questo campo
indicano del resto che il problema di rompere l'alleanza dei contadini
con le forze reazionarie deve essere posto, per gran parte, anche in
altri paesi dell'Europa occidentale, come problema di distruggere la
influenza della organizzazione cattolica sulle masse rurali.
20.
Gli ostacoli allo sviluppo della rivoluzione, oltre che dati dalla
pressione fascista, sono in relazione con la varietà dei gruppi in cui
la borghesia si divide. Ognuno di questi gruppi si sforza di esercitare
una influenza sopra una sezione della popolazione lavoratrice per
impedire che si estenda la influenza del proletariato, o sul
proletariato stesso per fargli perdere la sua figura e autonomia di
classe rivoluzionaria. Si costituisce in questo modo una catena di
forze reazionarie, la quale partendo dal fascismo comprende i gruppi
antifascisti che non hanno grandi basi di massa (liberali), quelli che
hanno una base nei contadini e nella piccola borghesia (democratici,
combattenti, popolari, repubblicani), e in parte anche negli operai
(partito riformista), e quelli che avendo una base proletaria tendono a
mantenere le masse operaie in una condizione di passività e far loro
seguire la politica di altre classi (partito massimalista).
Anche
il gruppo che dirige la Confederazione del lavoro deve essere
considerato a questa stregua, cioè come il veicolo di una influenza
disgregatrice di altre classi sopra i lavoratori. Ognuno dei gruppi che
abbiamo indicati tiene legata a sé una parte della popolazione
lavoratrice italiana. La modificazione di questo stato di cose è
soltanto concepibile come conseguenza di una sistematica e ininterrotta
azione politica della avanguardia proletaria organizzata nel Partito
comunista. Una particolare attenzione deve essere data ai gruppi e
partiti i quali hanno una base di massa, o cercano di formarsela come
partiti democratici o come partiti regionali, nella popolazione
agricola del Mezzogiorno e delle Isole (Unione nazionale, partiti
d'azione sardo, molisano, irpino, ecc.).
Questi
partiti non esercitano una influenza diretta sul proletariato, ma sono
un ostacolo alla realizzazione della alleanza tra operai e contadini.
Orientando le classi agricole del Mezzogiorno verso una democrazia
rurale e verso soluzioni democratiche regionali, essi spezzano l'unità
del processo di liberazione della popolazione lavoratrice italiana,
impediscono ai contadini di condurre a un esito la loro lotta contro lo
sfruttamento economico e politico della borghesia e degli agrari, e
preparano la trasformazione di essi in guardia bianca della reazione.
Il successo politico della classe operaia è anche in questo campo in
relazione con l'azione politica del partito e del proletariato.
21.
La possibilità di abbattimento del regime fascista per una azione di
gruppi antifascisti sedicenti democratici esisterebbe solo se questi
gruppi riuscissero, neutralizzando l'azione del proletariato, a
controllare un movimento di masse fino a poterne frenare gli sviluppi.
La funzione della opposizione borghese democratica è invece quella di
collaborare col fascismo nell'impedire la riorganizzazione della classe
operaia e la realizzazione del suo programma di classe. In questo senso
un compromesso tra fascismo e opposizione borghese è in atto e ispirerà
la politica di ogni formazione di "centro" che sorga dai rottami
dell'Aventino.
La opposizione potrà
tornare ad essere protagonista dell'azione di difesa del regime
capitalista solo quando la stessa compressione fascista più non
riuscirà a impedire lo scatenamento dei conflitti di classe, e il
pericolo di una insurrezione di proletari e della sua saldatura con una
guerra di contadini apparirà grave e imminente. La possibilità di
ricorso della borghesia e del fascismo stesso al sistema della reazione
celata dalla apparenza di un "governo di sinistra" deve quindi essere
continuamente presente nelle nostre prospettive, (divisione di funzioni
tra fascismo e democrazia, Tesi del V Congresso mondiale).
22.
Da questa analisi dei fattori della rivoluzione e delle sue prospettive
si deducono i compiti del Partito comunista. Ad essa devono essere
collegati i criteri della sua attività organizzativa e quelli della sua
azione politica. Da essa discendono le linee direttive e fondamentali
del suo programma.
Compiti fondamentali del Partito comunista
23.
Dopo aver resistito vittoriosamente alla ondata reazionaria che voleva
sommergerlo (1923), dopo aver contribuito con la propria azione a
segnare un primo punto di arresto nel processo di dispersione delle
forze lavoratrici (elezioni del 1924), dopo aver approfittato della
crisi Matteotti per riorganizzare una avanguardia proletaria che si è
opposta con notevole successo al tentativo di istaurare un predominio
piccolo-borghese nella vita politica (Aventino) e aver poste le basi di
una reale politica contadina del proletariato italiano, il partito si
trova oggi nella fase della preparazione politica della rivoluzione. Il
suo compito fondamentale può essere indicato da questi tre punti:
1) organizzare e unificare il proletariato industriale e agricolo per la rivoluzione;
2)
organizzare e mobilitare attorno al proletariato tutte le forze
necessarie per la vittoria rivoluzionaria e per la fondazione dello
Stato operaio;
3) porre al proletariato
e ai suoi alleati il problema della insurrezione contro lo Stato
borghese e della lotta per la dittatura proletaria e guidarli
politicamente e materialmente alla soluzione di esso attraverso una
serie di lotte parziali.
La costruzione del Partito comunista come partito "bolscevico"
24.
La organizzazione della avanguardia operaia in Partito comunista è la
parte essenziale della nostra attività organizzativa. Gli operai
italiani hanno appreso dalla loro esperienza (1919-20) che ove manchi
la guida di un partito comunista costruito come partito della classe
operaia e come partito della rivoluzione, non è possibile un esito
vittorioso della lotta per l'abbattimento del regime capitalistico. La
costruzione di un Partito comunista che sia di fatto il partito della
classe operaia e il partito della rivoluzione, - che sia cioè, un
partito "bolscevico", - è in connessione diretta con i seguenti punti
fondamentali:
1) la ideologia del partito;
2) la forma della organizzazione, e la sua compattezza;
3) la capacità di funzionare a contatto con la massa;
4) la capacità strategica e tattica.
Ognuno
di questi punti è collegato strettamente con gli altri e non potrebbe,
a rigore di logica, esserne separato. Ognuno di essi infatti indica e
comprende una serie di problemi le cui soluzioni interferiscono e si
sovrappongono. L'esame separato di essi sarà utile soltanto quando si
tenga presente che nessuno può venire risolto senza che tutti siano
impostati e condotti di pari passo ad una soluzione.
La ideologia del partito
25.
Unità ideologica completa è necessaria al Partito comunista per poter
adempiere in ogni momento la sua funzione di guida della classe
operaia. L'unità ideologica è elemento della forza del partito e della
sua capacità politica, essa è indispensabile per farlo diventare un
partito bolscevico. Base della unità ideologica è la dottrina del
marxismo e del leninismo, inteso quest'ultimo come la dottrina marxista
adeguata ai problemi del periodo dell'imperialismo e dell'inizio della
rivoluzione proletaria (Tesi sulla bolscevizzazione dell'Esecutivo
allargato dell'aprile 1925, nn. IV e VI).
Il
Partito comunista d'Italia ha formato la sua ideologia nella lotta
contro la socialdemocrazia (riformisti) e contro il centrismo politico
rappresentato dal Partito massimalista. Esso non trova però nella
storia del movimento operaio italiano una vigorosa e continua corrente
di pensiero marxista cui richiamarsi. Manca inoltre nelle sue file una
profonda e diffusa conoscenza delle teorie del marxismo e del
leninismo. Sono quindi possibili le deviazioni. L'innalzamento del
livello ideologico del partito deve essere ottenuto con una sistematica
attività interna la quale si proponga di portare tutti i membri ad
avere una completa consapevolezza dei fini immediati del movimento
rivoluzionario, una certa capacità di analisi marxista delle situazioni
e una correlativa capacità di orientamento politico (scuola di
partito). E' da respingere una concezione la quale affermi che i
fattori di coscienza e di maturità rivoluzionaria, i quali
costituiscono la ideologia, si possano realizzare nel partito senza che
siansi realizzati in un vasto numero di singoli che lo compongono.
26.
Nonostante le origini da una lotta contro degenerazioni di destra e
centriste del movimento operaio, il pericolo di deviazioni di destra è
presente nel Partito comunista d'Italia. Nel campo teorico esso è
rappresentato dai tentativi di revisione del marxismo fatti dal
compagno Graziadei sotto la veste di una precisazione "scientifica" di
alcuni dei concetti fondamentali della dottrina di Marx. I tentativi di
Graziadei non possono certo portare alla creazione di una corrente e
quindi di una frazione che metta in pericolo la unità ideologica e la
compattezza del partito. E' però implicito in essi un appoggio a
correnti e deviazioni politiche di destra. Ad ogni modo essi indicano
la necessità che il partito compia un profondo studio del marxismo e
acquisti una coscienza teorica più alta e più sicura.
Il
pericolo che si crei una tendenza di destra è collegato con la
situazione generale del paese. La compressione stessa che il fascismo
esercita tende ad alimentare la opinione che essendo il proletariato
nella impossibilità di rapidamente rovesciare il regime, sia miglior
tattica quella che porti, se non a un blocco borghese-proletario per la
eliminazione costituzionale del fascismo, a una passività della
avanguardia rivoluzionaria, a un non-intervento attivo del partito
comunista nella lotta politica immediata, onde permettere alla
borghesia di servirsi del proletariato come massa di manovra elettorale
contro il fascismo. Questo programma si presenta con la formula che il
Partito comunista deve essere "l'ala sinistra" di una opposizione di
tutte le forze che cospirano all'abbattimento del regime fascista. Esso
è la espressione di un profondo pessimismo circa le capacità
rivoluzionarie della classe lavoratrice.
Lo
stesso pessimismo e le stesse deviazioni conducono a interpretare in
modo errato la natura e la funzione storica dei partiti
socialdemocratici nel momento attuale, a dimenticare che la
socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran
parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la sua
funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala
destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e
come tale deve essere smascherata davanti alle masse. Il pericolo di
destra deve essere combattuto con la propaganda ideologica, col
contrapporre al programma di destra il programma rivoluzionario della
classe operaia e del suo partito, e con mezzi disciplinari ordinari
ogni qualvolta la necessità lo richieda.
27.
Legato con le origini del partito e con la situazione generale del
paese è parimenti il pericolo di deviazioni di sinistra dalla ideologia
marxista e leninista. Esso è rappresentato dalla tendenza estremista
che fa capo al compagno Bordiga. Questa tendenza si formò nella
particolare situazione di disgregazione e incapacità programmatica,
organizzativa, strategica e tattica in cui si trovò il Partito
socialista italiano dalla fine della guerra al Congresso di Livorno: la
sua origine e la sua fortuna sono inoltre in relazione col fatto che,
essendo la classe operaia una minoranza nella popolazione lavoratrice
italiana, è continuo il pericolo che il suo partito sia corrotto da
infiltrazioni di altre classi, e in particolare della piccola
borghesia.
A questa condizione della
classe operaia e alla situazione del Partito socialista italiano la
tendenza di estrema sinistra reagì con una particolare ideologia, cioè
con una concezione della natura del partito, della sua funzione e della
sua tattica che è in contrasto con quella del marxismo e del leninismo:
a) dall'estrema sinistra il partito viene
definito, trascurando e sottovalutando il suo contenuto sociale, come
un "organo" della classe operaia, che si costituisce per sintesi di
elementi eterogenei. Il partito deve invece essere definito mettendo in
rilievo anzitutto il fatto che esso è una "parte" della classe operaia.
L'errore nella definizione del partito porta a impostare in modo errato
i problemi organizzativi e i problemi di tattica;
b)
per la estrema sinistra la funzione del partito non è quella di guidare
in ogni momento la classe sforzandosi di restare in contatto con essa
attraverso qualsiasi mutamento di situazione oggettiva, ma di elaborare
dei quadri preparati a guidare la massa quando lo svolgimento delle
situazioni l'avrà portata al partito, facendole accettare le posizioni
programmatiche e di principio da esso fissate;
c)
per quanto riguarda la tattica, l'estrema sinistra sostiene che essa
non deve venire determinata in relazione con le situazioni oggettive e
con la posizione delle masse in modo che essa aderisca sempre alla
realtà e fornisca un continuo contatto con gli strati più vasti della
popolazione lavoratrice, ma deve essere determinata in base a
preoccupazioni formalistiche. E' propria dell'estremismo la concezione
che le deviazioni dai principi della politica comunista non vengono
evitate con la costruzione di partiti "bolscevichi" i quali siano
capaci di compiere, senza deviare, ogni azione politica che è richiesta
per la mobilitazione delle masse e per la vittoria rivoluzionaria, ma
possono essere evitate soltanto col porre alla tattica limiti rigidi e
formali di carattere esteriore (nel campo organizzativo: "adesione
individuale", cioè rifiuto delle "fusioni", le quali possono invece
essere sempre, in condizioni determinate, efficacissimo mezzo di
estensione della influenza del partito; nel campo politico:
travisamento dei termini del problema della conquista della
maggioranza, fronte unico sindacale e non politico, nessuna diversità
nel modo di lottare contro la democrazia a seconda del grado di
adesione delle masse a formazioni democratiche contro-rivoluzionarie e
della imminenza e gravità di un pericolo reazionario, rifiuto della
parola d'ordine del governo operaio e contadino).
All'esame
delle situazioni dei movimenti di massa si ricorre quindi solo per il
controllo della linea dedotta in base a preoccupazioni formalistiche e
settarie: viene perciò sempre a mancare, nella determinazione della
politica del partito, l'elemento particolare; la unità e completezza di
visione che è propria del nostro metodo di indagine politica
(dialettica) è spezzata; l'attività del partito e le sue parole
d'ordine perdono efficacia e valore rimanendo attività e parole di
semplice propaganda. E' inevitabile, come conseguenza di queste
posizioni, la passività politica del partito. Di essa l'
"astensionismo" fu nel passato un aspetto. Ciò permette di avvicinare
l'estremismo di sinistra al massimalismo e alle deviazioni di destra.
Esso è inoltre, come la tendenza di destra, espressione di uno
scetticismo sulla possibilità che la massa operaia organizzi dal suo
seno un partito di classe il quale sia capace di guidare la grande
massa sforzandosi di tenerla in ogni momento collegata a sé.
La
lotta ideologica contro l'estremismo di sinistra deve essere condotta
contrapponendogli la concezione marxista e leninista del partito del
proletariato come partito di massa e dimostrando la necessità che esso
adatti la sua tattica alle situazioni per poterle modificare, per non
perdere il contatto con le masse e per acquistare sempre nuove zone di
influenza. L'estremismo di sinistra fu la ideologia ufficiale del
partito italiano nel primo periodo della sua esistenza. Esso è
sostenuto da compagni che furono tra i fondatori del partito e dettero
un grandissimo contributo alla sua costruzione dopo Livorno.
Vi
sono quindi motivi per spiegare come questa concezione sia stata a
lungo radicata nella maggioranza dei compagni anche senza che fosse da
essi valutata criticamente in modo completo, ma piuttosto come
conseguenza di uno stato d'animo diffuso. E' evidente perciò che il
pericolo di estrema sinistra deve essere considerato come una realtà
immediata, come un ostacolo non solo alla unificazione ed elevazione
ideologica, ma allo sviluppo politico del partito e alla efficacia
della sua azione. Esso deve essere combattuto come tale, non solo con
la propaganda, ma con una azione politica ed eventualmente con misure
organizzative.
28. Elemento della
ideologia del partito è il grado di spirito internazionalista che è
penetrato nelle sue file. Esso è assai forte tra di noi come spirito di
solidarietà internazionale, ma non altrettanto come coscienza di
appartenere ad un partito mondiale. Contribuisce a questa debolezza la
tendenza a presentare la concezione di estrema sinistra come una
concezione nazionale ("originalità" e valore "storico" delle posizioni
della "sinistra italiana") la quale si oppone alla concezione marxista
e leninista della Internazionale comunista e cerca di sostituirsi ad
essa. Di qui l'origine di una specie di "patriottismo di partito", che
rifugge dall'inquadrarsi in una organizzazione (rifiuti di cariche,
lotta di frazione internazionale ecc.). Questa debolezza di spirito
internazionalista offre il terreno ad una ripercussione nel partito
della campagna che la borghesia conduce contro la Internazionale
comunista qualificandola come organo dello Stato russo. Alcune delle
tesi di estrema sinistra a questo proposito si collegano a tesi
abituali dei partiti controrivoluzionari. Esse devono venir combattute
con estremo vigore, con una propaganda che dimostri come storicamente
spetti al partito russo una funzione predominante e direttiva nella
costruzione di una Internazionale comunista e quale è la posizione
dello Stato operaio russo - prima ed unica reale conquista della classe
operaia nella lotta al potere - nei confronti del movimento operaio
internazionale (Tesi sulla situazione internazionale).
La base dell'organizzazione del partito
29.
Tutti i problemi di organizzazione sono problemi politici. La soluzione
di essi deve rendere possibile al partito di attuare il suo compito
fondamentale, di far acquistare al proletariato una completa
indipendenza politica, di dargli una fisionomia, una personalità, una
coscienza rivoluzionaria precisa, di impedire ogni infiltrazione e
influenza disgregatrice di classi ed elementi i quali pur avendo
interessi contrari al capitalismo non vogliono condurre la lotta contro
di esso fino alle sue conseguenze ultime. In prima linea è un problema
politico: quello della base della organizzazione. La organizzazione del
partito deve essere costruita sulla base della produzione e quindi del
luogo di lavoro (cellule).
Questo
principio è essenziale per la creazione di un partito "bolscevico".
Esso dipende dal fatto che il partito deve essere attrezzato per
dirigere il movimento di massa della classe operaia, la quale viene
naturalmente unificata dallo sviluppo del capitalismo secondo il
processo della produzione. Ponendo la base organizzativa nel luogo
della produzione il partito compie un atto di scelta della classe sulla
quale esso si basa. Esso proclama di essere un partito di classe e il
partito di una sola classe, la classe operaia. Tutte le obiezioni al
principio che pone la organizzazione del partito sulla base della
produzione partono da concezioni che sono legate a classi estranee al
proletariato, anche se sono presentate da compagni e gruppi che si
dicono di "estrema sinistra". Esse si basano sopra una considerazione
pessimista delle capacità rivoluzionarie dell'operaio comunista, e sono
espressione dello spirito antiproletario del piccolo-borghese
intellettuale, il quale crede di essere il sale della terra e vede
nell'operaio lo strumento materiale dello sconvolgimento sociale e non
il protagonista cosciente e intelligente della rivoluzione. Si
riproducono nel partito italiano a proposito delle cellule la
discussione e il contrasto che portarono in Russia alla scissione tra
bolscevichi e menscevichi a proposito del medesimo problema della
scelta della classe, del carattere di classe del partito e del modo di
adesione al partito di elementi non proletari.
Questo
fatto ha del resto, in relazione con la situazione italiana, una
importanza notevole. E' la stessa struttura sociale e sono le
condizioni e le tradizioni della lotta politica quelle che rendono in
Italia assai più serio che altrove il pericolo di edificare il partito
in base a una "sintesi" di elementi eterogenei, cioè di aprire in essi
la via alla influenza paralizzatrice di altre classi. Si tratta di un
pericolo che sarà inoltre reso sempre più grave dalla stessa politica
del fascismo, che spingerà sul terreno rivoluzionario intieri strati
della piccola borghesia. E' certo che il Partito comunista non può
essere solo un partito di operai. La classe operaia e il suo partito
non possono fare a meno degli intellettuali né possono ignorare il
problema di raccogliere intorno a sé e guidare tutti gli elementi che
per una via o per un'altra sono spinti alla rivolta contro il
capitalismo.
Così pure il Partito
comunista non può chiudere le porte ai contadini: esso deve anzi avere
nel suo seno dei contadini e servirsi di essi per stringere il legame
politico tra il proletariato e le classi rurali. Ma è da respingere
energicamente, come controrivoluzionaria, ogni concessione che faccia
del partito una "sintesi" di elementi eterogenei, invece di sostenere
senza concessioni di sorta che esso è una parte del proletariato, che
il proletariato deve dargli la impronta della organizzazione che gli è
propria e che al proletariato deve essere garantita nel partito stesso
una funzione direttiva.
30. Non hanno
consistenza le obiezioni pratiche alla organizzazione sulla base della
produzione (cellule), secondo le quali questa struttura organizzativa
non permetterebbe di superare la concorrenza tra diverse categorie di
operai e darebbe il partito in balia al funzionarismo. La pratica del
movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una
organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette
di stabilire un contatto tra gli strati superiori e gli strati
inferiori della massa lavoratrice (qualificati, non qualificati e
manovali) e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad
ogni fenomeno di "aristocrazia operaia".
La
organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno
strato assai vasto di elementi dirigenti (segretari di cellula, membri
dei comitati di cellula, ecc.), i quali sono parte della massa e
rimangono in essa pure esercitando funzioni direttive, a differenza dei
segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità
elementi staccati dalla massa lavoratrice. Il partito deve dedicare una
cura particolare alla educazione di questi compagni che formano il
tessuto connettivo della organizzazione e sono lo strumento del
collegamento con le masse. Da qualsiasi punto di vista venga
considerata, la trasformazione della struttura sulla base della
produzione rimane compito fondamentale del partito nel momento presente
e mezzo per la soluzione dei più importanti suoi problemi. Si deve
insistere in essa e intensificare tutto il lavoro ideologico e pratico
che ad essa è relativo.
Compattezza della organizzazione del partito. Frazionismo
31.
La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento
della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal
Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina
proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. Questo non vuol dire
che il partito debba essere retto dall'alto con sistemi autocratici.
Tanto il Comitato centrale quanto gli organi inferiori di direzione
sono formati in base a una elezione e in base a una scelta di elementi
capaci compiuta attraverso la prova del lavoro e la esperienza del
movimento.
Questo secondo elemento
garantisce che i criteri per la formazione dei gruppi dirigenti locali
e del gruppo dirigente centrale non siano meccanici, esteriori e
"parlamentari", ma corrispondano a un processo di formazione di una
avanguardia proletaria omogenea e collegata con la massa. Il principio
della elezione degli organi dirigenti - democrazia interna - non è
assoluto, ma relativo alle condizioni della lotta politica. Anche
quando esso subisca limitazioni, gli organi centrali e periferici
devono sempre considerare il loro potere non come sovrapposto, ma come
sgorgante dalla volontà del partito, e sforzarsi di accentuare il loro
carattere proletario e di moltiplicare i loro legami con la massa dei
compagni e con la classe operaia.
Quest'ultima
necessità è particolarmente sentita in Italia, dove la reazione
costrinse e costringe tuttora ad una forte limitazione della democrazia
interna. La democrazia interna è pure relativa al grado di capacità
politica posseduta dagli organi periferici e dai singoli compagni che
lavorano alla periferia. L'azione che il centro esercita per accrescere
questa capacità rende possibile una estensione dei sistemi
"democratici" e una riduzione sempre più grande del sistema della
"cooptazione" e degli interventi dall'alto per regolare le questioni
organizzative locali.
32. La
centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano
nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione.
Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai
partiti socialdemocratici i quali comprendono una grande varietà di
gruppi e nei quali la lotta di frazioni è la forma normale di
elaborazione delle direttive politiche e di selezione dei gruppi
dirigenti. I partiti e la Internazionale comunista sono sorti in
seguito ad una lotta di frazioni svoltasi nel seno della II
Internazionale. Costituendosi come partiti e come organizzazione
mondiale del proletariato essi hanno eletto a norma della loro vita
interna e del loro sviluppo non più la lotta di frazioni, ma la
collaborazione organica di tutte le tendenze attraverso la
partecipazione agli organi dirigenti.
La
esistenza e la lotta di frazioni sono infatti inconcepibili con la
essenza del partito del proletariato, di cui spezzano la unità aprendo
la via alla influenza di altre classi. Questo non vuol dire che nel
partito non possano sorgere tendenze e che le tendenze talora non
cerchino di organizzarsi in frazioni, ma vuol dire che contro
quest'ultima eventualità si deve lottare energicamente per ridurre i
contrasti di tendenze, le elaborazioni di pensiero e la selezione dei
dirigenti alla forma che è propria dei partiti comunisti, cioè a un
processo di svolgimento reale e unitario (dialettico) e non a una
controversia e a lotte di carattere "parlamentare".
33.
La esperienza del movimento operaio, fallito in seguito alla impotenza
del PSI, per la lotta delle frazioni e per il fatto che ogni frazione
faceva, indipendentemente dal partito, la sua politica, paralizzando
l'azione delle altre frazioni e quella del partito intiero, questa
esperienza offre un buon terreno per creare e mantenere la compattezza
e la centralizzazione che devono essere propri di un partito
bolscevico. Tra i diversi gruppi da cui il Partito comunista d'Italia
ha tratto origine sussiste qualche differenziazione, che deve
scomparire con un approfondimento della comune ideologia marxista e
leninista. Solo tra i seguaci della ideologia antimarxista di estrema
sinistra si sono mantenute a lungo una omogeneità e una solidarietà di
carattere frazionistico. Dal frazionismo larvato si è anzi fatto il
tentativo di passare alla lotta aperta di frazione, con la costituzione
del cosiddetto "Comitato d'intesa".
La
profondità con cui il partito reagì a questo insano tentativo di
scindere le sue forze dà affidamento sicuro che cadrà nel vuoto, in
questo campo, ogni tentativo di farci ritornare alle consuetudini della
socialdemocrazia. Il pericolo di un frazionismo esiste in una certa
misura anche per la fusione con i terzinternazionalisti del Partito
socialista. I terzinternazionalisti non hanno una loro ideologia in
comune, ma sussistono tra loro dei legami di carattere essenzialmente
corporativo, creatisi nei due anni di vita come frazione in seno al
PSI; questi legami sono andati sempre più allentandosi e non sarà
difficile eliminarli totalmente. La lotta contro il frazionismo deve
essere anzitutto propaganda di giusti principi organizzativi, ma essa
non avrà successo sino a che il partito italiano non potrà nuovamente
considerare la discussione dei problemi attuali suoi e della
Internazionale come fatto normale, e orientare le sue tendenze in
relazione a questi problemi.
Il funzionamento della organizzazione del partito
34.
Un partito bolscevico deve essere organizzato in modo da poter
funzionare, in qualsiasi condizione, a contatto con la massa. Questo
principio assume la più grande importanza tra di noi, per la
compressione che il fascismo esercita allo scopo di impedire che i
rapporti di forze reali si traducano in rapporti di forze organizzate.
Soltanto con la massima concentrazione e intensità della attività del
partito si può riuscire a neutralizzare almeno in parte questo fattore
negativo e ad ottenere che esso non intralci profondamente il processo
della rivoluzione. Devono essere perciò presi in considerazione:
a)
il numero degli iscritti e la loro capacità politica; essi devono
essere tanti da permettere una continua estensione della nostra
influenza. E' da combattere la tendenza a tenere artificialmente
ristretti i quadri: essa porta alla passività, alla atrofia. Ogni
iscritto però deve essere un elemento politicamente attivo, capace di
diffondere la influenza del partito, e tradurre quotidianamente in atto
le direttive di esso, guidando una parte della massa lavoratrice;
b) la utilizzazione di tutti i compagni in un lavoro pratico;
c)
il coordinamento unitario delle diverse specie di attività a mezzo di
comitati nei quali si articola tutto il partito come organo di lavoro
tra le masse;
d) il funzionamento
collegiale degli organi centrali del partito, considerato come
condizione per la costituzione di un gruppo dirigente "bolscevico"
omogeneo e compatto;
e) la capacità dei
compagni di lavorare tra le masse, di essere continuamente presenti tra
di esse, di essere in prima fila in tutte le lotte, di sapere in ogni
occasione assumere e tenere la posizione che è propria dell'avanguardia
del proletariato. Si insiste su questo punto perché la necessità del
lavoro sotterraneo e la errata ideologia di "estrema sinistra" hanno
prodotto una limitazione della capacità di lavoro tra le masse e con le
masse;
f) la capacità degli organismi
periferici e dei singoli compagni di affrontare situazioni imprevedute
e di prendere atteggiamenti esatti anche prima che giungano
disposizioni dagli organi superiori. E' da combattere la forma di
passività, residuo essa pure delle false concezioni organizzative
dell'estremismo, che consiste nel sapere solo "attendere gli ordini
dall'alto". Il partito deve avere alla base una sua "iniziativa", cioè
gli organi di base devono saper reagire immediatamente ad ogni
situazione imprevista e improvvisa;
g) la
capacità di compiere un lavoro "sotterraneo" (illegale) e di difendere
il partito dalla reazione di ogni sorta senza perdere il contatto con
le masse, ma facendo servire come difesa il contatto stesso con i più
vasti strati della classe lavoratrice. Nella situazione attuale una
difesa del partito e del suo apparato che sia ottenuta riducendosi ad
esplicare una attività di semplice "organizzazione interna" è da
considerare come un abbandono della causa della rivoluzione.
Ognuno
di questi punti è da considerare con attenzione perché indica insieme
un difetto del partito e un progresso che gli si deve far compiere.
Essi hanno tanto maggiore importanza in quanto è da prevedere che i
colpi della reazione indeboliranno ancora l'apparato di collegamento
tra il centro e la periferia, per quanto grandi siano gli sforzi per
mantenerlo intatto.
Strategia e tattica del partito
35.
La capacità e tattica del partito è la capacità di organizzare e
unificare attorno all'avanguardia proletaria e alla classe operaia
tutte le forze necessarie alla vittoria rivoluzionaria e di guidarle di
fatto verso la rivoluzione approfittando delle situazioni oggettive e
degli spostamenti di forze che esse provocano sia tra la popolazione
lavoratrice che tra i nemici della classe operaia. Con la sua strategia
e con la sua tattica il partito "dirige la classe operaia" nei grandi
movimenti storici e nelle sue lotte quotidiane. L'unica direzione è
legata all'altra ed è condizionata dall'altra.
36.
Il principio che il partito dirige la classe operaia non deve essere
interpretato in modo meccanico. Non bisogna credere che il partito
possa dirigere la classe operaia per una imposizione autoritaria
esterna; questo non è vero né per il periodo che precede né per il
periodo che segue la conquista del potere. L'errore di una
interpretazione meccanica di questo principio deve essere combattuto
nel partito italiano come una possibile conseguenza delle deviazioni
ideologiche di estrema sinistra; queste deviazioni portano infatti a
una arbitraria sopravvalutazione formale del partito per ciò che
riguarda la funzione di guida della classe. Noi affermiamo che la
capacità di dirigere la classe è in relazione non al fatto che il
partito si "proclami" l'organo rivoluzionario di essa, ma al fatto che
esso "effettivamente" riesca, come una parte della classe operaia, a
collegarsi con tutte le sezioni della classe stessa e a imprimere alla
massa un movimento nella direzione desiderata e favorita dalle
condizioni oggettive.
Solo come
conseguenza della sua azione tra le masse il partito potrà ottenere che
esse lo riconoscano come il "loro" partito (conquista della
maggioranza), e solo quando questa condizione si è realizzata esso può
presumere di poter trascinare dietro a sé la classe operaia. Le
esigenze di questa azione tra le masse sono superiori a ogni
"patriottismo" di partito.
37. Il partito
dirige la classe penetrando in tutte le organizzazioni in cui la massa
lavoratrice si raccoglie e compiendo in esse e attraverso di esse una
sistematica mobilitazione di energia secondo il programma della lotta
di classe e un'azione di conquista della maggioranza alle direttive
comuniste. Le organizzazioni in cui il partito lavora e che tendono per
loro natura a incorporare tutta la massa operaia non possono mai
sostituire il Partito comunista, che è l'organizzazione politica dei
rivoluzionari, cioè dell'avanguardia del proletariato. Così è escluso
un rapporto di subordinazione, e di "eguaglianza" tra le organizzazioni
di massa e il partito (patto sindacale di Stoccarda, patto di alleanza
tra il Partito socialista italiano e la Confederazione generale del
lavoro).
Il rapporto tra sindacati e
partito è uno speciale rapporto di direzione che si realizza mediante
la attività che i comunisti esplicano in seno ai sindacati. I comunisti
si organizzano in frazioni nei sindacati e in tutte le formazioni di
massa e partecipano in prima fila alla vita di queste formazioni e alle
lotte che esse conducono, sostenendovi il programma e le parole
d'ordine del loro partito. Ogni tendenza a estraniarsi dalla vita delle
organizzazioni, qualunque esse siano, in cui è possibile prendere
contatto con le masse lavoratrici, è da combattere come pericolosa
deviazione, indizi di pessimismo e sorgente di passività.
38.
Organi specifici di raccoglimento delle masse lavoratrici sono nei
paesi capitalistici i sindacati. L'azione nei sindacati è da
considerare come essenziale per il raggiungimento dei fini del partito.
Il partito che rinuncia alla lotta per esercitare la sua influenza nei
sindacati e per conquistarne la direzione, rinuncia di fatto alla
conquista della massa operaia e alla lotta rivoluzionaria per il
potere. In Italia l'azione nei sindacati assume una particolare
importanza perché consente di lavorare con intensità più grave e con
risultati migliori a quella riorganizzazione del proletariato
industriale e agricolo che deve ridargli una posizione di predominio
nei confronti con le altre classi sociali.
La
compressione fascista e specialmente la nuova politica sindacale del
fascismo creano però una condizione di cose del tutto particolare. La
Confederazione del lavoro e i sindacati di classe si vedono tolta la
possibilità di svolgere, nelle forme tradizionali, una attività di
organizzazione e di difesa economica. Essi tendono a ridursi a semplici
uffici di propaganda. In pari tempo però la classe operaia, sotto
l'impulso della situazione oggettiva, è spinta a riordinare le proprie
forze secondo nuove forme di organizzazione. Il partito deve quindi
riuscire a compiere una azione di difesa del sindacato di classe e di
rivendicazioni della sua libertà, e in pari tempo deve secondare e
stimolare la tendenza alla creazione di organismi rappresentativi di
massa i quali aderiscono al sistema della produzione. Paralizzata
l'attività del sindacato di classe, la difesa dell'interesse immediato
dei lavoratori tende a compiersi attraverso uno spezzettamento della
resistenza e della lotta per officine, per categorie, per reparti di
lavoro, ecc.
Il Partito comunista
deve saper seguire tutte queste lotte ed esercitare una vera e propria
direzione di esse, impedendo che in esse vada smarrito il carattere
unitario e rivoluzionario dei contrasti di classe, sfruttandole anzi
per favorire la mobilitazione di tutto il proletariato e la
organizzazione di esso sopra un fronte di combattimento (Tesi
sindacali).
39. Il partito dirige e
unifica la classe operaia partecipando a tutte le lotte di carattere
parziale, e formulando e agitando un programma di rivendicazioni di
immediato interesse per la classe lavoratrice. Le azioni parziali e
limitate sono da esso considerate come momenti necessari per giungere
alla mobilitazione progressiva e alla unificazione di tutte le forze
della classe lavoratrice. Il partito combatte la concezione secondo la
quale ci si dovrebbe astenere dall'appoggiare o dal prendere parte ad
azioni parziali perché i problemi interessanti la classe lavoratrice
sono risolubili solo con l'abbattimento del regime capitalista e con
una azione generale di tutte le forze anticapitalistiche. Esso è
consapevole della impossibilità che le condizioni dei lavoratori siano
migliorate in modo serio e durevole, nel periodo dell'imperialismo e
prima che il regime capitalista sia stato abbattuto.
L'agitazione
di un programma di rivendicazioni immediate e l'appoggio alle lotte
parziali è però il solo modo col quale si possa giungere alle grandi
masse e mobilitarle contro il capitale. D'altra parte ogni agitazione o
vittoria di categorie operaie nel campo delle rivendicazioni immediate
rende più acuta la crisi del capitalismo, e ne accelera anche
soggettivamente la caduta in quanto sposta l'instabile equilibrio
economico sul quale esso oggi basa il suo potere. Il Partito comunista
lega ogni rivendicazione immediata a un obiettivo rivoluzionario, si
serve di ogni lotta parziale per insegnare alle masse la necessità
dell'azione generale, della insurrezione contro il dominio reazionario
del capitale, e cerca di ottenere che ogni lotta di carattere limitato
sia preparata e diretta così da poter condurre alla mobilitazione e
unificazione delle forze proletarie, e non alla loro dispersione.
Esso sostiene queste sue concezioni
nell'interno delle organizzazioni di massa cui spetta la direzione dei
movimenti parziali, o nei confronti dei partiti politici che ne
prendono la iniziativa, oppure le fa valere prendendo esso la
iniziativa di proporre le azioni parziali, sia in seno a organizzazioni
di massa, sia ad altri partiti (tattica del fronte unico). In ogni caso
si serve della esperienza del movimento e dell'esito delle sue proposte
per accrescere la sua influenza, dimostrando con i fatti che il suo
programma di azione è il solo rispondente agli interessi delle masse e
alla situazione oggettiva, e per portare sopra una posizione più
avanzata una sezione arretrata della classe lavoratrice. La iniziativa
diretta del Partito comunista per una azione parziale, può aver luogo
quando essa controlla attraverso organismi di massa una parte notevole
della classe lavoratrice, o quando sia sicuro che una sua parola
d'ordine diretta sia seguita egualmente da una parte notevole della
classe lavoratrice.
Il partito non
prenderà però questa iniziativa se non quando, in relazione con la
situazione oggettiva, essa porti a uno spostamento a suo favore dei
rapporti di forza, e rappresenti un passo in avanti sulla unificazione
e mobilitazione della classe sul terreno rivoluzionario. E' escluso che
una azione violenta di individui o di gruppi possa servire a strappare
dalla passività le masse operaie quando il partito non sia collegato
profondamente con esse. In particolare la attività dei gruppi armati,
anche come reazione alla violenza fisica dei fascisti, ha valore solo
in quanto si collega con una reazione delle masse o riesce a suscitarla
e prepararla acquistando nel campo della mobilitazione di forze
materiali lo stesso valore che hanno gli scioperi e le agitazioni
economiche particolari per la mobilitazione generale delle energie dei
lavoratori in difesa dei loro interessi di classe.
39
bis. E' un errore il ritenere che le rivendicazioni immediate e le
azioni parziali possano avere solamente carattere economico. Poiché,
con l'approfondirsi della crisi del capitalismo, le classi dirigenti
capitalistiche e agrarie sono costrette, per mantenere il loro potere,
a limitare e sopprimere le libertà di organizzazione e politiche del
proletariato, la rivendicazione di queste libertà offre un ottimo
terreno per agitazioni e lotte parziali, le quali possono giungere alla
mobilitazione di vasti strati della popolazione lavoratrice. Tutta la
legislazione con la quale i fascisti sopprimono, in Italia, anche le
più elementari libertà della classe operaia, deve quindi fornire al
Partito comunista motivi per l'agitazione e mobilitazione delle
masse.
Sarà compito del Partito
comunista collegare ognuna delle parole d'ordine che esso lancerà in
questo campo con le direttive generali della sua azione: in particolare
con la pratica dimostrazione della possibilità che il regime instaurato
dal fascismo subisca radicali limitazioni e trasformazioni in senso
"liberale" e "democratico" senza che sia scatenata contro il fascismo
una lotta di masse, la quale dovrà inesorabilmente sboccare nella
guerra civile. Questa convinzione deve diffondersi nelle masse nella
misura in cui noi riusciremo, collegando le rivendicazioni parziali di
carattere politico con quelle di carattere economico, a trasformare i
movimenti "rivoluzionari democratici" in movimenti rivoluzionari operai
e socialisti.
Particolarmente questo
dovrà essere ottenuto per quanto riguarda l'agitazione contro la
monarchia. La monarchia è uno dei puntelli del regime fascista; essa è
la forma statale del fascismo italiano. La mobilitazione antimonarchica
delle masse della popolazione italiana è uno degli scopi che il Partito
comunista deve proporre. Essa servirà efficacemente a smascherare
alcuni gruppi sedicenti antifascisti già coalizzati nell'Aventino. Essa
deve però sempre essere condotta insieme con l'agitazione e con la
lotta contro gli altri pilastri fondamentali del regime fascista, che
sono la plutocrazia industriale e gli agrari. Nell'agitazione
antimonarchica il problema della forma dello Stato sarà inoltre
presentato dal Partito comunista in connessione continua con il
problema del contenuto di classe che i comunisti intendono dare allo
Stato. Nel recente passato (giugno 1925) la connessione di questi
problemi venne ottenuta dal partito ponendo a base della sua azione
politica le parole d'ordine: "Assemblea repubblicana sulla base dei
Comitati operai e contadini; controllo operaio sull'industria; terra ai
contadini".
40. Il compito di unificare le
forze del proletariato e di tutta la classe lavoratrice sopra un
terreno di lotta è la parte "positiva" della tattica del fronte unico
ed è in Italia, nelle circostanze attuali, compito fondamentale del
partito. I comunisti devono considerare la unità della classe
lavoratrice come un risultato concreto, reale, da ottenere, per
impedire al capitalismo l'attuazione del suo piano di disgregare in
modo permanente il proletariato e di rendere impossibile ogni lotta
rivoluzionaria. Essi devono saper lavorare in tutti i modi per
raggiungere questo scopo soprattutto devono rendersi capaci di
avvicinare gli operai di altri partiti e senza partito superando
ostilità e incomprensioni fuori luogo, e presentandosi in ogni caso
come i fautori dell'unità della classe nella lotta per la sua difesa e
per la sua liberazione. Il "fronte unico" di lotta antifascista e
anticapitalista che i comunisti si sforzano di creare deve tendere a
essere un fronte unico organizzato, cioè a fondarsi sopra organismi
attorno ai quali tutta la massa trovi una forma e si raccolga.
Tali
sono gli organismi rappresentativi che le masse stesse oggi hanno la
tendenza a costituire, a partire dalle officine, e in occasione di ogni
agitazione, dopo che le possibilità di funzionamento normale dei
sindacati hanno incominciato a essere limitate. I comunisti devono
rendersi conto di questa tendenza delle masse e saperla stimolare,
sviluppando gli elementi positivi che essa contiene e combattendo le
deviazioni particolaristiche cui essa può dare luogo. La cosa deve
essere considerata senza feticismi per una determinata forma di
organizzazione, tenendo presente che lo scopo nostro fondamentale è di
ottenere una mobilitazione e una unità organica sempre più vaste di
forze. Per raggiungere questo scopo occorre sapersi adattare a tutti i
terreni che ci sono offerti dalla realtà, sfruttare tutti i motivi di
agitazione, insistere sopra l'una o sopra l'altra forma di
organizzazione a seconda della necessità e a seconda delle possibilità
di sviluppo di ognuna di esse (Tesi sindacali: capitoli relativi alle
commissioni interne, ai comitati di agitazione, alle conferenze di
fabbriche).
41. La parola d'ordine dei
comitati operai e contadini deve essere considerata come formula
riassuntiva di tutta l'azione del partito in quanto essa si propone di
creare un fronte unico organizzato della classe lavoratrice. I comitati
operai e contadini sono organi di unità della classe lavoratrice
mobilitata sia per una lotta di carattere immediato che per azioni
politiche di più largo sviluppo. La parola d'ordine della creazione di
comitati operai e contadini è quindi una parola d'ordine di attuazione
immediata per tutti quei casi in cui il partito riesce con la sua
attività a mobilitare una sezione della classe lavoratrice abbastanza
estesa (più di una sola fabbrica, più di una sola categoria in una
località), ma essa è in pari tempo una soluzione politica e una parola
di agitazione adeguata a tutto un periodo della vita e della azione del
partito. Essa rende evidente e concreta la necessità che i lavoratori
organizzino le loro forze e le contrappongano di fatto a quelle di
tutti i gruppi di origine e natura borghese, al fine di poter diventare
elemento determinante e preponderante della situazione politica.
42.
La tattica del fronte unico come azione politica (manovra) destinata a
smascherare partiti e gruppi sedicenti proletari e rivoluzionari aventi
una base di massa, è strettamente collegata col problema della
direzione delle masse da parte del Partito comunista e col problema
della conquista della maggioranza. Nella forma in cui è stata definita
dai congressi mondiali essa è applicabile in tutti i casi in cui, per
l'adesione delle masse ai gruppi che noi combattiamo, la lotta frontale
contro di essi non sia sufficiente a darci risultati rapidi e profondi.
Il successo di questa tattica è legato alla misura in cui essa è
preceduta o si accompagna ad una effettiva opera di unificazione e di
mobilitazione di masse ottenuta dal partito con una azione dal
basso.
In Italia la tattica del
fronte unico deve continuare ad essere adottata dal partito nella
misura in cui esso è ancora lontano dall'aver conquistato una influenza
decisiva sulla maggioranza della classe operaia e della popolazione
lavoratrice. Le particolari condizioni italiane assicurano la vitalità
di formazioni politiche intermedie, basate sopra l'equivoco e favorite
dalla passività di una parte della massa (massimalisti, repubblicani,
unitari). Una formazione di questo genere sarà il gruppo di centro che
assai probabilmente sorgerà dallo sfacelo dell'Aventino. Non è
possibile lottare a pieno contro il pericolo che queste formazioni
rappresentano se non con la tattica del fronte unico. Ma non bisogna
contare di poter aver successi se non in relazione al lavoro che
contemporaneamente si sarà fatto per strappare le masse alla passività.
42 bis. Il problema del Partito
massimalista deve essere considerato alla stregua del problema di tutte
le altre formazioni intermedie che il Partito comunista combatte come
ostacolo alla preparazione rivoluzionaria del proletariato e verso le
quali adotta, a seconda delle circostanze, la tattica del fronte unico.
E' certo che in alcune zone il problema della conquista della
maggioranza è per noi legato specificamente al problema di distruggere
la influenza del PSI e del suo giornale. I capi del Partito socialista
d'altra parte vengono sempre più apertamente classificandosi tra le
forze controrivoluzionarie e di conservazione dell'ordine capitalistico
(campagna per l'intervento del capitale americano; solidarietà di fatto
con i dirigenti sindacali riformisti).
Nulla
permette di escludere del tutto la possibilità di un loro accostamento
ai riformisti e di una successiva fusione di essi. Il Partito comunista
deve tenere presente questa possibilità e proporsi fin d'ora di
ottenere che, quando essa si realizzasse, le masse che sono ancora
controllate dai massimalisti ma conservano uno spirito classista, si
stacchino da essi decisamente e si leghino nel modo più stretto con le
masse che la avanguardia comunista tiene attorno a sé. I buoni
risultati dati dalla fusione con la frazione terzinternazionalista
decisa dal V Congresso hanno insegnato al partito italiano come in
condizioni determinate si ottengano, con una azione politica avveduta,
risultati che non si potrebbero ottenere con la normale attività di
propaganda e organizzazione.
43. Mentre
agita il suo programma di rivendicazioni classiste immediate e
concentra la sua attività nell'ottenere la mobilitazione e unificazione
delle forze operaie e lavoratrici, il partito può presentare, allo
scopo di agevolare lo sviluppo della propria azione, soluzioni
intermedie di problemi politici generali, e agitare queste soluzioni
tra le masse che sono ancora aderenti a partiti e formazioni
controrivoluzionarie. Questa presentazione e agitazione di soluzioni
intermedie - lontane tanto dalle parole d'ordine del partito quanto dal
programma di inerzia e passività dei gruppi che si vogliono combattere
- permette di raccogliere al seguito del partito forze più vaste, di
porre in contraddizione le parole dei dirigenti i partiti di massa
controrivoluzionari con le loro intenzioni reali, di spingere le masse
verso soluzioni rivoluzionarie e di estendere la nostra influenza
(esempio: antiparlamento).
Queste
soluzioni intermedie non si possono prevedere tutte, perché devono in
ogni caso aderire alla realtà. Esse devono però essere tali da poter
costituire un ponte di passaggio verso le parole d'ordine del partito,
e deve apparire sempre evidente alle masse che una loro eventuale
realizzazione si risolverebbe in un acceleramento del processo
rivoluzionario e in un inizio di lotte più profonde. La presentazione e
agitazione di queste soluzioni intermedie è la forma più specifica di
lotta che deve essere usata contro i partiti sedicenti democratici, i
quali in realtà sono uno dei più forti sostegni dell'ordine
capitalistico vacillante e come tali si alternano al potere con i
gruppi reazionari, quando questi partiti sedicenti democratici sono
collegati con strati importanti e decisivi della popolazione
lavoratrice (come in Italia nei primi mesi della crisi Matteotti) e
quando è imminente e grave un pericolo reazionario (tattica adottata
dai bolscevichi verso Kerenski durante il colpo di Kornilov). In questi
casi il Partito comunista ottiene i migliori risultati agitando le
soluzioni stesse che dovrebbero essere proprie dei partiti sedicenti
democratici se essi sapessero condurre per la democrazia una lotta
conseguente, con tutti i mezzi che la situazione richiede. Questi
partiti, posti così alla prova dei fatti, si smascherano di fronte alle
masse e perdono la loro influenza su di esse.
44.
Tutte le agitazioni particolari che il partito conduce e le attività
che esso esplica in ogni direzione per mobilitare e unificare le forze
della classe lavoratrice devono convergere ed essere riassunte in una
formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle masse e
abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti. Questa
formula è quella del "governo operaio e contadino". Essa indica anche
alle masse più arretrate la necessità della conquista del potere per la
soluzione dei problemi vitali che le interessano e fornisce il mezzo
per portarle sul terreno che è proprio dell'avanguardia operaia più
evoluta (lotta per la dittatura del proletariato). In questo senso essa
è una formula di agitazione, ma non corrisponde ad una fase reale di
sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni intermedie di
cui al numero precedente.
Una
realizzazione di essa infatti non può essere concepita dal partito se
non come inizio di una lotta rivoluzionaria diretta, cioè della guerra
civile condotta dal proletariato, in alleanza con i contadini, per la
conquista del potere. Il partito potrebbe essere portato a gravi
deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora
interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una
fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse
che questa parola d'ordine indica la possibilità che il problema dello
Stato venga risolto nell'interesse della classe operaia in una forma
che non sia quella della dittatura del proletariato.
Cinque anni di vita del partito
Resoconto dei lavori del III Congresso
"L'Unità", 24 febbraio 1926
Data la difficoltà di pubblicare immediatamente un resoconto
giornalistico dei lavori del III Congresso del nostro partito,
riteniamo per intanto opportuno di offrire ai compagni e alla massa dei
lettori un esame e una informazione generale dei risultati del
congresso stesso. Ci affrettiamo comunque ad annunciare che
prossimamente sarà pubblicato sul nostro giornale il resoconto
materiale del congresso e saranno successivamente riunite in un volume
le deliberazioni e le tesi nel loro testo definitivo.
I
risultati numerici dei voti al congresso furono i seguenti: assenti e
non consultati 18,9%; dei presenti al congresso: voti per il Comitato
centrale 90,8; per l'estrema sinistra 9,2; Il nostro partito è nato nel
gennaio 1921, cioè nel momento più critico sia della crisi generale
della borghesia italiana, sia della crisi del movimento operaio. Ma la
scissione, se era storicamente necessaria ed inevitabile, trovava però
le grandi masse impreparate e riluttanti. In tale situazione
l'organizzazione materiale del nuovo partito trovava le condizioni più
difficili. Avvenne perciò che il lavoro puramente organizzativo, data
la difficoltà delle condizioni in cui doveva svolgersi, assorbì le
energie creatrici del partito in modo quasi completo.
I
problemi politici che si ponevano, per la decomposizione da una parte
del personale dei vecchi gruppi dirigenti borghesi, dall'altra per un
processo analogo del movimento operaio, non poterono essere
approfonditi sufficientemente. Tutta la linea politica del partito
negli anni immediatamente successivi alla scissione fu in primo luogo
condizionata da questa necessità: di mantenere strette le file del
partito, aggredito fisicamente dalla offensiva fascista da una parte, e
dai miasmi cadaverici della decomposizione socialista dall'altra.
Era
naturale che in tali condizioni si sviluppassero nell'interno del
nostro partito sentimenti e stati d'animo di carattere corporativo e
settario. Il problema generale politico, inerente all'assistenza e allo
sviluppo del partito non era visto nel senso di una attività per la
quale il partito dovesse tendere a conquistare le più larghe masse e ad
organizzare le forze sociali necessarie per sconfiggere la borghesia e
conquistare il potere, ma era visto come il problema della esistenza
stessa del partito.
La scissione di Livorno
Il
fatto della scissione fu visto nel suo valore immediato e meccanico e
noi commetteremmo, in altro senso sia pure, lo stesso errore che era
stato commesso da Serrati. Il compagno Lenin aveva dato la formula
lapidaria del significato della scissione, in Italia, quando aveva
detto al compagno Serrati: "Separatevi da Turati, e poi fate l'alleanza
con lui".
Questa formula avrebbe dovuto
essere da noi adattata alla scissione avvenuta in forma diversa da
quella prevista da Lenin. Dovevamo cioè, come era indispensabile e
storicamente necessario, separarci non solo dal riformismo, ma anche
dal massimalismo che in realtà rappresentava e rappresenta
l'opportunismo tipico italiano del movimento operaio; ma dopo di ciò e
pur continuando la lotta ideologica e organizzativa contro di essi,
cercare di fare una alleanza contro la reazione.
Per
gli elementi dirigenti del nostro partito, ogni azione
dell'Internazionale, rivolta ad ottenere un riavvicinamento a questa
linea, apparve come se fosse una sconfessione implicita della scissione
di Livorno, come una manifestazione di pentimento.
Si
disse che, accettando una tale impostazione della lotta politica, si
veniva ad ammettere che il nostro partito era solamente una nebulosa
indefinita, mentre era giusto ed era necessario affermare che il nostro
partito, nascendo, aveva risolto definitivamente il problema della
formazione storica del partito del proletariato italiano.
Questa
opinione era rafforzata dalle non lontane esperienze della rivoluzione
soviettista in Ungheria, dove la fusione tra comunisti e
socialdemocratici fu certamente uno degli elementi che contribuirono
alla disfatta.
La portata dell'esperienza ungherese
In
realtà l'impostazione data a questo problema dal nostro partito era
falsa e andò sempre più manifestandosi come tale alle larghe masse del
partito. Proprio l'esperienza ungherese avrebbe dovuto convincerci che
la linea seguita dall'Internazionale nella formazione dei partiti
comunisti non era quella che noi le attribuivamo. E' noto infatti che
il compagno Lenin cercò di opporsi strenuamente alla fusione tra
comunisti e socialdemocratici ungheresi, nonostante che questi ultimi
si dichiarassero fautori della dittatura del proletariato. Si può dire
perciò che il compagno Lenin fosse in generale contrario alle fusioni?
Certamente no. Il problema era visto dal compagno Lenin e
dall'Internazionale come un processo dialettico, attraverso il quale
l'elemento comunista, cioè la parte più avanzata e cosciente del
proletariato, si pone, sia nell'organizzazione del partito della classe
operaia, sia nella funzione di direzione delle grandi masse, alla testa
di tutto ciò che di onesto e attivo si è formato ed esiste nella
classe.
In Ungheria è stato un errore
distruggere l'organizzazione indipendente comunista nel momento della
presa del potere, per dissolvere e diluire il raggruppamento costituito
nella più vasta ed amorfa organizzazione socialdemocratica che non
poteva non riprendere predominio. Anche per l'Ungheria il compagno
Lenin aveva formulato la linea del nostro vecchio partito come
un'alleanza con la socialdemocrazia, non come una fusione. Alla fusione
si sarebbe arrivati più tardi, quando il processo del predominio del
raggruppamento comunista si fosse sviluppato sulla scala più larga nel
campo dell'organizzazione di partito, dell'organizzazione sindacale e
dell'apparato statale, e cioè con la separazione organica e politica
degli operai rivoluzionari dai capi opportunisti.
Per
l'Italia il problema si poneva in termini ancora più semplici che in
Ungheria, perché non solo il proletariato non aveva conquistato il
potere, ma iniziava, proprio nel momento della formazione del partito,
un grande movimento di ritirata. Porre in Italia la questione della
formazione del partito, così com'era stato indicato dal compagno Lenin
nella sua formula espressa a Serrati, significava - nell'arretramento
del proletariato che si iniziava allora - dare la possibilità al nostro
partito di raggruppare intorno a sé quegli elementi del proletariato
che avrebbero dovuto resistere, ma che sotto la direzione massimalista
erano travolti nella rotta generale e cadevano progressivamente nella
passività. Ciò significava che la tattica suggerita da Lenin e
dall'Internazionale era l'unica capace di rafforzare e sviluppare i
risultati della scissione di Livorno e di fare veramente del nostro
partito, fin d'allora, non solo in astratto e come affermazione
storica, ma in forma effettiva, il partito dirigente della classe
operaia.
Per questa falsa impostazione
del problema, noi ci siamo mantenuti sulle posizioni avanzate, da soli
e con la frazione di masse immediatamente più vicina al partito, ma non
abbiamo fatto quanto era necessario per mantenere sulle nostre
posizioni il proletariato nel suo complesso, il quale tuttavia era
ancora animato da un grande spirito di lotta, come è dimostrato da
tanti episodi spesso eroici della resistenza opposta all'avanzata
avversaria.
Il partito negli anni 1921-22
Un
altro degli elementi di debolezza della nostra organizzazione è
consistito nel fatto che tali problemi, data la difficoltà della
situazione e dato che le forze del partito erano assorbite dalla lotta
immediata per la propria difesa fisica, non divennero oggetto di
discussione alla base e quindi elemento di sviluppo della capacità
ideologica e politica del partito. Avvenne così che il I Congresso del
partito, quello tenuto a Livorno nel teatro San Marco subito dopo la
scissione, si pose solo dei compiti di carattere organizzativo
immediato: formazione degli organismi centrali e inquadramento generale
del partito.
Il II Congresso avrebbe
potuto e forse dovuto esaminare e impostare le suddette questioni, ma a
ciò si opposero i seguenti elementi:
1)
il fatto che non solo la massa, ma anche una grande parte degli
elementi più responsabili e più vicini alla direzione del partito
ignoravano letteralmente che esistessero divergenze profonde ed
essenziali fra la linea seguita dal nostro partito e quella sostenuta
dall'Internazionale;
2) l'essere il
partito assorbito dalla lotta diretta fisica portava a sottovalutare le
questioni ideologiche e politiche in confronto di quelle puramente
organizzative. Era quindi naturale che sorgesse nel partito uno stato
d'animo contrario a priori ad approfondire ogni questione che potesse
prospettare pericoli di conflitti gravi nel gruppo dirigente
costituitosi a Livorno;
3) il fatto che
l'opposizione rilevatasi al Congresso di Roma e che diceva essere la
sola rappresentante delle direttive dell'Internazionale era, nella
situazione data, un'espressione dello stato d'animo di stanchezza e di
passività che esisteva in alcune zone del partito.
La
crisi subita sia dalla classe dominante che dal proletariato nel
periodo precedente l'avvento del fascismo al potere, pose nuovamente il
nostro partito dinanzi ai problemi che il Congresso di Roma non aveva
avuto la possibilità di risolvere.
In che
cosa consistette questa crisi? I gruppi di sinistra della borghesia,
fautori a parole di un governo democratico che si proponesse di
arginare energicamente il movimento fascista, avevano reso arbitro il
Partito socialista di accettare o non accettare questa soluzione per
liquidarlo politicamente sotto il cumulo della responsabilità di un
mancato accordo antifascista. In questo modo di porre la questione da
parte dei democratici era implicita la preventiva capitolazione dinanzi
al movimento fascista, fenomeno che si riprodusse poi nella crisi
Matteotti.
Tuttavia tale impostazione se
ebbe in un primo tempo il potere di determinare una chiarificazione nel
Partito socialista, essendosi in base ad essa prodotta la scissione dei
massimalisti dai riformisti, aggravava però la situazione del
proletariato. Infatti la scissione rendeva infruttuosa la tattica
proposta dai democratici, in quanto il governo di sinistra da questi
prospettato doveva comprendere il Partito socialista unito, cioè
significare la cattura della maggioranza della classe proletaria
organizzata nell'ingranaggio dello Stato borghese, anticipando la
legislazione fascista e rendendo politicamente inutile l'esperimento
diretto fascista.
D'altronde la
scissione, come apparve più chiaramente in seguito, solo macchinalmente
aveva portato a uno sbalzo a sinistra dei massimalisti, i quali, se
affermavano di voler aderire all'Internazionale comunista e quindi di
riconoscere l'errore commesso a Livorno, si muovevano però con tante
riserve e reticenze mentali da neutralizzare il risveglio
rivoluzionario che la scissione aveva determinato nelle masse,
portandole così a nuove disillusioni e a una ricaduta di passività, di
cui approfittò il fascismo per effettuare la marcia su Roma.
Il nuovo corso del partito
Questa nuova situazione si riflettè al IV Congresso dell'Internazionale
comunista, dove si arrivò alla formazione del comitato di fusione dopo
incertezze e resistenze che erano legate alla persuasione radicata
nella maggioranza dei delegati del nostro partito che lo spostamento
dei massimalisti non rappresentava che una oscillazione transitoria e
senza avvenire. In ogni modo è da questo momento che si inizia
nell'interno del nostro partito un processo che prosegue
incessantemente ed esce dal campo del fenomeno di gruppo per divenire
proprio di tutto il partito, quando si avvertono e si sviluppano gli
elementi della crisi del fascismo iniziatasi col Congresso di Torino
del Partito popolare.
Appare
sempre più evidente che occorre far uscire il partito dalla posizione
mantenuta nel 1921-22, se si vuole che il movimento comunista si
sviluppi parallelamente alla crisi che subisce la classe dominante. La
pregiudiziale che aveva avuto una così larga importanza nel passato,
per la quale occorreva prima di tutto mantenere l'unità organizzativa
del partito, veniva a cadere per il fatto che nella situazione di
conflitto tra il nostro partito e l'Internazionale, si costituiva nelle
nostre file uno stato di frazione latente che trovava la sua
espressione in gruppi nettamente di destra, spesso con carattere
nettamente liquidazionista.
Tardare
ancora a porre in tutta la loro ampiezza le questioni fondamentali di
tattica, sulle quali fino ad allora si era esitato ad aprire la
discussione, avrebbe significato determinare una crisi generale del
partito senza uscita. Avvennero così nuovi raggruppamenti che andarono
sempre più sviluppandosi, fino alla vigilia del nostro III Congresso,
quando fu possibile accertare che non solo la grande maggioranza alla
base del partito (che non era stata mai apertamente interpellata), ma
anche la maggioranza del vecchio gruppo dirigente si era staccata
nettamente dalla concezione e dalla posizione politica di estrema
sinistra, per portarsi completamente sul terreno dell'Internazionale e
del leninismo.
L'importanza del III Congresso
Da
ciò che è stato detto finora, appare chiaramente quanto fossero grandi
l'importanza e i compiti del nostro III Congresso. Esso doveva chiudere
tutta un'epoca della vita del nostro partito, ponendo termine alla
crisi interna, e determinando uno schieramento stabile di forze tale da
permettere uno sviluppo normale della sua capacità di direzione
politica delle masse da parte del partito e quindi della sua capacità
d'azione.
Ha il congresso effettivamente
risolto questi compiti? Indubbiamente tutti i lavori del congresso
hanno dimostrato che, nonostante le difficoltà della situazione, il
nostro partito sia riuscito a risolvere la sua crisi di sviluppo,
raggiungendo un livello di omogeneità, di compattezza e di
stabilizzazione notevole e certamente superiore a quello di molte altre
sezioni dell'Internazionale. L'intervento nelle discussioni di
congresso dei delegati di base, alcuni dei quali venuti dalle regioni
dove più è difficile l'attività del partito, ha dimostrato come gli
elementi fondamentali del dibattito, fra l'Internazionale e il Comitato
centrale da una parte e l'opposizione dall'altra, siano stati non solo
meccanicamente assorbiti dal partito, ma, avendo determinato una
convinzione consapevole e diffusa, abbiano contribuito ad elevare, in
misura impreveduta anche dagli stessi compagni più ottimisti, il tono
della vita intellettuale della massa dei compagni e la loro capacità di
direzione e di iniziativa politica. Questo ci pare il significato più
rilevante del congresso.
E' risultato che
il nostro partito non solo può dirsi di massa per l'influenza che esso
esercita sui larghi strati della classe operaia e della massa
contadina, ma perché ha acquistato nei singoli elementi che lo
compongono una capacità di analisi delle situazioni, di iniziativa
politica e di forza dirigente che nel passato gli mancavano e che sono
la base della sua capacità di direzione collettiva. D'altronde tutto lo
svolgimento dei lavori condotti alla base per organizzare
ideologicamente e praticamente il Congresso nelle regioni e nelle
province dove la repressione poliziesca vigila con maggiore intensità
ogni movimento dei nostri compagni, e il fatto che si sia riusciti per
sette giorni a tenere uniti oltre sessanta compagni per il congresso
del partito, e quasi altrettanti per il congresso giovanile, sono di
per sé stessi una prova dello sviluppo più sopra accennato.
E'
evidente per tutti che tutto questo movimento di compagni e di
organizzazioni non è solamente un puro fatto organizzativo, ma
costituisce di per sé un'altissima manifestazione di valore politico.
Poche cifre in proposito. Sono state tenute nella prima fase della
preparazione congressuale dalle due alle tre mila riunioni di base che
hanno culminato in oltre un centinaio di congressi provinciali, ove
furono scelti, dopo ampie discussioni, i delegati al congresso.
Valore politico e risultati acquisiti
Ogni
operaio è in grado di apprezzare tutto il significato di queste poche
cifre che è possibile pubblicare, dopo cinque anni dall'epoca
dell'occupazione delle fabbriche e tre anni di governo fascista che ha
intensificato l'opera generale di controllo su ogni attività di massa e
ha realizzato un'organizzazione di polizia che è grandemente superiore
alle organizzazioni poliziesche precedentemente esistite.
Poiché
la maggiore debolezza dell'organizzazione operaia tradizionale si
manifestava essenzialmente nello squilibrio permanente e che diventava
catastrofico nei momenti culminanti dell'attività di massa, tra la
potenzialità dei quadri organizzativi di partito e la spinta spontanea
dal basso, è evidente che il nostro partito è riuscito, nonostante le
condizioni estremamente sfavorevoli dell'attuale periodo, a superare in
misura notevole questa debolezza e a predisporre forze organizzative
coordinate e centralizzate che assicurano la classe operaia contro gli
errori e le insufficienze che si verificavano nel passato. E' questo un
altro dei significati più importanti del nostro congresso: la classe
operaia è capace di azione e dimostra di essere storicamente in grado
di compiere la sua missione direttrice nella lotta anticapitalistica,
nella misura in cui riesce ad esprimere dal suo seno tutti gli elementi
tecnici che nella società moderna si dimostrano indispensabili per
l'organizzazione concreta delle istituzioni in cui si realizzerà il
programma proletario.
E da questo punto
di vista occorre analizzare tutta l'attività del movimento fascista dal
1921 fino alle ultime leggi fascistissime: essa è stata
sistematicamente rivolta a distruggere i quadri che il movimento
proletario e rivoluzionario aveva faticosamente elaborato in quasi
cinquant'anni di storia. In questo modo il fascismo riusciva nella
praticità immediata a privare la classe operaia della sua autonomia e
indipendenza politica e la costringeva o alla passività, cioè a una
subordinazione inerte all'apparato statale, oppure, nei momenti di
crisi politica, come nel periodo Matteotti, a ricercare quadri di lotta
in altre classi meno esposte alla repressione.
Il
nostro partito è rimasto il solo meccanismo che la classe operaia abbia
a sua disposizione per selezionare nuovi quadri dirigenti di classe,
cioè per riconquistare la sua indipendenza ed autonomia politica. Il
congresso ha dimostrato come il nostro partito sia riuscito
brillantemente a risolvere questo compito essenziale. Due erano gli
obiettivi fondamentali che dovevano essere raggiunti dal congresso:
1)
dopo le discussioni e i nuovi schieramenti di forze che si erano
verificati così come abbiamo detto precedentemente, occorreva unificare
il partito, sia nel terreno dei principi e della pratica di
organizzazione che nel terreno più strettamente politico;
2)
il congresso era chiamato a stabilire la linea politica del partito per
il prossimo avvenire e ad elaborare un programma di lavoro pratico in
tutti i campi di attività delle masse.
I
problemi che si ponevano per raggiungere concreti obiettivi non sono
naturalmente indipendenti l'uno dall'altro, ma sono coordinati nel
quadro della concezione generale del leninismo. La discussione del
congresso perciò, anche quando si svolgeva intorno agli aspetti tecnici
di ogni singola questione pratica, poneva la quistione generale
dell'accettazione o meno del leninismo. Il congresso doveva quindi
servire a mettere in evidenza in quale misura il nostro partito era
diventato un partito bolscevico.
Gli obiettivi fondamentali
Partendo
da un apprezzamento storico e politico immediato della funzione della
classe operaia nel nostro paese, il congresso dette una soluzione a
tutta una serie di problemi che possono raggrupparsi così:
1) Rapporti fra il Comitato centrale del partito e la massa del partito.
a)
In questo gruppo di problemi rientra la discussione generale sulla
natura del partito, sulla necessità che esso sia un partito di classe,
non solo astrattamente, cioè in quanto il programma accettato dai suoi
membri esprime le aspirazioni del proletariato, ma per così dire,
fisiologicamente, in quanto cioè la grande maggioranza dei suoi
componenti è formata di proletari e in esso si riflettono e si
riassumono solamente i bisogni e la ideologia di una sola classe: il
proletariato.
b) La subordinazione
completa di tutte le energie del partito in tal modo socialmente
unificato alla direzione del Comitato centrale. La lealtà di tutti gli
elementi del partito verso il Comitato centrale deve diventare non solo
un fatto puramente organizzativo e disciplinare, ma un vero principio
di etica rivoluzionaria.
Occorre
infondere nelle masse del partito una convinzione così radicata di
questa necessità, che le iniziative frazionistiche e ogni tentativo in
generale di disgregare la compagine del partito debbano trovare alla
base una reazione spontanea e immediata che le soffochi sul nascere.
L'autorità del Comitato centrale, tra un congresso e l'altro, non deve
mai essere posta in discussione, e il partito deve diventare un blocco
omogeneo. Solo a tale condizione il partito sarà in grado di vincere i
nemici di classe. Come potrebbe la massa dei senza-partito aver fiducia
che lo strumento di lotta rivoluzionaria, il partito, riesca a condurre
senza tentennamenti e senza oscillazioni la lotta implacabile per
conquistare e mantenere il potere, se la Centrale del partito non ha la
capacità e l'energia necessaria per eliminare tutte le debolezze che
possono incrinare la sua compattezza? I due punti precedenti sarebbero
di impossibile realizzazione se, nel partito, alla omogeneità sociale e
alla compattezza monolitica della organizzazione non si aggiungesse la
coscienza diffusa di una omogeneità ideologica e politica.
Concretamente
la linea che il partito deve seguire può essere espressa in questa
formula: il nucleo della organizzazione di partito consiste in un forte
Comitato centrale, strettamente collegato con la base proletaria del
partito stesso, sul terreno della ideologia e della tattica del
marxismo e del leninismo. Su questa serie di problemi la enorme
maggioranza del congresso si è nettamente pronunciata in senso
favorevole alle tesi del comitato centrale ed ha respinto non solo
senza la minima concessione, ma anzi insistendo sulla necessità della
intransigenza teorica e della inflessibiltà pratica, le concezioni
dell'opposizione che potrebbe mantenere il partito in uno stato di
deliquescenza e di amorfismo politico e sociale.
2)
Rapporti del partito con la classe proletaria (cioè la classe di cui il
partito è il diretto rappresentante, con la classe che ha il compito di
dirigere la lotta anticapitalistica e di organizzare la nuova
società).
In questo gruppo di problemi
rientra l'apprezzamento della funzione del proletariato nella società
italiana, cioè del grado di maturità di tale società a trasformarsi da
capitalista in socialista e quindi delle possibilità per il
proletariato di diventare classe indipendente e dominante. Il congresso
ha perciò discusso: a) la quistione sindacale, che per noi è
essenzialmente quistione della organizzazione delle più larghe masse,
come classe a sé stante, sulla base degli interessi economici
immediati, e come terreno di educazione politica rivoluzionaria; b) la
quistione del fronte unico, cioè dei rapporti di direzione politica fra
la parte più avanzata del proletariato e le frazioni meno avanzate di
esso.
3) Rapporti della classe proletaria
nel suo complesso con le altre forze sociali che oggettivamente sono
sul terreno anticapitalistico, quantunque siano dirette da partiti e
gruppi politici legati alla borghesia; quindi in primo luogo i rapporti
fra il proletariato e i contadini.
Anche
su tutta quest'altra serie di problemi la enorme maggioranza del
congresso respinse le concezioni errate dell'opposizione e si schierò
in favore delle soluzioni date dal Comitato centrale.
Come si sono schierate le forze del congresso
Accennammo
già all'atteggiamento che la stragrande maggioranza del congresso ha
assunto nei riguardi delle soluzioni da dare ai problemi essenziali nel
periodo attuale. E' opportuno però analizzare più dettagliatamente
l'atteggiamento assunto dall'opposizione e accennare, sia pure
brevemente, ad altri atteggiamenti che si sono presentati al congresso
come atteggiamenti individuali, ma che potrebbero nell'avvenire
coincidere con determinati momenti transitori nello sviluppo della
situazione italiana, e che perciò devono essere fin da ora denunziati e
combattuti.
Abbiamo già accennato nei
primi paragrafi di questa esposizione ai modi e alle forme che hanno
caratterizzato la crisi di sviluppo del nostro partito negli anni dal
1921 al 1924. Ricorderemo brevemente come al V Congresso mondiale la
crisi stessa trovasse una soluzione provvisoria organizzativa con la
costituzione di un Comitato centrale che nel suo complesso si poneva
completamente sul terreno del leninismo e della tattica
dell'Internazionale comunista, ma che si scomponeva in tre parti, di
cui, una, che aveva la maggioranza più uno del comitato stesso,
rappresentava gli elementi terzini, entrati nel partito dopo la
fusione.
Nonostante le sue intrinseche
debolezze, tuttavia per il fatto che la funzione dirigente nel suo seno
era nettamente esercitata dal cosiddetto gruppo di centro, cioè dagli
elementi di sinistra staccatisi dal gruppo dirigente di Livorno, il
Comitato centrale riuscì ad impostare e a risolvere energicamente il
problema della bolscevizzazione del partito e del suo accordo completo
con le direttive dell'Internazionale comunista.
Atteggiamenti dell'estrema sinistra
Certamente
vi furono delle resistenze, e l'episodio culminante di esse, che tutti
i compagni ricordano, fu la costituzione del Comitato d'intesa, cioè
del tentativo di costituire una frazione organizzata che si
contrapponesse al Comitato centrale nella direzione del partito. In
realtà la costituzione del Comitato d'intesa fu il sintomo più
rilevante della disgregazione dell'estrema sinistra, la quale, poiché
sentiva di perdere progressivamente terreno nelle file del partito,
cercò di galvanizzare con un atto clamoroso di ribellione le poche
forze che ancora le rimanevano.
E'
notevole il fatto che dopo la sconfitta ideologica e politica subita
dall'estrema sinistra già nel periodo precongressuale, il nucleo di
essa più resistente sia andato assumendo posizioni sempre più settarie
e di ostilità verso il partito dal quale si sentiva ogni giorno più
lontano e staccato. Questi compagni non solo continuarono a mantenersi
sul terreno della più strenua opposizione su determinati punti concreti
della ideologia e della politica del partito e dell'Internazionale, ma
cercarono sistematicamente motivi di opposizione su tutti i punti, in
modo da presentarsi in blocco quasi come un partito nel partito.
E'
facile immaginare che, partendo da una tale posizione, si dovesse
arrivare, durante lo svolgimento del congresso, ad atteggiamenti
teorici e pratici, nei quali la drammaticità che era un riflesso della
situazione generale in cui il partito deve muoversi, difficilmente era
distinguibile da un certo istrionismo, che appariva di maniera a chi
realmente aveva lottato e si era sacrificato per la classe proletaria.
In quest'ordine di avvenimenti dev'essere
posta, ad esempio, la pregiudiziale presentata dall'opposizione, subito
alla apertura del congresso, con la quale la validità deliberativa di
esso veniva contestata, cercandosi in tal modo di precostituire un
alibi per una possibile ripresa di attività frazionistica e per un
possibile misconoscimento dell'autorità della nuova dirigenza del
partito.
Alla massa dei congressisti, che
conoscevano quali sacrifici e quali sforzi organizzativi fosse costata
la preparazione del congresso, questa pregiudiziale apparve una vera e
propria provocazione e non è senza significato che gli unici applausi
(il regolamento del congresso proibiva per ragioni comprensibili ogni
manifestazione clamorosa di consenso o di biasimo) furono rivolti
all'oratore che stigmatizzò l'atteggiamento assunto dall'opposizione e
sostenne la necessità di rafforzare dimostrativamente il nuovo comitato
da eleggersi con mandato specifico di implacabile rigore contro
qualsiasi iniziativa che praticamente mettesse in dubbio l'autorità del
congresso e l'efficienza delle sue deliberazioni.
Affioramento di deviazioni di destra
Allo
stesso ordine di avvenimenti, e in modo aggravato per la forma
manierata e teatrale, appartiene anche l'atteggiamento assunto
dall'opposizione, prima della fine del congresso, quando si stavano per
trarre le conclusioni politico-organizzative dei lavori del congresso
stesso. Ma gli stessi elementi dell'opposizione poterono avere la netta
dimostrazione di quello che è lo stato d'animo diffuso nelle file del
partito: il partito non intende permettere che si giochi più a lungo al
frazionismo e all'indisciplina; il partito vuole realizzare il massimo
di direzione collettiva e non permetterà a nessun singolo, qualunque
sia il suo valore personale, di contrapporsi al partito.
Nelle
sedute plenarie del congresso l'opposizione di estrema sinistra è stata
la sola opposizione ufficiale e dichiarata. L'atteggiamento di
opposizione sulla quistione sindacale assunto da due membri del vecchio
Comitato centrale per il suo carattere di improvvisazione e di
impulsività, è da considerarsi piuttosto come un fenomeno individuale
di isterismo politico, che di opposizione in senso sistematico.
Durante
i lavori della commissione politica invece ci fu una manifestazione
che, se può ritenersi per adesso di carattere puramente individuale
deve essere considerata, dati gli elementi ideologici che ne formavano
la base, come una vera e propria piattaforma di destra, che potrebbe
essere presentata al partito in una situazione determinata, e che
perciò doveva essere, come fu, respinta senza esitazione, dato
specialmente che di essa si era fatto portavoce un membro del vecchio
Comitato centrale.
Questi elementi ideologici sono:
1) l'affermazione che il governo operaio e contadino può costituirsi sulla base del parlamento borghese;
2)
l'affermazione che la socialdemocrazia non deve essere ritenuta come
l'ala sinistra della borghesia, ma come l'ala destra del proletariato;
3) che nella valutazione dello Stato
borghese occorre distinguere la funzione di oppressione di una classe
sull'altra dalla funzione di produzione di determinate soddisfazioni a
certe esigenze generali della società.
Il
primo e il secondo di tali elementi sono contrari alle decisioni del
III Congresso: il terzo è fuori dalla concezione marxista dello Stato.
Tutti i tre insieme rivelano un orientamento a concepire la soluzione
della crisi della società borghese all'infuori della rivoluzione.
La linea politica fissata dal partito
Poiché così si schierarono le forze rappresentate al Congresso, cioè
come una più rigida opposizione dei residui dell' "estremismo" contro
le posizioni teoriche e pratiche della maggioranza del partito,
accenneremo rapidamente solo ad alcuni punti della linea stabilita dal
congresso.
Quistione
ideologica.Su tale quistione il congresso affermò la necessità che sia
sviluppato dal partito tutto un lavoro di educazione che rafforzi la
conoscenza della nostra dottrina marxista nelle file del partito e
sviluppi la capacità del più largo strato dirigente. Su questo punto
l'opposizione cercò di fare un'abile diversione: riesumò alcuni vecchi
articoli e brani di articoli di compagni della maggioranza del partito
per sostenere che essi solo relativamente tardi hanno accettato
integralmente la concezione del materialismo storico quale risulta
dalle opere di Marx e di Engels, e sostenevano invece la
interpretazione che del materialismo storico era data da Benedetto
Croce. Poiché è noto che anche le tesi di Roma sono state giudicate
come essenzialmente ispirate dalla filosofia crociana, questa
argomentazione dell'opposizione apparve come ispirata a pura demagogia
congressuale.
In ogni caso, poiché la
quistione non è di individui singoli, ma di masse, la linea stabilita
dal congresso, della necessità di un lavoro specifico di educazione per
elevare il livello della cultura generale marxista del partito, riduce
la polemica dell'opposizione a una esercitazione erudita di ricerca di
elementi biografici più o meno interessanti sullo sviluppo
intellettuale di singoli compagni.
Tattica
del partito. Il congresso ha approvato e ha difeso energicamente contro
gli attacchi dell'opposizione la tattica seguita dal partito
nell'ultimo periodo della storia italiana caratterizzato dalla crisi
Matteotti. Occorre dire che l'opposizione non ha cercato di
contrapporre all'analisi che della situazione italiana è stata fatta
dalla Centrale nelle tesi per il congresso né un'altra analisi che
portasse a stabilire una linea tattica diversa, né delle correzioni
parziali che giustificassero una posizione di principio.
E'
stato caratteristico anzi della falsa posizione della estrema sinistra
il fatto che mai le sue osservazioni e le sue critiche si siano basate
su un esame né approfondito e neanche superficiale dei rapporti di
forza e delle condizioni generali esistenti nella società italiana.
Risultò così chiaramente come il metodo proprio dell'estrema sinistra,
e che l'estrema sinistra dice essere dialettico, non è il metodo della
dialettica materialistica proprio di Marx, ma il vecchio metodo della
dialettica concettuale proprio della filosofia premarxista e persino
prehegeliana.
All'analisi oggettiva delle
forze in lotta e della direzione che esse assumono contraddittoriamente
in rapporto allo sviluppo delle forze materiali della società,
l'opposizione sostituiva la affermazione di essere in possesso di uno
speciale e misterioso "fiuto" secondo il quale il partito dovrebbe
essere diretto. Strana aberrazione che autorizzava il congresso a
giudicare estremamente pericoloso e deleterio per il partito un tale
metodo che porterebbe solo a una politica di improvvisazione e di
avventure.
Che d'altronde l'opposizione
non abbia mai posseduto un proprio metodo capace di sviluppare le forze
del partito e le energie rivoluzionarie del proletariato che possa
essere contrapposto al metodo marxista-leninista, è dimostrato
dall'attività svolta dal partito negli anni 1921-22, quando era
politicamente diretto da alcuni degli attuali irriducibili oppositori.
A questo proposito furono dal congresso
analizzati due momenti della situazione italiana, e cioè
l'atteggiamento assunto dalla direzione del partito nel febbraio 1921,
quando fu sferrata l'offensiva frontale dal fascismo in Toscana e in
Puglia, e l'atteggiamento della stessa direzione verso il movimento
degli arditi del popolo. Dall'analisi di questi due momenti risultò
come il metodo affermato dall'opposizione porti solo alla passività e
alla inazione e consista in ultima analisi semplicemente nel trarre
dagli avvenimenti ormai svoltisi senza l'intervento del partito nel suo
complesso, degli insegnamenti di solo carattere pedagogico e
propagandistico.
La quistione sindacale
Nel
campo sindacale il difficile compito del partito consiste nel trovare
un giusto accordo fra queste due linee di attività pratica:
1)
difendere i sindacati di classe cercando di mantenere il massimo di
coesione e di organizzazione sindacale fra le masse che
tradizionalmente hanno partecipato all'organizzazione sindacale stessa.
E' questo un compito di eccezionale importanza, perché il partito
rivoluzionario deve sempre, anche nelle peggiori situazioni oggettive,
tendere a conservare tutte le accumulazioni di esperienza e di capacità
tecnica e politica che si sono venute formando attraverso gli sviluppi
della storia passata nella massa proletaria. Per il nostro partito la
Confederazione generale del lavoro costituisce in Italia
l'organizzazione che storicamente esprime in modo più organico queste
accumulazioni di esperienza e di capacità e rappresenta quindi il
terreno entro il quale deve essere condotta questa difesa.
2)
Tenendo conto del fatto che l'attuale dispersione delle grandi masse
lavoratrici è dovuta essenzialmente a motivi che non sono interni della
classe operaia, per cui esistono possibilità organizzative immediate di
carattere strettamente non sindacale, il partito deve proporsi di
favorire e promuovere attivamente queste possibilità. Questo compito
può essere adempiuto solo se il lavoro organizzativo di massa viene
trasportato dal terreno corporativo nel terreno industriale di fabbrica
e i legami dell'organizzazione di massa diventano elettivi e
rappresentativi, oltre che di adesione individuale per via di tessera
sindacale.
E'
chiaro d'altronde che questa tattica del partito corrisponde allo
sviluppo normale dell'organizzazione di massa proletaria, quale si era
verificata durante e dopo la guerra, cioè nel periodo in cui il
proletariato ha incominciato a porsi il problema di una lotta a fondo
contro la borghesia per la conquista del potere. In questo periodo la
tradizionale forma organizzativa del sindacato di mestiere era stata
integrata da tutto un sistema di rappresentanze elettive di fabbrica,
cioè dalle commissioni interne.
E' noto
anche che, specialmente durante la guerra, quando le centrali sindacali
aderirono ai comitati di mobilitazione industriale e determinarono
quindi una situazione di "pace industriale" per alcuni aspetti analoga
a quella presente, le masse operaie di tutti i paesi (Italia, Francia,
Russia, Inghilterra e anche Stati Uniti) ritrovarono le vie della
resistenza e della lotta sotto la guida delle rappresentanze elettive
operaie di fabbrica.
La tattica sindacale
del partito consiste essenzialmente nello sviluppare tutta l'esperienza
organizzativa delle grandi masse premendo sulle possibilità di
immediata realizzazione, considerate le difficoltà oggettive che sono
state create al movimento sindacale dal regime borghese da una parte e
dal riformismo confederale dall'altra. Questa linea è stata approvata
integralmente dalla stragrande maggioranza del congresso. Intorno ad
essa tuttavia avvennero le discussioni più appassionate, e
l'opposizione fu rappresentata, oltre che dall'estrema sinistra, anche
da due membri della Centrale, così come abbiamo già accennato. Un
oratore sostenne che il sindacato è storicamente superato, perché unica
azione di massa del partito deve essere quella che si svolge nelle
fabbriche. Questa tesi, legata alle più assurde posizioni
dell'infantilismo estremista, fu nettamente ed energicamente respinta
dal congresso.
Per un altro oratore
invece l'unica attività del partito in questo campo deve essere
l'attività organizzativa sindacale tradizionale: Questa tesi è legata
strettamente ad una concezione di destra, cioè alla volontà di non
urtare troppo gravemente con la burocrazia sindacale riformista che si
oppone strenuamente ad ogni organizzazione di massa.
L'opposizione
dell'estrema sinistra era guidata da due direttive fondamentali: la
prima, di carattere essenzialmente congressuale, tendeva alla
dimostrazione che la tattica delle organizzazioni di fabbrica,
sostenuta dal Comitato centrale e dalla maggioranza del congresso, è
legata alla concezione dell' "Ordine Nuovo" settimanale che, secondo
l'estrema sinistra, era proudhoniana e non marxista; l'altra è legata
alla quistione di principio in cui l'estrema sinistra si contrappone
nettamente al leninismo: il leninismo sostiene che il partito guida la
classe attraverso le organizzazioni di massa e sostiene quindi come uno
dei compiti essenziali del partito lo sviluppo dell'organizzazione di
massa; per l'estrema sinistra invece questo problema non esiste, e si
danno al partito tali funzioni che possono portare da una parte alle
peggiori catastrofi e dall'altra ai più pericolosi avventurismi.
Il
Congresso ha rigettato tutte queste deformazioni della tattica
sindacale comunista, pur ritenendo necessario insistere con particolare
energia sulla necessità di una maggiore e più attiva partecipazione dei
comunisti al lavoro di organizzazione sindacale tradizionale.
La quistione agraria
Il
partito ha cercato, per ciò che riguarda la sua azione tra i contadini,
di uscire dalla sfera della semplice propaganda ideologica tendente a
diffondere solo astrattamente i termini generali della soluzione
leninista del problema stesso, per entrare nel terreno pratico
dell'organizzazione e dell'azione politica reale. E' evidente che ciò
era più facile da ottenersi in Italia che negli altri paesi perché nel
nostro paese il processo di differenziazione delle grandi masse della
popolazione è per certi aspetti più avanzato che altrove, in
conseguenza della situazione politica attuale.
D'altronde
una tale quistione, dato che il proletariato industriale è da noi solo
una minoranza della popolazione lavoratrice, si pone con maggiore
intensità che altrove. Il problema di quali siano le forze motrici
della rivoluzione e quello della funzione direttiva del proletariato si
presentano in Italia in forme tali da domandare una particolare
attenzione del nostro partito e la ricerca di soluzioni concrete ai
problemi generali che si riassumono nell'espressione: quistione
agraria.
La grande maggioranza del
congresso ha approvato l'impostazione che il partito ha dato a questi
problemi e ha affermato la necessità di una intensificazione del lavoro
secondo la linea generale già parzialmente applicata. In che cosa
consiste praticamente questa attività? Il partito deve tendere a creare
in ogni regione delle unioni regionali dell'Associazione di difesa dei
contadini: ma, entro questi quadri organizzativi più larghi, occorre
distinguere quattro raggruppamenti fondamentali delle masse contadine,
per ognuno dei quali è necessario trovare atteggiamenti e soluzioni
politiche ben precise e complete.
Uno di
questi raggruppamenti è costituito dalle masse dei contadini slavi
dell'Istria e del Friuli, la cui organizzazione è legata strettamente
alla quistione nazionale. Un secondo è costituito dal particolare
movimento contadino che si riassume sotto il titolo di "Partito dei
contadini" e che ha la sua base specialmente nel Piemonte; per questo
raggruppamento, di carattere aconfessionale e di carattere più
strettamente economico, vale l'applicazione dei termini generali della
tattica agraria del leninismo, dato anche il fatto che tale
raggruppamento esiste nella regione in cui esiste uno dei centri
proletari più efficienti in Italia.
I due
altri raggruppamenti sono di gran lunga i più considerevoli e sono
quelli che domandano la maggiore attenzione del partito, e cioè:
1)
la massa dei contadini cattolici, raggruppati nell'Italia centrale e
settentrionale, i quali sono direttamente organizzati dall'azione
cattolica e dall'apparato ecclesiastico in generale, cioè dal
Vaticano;
2) la massa dei contadini dell'Italia meridionale e delle isole.
Per
ciò che riguarda i contadini cattolici, il congresso ha deciso che il
partito deve continuare e deve sviluppare la linea che consiste nel
favorire le formazioni di sinistra che si verificano in questo campo e
che sono strettamente collegate alla crisi generale agraria iniziatasi
già prima della guerra nel centro e nel nord d'Italia. Il Congresso ha
affermato che l'atteggiamento assunto dal partito verso i contadini
cattolici, sebbene contenga in sé alcuni degli elementi essenziali per
la soluzione del problema politico-religioso italiano, non deve in
nessun modo condurre a favorire i tentativi, che possono nascere, di
movimenti ideologici di natura strettamente religiosa. Il compito del
partito consiste nello spiegare i conflitti che nascono sul terreno
della religione come derivanti dai conflitti di classe e nel tendere a
mettere sempre in maggior rilievo i caratteri di classe di questi
conflitti e non, viceversa, nel favorire soluzioni religiose dei
conflitti di classe, anche se tali soluzioni si presentano come di
sinistra in quanto mettono in discussione l'autorità
dell'organizzazione ufficiale religiosa.
La
quistione dei contadini meridionali è stata esaminata dal congresso con
particolare attenzione. Il congresso ha riconosciuto esatta
l'affermazione contenuta nelle tesi della Centrale, secondo la quale la
funzione della massa contadina meridionale nello svolgimento della
lotta anticapitalistica italiana deve essere esaminata a sé e portare
alla conclusione che i contadini meridionali sono, dopo il proletariato
industriale e agricolo dell'Italia del nord, l'elemento sociale più
rivoluzionario della società italiana.
Quale
è la base materiale e politica di questa funzione delle masse contadine
del sud? I rapporti che intercorrono tra il capitalismo italiano e i
contadini meridionali non consistono solamente nei normali rapporti
storici tra città e campagna, quali sono stati creati dallo sviluppo
del capitalismo in tutti i paesi del mondo; nel quadro della società
nazionale questi rapporti sono aggravati e radicalizzati dal fatto che
economicamente e politicamente tutta la zona meridionale e delle isole
funziona come una immensa campagna di fronte all'Italia del Nord, che
funziona come una immensa città.
Una tale
situazione determina nell'Italia meridionale il formarsi e lo
svilupparsi di determinati aspetti di una quistione nazionale, se pure
immediatamente essi non assumano una forma esplicita di tale quistione
nel suo complesso, ma solo di una vivacissima lotta a carattere
regionalistico e di profonde correnti verso il decentramento e le
autonomie locali.
Ciò che rende
caratteristica la situazione dei contadini meridionali è il fatto che
essi, a differenza dei tre raggruppamenti precedentemente descritti,
non hanno nel loro complesso nessuna esperienza organizzativa autonoma.
Essi sono inquadrati negli schemi tradizionali della società borghese,
per cui gli agrari, parte integrante del blocco agrario-capitalistico,
controllano le masse contadine e le dirigono secondo i loro scopi.
In
conseguenza della guerra e delle agitazioni operaie del dopoguerra che
avevano profondamente indebolito l'apparato statale e quasi distrutto
il prestigio sociale delle classi superiori nominate, le masse
contadine del Mezzogiorno si sono risvegliate alla vita propria e
faticosamente hanno cercato un proprio inquadramento. Così si sono
avuti movimenti degli ex combattenti e i vari partiti cosiddetti di
"rinnovamento" che cercavano di sfruttare questo risveglio della massa
contadina, qualche volta secondandolo come nel periodo dell'occupazione
delle terre, più spesso cercando di deviarlo e quindi consolidarlo in
una posizione di lotta per la cosiddetta democrazia, come è ultimamente
avvenuto con la costituzione della "Unione nazionale".
Gli
ultimi avvenimenti della vita italiana che hanno determinato un
passaggio in massa della piccola borghesia meridionale al fascismo,
hanno resa più acuta la necessità di dare ai contadini meridionali una
direzione propria per sottrarsi definitivamente all'influenza borghese
agraria.
Il solo organizzatore possibile
della massa contadina meridionale è l'operaio industriale,
rappresentato dal nostro partito. Ma perché questo lavoro di
organizzazione sia possibile ed efficace occorre che il nostro partito
distrugga nell'operaio industriale il pregiudizio inculcatogli dalla
propaganda borghese che il Mezzogiorno sia una palla di piombo che si
oppone ai più grandi sviluppi dell'economia nazionale e distrugga nel
contadino meridionale il pregiudizio ancora più pericoloso per cui egli
vede nel nord d'Italia un solo blocco di nemici di classe.
Per
ottenere questi risultati occorre che il nostro partito svolga
un'intensa opera di propaganda anche nell'interno della sua
organizzazione per dare a tutti i compagni una coscienza esatta dei
termini della quistione, la quale, se non sarà risolta in modo
chiaroveggente e rivoluzionariamente saggio per noi, renderà possibile
alla borghesia, sconfitta nella sua zona, di concentrarsi nel sud per
fare di questa parte d'Italia la piazza d'armi della sua
controrivoluzione.
Su tutta questa serie
di problemi, l'opposizione di estrema sinistra non riuscì a dire che
delle barzellette e dei luoghi comuni. La sua posizione essenziale fu
quella di negare aprioristicamente che questi problemi concreti
esistono in sé, senza nessuna analisi o dimostrazione neanche
potenziale. Si può dire anzi che appunto nei riguardi della quistione
agraria, apparve la vera essenza della concezione dell'estrema
sinistra, la quale consiste in una specie di corporativismo che aspetta
meccanicamente dal solo sviluppo delle condizioni obiettive generali la
realizzazione dei fini rivoluzionari. Tale concezione fu, come abbiamo
detto, nettamente rigettata dalla stragrande maggioranza del congresso.
Altri problemi trattati
Il
congresso, dato il modo della sua riunione e gli obiettivi che si
proponeva, i quali riguardavano specialmente l'organizzazione interna
del partito ed il risanamento della crisi, senza discussione ratificò
le deliberazioni della recente Conferenza di organizzazione, già
pubblicate nell' "Unità".
Per quanto
riguarda la quistione dell'organizzazione concreta del partito
nell'attuale periodo, il congresso non poté trattare ampiamente alcune
quistioni che pure sono essenziali per un partito proletario
rivoluzionario. Così solo nelle tesi fu esaminata la situazione
internazionale in rapporto alla linea politica dell'Internazionale
comunista.
Nella discussione del
congresso tale argomento fu solo sfiorato, e dei problemi
internazionali si trattò solo la parte riguardante le forme e i
rapporti di organizzazione del Comintern, poiché era questo un elemento
della crisi interna del partito.
Il
congresso però ebbe una larghissima ed esauriente relazione sui lavori
del recente congresso del partito russo e sul significato delle
discussioni in esso svoltesi. Così il congresso non si occupò del
problema dell'organizzazione nel campo femminile, né
dell'organizzazione della stampa, argomenti essenziali per il nostro
movimento e che avrebbero meritato una trattazione speciale.
Anche
la quistione della redazione del programma del partito che era stata
posta all'ordine del giorno non fu trattata dal congresso. Pensiamo sia
necessario rimediare a queste manchevolezze con conferenze di partito,
appositamente convocate a tale scopo.
Conclusione
Nonostante
queste parziali deficienze, si può affermare, concludendo, che la massa
di lavoro svolta dal congresso sia stata veramente imponente. Il
Congresso ha elaborato una serie di risoluzioni e un programma di
lavoro concreto tali da mettere in grado la classe proletaria di
sviluppare le sue energie e la sua capacità di direzione politica
nell'attuale situazione.
Una condizione è
specialmente necessaria perché le risoluzioni del congresso non solo
siano applicate, ma diano tutti i frutti che esse possono dare: occorre
che il partito si mantenga strettamente unito, che nessun germe di
disgregazione, di pessimismo, di passività sia lasciato sviluppare nel
suo seno. Tutti i compagni del partito sono chiamati a realizzare una
tale condizione. Nessuno può mettere in dubbio che ciò sarà fatto con
la più grande delusione di tutti i nemici della classe operaia.