Antonio Gramsci

Articoli giornalistici


Indice

I giornali e gli operai
“Avanti!” , 22 dicembre 1916

Carattere
"Il Grido del Popolo", 3 marzo 1917

Un anno di storia
"Il Grido del Popolo", 16 marzo 1918

Bilanci rossi
“Avanti!”, 4 aprile 1919

La taglia della storia
"L'Ordine Nuovo", 7 giugno 1919

Democrazia operaia
“L’Ordine Nuovo", 21 giugno 1919

La conquista dello stato
"L'Ordine Nuovo", 12 luglio 1919

Lo sviluppo della rivoluzione
"L'Ordine Nuovo", 13 settembre 1919

Ai Commissari di reparto delle Officine Fiat Centro e Brevetti
"L'Ordine Nuovo", 13 settembre 1919

Sindacati e consigli (I)
"L'Ordine Nuovo", 11 ottobre 1919

I sindacati e la dittatura
 "L’Ordine Nuovo", 25 ottobre 1919

La piccola borghesia
Sugli avvenimenti del 2-3 dicembre 1919
"L'Ordine Nuovo", 6-13 dicembre 1919

Operai e contadini
"L'Ordine Nuovo", 3 gennaio 1920

Lo strumento di lavoro
"L'Ordine Nuovo", 14 febbraio 1920

Per un rinnovamento del Partito socialista
"L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1920

Sindacati e consigli (II)
"L'Ordine Nuovo", 12 giugno 1920

Il Partito comunista
"L'Ordine Nuovo", 9 ottobre 1920

Scissione o sfacelo?
"L'Ordine Nuovo", 11-18 dicembre 1920

Il popolo delle scimmie
"L'Ordine Nuovo", 2 gennaio 1921

Un monito
"L'Ordine Nuovo", 15 gennaio 1921

La guerra è la guerra
"L'Ordine Nuovo", 31 gennaio 1921

La Confederazione Generale del Lavoro
"L'Ordine Nuovo", 25 febbraio 1921

Il movimento torinese dei Consigli di Fabbrica
"L'Ordine Nuovo", 14 marzo 1921

Uomini in carne e ossa
"L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1921

Fuori della realtà
"L'Ordine Nuovo", 17 giugno 1921

Gli Arditi del Popolo
"L'Ordine Nuovo", 15 luglio 1921

Il carnefice e la vittima
"L'Ordine Nuovo", 17 luglio 1921

Illusioni
"L'Ordine Nuovo", 8 agosto 1921

La smorfia di Gwynplaine
"L'Ordine Nuovo", 30 agosto 1921

La tattica del fallimento
"L'Ordine Nuovo", 22 settembre 1921

Insegnamenti
"L'Ordine Nuovo", 5 maggio 1922

Lettere da Vienna
gennaio-aprile 1924

Contro il pessimismo
"L'Ordine Nuovo", 15 marzo 1924

Conferenza di Como
"Lo Stato operaio", 29 maggio 1924

Il destino di Matteotti
"Lo Stato operaio", 28 agosto 1924

Né fascismo né liberalismo: soviettismo!
"L'Unità", 7 ottobre 1924

Il partito del proletariato
"L' Ordine Nuovo", 1° novembre 1924

Per una preparazione ideologica di massa
"La Sezione di agitprop del PC",
aprile-maggio 1925

Il Partito combatterà con energia ogni ritorno alle concezioni organizzative della socialdemocrazia
"L'Unità", 7 giugno 1925

Dopo lo scioglimento del "Comitato d'intesa"
L'Unità", 18 giugno 1925

La volontà delle masse
"L'Unità", 24 giugno 1925

Volontà delle masse e volontà dei capi opportunisti
"L'Unità", 26 giugno 1925

Massimalismo ed estremismo
"L'Unità", 2 luglio 1925

La situazione interna del nostro partito ed i compiti del prossimo Congresso
(Relazione al C.C. dell'11-12 maggio 1925)
"L'Unità", 3 luglio 1925

Il Partito si rafforza combattendo le deviazioni antileniniste
"L'Unità", 5 luglio 1925

Opinioni nelle file del partito
"L'Unità", 21 luglio 1925

 L'organizzazione per cellule e il II Congresso mondiale
"L'Unità", 28 luglio 1925

L'organizzazione base del partito
"L'Unità", 15 agosto 1925

 Critica sterile e negativa
"L'Unità", 30 settembre 1925

Contro lo scissionismo frazionistico per l'unità ferrea del partito
(Interventi pubblicati sotto il titolo di una rubrica dell' "Unità" dedicata alla lotta nel Partito)
"L'Unità", 15 ottobre 1925

Sull'operato del Comitato centrale del partito
"L'Unità", 20 dicembre 1925

Intervento nella Commissione politica
Intervento dal verbale di riunione
"L'Unità", 24 febbraio 1926

Tesi del III Congresso del Partito comunista d'Italia
Lione, gennaio 1926

 Cinque anni di vita del partito
Resoconto dei lavori del III Congresso
"L'Unità", 24 febbraio 1926


I giornali e gli operai

Pubblicato sull'Avanti il 22 dicembre 1916

La lotta di classe internazionale è culminata nella vittoria degli operai e contadini di due proletariati internazionali. In Russia e in Ungheria gli operai e i contadini hanno instaurato la dittatura proletaria e tanto in Russia che in Ungheria la dittatura dovette sostenere un’aspra battaglia non solo contro la classe borghese, ma anche contro i sindacati: il conflitto tra la dittatura e i sindacati fu anzi una delle cause della caduta del Soviet ungherese, poiché i sindacati, se mai apertamente tentarono di rovesciare la dittatura, operarono sempre come organismi "disfattisti" della rivoluzione e incessantemente seminarono lo sconforto e la vigliaccheria tra gli operai e i soldati rossi.

Un esame anche rapido, delle ragioni e delle condizioni di questo conflitto non può non essere utile all’educazione rivoluzionaria delle masse, le quali, se devono convincersi che il sindacato è forse l’organismo proletario più importante della rivoluzione comunista, perché su di esso deve fondarsi la socializzazione dell’industria, perché esso deve creare le condizioni in cui l’impresa privata sparisce e non può più rinascere, devono anche convincersi della necessità di creare, prima della rivoluzione, le condizioni psicologiche e obiettive nelle quali sia impossibile ogni conflitto e ogni dualismo di potere tra i vari organismi in cui si incarni la lotta della classe proletaria contro il capitalismo.

La lotta di classe ha assunto in tutti i paesi d’Europa e del mondo un carattere nettamente rivoluzionario. La concezione, che è propria della III Internazionale, secondo la quale la lotta di classe deve essere rivolta all’instaurazione della dittatura proletaria, ha il sopravvento sulla ideologia democratica e si diffonde irresistibilmente nelle masse. I Partiti socialisti aderiscono alla III Internazionale o almeno si atteggiano secondo i principi fondamentali elaborati al Congresso di Mosca; i sindacati invece sono rimasti fedeli alla "vera democrazia" e non trascurano nessuna occasione per indurre o costringere gli operai a dichiararsi avversari della dittatura e non attuare manifestazioni di solidarietà con la Russia dei Soviet.

Questo atteggiamento dei sindacati fu rapidamente superato in Russia, poiché allo sviluppo delle organizzazioni di mestiere e d’industria si accompagnò parallelamente e con ritmo più accelerato lo sviluppo dei Consigli d’officina; esso ha invece eroso la base del potere proletario in Ungheria, ha determinato in Germania immani carneficine di operai comunisti e la nascita del fenomeno Noske, ha determinato in Francia il fallimento dello sciopero generale del 20-21 luglio e il consolidarsi del regime di Clemenceau, ha impedito finora ogni intervento diretto degli operai inglesi nella lotta politica e minaccia di scindere profondamente e pericolosamente le forze proletarie in tutti i paesi.

I Partiti Socialisti acquistano sempre più un profilo nettamente rivoluzionario e internazionalista; i sindacati invece tendono a incarnare la teoria (!) e la tattica dell’opportunismo riformista e a diventare organismi meramente nazionali. Ne nasce uno stato di cose insostenibile, una condizione di confusione permanente e di debolezza cronica per la classe lavoratrice, che aumentano lo squilibrio generale della società e favoriscono il pullulare dei fermenti di disgregazione morale e di imbarbarimento.

I sindacati hanno organizzato gli operai secondo i principi della lotta di classe e sono stati essi stessi le prime forme organiche di questa lotta. Gli organizzatori hanno sempre detto che solo la lotta di classe può condurre il proletariato alla sua emancipazione e che l’organizzazione sindacale ha precisamente il fine di sopprimere il profitto individuale e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, poiché essa si propone di eliminare il capitalista (il proprietario privato) dal processo industriale di produzione e di eliminare quindi le classi. Ma i sindacati non potevano attuare immediatamente questo fine e pertanto essi rivolsero tutta la loro forza al fine immediato di migliorare le condizioni di vita del proletariato, domandando più alti salari, diminuiti orari di lavoro, un corpo di legislazione sociale. I movimenti successero ai movimenti, gli scioperi agli scioperi, la condizione di vita dei lavoratori divenne relativamente migliore.

Ma tutti i risultati, tutte le vittorie dell’azione sindacale si fondano sulle basi antiche: il principio della proprietà privata resta intatto e forte, l’ordine della produzione capitalistica e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo restano intatti e anzi si complicano in forme nuove. La giornata di otto ore, l’aumento del salario, i benefici della legislazione sociale non toccano il profitto; gli squilibri che immediatamente l’azione sindacale determina nel saggio del profitto si compongono e trovano una sistemazione nuova nel gioco della libera concorrenza per le nazioni a economia mondiale come l’Inghilterra e la Germania, nel protezionismo per le nazioni a economia limitata come la Francia e l’Italia. Il capitalismo cioè riversa o sulle masse amorfe nazionali o sulle masse coloniali le accresciute spese generali della produzione industriale.

L’azione sindacale si rivela così assolutamente incapace a superare nel suo dominio e con i suoi mezzi, la società capitalista, si rivela incapace a condurre il proletariato alla sua emancipazione, a condurre il proletariato all’attuazione del fine alto e universale che si era inizialmente proposto. Secondo le dottrine sindacaliste, i sindacati avrebbero dovuto servire a educare gli operai alla gestione della produzione. Poiché i sindacati di industria, si disse, sono un riflesso integrale di una determinata industria, essi diventeranno i quadri della competenza operaia per la gestione di quella determinata industria; le cariche sindacali serviranno a rendere possibile una scelta degli operai migliori, dei più studiosi, dei più intelligenti, dei più atti a impadronirsi del complesso meccanismo della produzione e degli scambi. I leaders operai dell’industria del cuoio saranno i più capaci a gestire questa industria, e così per l’industria metallurgica, per l’industria del libro, ecc. Illusione colossale.

La scelta dei leaders sindacali non avvenne mai per criteri di competenza industriale, ma di competenza meramente giuridica, burocratica o demagogica. E quanto più le organizzazioni andarono ingrandendosi, quanto più frequente fu il loro intervento nella lotta di classe, quanto più diffusa e profonda la loro azione, e tanto più divenne necessario ridurre l’ufficio dirigente a ufficio puramente amministrativo e contabile, tanto più la capacità tecnica industriale divenne un non valore ed ebbe il sopravvento la capacità burocratica e commerciale.

Si venne così costituendo una vera e propria casta di funzionari e giornalisti sindacali, con una psicologia di corpo assolutamente in contrasto con la psicologia degli operai, la quale ha finito con l’assumere in confronto alla massa operaia la stessa posizione della burocrazia governativa in confronto dello Stato parlamentare: è la burocrazia che regna e governa.

La dittatura proletaria vuole sopprimere l’ordine della produzione capitalistica, vuole sopprimere la proprietà privata, perché solo così può essere soppresso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La dittatura proletaria vuole sopprimere la differenza delle classi, vuole sopprimere la lotta delle classi, perché solo così può essere completa l’emancipazione sociale della classe lavoratrice. Per ottenere questo fine il Partito comunista educa il proletariato a organizzare la sua potenza di classe, a servirsi di questa potenza armata per dominare la classe borghese e determinare le condizioni in cui la classe sfruttatrice sia soppressa e non possa rinascere.

Il compito del Partito comunista nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e contadini in classe dominante, controllare che tutti gli organismi del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria, e rompere i diritti e i rapporti antichi inerenti al principio della proprietà privata. Ma quest’azione distruttiva e di controllo deve essere immediatamente accompagnata da un’opera positiva di creazione di produzione. Se quest’opera non riesce, è vana la forza politica, la dittatura non può reggersi: nessuna società può reggersi senza la produzione, e tanto meno la dittatura che, attuandosi nelle condizioni di sfacelo economico prodotto da cinque anni di guerra esasperata e da mesi e mesi di terrorismo armato borghese, ha bisogno anzi di una intensa produzione.

Ed ecco il vasto e magnifico compito che dovrebbe aprirsi all’attività dei sindacati d’industria. Essi appunto dovranno attuare la socializzazione, essi dovranno iniziare un ordine nuovo di produzione, in cui l’impresa sia basata non sulla volontà di lucro del proprietario, ma sull’interesse solidale della comunità sociale che per ogni branca industriale esce dall’indistinto generico e si concreta nel sindacato operaio corrispondente.

Nel Soviet ungherese i sindacati si sono astenuti da ogni lavoro creatore. Politicamente i funzionari sindacali suscitarono continui ostacoli alla dittatura, costituendo uno Stato nello Stato, economicamente rimasero inerti: più di una volta le fabbriche dovettero essere socializzate contro la volontà dei sindacati. Ma i leaders delle organizzazioni ungheresi erano limitati spiritualmente, avevano una psicologia burocratico-riformista, e temevano continuamente di perdere il potere che avevano fino ad allora esercitato sugli operai. Poiché la funzione per cui il sindacato si era sviluppato fino alla dittatura era inerente al predominio della classe borghese, e poiché i funzionari non avevano una capacità tecnica industriale, essi sostenevano l’immaturità della classe proletaria alla gestione diretta della produzione, essi sostenevano la "vera" democrazia, cioè la conservazione della borghesia nelle sue posizioni principali di classe proletaria, essi volevano perpetuare ed esasperare l’era dei concordati, dei contratti di lavoro, della legislazione sociale, per essere in grado di far valere la loro competenza. Essi volevano che si attendesse la ... rivoluzione internazionale, non potendo comprendere che la rivoluzione internazionale si manifestava appunto in Ungheria con la rivoluzione ungherese, in Russia con la rivoluzione russa, in tutta l’Europa con gli scioperi generali, con i pronunciamenti militari, con le condizioni di vita rese impossibili alla classe lavoratrice dalle conseguenze della guerra.

Carattere

"Il Grido del Popolo", 3 marzo 1917

I nostri avversari non si preoccupano di giudicare l'atteggiamento dei socialisti alla stregua dei principi e dei metodi che i socialisti hanno sempre professato e seguito. Far ciò vorrebbe dire giudicare veramente, e fare cosa concreta. Essi non tentano neppure questo giudizio, ne sono incapaci. 

Dinanzi a degli uomini di carattere, perdono la bussola, brancolano nel buio, si disperano in tutti i vicoli ciechi del pettegolezzo, della maldicenza, della diffamazione. Non comprendono un contegno rettilineo, rigidamente coerente. Sono ipnotizzati dai fatti, dall'attualità. Non comprendono l'uomo di carattere, che i fatti pesa e giudica non tanto in sé e per sé quanto con la concatenazione che hanno col passato e con l'avvenire. Che i fatti giudica quindi specialmente per i loro effetti, per la loro eternità. Sono dei mistici del fatto. E il mistico non può giudicare, può solamente benedire o odiare. 

Ma è questa la forza dei socialisti italiani. Aver conservato un carattere. Essere riusciti a vincere i sentimentalismi, essere riusciti a strozzare i palpiti del cuore, come stimoli all'azione, come stimolo alle manifestazione di vita collettiva. I socialisti italiani hanno realizzato, in questo periodo della storia, l'umanità più perfetta per i fini della Storia. L'umanità che non cade nelle facili trappole dell'illusione. L'umanità che ha rinnegato come inutili e nocive, le forme inferiori della vita spirituale: l'impulso del buon cuore e del sentimentalismo. 

Le ha rinnegate coscientemente. Perché ha saputo assimilare gli insegnamenti dei suoi maestri più grandi, e gli insegnamenti che scaturivano spontaneamente dalla realtà borghese morsa dai reagenti della critica socialista. I socialisti italiani sono rimasti incrollabili entro i ranghi determinati dall'esigenza delle classi sociali. Non si sono turbati, come collettività, per gli spettacoli dolorosi che si presentano ai loro occhi. Non sono svenuti, come collettività, quando è stato loro scagliato fra i piedi il cadavere ancora palpitante di un bambino assassinato. La commozione che ogni singolo ha provato, la stretta al cuore, le simpatie che ogni singolo ha potuto provare, non hanno scalfito la granitica compattezza della classe. 

Se ogni singolo ha un cuore, la classe, come tale, non ha cuore nel senso che alla parola è solito dare l'umanesimo infrollito. La classe ha una volontà, la classe ha un carattere. Di questa volontà, di questo carattere è plasmata tutta la sua vita, senza alcun residuo. Come classe non può avere solidarietà che di classe, altra forma di lotta che quella di classe, altra nazione che la classe, cioè l'Internazionale. Il suo cuore non è che la coscienza del suo essere classe, la coscienza dei suoi fini, la coscienza del suo avvenire. Dell'avvenire che è solamente suo, per il quale non domanda solidarietà e collaborazione a nessuno, per il quale non vuole che palpiti il cuore di nessuno, ma palpiti solo, nella sua immensa potenzialità dinamica e creatrice, la sua volontà tenace, implacabili contro tutto e tutti che a lei siano estranei. 

I nostri avversari non comprendono questo. In Italia non si conosce il carattere. Ed è questa l'unica cosa in cui i socialisti possano giovare, e abbiano giovato all'italianità. Hanno dato all'Italia ciò che finora le è sempre mancato. Un esempio vivo e drammaticamente palpitante di carattere adamantino e fieramente superbo di se stesso.

Un anno di storia

"Il Grido del Popolo", 16 marzo 1918

Un anno è trascorso, dal giorno in cui il popolo russo costringeva lo zar Nicola II ad abdicare e prendere la via dell'esilio. La commemorazione dell'anniversario è poco lieta. Dolore, rovina, apparenza di sfacelo, controffensiva borghese con le baionette e le mitragliatrici tedesche. 

E' finita la rivoluzione russa? E' fallito, in Russia, il proletariato, nel più grande dei tentativi di riscossa che esso abbia mai tentato nella storia? Le apparenze sono sconfortanti: i generali tedeschi sono arrivati ad Odessa: i giapponesi si dice stiano per intervenire; 50 milioni di cittadini sono stati staccati dalla rivoluzione, e con essi le terre più fertili, gli sbocchi al mare, le strade della civiltà e della vita economica. La rivoluzione nata dal dolore e dalla disperazione, continua nel dolore e nelle sofferenze, stretta in un anello di potenze nemiche, immersa in un mondo economico refrattario alle sue idealità, ai suoi fini. 

Nel marzo del 1917 il telegrafo ci annunziò che un mondo era crollato in Russia: mondo effimero ormai, inanimata parvenza di un potere che era sorto, si era rafforzato, si era trascinato, con la violenza sanguinosa, con la compressione degli spiriti, con la tortura delle carni dilaniate. Aveva questo potere suscitato una grande macchina statale. 170 milioni di creature umane erano state costrette a dimenticare la loro umanità, la loro spiritualità per servire. A che? All'idea dell'Impero russo, del grande Stato russo che doveva arrivare ai mari caldi e aperti per assicurare all'attività economica sbocchi sicuri da ogni taglia di concorrenti, da ogni sorpresa di guerra. L'Impero russo era una mostruosa necessità del mondo moderno: per vivere, svilupparsi, per assicurarsi le vie dell'attività, dieci razze, 170 milioni di uomini dovevano sottostare a una disciplina statale feroce; dovevano rinunziare all'umanità ed essere puro strumento del potere. 

Nel marzo 1917 la macchina mostruosa crolla, imputridita, disfatta nella sua impotenza congenita. Gli uomini si drizzano, si guardano negli occhi. Tutti i valori umani hanno il sopravvento. L'esteriorità non ha più valore; troppo male ha fatto, troppi dolori ha prodotto, troppo sangue ha versato. Incomincia la storia, la vera storia. Ognuno vuole essere padrone del proprio destino, si vuole che la società sia plasmata in ubbidienza allo spirito, e non viceversa. L'organizzazione della convivenza civile deve essere espressione di umanità, deve rispettare tutte le autonomie, tutte le libertà. Incomincia la nuova storia della società umana, incominciano le esperienze nuove della storia dello spirito umano. Esse vengono a coincidere con le espressioni che l'ideale socialista aveva dato ai bisogni elementari degli uomini. I socialisti come ceto politico salgono al potere senza troppi sforzi: le parole della loro fede coincidono con le aspirazioni confuse e vaghe del popolo russo. 

Essi devono realizzare l'organizzazione nuova, devono dettare le nuove leggi, stabilire i nuovi ordinamenti. Il passato continua a sussistere; viene disgregato. Si ha la parvenza dello sfacelo, del disordine, della confusione. Sembra che si ritorni alla società barbarica, cioè alla non società. Il passato continua a sussistere oltre il territorio della libertà, e preme e vuole prendere una rivincita. 

L'ordine nuovo tarda a realizzarsi. Tarda? O uomini scettici e perversi, non tarda, no perché non si rifà una società in un fiat, perché il male del passato non è un edifizio di cartapesta cui si dà fuoco in un attimo. Doloroso sforzo è la vita, lotta tenace contro le abitudini, contro l'animalità e l'istinto grezzo che latra continuamente. Non si crea una società umana in sei mesi, quando tre anni di guerra hanno esaurito un paese, l'hanno privato dei mezzi meccanici per la vita civile. Non si riorganizzano milioni e milioni di uomini in libertà, così, semplicemente, quando tutto è avverso, e non sussiste che lo spirito indomabile. La storia della rivoluzione russa non si è chiusa e non si chiuderà con l'anniversario del suo iniziarsi. Come un canto esiste nella fantasia del poeta prima che sulla carta stampata, l'avvento dell'organizzazione sociale esiste nelle coscienze e nelle volontà. Sono gli uomini cambiati: questo importa. Si vuole l'esteriorità, la carta stampata. Si stride per ogni insuccesso, per ogni rovescio apparente. 

Si domanda ai russi ciò che gli storici non domandano alle rivoluzioni passate: la creazione fulminea di un ordine nuovo. Si suppongono propositi che non sono mai esistiti, speranze che non sono mai state sognate. E questi propositi, queste speranze sono confrontate con la realtà attuale per concludere al fallimento, allo sfacelo. Con la realtà che si dice sortita da un anno di nuova storia, ma che è sortita da secoli di bestiale soppressione dell'uomo dalla storia. Si domanda l'impossibile che non è mai stato domandato agli uomini del passato. 

Quante volte la Rivoluzione francese ha visto occupata la capitale dai nemici? E l'occupazione veniva dopo che Napoleone aveva organizzato autoritariamente le forze rivoluzionarie, e aveva condotto gli eserciti francesi di vittoria in vittoria. E la Francia era ben piccola cosa in confronto della Russia sterminata. 

No, le forze meccaniche non prevalgono mai nella storia: sono gli uomini, sono le coscienze, è lo spirito che plasma l'esteriore apparenza, e finisce sempre col trionfare. Un anno di storia si è chiuso, ma la storia continua, (sei righe censurate).

Bilanci rossi

L'Avanti, 4 aprile 1919

I bilanci rossi della Russia soviettista sono passivi, crudelmente passivi. Il "Momento" ne piange come un vitellino, il "Momento" ne soffre con tutta l'anima sua francescana. Pensate, pensate: 13.700 persone fucilate al primo gennaio 1919 come controrivoluzionarie, senza contare quelle condannate "per intuizione"; pensate, pensate, lo ha dichiarato lo stesso commissario Lissoflski. E diciassette miliardi di deficit, pensate, pensate, piangete, piangete, o cuoricini di burro alberganti nei seni di zucchero filato delle tenere Perpetue o dei sentimenti curati!

Vade retro, o comunismo, qua l'aspersorio contro il Soviet; crudeli e nefandissimi mostri apocalittici, giammai fascinerete le tenerissime Perpetue, giammai udrete Te Deum in vostra gloria! Quando mai apparve sulla incruenta terra una macchina di strage, un flagello distruttore di vite e di miliardi, così orripilante come la Rivoluzione soviettista? Cos'è stata la strage degli Albigesi? Un gioco da giardino d'infanzia: e, per carità, non pensate mica che Innocenzo papa sia stato un precursore dell' "intuizionismo", quando predicava di uccidere, di uccidere, poiché tanto il Signor Iddio Misericordioso avrebbe, egli, nel suo onnisapere, sceverato la bianca agnella dalla pecora tignosa; dimostrerete di essere solo un volgare anticlericale, senza rudimento alcuno di teologia e di catechismo.

Cos'è stata la guerra dei contadini in Germania? Un giocattolo di Norimberga, sebbene si affermi abbia distrutto dodici milioni di vite umane. Cosa sono state le distruzioni di fiamminghi , di Incas, e di marrani commessi dai cattolicissimi re spagnoli? Servizi alla santa religione sono stati, corvées devotissime di vassalli del Signor Nostro Onnipotente Gesù Cristo. Cosa sono i dieci milioni di morti e dieci milioni di invalidi e mutilati, eredità della guerra che Sua Santità Benedetto ha definito "inutile strage", ma che il "Momento" crede utilissima, poiché Sua Santità è Pontefice della Chiesa Cattolica, mentre il "Momento" è solo organo del Partito popolare italiano?

Cosa sono i venti milioni di morti per grippe o febbre spagnola, o peste polmonare, ossia peste di guerra, determinata e propagata e coltivata dalle condizioni create e lasciate dalla guerra? Cosa sono le migliaia e migliaia di creature umane che muoiono quotidianamente di fame, di scorbuto, di assideramento in Romania, in Boemia, in Armenia, in India, per accennare solo a paesi amici dell'Intesa? Cosa sono gli ottanta miliardi di deficit del bilancio Italiano, i centoventi miliardi del bilancio francese, i duemila miliardi di danni determinati dalla guerra? Cosa sono stati i cinquecentomila russi sterminati dal governo zarista nella repressione dei Soviet del 1905? Cosa farebbero i ventimilioni di russi che verrebbero sterminati se trionfasse la controrivoluzione dei generali Krasnof, Denikin e Kolciak, gli amici dell'Intesa che fanno impiccare ed esporre per tre giorni un operaio su dieci dei paesi che riescono a riconquistare, gli amici dell'Intesa che spediscono a Pietrogrado vagoni piombati di soldati soviettisti tagliati a pezzettini?

Cosa sono, cosa sono?... Bazzecole, piccolezze, azioni magnanime, in confronto di 13.700 fucilati e 17 miliardi di deficit. La rivoluzione sociale è il flagello, è il mostro apocalittico. Cos'è, cosa vale infatti una vita proletaria in confronto di una vita borghese? Studiate economia, che diamine; un borghese vale almeno diecimila proletari; i 13.700 fucilati dai Soviet valgono dunque 137 milioni di proletari e non sono 137 milioni di proletari che il capitalismo internazionale ha svenato per i suoi affari, per concimare le sue messi.

Piangete, piangete, dunque, tenerissime Perpetue e sensibilissimi curati del Piemonte, e non lasciatevi fascinare dal comunismo, dal Soviet, dalla rivoluzione sociale.

La taglia della storia

Da "L'ordine nuovo ", 7 giugno 1919

Cosa domanda ancora la storia al proletariato russo per legittimare e rendere permanenti le sue conquiste? Quale altra taglia di sangue e di sacrifizio pretende ancora questa sovrana assoluta del destino degli uomini? Le difficoltà e le obiezioni che la rivoluzione proletaria deve superare si sono rilevate immensamente superiori a quelle di ogni altra rivoluzione del passato. Queste tendevano solo a correggere la forma della proprietà privata e nazionale dei mezzi di produzione e di scambio; toccavano una parte limitata degli aggregati umani.

La rivoluzione proletaria è la massima rivoluzione: poiché vuole abolire la proprietà privata e nazionale, e abolire le classi, essa coinvolge tutti gli uomini, non solo una parte di essi. Obbliga tutti gli uomini a muoversi, a intervenire nella lotta, a parteggiare esplicitamente. Trasforma la società fondamentalmente: da organismo pluricellulare; pone a base della società nuclei già organici di società stessa. Costringe tutta la società a identificarsi con lo Stato, vuole che tutti gli uomini siano consapevolezza spirituale e storica. Perciò la rivoluzione proletaria è sociale: perciò deve superare difficoltà e obiezioni inaudite, perciò la storia domanda per il suo buon riuscimento pone taglie mostruose come quelle che il popolo russo è costretto a pagare.

La rivoluzione russa ha trionfato finora di tutte le obiezioni della storia. Ha rivelato al popolo russo una aristocrazia di statisti che nessun'altra nazione possiede; sono un paio di migliaia di uomini che tutta la vita hanno dedicato allo studio (sperimentale) delle scienze politiche ed economiche, che durante decine d'anni d'esilio hanno analizzato e sviscerato tutti i problemi della rivoluzione, che nella lotta, nel duello impari contro la potenza dello zarismo, si sono temprati un carattere d'acciaio, che, vivendo a contatto con tutte le forme della civiltà capitalistica d'Europa, d'Asia, d'America, immergendosi nelle correnti mondiali dei traffici e della storia, hanno acquistato una coscienza di responsabilità esatta e precisa, fredda e tagliente come la spada dei conquistatori d'imperi.

I comunisti russi sono un ceto dirigente di primo ordine. Lenin si è rivelato, testimoni tutti quelli che lo hanno avvicinato, il più grande statista dell'Europa contemporanea; l'uomo che sprigiona il prestigio, che infiamma e disciplina i popoli; l'uomo che riesce, nel suo vasto cervello, a dominare tutte le energie sociali del mondo che possono essere rivolte a benefizio della rivoluzione; che tiene in scacco e batte i più raffinati e volpisti statisti della routine borghese. Ma altro è la dottrina comunista, il partito politico che la propugna, la classe operaia che la incarna consapevolmente, e altro è l'immenso popolo russo, disfatto, disorganizzato, gettato in un cupo abisso di miseria, di barbarie, di anarchia, di dissoluzione da una guerra lunga e disastrosa.

La grandezza politica, il capolavoro storico dei bolscevichi in ciò appunto consiste: nell'aver risollevato il gigante caduto, nell'aver ridato (o dato per la prima volta) una forma concreta e dinamica a questo sfacelo, a questo caos; nell'aver saputo saldare la dottrina comunista con la coscienza collettiva del popolo russo, nell'aver gettato le solide fondamenta sulle quali la società comunista ha iniziato il suo processo di sviluppo storico, nell'avere, in una parola, tradotto storicamente nella realtà sperimentale la formula marxista della dittatura del proletariato.

La rivoluzione è tale e non una vuota gonfiezza della retorica demagogica, quando si incarna in un tipo di Stato, quando diventa un sistema organizzato del potere. Non esiste società se non in uno Stato, che è la sorgente e il fine di ogni diritto e di ogni dovere, che è garanzia di permanenza e di successo di ogni attività sociale. La rivoluzione proletaria è tale quando dà vita e s'incarna in uno Stato tipicamente proletario, custode del diritto proletario, che svolge le sue funzioni essenziali come emanazione della vita e della potenza proletaria.

I bolscevichi hanno dato forma statale alle esperienze storiche della classe operaia e contadina internazionale; hanno sistemato in organismo complesso e agilmente articolato la sua vita più intima, la sua tradizione e la sua storia spirituale e sociale più profonda e amata. Hanno rotto col passato, ma hanno continuato il passato; hanno spezzato una tradizione, ma hanno sviluppato ed arricchito la tradizione vitale della classe proletaria, operaia e contadina. In ciò sono stati rivoluzionari, perciò hanno instaurato l'ordine e la disciplina nuovi.

La rottura è irrevocabile, perché tocca l'essenziale della storia, è senza possibilità di ritorni indietro, che altrimenti un immane disastro piomberebbe sulla società russa. Ed ecco iniziarsi un formidabile duello con tutte le necessità della storia, dalle più elementari alle più complesse, che occorreva incorporare nel nuovo Stato proletario. Bisognava conquistare al nuovo Stato la maggioranza leale del popolo russo. Bisognava rivelare al popolo russo che il nuovo Stato era il suo Stato, la sua vita, il suo spirito, la sua tradizione, il suo patrimonio più prezioso.

Lo Stato dei Soviet aveva un ceto dirigente, il Partito comunista bolscevico; aveva l'appoggio di una minoranza sociale rappresentante la consapevolezza di classe, degli interessi vitali e permanenti di tutta la classe, gli operai dell'industria. Esso è divenuto lo Stato di tutto il popolo russo e ciò ha ottenuto la tenace perseveranza del Partito comunista, la fede e la lealtà entusiastiche degli operai, l'assidua e incessante opera di propaganda, di rischiaramento, di educazione degli uomini eccezionali del comunismo russo, condotti dalla volontà chiara e rettilinea del maestro di tutti, Nicola Lenin.

Il Soviet si è dimostrato immortale come la forma di società organizzata che aderisce plasticamente ai multiformi bisogni (economici e politici) permanenti e vitali della grande massa del popolo russo, che incarna e soddisfa le aspirazioni e le speranze di tutti gli oppressi del mondo. La guerra lunga e disgraziata aveva lasciato una triste eredità di miseria, di barbarie, di anarchia; l'organizzazione dei servizi sociali era sfatta; la compagine umana stessa si era ridotta a un'orda nomade di senza lavoro, senza volontà, senza disciplina, materia opaca di un'immensa decomposizione.

Il nuovo Stato raccoglie dalle macerie i frantumi logori della società e li ricompone, li rinsalda: ricrea una fede, una disciplina, un'anima, una volontà di lavoro e di progresso. Compito che potrebbe essere gloria di un'intera generazione. Non basta. La storia non è contenta di questa prova. Nemici formidabili si drizzano implacabilmente contro il nuovo Stato. Si batte moneta falsa per corrompere il cittadino, si stuzzica il suo stomaco affamato. La Russia viene tagliata da ogni sbocco al mare, da ogni traffico, da ogni solidarietà: viene privata dell'Ucraina, del bacino del Donetz, della Siberia, di ogni mercato di materia prime e di viveri. Su un fronte di diecimila chilometri bande di armati minacciano l'invasione: sollevazioni, tradimenti, vandalismi, atti di terrorismo e sabotaggio vengono pagati. Le vittorie più clamorose si tramutano, per tradimento, in rovesci subitanei. Non importa.

Il potere dei Soviet resiste: dal caos della disfatta crea un esercito potente che diviene la spina dorsale dello Stato proletario. Premuto da forze antagonistiche immani trova in sé il vigore intellettuale e la plasticità storica per adattarsi alla necessità della contingenza, senza snaturarsi, senza compromettere il felice processo di sviluppo verso il comunismo.

Democrazia operaia

L'Ordine Nuovo", 21 giugno 1919

Un problema si impone oggi assillante a ogni socialista che senta vivo il senso della responsabilità storica che incombe sulla classe lavoratrice e sul Partito che della missione di questa classe rappresenta la consapevolezza critica e operante. Come dominare le immense forze sociali che la guerra ha scatenato? Come disciplinarle e dar loro una forma politica che contenga in sé la virtù di svilupparsi normalmente, di integrarsi continuamente, fino a diventare l'ossatura dello Stato socialista nel quale si incarnerà la dittatura del proletariato? Come saldare il presente all'avvenire, soddisfacendo le urgenti necessità del presente e utilmente lavorando per creare e "anticipare" l'avvenire?

Questo scritto vuole essere uno stimolo a pensare e ad operare; vuole essere un invito ai migliori e più consapevoli operai perché riflettano e, ognuno nella sfera della propria competenza e della propria azione, collaborino alla soluzione del problema, facendo convergere sui termini di esso l'attenzione dei compagni e delle associazioni. Solo da un lavoro comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione reciproca nascerà l'azione concreta di costruzione.

Lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata. Collegare tra di loro questa istituti, coordinarli e subordinarli in una gerarchia di competenze e di poteri, accentrarli fortemente, pur rispettando le necessarie autonomie e articolazioni, significa creare già fin d'ora una vera e propria democrazia operaia, in contrapposizione efficiente ed attiva con lo Stato borghese, preparata già fin d'ora a sostituire lo Stato borghese in tutte le sue funzioni essenziali di gestione e di dominio del patrimonio nazionale.

Il movimento operaio è oggi diretto dal Partito socialista e dalla Confederazione del Lavoro; ma l'esercizio del potere sociale del Partito e della Confederazione si attua, per la grande massa lavoratrice, indirettamente, per forza di prestigio e d'entusiasmo, per pressione autoritaria, per inerzia persino. La sfera di prestigio del Partito si amplia quotidianamente, attinge strati popolari finora inesplorati, suscita consenso e desiderio di lavorare proficuamente per l'avvento del comunismo in gruppi e individui finora assenti dalla lotta politica.

E' necessario dare una forma politica e una disciplina permanente a queste energie disordinate e caotiche, assorbirle, comporle e potenziarle, fare della classe proletaria e semiproletaria una società organizzata che si educhi, che si faccia una esperienza, che acquisti una consapevolezza responsabile dei doveri che incombono alle classi arrivate al potere dello Stato. Il Partito socialista e i sindacati professionali non possono assorbire tutta la classe lavoratrice, che attraverso un lavorio di anni e di decine di anni. Essi non si identificheranno immediatamente con lo Stato proletario; nelle Repubbliche comuniste infatti essi continuano a sussistere indipendentemente dallo Stato, come istituti di propulsione (il Partito) o di controllo e di realizzazione parziale (i sindacati). Il Partito deve continuare ad essere l'organo di educazione comunista, il focolare della fede, il depositario della dottrina, il potere supremo che armonizza e conduce alla meta le forze organizzate e disciplinate della classe operaia e contadina.

Appunto per svolgere rigidamente questo suo ufficio, il Partito non può spalancare le porte all'invasione di nuovi aderenti, non abituati all'esercizio della responsabilità e della disciplina. Ma la vita sociale della classe lavoratrice è ricca di istituti, si articola in molteplici attività. Questi istituti e queste attività bisogna appunto sviluppare, organizzare complessivamente, collegare in un sistema vasto e agilmente articolato che assorba e disciplini l'intera la classe lavoratrice. L'officina con le sue commissioni interne, i circoli socialisti, le comunità contadine, sono i centri di vita proletaria nei quali occorre direttamente lavorare. Le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate ed arricchite, dovranno essere domani gli organi di potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione.

Già fin d'ora gli operai dovrebbero procedere alla elezione di vaste assemblee di delegati, scelti fra i migliori e più consapevoli compagni, sulla parola d'ordine: "Tutto il potere dell'officina ai comitati d'officina", coordinata all'altra: "Tutto il potere dello Stato ai Consigli operai e contadini". Un vasta campo di propaganda concreta rivoluzionaria si aprirebbe per i comunisti organizzati nel Partito e nei circoli rionali. I circoli, d'accordo con le sezioni urbane, dovrebbero fare un censimento delle forze operaie della zona, e diventare la sede del consiglio rionale dei delegati dell'officina, il ganglio che annoda e accentra tutte le energie proletarie del rione.

I sistemi elettorali potrebbero variare a seconda della vastità delle officine: si dovrebbe cercare però di far eleggere un delegato ogni 15 operai divisi per categoria (come si fa nelle officine inglesi), arrivando, per elezioni graduali, a un comitato di delegati di fabbrica che comprenda rappresentanti di tutto il complesso del lavoro (operai, impiegati, tecnici). Nel comitato rionale dovrebbe tendersi a incorporare delegati anche delle altre categorie di lavoratori abitanti nel rione: camerieri, vetturini, tranvieri, ferrovieri, spazzini, impiegati, privati, commessi, ecc. Il comitato rionale dovrebbe essere emanazione di tutta la classe lavoratrice abitante nel rione, emanazione e legittima e autorevole, capace di far rispettare una disciplina, investita del potere, spontaneamente delegato, ed ordinare la cessazione immediata e integrale di ogni lavoro in tutto il rione. I comitati rionali si ingrandirebbero in commissariati urbani, controllati e disciplinati dal Partito socialista e dalle federazioni di mestiere.

Un tale sistema di democrazia operaia (integrato con organizzazioni equivalenti di contadini) darebbe una forma e una disciplina alle masse, sarebbe una magnifica scuola di esperienza politica e amministrativa, inquadrerebbe le masse fino all'ultimo uomo, abituandole alla tenacia e alla perseveranza, abituandole a considerarsi come un esercito in campo che ha bisogno di una ferma coesione se non vuole essere distrutto e ridotto in schiavitù.

Ogni fabbrica costruirebbe uno o più reggimenti di questo esercito, coi suoi caporali, coi suoi servizi di collegamento, con la sua ufficialità, col suo stato maggiore, poteri delegati per libera elezione, non imposti autoritariamente. Attraverso i comizi, tenuti all'interno dell'officina, con l'opera incessante di propaganda e di persuasione sviluppata dagli elementi più consapevoli, si otterrebbe una trasformazione radicale della psicologia operaia, si renderebbe la massa meglio preparata e capace all'esercizio del potere, si diffonderebbe una coscienza dei doveri e dei diritti del compagno e del lavoratore, concreta ed efficiente perché generata spontaneamente dall'esperienza viva e storica.

Abbiamo già detto: questi rapidi appunti si propongono solo di stimolare il pensiero e all'azione. Ogni aspetto del problema meriterebbe una vasta e profonda trattazione, delucidazioni, integrazioni sussidiarie e coordinate. Ma la soluzione concreta e integrale dei problemi di vita socialista può essere data solo dalla pratica comunista: la discussione in comune, che modifica simpaticamente le coscienze unificandole e colmandole di entusiasmo operoso.

Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria. La formula "dittatura del proletariato" deve finire di essere solo una formula, un'occasione per sfoggiare fraseologia rivoluzionaria. Chi vuole il fine, deve volere anche i mezzi. La dittatura del proletariato è l'instaurazione di un nuovo Stato, tipicamente proletario, nel quale confluiscono le esperienze istituzionali della classe oppressa, nel quale la vita sociale della classe operaia e contadina diventa sistema diffuso e fortemente organizzato.

Questo Stato non si improvvisa: i comunisti bolscevichi russi per otto mesi lavorano a diffondere e far diventare concreta la parola d'ordine: tutto il potere ai Soviet, ed i Soviet erano noti agli operai russi fin dal 1905. I comunisti devono far tesoro dell'esperienza russa ed economizzare tempo e lavoro: l'opera di ricostruzione domanderà per sé tanto tempo e tanto lavoro, che ogni giorno e ogni atto dovrebbe poterle essere destinato.

La conquista dello stato

L'Ordine Nuovo", 12 luglio 1919

La concentrazione capitalistica, determinata dal modo di produzione, produce una corrispondente concentrazione di masse umane lavoratrici. In questo fatto bisogna cercare l'origine di tutte le tesi rivoluzionarie del marxismo, bisogna cercare le condizioni del costume nuovo proletario, dell'ordine nuovo comunista destinato a sostituire il costume borghese, il disordine capitalistico generato dalla libera concorrenza e dalla lotta di classe.

Nella sfera dell'attività generale capitalistica, anche il lavoratore opera sul piano della libera concorrenza, è un individuo-cittadino. Ma le condizioni di partenza della lotta non sono uguali per tutti, nello stesso tempo: l'esistenza della proprietà privata pone la minoranza sociale in condizioni di privilegio, rende impari la lotta. Il lavoratore è continuamente esposto ai rischi più micidiali: la sua vita stessa elementare, la sua cultura, la vita e l'avvenire della sua famiglia sono esposti ai contraccolpi bruschi delle variazioni del mercato del lavoro. Il lavoratore tenta allora di uscire dalla sfera della concorrenza e dell'individualismo.

Il principio associativo e solidaristico diventa essenziale della classe lavoratrice, muta la psicologia e i costumi degli operai e contadini. Sorgono istituti e organi nei quali questo principio si incarna; sulla base di essi si inizia il processo di sviluppo storico che conduce al comunismo dei mezzi di produzione e di scambio. L'associazionismo può e deve essere assunto come il fatto essenziale della rivoluzione proletaria. Dipendentemente da questa tendenza storica sono sorti nel periodo precedente all'attuale (che possiamo chiamare periodo della I e II Internazionale o periodo di reclutamento) e si sono sviluppati i Partiti socialisti e i sindacati professionali. Lo sviluppo di queste istituzioni proletarie e di tutto il movimento proletario in genere non fu però autonomo, non ubbidiva a leggi proprie immanenti nella vita e nella esperienza storica della classe lavoratrice sfruttata. Le leggi della storia erano dettate dalla classe proprietaria organizzata nello Stato.

Lo Stato è sempre stato il protagonista della storia, perché nei suoi organi si accentra la potenza della classe proprietaria, nello Stato la classe proprietaria si disciplina e si compone in unità, sopra i dissidi e i cozzi della concorrenza, per mantenere intatta la condizione di privilegio nella fase suprema della concorrenza stessa: la lotta di classe per il potere, per la preminenza nella direzione e nel disciplinamento della società. In questo periodo il movimento proletario fu solo una funzione della libera concorrenza capitalistica. Le istituzioni proletarie dovettero assumere una forma non per legge interna, ma per legge esterna, sotto la pressione formidabile di avvenimenti e di coercizioni dipendenti dalla concorrenza capitalistica. Da ciò hanno tratto origine gli intimi conflitti, le deviazioni, i tentennamenti, i compromessi che caratterizzano tutto il periodo di vita del movimento proletario precedente all'attuale, e che hanno culminato nella bancarotta della II Internazionale.

Alcune correnti del movimento socialista e proletario avevano posto esplicitamente come fatto essenziale della rivoluzione l'organizzazione operaia di mestiere, e su questa base fondavano la loro propaganda e la loro azione. Il movimento sindacalista parve, per un momento, essere il vero interprete del marxismo, vero interprete della verità. L'errore del sindacalismo consiste in ciò: nell'assumere come fatto permanente, come forma perenne dell'associazionismo, il sindacato professionale nella forma e con le funzioni attuali, che sono imposte e non proposte, e quindi non possono avere una linea costante e prevedibile di sviluppo. Il sindacalismo, che si presentò come iniziatore di una tradizione liberista "spontaneista", è stato in verità uno dei tanti camuffamenti dello spirito giacobino e astratto.

Da ciò gli errori della corrente sindacalista, che non riuscì a sostituire il Partito socialista nel compito di educare alla rivoluzione la classe lavoratrice. Gli operai e i contadini sentivano che, per tutto il periodo in cui la classe proletaria e lo Stato democratico-parlamentare dettano le leggi della storia, ogni tentativo d'evasione dalla sfera di queste leggi è inane e ridicolo. E' certo che nella configurazione generale assunta dalla società colla produzione industriale, ogni uomo può attivamente partecipare alla vita e modificare l'ambiente solo in quanto opera come individuo cittadino, membro dello Stato democratico-parlamentare.

L'esperienza liberale non è vana e non può essere superata se non dopo averla fatta. L'apoliticismo degli apolitici fu solo una degenerazione della politica: negare e combattere lo Stato è fatto politico tanto quanto inserirsi nell'attività generale storica che si unifica nel Parlamento e nei comuni, istituzioni popolari dello Stato. Varia la qualità del fatto politico: i sindacalisti lavorano fuori dalla realtà, e quindi la loro politica era fondamentalmente errata; i socialisti parlamentaristi lavoravano nell'intimo delle cose, potevano sbagliare (commisero anzi molti e pesanti sbagli) ma non errarono nel senso della loro azione e perciò trionfarono nella "concorrenza"; le grandi masse, quelle che con il loro intervento modificano obiettivamente i rapporti sociali, si organizzarono intorno al Partito socialista.

Nonostante tutti gli sbagli e le manchevolezze, il Partito riuscì, in ultima analisi, nella sua missione: far diventare qualcosa il proletariato che prima era nulla, dargli una consapevolezza, dare al movimento di liberazione un senso diritto e vitale che corrispondeva, nelle linee generali, al processo di sviluppo storico della società umana. Lo sbaglio più grave del movimento socialista è stato di natura simile a quello dei sindacalisti. Partecipando all'attività generale della società umana nello Stato, i socialisti dimenticarono che la loro posizione doveva mantenersi essenzialmente di critica, di antitesi. Si lasciarono assorbire dalla realtà, non la dominarono.

I comunisti marxisti devono caratterizzarsi per una psicologia che possiamo chiamare "maieutica" (metodo di interrogare l'interlocutore per aiutarlo a mettere in luce il suo pensiero). La loro azione non è di abbandono al corso degli avvenimenti determinati dalle leggi della concorrenza borghese, ma di aspettazione critica. La storia è un continuo farsi, è quindi essenzialmente imprevedibile. Ma ciò non significa che "tutto" sia imprevedibile nel farsi della storia, che cioè la storia sia dominio dell'arbitrio e del capriccio irresponsabile. La storia è insieme libertà e necessità.

Le istituzioni, nel cui sviluppo e nella cui attività la storia si incarna, sono sorte e si mantengono perché hanno un compito e una missione da realizzare. Sono sorte e si sono sviluppate determinate condizioni obiettive di produzione dei beni materiali e di consapevolezza spirituale degli uomini. Se queste condizioni obiettive, che per la loro natura meccanica sono commensurabili quasi matematicamente, mutano, muta anche la somma di rapporti che regolano e informano la società umana, muta il grado di consapevolezza degli uomini; la configurazione sociale si trasforma, le istituzioni tradizionali si immiseriscono, sono adeguate al loro compito, diventano ingombranti e micidiali.

Se nel farsi della storia l'intelligenza fosse incapace a togliere un ritmo, a stabilire un processo, la vita della civiltà sarebbe impossibile: il genio politico si riconosce appunto da questa capacità di impadronirsi del maggior numero possibile di termini concreti necessari e sufficienti per fissare un processo di sviluppo e della capacità quindi di anticipare il futuro prossimo e remoto e sulla linea di questa intuizione impostare l'attività di uno Stato, arrischiare la fortuna di un popolo. In questo senso Carlo Marx è stato di gran lunga il più grande dei geni politici contemporanei.

I socialisti hanno, supinamente spesso, accertato la realtà storica prodotto dell'iniziativa capitalistica; sono caduti nell'errore di psicologia degli economisti liberali: credere alla perpetuità delle istituzioni dello Stato democratico, alla loro fondamentale perfezione. Secondo loro la forma delle istituzioni democratiche può essere corretta, qua e là ritoccata, ma deve essere rispettata fondamentalmente. Un esempio di questa psicologia angustamente vanitosa è data dal giudizio minossico di Filippo Turati, secondo il quale il parlamento sta al Soviet come la città all'orda barbarica. Da questa errata concezione del divenire storico, dalla pratica annosa del compromesso e da una tattica "cretinamente" parlamentarista, nasce la formula odierna sulla "conquista dello Stato".

Noi siamo persuasi, dopo le esperienze rivoluzionarie della Russia, dell'Ungheria e della Germania, che lo Stato socialista non può incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalista, ma è una creazione fondamentalmente nuova per rispetto ad esse, se non per rispetto alla storia del proletariato. Le istituzioni dello Stato capitalista sono organizzate ai fini della libera concorrenza: non basta mutare il personale per indirizzare in un altro senso la loro attività.

Lo Stato socialista non è ancora il comunismo, cioè l'instauramento di una pratica e di un costume economico solidaristico, ma è lo Stato di transizione che ha il compito di sopprimere la concorrenza con la soppressione della proprietà privata, delle classi, delle economie nazionali: questo compito non può essere attuato dalla democrazia parlamentare. La formula "conquista dello Stato" deve essere intesa in questo senso: creazione di un nuovo tipo di Stato, generato dalla esperienza associativa della classe proletaria, e sostituzione di esso allo Stato democratico-parlamentare. E qui ritorniamo al punto di partenza.

Abbiamo detto che le istituzioni del movimento socialista e proletario del periodo precedente all'attuale, non si sono sviluppate autonomamente, ma come risultato della configurazione generale della società umana dominata dalle leggi sovrane del capitalismo. La guerra ha capovolto la situazione strategica della lotta di classe. I capitalisti hanno perduto la preminenza; la loro libertà è limitata; il loro potere è annullato. La concentrazione capitalistica è arrivata al massimo sviluppo consentitole, realizzando il monopolio mondiale della produzione e degli scambi. La corrispondente concentrazione delle masse lavoratrici ha dato una potenza inaudita alla classe proletaria rivoluzionaria. Le istituzioni tradizionali del movimento sono diventate incapaci a contenere tanto rigoglio di vita rivoluzionaria. La loro stessa forma è inadeguata al disciplinamento delle forze inseritesi nel processo storico consapevole. Esse non sono morte.

Nate come funzione della libera concorrenza, devono continuare a sussistere fino alla soppressione di ogni residuo di concorrenza, fino alla completa espressione delle classi e dei partiti, fino alla fusione delle dittature proletarie nazionali nell'Internazionale comunista. Ma accanto ad esse devono sorgere e svilupparsi istituzioni di tipo nuovo, di tipo statale, che appunto sostituiranno le istituzioni private e pubbliche dello Stato democratico parlamentare. Istituzioni che sostituiscano la persona del capitalista nelle funzioni amministrative e nel potere industriale, e realizzino l'autonomia del produttore nella fabbrica; istituzioni capaci di assumere il potere direttivo di tutte le funzioni inerenti al complesso sistema di rapporti di produzione e di scambio che legano i reparti di una fabbrica tra di loro, costituendo l'unità economica elementare, che legano le varie attività dell'industria agricola, che per piani orizzontali e verticali devono costituire l'armonioso edifizio della economia nazionale ed internazionale, liberato dalla tirannia ingombrante e parassitaria dei privati proprietari.

Ma la spinta e l'entusiasmo rivoluzionario sono stati più fervidi nel proletariato dell'Europa occidentale. Ma ci pare che alla coscienza lucida ed esatta del fine non si accompagni una coscienza altrettanto lucida ed esatta dei mezzi idonei, nel momento attuale, al raggiungimento del fine stesso. Si è ormai radicata la convinzione nelle masse che lo Stato proletario è incarnato in un sistema di Consigli di operai, contadini e soldati. Non si è ancora formata una concezione tattica che assicuri obiettivamente la creazione di questo Stato. E' necessario perciò creare fin d'ora una rete di istituzioni proletarie, radicate nella coscienza delle grandi masse, sicura della disciplina e della fedeltà permanente delle grandi masse, nelle quali la classe degli operai e dei contadini, nella sua totalità, assuma una forma ricca di dinamismo e di possibilità di sviluppo.

E' certo che se oggi, nelle condizioni attuali di organizzazione proletaria, un movimento di masse si verificasse con carattere rivoluzionario, i risultati si consoliderebbero in una pura correzione formale dello Stato democratico, si risolverebbero in un aumento di potere della Camera dei deputati (attraverso una assemblea costituente) e nella assunzione al potere dei socialisti pasticcioni anticomunisti. L'esperienza germanica e austriaca deve insegnare qualcosa.

Le forze dello Stato democratico e della classe capitalistica sono ancora immense: non bisogna dissimularsi che il capitalismo si regge specialmente per l'opera dei suoi sicofanti e dei suoi lacchè, e la semenza di tale genia non è certo sparita. La creazione dello Stato proletario non è, insomma, un atto taumaturgico: è anch'essa un farsi, è un processo di sviluppo. Presuppone un lavoro preparatorio di sistemazione e di propaganda.

Bisogna dare maggiori poteri alle istituzioni proletarie di fabbrica già esistenti, farne sorgere di simili nei villaggi, ottenere che gli uomini che le compongono siano dei comunisti consapevoli della missione rivoluzionaria che l'istituzione deve assolvere. Altrimenti tutto il nostro entusiasmo, tutta la fede delle masse lavoratrici non riuscirà ad impedire che la rivoluzione si componga miseramente in un nuovo Parlamento di imbroglioni, di fatui e di irresponsabili, e che nuovi e più spaventosi sacrifizi siano resi necessari per l'avvento dello Stato dei proletari.

Lo sviluppo della rivoluzione

Da "L'ordine nuovo ", 13 settembre 1919

Le tesi fondamentali dell'Internazionale comunista si possono così riassumere:

1. la guerra mondiale 1914-18 rappresenta il verificarsi tremendo di quel momento del processo di sviluppo della storia moderna che Marx ha sintetizzato nell'espressione: la catastrofe del mondo capitalista;

2. solo la classe lavoratrice può salvare la società umana dall'abisso di barbarie e di sfacelo economico verso il quale la spingono le forze esasperate e impazzite della classe proprietaria, e può farlo organizzandosi in classe dominante per imporre la propria dittatura nel campo politico-industriale;

3. la rivoluzione proletaria è imposta e non proposta.

Le condizioni create dalla guerra (impoverimento estremo delle risorse economiche atte a soddisfare i bisogni elementari della vita collettiva e individuale, concentrazione dei mezzi di produzione e di scambio internazionali nelle mani di una piccola schiera di detentori, asservimento coloniale di tutti i paesi del mondo al capitalismo anglosassone, concentrazione, negli ambiti nazionali, delle forze politiche della classe proprietaria) possono determinare questi sbocchi: o la conquista del potere sociale da parte della classe lavoratrice, coi metodi e gli strumenti che gli sono propri, per arrestare il processo di dissolvimento del mondo civile e gettare le basi di un ordine nuovo nel quale sia possibile una ripresa delle attività utili e uno slancio vitale energetico e rapido verso forme più alte di produzione e di convivenza; o la morte per inedia ed esaurimento di una gran parte dei lavoratori; o la strage in permanenza per la decimazione sociale fino al ricostituirsi di un congruo rapporto tra la produzione gestita capitalisticamente e la massa consumatrice.

Aderire alla Internazionale comunista significa pertanto essere persuasi dell'urgente necessità di organizzare la dittatura proletaria, cioè di atteggiare il movimento proletario nelle forme e nei modi più idonei perché il sistema politico proletario risulti una fase normale e necessaria nella lotta di classe combattuta dalle masse operaie e contadine. E significa che "l'azione e la forza del proletariato", a differenza di quanto si afferma nel programma del Partito socialista approvato a Genova nel 1892, si esplicherà sotto questo doppio aspetto: 1. organizzazione degli operai e dei contadini per unità di produzione (fabbrica, azienda agricola, villaggio, città, regione, nazione) rivolta ad addestrare le masse all'autogoverno simultaneamente nel campo industriale e nel campo politico; 2. sviluppo di un'azione sistematica e incessante di propaganda da parte degli elementi comunisti per conquistare rapidamente i poteri di questi organismi proletari, accentrarli in un nuovo tipo di Stato (lo Stato dei Consigli operai e contadini) nel quale si incarnerà la dittatura proletaria, dopo la dissoluzione del sistema economico-politico borghese.

Queste innovazioni fondamentali da introdurre nel programma del 1892, sono il risultato delle esperienze concrete attraversate dai lavoratori di Russia, di Ungheria, di Austria e di Germania nei loro tentativi di realizzazione rivoluzionaria. Esse sono da assumersi come inerenti necessariamente allo sviluppo industriale della popolazione capitalistica mondiale, perché attuate dagli operai inglesi e americani, indipendentemente dai contraccolpi delle circostanze politiche generali (disfatta militare ecc.), come riflesso normale della lotta di classe nei paesi di più intensa vita capitalistica.

Le esperienze concrete rivoluzionarie della classe operaia internazionale si possono riassumere nelle seguenti tesi:

1) la dittatura del proletariato, che deve fondare la società comunista sopprimendo le classi e gli inguaribili conflitti della società capitalistica, è il momento di più intensa vita dell' organizzazione di classe dei lavoratori, operai e contadini;

2) l'attuale sistema di organizzazione della classe proletaria: associazione per mestiere (sindacati), per industria (federazione), per complesso di produzione locale e nazionale (Camera del Lavoro) e (Confederazione Generale del Lavoro), sorto per organizzare la concorrenza nella vendita della merce-lavoro, non è idoneo, per questa sua natura essenziale concorrentista, ad amministrare comunisticamente la produzione e ad incarnare la dittatura del proletariato. L'organizzazione per mestiere è stata un efficace strumento di difesa dei lavoratori, poiché è riuscita a limitare la strapotenza e l'arbitrio della classe capitalistica, imponendo il riconoscimento dei diritti degli oppressi sulle questioni degli orari e dei salari. Essa continuerà a svolgere questo suo compito, durante la dittatura proletaria e nella società comunista, funzionando come organismo tecnico che compone i contrasti di interessi tra le categorie del lavoro e unifica nazionalmente e internazionalmente le medie di retribuzione comunista;

3)l'organizzazione dei lavoratori, che eserciterà il potere sociale comunista e nel quale si incarnerà la dittatura proletaria può essere solo un sistema di Consigli eletti nelle sedi di lavoro articolati agilmente in modo che aderiscano al processo di produzione industriale e agricola, coordinati e graduati localmente e nazionalmente in modo da realizzare l'unità della classe lavoratrice al di sopra delle categorie determinate dalla divisione del lavoro. Questa unificazione si verifica anche oggi nelle Camere del Lavoro e nella Confederazione, ma senza efficacia coesiva delle masse, perché mero contatto saltuario e disorganico di uffici centrali e di individualità dirigenti. Nelle sedi del lavoro questa unificazione sarà invece effettiva e permanente perché risulterà dall'armonico e articolato sistema del processo industriale nella sua vivente immediatezza, perché sarà basata sull'attività creatrice che affratella le volontà e accomuna gli interessi e i sentimenti dei produttori;

4) solo con questo tipo di organizzazione si potrà riuscire a rendere consapevoli le unità di lavoro della loro capacità a produrre e a esercitare la sovranità (la sovranità deve essere una funzione della produzione), senza bisogno del capitalista e di una delegazione indeterminata del potere politico; a rendere consapevoli, cioè, i produttori che la loro comunità organizzata, può sostituire, nel processo generale di produzione dei beni materiali, e quindi nel processo di creazione storica, il proprietario e i suoi sicari nel potere industriale e nella responsabilità della produzione;

5) le unità di lavoro dovranno coordinarsi in organismi superiori, collegati per interessi locali e per branche industriali nella stessa unità territoriale di produzione (province, regioni, nazione) costituendo il sistema dei Consigli. La sostituzione agli individui proprietari di comunità produttive, collegate e intrecciate in una fitta rete di rapporti reciproci tendenti alla tutela di tutti i diritti e gli interessi scaturienti dal lavoro, determinerà la soppressione della concorrenza e della falsa libertà, gettando le basi dell'organizzazione della libertà e della civiltà comunista;

6) amalgamati intimamente nella comunità di produzione, i lavoratori sono automaticamente portati a esprimere la loro volontà di potere alla stregua di principi strettamente inerenti ai rapporti di produzione e di scambio. Cadranno rapidamente dalla psicologia media proletaria tutte le ideologie mitiche, utopistiche, religiose, piccolo borghesi: si consoliderà rapidamente e permanentemente la psicologia comunista, lievito costante di entusiasmo rivoluzionario, di tenace perseveranza nella disciplina ferrea del lavoro e della resistenza contro ogni assalto aperto o subdolo del passato;

7) il Partito comunista non può avere competitori nel mondo intimo del lavoro. Nel periodo attuale della lotta di classe, fioriscono i partiti pseudo rivoluzionari: i socialisti cristiani (che hanno facile presa fra le masse contadine), i "veri" socialisti (ex combattenti, piccoli borghesi, tutti gli irrequieti spiriti avidi di novità purchessia), i libertari individualisti (conventicole rumorose di vanità insoddisfatte e di tendenze capricciose e caotiche). Questi partiti hanno invaso la piazza ed assordano i mercati elettorali con la loro fraseologia vuota e inconcludente, con le promesse mirabolanti e irresponsabili, con rumorosi solleticamenti delle più basse passioni popolari e degli egoismi più angusti. Questi partiti non avranno presa alcuna sugli individui lavoratori, se questi dovranno esprimere la loro volontà sociale non più tra il tumulto e la confusione della fiera parlamentare, ma nella comunità di lavoro, dinanzi alla macchina di cui oggi sono schiavi e che dovrà diventare loro schiava;

8) la rivoluzione non è un atto taumaturgico, è un processo dialettico di sviluppo storico. Ogni Consiglio di operai industriali o agricoli che nasce intorno all'unità di lavoro è un punto di partenza di questo sviluppo, è una realizzazione comunista. Promuovere il sorgere e il moltiplicarsi di Consigli operai e contadini, determinare il collegamento e la sistemazione organica fino all'unità nazionale da raggiungersi in un congresso generale, sviluppare una intensa propaganda per conquistarne la maggioranza, è il compito attuale dei comunisti. L'urgere di questa nuova fioritura di poteri che sale irresistibilmente dalle grandi masse lavoratrici, determinerà l'urto violento delle due classi e l'affermazione della dittatura proletaria.

Se non si gettano le basi del processo rivoluzionario nell'intimità della vita produttiva, la rivoluzione rimarrà uno sterile appello alla volontà, un mito nebuloso, una Morgana fallace: e il caos, il disordine, la disoccupazione, la fame inghiottiranno e stritoleranno le migliori e più vigorose energie proletarie

Ai Commissari di reparto delle Officine Fiat Centro e Brevetti

"L'Ordine Nuovo", 13 settembre 1919

Compagni! La nuova forma che la commissione interna ha assunto nella vostra officina con la nomina dei commissari di reparto e le discussioni che hanno preceduto e accompagnato questa trasformazione non sono passate inavvertite nel campo operaio e padronale torinese. Da una parte si accingono a imitarvi le maestranze di altri stabilimenti della città e della provincia, dall'altra i proprietari e i loro agenti diretti, gli organizzatori delle grandi imprese industriali, guardano a questo movimento con interesse crescente e si chiedono e chiedono a voi quale può essere lo scopo cui esso tende, quale il programma che la classe operaia torinese si propone di realizzare. Noi sappiamo che a determinare questo movimento il nostro giornale ha non poco contribuito. In esso la questione è stata esaminata da un punto di vista teorico e generale, non solo, ma sono stati raccolti ed esposti i risultati delle esperienze di altri paesi, per fornire gli elementi per lo studio delle applicazioni pratiche. Noi sappiamo però che l'opera nostra ha avuto un valore in quanto essa ha soddisfatto un bisogno, ha favorito il concretarsi di un'aspirazione che era latente nella coscienza delle masse lavoratrici. Per questo così rapidamente ci siamo intesi, per questo così sicuramente si è potuto passare dalla discussione alla realizzazione. 

Il bisogno, l'aspirazione da cui trae la sua origine il movimento rinnovatore dell'organizzazione operaia da voi iniziato, sono, crediamo noi, nelle cose stesse, sono una conseguenza diretta del punto cui è giunto, nel suo sviluppo, l'organismo sociale ed economico basato sull'appropriazione privata dei mezzi di scambio e di produzione. Oggigiorno l'operaio dell'officina e il contadino delle campagne, il minatore inglese e il mugik russo, i lavoratori tutti del mondo intero, in modo più o meno sicuro, sentono in modo più o meno diretto quella verità che gli uomini di studio avevano previsto, e di cui vengono acquistando certezza sempre maggiore, quando osservano gli eventi di questo periodo della storia dell'umanità: siamo giunti al punto in cui la classe lavoratrice, se vuole non venir meno al compito di ricostruzione che è nei suoi fatti e nella sua volontà, deve incominciare a ordinarsi in modo positivo e adeguato al fine da raggiungere. 

E se è vero che la società nuova sarà basata sul lavoro e sul coordinamento delle energie dei produttori, i luoghi dove si lavora, dove i produttori vivono e operano in comune, saranno domani i centri dell'organismo sociale e dovranno prendere il posto degli enti direttivi della società odierna. Come, nei primi tempi della lotta operaia, l'organizzazione per mestiere era quella che meglio si prestava agli scopi di difesa, alle necessità delle battaglie per il miglioramento economico e disciplinare immediato, così oggi, che incominciano a delinearsi e sempre maggior consistenza vengono prendendo nelle menti degli operai gli scopi ricostruttivi, è necessario sorga accanto e in sostegno della prima, una organizzazione per fabbrica, vera scuola delle capacità ricostruttive dei lavoratori. La massa operaia deve prepararsi effettivamente all'acquisto della completa padronanza di se stessa, e il primo passo su questa via sta nel suo più saldo disciplinarsi, nell'officina, in modo autonomo, spontaneo e libero. 

Né si può negare che la disciplina che col nuovo sistema verrà instaurata condurrà a un miglioramento della produzione, ma questo non è altro che il verificarsi di una tesi del socialismo: quanto più le forze produttive umane, emancipandosi dalla schiavitù cui il capitalismo le vorrebbe per sempre condannate, prendono coscienza di sé, si liberano e liberamente si organizzano, tanto migliore tende a diventare il modo della loro utilizzazione: l'uomo lavorerà sempre meglio dello schiavo. 

A coloro poi che obiettano che in questo modo si viene a collaborare con i nostri avversari, con i proprietari delle aziende, noi rispondiamo che invece questo è l'unico mezzo di dominio, perché la classe operaia concepisce la possibilità di fare da sé e di fare bene: anzi, essa acquista di giorno in giorno più chiara la certezza di essere sola capace di salvare il mondo intiero dalla rovina e dalla desolazione. Perciò ogni azione che voi imprenderete, ogni battaglia che sarà data sotto la vostra guida sarà illuminata dalla luce del fine ultimo che è negli animi e nelle intenzioni di tutti voi. Un grandissimo valore acquisteranno quindi anche gli atti apparentemente di poca importanza nei quali si esplicherà il mandato a voi conferito. 

Eletti da una maestranza nella quale sono ancora numerosi gli elementi disorganizzati, vostra prima cura sarà certamente quella di farli entrare nelle file dell'organizzazione, opera che del resto vi sarà facilitata dal fatto che essi troveranno in voi chi sarà sempre pronto a difenderli, a guidarli, ad avviarli alla vita della fabbrica. Voi mostrerete loro con l'esempio che la forza dell'operaio è tutta nell'unione e nella solidarietà coi suoi compagni. Così pure a voi spetterà l'invigilare affinché nei reparti vengano rispettate le regole di lavoro fissate dalle federazioni di mestiere e accettate nei concordati, poiché in questo campo anche una lieve deroga ai principi stabiliti può talora costituire una offesa grave ai diritti e alla personalità dell'operaio, di cui voi sarete rigidi e tenaci difensori e custodi. 

E siccome in mezzo agli operai e al lavoro voi stessi vivrete di continuo, potrete essere in grado di conoscere le modificazioni imposte dal progresso tecnico della produzione e dalla progredita coscienza e capacità dei lavoratori stessi. In questo modo si verrà costituendo un costume di officina, germe primo della vera ed effettiva legislazione del lavoro, cioè delle leggi che i produttori elaboreranno e daranno a sé stessi. 

Noi siamo certi che l'importanza di questo fatto non vi sfugge, che esso è evidente davanti alle menti di tutte le maestranze che con prontezza ed entusiasmo hanno compreso il valore e il significato dell'opera che voi vi proponete di fare: si inizia l'intervento attivo nel campo tecnico e in quello disciplinare, delle forze stesse del lavoro. 

Nel campo tecnico voi potrete da un lato compiere un utilissimo lavoro informativo, raccogliendo dati e materiali preziosi sia per le federazioni di mestiere che per gli enti centrali e direttive delle nuove organizzazioni di officina. Voi curerete inoltre che gli operai del reparto acquistino una sempre maggiore capacità, e farete sparire i meschini sentimenti di gelosia professionale che ancora li fanno essere divisi e discordi; li allenerete così per il giorno in cui, dovendo lavorare non più per il padrone ma per sé, sarà loro necessario essere uniti e solidali, per accrescere la forza del grande esercito proletario, di cui essi sono le cellule prime. Perché non potreste far sorgere, nell'officina stessa, appositi reparti di istruzione, vere scuole professionali, ove ogni operaio, sollevandosi dalla fatica che abbruttisce, possa aprire la mente alla conoscenza dei processi di produzione, e migliorare se stesso? 

Certamente, per fare tutto ciò sarà necessaria della disciplina, ma la disciplina che voi richiederete alla massa operaia sarà ben diversa da quella che il padrone imponeva e pretendeva, forte del diritto di proprietà che costituisce a lui una posizione di privilegio. Voi sarete forti di un altro diritto, quello del lavoro che dopo essere stato per secoli strumento nelle mani dei suoi sfruttatori oggi vuole redimersi, vuole dirigersi da se stesso. Il vostro potere, opposto a quello dei padroni e dei suoi ufficiali, rappresenterà di fronte alle forze del passato, le libere forze dell'avvenire, che attendono la loro ora, e la preparano, sapendo che essa sarà l'ora della redenzione da ogni schiavitù. 

E così gli organi centrali che sorgeranno per ogni gruppo di reparti, per ogni gruppo di fabbriche, per ogni città, per ogni regione, fino ad un supremo Consiglio operaio nazionale, proseguiranno, allargheranno, intensificheranno l'opera di controllo, di preparazione e di ordinamento della classe intiera a scopi di conquista e di governo. Il cammino non sarà breve, né facile, lo sappiamo: molte difficoltà sorgeranno e vi saranno opposte, e per superarle occorrerà fare uso di grande abilità, occorrerà forse talora fare appello alla forza della classe organizzata, occorrerà sempre essere animati e spinti all'azione da una grande fede, ma quello che più importa, o compagni, è che gli operai, sotto la guida vostra e di coloro che vi imiteranno, acquistino la viva certezza di camminare ormai, sicuri della meta, sulla grande via dell'avvenire.

Sindacati e consigli (I)

Da "L'ordine nuovo ", 11 ottobre 1919

L'organizzazione proletaria che si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici centrali della Confederazione del Lavoro, attraversa una crisi costituzionale simile per natura alla crisi in cui vanamente si dibatte lo Stato democratico parlamentare. La crisi è crisi di potere e di sovranità. La soluzione dell'una sarà soluzione dell'altra, poiché, risolvendo il problema della volontà di potenza nell'ambito della loro organizzazione di classe, i lavoratori arriveranno a creare l'impalcatura organica del loro Stato e vittoriosamente la contrapporranno allo Stato parlamentare.

Gli operai sentono che il complesso della "loro" organizzazione è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura e al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza dalla sua missione storica di classe rivoluzionaria. Sentono che la loro volontà di potenza non riesce ad esprimersi, in un senso netto e preciso, attraverso le attuali gerarchie istituzionali. Sentono che anche in casa loro, nella casa che hanno costruito tenacemente, con sforzi pazienti cementandola col sangue e le lacrime, la macchina schiaccia l'uomo, il funzionarismo isterilisce lo spirito creatore e il dilettantismo banale e verbalistico tenta invano di nascondere l'assenza di concetti precisi sulle necessità della produzione industriale e la nessuna comprensione della psicologia delle masse proletarie.

Gli operai si irritano per queste condizioni di fatto, ma sono individualmente impotenti a modificarle; le parole e le volontà dei singoli uomini sono troppo piccola cosa in confronto delle leggi ferree inerenti alla struttura dell'apparato sindacale. I leaders dell'organizzazione non si accorgono di questa crisi profonda e diffusa.

Quanto più chiaramente appare che la classe operaia non è composta in forme aderenti alla sua reale struttura storica, quanto più risulta che la classe operaia non è inquadrata in una confederazione che incessantemente si adatti alle leggi che governano l'intimo processo di sviluppo storico reale della classe stessa; tanto più questi leaders si ostinano nella cecità e si sforzano di comporre "giuridicamente" i dissidi e i conflitti. Spiriti eminentemente burocratici, essi credono che una condizione obiettiva, radicata nella psicologia quale si sviluppa nelle esperienze vive dell'officina, possa essere superata con un discorso che muove gli affetti, e con un ordine del giorno votato all'unanimità in un'assemblea abbruttita dal frastuono e dalle lungaggini oratorie.

Oggi essi si sforzano di porsi all'altezza dei tempi" e, tanto per dimostrare che sono anche capaci di "meditare aspramente", rivogano le vecchie e logore ideologie sindacaliste, insistendo penosamente nello stabilire rapporti di identità tra il Soviet e il sindacato, insistendo penosamente nell'affermare che il sistema attuale di organizzazione sindacale costituisce il sistema di forze in cui deve incarnarsi la dittatura proletaria.

Il sindacato, nella forma in cui esiste attualmente nei paesi dell'Europa occidentale, è un tipo di organizzazione non solo diverso essenzialmente dal Soviet, ma diverso anche, e in modo notevole, dal sindacato quale sempre più viene sviluppandosi nella repubblica comunista rossa. I sindacati di mestiere, le Camere del Lavoro, le federazioni industriali, la Confederazione Generale del Lavoro sono il tipo di organizzazione proletaria specifico del periodo della storia dominato dal capitale. In un certo senso si può sostenere che esso è parte integrante della società capitalistica, e ha una funzione che è inerente al regime di proprietà privata.

In questo periodo, nel quale gli individui valgono in quanto sono proprietari di merce e commerciano la loro proprietà, anche gli operai hanno dovuto ubbidire alle leggi ferree della necessità generale e sono diventati mercanti dell'unica loro proprietà, la forza-lavoro e l'intelligenza professionale. Più esposti ai rischi della concorrenza, gli operai hanno accumulato la loro proprietà in "ditte" sempre più vaste e comprensive, hanno creato questo enorme apparato di concentrazione di carne da fatica, hanno imposto prezzi e orari e hanno disciplinato il mercato. Hanno assunto dal di fuori o hanno espresso dal loro seno un personale d'amministrazione di fiducia, esperto in questo genere di speculazioni, in grado di dominare le condizioni del mercato, capace di stipular contratti, di valutare le alee commerciali, di iniziare operazioni economicamente utili.

La natura essenziale del sindacato è concorrentista, non è comunista. Il sindacato non può essere strumento di rinnovazione radicale della società: esso può offrire al proletariato dei provetti burocrati, degli esperti tecnici in questioni industriali d'indole generale, non può essere la base del potere proletario. Esso non offre nessuna possibilità di scelta delle individualità proletarie capaci e degne di dirigere la società, da esso non possono esprimersi le gerarchie in cui si incarni lo slancio vitale, il ritmo del progresso della società comunista.

La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico dell'attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione. Poiché nel Consiglio tutte le branche del lavoro sono rappresentate, proporzionalmente al contributo che ogni mestiere e ogni branca di lavoro dà alla elaborazione dell'oggetto che la fabbrica produce per la collettività, l'istituzione è di classe, è sociale. La sua ragion d'essere è nel lavoro, è nella produzione industriale, in un fatto cioè permanente e non già nel salario, nella divisione delle classi, in un fatto cioè transitorio e che appunto si vuole superare. Perciò il Consiglio realizza l'unità della classe lavoratrice, dà alle masse una coesione e una forma che sono della stessa natura della coesione e della forma che la massa assume nell'organizzazione generale della società.

Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti all'organizzazione dello Stato proletario, sono inerenti all'organizzazione del Consiglio. Nell'uno e nell'altro il concetto di cittadino decade, e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto, e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il più ignorante e il più arretrato degli operai, anche il più vanitoso e il più "civile" degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle esperienze dell'organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per acquistare una coscienza comunista per comprendere il gran passo in avanti che l'economia comunista rappresenta sull'economia capitalistica.

Il Consiglio è il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dall'esperienza viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppava nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrificio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice della storia.

L'esistenza di una organizzazione, nella quale la classe lavoratrice sia inquadrata nella sua omogeneità di classe produttrice, e la quale renda possibile una spontanea e libera fioritura di gerarchie e di individualità degne e capaci, avrà riflessi importanti e fondamentali nella costituzione e nello spirito che anima l'attività dei sindacati. Il Consiglio di fabbrica si fonda anch'esso sul mestiere. In ogni reparto gli operai si distinguono in squadre e ogni squadra è una unità di lavoro (di mestiere): il Consiglio è costituito appunto dai commissari che gli operai eleggono per mestiere (squadra) di reparto. Ma il sindacato si basa sull'individuo, il Consiglio si basa sull'unità organica e concreta del mestiere che si attua nel disciplinamento del processo industriale. La squadra (il mestiere) sente di essere distinta nel copro omogeneo della classe, ma nel momento stesso si sente ingranata nel sistema di disciplina e di ordine che rende possibile, con l'esatto e preciso suo funzionamento, lo sviluppo della produzione.

Come interesse economico e politico il mestiere è parte indistinta e solidale perfettamente col corpo della classe; se ne distingue come interesse tecnico e come sviluppo del particolare strumento che adopera nel lavoro. Allo stesso modo tutte le industrie sono omogenee e solidali nel fine di realizzare una perfetta produzione, distribuzione e accumulazione sociale della ricchezza; ma ogni industria ha interessi distinti per quanto riguarda l'organizzazione tecnica della sua specifica attività.

L'esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia. Gli operai portano nel sindacato questa nuova coscienza e dalla semplice attività di lotta di classe, il sindacato si dedica al lavoro fondamentale di imprimere alla vita economica e alla tecnica del lavoro una nuova configurazione, si dedica a elaborare la forma di vita economica e di tecnica professionale che è propria della civiltà comunista. In questo senso i sindacati, che sono costituiti con gli operai migliori e più consapevoli, attuano il momento supremo della lotta di classe e della dittatura del proletariato: essi creano le condizioni obiettive in cui le classi non possono più esistere né rinascere.

Questo fanno in Russia i sindacati di industria. Essi sono diventati gli organismi in cui tutte le singole imprese di una certa industria si amalgamano, si connettono, si articolano, formando una grande unità industriale. Le concorrenze sperperatrici vengono eliminate, i grandi servizi amministrativi, di rifornimento, di distribuzione e di accumulamento, vengono unificati in grandi centrali. I sistemi di lavoro, i segreti di fabbricazione, le nuove applicazioni diventano immediatamente comuni a tutta l'industria. La molteplicità di funzioni burocratiche e disciplinari inerente ai rapporti di proprietà privata e alla impresa individuale, viene ridotta alle pure necessità industriali. L'applicazione dei principi sindacali all'industria tessile ha permesso in Russia una riduzione burocratica da 100.000 impiegati a 3.500.

L'organizzazione per fabbrica compone la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e cosa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente.

Nell'organizzazione per fabbrica si incarna dunque la dittatura proletaria, lo Stato comunista che distrugge il dominio di classe nelle superstrutture politiche e nei suoi ingranaggi generali. I sindacati di mestiere e di industria sono le solide vertebre del gran corpo proletario. Essi elaborano le esperienze individuali e locali, e le accumulano, attuando quel conguagliamento nazionale delle condizioni di lavoro e di produzione sul quale concretamente si basa l'uguaglianza comunista.

Ma perché sia possibile imprimere ai sindacati questa direzione positivamente classista e comunista è necessario che gli operai rivolgano tutta la loro volontà e la loro fede al consolidamento e alla diffusione dei Consigli, all'unificazione organica della classe lavoratrice. Su questo fondamentale omogeneo e solido fioriranno e si svilupperanno tutte le superiori strutture della dittatura e dell'economia comunista.

I sindacati e la dittatura

Pubblicato per la prima volta ne "L’Ordine Nuovo", 25 ottobre 1919

La lotta di classe internazionale è culminata nella vittoria degli operai e contadini di due proletariati internazionali. In Russia e in Ungheria gli operai e i contadini hanno instaurato la dittatura proletaria e tanto in Russia che in Ungheria la dittatura dovette sostenere un’aspra battaglia non solo contro la classe borghese, ma anche contro i sindacati: il conflitto tra la dittatura e i sindacati fu anzi una delle cause della caduta del Soviet ungherese, poiché i sindacati, se mai apertamente tentarono di rovesciare la dittatura, operarono sempre come organismi "disfattisti" della rivoluzione e incessantemente seminarono lo sconforto e la vigliaccheria tra gli operai e i soldati rossi.

Un esame anche rapido, delle ragioni e delle condizioni di questo conflitto non può non essere utile all’educazione rivoluzionaria delle masse, le quali, se devono convincersi che il sindacato è forse l’organismo proletario più importante della rivoluzione comunista, perché su di esso deve fondarsi la socializzazione dell’industria, perché esso deve creare le condizioni in cui l’impresa privata sparisce e non può più rinascere, devono anche convincersi della necessità di creare, prima della rivoluzione, le condizioni psicologiche e obiettive nelle quali sia impossibile ogni conflitto e ogni dualismo di potere tra i vari organismi in cui si incarni la lotta della classe proletaria contro il capitalismo.

La lotta di classe ha assunto in tutti i paesi d’Europa e del mondo un carattere nettamente rivoluzionario. La concezione, che è propria della III Internazionale, secondo la quale la lotta di classe deve essere rivolta all’instaurazione della dittatura proletaria, ha il sopravvento sulla ideologia democratica e si diffonde irresistibilmente nelle masse.

I Partiti socialisti aderiscono alla III Internazionale o almeno si atteggiano secondo i principi fondamentali elaborati al Congresso di Mosca; i sindacati invece sono rimasti fedeli alla "vera democrazia" e non trascurano nessuna occasione per indurre o costringere gli operai a dichiararsi avversari della dittatura e non attuare manifestazioni di solidarietà con la Russia dei Soviet.

Questo atteggiamento dei sindacati fu rapidamente superato in Russia, poiché allo sviluppo delle organizzazioni di mestiere e d’industria si accompagnò parallelamente e con ritmo più accelerato lo sviluppo dei Consigli d’officina; esso ha invece eroso la base del potere proletario in Ungheria, ha determinato in Germania immani carneficine di operai comunisti e la nascita del fenomeno Noske, ha determinato in Francia il fallimento dello sciopero generale del 20-21 luglio e il consolidarsi del regime di Clemenceau, ha impedito finora ogni intervento diretto degli operai inglesi nella lotta politica e minaccia di scindere profondamente e pericolosamente le forze proletarie in tutti i paesi.

I Partiti Socialisti acquistano sempre più un profilo nettamente rivoluzionario e internazionalista; i sindacati invece tendono a incarnare la teoria (!) e la tattica dell’opportunismo riformista e a diventare organismi meramente nazionali. Ne nasce uno stato di cose insostenibile, una condizione di confusione permanente e di debolezza cronica per la classe lavoratrice, che aumentano lo squilibrio generale della società e favoriscono il pullulare dei fermenti di disgregazione morale e di imbarbarimento.

I sindacati hanno organizzato gli operai secondo i principi della lotta di classe e sono stati essi stessi le prime forme organiche di questa lotta. Gli organizzatori hanno sempre detto che solo la lotta di classe può condurre il proletariato alla sua emancipazione e che l’organizzazione sindacale ha precisamente il fine di sopprimere il profitto individuale e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, poiché essa si propone di eliminare il capitalista (il proprietario privato) dal processo industriale di produzione e di eliminare quindi le classi. Ma i sindacati non potevano attuare immediatamente questo fine e pertanto essi rivolsero tutta la loro forza al fine immediato di migliorare le condizioni di vita del proletariato, domandando più alti salari, diminuiti orari di lavoro, un corpo di legislazione sociale.

I movimenti successero ai movimenti, gli scioperi agli scioperi, la condizione di vita dei lavoratori divenne relativamente migliore. Ma tutti i risultati, tutte le vittorie dell’azione sindacale si fondano sulle basi antiche: il principio della proprietà privata resta intatto e forte, l’ordine della produzione capitalistica e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo restano intatti e anzi si complicano in forme nuove. La giornata di otto ore, l’aumento del salario, i benefici della legislazione sociale non toccano il profitto; gli squilibri che immediatamente l’azione sindacale determina nel saggio del profitto si compongono e trovano una sistemazione nuova nel gioco della libera concorrenza per le nazioni a economia mondiale come l’Inghilterra e la Germania, nel protezionismo per le nazioni a economia limitata come la Francia e l’Italia.

Il capitalismo cioè riversa o sulle masse amorfe nazionali o sulle masse coloniali le accresciute spese generali della produzione industriale.

L’azione sindacale si rivela così assolutamente incapace a superare nel suo dominio e con i suoi mezzi, la società capitalista, si rivela incapace a condurre il proletariato alla sua emancipazione, a condurre il proletariato all’attuazione del fine alto e universale che si era inizialmente proposto.

Secondo le dottrine sindacaliste, i sindacati avrebbero dovuto servire a educare gli operai alla gestione della produzione. Poiché i sindacati di industria, si disse, sono un riflesso integrale di una determinata industria, essi diventeranno i quadri della competenza operaia per la gestione di quella determinata industria; le cariche sindacali serviranno a rendere possibile una scelta degli operai migliori, dei più studiosi, dei più intelligenti, dei più atti a impadronirsi del complesso meccanismo della produzione e degli scambi. I leaders operai dell’industria del cuoio saranno i più capaci a gestire questa industria, e così per l’industria metallurgica, per l’industria del libro, ecc. Illusione colossale. La scelta dei leaders sindacali non avvenne mai per criteri di competenza industriale, ma di competenza meramente giuridica, burocratica o demagogica. E quanto più le organizzazioni andarono ingrandendosi, quanto più frequente fu il loro intervento nella lotta di classe, quanto più diffusa e profonda la loro azione, e tanto più divenne necessario ridurre l’ufficio dirigente a ufficio puramente amministrativo e contabile, tanto più la capacità tecnica industriale divenne un non valore ed ebbe il sopravvento la capacità burocratica e commerciale.

Si venne così costituendo una vera e propria casta di funzionari e giornalisti sindacali, con una psicologia di corpo assolutamente in contrasto con la psicologia degli operai, la quale ha finito con l’assumere in confronto alla massa operaia la stessa posizione della burocrazia governativa in confronto dello Stato parlamentare: è la burocrazia che regna e governa.

La dittatura proletaria vuole sopprimere l’ordine della produzione capitalistica, vuole sopprimere la proprietà privata, perché solo così può essere soppresso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La dittatura proletaria vuole sopprimere la differenza delle classi, vuole sopprimere la lotta delle classi, perché solo così può essere completa l’emancipazione sociale della classe lavoratrice. Per ottenere questo fine il Partito comunista educa il proletariato a organizzare la sua potenza di classe, a servirsi di questa potenza armata per dominare la classe borghese e determinare le condizioni in cui la classe sfruttatrice sia soppressa e non possa rinascere.

Il compito del Partito comunista nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e contadini in classe dominante, controllare che tutti gli organismi del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria, e rompere i diritti e i rapporti antichi inerenti al principio della proprietà privata. Ma quest’azione distruttiva e di controllo deve essere immediatamente accompagnata da un’opera positiva di creazione di produzione. Se quest’opera non riesce, è vana la forza politica, la dittatura non può reggersi: nessuna società può reggersi senza la produzione, e tanto meno la dittatura che, attuandosi nelle condizioni di sfacelo economico prodotto da cinque anni di guerra esasperata e da mesi e mesi di terrorismo armato borghese, ha bisogno anzi di una intensa produzione. Ed ecco il vasto e magnifico compito che dovrebbe aprirsi all’attività dei sindacati d’industria.

Essi appunto dovranno attuare la socializzazione, essi dovranno iniziare un ordine nuovo di produzione, in cui l’impresa sia basata non sulla volontà di lucro del proprietario, ma sull’interesse solidale della comunità sociale che per ogni branca industriale esce dall’indistinto generico e si concreta nel sindacato operaio corrispondente.

Nel Soviet ungherese i sindacati si sono astenuti da ogni lavoro creatore. Politicamente i funzionari sindacali suscitarono continui ostacoli alla dittatura, costituendo uno Stato nello Stato, economicamente rimasero inerti: più di una volta le fabbriche dovettero essere socializzate contro la volontà dei sindacati. Ma i leaders delle organizzazioni ungheresi erano limitati spiritualmente, avevano una psicologia burocratico-riformista, e temevano continuamente di perdere il potere che avevano fino ad allora esercitato sugli operai. Poiché la funzione per cui il sindacato si era sviluppato fino alla dittatura era inerente al predominio della classe borghese, e poiché i funzionari non avevano una capacità tecnica industriale, essi sostenevano l’immaturità della classe proletaria alla gestione diretta della produzione, essi sostenevano la "vera" democrazia, cioè la conservazione della borghesia nelle sue posizioni principali di classe proletaria, essi volevano perpetuare ed esasperare l’era dei concordati, dei contratti di lavoro, della legislazione sociale, per essere in grado di far valere la loro competenza.

Essi volevano che si attendesse la ... rivoluzione internazionale, non potendo comprendere che la rivoluzione internazionale si manifestava appunto in Ungheria con la rivoluzione ungherese, in Russia con la rivoluzione russa, in tutta l’Europa con gli scioperi generali, con i pronunciamenti militari, con le condizioni di vita rese impossibili alla classe lavoratrice dalle conseguenze della guerra.

La piccola borghesia
Sugli avvenimenti del 2-3 dicembre 1919

"L'Ordine Nuovo", 6-13 dicembre 1919

Gli avvenimenti del 2-3 dicembre sono un episodio culminante della lotta delle classi. La lotta non fu tra proletari e capitalisti (questa lotta si svolge organicamente, come lotta per i salari e per gli orari e come lavorìo tenace e paziente per la creazione di un apparecchio di governo della produzione e delle masse di uomini che sostituisca l'attuale apparecchio di Stato borghese); fu tra proletari e piccoli e medi borghesi. 

La lotta è stata, in ultima analisi, per la difesa dello Stato liberale democratico dalle strettoie in cui lo tiene prigioniero una parte della classe borghese, la peggiore, la più vile, la più inutile, la più parassitaria: la piccola e media borghesia, la borghesia "intellettuale" (detta "intellettuale" perché entrata in possesso, attraverso la facile e scorrevole carriera della scuola media, di piccoli e medi titoli di studio generali), la borghesia dei funzionari pubblici padre-figlio, dei bottegai, dei piccoli proprietari industriali e agricoli, commercianti in città usurai nelle campagne. 

Questa lotta si è svolta nell'unica forma in cui poteva svolgersi: disordinatamente, tumultuosamente, con una razzìa condotta per le strade e per le piazze al fine di liberare le strade e le piazze da una invasione di locuste putride e voraci. Ma questa lotta, indirettamente sia pure, era connessa all'altra lotta, alla superiore lotta di classi tra proletari e capitalisti: la piccola e media borghesia è infatti la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacché, divenuta oggi la "serva padrona" che vuole prelevare sulla produzione taglie superiori non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma alle stesse taglie prelevate dai capitalisti; espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l'apparato nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l'ambiente sociale e trovarsi contro l'avversario specifico: la classe dei capitalisti proprietari dei mezzi di produzione e di scambio. La guerra ha messo in valore la piccola e media borghesia. 

Nella guerra e per la guerra, l'apparecchio capitalistico di governo economico e di governo politico si è militarizzato: la fabbrica è diventata una caserma, la città è diventata una caserma, la nazione è diventata una caserma. Tutte le attività di interesse generale sono state nazionalizzate, burocratizzate, militarizzate. Per attuare questa mostruosa costruzione lo Stato e le minori associazioni capitalistiche fecero la mobilitazione in massa della piccola e media borghesia. Senza che avessero una preparazione culturale e spirituale, decine e decine di migliaia di individui furono fatti affluire dal fondo dei villaggi e delle borgate meridionali, dai retrobottega degli esercizi paterni, dai banchi invano scaldati delle scuole medie e superiori, dalle redazioni dei giornali di ricatto, dalle rigatterie dei sobborghi cittadini, da tutti i ghetti dove marcisce e si decompone la poltroneria, la vigliaccheria, la boria dei frantumi e dei detriti sociali depositati da secoli di servilismo e di dominio degli stranieri e dei preti sulla nazione italiana; e fu loro dato uno stipendio da indispensabili e insostituibili, e fu loro affidato il governo delle masse di uomini, nelle fabbriche, nelle città, nelle caserme, nelle trincee del fronte.

Bene armati, ben pasciuti, non sottoposti a nessun controllo, nella possibilità di soddisfare impunemente le tre passioni che i pessimisti reputano originarie e insopprimibili della natura umana: la passione del potere assoluto sugli altri uomini, la passione di possedere molte donne, la passione di possedere molti quattrini per comprare piaceri e lusso, queste decine e decine di migliaia di corrotti, di poltroni, di dissoluti si tengono stretti al mostruoso apparato militare-burocratico costruito durante la guerra. Vogliono continuare a governare le masse di uomini, ad essere investiti di una assoluta verità sulla vita e sulla morte delle masse di uomini; organizzano pogroms contro i proletari, contro i socialisti, tengono le piazze e le vie sotto un regime di terrore.

Le elezioni parlamentari hanno mostrato che le masse di uomini vogliono essere guidate e governate da socialisti, che le masse di uomini vogliono una costituzione sociale in cui chi non produce, chi non lavora, non mangia. Questi signori, che continuano a prelevare sul reddito della produzione nazionale e sul credito estero dello Stato una taglia di un miliardo al mese, che gridano sui tetti la loro passione nazionalista e si fanno mantenere dalla patria, che per mantenerli nell'ozio, nel lusso, nel piacere si vende agli americani, questi signori, interroriti per l'imminente pericolo, hanno organizzato subito i pogroms, contro i deputati socialisti. E dalle officine, dai cantieri, dai laboratori, dagli arsenali di tutte le città italiane, subito, come una parola d'ordine, appunto come succedeva in Russia e in Polonia quando i cento Neri tentavano scatenare pogroms gli ebrei, per annegare in una palude di barbarie e di dissolutezza ogni piccolo anelito di libertà, subito gli operai irruppero nelle vie centrali della città e spazzarono via le locuste piccolo-borghesi, gli organizzatori di pogroms i professionisti della poltroneria. E' stato questo un episodio, in fondo, di "liberalismo". 

Si era formato un modo di guadagno senza lavoro, senza responsabilità, senza alee; oggi questo modo di guadagno ha anch'esso le sue alee, le sue preoccupazioni, i suoi pericoli. Lotta di classe, guerra di contadini. Il caso ha voluto che le giornate di sciopero e di gravi tumulti in tutta l'Italia superiore o media coincidessero con lo scoppio spontaneo di una insurrezione di popolo in una zona tipica dell'Italia meridionale, nel territorio di Andria. L'attenzione che si è prestata all'insurrezione del proletariato delle città contro quella parte della casta piccolo-borghese che ha acquistato durante la guerra una fisionomia militaristica, e ora non vuol perderla, e contro la polizia, ha deviato gli sguardi da Andria, ha impedito che si desse l'esatto rilievo agli avvenimenti di laggiù, che essi fossero apprezzati nel loro giusto valore. 

Noi speriamo di poter fornire ai nostri lettori importanti dati di osservazione diretta delle cause e dello svolgimento dei fatti, e ci limitiamo per ora a notare come il caso, facendo coincidere le due sommosse, abbia fornito quasi un modello di ciò che dovrà essere la rivoluzione italiana. Da una parte il proletariato nel senso stretto della parola, cioè gli operai dell'industria e dell'agricoltura specializzata, dall'altra i contadini poveri: ecco le due ali dell'esercito rivoluzionario. 

Gli operai di città sono rivoluzionari per educazione, li ha resi tali lo svolgimento della coscienza e la formazione della persona nella fabbrica, cellula dello sfruttamento del lavoro; gli operai di città guardano oggi alla fabbrica come al luogo in cui si deve iniziare la liberazione, al centro di irradiazione del movimento di riscossa: perciò il loro movimento è sano, è forte e sarà vittorioso. Gli operai sono destinati ad essere, nella insurrezione cittadina, l'elemento estremo e ordinatore a un tempo, quello che non lascerà che la macchina messa in moto si arresti e la terrà sulla giusta via; essi rappresentano sin d'ora l'intervento nella rivoluzione delle grandi masse, e personificano in modo vivente l'interesse e la volontà delle masse stesse. 

Nelle campagne dobbiamo contare soprattutto sull'azione e sull'appoggio dei contadini poveri, dei "senza terra". Essi saranno spinti a muoversi dal bisogno di risolvere il problema della vita, come ieri i contadini di Andria, dal bisogno di lottare per il pane, non solo, ma dallo stesso continuo bisogno, dal pericolo sempre incombente della morte per la fame o per il piombo, saranno obbligati a far pressione sulle altre parti della popolazione agricola, per costringerle a creare anche nelle campagne un organismo di controllo, il consiglio dei contadini, pur lasciando sussistere le forme intermedie di appropriazione privata del terreno (piccola proprietà), farà opera di coesione e di trasformazione psicologica e tecnica, sarà la base della vita comune nelle campagne, il centro attraverso il quale gli elementi rivoluzionari potranno far valere in modo continuo e concreto la loro volontà. Oggi bisogna che anche i contadini sappiano quello che vi è da fare, che l'azione loro getti radici profonde e tenaci, aderendo come quella degli operai, al processo produttivo della ricchezza. 

Come gli uni guardano alla fabbrica, gli altri debbono incominciare a guardare al campo come alla futura comunità di lavoro. La sommossa di Andria ci dice che il problema è maturo: è il problema, in fondo, di tutto il Mezzogiorno italiano, il problema della effettiva conquista della terra da parte di chi la lavora. Il nostro Partito ha l'obbligo di porselo e di risolverlo. La conquista della terra si prepara oggi con le stesse armi con le quali gli operai preparano la conquista della fabbrica, cioè formando gli organismi che permettano alla massa che lavora di governarsi da sé, sul luogo del suo lavoro. Il movimento degli operai e quello dei contadini confluiscono naturalmente in una sola direzione, nella creazione degli organi del potere proletario. 

La rivoluzione russa ha trovato appunto la sua forza e la sua salvezza nel fatto che in Russia operai e contadini, partendo da punti opposti, mossi da sentimenti diversi, si ritrovarono riuniti per uno scopo comune, in una lotta unica, perché entrambi si convinsero alla prova di non potersi liberare dall'oppressione dei padroni, se non dando alla propria organizzazione di conquista una forma che permettesse di eliminare direttamente lo sfruttatore dal campo della produzione. Questa forma fu il Consiglio, fu il Soviet. La lotta di classe e la guerra dei contadini unirono in tal modo le loro sorti in modo inscindibile ed ebbero un esito comune nella costituzione di un organismo direttivo di tutta la vita del paese. 

Da noi il problema si pone negli stessi termini. L'operaio e il contadino debbono collaborare in modo concreto inquadrando le loro forze in uno stesso organismo. La sommossa li ha trovati uniti e concordi. Il controllo della fabbrica e la conquista delle terre debbono essere un problema unico. Settentrione e Mezzogiorno debbono compiere insieme lo stesso lavoro, preparare insieme la trasformazione della nazione in comunità produttiva. Deve apparire sempre più chiaro che soltanto i lavoratori sono oggi in grado di risolvere e in un modo "unitario" il problema del Mezzogiorno; il problema dell'unità che tre generazioni borghesi hanno lasciato insoluto, verrà risolto dagli operai e dai contadini collaboranti in una forma di politica comune, nella forma politica nella quale essi riusciranno ad organizzare e a rendere vittoriosa la loro dittatura.

Operai e contadini

Da "L'ordine nuovo ", 3 gennaio 1920

La produzione industriale deve essere controllata direttamente dagli operai organizzati per azienda; l'attività di controllo deve essere unificata e coordinata attraverso organismi sindacali puramente operai; gli operai e i socialisti non possono concepire come utile ai loro interessi e alle loro aspirazioni un controllo sull'industria esercitato dai funzionari (corrotti, venali, non revocabili) dello Stato capitalista, una forma di controllo sull'industria che altro non può significare che un risorgere dei comitati di mobilitazione industriale utile solo al parassitismo capitalista.

Il motto "la terra ai contadini" deve essere inteso nel senso che le aziende agricole e le fattorie moderne devono essere controllate dagli operai agricoli organizzati per azienda agricola e per fattoria, deve significare che le terre a cultura estensiva devono essere amministrate dai Consigli dei contadini poveri dei villaggi e delle borgate agricole; gli operai agricoli, i contadini poveri rivoluzionari, e i socialisti consapevoli non possono concepire come utili ai loro interessi e alle loro aspirazioni, non possono concepire come utile ai fini dell'educazione proletaria, indispensabile per una repubblica comunista, la propaganda per le "terre incolte o mal coltivate". Questa propaganda non può non avere per risultato che una mostruosa diffamazione del socialismo.

Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o mal coltivata? Senza macchine, senza abitazione sul luogo del lavoro, senza credito per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni cooperative che acquistino il raccolto stesso (se il contadino arriva al raccolto senza prima essersi impiccato al più forte arbusto delle boscaglie, o al meno tisico fico selvatico, della terra incolta!) e lo salvino dalle grinfie degli usurai, cosa può ottenere un contadino povero dall'invasione? Egli soddisfa, in un primo momento, i suoi istinti di proprietario, sazia la sua primitiva avidità di terra; ma in un secondo momento, quando s'accorge che le braccia non bastano per scassare una terra che solo la dinamite può squarciare, quando s'accorge che sono necessarie le sementi e i concimi e gli strumenti di lavoro, e pensa che nessuno gli darà tutte queste cose indispensabili, e pensa alla serie futura dei giorni e delle notti da passare in una terra senza casa, senza acqua, con la malaria, il contadino sente la sua impotenza, la sua solitudine, la sua disperata condizione, e diventa un brigante, non un rivoluzionario, diventa un assassino dei "signori", non un lottatore per il comunismo.

Perciò gli operai e i contadini rivoluzionari e i socialisti consapevoli non hanno visto un riflesso dei loro interessi e delle loro aspirazioni nelle iniziative parlamentari per il controllo dell'industria e per le terre "incolte o mal coltivate"; hanno visto in queste iniziative solo il "cretinismo" parlamentare, l'illusione riformista e opportunista, hanno visto la controrivoluzione. Eppure l'azione parlamentare avrebbe potuto essere utile: avrebbe potuto servire per informare tutti gli operai e tutti i contadini dei termini esatti del problema industriale e agricolo e dei mezzi necessari e sufficienti per risolverlo. Avrebbe potuto servire per far conoscere alla grande massa dei contadini di tutta Italia che la soluzione del problema agricolo può essere attuata solo dagli operai urbani dell'Italia settentrionale, può essere attuata solo dalla dittatura proletaria.

La borghesia settentrionale ha soggiogato l'Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine settentrionali asservite alla banca e all'industrialismo parassitario del Settentrione. La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere ricercata in una divisione delle terre incolte o mal coltivate, ma nella solidarietà del proletariato industriale, che ha bisogno, a sua volta, della solidarietà dei contadini, che ha "interesse" acché il capitalismo non rinasca economicamente dalla proprietà terriera e ha interesse acché l'Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di controrivoluzione capitalista.

Imponendo il controllo operaio sull'industria, il proletariato rivolgerà l'industria alla produzione di macchine agricole per i contadini, di stoffe e calzature per i contadini, di luce elettrica per i contadini, impedirà che l'industria e la banca sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alle casseforti. Spezzando l'autocrazia nella fabbrica, spezzando l'apparato oppressivo dello Stato capitalista, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i capitalisti alla legge del lavoro utile, gli operai spezzeranno tutte le catene che tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria, alla sua disperazione; instaurando la dittatura operaia, avendo in mano le industrie e le banche, il proletariato rivolgerà l'enorme potenza dell'organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta contro i proprietari e contro la natura e contro la miseria; darà il credito ai contadini, istituirà le cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i saccheggiatori, farà le opere pubbliche di risanamento e di irrigazione. Farà tutto questo perché è suo interesse dare incremento alla produzione agricola, perché è suo interesse rivolgere la produzione industriale a lavoro utile di pace e di fratellanza tra città e campagna, tra Settentrione e Mezzogiorno.

In questo senso gli operai e i contadini consapevoli devono volere sia rivolta l'azione parlamentare socialista: a compiere opera di educazione rivoluzionaria nelle grandi masse, a unificare i sentimenti e le aspirazioni delle grandi masse nella comprensione del programma comunista, a diffondere incessantemente la persuasione che i problemi attuali dell'economia industriale e agricola possono essere risolti solo fuori del Parlamento, contro il Parlamento, dallo Stato operaio.

Lo strumento di lavoro

"L'Ordine Nuovo", 14 febbraio 1920

La rivoluzione comunista attua l'autonomia del produttore nel campo economico e nel campo politico. L'azione politica della classe operaia (rivolta a instaurare la dittatura, a creare lo Stato operaio) acquista valore storico reale solo quando è funzione dello sviluppo di condizioni economiche nuove, ricche di possibilità, avide di espandersi e di consolidarsi definitivamente. Perché l'azione politica abbia buon esito deve coincidere con un'azione economica. 

La rivoluzione comunista è il riconoscimento storico di fatti preesistenti economici, che essa rivela, che essa difende energicamente da ogni tentativo reazionario, che essa fa diventare diritto, ai quali, cioè, da una forma organica e una sistemazione. Ecco perché la costruzione dei Soviet politici comunisti non può che succedere storicamente a una fioritura e a una prima sistemazione dei Consigli di fabbrica. 

Il Consiglio di fabbrica e il sistema dei Consigli di fabbrica saggia e rivela in prima istanza le nuove posizioni che nel campo della produzione occupa la classe operaia; dà alla classe operaia consapevolezza del suo valore attuale, della sua reale funzione, della sua responsabilità, del suo avvenire. La classe operaia trae le conseguenze dalla somma di esperienze positive che i singoli individui compiono personalmente, acquista la psicologia e il carattere di classe dominante, e si organizza come tale, cioè crea il Soviet politico, instaura la dittatura. 

Ogni operaio, per costituire il Consiglio, ha dovuto prendere coscienza della sua posizione nel campo economico. Ha sentito di essere inizialmente inserito in una unità elementare, la squadra di reparto, e ha sentito che le innovazioni tecniche apportate nell'attrezzatura delle macchine hanno mutato i suoi rapporti col tecnico: l'operaio ha meno bisogno di prima del tecnico, del maestro d'arte, ha quindi acquistato una maggiore autonomia, può disciplinarsi da sé. 

Anche la figura del tecnico è mutata: i suoi rapporti con l'industriale sono completamente trasformati: egli non è più una persona di fiducia, un agente degli interessi capitalistici; poiché l'operaio può fare a meno del tecnico per una infinità di atti del lavoro, il tecnico come agente disciplinare diventa ingombrante: il tecnico si riduce anch'egli a produttore, connesso al capitalista dai nudi e crudi rapporti di sfruttato e sfruttatore. La sua psicologia perde le incrostazioni piccolo-borghesi e diventa proletaria, diventa rivoluzionaria. Le innovazioni industriali e l'acquistata maggiore capacità professionale, permettono all'operaio una maggiore autonomia, lo collocano in una superiore posizione industriale. 

Ma il mutamento di rapporti gerarchici e di indispensabilità non si limita alla squadra di lavorazione, all'unità elementare che dà vita al reparto e alla fabbrica. Ogni squadra di lavorazione esprime nella persona del commissario la coscienza unitaria che ha acquistato del proprio grado di autonomia e di autodisciplina nel lavoro, e assume figura concreta nel reparto e nella fabbrica. Ogni Consiglio di fabbrica (assemblea dei commissari) esprime nelle persone dei componenti il comitato esecutivo la coscienza unitaria che gli operai di tutta la fabbrica hanno acquistato della loro posizione nel campo industriale. Il comitato esecutivo può accorgersi del come sia avvenuto per la figura del direttore della fabbrica lo stesso mutamento di figura che ogni operaio constata nel tecnico. 

La fabbrica non è indipendente: non esiste nella fabbrica l'imprenditore-proprietario, che abbia la capacità mercantile (stimolata dall'interesse legato alla proprietà privata) di comprare bene le materie prime e di vendere meglio l'oggetto fabbricato. Queste funzioni si sono spostate dalla fabbrica singola al sistema di fabbriche possedute da una stessa ditta. E non basta: esse si raccolgono in una banca o in un sistema di banche che si sono assunte l'ufficio reale di fornitrici di materie prime e accaparratrici dei mercati di vendita. Ma durante la guerra, per le necessità della guerra, non è lo Stato divenuto l'approvvigionatore di materie prime per l'industria, il distributore di esse secondo un piano prestabilito, il compratore unico della produzione? Dov'è dunque andata a finire la figura economica dell'imprenditore-proprietario, del capitano d'industria, che è indispensabile alla produzione, che fa fiorire la fabbrica con la sua preveggenza, con le sue iniziative, con lo stimolo dell'interesse individuale? Essa è svanita, si è liquefatta nel processo di sviluppo dello strumento del lavoro, nel processo di sviluppo di rapporti tecnici ed economici che costituiscono le condizioni della produzione e del lavoro. Il capitano d'industria è diventato cavaliere d'industria, si annida nelle banche, nei salotti, nei corridoi ministeriali e parlamentari, nelle borse. Il proprietario del capitale è divenuto un ramo secco nel campo della produzione. 

Poiché egli non è più indispensabile, poiché le sue funzioni storiche sono atrofizzate, egli diventa un mero agente di polizia, egli pone i suoi "diritti" immediatamente nelle mani dello Stato perché li difenda spietatamente. Lo Stato diventa così l'unico proprietario dello strumento di lavoro, assume tutte le funzioni tradizionali dell'imprenditore, diventa la macchina impersonale che compra e distribuisce le materie prime, che impone un piano di produzione, che compra i prodotti e li distribuisce: lo Stato dei politicanti, degli avventurieri, dei bricconi. Conseguenze: aumento della forza armata poliziesca, aumento caotico della burocrazia incompetente, tentativo di assorbire tutti i malcontenti della piccola borghesia avida di ozio, e creazione a questo scopo di organismi parassitari all'infinito. Il numero dei non produttori aumenta morbosamente, supera ogni limite consentito dalla potenzialità dell'apparato di produzione. Si lavora e non si produce, si lavora affannosamente e la produzione cala continuamente. Perché si è formato un abisso spalancato, una fauce immane che inghiotte e annienta il lavoro, annienta la produttività. Le ore non pagate del lavoro operaio non servono più a dare incremento alla ricchezza dei capitalisti: servono a sfamare l'avidità della sterminata moltitudine di agenti, di funzionari, di oziosi, servono a sfamare chi lavora direttamente per questa turba di inutili parassiti. E nessuno è responsabile, e nessuno può essere colpito: sempre dappertutto lo Stato borghese, con la sua forza armata, lo Stato borghese che è diventato il gerente dello strumento di lavoro che si decompone, che va in pezzi, che viene ipotecato e sarà venduto all'incanto nel mercato internazionale dei ferrivecchi logori e inutili... Così si è sviluppato lo strumento di lavoro, il sistema dei rapporti economici e sociali. 

La classe operaia ha acquistato un altissimo grado di autonomia nel campo della produzione, poiché lo sviluppo della tecnica industriale e commerciale ha soppresso tutte le funzioni utili inerenti alla proprietà privata, alla persona del capitalista. La persona del privato proprietario automaticamente espulsa dal campo immediato della produzione, si è annidata nel potere di Stato, monopolizzatore della distillazione del profitto. La forza armata tiene la classe operaia in una schiavitù politica ed economica divenuta antistorica, divenuta fonte di decomposizione e di rovina. La classe operaia si stringe intorno alle macchine, crea i suoi istituti rappresentativi come funzione del lavoro, come funzione della conquistata autonomia, della conquistata coscienza di autogoverno. 

Il Consiglio di fabbrica è la base delle sue esperienze positive, della presa di possesso dello strumento di lavoro, è la base solida del processo che deve culminare nella dittatura, nella conquista del potere di Stato da rivolgere alla distruzione del caos, della cancrena che minaccia di soffocare la società degli uomini, che corrompe e dissolve la società degli uomini.

Per un rinnovamento del Partito socialista

"L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1920

1) La fisionomia della lotta delle classi è in Italia caratterizzata nel momento attuale dal fatto che gli operai industriali e agricoli sono incoercibilmente determinati, su tutto il territorio nazionale, a porre in modo esplicito e violento la questione della proprietà sui mezzi di produzione. L'imperversare delle crisi nazionali e internazionali che annientano progressivamente il valore della moneta dimostra che il capitale è stremato; l'ordine attuale di produzione e di distribuzione non riesce più a soddisfare neppure le elementari esigenze della vita umana e sussiste solo perché ferocemente difeso dalla forza armata dello Stato borghese; tutti i movimenti del popolo lavoratore italiano tendono irresistibilmente ad attuare una gigantesca rivoluzione economica, che introduca nuovi modi di produzione, un nuovo ordine nel processo produttivo e distributivo, che dia alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione, strappandolo dalle mani dei capitalisti e dei terrieri.

2) Gli industriali e i terrieri hanno realizzato il massimo concentramento della disciplina e della potenza di classe: una parola d'ordine lanciata dalla Confederazione Generale dell'Industria italiana trova immediata attuazione in ogni singola fabbrica. Lo Stato borghese ha creato un corpo armato mercenario predisposto a funzionare da strumento esecutivo della volontà di questa nuova organizzazione della classe proprietaria che tende, attraverso la serrata applicata su vasta scala e il terrorismo, a restaurare il suo potere sui mezzi di produzione, costringendo gli operai e i contadini a lasciarsi espropriare di una moltiplicata quantità di lavoro non pagato. La serrata ultima negli stabilimenti metallurgici torinesi è stato un episodio di questa volontà degli industriali di mettere il tallone sulla nuca della classe operaia: gli industriali hanno approfittato della mancanza di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria nelle forze operaie italiane per tentare di spezzare la compagine del proletariato torinese e annientare nella coscienza degli operai il prestigio e l'autorità delle istituzioni di fabbrica (Consigli e commissari di reparto) che avevano iniziato la lotta per il controllo operaio. Il prolungarsi degli scioperi agricoli nel Novarese e in Lomellina dimostra come i proprietari terrieri siano disposti ad annientare la produzione per ridurre alla disperazione e alla fame il proletariato agricolo e soggiogarlo implacabilmente alle più dure e umilianti condizioni di lavoro e di esistenza.

3) La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese.

4) Le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nella della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale periodo, e di non comprendere nulla della missione che incombe agli organismi di lotta del proletariato rivoluzionario. Il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai una opinione sua da esprimere, che sia in dipendenza delle tesi rivoluzionarie del marxismo e della Internazionale comunista, non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria. Il Partito socialista, come organizzazione politica della parte d'avanguardia della classe operaia, dovrebbe sviluppare un'azione d'insieme atta a porre tutta la classe operaia in grado di vincere la rivoluzione e di vincere in modo duraturo. Il Partito socialista, essendo costituito da quella parte di classe proletaria che non si è lasciata avvilire e prostrare dall'oppressione fisica e spirituale del sistema capitalistico, ma è riuscita a salvare la propria autonomia e lo spirito di iniziativa cosciente e disciplinata, dovrebbe incarnare la vigile coscienza rivoluzionaria di tutta la classe sfruttata. Il suo compito è quello di accentrare in sé l'attenzione di tutta la massa, di ottenere che le sue direttive diventino le direttive di tutta la massa, di conquistare la fiducia permanente di tutta la massa in modo di diventarne la guida e la testa pensante. Perciò è necessario che il Partito viva sempre immerso nella realtà effettiva della lotta di classe combattuta dal proletariato industriale e agricolo, che ne sappia comprendere le diverse fasi, i diversi episodi, le molteplici manifestazioni, per trarre l'unità dalla diversità molteplice, per essere in grado di dare una direttiva reale all'insieme dei movimenti e infondere la persuasione nelle folle che un ordine è imminente nello spaventoso attuale disordine, un ordine che, sistemandosi, rigenererà la società degli uomini e renderà lo strumento di lavoro idoneo a soddisfare le esigenze della vita elementare e del progresso civile. Il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese, che si preoccupa solo delle superficiali affermazioni politiche della casta governativa; esso non ha acquistato una sua figura autonoma di partito caratteristico del proletariato rivoluzionario e solo del proletariato rivoluzionario.

5) Dopo il Congresso di Bologna gli organismi centrali del Partito avrebbero immediatamente dovuto iniziare a svolgere fino in fondo una energica azione per rendere omogenea e coesa la compagine rivoluzionaria del Partito, per dargli la fisionomia specifica e distinti di Partito comunista aderente alla III Internazionale. La polemica coi riformisti e cogli opportunisti non fu neppure iniziata; né la direzione del Partito né l' "Avanti!" contrapposero una propria concezione rivoluzionaria alla propaganda incessante che i riformisti e gli opportunisti andavano svolgendo in Parlamento e negli organismi sindacali. Nulla si fece da parte degli organi centrali del Partito per dare alle masse una educazione politica in senso comunista; per indurre le masse a eliminare i riformisti e gli opportunisti dalla direzione delle istituzioni sindacali e cooperative, per dare alle singole sezioni e ai gruppi di compagni più attivi un indirizzo e una tattica unificati. Così è avvenuto che mentre la maggioranza rivoluzionaria del Partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il loro prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali. La direzione ha permesso loro di concentrarsi e di votare risoluzioni contraddittorie con i principi e la tattica della III Internazionale: la direzione del Partito è stata assente sistematicamente dalla vita e dall'attività delle sezioni, degli organismi, dei singoli compagni. La confusione che esisteva nel Partito prima del Congresso di Bologna e che poteva spiegarsi col regime di guerra, non è sparita, ma si è anzi accresciuta in modo spaventoso; è naturale che in tali condizioni il Partito sia scaduto nella fiducia delle masse e che in molti luoghi le tendenze anarchiche abbiano tentato di prendere il sopravvento. Il Partito politico della classe operaia è giustificato solo in quanto, accentrando e coordinando fortemente l'azione proletaria, contrappone un potere rivoluzionario di fatto al potere legale dello Stato borghese e ne limita la libertà di iniziativa e di manovra: se il Partito non realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso le tendenze anarchiche che appunto aspramente e incessantemente criticano l'accentramento e il funzionarismo dei partiti politici.

6) Il Partito è stato assente dal movimento internazionale. La lotta di classe va assumendo in tutti i paesi del mondo forme gigantesche; i proletari sono spinti da per tutto a rinnovare i metodi di lotta, e spesso, come in Germania dopo il colpo di forza militarista, a insorgere con le armi in pugno. Il Partito non si cura di spiegare al popolo lavoratore italiano questi avvenimenti, di giustificarli alla luce della concezione della Internazionale comunista, non si cura di svolgere tutta un'azione educativa rivolta a rendere consapevole il popolo lavoratore italiano della verità che la rivoluzione proletaria è un fenomeno mondiale e che ogni singolo avvenimento deve essere considerato e giudicato in un quadro mondiale. La III Internazionale si è riunita già due volte nell'Europa occidentale, nel dicembre 1919 in una città tedesca, nel febbraio 1920 ad Amsterdam: il Partito italiano non era rappresentato in nessuna delle due riunioni: i militanti del Partito non sono stati neppure informati dagli organismi centrali delle discussioni avvenute e delle deliberazioni prese nelle due conferenze. Nel campo della III Internazionale fervono le polemiche sulla dottrina e sulla tattica della Internazionale comunista: esse (come in Germania) hanno condotto persino a scissioni interne. Il Partito italiano è completamente tagliato fuori da questo rigoglioso dibattito ideale in cui si temperano le coscienze rivoluzionarie e si costruisce l'unità spirituale e d'azione dei proletari di tutti i paesi. L'organo centrale del Partito non ha corrispondenti propri né in Francia, né in Inghilterra, né in Germania e neppure in Isvizzera: strana condizione per il giornale del Partito socialista che in Italia rappresenta gli interessi del proletariato internazionale e strana condizione fatta alla classe operaia italiana che deve informarsi attraverso le notizie delle agenzie e dei giornali borghesi, monche e tendenziose. L' "Avanti!", come organo del Partito, dovrebbe essere organo della III Internazionale: nell' "Avanti!" dovrebbero trovare posto tutte le notizie, le polemiche, le trattazioni di problemi proletari che interessano la III Internazionale; nell' "Avanti!" dovrebbe essere condotta, con spirito unitario, una polemica incessante contro tutte le deviazioni e i compromessi opportunistici: invece l' "Avanti!" mette in valore manifestazioni del pensiero opportunista, come il recente discorso parlamentare dell'on. Treves, che era intessuto su una concezione dei rapporti internazionali piccolo-borghese e svolgeva una teoria controrivoluzionaria e disfattista delle energie proletarie. Questa assenza, negli organi centrali, di ogni preoccupazione di informare il proletariato sugli avvenimenti e sulle discussioni teoriche che si svolgono in seno alla III Internazionale si può osservare anche nell'attività della Libreria Editrice. La Libreria continua a pubblicare opuscoli senza importanza o scritti per diffondere concezioni e opinioni proprie della II Internazionale, mentre trascura le pubblicazioni della III Internazionale. Scritti di compagni russi, indispensabili per comprendere la rivoluzione bolscevica, sono stati tradotti in Svizzera, In Inghilterra, in Germania e sono stati ignorati in Italia: valga per tutti il volume di Lenin Stato e Rivoluzione; gli opuscoli tradotti sono poi tradotti pessimamente, spesso incomprensibili per le storture grammaticali e di senso comune.

7) Dall'analisi precedente risulta quale sia l'opera di rinnovamento e di organizzazione che noi riteniamo indispensabile venga attuata nella compagine del Partito. Il Partito deve acquistare una sua figura precisa e distinta; da partito parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società comunista attraverso lo Stato operaio, un partito omogeneo, coeso, con una sua propria dottrina, una sua tattica, una sua disciplina rigida e implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito e la direzione, liberata dalla preoccupazione di conservare l'unità e l'equilibrio tra le diverse tendenze e tra i diversi leaders, deve rivolgere tutta la sua energia per organizzare le forze operaie sul piede di guerra. Ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente commentato in manifesti circolari della direzione per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie. La direzione, mantenendosi sempre a contatto con le sezioni, deve diventare il centro motore dell'azione proletaria in tutte le sue applicazioni. La sezione deve promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti che diffondano incessantemente in seno alle masse le concezioni e la tattica del Partito, che organizzino la creazione dei Consigli di fabbrica per l'esercizio del controllo sulla produzione industriale e agricola, che svolgano la propaganda necessaria per conquistare in modo organico i sindacati, le Camere del Lavoro e la Confederazione Generale del Lavoro, per diventare gli elementi di fiducia che la massa delegherà per la formazione dei Soviet politici e per l'esercizio della dittatura proletaria. L'esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato, che attraverso i suoi nuclei di fabbrica, di sindacato, di cooperativa coordini e accentri nel suo comitato esecutivo centrale tutta l'azione rivoluzionaria del proletariato, è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet; nell'assenza di una tale condizione ogni proposta di esperimento deve essere rigettata come assurda e utile solo ai diffamatori dell'idea soviettista. Allo stesso modo deve essere rigettata la proposta del parlamentino socialista, che diventerebbe rapidamente uno strumento in mano alla maggioranza riformista e opportunista del gruppo parlamentare per diffondere utopie democratiche e progetti controrivoluzionari.

8) La direzione deve immediatamente studiare, compilare e diffondere un programma di governo rivoluzionario del Partito socialista, nel quale siano prospettate le soluzioni reali che il proletariato, divenuto classe dominante, darà a tutti i problemi essenziali - economici, politici, religiosi, scolastici ecc. - che assillano i diversi strati della popolazione lavoratrice italiana. Basandosi sulla concezione che il Partito fonda la sua potenza e la sua azione solo sulla classe degli operai industriali e agricola che non hanno nessuna proprietà privata e considera gli altri strati del popolo lavoratore come ausiliari della classe schiettamente proletaria, il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito, nel quale il proletariato industriale e agricolo sia invitato a prepararsi e ad armarsi e nel quale siano accennati gli elementi delle soluzioni comuniste per i problemi attuali: controllo proletario sulla produzione e sulla distribuzione, disarmo dei corpi armati mercenari, controllo dei municipi esercitato dalle organizzazioni operaie.

9) La sezione socialista torinese propone, sulla base di queste considerazioni, di promuovere un'intesa, coi gruppi di compagni che in tutte le sezioni vorranno costituirsi per discuterle e approvarle; intesa organizzata che prepari a breve scadenza un congresso dedicato a discutere i problemi di tattica e di organizzazione proletaria e nel frattempo controlli l'attività degli organismi esecutivi del Partito.

Sindacati e consigli (II)

Da "L'ordine nuovo, 12 giugno 1920

Il sindacato non è questa o quella definizione del sindacato: il sindacato diventa una determinata definizione e cioè assume una determinata figura storica in quanto le forze e la volontà operaie che lo costituiscono gli imprimono quell'indirizzo e pongono alla sua azione quel fine che sono affermati nella definizione.

Obiettivamente il sindacato è la forma che la merce-lavoro assume e sola può assumere in regime capitalista quando si organizza per dominare il mercato: questa forma è un ufficio costituito di funzionari, tecnici (quando sono tecnici) dell'organizzazione, specialisti (quando sono specialisti) nell'arte di concentrare e di guidare le forze operaie in modo da stabilire con la potenza del capitale un equilibrio vantaggioso alla classe operaia.

Lo sviluppo dell'organizzazione sindacale è caratterizzato da questi due fatti:

1) il sindacato abbraccia una sempre maggior quantità di effettivi operai, cioè incorpora nella disciplina della sua forma una sempre maggior quantità di effettivi operai;

2) il sindacato concentra e generalizza la sua forma fino a riporre in un ufficio centrale il potere della disciplina e del movimento: esso cioè si stacca dalle masse che ha irregimentato, si pone fuori dal gioco dei capricci, delle velleità delle volubilità che sono proprie delle grandi masse tumultuose.

Così il sindacato diventa capace a contrarre patti, ad assumersi impegni: così esso costringe l'imprenditore ad accettare una legalità che è condizionata dalla fiducia che l'imprenditore ha nella capacità del sindacato di ottenere da parte delle masse operaie il rispetto degli obblighi contratti.

L'avvento di una legalità industriale è stata una grande conquista della classe operaia, ma essa non è l'ultima e definitiva conquista: la legalità industriale ha migliorato le condizioni della vita materiale della classe operaia, ma essa non è più che un compromesso, che è stato necessario compiere, che sarà necessario sopportare fin quando i rapporti di forza saranno sfavorevoli alla classe operaia.

Se i funzionari dell'organizzazione sindacale considerano la legalità industriale come un compromesso necessario, ma non perpetuamente, se essi rivolgono tutti i mezzi di cui il sindacato può disporre per migliorare i rapporti di forza in senso favorevole alla classe operaia, se essi svolgono tutto il lavoro di preparazione spirituale e materiale necessario perché la classe operaia possa in un momento determinato iniziare un'offensiva vittoriosa contro il capitale e sottometterlo alla sua legge, allora il sindacato è uno strumento rivoluzionario, allora la disciplina sindacale, per quanto è rivolta a far rispettare dagli operai la legalità industriale, è la disciplina rivoluzionaria. I rapporti che devono intercorrere tra sindacato e Consiglio di fabbrica debbono essere considerati da questo punto di vista: dal giudizio che si dà sulla natura e il valore della legalità industriale.

Il Consiglio è la negazione della legalità industriale, tende ad annientarla in ogni istante, tende incessantemente a condurre la classe operaia alla conquista del potere industriale, a far diventare la classe operaia la fonte del potere industriale. Il sindacato è un elemento della legalità, e deve proporsi di farla rispettare dai suoi organizzati. Il sindacato è responsabile verso gli industriali, ma è responsabile verso i suoi organizzati: esso garantisce la continuità del lavoro e del salario, e cioè del pane e del tetto, all'operaio e alla famiglia dell'operaio.

Il Consiglio tende, per la sua spontaneità rivoluzionaria, a scatenare in ogni momento la guerra delle classi; il sindacato , per la sua forma burocratica, tende a non lasciare che la guerra di classe venga mai scatenata.

I rapporti tra le due istituzioni devono tendere a creare una situazione in cui non avvenga che un impulso capriccioso del Consiglio determini un passo indietro della classe operaia, determini una sconfitta della classe operaia, una situazione cioè in cui il Consiglio accetti e faccia propria la disciplina del sindacato, e a creare una situazione in cui il carattere rivoluzionario del Consiglio abbia un influsso sul sindacato, sia un reagente che dissolva la burocrazia e il funzionarismo sindacale.

Il Consiglio vorrebbe uscire, in ogni momento, dalla legalità industriale: il Consiglio è la massa, sfruttata, tiranneggiata, costretta al lavoro servile, e perciò tende a universalizzare ogni ribellione, a dare valore e portata risolutiva a ogni suo atto di potere. Il sindacato, come ufficio responsabile in solido della legalità, tende ad universalizzare e perpetuare la legalità.

I rapporti tra sindacato e Consiglio devono creare le condizioni in cui l'uscita dalla legalità, l'offensiva della classe operaia, avvenga quando la classe operaia ha quel minimo di preparazione che si ritiene indispensabile per vincere durevolmente. I rapporti tra sindacato e Consiglio non possono essere stabiliti da altro legame che non sia questo: la maggioranza o una parte cospicua degli elettori del Consiglio sono organizzati nel sindacato. Ogni tentativo di legare con rapporti di dipendenza gerarchica i due istituti non può condurre che all'annientamento di entrambi.

Se la concezione che fa del Consiglio un mero strumento di lotta sindacale si materializza in una disciplina burocratica e in una facoltà di controllo diretto del sindacato sul Consiglio, il Consiglio si isterilisce come espansione rivoluzionaria, come forma dello sviluppo reale della rivoluzione proletaria che tende spontaneamente a creare nuovi modi di produzione e di lavoro, nuovi modi di disciplina, che tende a creare la società comunista. Poiché il Consiglio nasce indipendentemente dalla posizione che la classe operaia è venuta acquistando nel campo della produzione industriale, poiché il Consiglio è una necessità storica della classe operaia, il tentativo di subordinarlo gerarchicamente al sindacato determinerebbe prima o poi un cozzo tra le due istituzioni.

La forza del Consiglio consiste nel fatto che esso aderisce alla coscienza della massa operaia, è la stessa coscienza della massa operaia che vuole emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua libertà di iniziativa nella creazione della storia: tutta la massa partecipa alla vita del Consiglio e sente di essere qualcosa per questa attività. Alla vita del sindacato partecipa un numero strettissimo di organizzati; la forza reale del sindacato è in questo fatto, ma in questo fatto è anche una debolezza che può essere messa alla prova senza gravissimi pericoli. Se d'altronde il sindacato poggiasse direttamente sui Consigli, non per dominarli, ma per diventarne la forma superiore, si rifletterebbe nel sindacato la tendenza propria dei Consigli a uscire ogni istante dalla legalità industriale, a scatenare in qualsiasi momento l'azione risolutiva della guerra di classe.

Il sindacato perderebbe la sua capacità a contrarre impegni, perderebbe il suo carattere di forza disciplinatrice e regolatrice delle forze impulsive della classe operaia. Se gli organizzati stabiliscono nel sindacato una disciplina rivoluzionaria, stabiliscono una disciplina che appaia alla massa come una necessità per il trionfo della rivoluzione operaia e non come una servitù verso il capitale, questa disciplina verrà indubbiamente accettata e fatta propria dal Consiglio, diverrà la forma naturale dell'azione svolta dal Consiglio.

Se l'ufficio del sindacato diventa un organismo di preparazione rivoluzionaria, e tale appare alle masse per l'azione che riesce a svolgere, per gli uomini che lo compongono, per la propaganda che sviluppa, allora il suo carattere concentrato e assoluto sarà visto dalle masse come una maggiore forza rivoluzionaria, come una condizione in più (e delle più importanti) per il successo della lotta impegnata a fondo. Nella realtà italiana, il funzionario sindacale concepisce la legalità industriale come una perpetuità. Egli troppo spesso la difende da un punto di vista che è lo stesso punto di vista del proprietario. Egli vede solo caos e arbitrio in tutto quanto succede tra la massa operaia: egli non universalizza l'atto di ribellione dell'operaio alla disciplina capitalistica come ribellione, ma come materialità dell'atto che può essere in sé e per sé triviale. Così è avvenuto che la storiella dell'"impermeabile del facchino" abbia avuto la stessa diffusione e sia stata interpretata dalla stupidità giornalistica allo stesso modo della storiella sulla "socializzazione delle donne in Russia".

In queste condizioni la disciplina sindacale non può essere che un servizio reso al capitale; in queste condizioni ogni tentativo di subordinare il Consiglio al sindacato non può essere giudicato che reazionario. I comunisti, in quanto vogliono che l'atto rivoluzionario sia, per quanto è possibile, cosciente e responsabile, vogliono una scelta, per quanto può essere una scelta, del momento di scatenare l'offensiva operaia rimanga alla parte più cosciente e responsabile della classe operaia, a quella parte che è organizzata nel Partito socialista e che più attivamente partecipa alla vita dell'organizzazione. Perciò i comunisti non possono volere che il sindacato perda della sua energia disciplinatrice e della sua concentrazione sistematica. I comunisti, costituendosi in gruppi organizzati permanentemente nei sindacati e nelle fabbriche, devono trasportare nei sindacati e nelle fabbriche le loro concezioni, le tesi, la tattica della III Internazionale, devono influenzare la disciplina sindacale e determinare i fini, devono influenzare le deliberazioni dei Consigli di fabbrica e far diventare coscienza e creazione rivoluzionaria gli impulsi alla ribellione che scaturiscono dalla situazione che il capitalismo crea alla classe operaia.

I comunisti del Partito hanno il maggiore interesse, perché su di essi pesa la maggiore responsabilità storica, a suscitare, con la loro azione incessante, tra i diversi istituti della classe operaia, rapporti di compenetrazione e di naturale indipendenza che vivifichino la disciplina e l'organizzazione con lo spirito rivoluzionario.

Il Partito comunista

"L'Ordine Nuovo", 9 ottobre 1920

Il movimento proletario, nella sua fase attuale, tende ad attuare una rivoluzione nell'organizzazione delle cose materiali e delle forze fisiche; i suoi tratti caratteristici non possono essere i sentimenti e le passioni diffuse nella massa e che sorreggono la volontà della massa; i tratti caratteristici della rivoluzione proletaria possono esser ricercati solo nel partito della classe operaia, nel Partito comunista, che esiste e si sviluppa in quanto è l'organizzazione disciplinata della volontà di fondare uno Stato, della volontà di dare una sistemazione proletaria all'ordinamento delle forze fisiche esistenti e di gettare le basi della libertà popolare. 

L'operaio nella fabbrica ha mansioni meramente esecutive. Egli non segue il processo generale del lavoro e della produzione; non è un punto che si muove per creare una linea; è uno spillo conficcato in un luogo determinato e la linea risulta dal susseguirsi degli spilli che una volontà estranea ha disposto per i suoi fini. L'operaio tende a portare questo suo modo di essere in tutti gli ambienti della sua vita; si acconcia facilmente, da per tutto, all'ufficio di esecutore materiale, di "massa" guidata da una volontà estranea alla sua; è pigro intellettualmente, non sa e non vuole prevedere oltre l'immediato, perciò manca di ogni criterio nella scelta dei suoi capi e si lascia illudere facilmente dalle promesse; vuol credere di poter ottenere senza un grande sforzo da parte sua e senza dover pensare troppo. 

Il Partito comunista è lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione per cui l'operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà; nella formazione del Partito comunista è dato cogliere il germe della libertà che avrà il suo sviluppo e la sua piena espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le condizioni materiali necessarie. 

Il Partito comunista, anche come mera organizzazione si è rivelato forma particolare della rivoluzione proletaria. Nessuna rivoluzione del passato ha conosciuto i partiti; essi sono nati dopo la rivoluzione borghese e si sono decomposti nel terreno della democrazia parlamentare. Anche in questo campo si è verificata l'idea marxista che il capitalismo crea forze che poi non riesce a dominare. 

I partiti democratici servivano a indicare uomini politici di valore e a farli trionfare nella concorrenza politica; oggi gli uomini di governo sono imposti dalle banche, dai grandi giornali, dalle associazioni industriali; i partiti si sono decomposti in una molteplicità di cricche personali. 

Il Partito comunista, sorgendo dalle ceneri dei partiti socialisti, ripudia le sue origini democratiche e parlamentari e rivela i suoi caratteri essenziali che sono originali nella storia: la rivoluzione russa è la rivoluzione compiuta dagli uomini organizzati nel Partito comunista, che nel partito si sono plasmati una personalità nuova, hanno acquistato nuovi sentimenti, hanno realizzato una vita morale che tende a divenire coscienza universale e fine per tutti gli uomini. 

I partiti politici sono il riflesso e la nomenclatura delle classi sociali. Essi sorgono, si sviluppano, si decompongono, si rinnovano, a seconda che i diversi strati delle classi sociali in lotta subiscono spostamenti di reale portata storica, vedono radicalmente mutate le loro condizioni di esistenza e di sviluppo, acquistano una maggiore e più chiara consapevolezza di sé e dei propri vitali interessi. 

Nell'attuale periodo storico e in conseguenza della guerra imperialista che ha profondamente mutato la struttura dell'apparecchio nazionale e internazionale di produzione e di scambio, è divenuta caratteristica la rapidità con cui si svolge il processo di dissociazione dei partiti politici tradizionali, nati sul terreno della democrazia parlamentare, e del sorgere di nuove organizzazioni politiche: questo processo generale ubbidisce a una intima logica implacabile, sostanziata dalle sfaldature delle vecchie classi e dei vecchi ceti e dai vertiginosi trapassi da una condizione ad un'altra di interi strati della popolazione in tutto il territorio dello Stato, in tutto il territorio del dominio capitalistico. 

Il Partito socialista si dice assertore delle dottrine marxiste; il partito dovrebbe quindi avere, in queste dottrine, una bussola per orientarsi nel groviglio degli avvenimenti, dovrebbe possedere quella capacità di previsione storica che caratterizza i seguaci intelligenti della dialettica marxista, dovrebbe avere un piano generale d'azione, basato su questa previsione storica, ed essere in grado di lanciare alla classe operaia in lotta parole d'ordine chiare e precise; invece il Partito socialista, il partito assertore del marxismo in Italia, è, come il Partito popolare, come il partito delle classi più arretrate della popolazione italiana, esposto a tutte le pressioni delle masse e si muove e si differenzia quando già le masse si sono spostate e differenziate. In verità questo Partito socialista, che si proclama guida e maestro delle masse, altro non è che un povero notaio che registra le operazioni compiute spontaneamente dalle masse; questo povero Partito socialista, che si proclama capo della classe operaia, altro non è che gli impedimenta dell'esercito proletario. 

Se questo strano procedere del Partito socialista, se questa bizzarra condizione del partito politico della classe operaia non hanno finora provocato una catastrofe, gli è che in mezzo alla classe operaia, nelle sezioni urbane del Partito, nei sindacati, nelle fabbriche, nei villaggi, esistono gruppi energici di comunisti consapevoli del loro ufficio storico, energici e accorti nell'azione, capaci di guidare e di educare le masse locali del proletariato; gli è che esiste potenzialmente, nel seno del Partito socialista, un Partito comunista al quale non manca che l'organizzazione esplicita, la centralizzazione e una sua disciplina per svilupparsi rapidamente, conquistare e rinnovare la compagine del partito della classe operaia, dare un nuovo indirizzo alla Confederazione Generale del Lavoro e al movimento cooperativo. 

Il problema immediato di questo periodo, che succede alla lotta degli operai metallurgici e precede il congresso in cui il Partito deve assumere un atteggiamento serio e preciso di fronte all'Internazionale comunista, è appunto quello di organizzare e centralizzare queste forze comuniste già esistenti e operanti. 

Il Partito socialista, di giorno in giorno, con una rapidità fulminea, si decompone e va in sfacelo; le tendenze in un brevissimo giro di tempo, hanno già acquistato una nuova configurazione; messi di fronte alle responsabilità dell'azione storica e agli impegni assunti nell'aderire all'Internazionale comunista, gli uomini e i gruppi si sono scompigliati, si sono spostati; l'equivoco centrista e opportunista ha guadagnato una parte della direzione del Partito, ha gettato il turbamento e la confusione nelle sezioni. 

Dovere dei comunisti, in questo generale venir meno delle coscienze, delle fedi, della volontà, in questo imperversare di bassezze, di viltà, di disfattismi è quello di stringersi fortemente in gruppi, di affiatarsi, di tenersi pronti alle parole d'ordine che verranno lanciate. I comunisti sinceri e disinteressati, sulla base delle tesi approvate dal II Congresso della III Internazionale, sulla base della leale disciplina alla suprema autorità del movimento operaio mondiale, devono svolgere il lavoro necessario perché, nel più breve tempo possibile, sia costituita la frazione comunista del Partito socialista italiano, che, per il buon nome del proletariato italiano, deve, nel Congresso di Firenze, diventare, di nome e di fatto, Partito comunista italiano, sezione della III Internazionale comunista; perché la frazione comunista si costituisca con un apparecchio direttivo organico e fortemente centralizzato, con proprie articolazioni disciplinate in tutti gli ambienti dove lavora, si riunisce e lotta la classe operaia, con un complesso di servizi e di strumenti per il controllo, per l'azione, per la propaganda che la pongano in condizioni di funzionare e di svilupparsi fin da oggi come un vero e proprio partito. 

I comunisti, che nella lotta metallurgica hanno, con la loro energia e il loro spirito di iniziativa, salvato da un disastro la classe operaia, devono giungere fino alle ultime conclusioni del loro atteggiamento e della loro azione: salvare la compagine primordiale (ricostruendola) del partito della classe operaia, dare al proletariato italiano il Partito comunista che sia capace di organizzare lo Stato operaio e le condizioni per l'avvento della società comunista.

Scissione o sfacelo?

"L'Ordine Nuovo", 11-18 dicembre 1920

I socialcomunisti unitari non vogliono la scissione del Partito, perché non vogliono rovinare la rivoluzione proletaria italiana. Riconosciamo subito che i socialcomunisti unitari rappresentano e incarnano tutte le più "gloriose" tradizioni del grande e glorioso Partito socialista italiano (che diventerà Partito socialcomunista unitario italiano): gloriosa ignoranza, gloriosa e spregiudicata assenza di ogni scrupolo nella polemica e di ogni senso di responsabilità nella politica nazionale, gloriosa bassa demagogia, gloriosa vanità, gloriosissima ciarlanteria, ecco il corpo di tradizioni gloriose e italianissime che si incarnano e sono rappresentate dai socialcomunisti unitari. 

Il Congresso dell'Internazionale comunista ha posto al partito socialista italiano il problema di organizzarsi sulla base dell'accettazione dei deliberati approvati dalla sua assemblea. Si trattava di scindersi dai riformisti, di scindersi cioè da una parte minima del proprio corpo, da una parte che non ha alcuna funzione vitale nell'organismo, che è lontana dalle masse proletarie, che non può dire di rappresentare le masse solo quando esse sono state demoralizzate dagli errori, dalle incertezze, dall'assenteismo dei capi rivoluzionari. 

I socialcomunisti unitari non hanno voluto accettare le deliberazioni del II Congresso per non scindere il Partito dai riformisti e affermano di non voler scindere il Partito dai riformisti per non scindere la massa; essi hanno piombato le masse, e del Partito e delle fabbriche, nel caos più cupo; hanno posto in dubbio la correttezza del Congresso internazionale, hanno ripudiato l'adesione del Partito al Congresso (Serrati è ritornato in Italia da Mosca come Orlando un giorno tornò da Versailles, per protestare, per scindere le responsabilità, per salvare l'onore e la gloria degli italiani), hanno screditato (o hanno cercato di screditare) la più alta autorità dell'Internazionale operaia, hanno fatto dilagare, in un ambiente propizio come il nostro, una marea putrida di pettegolezzi, di insinuazioni, di vigliaccherie, di scetticismi. 

Cosa hanno ottenuto? Hanno scisso il Partito in tre, quattro, cinque tendenze; hanno, nelle grandi città, scisso le masse operaie, che erano compatte contro il riformismo e i riformisti, hanno seminato a piene mani i germi dello sfacelo e della decomposizione nelle file del Partito. 

Cos'è dunque l'unitarismo? Quale malefizio occulto reca questa parola, che determina discordia e scissione maggiore e più vasta, affermando di voler evitare una limitata e ben precisata scissione? Ciò che è, doveva accadere. Se l'unitarismo ha provocato l'attuale sfacelo, la verità è da ricercare nel fatto che lo sfacelo esisteva già: l'unitarismo non ha altra colpa che di avere violentemente strappato una chiusura di cloaca rigurgitante. La verità è che il Partito socialista non era un'"urbe", era un'"orda": non era un organismo, era un agglomerato di individui che avevano il tanto di coscienza classista necessaria per organizzarsi in un sindacato professionale, ma non avevano in gran parte la capacità e la preparazione politica necessarie per organizzarsi in un partito rivoluzionario quale è domandato dall'attuale periodo storico. 

La vanità italiana faceva sempre affermare che da noi esisteva un Partito socialista tutto particolare, che non poteva e non doveva subire le stesse crisi degli altri partiti socialisti: così è avvenuto che in Italia la crisi sia stata artificialmente ritardata e scoppi proprio nel momento in cui sarebbe stato meglio evitarla e scoppi ancor più violenta e devastatrice proprio per la volontà e la cocciutaggine di coloro che sempre la negarono e che ancor oggi la negano verbalmente (noi siamo unitari, unitari che diamine!). 

Sarebbe ridicolo piagnucolare sull'avvenuto e sull'irrimediabile. I comunisti sono e devono essere dei freddi e pacati ragionatori: se tutto è in sfacelo, bisogna rifare tutto, bisogna rifare il Partito, bisogna da oggi considerare e amare la frazione comunista come un partito vero e proprio, come la solida impalcatura del Partito comunista italiano, che fa proseliti, li organizza solidamente, li educa, ne fa cellule attive dell'organismo nuovo che si sviluppa e si svilupperà fino a divenire tutta la classe operaia, fino a divenire l'anima e la volontà di tutto il popolo lavoratore. 

La crisi che oggi attraversiamo è forse la maggiore crisi rivoluzionaria del popolo italiano. Per comprendere questa verità i compagni devono fare questa ipotesi: cosa sarebbe successo se il Partito socialista avesse subìto questa crisi in piena rivoluzione, avendo su di sé tutta la responsabilità di uno Stato? Cosa sarebbe successo se il governo di uno Stato rivoluzionario si fosse trovato in mano a uomini che lottano per le tendenze, e che nella passione di questa lotta mettono in dubbio tutto il più sacro patrimonio di un operaio: la fiducia nell'Internazionale e nella capacità e lealtà degli uomini che ne ricoprono le cariche più alte? Sarebbe successo ciò che è successo in Ungheria: sbandamento delle masse, rilassamento dell'energia rivoluzionaria, vittoria fulminea della controrivoluzione. 

Gli unitari per mania ciarlatanesca di unità, hanno oggi solo sfasciato un partito: domani, essi avrebbero determinato la caduta della rivoluzione. Per quanto essi abbiano danneggiato la classe operaia e rafforzato la reazione, il maleficio non è decisivo: gli uomini di buona volontà hanno ancora un campo sterminato da ricoltivare e far rendere fruttuosamente.

Il popolo delle scimmie

"L'Ordine Nuovo", 2 gennaio 1921

Il fascismo è stata l'ultima "rappresentazione" offerta dalla piccola borghesia urbana nel teatro della vita politica nazionale. La miserevole fine dell'avventura fiumana è l'ultima scena della rappresentazione. Essa può assumersi come l'episodio più importante del processo di intima dissoluzione di questa classe della popolazione italiana. 

Il processo di sfacelo della piccola borghesia si inizia nell'ultimo decennio del secolo scorso. La piccola borghesia perde ogni importanza e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione, con lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa diventa pura classe politica e si specializza nel "cretinismo parlamentare". 

Questo fenomeno che occupa una gran parte della storia contemporanea italiana, prende diversi nomi nelle sue varie fasi: si chiama originalmente "avvento della sinistra al potere", diventa giolittismo, è lotta contro i tentativi kaiseristici di Umberto I, dilaga nel riformismo socialista. La piccola borghesia si incrosta nell'istituto parlamentare: da organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e sull'Amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. 

Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l'unico strumento di controllo e di opposizione agli arbitri del potere amministrativo è l'azione diretta, è la pressione dall'esterno. La settimana rossa del giugno 1914 contro gli eccidi, è il primo grandioso intervento delle masse popolari nella scena politica, per opporsi direttamente agli arbitrii del potere, per esercitare realmente la sovranità popolare, che non trova più una qualsiasi espressione nella Camera rappresentativa: si può dire che nel giugno 1914 il parlamentarismo è, in Italia, entrato nella via della sua organica dissoluzione e col parlamentarismo la funzione politica della piccola borghesia. 

La piccola borghesia, che ha definitivamente perduto ogni speranza di riacquistare una funzione produttiva (solo oggi una speranza di questo genere si riaffaccia, coi tentativi del Partito popolare per ridare importanza alla piccola proprietà agricola e coi tentativi dei funzionari della Confederazione generale del Lavoro per galvanizzare il morticino-controllo sindacale) cerca in ogni modo di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia, scende in piazza. 

Questa nuova tattica si attua nei modi e nelle forme consentiti ad una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti: lo svolgimento dei fatti che ha preso il nome di "radiose giornate di maggio", con tutti i loro riflessi giornalistici, oratori, teatrali, piazzaioli durante la guerra, è come la proiezione nella realtà di una novella della jungla del Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l'intelligenza, tutta l'intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc., ecc. 

Era avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della sua prestazione d'opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza. Nel periodo della guerra il Parlamento decade completamente: la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione e si illude di aver realmente ucciso la lotta di classe, di aver preso la direzione della classe operaia e contadina, di aver sostituito l'idea socialista, immanente nelle masse, con uno strano e bislacco miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista, di "vero rivoluzionarismo", di "sindacalismo nazionale". L'azione diretta delle masse nei giorni 2-3- dicembre, dopo le violenze verificatesi a Roma da parte degli ufficiali contro i deputati socialisti, pone un freno all'attività politica della piccola borghesia, che da quel momento cerca di organizzarsi e di sistemarsi intorno a padroni più ricchi e più sicuri che non sia il potere di Stato ufficiale, indebolito e esaurito dalla guerra. 

L'avventura fiumana è il motivo sentimentale e il meccanismo pratico di questa organizzazione sistematica, ma appare subito evidente che la base solida dell'organizzazione è la diretta difesa della proprietà industriale e agricola dagli assalti della classe rivoluzionaria degli operai e dei contadini poveri. Questa attività della piccola borghesia, divenuta ufficialmente "il fascismo", non è senza conseguenza per la compagine dello Stato. Dopo aver corrotto e rovinato l'istituto parlamentare, la piccola borghesia corrompe e rovina gli altri istituti, i fondamentali sostegni dello Stato: l'esercito, la polizia, la magistratura. 

Corruzione e rovina condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l'unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il "popolo delle scimmie" è caratterizzato appunto dall'incapacità organica a darsi una legge, a fondare uno Stato): il proprietario, per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale per mascherare la sua reale natura, deve assumere atteggiamenti politici "rivoluzionari" e disgregare la più potente difesa della proprietà, lo Stato. La classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del "popolo delle scimmie", della piccola borghesia. 

La piccola borghesia, anche in questa ultima incarnazione politica del "fascismo", si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri. La piccola borghesia, dopo aver rovinato il Parlamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre più larga scala, la violenza privata all' "autorità" della legge, esercita (e non può fare altrimenti) questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre più larghi strati della popolazione.

Un monito

"L'Ordine Nuovo", 15 gennaio 1921

E' caso od è fortuna quella che vuole il Congresso del Partito Socialista italiano si raduni a Livorno nel giorno anniversario del sacrificio di Carlo Liebknecht? 

Noi non crediamo né alle date fatali né alle fatidiche coincidenze della storia, e non crediamo nemmeno che lo spirito dei morti abbia potere di ritornare tra i vivi e di ispirarli. Ma se quelli di cui si commemora la fine sono i "nostri" morti, sono coloro che caddero con le armi levate nel fervore della lotta, e con lo spirito teso, nelle alternative disperate del combattimento, a resistere, ad attendere, a sperare, - di questi morti anche noi sentiamo la vitalità eterna, sentiamo noi pure la permanenza dello spirito loro, animatore tra di noi; - per questi morti anche noi, quasi, ci sentiamo di ripetere le parole della fiduciosa superstizione cristiana: essi sono vivi ancora, e giudicano, e attendono. 

In realtà siamo noi stessi che giudichiamo e attendiamo, ma vogliamo pensare l'azione e il giudizio nostro, in questi momenti supremi, come ispirati, quasi dettati da un insegnamento sorgente di chi tanto più intensamente di noi ha operato per l'affermazione e la vittoria dei principi nostri. 

Sotto gli auspici del nome di Carlo Liebknecht ben si apre perciò il Congresso di Livorno. Chi evocherà, con il nome, i fatti e gli insegnamenti, non potrà trarre da essi che un monito, conforme con la nostra attesa, con la nostra fiducia, con i nostri propositi. 

Con la morte di Carlo Liebknecht, nel gennaio 1919, finiva nel sacrificio cruento la prima grande affermazione dei comunisti dell'Europa centrale e occidentale. L'insurrezione armata del proletariato tedesco che egli diresse con l'autorità della sua persona, enorme di fronte alle mezze figure dei traditori e degli esitanti, e con una precisione di pensiero e di propositi pari all'ardire e alla tenacia infrangibile della volontà, quella insurrezione fu in realtà il primo, il solo tentativo grande, serio e fornito di probabilità di successo, di inserire e comprendere lo sviluppo della crisi europea postbellica nello stesso quadro della rivoluzione proletaria russa. L'insurrezione dei comunisti tedeschi parve per un istante realizzare la saldatura tra la rivoluzione russa vittoriosa e gli sforzi delle minoranze rivoluzionarie dei paesi dell'Europa centrale e occidentale.

Se la saldatura si fosse compiuta, invece di esaurirsi in una serie di tentativi sporadici e nel grande, epico, ma doloroso sforzo di un popolo isolato, la rivoluzione europea avrebbe avuto il suo sbocco naturale in una rivolta di tutto il proletariato contro tutti i governi dell'intesa. 

Perciò nei giorni tragici del gennaio 1919 il cuore del mondo intero pulsò intorno a Berlino, e il destino del mondo intero parve sospeso agli esiti degli scontri rabbiosi nei quali il fiore dei proletari di Germania versava il suo sangue. Il nome stesso di Liebknecht apparve allora a tutti in modo concreto, in modo evidente, ciò che era apparso negli anni della guerra alla fantasia di Henry Barbusse, una sintesi vivente un simbolo: la sintesi e il simbolo della rivolta proletaria contro le infamie, contro gli orrori, contro la schiavitù della guerra e della pace capitalistica. 

Ma oggi che a distanza di due anni ricordiamo quei fatti, noi possiamo aggiungere l'esperienza di un periodo rivoluzionario apertosi con le più grandi speranze e con la più grande audacia, e non ancora concluso, benché il ritorno degli eventi fatto più lento e meno febbrile sembri accennare a una depressione degli spiriti e della volontà di rivolta. Oggi lo sviluppo dei fatti ci si presenta anch'esso più chiaro, insieme col logico incatenarsi delle cause e degli effetti, e il sacrificio di Liebknecht ci appare in tutta la pienezza del valore ch'esso ha avuto, non solo nella storia della rivoluzione europea, ma nella stessa intima storia della formazione nelle file del proletariato di una precisa coscienza e di una valida capacità di azione. 

Perciò, prima di ogni altra cosa, nel ricordare la morte atroce, noi ricordiamo che gli strumenti di essa furono apprestati, prima che dalla classe borghese, dai traditori usciti dalle file del partito del proletariato. Commemoriamo il martire e l'eroe, l'uomo nella cui vita per un istante si sono riassunte le sorti di tutta la classe ribelle, e non possiamo non ricordare, come parte di un insegnamento che non si cancella, che la sua sorte fu segnata da coloro che erano venuti meno alla fede, che erano passati nelle file avversarie o rimasti tra le file dei combattenti per seminarvi dubbio, incertezza, scetticismo. 

L'insurrezione berlinese del gennaio 1919 fallì perché trovò contro di sé, organizzate dai socialdemocratici, le forze della reazione; dopo di essa, il proletariato tedesco fino a ieri è stato impedito di risorgere valido e potente dagli stessi che un giorno erano parsi guide dell'azione e poi si rivelarono traditori nascosti sotto le spoglie o del teorico, o del funzionario, o del parlamentare. Soltanto attualmente dopo un lungo periodo d'elaborazione interiore, dopo un periodo faticoso di liberazione e di rinnovamento, la classe operaia tedesca sta per ritrovare la sua vita. E la ritrova sulle direttive segnate da Carlo Liebknecht. 

Ma noi abbiamo detto che nel suo nome e nell'azione sua vediamo un esempio per tutti i popoli. Più che un esempio, è una prova. Carlo Liebknecht ci ha provato nel modo più valido, col sacrificio, quale è la vita e quali sono gli ostacoli. Chi evocherà il suo nome al Congresso di Livorno saprà esprimere completo il monito che esso contiene? Sotto gli auspici del suo nome noi vogliamo porre - e ci pare realmente ora, che la coincidenza sia fatidica - l'origine del Partito comunista italiano.

La guerra è la guerra

"L'Ordine Nuovo", 31 gennaio 1921

Comprendere e saper valutare con esattezza il nemico, significa possedere già una condizione necessaria per la vittoria. Comprendere e saper valutare le proprie forze e la loro posizione nel campo di lotta, significa possedere un'altra importantissima condizione per la vittoria. 

I fascisti vogliono evidentemente anche a Torino sviluppare fino in fondo il piano generale che ha procurato facili trionfi nelle altre città. Sono stati chiamati contingenti forestieri (bolognesi, truppe scelte, allenate). Sono state intensificate le passeggiate dimostrative, con i propri effettivi inquadrati e incolonnati militarmente. 

Si ripetono incessantemente le convocazioni improvvise degli aderenti, con l'ordine di recarsi armati ai convegni: ciò che serve a creare l'aspettazione di eventi misteriosi ed a determinare così la psicologia della guerra. Le voci allarmistiche vengono diffuse a profusione ("il primo ucciso sarà uno studente socialista, incendieremo "L'Ordine Nuovo", incendieremo la Camera del lavoro, incendieremo la libreria dell'Act"). 

E' questo un espediente che si propone due scopi: disgregare le forze proletarie, col panico e con la snervante incertezza dell'attesa, determinare nei fascisti l'abitudine dell'obiettivo da raggiungere. Avranno i fascisti di Torino il facile trionfo che hanno avuto nelle altre città? Osserviamo intanto che l'aver domandato aiuti fuori, è una prova della debolezza organica del fascismo torinese. A Torino i fascisti si appoggiano e possono appoggiarsi su una sola categoria della classe piccolo borghese: la categoria degli esercenti, non certo famosa per sublimi virtù guerresche. La classe operaia torinese è certo moralmente superiore ai fascisti e sa di essere moralmente superiore. I controrivoluzionari della Confederazione generale del lavoro vanno affermando (per avvilire la massa e toglierle ogni capacità di offesa e di difesa) che gli operai, non avendo fatto la guerra, non possono combattere e vincere il fascismo sul terreno della violenza armata. 

Per ciò che riguarda Torino, questa affermazione disfattista e controrivoluzionaria è falsa anche obiettivamente. Gli operai torinesi hanno queste esperienze "guerresche": sciopero generale del maggio 1915, insurrezione armata di cinque giorni nell'agosto 1917, azione manovrata di grandi masse del 2-3 dicembre 1919, sciopero generale con episodi di tattica irlandese e sviluppo di un piano strategico unitario nell'aprile 1920, occupazione delle fabbriche nel settembre scorso con l'accumulazione di infinite esperienze nell'ordine militare. 

Questo quadro obiettivo delle condizioni in cui si svolgerà la lotta; non ha per nulla lo scopo di attenuare la gravità del pericolo. La classe operaia torinese si trova certo in una buona posizione di guerra, ma nessuna buona posizione può, di per sé, salvare un esercito dalla sconfitta. La buona posizione deve essere sfruttata in tutte le sue possibilità. 

Guai alla classe operaia se essa permetterà, anche un istante solo, che a Torino i fascisti possano mettere in esecuzione il loro piano, come hanno fatto nelle altre città. La minima debolezza, la minima indecisione potrebbe essere fatale. Al primo tentativo fascista deve seguire rapida, secca, spietata la risposta degli operai e deve questa risposta essere tale che il ricordo ne sia tramandato fino ai pronipoti dei signori capitalisti. Alla guerra come alla guerra, e in guerra i colpi non si danno a patti. 

Intanto la classe operaia torinese ha già dichiarato, in una mozione del suo partito politico, di considerare i fascisti solo come strumenti di un'azione che trova i suoi mandanti e responsabilità maggiori in ben altri ambienti. Anche la "Stampa" ha pubblicato (il 27 gennaio, cinque giorni fa appena): "L'attuale potente organizzazione (dei fascisti) è favorita da commercianti, industriali, agricoltori". 

Nella guerra e nella rivoluzione aver pietà di dieci significa essere spietati con mille. La classe operaia ungherese ha voluto essere dolce coi suoi oppressori: oggi sconta, e scontano le donne operaie e scontano i bambini operai, la sua dolcezza; la pietà per i mille ha portato miseria, lutto; disperazione a milioni di proletari ungheresi. 

I colpi non si danno a patti. Tanto più implacabili devono essere gli operai, in quanto non c'è proporzione tra i danni che subisce la classe operaia e i danni che subiscono i capitalisti. La Camera del lavoro è il prodotto degli sforzi di molte generazioni di operaie. E' costata sacrificio e stenti a centinaia di migliaia di operai, è l'unica proprietà di centomila famiglie operaie. Se essa viene distrutta, sono annientati questi sforzi, questi sacrifici, questi stenti, questa proprietà. 

La si vuol distruggere per distruggere l'organizzazione, per togliere all'operaio la garanzia del suo pane, del suo tetto, del suo vestire, per togliere questa garanzia alla donna e al figlio dell'operaio. Pericolo di morte per chi tocca la Camera del lavoro, pericolo di morte per chi favorisce e promuove l'opera di distruzione! Cento per uno. Tutte le case degli industriali e dei commercianti non possono salvare la casa del popolo, perché il popolo perde tutto se perde la sua casa. Pericolo di morte per chi attenta al pane dell'operaio, al pane del figlio dell'operaio. 

La guerra è la guerra: chi tenta l'avventura deve provare il duro morso della belva che ha scatenato. Tutto ciò che l'operaio ha creato col soldino del suo sacrificio, tutto ciò che le generazioni operaie hanno lentamente e faticosamente elaborato col sangue e col dolore, deve essere rispettato come cosa sacra. Scoppia la tempesta e l'uragano quando si commettono sacrilegi, e travolge i colpevoli come pagliuzze. Pericolo di morte per chi tocca la proprietà dell'operaio, dell'uomo condannato a non aver proprietà. 

La guerra è la guerra. Guai a chi la scatena. Un militante della classe operaia che debba passare all'altro mondo, deve avere nel suo viaggio un accompagnamento di prima classe. Se l'incendio arrossa il pezzo di cielo di una strada, la città deve essere provvista di molti bracieri per riscaldare le donne e i figli degli operai andati in guerra. 

Guai a chi scatena la guerra. Se l' ltalia non è abituata alla serietà e alla responsabilità, se l'Italia non è abituata a prendere sul serio nessuno, se l'Italia borghese si è per caso formata la facile e dolce persuasione che neppure i rivoluzionari italiani sono da prendere sul serio, sia lanciato il dado: siamo persuasi che più di una volpe lascerà la sua coda e l'astuzia nella tagliola.

La Confederazione Generale del Lavoro

"L'Ordine Nuovo", 25 febbraio 1921

I comunisti non avranno la maggioranza nel congresso confederale che sta per riunirsi a Livorno; è anzi quasi certo che neppure nei futuri congressi, nonostante ogni sforzo di propaganda e organizzazione, i comunisti avranno la maggioranza. 

La situazione si presenta in questi termini: per avere la maggioranza nei congressi, i comunisti dovrebbero essere in grado di rinnovare radicalmente lo statuto, ma per rinnovare lo statuto è necessario avere già la maggioranza. Se i comunisti si lasciassero impigliare in questo circolo vizioso, essi farebbero il giuoco della burocrazia sindacale: è necessario perciò che l'opposizione abbia un indirizzo preciso e un metodo capace di spezzare l'attuale condizione di cose. 

La Confederazione generale del lavoro (negli altri paesi esiste una situazione identica a quella italiana) è un meccanismo di governo che non può essere paragonato allo Stato parlamentare borghese: essa può trovare dei modelli solo nelle antiche organizzazioni statali assire e babilonesi o nelle associazioni guerriere che ancor oggi nascono e si sviluppano in Mongolia e in Cina. Ciò si spiega da un punto di vista storico. Le masse sono entrate nel movimento sindacale per la paura di essere schiacciate da un avversario che sanno strapotente e del quale non sono in grado di prevedere i colpi e le iniziative. Preoccupate di questa loro condizione di inferiorità assoluta, prive di ogni educazione costituzionale, le masse hanno completamente abdicato a ogni sovranità e a ogni potere; l'organizzazione è per loro diventata una stessa cosa con la persona dell'organizzatore, allo stesso modo che per un esercito in campo la persona del condottiero diventa il palladio della salute comune, diventa la garanzia del successo e della vittoria. 

Sarebbe stato il compito del Partito socialista dare alle masse proletarie la preparazione politica e l'educazione costituzionale di cui esse difettavano. Sarebbe stato compito del partito socialista innovare gradualmente le forme organizzative e trasferire il massimo del potere nelle mani delle masse. 

Il Partito non fece nulla in questo senso; l'organizzazione fu completamente lasciata in balìa di un ristretto gruppo di funzionari, che minuziosamente montarono su la macchina che oggi dà loro l'assoluto dominio. Sette anni senza congresso hanno permesso di più: tutto un nugolo di funzionari è stato scaglionato nelle più importanti posizioni, e si è costituita una fortezza imprendibile e inaccessibile anche ai più tenaci e volenterosi. Il Congresso socialista di Livorno si spiega solo per questa condizione di cose esistente nel campo sindacale: il Partito socialista è completamente caduto nelle mani della burocrazia sindacale che, del resto, col suo personale e coi mezzi delle organizzazioni, aveva procurato la maggioranza alla tendenza unitaria; il Partito socialista è ridotto a far da giannizzero ai mandarini e ai condottieri che sono alla testa delle Federazioni e della Confederazione. 

I comunisti devono riconoscere questo stato di fatto e operare conseguentemente. I comunisti devono considerare la Confederazione alla stessa stregua dello Stato parlamentare, cioè come un organismo la cui conquista non può avvenire per vie costituzionali. Inoltre la questione confederale deve essere riguardata tenendo conto di questi altri postulati: che si vuole raggiungere l'unità proletaria e che si vuole impostare in senso rivoluzionario il problema del controllo sulla produzione. 

Il campo di attività del Partito comunista è tutta la massa degli operai e contadini; la Confederazione è teatro di maggior propaganda e maggiore attività solo perché numericamente abbraccia la maggior parte degli operai e contadini italiani organizzati, cioè più consapevoli e preparati. La lotta per la formazione e per lo sviluppo dei Consigli di fabbrica e di azienda crediamo sia la lotta specifica del Partito comunista. Essa deve porre in grado il partito di innestarsi direttamente con una organizzazione accentrata della massa operaia, organizzazione che deve essere riconosciuta dalle masse come l'unica competente e autorizzata a emanare parole d'ordine per l'azione generale. 

Con la lotta per i Consigli sarà possibile conquistare in modo stabile e permanente la maggioranza della Confederazione, e giungere, se non nel periodo rivoluzionario, certo nel periodo postrivoluzionario, a conquistare anche i posti direttivi. Questo processo si è verificato in Russia: nelle giornate rivoluzionarie del novembre 1917, i proclami e i manifesti del Partito bolscevico non recavano la firma dell'Unione panrussa dei sindacati, recavano la firma della Centrale panrussa dei Consigli di fabbrica. 

E' certo importante avere nel seno della Confederazione una forte minoranza comunista organizzata e centralizzata, e a questo fine devono essere rivolti tutti i nostri sforzi di propaganda e di azione. Ma più importante storicamente e tatticamente è che nessuno sforzo sia risparmiato perché subito dopo il Congresso di Livorno sia possibile convocare un congresso dei Consigli e delle Commissioni interne di tutte le fabbriche e le aziende italiane e che da questo congresso venga nominata una Centrale che abbracci nei suoi quadri organizzativi tutta la massa operaia.

Il movimento torinese dei Consigli di Fabbrica

"L'Ordine Nuovo", 14 marzo 1921

Uno dei membri della delegazione italiana, testé ritornato dalla Russia sovietica, riferì ai lavoratori torinesi che la tribuna destinata all'accoglienza della delegazione di Kronstadt era fregiata con la seguente iscrizione: "Evviva lo sciopero generale torinese dell'aprile 1920". Gli operai appresero questa notizia con molto piacere e grande soddisfazione. La maggior parte dei componenti la delegazione italiana recatasi in Russia erano stati contrari allo sciopero generale d'aprile. Essi sostenevano nei loro articoli contro lo sciopero che gli operai torinesi erano stati vittime di un'illusione e avevano sopravvalutato l'importanza dello sciopero. I lavoratori torinesi appresero perciò con piacere l'atto di simpatia dei compagni di Kronstadt ed essi si dissero: "I nostri compagni comunisti russi hanno meglio compreso e valutato l'importanza dello sciopero di aprile che non gli opportunisti italiani, dando così a questi ultimi una buona lezione".

Lo sciopero di aprile

Il movimento torinese dell'aprile fu infatti un grandioso avvenimento nella storia non soltanto del proletariato italiano, ma di quello europeo, e possiamo dirlo, nella storia del proletariato di tutto il mondo. Per la prima volta nella storia, si verificò infatti il caso di un proletariato che impegna la lotta per il controllo della produzione, senza essere stato spinto all'azione dalla fame o dalla disoccupazione. Di più non fu soltanto una minoranza, un'avanguardia della classe operaia che intraprese la lotta, ma la massa intiera dei lavoratori di Torino scese in campo e portò la lotta, incurante di privazioni e di sacrifizi, fino alla fine. I metallurgici scioperarono per un mese, le altre categorie dieci giorni. Lo sciopero generale degli ultimi dieci anni dilagò in tutto il Piemonte, mobilizzando circa mezzo milione di operai industriali e agricoli, e coinvolse quindi circa quattro milioni di popolazione. I capitalisti italiani tesero tutte le loro forze per soffocare il movimento operaio torinese; tutti i mezzi dello Stato borghese furono posti a loro disposizione, mentre gli operai sostennero da soli la lotta senza alcun aiuto né dalla direzione del Partito socialista, né dalla Confederazione Generale del Lavoro. Anzi, i dirigenti del Partito e della Confederazione schernirono i lavoratori e contadini italiani da qualsiasi azione rivoluzionaria colla quale essi intendevano manifestare la loro solidarietà coi fratelli torinesi, e portare a essi un efficace aiuto. Ma gli operai torinesi non si perdettero d'animo. Essi sopportarono tutto il peso della reazione capitalista, osservarono la disciplina fino all'ultimo momento e rimasero fino dopo la disfatta fedeli alla bandiera del comunismo e della rivoluzione mondiale.

Anarchici e sindacalisti

La propaganda degli anarchici e sindacalisti contro la disciplina di partito e la dittatura del proletariato non ebbe alcuna influenza sulle masse, anche quando, causa del tradimento dei dirigenti, lo sciopero terminò con una sconfitta. I lavoratori torinesi giurarono anzi di intensificare la lotta rivoluzionaria e di condurla su due fronti: da una parte contro la borghesia vittoriosa, dall'altra contro i capi traditori. La coscienza e la disciplina rivoluzionaria, di cui le masse torinesi hanno dato prova, hanno la loro base storica nelle condizioni economiche e politiche in cui si è sviluppata la lotta di classe a Torino. Torino è un centro di carattere prettamente industriale. Quasi tre quarti della popolazione, che conta mezzo milione di abitanti, è composta di operai: gli elementi piccolo-borghesi sono una quantità infima. A Torino vi è inoltre una massa compatta di impiegati e tecnici, che sono organizzati nei sindacati e aderiscono alla Camera del Lavoro. Essi furono durante tutti i grandi scioperi a fianco degli operai, e hanno quindi, se non tutti, almeno la maggior parte, acquistato la psicologia del vero proletariato, in lotta contro il capitale, per la rivoluzione e il comunismo.

Due insurrezioni armate

Durante la guerra imperialista del 1914-18, Torino vide due insurrezioni armate: la prima insurrezione, che scoppiò nel maggio 1915, aveva l'obiettivo di impedire l'intervento dell'Italia nella guerra contro la Germania (in questa occasione venne saccheggiata la Casa del popolo); la seconda insurrezione, nell'agosto 1917, assunse il carattere di una lotta rivoluzionaria armata, su grande scala. La notizia della Rivoluzione di marzo in Russia era stata accolta a Torino con gioia indescrivibile. Gli operai piangevano di commozione quando appresero la notizia che il potere dello zar era stato rovesciato dai lavoratori di Pietrogrado. Ma i lavoratori torinesi non si lasciarono infinocchiare dalla fraseologia demagogica di Kerenski e dei menscevichi (...). Quando nel luglio del 1917 arrivò a Torino la missione inviata nell'Europa occidentale dal Soviet di Pietrogrado, i delegati Smirnov e Goldemberg, che si presentarono dinanzi a una folla di cinquantamila operai, vennero accolti da grida assordanti di "Evviva Lenin! Evviva i bolscevichi!". Goldemberg non era troppo soddisfatto di questa accoglienza; egli non riusciva a capire in che maniera il compagno Lenin si fosse acquistata tanta popolarità fra gli operai torinesi. E non bisogna dimenticare che questo episodio avvenne dopo la repressione della rivolta bolscevica del luglio, che la stampa borghese italiana infuriava contro Lenin e contro i bolscevichi, denunziandoli come briganti, intriganti, agenti e spie dell'imperialismo tedesco. Dal principio della guerra italiana (24 maggio 1915) il proletariato torinese non aveva fatto nessuna manifestazione di massa.

Barricate, trincee, reticolati

L'imponente comizio che era stato organizzato in onore dei delegati del Soviet pietrogradese segnò l'inizio di un nuovo periodo di movimenti di masse. Non passò un mese, che i lavoratori torinesi insorsero con le armi in pugno contro l'imperialismo e il militarismo italiano. L'insurrezione scoppiò il 23 agosto 1917. Per cinque giorni gli operai combatterono nelle vie della città. Gli insorti, che disponevano di fucili, granate e mitragliatrici, riuscirono persino a occupare alcuni quartieri della città e tentarono tre o quattro volte di impadronirsi del centro ove si trovavano le istituzioni governative e i comandi militari. Ma i due anni di guerra e di reazione avevano indebolito la già forte organizzazione del proletariato, e gli operai inferiori di armamento furono vinti. Invano sperarono in un appoggio da parte dei soldati; questi si lasciarono ingannare dall'insinuazione che la rivolta era stata inscenata dai tedeschi. Il popolo eresse barricate, scavò trincee, circondò qualche rione di reticolati a corrente elettrica e respinse per cinque giorni tutti gli attacchi delle truppe e della polizia. Caddero più di 500 operai, più di 2000 vennero gravemente feriti, Dopo la sconfitta i migliori elementi furono arrestati e allontanati e il movimento proletario perdette di intensità rivoluzionaria. Ma i sentimenti comunisti del proletariato torinese non erano spenti.

Nel dopoguerra

Dopo la fine della guerra imperialista il movimento proletario fece rapidi progressi. La massa operaia di Torino comprese che il periodo storico aperto dalla guerra era profondamente diverso dall'epoca precedente la guerra. La classe operaia torinese intuì subito che la III Internazionale è un'organizzazione del proletariato mondiale per la direzione della guerra civile, per la conquista del potere politico, per l'istituzione della dittatura proletaria, per la creazione di un nuovo ordine nei rapporti economici e sociali. I problemi della rivoluzione, economici e politici, formavano oggetto di discussione in tutte le assemblee degli operai. Le migliori forze dell'avanguardia operaia si riunirono per diffondere un settimanale di indirizzo comunista, "l'Ordine Nuovo". Nelle colonne di questo settimanale si trattarono i vari problemi della rivoluzione; l'organizzazione rivoluzionaria delle masse che dovevano conquistare i sindacati alla causa del comunismo; il trasferimento della lotta sindacale dal campo grettamente corporativista e riformista, sul terreno della lotta rivoluzionaria, del controllo sulla produzione e della dittatura del proletariato. Anche la questione dei Consigli di fabbrica fu posta all'ordine del giorno. Nelle aziende torinesi esistevano già prima piccoli comitati operai, riconosciuti dai capitalisti, e alcuni di essi avevano già ingaggiato la lotta contro il funzionarismo, lo spirito riformista e le tendenze costituzionali dei sindacati. Ma la maggior parte di questi comitati non erano creature dei sindacati; le liste dei candidati per questi comitati (commissioni interne) venivano proposte dalle organizzazioni sindacali, le quali sceglievano di preferenza operai di tendenze opportuniste che non avrebbero dato delle noie ai padroni, e avrebbero soffocato in germe ogni azione di massa. I seguaci dell' "Ordine Nuovo" perorarono nella loro propaganda in prima linea la trasformazione delle commissioni interne, e il principio che la formazione delle liste dei candidati dovesse avvenire nel seno della massa operaia e non dalle cime della burocrazia sindacale. I compiti che essi assegnarono ai Consigli di fabbrica furono il controllo sulla produzione, l'armamento e la preparazione militare delle masse, la loro preparazione politica e tecnica. Essi non dovevano più compiere l'antica funzione di cani da guardia che proteggono gli interessi delle classi dominanti, né frenare le masse nelle loro azioni contro il regime capitalistico.

L'entusiasmo per i Consigli

La propaganda per i Consigli di fabbrica venne accolta con entusiasmo dalle masse; nel corso di mezzo anno vennero costituiti Consigli di fabbrica in tutte le fabbriche e officine metallurgiche, i comunisti conquistarono la maggioranza nel sindacato metallurgici; il principio dei Consigli di fabbrica e del controllo sulla produzione venne approvato e accettato dalla maggioranza del Congresso e dalla maggior parte dei sindacati appartenenti alla Camera del Lavoro. L'organizzazione dei Consigli di fabbrica si basa sui seguenti principi: in ogni fabbrica in ogni officina viene costituito un organismo sulla base della rappresentanza (e non sull'antica base del sistema burocratico) il quale realizza la forza del proletariato, la lotta contro l'ordine capitalistico o esercita il controllo sulla produzione, educando tutta la massa operaia per la lotta rivoluzionaria e per la creazione dello Stato operaio. Il Consiglio di fabbrica deve essere formato secondo il principio dell'organizzazione per industria; esso deve rappresentare per la classe operaia il modello della società comunista, alla quale si arriverà attraverso la dittatura del proletariato; in questa società non esisteranno più divisioni di classe, tutti i rapporti sociali saranno regolati secondo le esigenze tecniche della produzione e della organizzazione corrispondente, e non saranno subordinati a un potere statale organizzato. La classe operaia deve comprendere tutta la bellezza e nobiltà dell'ideale per il quale essa lotta e si sacrifica; essa deve rendersi conto che per raggiungere questo ideale è necessario passare attraverso alcune tappe; essa deve riconoscere la necessità della disciplina rivoluzionaria e della dittatura. Ogni azienda si suddivide in reparti e ogni reparto in squadre di mestiere; ogni squadra compie una determinata parte del lavoro; gli operai di ogni squadra eleggono un operaio con mandato imperativo e condizionato. L'assemblea dei delegati di tutta l'azienda forma un Consiglio che elegge dal suo seno un comitato esecutivo. L'assemblea dei segretari politici dei comitati esecutivi forma il comitato centrale dei Consigli che elegge dal suo seno un comitato urbano di studio per la organizzazione della propaganda, la elaborazione dei piani di lavoro, per l'approvazione dei progetti e delle proposte delle singole aziende perfino di singoli operai, e infine per la direzione generale di tutto il movimento.

Consigli e commissioni interne durante gli scioperi

Alcuni compiti dei Consigli di fabbrica hanno carattere prettamente tecnico e perfino industriale, come ad esempio, il controllo sul personale tecnico, il licenziamento di dipendenti che si dimostrano nemici della classe operaia, la lotta con la direzione per la conquista dei diritti e libertà, il controllo della produzione dell'azienda e delle operazioni finanziarie. I Consigli di fabbrica presero presto radici. Le masse accolsero volentieri questa forma di organizzazione comunista, si schierarono intorno ai comitati esecutivi e appoggiarono energicamente la lotta contro l'autocrazia capitalista. Quantunque né gli industriali, né la burocrazia sindacale volessero riconoscere i Consigli e i comitati, questi ottennero tuttavia notevoli successi: essi scacciarono gli agenti e le spie dei capitalisti, annodarono rapporti con gli impiegati e coi tecnici per avere delle informazioni d'indole finanziaria e industriale; negli affari dell'azienda essi concentrarono nelle loro mani il potere disciplinare e dimostrarono alle masse disunite e disgregate ciò che significa la gestione diretta degli operai nell'industria. L'attività dei Consigli e delle commissioni interne si manifestò più chiaramente durante gli scioperi; questi scioperi perdettero il loro carattere impulsivo, fortuito e divennero l'espressione dell'attività cosciente delle masse rivoluzionarie. L'organizzazione tecnica dei Consigli e delle commissioni interne, la loro capacità di azione si perfezionò talmente, che fu possibile ottenere in cinque minuti la sospensione dal lavoro di 15 mila operai dispersi in 42 reparti della Fiat. Il 3 dicembre 1919 i Consigli di fabbrica diedero una prova tangibile della loro capacità di dirigere movimenti di masse in grande stile; dietro ordine della sezione socialista, che concentrava nelle sue mani tutto il meccanismo del movimento di massa, i Consigli di fabbrica mobilizzarono senza alcuna preparazione, nel corso di un'ora, centoventimila operai, inquadrati secondo le aziende. Un'ora dopo si precipitò l'armata proletaria come una valanga fino al centro della città e spazzò dalle strade e dalle piazze tutto il canagliume nazionalista e militarista.

La lotta contro i Consigli

Alla testa del movimento per la costruzione dei Consigli di fabbrica furono i comunisti appartenenti alla sezione socialista e alle organizzazioni sindacali; vi presero pure parte gli anarchici, i quali cercarono di contrapporre la loro fraseologia ampollosa al linguaggio chiaro e preciso dei comunisti marxisti. Il movimento incontrò la resistenza accanita dei funzionari sindacali, della direzione del Partito socialista e dell' "Avanti!". La polemica di questa gente si basava sulla differenza fra il concetto di Consiglio di fabbrica e quello di Soviet. Le loro conclusioni ebbero un carattere puramente teorico, astratto, burocratico. Dietro le loro frasi altisonanti si celava il desiderio di evitare la partecipazione diretta delle masse alla lotta rivoluzionaria, il desiderio di conservare la tutela delle organizzazioni sindacali sulle masse. I componenti la direzione del Partito si rifiutarono sempre di prendere l'iniziativa di una azione rivoluzionaria, prima che non fosse attuato un piano di azione coordinato, ma non facevano mai nulla per preparare ed elaborare questo piano. Il movimento torinese non riuscì però ad uscire dall'ambito locale, poiché tutto il meccanismo burocratico dei sindacati venne messo in moto per impedire che le masse operaie delle altre parti d'Italia seguissero l'esempio di Torino. Il movimento torinese venne deriso, schernito, calunniato e criticato in tutti i modi. Le aspre critiche degli organismi sindacali e della direzione del Partito socialista incoraggiarono nuovamente i capitalisti i quali non ebbero più freno nella loro lotta contro il proletariato torinese e contro i Consigli di fabbrica. La conferenza degli industriali, tenutasi nel marzo 1920 a Milano, elaborò un piano d'attacco; ma i "tutori della classe operaia", le organizzazioni economiche e politiche non si curarono di questo fatto. Abbandonato da tutti, il proletariato torinese fu costretto ad affrontare da solo, colle proprie forze, il capitalismo nazionale e il potere dello Stato. Torino venne inondata da un esercito di poliziotti; intorno alla città si piazzarono cannoni e mitragliatrici nei punti strategici. E quando tutto questo apparato militare fu pronto, i capitalisti cominciarono a provocare il proletariato. E' vero che di fronte a queste gravissime condizioni di lotta il proletariato esitò ad accettare la sfida; ma quando si vide che lo scontro era inevitabile, la classe operaia uscì coraggiosamente dalle sue posizioni di riserva e volle che la lotta fosse condotta fino alla sua fine vittoriosa.

Il Consiglio nazionale socialista di Milano

I metallurgici scioperarono un mese intero, le altre categorie dieci giorni; l'industria in tutta la provincia era ferma, le comunicazioni paralizzate. Il proletariato torinese fu però isolato dal resto d'Italia; gli organi centrali non fecero niente per aiutarlo; ma non pubblicarono nemmeno un manifesto per spiegare al popolo italiano l'importanza della lotta dei lavoratori torinesi; L' "Avanti!" si rifiutò di pubblicare il manifesto della sezione torinese del partito. I compagni torinesi si buscarono dappertutto epiteti di anarchici e avventurieri. In quell'epoca si doveva avere a Torino il Consiglio nazionale del Partito; tale convegno venne però trasferito a Milano, perché una città "in preda a uno sciopero generale" sembrava poco adatta come teatro di discussioni socialiste. In questa occasione si manifestò tutta l'impotenza degli uomini chiamati a dirigere il Partito; mentre la massa operaia difendeva a Torino coraggiosamente i Consigli di fabbrica, la prima organizzazione basata sulla democrazia operaia, incarnante il potere del proletario, a Milano si chiacchierava intorno a progetti e metodi teorici per la formazione di Consigli come forma di potere politico da conquistare dal proletariato; si discuteva sul modo di sistemare le conquiste non avvenute e si abbandonava il proletariato torinese al suo destino, si lasciava alla borghesia la possibilità di distruggere il potere operaio già conquistato. Le masse proletarie italiane manifestarono la loro solidarietà coi compagni torinesi in varie forme; i ferrovieri di Pisa, Livorno e Firenze si rifiutarono di trasportare le truppe destinate a Torino, i lavoratori dei porti e i marinari di Livorno e Genova sabotarono il movimento dei porti; il proletariato di molte città scese in sciopero contro gli ordini dei sindacati. Lo sciopero generale di Torino e del Piemonte cozzò contro il sabotaggio e la resistenza delle organizzazioni sindacali e del Partito stesso. Esso fu tuttavia di grande importanza educativa perché dimostrò che l'unione pratica degli operai e contadini è possibile, e riprovò l'urgente necessità di lottare contro tutto il meccanismo burocratico delle organizzazioni sindacali, che sono il più solido appoggio per l'opera opportunistica dei parlamentari e dei riformisti mirante al soffocamento di ogni movimento rivoluzionario delle masse lavoratrici.

Uomini in carne e ossa

"L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1921

Gli operai della Fiat sono ritornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini in carne e ossa. Hanno resistito per un mese. Sapevano di lottare e resistere non solo per sé, non solo per la restante massa operaia torinese, ma per tutta la classe operaia italiana. 

Hanno resistito per un mese. Erano estenuati fisicamente perché da molte settimane e da molti mesi i loro salari erano ridotti e non erano più sufficienti al sostentamento familiare, eppure hanno resistito per un mese. Erano completamente isolati dalla nazione, immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno resistito per un mese. 

Sapevano di non poter sperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai alla classe operaia italiana erano stati recisi i tendini, sapevano di essere condannati alla sconfitta, eppure hanno resistito per un mese. Non c'è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può domandare a una massa di uomini che è aggredita dalle più dure necessità dell'esistenza, che ha la responsabilità dell'esistenza di una popolazione di 40.000 persone, non si può domandare più di quanto hanno dato questi compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente, accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere più oltre o di reagire. 

Specialmente noi comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne conosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una concezione realistica, dobbiamo comprendere il perché di questa conclusione della lotta torinese. 

Da troppi anni le masse lottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di dettaglio, sperperando i loro mezzi e le loro energie. E' stato questo il rimprovero che fin dal maggio 1919 noi dell' "Ordine Nuovo" abbiamo incessantemente mosso alle centrali del movimento operaio e socialista: non abusate troppo della resistenza e della virtù di sacrificio del proletariato; si tratta di uomini comuni, uomini reali, sottoposti alle stesse debolezze di tutti gli uomini comuni che si vedono passare nelle strade, bere nelle taverne, discorrere a crocchi sulle piazze, che hanno frame e freddo, che si commuovono a sentir piangere i loro bambini e lamentarsi acremente le loro donne. 

Il nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempre sostanziato da questa visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui inesorabilmente bisogna fare i conti. Già un anno fa noi avevamo previsto quale sbocco fatalmente avrebbe avuto la situazione italiana, se i dirigenti responsabili avessero continuato nella loro tattica di schiamazzo rivoluzionario e di pratica opportunistica. E abbiamo lottato disperatamente per richiamare questi responsabili a una visione più reale, a una pratica più congrua e più adeguata allo svolgersi degli avvenimenti. 

Oggi scontiamo il fio, anche noi, dell'inettitudine e della cecità altrui; oggi anche il proletariato torinese deve sostenere l'urto dell'avversario, rafforzato dalla non resistenza degli altri. Non c'è nessuna vergogna nella resa degli operai della Fiat. Ciò che doveva avvenire è avvenuto implacabilmente. La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo compressore della reazione capitalistica. Per quanto tempo? Nulla è perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi. 

Gli operai della Fiat per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per questo loro passato glorioso, all'avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne ed ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti.

Fuori della realtà

"L'Ordine Nuovo", 17 giugno 1921

Il popolo italiano ha seguito la cerimonia d'apertura della XXVI legislatura con la stessa curiosità con la quale ha seguito la corsa ciclistica per il giro d'Italia. Ha guardato alla coreografia, non ha meditato sul discorso, perché sapeva che quel discorso stava a completare la coreografia, quindi non poteva essere che insincero ed irreale? Gli stessi uomini politici manifestano segni di nausea e stanchezza. Ma malgrado ciò il discorso della Corona è stato sventrato, frugato da capo a fondo, ed ogni partito si è sforzato di trarre da esso il tema per qualche discorso brillante sia in laude che in opposizione al contenuto. 

Ma mentre sulla scena politica si seguono queste banali rappresentazioni, nelle quali tutte le ambizioni umane intessono la loro menzogna, sullo sfondo giganteggia la maschera sghignazzante della realtà. Ardono per le vie, nelle case, nell'intimità tutte le passioni di cui si sente capace l'anima umana. L'individualismo ha preso il sopravvento sull'armonia delle collettività operanti ad un fine. La vita collettiva si è spezzata in tante singole tragedie. Delitti che abbassano e riconducono l'uomo allo stato selvaggio; violenze truccate di legalità che rivelano, sotto la mano inguantata dell'uomo colto e aristocratico, il callo e l'artiglio del negriero; torture morali e materiali che strappano gli ultimi veli alle ipocrisie del diritto; arbitrii che spezzano i rapporti sociali ma non osano mettere a parte i ciarpami delle tradizioni e lanciare la grande definitiva parola di sfida. 

In quest'ambiente arroventato, slegato, tentennante, distratto, si leva un ministro della monarchia a ripetere, con la puntualità di un burocrate, le menzogne costituzionali, ed a colui che simboleggia e riassume il potere monarchico si fanno dire pensieri che suonano beffa e insulto. Beffa ed insulto l'invocazione all'equilibrio delle energie di lavoro, all'ordinato ascendere delle classi lavoratrici, alla collaborazione per il rafforzamento dell'autorità dello Stato! Questo Stato che vuol farsi paciere fra le classi a condizione che la lotta della classe lavoratrice segni il passo col cronometro degli interessi di classe borghese, non si accorge di vivere fuori della realtà? La realtà non rivela forse tutto un popolo buono e laborioso sanguinante per mille ferite, per disoccupazione, fame e miseria, mentre tutto l'affarismo agrario e siderurgico minaccia, se non si salvano i suoi privilegi, di affamare l'Italia del lavoro? La realtà non ci fa vedere navi di emigranti che ritornano, onuste di proletariato, in patria, perché altrove non s'accettano quelle bestie da soma? Questo spettro di Stato incarognito in mille delitti, questi ministri adusati nell'arte della menzogna e del cinismo, questo canagliume che vuol pontificare dalla cattedra del diritto e della morale crede di bendarci gli occhi e di sollazzarci per non vedere in faccia la realtà? La sovranità dello Stato per placare le passioni esorbitanti? Ma chi se non lo Stato ha mandato in briciole quel poco che era rimasto di puro nei rapporti sociali? 

Lo stesso governo s'è fatto brigante e non osa confessarlo. Il delinquente che grida viva l'Italia, mentre consuma il suo delitto, spezza tutti gli ostacoli del codice e non va in galera, ma ci va colui che vuol tenere fede ad un'idea che ha sposato fra i dolori e le privazioni e sotto il giogo del lavoro. Non si parli di libertà! Bando agli omaggi per gli uomini che dettarono leggi e codificarono i rapporti sociali. Siamo giunti al punto culminante dei contrasti di classe, e la realtà ci dimostra come il potere statale vada sempre più assumendo carattere di oppressione e di dominio di classe. Noi non ci lasciamo fuorviare dalle esteriorità, legga o non legga il re un discorso, abbia o non abbia fiducia un ministero, si battano o non si battano i partiti per un progetto di legge, a noi la realtà dà la sensazione che tutto ciò serva per fare indugiare le masse operaie, per farle desistere dagli assalti violenti al regime. 

Poiché la realtà ha gettato per le vie la violenza, poiché questa è partorita dai contrasti di classe, poiché questa classe è la borghesia in orgasmo per ricacciare indietro il proletariato, poiché ovunque trionfa il forte in barba alle leggi e alle tradizioni, poiché la vendetta sta in agguato ovunque porti la sua attività la classe operaia, poiché tutto questo è e non è fantasia che valga a diminuire la portata e l'importanza di questi fatti, noi preferiamo la sincerità dei violenti, mercenari o non della borghesia, perché, rotte le menzogne, essi stanno insegnando a tutti come può esercitarsi il dominio di classe all'ombra della legalità. 

Chi ha fede, chi solo alla realtà attinge l'energia necessaria per combattere le lotte sociali deve rimanere sul terreno della violenza contro la violenza e non subirà umiliazioni. Se vi è forza nel produrre, si può, si deve usare la stessa forza perché non sia conculcato il proprio diritto.

Gli Arditi del Popolo

Da "L'ordine nuovo", 15 luglio 1921

Le dichiarazioni fatte ai giornali dall'on. Mingrino a proposito della sua adesione agli Arditi del popolo servono magnificamente per mettere in rilievo il comunicato del Partito comunista sullo stesso argomento . Le dichiarazioni del Mingrino corrispondono alla vieta e logora psicologia del Partito socialista, che altre volte abbiamo battezzato neomalthusiana. Secondo questa concezione, il movimento per gli Arditi del popolo fatalmente riporterebbe a una ripetizione dei fatti del settembre 1920, quando il proletariato metallurgico fu condotto nel campo dell'illegalità, fu messo in condizioni di non poter resistere senza armarsi, senza manomettere i privilegi più sacri del capitalismo e poi, d'un tratto, tutto finì, perché l'occupazione delle fabbriche si proponeva solo dei fini... sindacali. I.'on. Mingrino aderisce agli Arditi del popolo. Dà all'istituzione il suo nome, la sua qualità di deputato socialista, il prestigio della sua figura, diventata simpatica al proletariato rivoluzionario per l'atteggiamento tenuto durante l'aggressione fascista contro il compagno Misiano.

Ma qual è la missione degli Arditi del popolo, secondo Con. Mingrino? Essa dovrebbe limitarsi a determinare un equilibrio alla violenza fascista, dovrebbe essere di pura resistenza, dovrebbe, insomma, avere dei fini puramente... sindacali. L'on. Mingrino crede dunque, ancora, che il fascismo sia una manifestazione superficiale di psicosi postbellica? Non si è ancora persuaso che il fascismo è organicamente legato all'attuale crisi del regime capitalista e che sparirà solo con la soppressione del regime? Non si è ancora convinto che bisogna dare alle ideologie patriottiche, nazionaliste, ricostruttrici di Mussolini e C. un valore puramente marginale e bisogna invece vedere il fascismo nella sua realtà obbiettiva, fuori di ogni schema prestabilito, fuori di ogni piano politico astratto, come uno spontaneo pullulare di energie reazionarie che si aggregano, si disgregano, si riassociano, seguendo i capi ufficiali solo quando le loro parole d'ordine corrispondono all'intima natura del movimento, che è quella che è, nonostante i discorsi di Mussolini, i comunicati di Pasella, gli alalà di tutti gli idealisti di questo mondo?

Iniziare un movimento di riscossa popolare, aderire a un movimento di riscossa popolare ponendo preventivamente un limite alla sua espansione, è il più grave errore di tattica che si possa commettere in questo momento. Non bisogna creare illusioni nelle masse popolari, che soffrono crudelmente e che dalle loro stesse condizioni di sofferenza sono portate a illudersi, a credere di alleviare il loro dolore imi landò il fianco. Non bisogna far credere che basti un piccolo sforzo per salvarsi dai pericoli che oggi incombono su tutto il popolo lavoratore. Bisogna far comprendere, bisogna insistere per far comprendere che oggi il proletariato non si trova contro solo un'associazione piivata, ma si trova contro tutto l'apparecchio statale, con la sua polizia, i suoi tribunali, coi suoi giornali che manipolano l'opinione pubblica secondo il buon piacere del governo e dei capitalisti. Bisogna far comprendere ciò che non fu fatto comprendere nel settembre 1920: quando il popolo lavoratore esce dalla legalità e non trova la virtù di sacrifizio e la capacità politica necessarie per condurre fino in fondo un'azione, viene punito con la fucilazione in massa, con la fame, con il freddo, con l'inedia che uccide lentamente giorno per giorno.

Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del Popolo? Tutt'altro: essi aspirano all'armamento del proletariato, alla creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di sconfiggere la borghesia e di presidiare l'organizzazione e lo sviluppo delle nuove forze produttive generate dal capitalismo. I comunisti sono anche del parere che per impegnare una lotta non bisogna neppure aspettare che la vittoria sia garantita per atto notarile.

Spesse volte nella storia i popoli si sono trovati al bivio: o languire giorno per giorno di inedia, di esaurimento, seminando la propria strada di pochi morti al giorno, che diventano però una folla nelle settimane, nei mesi, negli anni; oppure arrischiare l'alea di morire combattendo in un supremo sforzo di energia, ma anche di vincere, di arrestare d'un colpo il processo dissolutivo, per iniziare l'opera di riorganizzazione e di sviluppo che almeno assicurerà alle generazioni venture un po' più di tranquillità e di benessere. E si sono salvali quei popoli che hanno avuto fede in se stessi e nei propri destini e hanno affrontato la lotta, audacemente. Ma se così pensano i comunisti, per i dati obbiettivi della situazione, per i rapporti di forza con l'avversario, per le possibilità di dominare il marasma e il caos creati dalla guerra imperialista, per tutti gli elementi che non possono essere inventariati e sui quali non sempre si può fare un esatto calcolo di probabilità, essi però vogliono almeno che i fini politici siano chiari e concreti, essi non vogliono che si ripeta oggi ciò che è avvenuto nel settembre 1920, non vogliono almeno per ciò che può essere previsto, che può essere valutato, che può essere predisposto dall'attività politica organizzata in partito.

Gli operai hanno modo di esprimere il loro parere; gli operai socialisti, che sono rivoluzionari, che hanno dall'esperienza di questi ultimi mesi tratto qualche insegnamento, hanno modo di far pressione sul Partito Socialista, di costringerlo a uscire dall'equivoco e dall'ambiguità, di fargli assumere una posizione netta e precisa in questo problema che è il problema della stessa incolumità fisica dell'operaio e contadino.

L'on. Mingrino è deputato socialista; se è uomo sincero, come noi crediamo, prenda egli l'iniziativa di fare uscire dal torpore e dall'indecisione le masse che seguono ancora il suo partito, ma non ponga dei limiti alla loro espansione se non vuole avere la responsabilità di aver procurato per il popolo italiano una nuova disfatta e un nuovo fascismo moltiplicato per tutte le vendette che la reazione implacabilmente esercita sui titubanti e sugli indecisi, dopo aver massacrato le avanguardie d'assalto.

Il carnefice e la vittima

"L'Ordine Nuovo", 17 luglio 1921

Il governo e la stampa borghese cercano un diversivo per mascherare il fallimento delle trattative di pace tra i parlamentari fascisti e i parlamentari riformisti. Il diversivo è già trovato: il Partito comunista. Il Partito comunista non vuole la pacificazione, il Partito comunista è la causa di tutte le disgrazie e di tutte le sofferenze che si abbattono sul popolo italiano, il Partito comunista è un'associazione di briganti, di assassini, di delinquenti comuni, il Partito comunista è l'origine sola del fascismo. Siccome il Partito comunista non vuole la pacificazione, così il governo di Bonomi non può fare a meno di continuare a lasciar fare ai fascisti tutto ciò che ai fascisti farà piacere. Le centinaia e migliaia di depositi di armi e munizioni che i fascisti spesso pubblicamente hanno accumulato non verranno sequestrati. Le mitragliatrici, i cannoni lanciafiamme, i moschetti saranno lasciati ai fascisti. I fascisti potranno ancora sfilare nelle città, incolonnati, col moschetto in spalla, con l'elmetto in testa, coi tascapane pieni di bombe. Lo Stato non interverrà, non applicherà le leggi, non aprirà le prigioni, non disturberà i giudici. Lo Stato non è, per ciò che riguarda i fascisti, un'amministrazione delle leggi, un'organizzazione repressiva e punitiva; lo Stato non esiste per i fascisti, lo Stato riconosce nei fascisti una autorità indipendente e tratta con loro, da pari a pari, e riconosce loro il diritto, se non avverrà la pacificazione, di continuare impunemente a incendiare, ad assassinare, a invadere città e villaggi, a decretare esili e scioglimenti di pubbliche amministrazioni. 

C'è dell'ironia in questa azione pacificatrice del governo italiano. Chi sarà dunque il custode e il garante del "trattato di pace"? Chi si fiderà delle parole di un governo che in tal modo, clamorosamente, confessa o di essere impotente o di essere in malafede? Come farà rispettare la "carta" che dovrebbe essere giurata dai sovversivi e dai fascisti, questo governo che non fa rispettare la carta fondamentale dello Stato giurata dal re al popolo italiano? 

I comunisti non parteciperanno certamente a questo "mercato di sciocchi", non compiranno certamente questo delitto contro il popolo italiano. Non può esserci pace tra il carnefice e la sua vittima, non può esserci pace tra il popolo e i suoi massacratori. Il Partito comunista si assume tutte le responsabilità di questo suo atteggiamento. Sa di diventare il bersaglio della coalizione reazionaria, ma è sicuro che anche se "pacifista" diverrebbe egualmente il bersaglio della reazione coalizzata. 

La classe operaia italiana ha già visto quanto valgono le parole del governo italiano, dopo lo sgombero delle fabbriche occupate. Non dovevano esserci rappresaglie: a migliaia gli operai sono stati cacciati in galera, e i tribunali sudano sette camicie per imbastire un colossale complotto; a centinaia di migliaia gli operai sono stati buttati sulla strada a crepare di fame con le loro famiglie. A Torino anche gli operai socialisti hanno già avuto la scottatura per la loro fiducia nella parola dei reazionari: hanno firmato un patto; oggi è venuta la loro volta, oggi essi vengono licenziati. 

Chi fa rispettare ai reazionari i patti, le promesse, i giuramenti? Ma non dimostrano essi, già prima della pacificazione, tutta la loro malafede? Non è coi comunisti, non è col Partito comunista come piccolo nucleo di individui associati, che la reazione è in collera; essa è in collera con la classe operaia e contadina, come massa di salariati schiavi del capitale, essa ha paura che la classe lavoratrice nella sua totalità, sia essa comunista, socialista, repubblicana, popolare, oppressa, taglieggiata, affamata, insorga contro i suoi sfruttatori e capovolga gli attuali rapporti di classe. 

A Ferrara non si era neppure ancora formata una sezione comunista, eppure a Ferrara il fascismo è stato particolarmente feroce. In tutte le zone agricole, nel Polesine, nel Reggiano, nelle Puglie, dove il fascismo ha instaurato il regime coloniale, il Partito comunista, essenzialmente operaio e urbano, aveva scarsissime forze. Dove il Partito comunista era specialmente forte, come a Torino, il fascismo ha tardato fino al mese di aprile ad entrare in campo. La sua aggressività ha coinciso con la crisi industriale, con la serrata della Fiat, ed è apparsa luminosamente come una coordinata tattica della lotta capitalistica contro l'organizzazione sindacale. 

Il fascismo non è una particolare associazione, come non è una particolare organizzazione il comunismo: il fascismo non è un movimento sociale, è l'espressione organica della classe proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrice, della classe proprietaria che vuole, con la fame e con la morte dei lavoratori ricostruire il sistema economico rovinato dalla guerra imperialista. In questa lotta l'iniziativa appartiene ancora alla classe proprietaria, come al fascismo appartiene l'iniziativa della guerra civile: la classe lavoratrice è la vittima della guerra di classe e non può esserci pace tra la vittima e il carnefice. 

Chi oggi vuole trascinare il proletariato alla pacificazione, è già anch'egli un carnefice: per la pietà che ispirano oggi i dieci uccisi, costoro preparano per domani la strage di mille. Non è neppure pietà cotesta, è ipocrisia vile; il Partito comunista non vuole essere né ipocrita né vile, appunto perché sente davvero la pietà umana per il destino atroce del popolo lavoratore.

Illusioni

"L'Ordine Nuovo", 8 agosto 1921

I provvedimenti contro la disoccupazione sono stati discussi alla Camera per ultimi, come un affare qualunque che interessasse una ristretta categoria di una piccola borgata. Dal modo con cui essi sono stati discussi ed approvati, un fatto risulta evidente: la certezza che i provvedimenti lasceranno il tempo che trovano e che la loro approvazione ha solo valore formale, per gli sciocchi che ancora si illudono sull'utilità dei tornei accademici parlamentari. 

La Camera è, nella sua maggioranza, persuasa che la disoccupazione non ha rimedi e che quelli proposti devono solo servire a mostrare l'apparente buona volontà del governo a risolvere la crisi. Non ci sono ormai che i socialisti, i quali credono che il governo con una saggia politica di lavori pubblici possa far qualche cosa per il milione di operai disoccupati. Governo e rappresentanza parlamentare borghese sanno ottimamente che la crisi non può avere altra soluzione che l'affamamento di una parte della classe operaia e contadina. 

Certo essi trovano legittimo che questo avvenga, poiché per loro entra nel corso naturale delle cose. Essi spiegano la crisi come una calamità sociale alla quale gli operai devono sottomettersi con lo stesso animo con cui affrontano una carestia. Il governo, come rappresentanza borghese, e tanto più in quanto vuole apparire di essere con tutto il popolo, studia progetti, presenta disegni di legge, li approva, per far credere che esso si interessa realmente alla vita degli operai e contadini. Esiste un limite però: esiste il limite della proprietà privata, che non può essere violato. L'affamamento degli operai non può giustificare che si debba ridurre il profitto capitalistico o meglio violare il diritto della proprietà privata. Governo e rappresentanza borghesi sono dunque coerenti, quando approvano disegni di legge che lasciano il tempo che trovano. Essi hanno sempre una scusa a portata di mano: la difesa del proprio privilegio e l'impossibilità di fare di più, senza correre il rischio di perire. Facendo rispettare questo limite, i governi borghesi sono convinti di agire realmente anche nell'interesse dei lavoratori. 

Ora ai socialisti, come rappresentanza proletaria, se non fossero quello che sono sarebbe spettato di smascherare questa politica di classe dei governi borghesi e d'opporvi una politica propria, la quale non potesse lasciare più alcun dubbio nell'animo dei lavoratori. Ma i socialisti si pongono anch'essi sul piano delle illusioni e perdono il loro tempo a discutere questo o quell'altro articolo di progetto di legge, come se la disoccupazione, specie nel periodo attuale, possa davvero trovare la soluzione nella proposta di uno o più emendamenti, che accrescano magari il sussidio giornaliero all'operaio senza lavoro. 

Far credere alle grandi masse di operai disoccupati che essi possono guardare con fiducia nell'opera di aiuto del governo, è volerle mantenere nell'inganno. Oggi che il numero dei disoccupati va rapidamente crescendo e che la classe padronale non ha più alcuno scrupolo nel mettere sul lastrico centinaia di migliaia di famiglie operaie, altra parola d'ordine si richiederebbe da coloro che hanno ricevuto il loro mandato dalla classe lavoratrice. Ma la realtà è fuori del Parlamento. Gli organizzatori operai che in questo avrebbero dovuto far risuonare forte la voce di protesta dei lavoratori, che soffrono nella fame e nella miseria, si sono limitati invece a proporre qualche emendamento al disegno di legge governativo. Intanto che gli operai disoccupati crescono e che la fame miete sempre maggiori vittime in mezzo alle loro famiglie, questa condotta parlamentare degli organizzatori operai non può che giudicarsi ingannevole e traditrice. 

Essa ribadisce l'illusione che si tratti di uomini di governo e d'indirizzo politico, mentre la quistione sostanziale è nel regime. E' questo che si deve additare alle masse operaie come la causa dei loro mali che si deve prima togliere di mezzo, per giungere alla loro liberazione da essi. Tutto il resto è retorica, accademia; ora che la Camera ha di fatto approvato i provvedimenti contro la disoccupazione, non siamo cattivi profeti dicendo che la crisi continuerà a rendersi più acuta nel paese. 

A questo non ci prepara forse l'offensiva degli industriali per la riduzione dei salari? Già i tessili sono alla vigilia del loro sciopero generale in tutta Italia, se i padroni non accedono alle proposte della Federazione. Anche in ciò non bisogna creare illusioni. Nessun aiuto gli operai hanno da sperare dall'intervento dello Stato. Gli operai ricordano a che cosa è servito l'intervento di Giolitti nella vertenza metallurgica; né hanno dimenticato i frutti che ha portato in Inghilterra l'intervento di Lloyd George nella vertenza dei minatori. Nel primo come nell'altro caso, il governo non è intervenuto che per sviare dai suoi propositi di lotta e di resistenza la classe operaia, consegnandola, con la complicità dei suoi organizzatori, alla volontà padronale. 

La classe operaia non ha nulla da sperare da questo o da quell'altro ministro; la classe operaia non può fare affidamento che in se stessa. Ogni decreto, ogni disegno di legge non sono che pezzi di carta per i padroni, la cui volontà può trovare un limite solo nella forza medesima degli operai e non mai negli organi dello Stato. 

Chi dalla tribuna parlamentare o in un comizio, si vale della sua autorità, del suo prestigio, per far credere alle masse che oggi la soluzione della crisi possa essere all'infuori dell'abbattimento dello Stato borghese, non si merita titolo diverso da quello di traditore. 

Tanto se si tratti di combattere contro la disoccupazione che contro la riduzione dei salari, il governo e i suoi organi non possono essere che coi padroni. Gli operai ricordino il decreto di controllo com'è andato a finire e stiano in guardia da qualunque intervento dello Stato nelle loro lotte contro la classe padronale. La sola verità che essi non devono dimenticare mai è che dai padroni otterranno sempre tanto per quanto saranno forti e che oggi l'unica via di salvezza consiste non nell'attendersi aiuti e provvedimenti dai governi della borghesia, ma nel lottare per il loro abbattimento definitivo. 

Non è inutile se si ripete una volta di più che tutti i problemi inerenti alla vita della classe operaia oggi possono trovare la loro soluzione solo nella conquista del potere politico da parte di essa. Ogni altra via non può condurre che a soluzioni parziali ed ingannevoli per la classe operaia.

La smorfia di Gwynplaine

"L'Ordine Nuovo", 30 agosto 1921

Ogni volta che la politica manda a effetto una operazione contro la classe operaia, i primi a gioirne o, "meglio", i primi a dare manifestazioni esteriori della loro contentezza non sono i "pezzi grossi", commissari di polizia od ufficiali delle regie guardie o dei carabinieri, ma sono i più umili agenti, i più modesti carabinieri, l'ultima delle guardie regie. Sono cioè gli agenti del governo usciti dalle file del proletariato più arretrato, costretti a questo passo dalla miseria o dalla speranza di trovare, abbandonando il campo o l'officina, una vita migliore, dalla persuasione di divenire qualche cosa di più di un povero contadino relegato in un paesetto sperduto fra i monti, di un manovale abbruttito dal quotidiano lavoro d'officina. 

Questa gente odia, dopo averne disertato le file, la classe lavoratrice con un accanimento che supera ogni immaginazione. "Ecco le armi", urlò trionfante non so se un agente investigativo od un carabiniere in borghese, scoprendo una rivoltella durante la perquisizione all' "Ordine Nuovo". E rimase stupito, spiacente che nonostante tutta la buona volontà non si riusciva a trovare nulla di compromettente per il nostro giornale. 

Pochi minuti dopo, un altro agente udendo uno scambio di parole tra il commissario ed un nostro redattore, esclamò: "Finiremo per arrestarli tutti! Li arresteremo tutti!" A questo pensiero la sua bocca si aprì ad un riso tanto cattivo da sbalordire chiunque non sia abituato a questo genere di fratellanza umana. 

Ho compreso allora perché nelle caserme e nei posti di polizia, carabinieri, guardie regie ed agenti gareggino nel bastonare gli operai arrestati, nel rallegrarsi delle loro torture. E' un odio di lunga data. Gli agenti dello Stato addetti al mantenimento dell'ordine pubblico sentono attorno a sé il disprezzo che tutta la classe lavoratrice ha per i rinnegati, per quelli che sono passati nell'altro campo, per i mercenari che impegnano ogni loro energia per soffocare qualsiasi movimento del proletariato. 

E al disprezzo del proletariato s'aggiunge quello di gran parte della borghesia che guarda con occhio diffidente tutta questa puzza di questura. Perché? Perché questa è la sorte di tutti i mercenari: al disprezzo e all'odio degli avversari s'aggiunge quasi sempre il disprezzo dei padroni. 

Ed è naturale, è umano che nell'animo di questa gente mal pagata, che non sempre riesce a procurarsi quanto occorre per una vita piena di stenti e di privazioni e che si sente circondata da una barriera che la divide dagli altri uomini, che la mette quasi fuori dalla società, germogli l'odio, metta radici la crudeltà: odio contro quelli che prima erano i fratelli, i compagni di lavoro e che ora disprezzano con maggior forza, crudeltà che si esplica contro di essi sotto mille forme diverse. Così, arrestare un operaio è una gioia, un trionfo, bastonarlo e malmenarlo, una festa, rinchiuderlo in carcere una rivincita. Solo nel momento in cui essi tengono un uomo fra le mani e sanno di poter disporre della sua libertà, della sua incolumità, sentono di possedere una forza che in qualche momento della vita li rende superiori ai loro simili. 

La gioia di acciuffare un uomo non proviene dalla consapevolezza di servire la legge, di difendere l'integrità dello Stato: è una piccola bassa soddisfazione personale, è la gioia di poter dire: "Io sono più forte". 

Quale altra gioia possono essi provare? Quanti di essi sono in grado di formarsi una famiglia senza che la vita di stenti diventi vita di patimenti? Non è forse vero che a molti di questi transfughi del proletariato la vita non riserva altre soddisfazioni che qualche umile offerta di una passeggiatrice notturna in cerca di protezione? 

Noi li abbiamo visti pochi giorni or sono nella nostra redazione. Moltissimi, dall'abito, potevano benissimo essere scambiati per operai in miseria. E' certo che erano umilmente, più che umilmente vestiti non solo per introdursi tra gli operai, per raccoglierne i discorsi, per spiarli, ma anche perché non potrebbero fare diversamente. E guardavano con odio gli operai veri, quelli che si dibattono tra la reazione e la fame e cercano affannosamente la via della liberazione. 

Essi comprendevano, sentivano che chi lotta è sempre superiore a chi serve. 

E quando hanno ammanettato i giovani che difendevano il giornale del loro partito, il giornale della loro classe, il loro giornale, gli agenti hanno avuto un lampo di trionfo, hanno riso. Ma non era un riso spontaneo, giocondo. Era un riso a cui erano costretti dalla rabbia, dal disprezzo degli altri, dalla loro vita, dal destino a cui non potevano sottrarsi. Quel riso era la smorfia di Gwynplaine.

La tattica del fallimento

"L'Ordine Nuovo", 22 settembre 1921

Il Partito socialista italiano è un partito responsabile, un partito che sa quello che vuole, un partito che dirige e guida le masse nella lotta contro la classe padronale? Nessuno può negare che il Partito socialista italiano abbia quest'ultima funzione, che è di guidare e dirigere il proletariato italiano nella lotta anticapitalistica. In quanto esso ha una simile funzione, il Partito socialista è responsabile delle sue azioni; il Partito socialista non può sottrarsi al giudizio e alla condanna della storia. 

Ora, il Partito socialista italiano ha rivelato più volte di essere inadatto a tale funzione, al suo mandato storico. Il Partito socialista è venuto meno al suo compito nel periodo della guerra, durante Caporetto; è venuto meno nel successivo periodo dell'armistizio, durante i moti del caroviveri, dell'occupazione delle fabbriche e dell'invasione delle terre. 

Questa incapacità del Partito socialista ad essere un partito di masse è rivelata in modo più evidente oggi dal suo disagio di fronte all'azione del fascismo italiano. 

Il Partito socialista credeva che la politica dei compromessi sarebbe stata sufficiente a porre fine alla tremenda guerra civile che insanguina l'Italia da quando la classe industriale ed agraria è passata all'offensiva, organizzando sul terreno della violenza le sue guardie bianche. Quanto questa politica di compromessi sia stata vana tutti gli operai sono in grado di notarlo oggi, che il fascismo riprende dappertutto il suo assoluto vigore. Se la tattica dei compromessi adoperata dai socialisti è stata utile a qualcuno, si deve riconoscere che questo qualcuno non può essere che il fascismo. 

Il patto di Roma ha avuto solo questo effetto: di smorzare l'impeto di sdegno che il fascismo aveva sollevato con le sue inaudite violenze nel popolo, senza distinzione di ceti. Quando il popolo si stava rivoltando e pareva essere disposto a porre fine al suo martirio, il Partito socialista lancia una parola d'ordine di pace e rassegnazione. 

Che cosa poteva nascere da un simile atteggiamento? Il popolo lavoratore non può vivere tutti i giorni in continua tensione. Non è un orologio, che può scattare ad ogni ora determinata. Chi non sa comprendere l'animo delle grandi masse, è assente dalla loro vita; è fuori dalla realtà della lotta di classe. Il Partito socialista è appunto sempre stato assente dalla vita delle grandi masse; il Partito socialista non ha mai compreso nulla della vita del proletariato italiano, la sua azione non è mai partita dai bisogni concreti degli operai, dai loro particolari interessi. 

Nelle battaglie che i lavoratori sostengono quotidianamente, il Partito socialista ha sempre fatto la parte di chi non vede che la superficie delle cose. Era naturale perciò che dalla tattica del Partito socialista di fronte al fascismo derivassero sbandamento ed incertezza in mezzo alle masse, di cui disgraziatamente esso ha ancora la direzione. Le conseguenze però di questo sbandamento e di questa incertezza sono unicamente degli operai, della classe lavoratrice. 

Il Partito socialista è responsabile di quanto accade, poiché solo la sua tattica idiota, cieca, ne ha colpa. Né si tratta sempre di tattica idiota. Quanto, ad esempio, è avvenuto nel Pavese non è più soltanto conseguenza di un metodo errato, bensì ha un contenuto politico, la sua essenza è puramente malvagia. E infatti non bisogna dimenticare che la lotta di tendenze nel seno del Partito socialista si ripercuote sul metodo con cui si conducono le battaglie quotidiane degli operai e contadini. Le organizzazioni operaie e contadine sono ora nella loro maggior parte dirette da socialriformisti, le cui opinioni politiche si sa quali sono: collaborazione, partecipazione al potere e via di seguito. Come dimostrare che la collaborazione è necessaria, che la partecipazione al potere s'impone fatalmente? I socialriformisti hanno bisogno di dimostrare che oggi il proletariato non ha altra via di scampo che la partecipazione al potere. 

Non importa se l'esempio dei popolari ha dimostrato che una volta al potere essi saranno zero lo stesso. L'intento di spingere il partito alla collaborazione non può essere raggiunto dai socialriformisti che infliggendo alle masse operaie una serie di sconfitte. Ed ecco perché si proclama lo sciopero dei contadini nel Pavese e poi lo si fa cessare; ecco perché si respinge la proposta del Comitato sindacale comunista e si accetta la tattica del caso per caso. Le sconfitte valorizzano ancor più la tattica socialriformista: le sconfitte aprono la via al potere, cioè a dire spianano la strada al noskismo. 

Così l'intransigenza del Partito socialista si riduce in pratica, come si vede, a niente più di una menzognera etichetta. Il Partito socialista, prigioniero del socialriformismo, non può fare altrimenti. L'intransigenza che esso tiene a proclamare in ogni ordine del giorno della direzione è puro inganno, che servirà solo a rendere più difficile la liberazione delle masse dai suoi traditori.

Ma a questo le masse, è certo, si preparano. Lentamente forse, le masse non potranno non accorgersi di essere state finora ingannate. I contadini del Pavese prima di imprecare contro il fascismo, che ha adoperato la violenza contro di essi per stroncare lo sciopero, dovranno riconoscere che i veri loro nemici sono i capi che hanno tolto dalle loro mani le armi per resistere. 

Nessun operaio, nessun contadino deve oggi scendere in battaglia, senza essere sicuro che i suoi capi non lo colpiscano alle loro spalle nell'ora della lotta. Questa è la fine inevitabile di tutte le agitazioni che verranno iniziate separatamente, caso per caso. Gli operai e i contadini hanno già l'esempio delle precedenti agitazioni. Imparino essi da queste a non servire più le mire politiche del socialriformismo o ad essere gli strumenti di tutti i rivoluzionari opportunisti. 

I fatti dimostrano in modo chiaro che la proposta del Comitato sindacale comunista di preparare la classe operaia e contadina a difendersi dall'assalto capitalista col fronte unico e generale è la sola probabilità di vittoria che sia data oggi. L'appello del Comitato sindacale comunista acquista un valore di urgente attualità, oggi che siamo alla vigilia della lotta dei chimici e dei metallurgici e che altre categorie sono impegnate nella battaglia, come i lanieri. 

Solo gli operai possono impedire che si continui nella tattica disastrosa del fallimento. Essi che sono i soli interessati nella difesa dei loro salari e nella lotta contro il terrore bianco possono e debbono pretendere che l'appello del Comitato sindacale comunista diventi la base dell'azione generale del proletariato italiano.

Insegnamenti

"L'Ordine Nuovo", 5 maggio 1922

Le conclusioni che si possono trarre dall'andamento di questa manifestazione di Primo Maggio sono confortanti. La manifestazione è riuscita come intervento di masse, come estensione di solidarietà operaia. Ha dimostrato come il proletariato italiano malgrado la reazione è sempre rosso. Ed è anche riuscita come prova di spirito di combattività che si risveglia nelle file dei lavoratori. I fascisti si sono preoccupati di dimostrare col loro contegno e colle loro stesse dichiarazioni che si trattava di una manifestazione antifascista. E tale è stato il significato della astensione dal lavoro e dell'intervento alle dimostrazioni di grandissime masse, da un capo all'altro d'Italia, e senza escludere le zone percosse dal fascismo. Se i cortei non si sono fatti si deve alla imposizione del governo: se si fossero potuti tenere, oggi conteremmo un maggior numero di morti operai, ma anche un maggior numero di morti fascisti. 

Tuttavia, accanto alla confortante constatazione della vastità ed imponenza della manifestazione e dell'elevato morale della massa, dobbiamo porre quella che l'organizzazione ha lasciato in generale a desiderare. La cosa non è senza ragione: la tattica dell'unità di fronte adottata in questo Primo Maggio da tutti gli organismi proletari, esperimento dell'Alleanza del lavoro italiana, ha recato insieme questo benefizio e questo vantaggio, che vanno dai comunisti attentamente considerati. 

Ci limitiamo qui ad accennare brevemente alla cosa, in presenza del comunicato diramato dal Comitato dell'Alleanza del lavoro dopo il Primo Maggio. Con la tattica dell'unità di fronte si sono potute radunare ai comizi di Primo Maggio grandi moltitudini operaie anche dove era ben chiaro nella coscienza fin dell'ultimo intervenuto che non si trattava della solita e tradizionale coreografia, ma di una giornata di lotta. Ma questa dimostrazione dell'avversione del proletariato alla reazione e al fascismo, dello spirito di classe che tuttora anima le grandi moltitudini di lavoratori, non è abbastanza per poter aver ragione del fascismo e della reazione. 

Il fascismo non sarà soffocato da unanimità platoniche: le rivoltelle e i pugni non saranno rese impotenti col gettarvi sopra una materassa. Il fascismo non ha il numero, ma ha l'organizzazione, unitaria e centralizzata, ed è in ciò la sua forza, integrata nella centralizzazione del potere ufficiale borghese. L'Alleanza del lavoro che oggi ha permesso di raggruppare masse imponenti deve divenire capace di inquadrarle con disciplina unitaria. Qui è il compito dei comunisti, nel conseguire questo risultato, verso il quale non si è fatto che il primo passo. Quando sarà possibile che le grandi adunate possano contare sul concorso proletario, e nello stesso tempo su una razionale preparazione delle nostre forze, allora il proletariato potrà dominare il suo nemico. 

In questo Primo Maggio si è potuto notare che i comizi e i movimenti concordati dalle organizzazioni alleate mancavano un po' di preparazione organizzativa anche al modesto effetto della loro protezione dagli attacchi degli avversari, e questo dipendeva dal fatto che non era ben chiaro chi avesse organizzato i comizi e disposto il piano del loro svolgimento sotto tutti gli aspetti. I comitati locali dell'Alleanza non sono che di recente formazione, e non hanno chiara consistenza organizzativa, e sufficienti poteri. Tuttavia, è già un gran vantaggio quello di aver potuto avere radunate comuni delle masse, perché ciò eleva il morale proletario e consente ai comunisti di portare a tutto il proletariato la loro franca parola. Tutto un ulteriore sviluppo dell'interessante esperimento italiano della tattica del fronte unico condurrà ad integrare con questo vantaggio innegabile l'altro dell'effettiva ed intima unità di organizzazione. 

L'argomento si presta ad importantissime considerazioni: vogliamo ora solo notare che il terreno sindacale su cui l'Alleanza è costituita, permette ai comunisti di premere perché essa divenga sempre più stretta organizzativamente, giungendosi così all'unità sindacale proletaria che sempre noi abbiamo auspicata e che il programma del Partito comunista solo può e dovrà riempire di contenuto rivoluzionario. Per ora vi è da reagire contro il carattere pigro ed incerto che ha fino ad oggi la dirigenza dell'Alleanza del lavoro. 

I comunisti hanno già formulato in modo preciso e concreto le loro proposte per lo sviluppo, per il ravvivamento, per il potenziamento dell'Alleanza, che potrebbe, se la campagna non venisse spinta energicamente innanzi, parallelamente alle eloquenti esperienze dell'azione proletaria, degenerare in una burocratica ed ingombrante diplomazia di capi esitanti ed opportunisti. 

Quanto le proposte comuniste siano urgenti lo dimostra il contegno passivo dell'Alleanza dinanzi alle gravissime provocazioni che hanno subito il Primo Maggio le folle operaie e, nonostante gli inviti all'azione giunti da tante parti, lo dimostra la sua insensibilità alla pressione che viene oggi dal proletariato italiano disposto a procedere rapidamente sulla via della controffensiva. E lo dimostra, eloquentissimo documento, il comunicato diramato dal Comitato nazionale, che con le sue frasi piatte e banali declina la suggestione sorgente dalle masse anelanti la lotta: comunicato al quale non vogliamo scrivere altro commento, sicuri che, come la quistione è ormai irrevocabilmente posta innanzi alle masse, così queste non mancheranno di commentare e giudicare esse, per trarre da quest'altra delusione nuovo stimolo a proseguire sull'aspra ma sicura via della loro riscossa.

Lettere da Vienna
gennaio- aprile 1924

5 gennaio 1924 - A Scoccimarro

ti dirò sinteticamente perché persisto nel ritenere impossibile che io firmi il manifesto, anche dopo averne letta la seconda redazione. Al Congresso di Roma era stato dichiarato che le tesi sulla tattica sarebbero state votate a titolo consultivo, ma che esse, dopo la discussione del Quarto Congresso, sarebbero state annullate e non se ne sarebbe parlato più. 

Nella prima metà del marzo 1922 l'Esecutivo del Comintern ha pubblicato uno speciale comunicato in cui le tesi sulla tattica del partito venivano confutate e rigettate e un articolo dello Statuto dell'Internazionale dice che ogni deliberazione dell'Esecutivo deve diventare legge per le singole sezioni. Ciò sia detto per la parte formale e giuridica della questione. La quale ha una sua importanza. 

In verità dopo le pubblicazioni del manifesto la maggioranza potrebbe essere squalificata del tutto e anche esclusa dal Comintern. Se la situazione politica dell'Italia non si opponesse a ciò io ritengo che l'esclusione avverrebbe. Alla stregua della concezione di partito che deriva dal manifesto la esclusione dovrebbe essere tassativa. Se una nostra federazione facesse solo la metà di ciò che la maggioranza del partito vuol fare verso il Comintern, il suo scioglimento sarebbe immediato. 

Non voglio, firmando il manifesto, apparire un completo pagliaccio. Ma io non sono neppure d'accordo nella sostanza del manifesto. Ho un'altra concezione del partito, della sua funzione, dei rapporti che devono stabilirsi fra esso e le masse senza partito, fra esso e la popolazione in generale. 

Non credo assolutamente che la tattica che si è sviluppata attraverso gli esecutivi allargati e il Quarto Congresso sia sbagliata. Né per l'impostazione generale, né per dettagli rilevanti. Così credo sia anche per te e per Togliatti e non posso comprendere perciò come voi, a cuore così leggero, vi imbarchiate in una galera così pericolosa. Mi pare che voi vi troviate nello stesso stato d'animo in cui mi sono trovato nel periodo del Congresso di Roma. Forse perché nel frattempo sono stato lontano dal lavoro interno di partito, questo stato d'animo è svanito; in realtà esso è svanito anche per altre ragioni. E una delle più importanti è questa: non si può assolutamente fare dei compromessi con Bordiga. Egli è una personalità troppo vigorosa ed ha una così profonda persuasione di essere nel vero, che pensare di irretirlo con un compromesso è assurdo. Egli continuerà a lottare e ad ogni occasione ripresenterà sempre intatte le sue tesi.

Penso che abbia torto Togliatti nel ritenere che il momento non sia propizio per iniziare una nostra azione indipendente e per dar luogo a una formazione nuova che solo "territorialmente" apparirebbe come di centro. E' innegabile che la concezione che finora è stata ufficiale intorno alla funzione del partito ha portato a cristallizzarsi nelle sole discussioni di organizzazione e quindi a una vera e propria passività politica. Invece del centralismo si è ottenuto di creare un morboso movimento minoritario e se si parla coi compagni emigrati perché più attivamente partecipino all'azione esterna del partito si ha l'impressione che per essi il partito è in realtà ben poca cosa e che ben poco sarebbero disposti a dare per esso. 

L'esperienza della Scuola di Pietrogrado è molto espressiva. In realtà io mi sono persuaso che la forza maggiore che tiene insieme la compagine del partito è il prestigio e l'idealità dell'Internazionale, non già il legame che l'azione specifica del partito sia riuscita a suscitare e abbiamo creato una minoranza a fregiarsi della qualifica di vera rappresentanza dell'Internazionale in Italia. 

E' proprio oggi, quando si è deciso di portare la discussione dinanzi alle masse che bisogna assumere un posto definitivo e la propria esatta figura. Fino a quando le discussioni avvenivano in una cerchia ristrettissima e si trattava di organizzare cinque, sei, dieci persone in un organismo omogeneo era ancora possibile, sebbene non fosse neppure allora totalmente giusto, venire a dei compromessi individuali e trascurare certe questioni che non avevano una immediata attualità. Oggi si va dinanzi alla massa, si discute, si determinano delle formazioni di massa che avranno una vita non solo di poche ore. Ebbene, è necessario che questo fatto avvenga senza equivoci, senza sottintesi, che queste formazioni abbiano una organicità e possano svilupparsi e diventare tutto il partito. 

Perciò io non firmerò il manifesto. Non so ancora con esattezza che fare. Non è la prima volta che mi sono trovato in queste condizioni e Togliatti deve ricordare che nell'agosto 1920 io mi sia staccato anche da lui e da Terracini. Allora ero io che volevo mantenere dei rapporti piuttosto colla sinistra che colla destra, mentre Togliatti e Terracini avevano raggiunto Tasca, che si era staccato da noi fin dal gennaio. Oggi mi sembra che avvenga il contrario. Ma in realtà la situazione è molto diversa e come allora nell'interno del partito socialista bisognava appoggiarsi agli astensionisti, se si voleva creare il nucleo fondamentale del futuro partito, così oggi bisogna lottare contro gli estremismi se si vuole che il partito si sviluppi e che finisca di essere niente altro che una frazione esterna del partito socialista. 

Infatti, i due estremismi, quello di destra e quello di sinistra, avendo incapsulato il partito nella unica e sola discussione dei rapporti col partito socialista, l'hanno ridotto a un ruolo secondario. 

Probabilmente rimarrò solo. Come membro del CC del partito e dell'Esecutivo del Comintern, scriverò una relazione in cui combatterò contro gli uni e contro gli altri, accusando gli uni e gli altri di questa stessa colpa e ricavando dalla dottrina e dalla tattica del Comintern un programma d'azione per l'avvenire della nostra attività. 

Ecco quanto volevo dire. Vi assicuro che qualsiasi vostro ragionamento non riuscirà a smuovermi da questa posizione.

12 gennaio 1924 - A Terracini

la vita interna di un partito comunista non può essere concepita come l'arena di una lotta di tipo parlamentare in cui le varie frazioni svolgono un ufficio che è determinato, come quello dei diversi partiti parlamentari, dalle loro origini diverse, dipendenti dalle diverse classi della società. Nel partito è rappresentata una sola classe e i diversi atteggiamenti che a volta a volta diventano correnti e frazioni sono determinati da apprezzamenti disparati sugli avvenimenti in corso e perciò non possono solidificarsi in una struttura permanente. 

Il CC del partito può aver avuto un determinato indirizzo in determinate condizioni di tempo e di ambiente, ma esso può cambiare questo suo indirizzo, se il tempo e l'ambiente non è più quello di una volta. La minoranza, facendo dei contrasti un qualche cosa di permanente e cercando di ricostruire una mentalità generale propria della maggioranza, che giustifichi questo processo permanente, ha posto, pone e porrà la maggioranza in contrasto continuato col Comintern, cioè con la maggioranza del proletariato rivoluzionario e specialmente col proletariato russo che ha fatto la rivoluzione, in realtà solleva i primi elementi di una questione che dovrebbe portare sicuramente alla esclusione della maggioranza del partito dal Comintern. 

Ma noi neghiamo ogni base a tutto questo procedimento astrattamente dialettico della minoranza e dimostriamo coi fatti che siamo sul terreno del Comintern, che ne applichiamo e ne accettiamo i principi e la tattica, che non ci cristallizziamo in un atteggiamento di opposizione permanente, ma sappiamo mutare i nostri atteggiamenti a seconda che mutano i rapporti delle forze e i problemi da risolvere si pongono su altra base. 

Se nonostante ciò la minoranza continua a porsi, verso la maggioranza, nell'atteggiamento in cui si è posta finora, saremo noi a ricercare se in ciò non esistono gli elementi per dimostrare che la minoranza è un portato delle tendenze liquidatrici che si verificano in ogni movimento rivoluzionario dopo una disfatta e che sono inerenti alle oscillazioni e al panico propri della piccola borghesia, cioè di una classe che non è quella sulla quale si basa il nostro partito. Non ci sarà difficile dimostrare come l'ortodossia della minoranza per la tattica del Comintern sia solo una mascheratura per avere la dirigenza del partito: l'esame della composizione dei gruppi che formano la minoranza ci dà facile modo di dimostrare che essa è fondamentalmente contraria al Comintern e che non tarderà a rivelare questa sua natura. 

Così abbiamo parlato al Tasca e ricordo che io con te e con Scoccimarro ho ripetuto più volte che ritenevo questo ragionamento non una mossa per intimidire momentaneamente Tasca e per indebolirlo dinanzi all'EA (Esecutivo Allargato), ma una nuova piattaforma su cui la maggioranza del partito doveva risolutamente porsi per liquidare onorevolmente il passato e porsi in grado di risolvere i suoi problemi interni. E ricordo che tu e Scoccimarro eravate d'accordo in ciò. Penso che voi siate ancora d'accordo e perciò non so spiegarmi la vostra attuale posizione. In verità noi ci troviamo a una grande svolta storica del movimento comunista italiano. E' questo il momento in cui occorre con grande risolutezza, e con molta precisione porre le nuove basi di sviluppo del partito. 

Il manifesto non rappresenta certamente questa nuova base. Esso dà ogni ragione per far apparire la minoranza come la frazione che al Quarto Congresso e all'EA vedeva bene, diffidando della buona volontà e della sincerità della maggioranza, e facendo apparire questa come un'accolta di piccoli politicanti che volta per volta salvano la loro situazione con mezzucci meschini. Voi dimenticate troppo spesso che il nostro partito ha responsabilità di carattere internazionale e che ogni atteggiamento nostro si ripercuote negli altri paesi, spesso in forme morbose e irrazionali. Insisto nel mio atteggiamento perché lo ritengo il più opportuno e doveroso. 

La tua lettera non fa che confermarmi in questa decisione, specialmente per quello che dici a proposito del ponte che voi avreste rappresentato in questo periodo passato. Bisogna che anche tu, Scoccimarro e Togliatti vi decidiate per la chiarezza, per una posizione che sia la più vicina ai vostri intimi convincimenti e non alla vostra qualità di "ponti". Potremo così insieme fare un grande lavoro e dare al nostro partito tutto lo sviluppo che la situazione gli permette. E' inutile voler conservare un'unità formale di frazione che ci costringe continuamente all'equivoco e alle mezze misure. Se Bordiga vuole insistere, come certamente farà, nel suo atteggiamento, ciò sarà forse un bene, al patto che la sua sia una manifestazione individuale o di un piccolo gruppo; diventando invece, col vostro consenso, manifestazione della maggioranza, essa comprometterebbe irrimediabilmente il partito.

27 gennaio 1924 - A Togliatti

io mi sono convinto anche a mie spese che il tanto lodato ed esaltato centralismo del partito italiano nella realtà si risolveva in una molto banale assenza di divisione del lavoro e assegnazione precisa delle responsabilità e delle competenze. Nelle conversazioni che ho avuto con Fortichiari ho avuto la netta impressione che anch'egli condivideva in gran parte questo apprezzamento ed è non poco demoralizzato per il poco riguardo con cui la sua attività viene trattata e bistrattata. Ognuno prende delle iniziative senza avvertire il centro responsabile, che spesso ha già iniziato in quello stesso senso un lavoro e deve interromperlo; la continuità delle iniziative finisce col mancare; un numero troppo grande di elementi finisce col conoscere le cose più riservate, ogni possibilità di controllo e di verifica viene a mancare; si introducono nel movimento elementi della cui serietà e responsabilità non è stato fatto preventivamente nessun accertamento. Io ho avuto l'impressione che Fortichiari fosse enormemente stanco e sfiduciato per questo cumulo di cose e che perciò così tenacemente abbia cercato di farsi mettere a riposo. 

La questione è molto grave e se essa non viene risolta con criteri di buona organizzazione la situazione può diventare catastrofica. Io sono persuaso che la situazione del nostro partito dal punto di vista della legalità andrà sempre aggravandosi. La vita dei nostri dirigenti e la sicurezza dell'organizzazione saranno tanto più in pericolo quanto più l'opposizione costituzionale al fascismo, imperniandosi intorno al partito riformista, mette in pericolo la base stessa del governo di Mussolini. I fascisti cercheranno di risolvere tutte le situazioni con la caccia ai comunisti e con l'agitare lo spauracchio della sommossa rivoluzionaria. 

Costruire un buon apparecchio tecnico, mettere nei suoi ingranaggi elementi selezionati, di grande esperienza, disciplinati, a tutta prova, dal sangue freddo necessario per non perdere la testa in nessun frangente, diventa per noi ragione di vita o morte. Per ottenere ciò bisogna veramente liquidare molto della situazione passata del partito, con le sue abitudini di menefreghismo, di non fissazione precisa e netta delle responsabilità, di non verifica e immediata sanzione degli atti di debolezza e di leggerezza. 

Il partito deve essere centralizzato, ma centralizzazione significa prima di tutto organizzazione e criterio dei limiti. Significa che quando una decisione è stata presa essa non può essere modificata da nessuno, sia pure uno degli addetti al centralismo e che nessuno può creare dei fatti compiuti. Non ti nascondo che io, in questi due anni che sono rimasto fuori dall'Italia, sono diventato molto pessimista e molto guardingo. Io stesso sono stato spesse volte in bruttissime condizioni per la situazione generale del partito e non per ciò che riguarda la mia situazione personale di cui mi infischio discretamente e che d'altronde non credo neppure abbia sofferto (mi sono tutt'al più involontariamente guadagnato la fama di una volpe dall'astuzia infernale), ma nella mia posizione di rappresentante del partito, chiamato spesso a risolvere questioni che avrebbero avuto un effetto immediato sul movimento italiano. Andato a Mosca senza essere informato neppure di un decimo delle questioni in corso, ho dovuto fingere di sapere e fare delle acrobazie inaudite per non far rilevare con quanta leggerezza venissero nominati i rappresentanti, senz'altro viatico che quello del dottor Grillo: "Che Dio te la mandi buona". 

Ho sopportato molte cose perché la situazione del partito e del movimento era tale che ogni anche apparenza di scissione nelle file della maggioranza sarebbe stata disastrosa e avrebbe dato ossigeno alla minoranza scriteriata e senza direttive. Anche le mie condizioni di salute, che non mi permettevano un lavoro intenso e intensamente continuativo, mi hanno distolto dall'assumere una posizione che avrebbe domandato, oltre che il carico di una responsabilità generale politica, anche la necessità di un intenso lavoro. 

La situazione è oggi di molto cambiata. Le questioni sono sul tappeto non certo per colpa mia, ma in parte perché non si è voluto a tempo seguire qualche mio suggerimento e risolverlo automaticamente. Così ho creduto necessario di prendere l'atteggiamento che ho preso e che manterrò fino in fondo. Non so cosa tu faccia in questo momento. 

PS - Naturalmente io non credo che, in tutto ciò che ti ho esposto, si tratti solo di problemi di organizzazione. La situazione del Partito, che si riflette nell'organizzazione, è la conseguenza di una concezione politica generale. Il problema è quindi politico e investe non solo l'attività attuale, ma quella futura; oggi è problema di rapporti tra i dirigenti del partito e la massa degli iscritti da una parte, tra il partito e il proletariato dall'altra; domani sarà un problema più vasto e influenzerà l'organizzazione e la solidità dello Stato operaio. Non porre oggi la questione in tutta la sua ampiezza, significherebbe ritornare alla tradizione socialista, attendere a differenziarsi quando la rivoluzione è alle porte o addirittura quando già si sviluppa. Abbiamo commesso un grave errore nel 1919 e 1920 a non attaccare più decisamente la direzione socialista e anche a correre l'alea di una espulsione, costituendo una frazione che uscisse fuori da Torino e fosse qualcosa di più della propaganda che poteva fare l'"Ordine Nuovo". Oggi non si tratta di andare a questi estremi, ma mutato il rapporto, la situazione è quasi identica e deve essere affrontata con risolutezza e ardimento.

28 gennaio 1924 - A Leonetti

la tua lettera mi è stata molto gradita perché ha dimostrato che non sono solo ad avere certe preoccupazioni e a ritenere necessarie determinate soluzioni dei nostri problemi. Condivido, quasi completamente, l'analisi che tu hai fatto. Purtroppo però la situazione è molto più grave e difficile di quanto tu possa immaginare e perciò ritengo necessaria una certa prudenza. Sono persuaso che Bordiga è capace di giungere ai più gravi estremi se vede che la situazione del partito diventa difficile per causa sua. Egli è fortemente e recisamente convinto di essere nel vero e di rappresentare gli interessi più vitali del movimento proletario italiano e non indietreggerà neanche dinanzi alla eventualità di una sua espulsione dall'Internazionale. Ma qualche cosa bisogna pur fare e dovrà essere fatta da noi. 

Non condivido il tuo punto di vista che si debba rivalorizzare il nostro gruppo di Torino formatosi intorno all'"Ordine Nuovo". In questi due anni ho visto come la campagna fatta dall'"Avanti" e dai socialisti contro di noi abbia influenzato e lasciato profonde tracce anche tra i membri attuali del nostro partito. A Mosca gli emigrati erano divisi in due campi su questo punto e qualche volta le liti giungevano fino alla rissa e alla colluttazione. D'altronde Tasca appartiene alla minoranza avendo condotto fino alle estreme conseguenze la posizione assunta fin dal gennaio 1920 e culminata nella polemica fra me e lui. Togliatti non sa decidersi come era un po' sempre nelle sue abitudini; la personalità "vigorosa" di Bordiga lo ha fortemente colpito e lo trattiene a mezza via in una indecisione che cerca giustificazioni in cavilli puramente giuridici. Terracini credo sia fondamentalmente anche più estremista di Bordiga, perché ne ha sorbito la concezione, ma non ne possiede la forza intellettuale, il senso pratico e la capacità organizzativa. In che cosa dunque potrebbe rivivere il nostro gruppo? Sembrerebbe nient'altro che una cricca raccoltasi attorno alla mia persona per ragioni burocratiche. Le stesse idee fondamentali che hanno caratterizzato l'attività dell'"Ordine Nuovo" sono oggi o sarebbero anacronistiche.

Apparentemente, almeno oggi, le questioni assumono la forma di problemi di organizzazione e soprattutto di organizzazione del partito. Apparentemente, dico, perché di fatto il problema è sempre lo stesso: quello dei rapporti fra il centro dirigente e la massa del partito e fra il partito e le classi della popolazione lavoratrice.

Nel 1919-20 noi abbiamo commesso errori gravissimi che in fondo adesso scontiamo. Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti e carrieristi, costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta Italia. Non abbiamo voluto dare ai Consigli di fabbrica di Torino un centro direttivo autonomo e che avrebbe potuto esercitare un'immensa influenza in tutto il paese, per paura della scissione nei sindacati e di essere troppo prematuramente espulsi dal partito socialista. Dovremmo, o almeno io dovrò, pubblicamente dire di aver commesso questi errori che indubbiamente hanno avuto non lievi ripercussioni. 

In verità se dopo la scissione di aprile avessimo assunto la posizione che io pure pensavo necessaria, forse saremmo arrivati in una situazione diversa alla occupazione delle fabbriche e avremmo rimandato questo avvenimento ad una stagione più propizia. I nostri meriti sono molto inferiori a quello che abbiamo dovuto strombazzare per necessità di propaganda e di organizzazione; abbiamo solo, e certo questo non è piccola cosa, ottenuto di suscitare e organizzare un forte movimento di massa che ha dato al nostro partito la sola base reale che esso ha avuto negli anni scorsi.

Oggi le prospettive sono diverse e bisogna accuratamente evitare di insistere troppo sul fatto della tradizione torinese e del gruppo torinese. Si finirebbe in polemiche di carattere personalistico per contendersi il maggiorasco di una eredità di ricorsi e di parole. 

Praticamente io penso di influire in questo modo nella situazione. Se verrà pubblicato il manifesto della cosiddetta sinistra comunista, e forse a quest'ora è già stato pubblicato nel primo numero del risorto "Stato Operaio", scriverò un articolo o una serie di articoli per spiegare il perché la mia firma non vi appaia e schizzare un progettino di compiti pratici che il partito deve risolvere nella situazione attuale. 

Se verrà preparata una conferenza del partito e la discussione si svolgerà per vie interne, con solo un minimo di pubblicità, farò una specie di memoriale per i funzionari di partito e i capi gruppo nel quale sarò più esplicito e più diffuso. In ogni caso ritengo indispensabile evitare di inasprire la polemica. Ho visto come sia facile, col nostro temperamento e con lo spirito settario e unilaterale proprio degli italiani, arrivare ai peggiori estremi e alla rottura completa fra i vari compagni. 

Ti sarò grato se vorrai scrivermi ancora per comunicarmi le correnti principali che prevalgono nel partito e l'atteggiamento dei compagni che io conosco, specialmente quelli di Torino.

9 febbraio 1924 - A Togliatti, Terracini e C.

uno dei più gravi errori che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano l'attività del nostro partito può essere riassunto con le stesse parole con cui si esprime la seconda delle tesi sulla tattica: "Questi due fattori di coscienza e di volontà sarebbe erroneo considerarli come facoltà che si possano ottenere e si debbano pretendere dai singoli, poiché si realizzano solo per la integrazione dell'attività di molti individui in un organismo collettivo unitario". Questo concetto, giusto se riferentesi alla classe operaia, è sbagliato ed estremamente pericoloso se riferito al partito. Prima di Livorno esso era il concetto di Serrati, il quale sosteneva che il partito nel suo complesso era rivoluzionario anche se in esso coabitavano socialisti di diverso pelo e colore. Nel congresso di scissione della socialdemocrazia russa questo concetto era sostenuto dai menscevichi, i quali dicevano che il partito nel suo complesso conta e non i singoli individui. Per questi, basta che essi dichiarino di essere socialisti. 

Nel nostro partito questa concezione ha solo parzialmente determinato il pericolo opportunista. Non si può negare infatti che la minoranza sia nata e abbia fatto proseliti per la assenza di discussioni e di polemiche nell'interno del partito, cioè per non aver dato importanza ai singoli compagni e non aver cercato di indirizzarli un po' più concretamente di quanto non possa avvenire coi comunicati e le disposizioni tassative. Nel nostro partito si è avuto a lamentare un altro aspetto del pericolo: l'isterilirsi di ogni attività dei singoli, la passività della massa del partito, la ebete sicurezza che tanto c'era chi a tutto pensava e a tutto provvedeva. 

Questa situazione ha avuto gravissime ripercussioni nel campo organizzativo. Mancò al partito la possibilità di scegliere, con criteri razionali, gli elementi di fiducia ai quali assegnare determinati lavori. La scelta fu fatta empiricamente, secondo le conoscenze personali dei singoli dirigenti, e cadde il più delle volte su elementi che non godevano la fiducia delle organizzazioni locali e quindi si vedevano sabotare. E si aggiunga che il lavoro svolto non veniva controllato che in minima parte, e quindi nel partito si produsse un vero e proprio distacco fra la massa e i dirigenti. 

Questa situazione permane ancora e mi pare piena di innumerevoli pericoli. Nella mia permanenza a Mosca non ho trovato uno solo degli emigrati politici, ed essi venivano dai punti più diversi d'Italia e sono tra gli elementi più attivi, che comprendesse la posizione del nostro partito e che non criticasse acerbamente il CC pur facendo si capisce le premesse più ampie di disciplina e di obbedienza. 

L'errore del partito è stato quello di aver messo in primo piano e in modo astratto il problema della organizzazione del partito, che poi ha voluto dire solamente creare un apparecchio di funzionari i quali fossero ortodossi verso la concezione ufficiale. Si credeva e si crede tuttora che la rivoluzione dipende solo dalla esistenza di un tale apparecchio e si arriva fino a credere che una tale esistenza possa determinare la rivoluzione. 

Il partito ha mancato di una sua attività organica di agitazione e propaganda che invece avrebbe dovuto avere tutte le nostre cure e dar luogo al formarsi di veri e propri specialisti in questo campo. Non si è cercato di suscitare fra le masse, in ogni occasione, la possibilità di esprimersi nello stesso senso del partito comunista. Ogni avvenimento, ogni ricorrenza di carattere locale o nazionale o mondiale avrebbe dovuto servire per agitare le masse attraverso le cellule comuniste, facendo votare mozioni, diffondendo manifestini. 

Ciò non è stato casuale. Il partito comunista è stato perfino contrario alla formazione di cellule di fabbrica. Ogni partecipazione delle masse alla attività e alla vita interna del partito, che non fosse quella delle grandi occasioni e in seguito a un ordine formale del centro, era vista come un pericolo per l'unità e per l'accentramento. Non si era concepito il partito come il risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come una qualche cosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta dell'ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando il centro del partito ritenga di dover iniziare una offensiva e si abbassi alla massa per stimolarla e portarla all'azione. 

Naturalmente, poiché le cose non procedono in questo modo, si sono formati all'insaputa del centro dei posti di infezione opportunistica. E questi avevano il loro riflesso nel gruppo parlamentare e poi lo ebbero, in una forma più organica, nella minoranza. Questa concezione ha influito nella questione della fusione. La domanda che sempre veniva rivolta al Comintern era questa : si crede che il nostro partito sia ancora allo stato di nebulosa, oppure che esso sia una formazione compiuta? La verità è che storicamente un partito non è mai definito e non lo sarà mai, poiché esso si definirà quando sarà diventato tutta la popolazione e cioè sarà sparito. 

Fino alla sua sparizione per aver raggiunto i fini massimi del comunismo esso attraverserà tutta una serie di fasi transitorie e assorbirà volta per volta elementi nuovi nelle due forme storicamente possibili: per adesione individuale o per l'adesione di gruppi più o meno grandi. La situazione era resa ancor più difficile per il nostro partito, date le dissensioni con il Comintern. Se l'Internazionale è un partito mondiale, anche inteso ciò con molti grani di sale, è evidente che lo sviluppo del partito e le forme che esso può assumere dipendono da due fattori e non solamente da uno. Non solo cioè dall'Esecutivo nazionale, ma anche e specialmente dall'Esecutivo internazionale, che è il più forte. 

Per sanare la situazione, per ottenere di imprimere allo sviluppo del nostro partito l'impulso che Bordiga vuole è necessario conquistare l'Esecutivo internazionale, cioè diventare il perno di tutta un'opposizione. Politicamente si arriva a questo risultato ed è naturale che l'Esecutivo internazionale cerchi di spezzare le reni all'Esecutivo italiano. Bordiga ha tutta una concezione a questo proposito e nel suo sistema tutto è logicamente coerente e conseguente. Egli pensa che la tattica dell'Internazionale risenta i riflessi della situazione russa, sia cioè nata sul terreno di una civiltà capitalistica arretrata e primitiva. Per lui questa tattica è estremamente volontaristica e teatrale, perché solo con un estremo sforzo di volontà si poteva ottenere dalle masse russe un'attività rivoluzionaria che non era determinata dalla situazione storica. Egli pensa che per i paesi più sviluppati dell'Europa centrale ed occidentale questa tattica sia inadeguata o addirittura inutile. In questi paesi il meccanismo storico funziona secondo tutti i crismi marxistici: c'è la determinazione che mancava in Russia, e perciò il compito assorbente deve essere quello di organizzare il partito in sé e per sé. 

Io credo che la situazione sia molto diversa. In primo luogo perché la concezione politica dei comunisti russi si è formata su un terreno internazionale e non su quello nazionale; in secondo luogo perché nell'Europa centrale ed occidentale lo sviluppo del capitalismo ha determinato non solo la formazione di larghi strati proletari, ma anche e perciò creato lo strato superiore, l'aristocrazia operaia con i suoi annessi di burocrazia sindacale e di gruppi socialdemocratici. La determinazione che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all'assalto rivoluzionario, nell'Europa centrale ed occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche, create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più prudente l'azione della massa e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo ed il novembre 1917. 

Ma che Bordiga abbia questa sua concezione e che cerchi di farla trionfare non solo su scala nazionale, ma anche su scala internazionale, è una cosa: egli è convinto e lotta con molta abilità e con molta elasticità per ottenere il suo scopo, per non compromettere le sue tesi, per dilazionare una sanzione del Comintern che gli impedisca di continuare fino alla saldatura col periodo storico in cui la rivoluzione nell'Europa occidentale e centrale abbia tolto alla Russia il carattere di egemonia che oggi essa ha. 

Ma che noi, che non siamo persuasi della storicità di questa concezione, continuiamo politicamente ad affiancarla e a darle quindi tutto il suo valore internazionale è un'altra cosa. Bordiga si pone dal punto di vista di una minoranza internazionale. Non possiamo perciò volere il governo del partito sia dato a rappresentanti della minoranza perché questi sono d'accordo con l'Internazionale, anche se dopo la discussione aperta del manifesto la maggioranza del partito rimane con gli attuali dirigenti. E' questo secondo me il punto centrale, che deve politicamente determinare il nostro atteggiamento. 

Se poi fossimo d'accordo con le tesi di Bordiga, naturalmente dovremmo porci il problema se avendo con noi la maggioranza del partito convenga rimanere nell'Internazionale, diretti nazionalmente dalla minoranza per dar tempo al tempo e giungere fino a un capovolgimento della situazione che ci dia ragione teoricamente, o se convenga romperla. Ma se non siamo d'accordo con le tesi, firmare il manifesto significa assumersi tutta la responsabilità di questo equivoco. Se si ottiene la maggioranza sulle tesi di Bordiga accettare la direzione della minoranza noi che non siamo d'accordo con queste tesi e che potremmo quindi risolvere la situazione organicamente, oppure rimanere in minoranza, quando per le nostre concezioni siamo d'accordo con la maggioranza, che si schiererebbe intorno all'Internazionale. Ciò significherebbe la nostra liquidazione politica e il distacco da Bordiga in seguito a un tale stato di cose assumerebbe l'aspetto più antipatico e odioso.

Indicazioni per il lavoro avvenire

Non voglio dilungarmi molto in questa parte perché essa domanderebbe molto spazio per essere trattata adeguatamente. Mi accontenterò di alcune indicazioni. 

Il lavoro futuro del partito dovrà essere rinnovato nei due punti, organizzativo e politico. Nel campo organizzativo penso sia necessario valorizzare il CC e farlo lavorare di più, per quanto è possibile data la situazione. Penso che sia necessario stabilire meglio i rapporti che devono intercorrere fra i vari organismi di partito, stabilendo più esattamente e rigorosamente la divisione del lavoro e la fissazione delle responsabilità. 

Due organi e due attività nuove devono essere create: una commissione di controllo costituita prevalentemente di vecchi operai che deve giudicare in ultima istanza le questioni litigiose che non abbiano una immediata ripercussione politica, per le quali non sia quindi necessario l'immediato intervento dell'Esecutivo. E deve esaminare continuamente la situazione dei membri del partito per le revisioni periodiche; un comitato di agitazione e di propaganda che deve raccogliere tutto il materiale locale e nazionale necessario e utile per il lavoro di agitazione e di propaganda del partito. Esso deve studiare le situazioni locali, proporre agitazioni, compilare manifestini e tesine per indirizzare il lavoro degli organismi locali; esso deve poggiare su tutta una organizzazione nazionale, il cui nucleo costitutivo sarà il rione per i grandi centri urbani e il mandamento per le campagne; esso deve cominciare il suo lavoro da un censimento dei soci del partito i quali devono essere divisi ai fini della organizzazione a seconda della anzianità e delle cariche che hanno coperto, delle capacità che hanno dimostrato oltre evidentemente alle doti morali e politiche. 

Dovrà essere stabilita una precisa divisione del lavoro tra L'Esecutivo e l'UI. Stabilite precise responsabilità e competenze che non possano essere violate senza gravi sanzioni disciplinari. Io penso che questo sia uno dei lati più deboli del nostro partito e quello che più ha dimostrato come il centralismo instaurato fosse più una formalità burocratica e una banale confusione delle responsabilità e delle competenze che un rigoroso sistema organizzativo. 

Nel campo politico occorre stabilire con esattezza delle tesi sulla situazione italiana e sulle possibili fasi del suo sviluppo ulteriore. Nel 1921-22 il partito aveva questa concezione ufficiale: che fosse impossibile l'avvento di una dittatura fascista o militare; a gran stento io riuscii a far togliere dalle tesi che questa concezione avesse a diventar scritta, facendo modificare fondamentalmente le tesi 51 e 52 sulla tattica. Ora mi pare che si cada in un altro errore strettamente legato a quello d'allora. Allora non si valutava l'opposizione sorda e latente della borghesia industriale contro il fascismo e non si pensava che fosse possibile il governo socialdemocratico, ma solo una di queste tre soluzioni: dittatura del proletariato (soluzione meno probabile), dittatura dello stato maggiore per conto della borghesia industriale e della corte, dittatura del fascismo; questa concezione ha legato la nostra azione politica e ci ha condotto a molti errori. 

Ora nuovamente non si tiene conto della emergente opposizione della borghesia industriale e specialmente di quella che si delinea nel Mezzogiorno con carattere più recisamente territoriale e quindi affacciando alcuni aspetti della questione nazionale. E' un po' opinione che una ripresa proletaria possa e debba avvenire solo a beneficio del nostro partito. Io credo invece che ad una ripresa il nostro partito sarà ancora di minoranza, che la maggioranza della classe operaia andrà con i riformisti e che i borghesi democratici liberali avranno ancora da dire molte parole. Che la situazione sia attivamente rivoluzionaria non dubito e che quindi entro un determinato spazio di tempo il nostro partito avrà con sé la maggioranza; ma se questo periodo forse non sarà lungo cronologicamente esso sarà indubbiamente denso di fasi suppletive, che dovremo prevedere con una certa esattezza per poter manovrare e non cadere in errori che prolungherebbero le esperienze del proletariato. 

Credo inoltre che il partito debba porsi praticamente alcuni problemi che non sono mai stati affacciati e la cui soluzione è stata lasciata agli elementi che ad essi erano strettamente legati. Il problema della conquista del proletariato milanese è un problema nazionale del nostro partito, che deve essere risolto con tutti i mezzi che il partito ha a sua disposizione e non solo con i mezzi milanesi. Se non abbiamo con noi stabilmente la maggioranza schiacciante del proletariato milanese non possiamo vincere e mantenere la rivoluzione in tutta Italia. Occorre perciò portare a Milano elementi operai di altre città, introdurli a lavorare nelle fabbriche, arricchire l'organizzazione legale ed illegale di Milano con i migliori elementi di tutt' Italia. Penso che così ad occhio e croce sia necessario immettere nel corpo operaio milanese almeno un centinaio di compagni disposti a lavorare a corpo perduto per il partito. 

Un altro problema di questo tipo è quello dei lavoratori del mare, strettamente legato al problema della flotta militare. L'Italia vive del mare; non occuparsi come di uno dei problemi più essenziali e ai quali il partito deve dedicare le sue maggiori attenzioni, del problema marinaro vorrebbe dire non pensare concretamente alla rivoluzione. Quando penso che per molto tempo il dirigente della nostra politica tra i marinai è stato un ragazzo come il figlio di Caroti mi vengono i brividi. 

Altro problema è quello dei ferrovieri, che noi abbiamo sempre guardato da un punto di vista puramente sindacale, mentre esso trascende questa qualità ed è problema nazionale e politico di prim'ordine. 

Quarto ed ultimo di questi problemi è quello del Mezzogiorno, che noi abbiamo misconosciuto così come facevano i socialisti e abbiamo creduto fosse risolvibile nell'ambito normale della nostra attività politica generale. Io sono sempre stato persuaso che il Mezzogiorno diventerebbe la fossa del fascismo, ma credo anche che esso sarà il maggiore serbatoio e la piazza d'armi della reazione nazionale e internazionale se prima della rivoluzione noi non ne studiamo adeguatamente le questioni e non siamo preparati a tutto. 

Credo di avervi dato un'idea abbastanza chiara della mia posizione e le differenziazioni che esistono tra essa e quella che risulta dal manifesto. Poiché penso che voi in gran parte siate più d'accordo con la mia posizione, nella quale ci siamo trovati insieme per non breve tempo, spero che abbiate ancora la possibilità di decidere diversamente da quanto eravate in procinto di fare.

Coi più fraterni saluti

1 marzo 1924 - A Scoccimarro e Togliatti

il lavoro organizzativo, la tenace e dura lotta per mantenere l'apparato del partito, sono certo grandi cose: ma non su di esse può farsi il bilancio di un partito. Vivere non è abbastanza: bisogna avere una storia, bisogna muoversi e svilupparsi per poter affermare di essere un organismo politico che ha una base propria e l'avvenire per sé, come noi vogliamo. 

La vostra decisione migliora enormemente la situazione, evita ogni imbozzolamento definitivo: evidentemente le difficoltà saranno ancora molte, ma esse non saranno così inestricabili come si presentavano anteriormente. Noi possiamo costituire il centro di una frazione che ha per sé tutte le probabilità di diventare l'intero partito. 

La questione più grave per noi è indubbiamente quella di distinguerci dai destri: ma non mi pare che essa sia insormontabile, e penso che in gran parte essa è questione di persone. La distinzione dai sinistri avverrà, purtroppo, automaticamente, per il solo fatto della nostra posizione. 

Credo sia indispensabile preparare una serie di tesi sulla situazione italiana, che sia la nostra piattaforma. Per il contenuto delle tesi, voglio sentire il vostro parere, perché la mancanza di contatto diretto con gli avvenimenti italiani, che conosco solo per la lettura dei quotidiani più importanti, mi fa sempre dubitare della fallacia delle mie conclusioni. Dirò in breve ciò che penso. Dobbiamo insistere poco sul passato specialmente per ciò che riguarda il nostro Partito. Accenneremo all'estrema confusione che si è prodotta in Italia per il fenomeno fascista, determinato dalla mancanza di unità della nazione, dal dissolvimento dello Stato per l'entrata nella vita storica di enormi masse popolari che non sapevano contro chi lottare, per la debolezza di sviluppo del capitalismo che di fatto non ha sottomesso al suo controllo l'economia del paese, poiché esistono ancora in Italia un milione di artigiani e la stragrande maggioranza dell'agricoltura è precapitalistica. 

Inoltre la questione dei rapporti tra città e campagna si pone in Italia, per la questione meridionale, su una base territoriale netta, determinando la nascita di partito autonomisti o partiti come la democrazia sociale, di tipo originale. 

Questa confusione la facciamo servire per spiegare l'incertezza di molti atteggiamenti del Partito e di un certo settarismo che aveva paralizzato il Partito. Questa disposizione nei rapporti delle forze politiche del nostro paese ci dà l'indicazione dell'indirizzo da seguire.

1) Propaganda minuta e incessante della parola d'ordine del governo operaio e contadino, che deve scaturire da tutto l'insieme della situazione italiana e non deve più essere una formula teorica.

2) Lotta contro l'aristocrazia operaia, cioè contro il riformismo, per l'alleanza degli strati più poveri della classe operaia settentrionale con le masse contadine del Mezzogiorno e delle Isole. Creazione di un Comitato d'organizzazione per il Mezzogiorno che conduca la lotta con il massimo vigore. Studio delle possibilità militari di una insurrezione armata nel Mezzogiorno e nelle Isole. Studio della possibilità di fare alcune concessioni di carattere politico a queste popolazioni con la formulazione di "Repubblica federativa degli operai e contadini" invece di governo operaio e contadino.

3) Riorganizzazione del partito: saturazione di educazione politica per evitare gravi discussioni e discordie nei momenti culminanti della nostra attività. Allargamento delle sfera dirigente del partito: creazione di uno strato nel partito, ottenuto mediante la costituzione di un Comitato di organizzazione e propaganda, che faccia un inventario degli elementi aderenti, compili per ognuno un dossier, domandi a ognuno la sua biografia politica, si tenga a contatto con i migliori, li stimoli, li controlli, li guidi incessantemente con comunicati e tesine.

4) Cura maggiore dell'emigrazione. Creazione all'estero di scuole di partito in ogni centro importante, con una direzione centrale. Nel CC nuovo mettere tre o quattro emigrati, come membri effetti e aggiunti che all'estero tengano alto il prestigio del partito e lavorino efficacemente. 

Nei rapporti internazionali dobbiamo essere espliciti per quanto è possibile. Dobbiamo affermare la nostra fedeltà al CE, spiegando che riteniamo le decisioni dal Terzo Congresso in poi, anche per l'Italia, le uniche che potessero permettere un reale contatto con le masse nel periodo dell'offensiva capitalistica. 

Per il PSI dobbiamo affermare che è nostro compito risolvere la questione, che rimarrà fino a quando ci sarà un PS indipendente dagli unitari. La risolveremo con tutti i mezzi, nessuno escluso. Su questo argomento vi dirò francamente ciò che penso; solo la nostra debolezza organizzativa, il nostro scarso contatto con le masse del nostro Partito, ci ha impedito di accettare le deliberazioni del Comintern. Tutte le teorie e le concezioni che abbiamo escogitato erano solo un portato della nostra debolezza. Se il nostro partito si rafforza, come vuole, e come avverrà se noi sapremo imprimergli una direzione giusta, se riusciamo a creare un nucleo centrale vasto e bene educato politicamente, quali pericoli può presentare la tattica del Comintern?

Nessun altro pericolo che questo: che fuori del partito esistono gruppi più rivoluzionari del nostro nucleo costitutivo, i quali entrando nella nostra organizzazione, ne prendano la dirigenza: pericolo che sarebbe una fortuna dal punto di vista rivoluzionario... a meno che non si cada nella puerilità di credere che la rivoluzione è garantita solo perché a capo del Partito proletario ci sono determinate persone che si chiamano Tizio e Caio invece che Sempronio e Vegenzio.

19 aprile 1924 - A Terracini

voglio spiegare meglio ciò che ho inteso dire a proposito della azione sindacale che noi dobbiamo svolgere, perché non sorgano malintesi ed equivoci dannosi. 

Data la mia assenza dall'Italia per tanto tempo e la mancanza di impressioni concrete e minute che in queste questioni sono indispensabili, io mi guarderò sempre bene dal suggerire determinate forme di organizzazione specialmente illegale. 

Io pongo solo alla discussione dei compagni questo preciso problema: in Italia oggi non esiste più neppure un minimo di azione sindacale centralizzata. La CGL e tutte le sue organizzazioni sono cadute in letargia, applicando in pieno la tattica della passività, del dar tempo al tempo ecc. Noi per principio e per tutta una serie di considerazioni pratiche che oggi sostengono il principio, non vogliamo creare una nuova centrale sindacale. Ma pure qualcosa bisogna fare: le masse operaie sono relativamente tranquille: scioperi isolati si verificano continuamente. Se noi poniamo in esecuzione, in tutta la loro estensione, le norme per l'organizzazione delle cellule d'officina, se noi, come anche tu sei d'accordo, convochiamo la conferenza di operai di fabbrica, a un certo punto, anche se non lo vogliamo, ci troviamo dinanzi alla necessità di svolgere una vera e propria azione sindacale. Se creiamo nella fabbrica una forza politica, non potremo evitare che essa, automaticamente, diventi il centro, la rappresentanza di tutta la fabbrica, che da essa gli operai si attendano consigli e direttive. 

Questa azione sarà vera e propria azione sindacale, dovrà porsi i medesimi e identici problemi che si ponevano nel passato i consigli di leghe. Noi, data l'assenza degli organismi ufficiali, dovremo soddisfare tutte le esigenze delle masse. Che fare dunque? Rinunciare anche all'organizzazione e all'agitazione, perché da esse, in un certo punto del loro sviluppo, scaturisce la necessità di una vera e propria azione? Certamente no. Dunque bisogna risolvere il problema e trovare una forma che contenga questa sostanza nelle condizioni date dell'Italia. 

Ecco il terreno della discussione che io ho posto, nei suoi termini più generici. Poiché non vogliamo creare una nuova centrale sindacale, L'Organizzazione deve essere illegale, è evidente; praticamente poi noi avremo un vero e proprio sindacalismo illegale. E' pericoloso? Indubbiamente. Ma in generale non può essere evitato, se vogliamo lavorare. Credi che le grandi masse si interessino molto dello scambio di lettere dei comitati sindacali dei vari partiti? Ciò serve per i comitati stessi e per una ristretta cerchia di operai simpatizzanti, che in tempi meno aspri sarebbero nel partito: non servono per nulla a influenzare le grandi masse. Queste possono solo risentire l'efficacia di un'azione pratica, che può essere svolta solo da un'organizzazione diffusa nel seno della grande massa stessa. 

Quale è la debolezza principale della classe operaia italiana? L'isolamento, la dispersione: noi dobbiamo lottare contro questo stato di cose. Ma faccio un esempio: se noi avessimo già una diffusa organizzazione nelle fabbriche, è certo che attraverso una metodica, sistematica campagna, si riuscirebbe ad ottenere per il primo maggio una buona affermazione. 

Come si crea fra gli operai la convinzione che esiste già una centralizzazione, che in tutte le fabbriche si fa un uguale lavoro, che si può tentare un movimento senza che ogni fabbrica tema di rimanere isolata e quindi schiacciata? Attraverso mezzi molteplici, che nel loro complesso danno la sensazione voluta. Bisogna, secondo me, far votare ai nostri gruppi mozioni sugli avvenimenti in corso, a nome dell'intiera maestranza della fabbrica A,B,C, ecc.; i giornali nostri pubblicheranno, gli operai leggeranno e sapranno. E così via. 

Io penso che tutta una tecnica nuova deve essere trovata di agitazione e propaganda e anche di organizzazione. Bisogna ottenere che una grande parte della massa si abitui all'azione illegale, a mantenere il segreto ecc.; penso che in questo campo gli operai italiani abbiano fatto molti passi in avanti, per la dura esperienza. Tanto che, secondo me, si dovrebbe addirittura porre il problema: a Torino, a Milano, in qualche altra grande città, organizzare una manifestazione pubblica. Esagerato, tu dirai. Parlo senza voglia di scherzare. Penso che se a Torino ed a Milano si riuscisse a concentrare, con una organizzazione ben disposta, in un dato punto della città, 50.000 operai, non succederebbe una catastrofe e la cosa avrebbe una enorme ripercussione.

Certo, pensare oggi a fare qualcosa di simile sarebbe pazzesco, ma dico che dobbiamo, nello svolgere l'attività che ho sopra accennato, porci il problema di arrivare ad ottenere un risultato di tal genere. Credo di essermi spiegato abbastanza. In ogni modo tieni presente che io propongo queste considerazioni alla discussione dei compagni e nient'altro. Penso che non siano assolutamente utopistiche. Bisogna pure uscire dalla morta gora. Bisogna pure uscire dalla situazione attuale che poi si conclude in scambi di lettere ed in sedute di comitati. Certo occorre molto riflettere, ponderare, trovare le forme migliori di organizzazione, abituare i compagni al lavoro concreto ecc. ecc. Ma, insomma, bisogna pure incominciare, e almeno incominciare a discutere tra noi, per avere idee chiare e direttive precise. In ciò almeno credo che tu sia d'accordo.

aprile 1924 - A Tresso

io non faccio questioni di maggior pericolo a sinistra che a destra. Per noi, nella attuale situazione, la questione concreta è quella di differenziarsi dalla sinistra, ecco tutto. Sono, sì o no, in questi termini i fatti? Ecco la domanda a cui bisogna rispondere e, dopo aver risposto, occorre tirarne tutte le conseguenze logiche che dalla risposta dipendono. 

Tu non hai voluto firmare il manifesto delle sinistre. Ma che cosa era questo manifesto? Era l'unico terreno che Bordiga riteneva possibile per continuare nella collaborazione con quella che dirò la nostra tendenza generale. Tu non hai voluto firmare il manifesto, così come ho fatto io; perché? Perché hai ritenuto che questo unico terreno fosse piuttosto una bottiglia. Ma allora cosa intendi fare? Quali suggerimenti offri? Delle frasi generali: il pericolo è maggiore a destra che a sinistra ecc. Questo può essere vero a lungo andare, cioè negli sviluppi ulteriori della nostra situazione. 

Ma oggi, immediatamente, bisogna spiegare alle masse del partito perché nella maggioranza sia avvenuta la rottura. Questa spiegazione tu non la puoi solo dare facendo la polemica contro la destra, ciò che sarebbe puerile ed avrebbe l'aria di un ripiego furbescamente ridicolo. Questa spiegazione la puoi dare solo facendo una polemica con Bordiga: non c'è scampo, non si può sfuggire a ciò, altro che ritirandosi nell'ombra e lasciando che gli altri tolgano le castagne dal fuoco. Entro quali limiti dovrà essere tenuta questa polemica? In quali punti del nostro gruppo siamo perfettamente d'accordo ed in quali invece non lo siamo? I punti su cui siamo d'accordo sono essenziali o secondari; offrono il terreno per un raggruppamento permanente e suscettibile di sviluppo oppure no? Ecco le questioni concrete che noi dobbiamo porci e alla soluzione delle quali tu non contribuirai se continui solo ad esprimere dubbi, timori, a vedere pericoli, a fare affermazioni generali. 

Non so da quale mia affermazione tu abbia tratto la conseguenza che io voglia assimilare a destra ed espellere a sinistra. Ciò è fantastico. Per me il problema si presenta così: a destra non potremo mai espellere gli elementi anticomunisti, fino a che la destra si presenterà come un insieme apparentemente omogeneo nel sostenere e difendere il punto di vista del Comintern. Ecco uno dei punti su cui io mi baso per criticare la sinistra: aver lasciato creare una posizione simile, che nel quadro del "partito mondiale" è contro di noi. La minoranza infatti si presenta come la maggioranza internazionale e noi, che diciamo di essere per il partito mondiale, ci insacchiamo bellamente, a meno che non accettiamo il punto di vista di Bordiga del credo internazionale, dell'organizzazione rigida, ecc.: accettazione che ci salverebbe solo la faccia, d'altronde, perché nei congressi questo punto di vista sarebbe respinto come meccanico ed astratto. 

D'altronde il partito non è un club di amici cordiali che si sbaciucchiano ad ogni istante e si fanno continuamente dichiarazioni di stima fino al millesimo spaccato. Il partito è specialmente un organismo politico e da questo punto di vista bisogna sempre porre le questioni. Bisogna essere cauti? D'accordo. Ma che forma pratica deve assumere questa cautela? Ecco il punto. Consisterà nell'aver sempre il viso allarmato, nella diffidenza continua di carattere esteriore, nel piantar grane ad ogni passo? D'altra parte si risponderà con mezzi dello stesso calibro, con le insinuazioni, con le diffamazioni e il partito sarà nel suo insieme avvelenato dallo spirito di fazione e dalle questioni personali. 

La soluzione deve essere quindi politica e nella lotta politica devono trovare il loro equilibrio e la loro giusta fisionomia le diverse posizioni individuali. Per la sinistra. Nessuna prospettiva di espulsione. Ma tuttavia occorre porsi chiaramente il problema di ciò che può avvenire se Bordiga spinge sino alle estreme conseguenze la sua posizione. 

Caro Tresso, non io pongo artificialmente il problema: esso esiste di per sé e sarebbe criminoso non accorgersene, per le conseguenze che ne possono derivare. Penso che tu non ti renda conto sufficientemente che Bordiga non è un uomo di paglia, che fa dei bei gesti per i bei gesti: egli è fermamente convinto di ciò che pensa e può darsi non esiterà a spingere fino in fondo. Può darsi e non può darsi evidentemente. Ma noi dobbiamo sempre porci l'ipotesi peggiore per essere più vicini alla realtà. 

Che fare? Non abbiamo da scegliere, come pare tu creda. Dobbiamo organizzare il nostro gruppo in modo che qualsiasi atteggiamento Bordiga prenda, esso sia il meno dannoso per l'insieme del partito. Io penso addirittura che se Bordiga ha l'impressione di aver pochi seguaci, sarà più prudente e sarà anche possibile che egli lavori nel centro. E' un uomo pratico, non un Donchisciotte, e vuole che le iniziative diano dei frutti e non siano solo dei gesti. Così non sono d'accordo con te per ciò che dici sulla disciplina, che mi pare sia concepita deccanicamente e soldatescamente. Per imporre una disciplina bisogna possedere un centro forte che svolga una politica adeguata.
Contro il pessimismo

"L'Ordine Nuovo", 15 marzo 1924

Nessun modo migliore può esistere di commemorare il quinto anniversario dell'Internazionale comunista, della grande associazione mondiale di cui ci sentiamo, noi rivoluzionari italiani, più che mai parte attiva e integrante, che quello di fare un esame di coscienza, un esame del pochissimo che abbiamo fatto e dell'immenso lavoro che ancora dobbiamo svolgere, contribuendo specialmente a dissipare questa oscura e greve nuvolaglia di pessimismo che opprime i militanti più qualificati e responsabili e che rappresenta un grande pericolo, il più grande forse del momento attuale, per le sue conseguenze di passività politica, di torpore intellettuale, di scetticismo verso l'avvenire. 

Questo pessimismo è strettamente legato alla situazione generale del nostro paese; la situazione lo spiega, ma non lo giustifica, naturalmente. Che differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, tra la nostra volontà e la tradizione del partito se anche noi sapessimo lavorare e fossimo attivamente ottimisti solo nei periodi di vacche grasse, quando la situazione è propizia, quando le masse lavoratrici si muovono spontaneamente, per impulso irresistibile, e i partiti proletari possono accomodarsi nella brillante posizione della mosca cocchiera? 

Che differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, se anche noi, partendo sia pure da altre considerazioni, da altri punti di vista, avendo sia pure un maggior senso di responsabilità e dimostrando di averlo con la preoccupazione fattiva di apprestare forze organizzative e materiali idonee per parare ogni evenienza, ci abbandonassimo al fatalismo, ci cullassimo nella dolce illusione che gli avvenimenti non possono che svolgersi secondo una determinata linea di sviluppo, quella da noi prevista, nella quale troveranno infallibilmente il sistema di dighe e di canali da noi predisposti, incanalandosi e prendendo forma e potenza storica in esso? 

E' questo il nodo del problema, che si presenta astrusamente aggrovigliato, perché la passività sembra esteriormente alacre lavoro, perché pare ci sia una linea di sviluppo, un filone in cui operai sudano e si affaticano a scavare meritoriamente. 

L'Internazionale comunista è stata fondata il 5 marzo 1919, ma la sua formazione ideologica e organica si è verificata solo al II Congresso, nel luglio-agosto 1920, con l'approvazione dello statuto e delle 21 condizioni. Dal II Congresso comincia in Italia la campagna per il risanamento del Partito socialista, comincia su scala nazionale, perché essa era stata già iniziata nel marzo precedente dalla sezione di Torino con la mozione da presentare all'imminente Conferenza nazionale del partito che appunto a Torino doveva tenersi ma non aveva trovato ripercussioni notevoli (alla Conferenza di Firenze della frazione astensionista, tenuta nel luglio del 1920, prima del II Congresso, fu respinta la proposta fatta da un rappresentante dell' "Ordine Nuovo" di allargare la base della frazione, facendola diventare comunista, senza la pregiudiziale astensionista che praticamente aveva perduto gran parte della sua ragione di essere). 

Il Congresso di Livorno, la scissione avvenuta al Congresso di Livorno furono riallacciati al II Congresso, alle sue 21 condizioni, furono presentati come una conclusione necessaria delle deliberazioni "formali" del II Congresso. Fu questo un errore, e oggi possiamo valutarne tutta l'estensione per le conseguenze che esso ha avuto. In verità le deliberazioni del II Congresso erano l'interpretazione viva della situazione italiana, come di tutta la situazione mondiale, ma noi, per una serie di ragioni, non muovemmo, per la nostra azione, da ciò che succedeva in Italia, dai fatti italiani che davano ragione al II Congresso, che erano una parte e delle più importanti della sostanza politica che animava le decisioni e le misure organizzative prese dal II Congresso: noi, però, ci limitammo a batter sulle quistioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque noi avessimo dalla nostra parte l'autorità e il prestigio dell'Internazionale che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. 

Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costitutivi del Partito socialista; non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20; non abbiamo saputo, dopo Livorno, porre il problema del perché il congresso avesse avuto quella conclusione; non abbiamo saputo porre il problema praticamente, in modo da trovarne la soluzione, in modo da continuare la nostra specifica missione che era quella di conquistare la maggioranza del popolo italiano.

Fummo - bisogna dirlo - travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata un crogiolo incandescente, dove tutte le tradizioni, tutte le formazioni storiche, tutte le idee prevalenti si fondevano qualche volta senza residuo: avevamo una consolazione, alla quale ci siamo tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo aver previsto matematicamente il cataclisma, quando gli altri si cullavano nella più beata e idiota delle illusioni. 

Siamo entrati, dopo la scissione di Livorno, in uno stato di necessità. Solo questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti, alla nostra attività dopo la scissione di Livorno: la necessità che si poneva crudamente, nella forma più esasperata, nel dilemma di vita o di morte. Dovemmo organizzarci in partito nel fuoco della guerra civile, cementando le nostre sezioni col sangue dei più devoti militanti; dovemmo trasformare, nell'atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, della più atroce e difficile guerriglia che mai la classe operaia abbia dovuto combattere. 

Si riuscì tuttavia: il partito fu costituito e fortemente costituito; esso è una falange di acciaio, troppo piccola certamente per entrare in una lotta contro le forze avversarie, ma sufficiente per diventare l'armatura di una più vasta formazione, di un esercito che, per servirsi del linguaggio storico italiano, possa far succedere la battaglia del Piave alla rotta di Caporetto. 

Ecco il problema attuale che si pone, inesorabilmente: costituire un grande esercito per le prossime battaglie, costituirlo inquadrandolo nelle forze che da Livorno a oggi hanno dimostrato di saper resistere, senza esitazioni e senza indietreggiamenti, all'attacco violentemente sferrato dal fascismo. Lo sviluppo dell'Internazionale comunista dopo il II Congresso ci offre il terreno adatto a ciò, interpreta, ancora una volta, - con le deliberazioni del III e del IV Congresso, deliberazioni integrate da quelle degli Esecutivi allargati del febbraio e giugno 1922 e del giugno 1923, - la situazione e i bisogni della situazione italiana. 

La verità è che noi, come partito, abbiamo già fatto alcuni passi in avanti in questa direzione: non ci rimane che prendere atto di essi e arditamente continuare. Che significato hanno infatti gli avvenimenti svoltisi nel seno del Partito socialista con la scissione dai riformisti in un primo tempo, con l'esclusione dei redattori di "Pagine rosse" in un secondo tempo e col tentativo di escludere tutta la frazione terzinternazionalista in un terzo ed ultimo tempo? Hanno questo preciso significato: che mentre il nostro partito era costretto, come sezione italiana, a limitare la sua attività alla lotta fisica di difesa contro il fascismo e alla conservazione della sua struttura primordiale, esso, come partito internazionale, operava, continuava a operare per aprire nuove vie verso il futuro, per allargare la sua cerchia di influenza politica, per far uscire dalla neutralità una parte della massa che prima stava a guardare indifferente o titubante. 

L'azione dell'Internazionale fu, per qualche tempo, la sola che abbia permesso al nostro partito di avere un contatto efficace con le larghe masse, che abbia conservato un fermento di discussione e un principio di movimento in strati cospicui della classe operaia, che a noi era impossibile, nella situazione data, altrimenti raggiungere. E' stato indubbiamente un grande successo l'aver strappato dalla ganga del Partito socialista dei blocchi, aver ottenuto, quando la situazione pareva peggiore, che dall'amorfa gelatina socialista si costituissero nuclei i quali affermavano di aver fede, nonostante tutto, nella rivoluzione mondiale, i quali, coi fatti se non con le parole, che pare brucino più dei fatti, riconoscevano di aver errato nel 1920-21-22. 

E' stata questa una sconfitta del fascismo e della reazione: è stata, se vogliamo essere sinceri, l'unica sconfitta fisica e ideologica del fascismo e della reazione in questi tre anni di storia italiana. Occorre reagire energicamente contro il pessimismo di alcuni gruppi del nostro partito, anche dei più responsabili e qualificati. Esso rappresenta, in questo momento, il più grave pericolo, nella situazione nuova che si sta formando nel nostro paese e che troverà la sua sanzione e la sua chiarificazione nella prima legislatura fascista. 

Si approssimano grandi lotte, forse più sanguinose e pesanti di quelle degli anni scorsi: è necessario perciò la massima energia dei nostri dirigenti, la massima organizzazione e centralizzazione nella massa del partito, un grande spirito di iniziativa e una grandissima prontezza di decisione. Il pessimismo prende prevalentemente questo tono: ritorniamo a una situazione pre-Livorno, dovremo rifare lo stesso lavoro che abbiamo fatto prima di Livorno e che credevamo definitivo. 

Bisogna dimostrare a ogni compagno come sia errata politicamente e teoricamente questa posizione. Certo bisognerà ancora lottare fortemente; certo il compito del nucleo fondamentale del nostro partito costituitosi a Livorno non è ancora finito e non lo sarà per un pezzo ancora (esso sarà ancora vivo e attuale anche dopo la rivoluzione vittoriosa). Ma non ci troveremo più in una situazione pre-Livorno, perché la situazione mondiale e italiana non è, nel 1924, quella del 1920, perché noi stessi non siamo più quelli del 1920 e non lo vorremmo mai più ridiventare. Perché la classe operaia italiana è molto mutata, e non sarà più la cosa più semplice di questo mondo farle rioccupare le fabbriche con, per cannoni, dei tubi di stufa, dopo averle intronato le orecchie e smosso il sangue con la turpe demagogia delle fiere massimaliste. Perché esiste il nostro partito, che è pur qualcosa, e nel quale noi abbiamo una fiducia illimitata, come nella parte migliore, più sana, più onesta del proletariato italiano.

Conferenza di Como

"Lo Stato operaio", 29 maggio 1924

L'intervento di Gramsci

Ho constatato che lo stato d'animo dei compagni si esprime soprattutto contro il cosiddetto "centro" del partito e trovo strano che in seno al Partito comunista abbia ancora tanto valore una questione di nomenclatura. E' necessario studiare i problemi da un punto di vista più serio e più concreto. 

Il compagno Bordiga afferma di non avere neppure tentato di costituire una vera e propria frazione in seno al partito. Ma è indiscutibile che da quando un compagno che ha una personalità come quella del Bordiga si tiene in disparte senza più partecipare attivamente al lavoro del partito, questo solo fatto è sufficiente a creare nei compagni uno stato d'animo di frazione. Di questo fatto bisogna tenere conto per giudicare il nostro atteggiamento nel presente dibattito. 

Noi non dobbiamo del resto faticare molto per trovare quali sono le nostre origini. Nel 1919-20 esistevano in Italia tre tendenze che si sono poi riunite nel Partito comunista: quella che era rappresentata dall' "Ordine Nuovo" di Torino, quella astensionista ed una terza infine, che solo ora tende a chiarificarsi e che riuniva tutti quei compagni che sono entrati nel partito colla scissione di Livorno pur non appartenendo a nessuna delle due tendenze a cui ho accennato in precedenza. Noi della tendenza dell' "Ordine Nuovo" abbiamo sempre ritenuto necessario, anche prima della costituzione del partito, appoggiarci alla sinistra anziché alla destra. Un diverso contegno ritenevamo avrebbe portato alla valorizzazione di tendenze da cui ci sentiamo molto lontani. A questo proposito rammento che a Torino, immediatamente prima e dopo lo sciopero generale dell'aprile 1920, siamo venuti a una rottura con il gruppo di cui il compagno Tasca era l'esponente e, vedendo il pericolo opportunistico della destra, abbiamo preferito allearci con gli astensionisti e in un certo momento anzi lasciare nelle loro mani tutta la dirigenza della Sezione. 

Secondo molti compagni l'occupazione delle fabbriche rappresentò il punto massimo dello sviluppo rivoluzionario del proletariato italiano. Per noi con quell'avvenimento si iniziava il periodo della decadenza del movimento operaio. Ebbene, considerando allora quali forze del movimento socialista fossero le più capaci ad arginare la sconfitta noi fummo ancora una volta colla sinistra. E pensammo che senza gli astensionisti il Partito comunista non si potesse costituire. Anche attualmente noi manteniamo questo punto di vista, ma non possiamo, d'altra parte nasconderci gli errori che la sinistra ha compiuto. 

E' bene, a questo proposito, che si ricordi che il voto sulle tesi di Roma ebbe carattere puramente di massima e consultivo e che quelle tesi avrebbero dovuto essere ripresentate al partito - con qualche modificazione, eventualmente - dopo il IV Congresso della III Internazionale. Purtroppo questo non è potuto avvenire a causa dell'aggravarsi della situazione generale. 

Ma oggi la situazione non è più uguale a quella esistente nel 1921 e nel 1922. Vi è un inizio di ripresa del movimento operaio. Quale svolgimento avrà essa? E' certo che essa non potrà non subire le influenze dell'esperienza che tutte le classi e tutti i partiti politici hanno compiuto negli ultimi anni. Questa esperienza ha fatto assumere ad ogni gruppo una sua fisionomia. Nel 1919 e nel 1920 tutta la popolazione lavoratrice - dagli impiegati del Nord e della capitale ai contadini del Mezzogiorno - seguiva, magari inconsciamente, il movimento generale del proletariato industriale. Oggi la situazione è mutata, e solo attraverso ad un lungo e lento lavoro di riorganizzazione politica il proletariato potrà tornare ad essere fattore dominante della situazione. Noi riteniamo che questo lavoro non può essere svolto mantenendosi sulle direttive che il compagno Bordiga vorrebbe mantenere al partito. 

La recente affermazione elettorale del nostro partito ha certamente un grande valore, ma è indiscutibile che manca al nostro movimento l'adesione della maggioranza del proletariato. 

BORDIGA - L'avremmo se non avessimo mutato la nostra tattica nei confronti del Partito socialista! Del resto noi non abbiamo fretta. 

GRAMSCI - Noi invece abbiamo fretta! Vi sono delle situazioni in cui il "non aver fretta" provoca la disfatta. Nel 1920, ad esempio, bisognava aver fretta. Io mi ricordo che nel luglio di quell'anno mi recai al Convegno astensionista di Firenze a proporre la creazione e la costituzione di una frazione comunista nazionale. Il compagno Bordiga anche allora "non ebbe fretta" e respinse la nostra proposta, in modo che l'occupazione delle fabbriche avvenne senza che esistesse in Italia una frazione comunista organizzata capace di lanciare una parola d'ordine nazionale alle masse che seguivano il Partito socialista. Anche il fattore "tempo" ha importanza. Talvolta esso ha anzi un'importanza capitale. 

Ho l'impressione che i compagni i quali fino ad ora hanno espresso il loro pensiero abbiano dimenticato quale è il problema fondamentale che oggi si pone al nostro partito: quello dei rapporti coll'Internazionale comunista. L'atteggiamento del compagno Bordiga può anche, in un certo senso, essere utile, ma il suo errore consiste nel non rendersi conto della necessità per il partito di aver risolto il problema dei rapporti coll'Internazionale. 

L'atteggiamento di Bordiga non può del resto avere altra conseguenza se non quella di far sorgere un gruppo di elementi eterogenei, i quali possono trovare un motivo di unità e di consistenza nel fatto di dichiararsi "per l'Internazionale". Questa conseguenza che già si è avuta a deplorare una volta, sta a provare quanto l'atteggiamento di Bordiga sia in sé sbagliato. Ad esso è da attribuire l'origine della "minoranza". Nei confronti dei compagni della minoranza la situazione è oggi in parte modificata in seguito alla dichiarazione avvenuta in mezzo ad essi, ma non tutte le divergenze sono scomparse. Sul programma politico attuale la minoranza afferma che non esiste alcun disaccordo; in realtà io ricordo che a Mosca, ad esempio, il compagno Tasca si è opposto alla formula dello spostamento dei sindacati nella fabbrica. Oggi questo problema è uno dei più importanti che si presentino al nostro partito. 

Esso si pone in questi termini: come il Partito comunista - centro effettivo dell'avanguardia rivoluzionaria - deve guidare le lotte sindacali della classe operaia? Creare le cellule di officina, sta bene: ma che lavoro queste debbono svolgere? Noi siamo convinti che scomparse, se non formalmente almeno come funzione, le commissioni interne, gli operai si rivolgeranno alle cellule comuniste non solo per le questioni di carattere politico ma anche per la loro difesa sindacale, e che è perciò necessario che i compagni si trovino preparati a compiere anche questo lavoro. Occorrerà che questi problemi siano ampiamente esaminati e approfonditi, tanto più perché ci troviamo a un punto decisivo della storia del movimento operaio italiano. I compagni della sinistra protestano la loro disciplina all'Internazionale. Noi diciamo loro: "Non basta dichiarare di essere disciplinati. Bisogna mettersi sul piano di lavoro indicato dall'Internazionale". Se l'Internazionale ha fatto finora - per ragioni a tutti note - delle concessioni ciò non può continuare nell'avvenire poiché porterebbe alla disgregazione dell'Internazionale stessa. (…) 

Non tutti i lavoratori possono comprendere tutto lo sviluppo della rivoluzione. Oggi ad esempio i lavoratori italiani del Mezzogiorno sono senza dubbio rivoluzionari, eppure continuano a giurare per Di Cesarò e per De Nicola. Noi dobbiamo tener conto di questi stati d'animo e cercare i mezzi per vincerli. Se i comunisti vanno tra i contadini del Mezzogiorno a parlare del loro programma non sono compresi. Se uno di noi andasse al mio paese a parlare di "lotta contro i capitalisti" si sentirebbe dire che i "capitalisti" non esistono in Sardegna... Eppure anche queste masse debbono essere conquistate. 

Noi abbiamo la possibilità; date le condizioni stesse create dal fascismo, di iniziare nel Mezzogiorno un movimento antireazionario di masse. Ma bisogna conquistare queste masse e questo si fa soltanto partecipando alle lotte che esse conducono per conquiste e rivendicazioni parziali. Queste sono le nostre idee sui problemi dell'ora. Ripeto che i compagni non devono fare una questione di nomenclatura: nel 1919 Buozzi rimproverava a noi di fare - attraverso i Consigli di fabbrica - un'opera troppo riformista. Noi ridemmo allora, e i fatti hanno dimostrato chi era riformista e chi era rivoluzionario. Si pongano, i compagni, delle questioni concrete e rammentino che in questo momento la più importante questione è quella dei rapporti del partito nostro con l'Internazionale comunista.

Il destino di Matteotti

"Lo Stato operaio", 28 agosto 1924

Vi è una espressione incisiva del compagno Radek, da lui usata nel commemorare, in una assemblea di comunisti, al congresso della Internazionale, un militante del nazionalismo tedesco fucilato nella Ruhr dai nazionalisti francesi che ci torna a mente ogni volta che pensiamo al destino di Giacomo Matteotti. «Pellegrino del nulla» chiamava il compagno Radek il combattente sfortunato, ma tenace fino al sacrificio di sé, di una idea la quale non può condurre i suoi credenti e militanti ad altro che ad un inutile circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultato e senza via di uscita. «Pellegrino del nulla» appare a noi Giacomo Matteotti quando consideriamo la sua vita e la sua fine in relazione con tutte le circostanze che danno ad esse un valore non più «personale», ma di indicazione generale e di simbolo.

Esiste una crisi della società italiana, una crisi che trae la sua origine dai fattori stessi di cui questa società è costituita e dai loro irriducibili contrasti; esiste una crisi che la guerra ha accelerata, approfondita, resa insuperabile. Da una parte vi è uno Stato che non si regge perché gli manca l'adesione delle grandi masse e gli manca una classe dirigente che sia capace di conquistargli questa adesione; dall'altra parte vi è una massa di milioni di lavoratori i quali si sono lentamente venuti risvegliando alla vita politica, i quali chiedono di prendere ad essa una parte attiva, i quali vogliono diventare la base di uno «Stato» nuovo in cui si incarni la loro volontà. Vi è da una parte un sistema economico che non riesce più a soddisfare i bisogni elementari della maggioranza enorme della popolazione, perché è costruito per soddisfare gli interessi particolari ed esclusivistici di alcune ristrette categorie privilegiate; vi sono dall'altra parte centinaia di migliaia di lavoratori i quali non possono più vivere se questo sistema non viene modificato dalle basi.

Da quarant'anni la società italiana sta cercando invano il modo di uscire da questi dilemmi. Ma il modo di uscirne è uno solo. È che le centinaia di migliaia di lavoratori, che la grande maggioranza della popolazione lavoratrice italiana sia guidata a superare il contrasto spezzando i quadri dell'ordine politico ed economico attuale e sostituendo ad esso un ordine nuovo di cose, nel quale gli interessi e le volontà di chi lavora e produce trovino soddisfazione ed espressione complete. Il risveglio degli operai e dei contadini d'Italia iniziatosi, sotto la guida di animosi pionieri, or sono alcune decine di anni, lasciava sperare che questa strada stesse per essere presa e seguita, senza esitazione e senza incoerenze, fino alla fine.

Anche Giacomo Matteotti fu, se non per l'età, per la scuola politica cui appartenne, di questi pionieri. Egli fu di coloro a cui il proletariato italiano chiedeva di essere guidato a creare in se stesso la propria economia, il proprio Stato, il proprio destino, fu di coloro da cui dipese la soluzione, la sola possibile soluzione, della crisi italiana. Ricordare come la guida sia, praticamente, venuta meno e il movimento sia esaurito in se stesso, lasciando aperta la via al trionfo sfacciato dei suoi più fieri nemici, è superfluo, forse, ricordare oggi, se non per mettere in luce la contraddizione interna, insanabile che viziava dalle fondamenta la concezione politica e storica di questi primi capi della riscossa degli operai e dei contadini d'Italia, che condannava l'azione a un insuccesso tragico, pauroso.

Il risvegliare alla vita civile, alle rivendicazioni economiche e alla lotta politica le decine e centinaia di migliaia di contadini e di operai è cosa vana, se non si conclude con la indicazione dei mezzi e delle vie per cui le forze risvegliate delle masse lavoratrici potranno giungere a una concreta e completa affermazione di sé. A questa conclusione, i pionieri del movimento di riscossa dei lavoratori italiani non seppero giungere. L'azione loro, mentre faceva crollare i cardini di un sistema economico, non prevedeva la creazione di un diverso sistema, nel quale i limiti del primo fossero per sempre superati e abbattuti. Iniziava una serie di conquiste e non pensava alla difesa di esse. Dava ad una classe coscienza di sé e dei propri destini, e non le dava la organizzazione di combattimento senza la quale questi destini non si potranno mai realizzare. Poneva le premesse di una rivoluzione, e non creava un movimento rivoluzionario. Scuoteva le basi di uno Stato, e credeva di poter eludere il problema della creazione di uno Stato nuovo. Scatenava la ribellione, e non sapeva guidarla alla vittoria. Parlava da un desiderio generoso di redenzione totale, e si esauriva miseramente nel nulla di una azione senza vie di uscita, di una politica senza prospettiva, di una rivolta condannata, passato il primo istante di stupore e di smarrimento degli avversari, a essere soffocata nel sangue e nel terrore della riscossa reazionaria.

Il sacrificio eroico di Giacomo Matteotti è per noi l'ultima espressione, la più evidente, la più tragica ed elevata, di questa contraddizione interna di cui tutto il movimento operaio italiano per anni ed anni ha sofferto. Ma se l'impeto di riscossa e gli sforzi tenaci durati nel passato, hanno potuto essere vani, se ha potuto crollare paurosamente, in tre anni, l'edificio pezzo a pezzo così faticosamente costruito, non deve, non può rimanere vano questo sacrificio supremo, in cui tutto l'insegnamento di un passato di dolori e di errori si riassume.

Ieri, mentre i resti di Giacomo Matteotti scendevano nella tomba, e al triste rito volgevano le menti, da tutte le terre d'Italia, tutti i lavoratori delle officine e dei campi, e dal Polesine e dal Ferrarese schiavi muovevano, a frotte per essere in persona presenti ad esso, i contadini e gli operai che della loro redenzione non disperano ancora, ieri, commemorando Matteotti, un gruppo di operai riformisti chiedeva la tessera del Partito comunista d'Italia. E noi abbiamo sentito che in questo atto vi è qualche cosa che spezza il circolo vizioso degli sforzi vani e dei sacrifici inutili, che supera le contraddizioni per sempre, che indica al proletariato italiano quale insegnamento deve trarsi dalla fine del pioniere caduto sulle proprie orme, senza più avere una via aperta a sé.

I semi gettati da chi ha lavorato per il risveglio, della classe lavoratrice italiana non possono andare perduti. Una classe che si è una volta risvegliata dalla schiavitù non può rinunciare a combattere per la sua redenzione. La crisi della società italiana che da questo risveglio è stata acuita fino alla esasperazione non si supera col terrore; essa non si concluderà se non con l'avvento al potere dei contadini e degli operai, con la fine del potere delle caste privilegiate, con la costruzione di una nuova economia, con la fondazione di un nuovo Stato. Ma per questo occorre che una organizzazione di combattimento sia creata, alla quale gli elementi migliori della classe lavoratrice aderiscano con entusiasmo e convinzione, attorno alla quale le grandi masse si stringano fiduciose e sicure.

È necessaria una organizzazione nella quale prende carne e figura una volontà chiara di lotta, di applicazione di tutti i mezzi che dalla lotta sono richiesti, senza i quali nessuna vittoria totale mai ci sarà data. Una organizzazione che sia rivoluzionaria non solo nelle parole e nelle aspirazioni generiche, ma nella struttura sua, nel suo modo di lavorare, nei suoi fini immediati e lontani. Una organizzazione il cui proposito di riscossa e di liberazione delle masse diventi qualcosa di concreto e definito, diventi capacità di lavoro politico ordinato, metodico, sicuro, capacità non solo di conquiste immediate e parziali, ma di difesa di ogni conquista realizzata e di passaggio a conquiste sempre più alte e a quella che tutto le deve garantire: la conquista del potere, la distruzione dello Stato dei borghesi e dei parassiti, la sostituzione ad esso di uno Stato di contadini e di operai. Queste cose hanno inteso gli operai riformisti che nel ricordare il loro capo caduto hanno chiesto di entrare nel nostro partito.

Il sacrificio di Matteotti - essi dicono ai loro compagni - si celebra lavorando alla creazione del solo strumento per cui l'idea da cui egli era mosso, l'idea della redenzione completa dei lavoratori, possa ricevere attuazione e realtà: il partito di classe degli operai, il partito, della rivoluzione proletaria. Il sacrificio di Matteotti è celebrato nel solo modo degno e profondo dai militanti che nelle file del partito e della Internazionale comunista si stringono per prepararsi a tutte le lotte del domani. Solo per essi la classe operaia cesserà di essere «pellegrina del nulla», cesserà di passare di delusione in delusione, di sconfitta in sconfitta, di sacrificio in sacrificio, per voler risolvere il contraddittorio problema di creare un mondo nuovo senza mandare in pezzi questo vecchio mondo che ci opprime, solo per essi la classe operaia diventerà libera e padrona dei propri destini.

Né fascismo né liberalismo: soviettismo!

"L'Unità", 7 ottobre 1924

Nella crisi politica di liquidazione del fascismo il blocco delle opposizioni appare sempre più come un fattore di secondario ordine. La sua composizione sociale eterogenea, le sue esitazioni e la sua avversione ad una lotta della massa popolare contro il regime fascista, riducono la sua azione ad una campagna giornalistica e a degli intrighi parlamentari che si urtano impotenti di fronte alla milizia armata del Partito fascista. 

Nel movimento di opposizione al fascismo la parte più importante è passata al Partito liberale perché il blocco non ha altro programma da opporre al fascismo che il vecchio programma liberale della democrazia borghese parlamentare, il ritorno alla costituzione, alla legalità, alla democrazia. Nella discussione sulla successione al fascismo a proposito del congresso del Partito liberale, il popolo italiano è posto, dalle opposizioni, di fronte alla scelta: o fascismo o liberalismo; o un governo Mussolini di dittatura sanguinaria o un governo Salandra, Giolitti, Amendola, Turati, don Sturzo, Vella, tendente a ristabilire la buona vecchia democrazia liberale italiana sotto la cui maschera la borghesia continuerà ad esercitare il suo dominio di sfruttamento. 

L'operaio, il contadino, il quale odia il fascismo che da anni l'opprime, crede dunque necessario per abbatterlo di allearsi alla borghesia liberale, di appoggiare coloro che nel passato, quand'erano al potere, hanno sostenuto e armato il fascismo contro gli operai e i contadini quali ancora pochi mesi or sono formavano un solo blocco con il fascismo e ne condividevano pienamente tutta la responsabilità dei delitti? Ed è così che si pone il problema della liquidazione del fascismo? No! La liquidazione del fascismo deve essere la liquidazione della borghesia che lo ha creato. 

Quando il Partito comunista, all'indomani dell'assassinio di Matteotti, ha lanciato la parola d'ordine: "Abbasso il governo degli assassini! Scioglimento della milizia fascista!", non ha pensato che il governo degli assassini dovesse essere sostituito con un governo di coloro che con tutta la loro politica avevano aperta la via e armato gli assassini; non ho mai creduto che Giolitti, Nitti, Amendola, che erano al potere quando si è formata la milizia fascista, fossero capaci di disarmare questa milizia che così avevano favorito e armato contro la classe operaia. 

Lanciando la sua parola d'ordine il nostro partito non intendeva sostituire il fascismo in fallimento con il vecchio liberalismo di cui la marcia su Roma aveva segnato il fallimento obbrobrioso e la definitiva liquidazione. Il Partito comunista dal principio della crisi del fascismo ha affermato che la classe operaia e contadina ne doveva essere il becchino e il successore al potere. 

Per vincere il fascismo è necessaria l'azione della massa del proletariato industriale e dei contadini; la lotta di classe con tutte le conseguenze. Il proletariato potrà e dovrà senza dubbio utilizzare nella sua lotta contro il fascismo le opposizioni e le lotte che si sono sviluppate nel seno della borghesia e della piccola borghesia, ma senza l'azione diretta il fascismo non potrà mai essere abbattuto. Porre così il problema era, nel tempo stesso, porre chiaramente la questione della successione al fascismo. Vinto il fascismo dall'azione delle masse operaie e contadine, il liberalismo non ha nulla a che fare nella successione; questo diritto appartiene al governo degli operai e dei contadini che solo sarà capace ed avrà la sincera volontà di disarmare la milizia fascista, armando la classe operaia ed i contadini. 

Nell'ora attuale si tratta di ben altro che di ritorno alla Costituzione, di democrazia e di liberalismo. Sono queste ultime delle parole melliflue che la borghesia cerca di far ingoiare ai lavoratori della città e della campagna per evitare che la crisi acquisti il suo vero carattere, cioè di rivincita degli operai e dei contadini contro il fascismo che li ha soppressi e contro il liberalismo che li ha ingannati e che, ancor mesi or sono, collaboravano o cercavano di collaborare (D'Aragona, Baldesi, ecc.) con Mussolini. 

La crisi italiana non può essere risolta che coll'azione delle masse lavoratrici. Sul terreno degli intrighi parlamentari non vi è possibilità di liquidazione del fascismo, ma solo di un compromesso che lascia padrona la borghesia ed il fascismo armato al suo servizio. Il liberalismo, anche se innestato delle glandole della scimmia riformista, è impotente. Appartiene al passato. E tutti i don Sturzo d'Italia, uniti a Turati e a Vella, non riusciranno a rendergli la giovinezza necessaria alla liquidazione del fascismo. 

Un governo di classe di operai e di contadini, che non si preoccupa né della Costituzione, né dei sacri principi del liberalismo, ma che è deciso a vincere definitivamente il fascismo, a disarmarlo e a difendere contro tutti gli sfruttatori gli interessi dei lavoratori della città e della campagna; ecco la sola forza giovane capace di liquidare un passato di oppressione, di sfruttamento e di delitti e di dare un avvenire di vera libertà per tutti coloro che lavorano. 

Oggi il Partito comunista è il solo a ripetere queste verità al proletariato. La sua influenza si accresce; la sua organizzazione si sviluppa, ma la maggioranza degli operai e contadini, trascinata dalla Confederazione del lavoro, dal Partito massimalista, a loro volta a rimorchio delle opposizioni costituzionali, non ha ancora riacquistato la propria coscienza di classe; non ha compreso che la classe operaia e contadina è il principale fattore della crisi, perché è il numero irresistibile e la grande forza giovane, e che se non vuole illudersi, deve agire sul terreno della lotta di classe come una forza indipendente, che sarà presto determinante, e non sul terreno della collaborazione di classe per cambiare soltanto la maschera alla borghesia italiana. 

Il compito essenziale del nostro Partito consiste nel far penetrare fra gli operai e i contadini queste idee fondamentali: Soltanto la lotta di classe delle masse operaie e contadine vincerà il fascismo. Soltanto un governo di operai e di contadini è capace di liquidare il fascismo e di sopprimerne le cause. Soltanto l'armamento degli operai e dei contadini potrà disarmare la milizia fascista. Quando queste verità essenziali saranno penetrate nello spirito della massa operaia e contadina per mezzo della nostra instancabile propaganda, i lavoratori delle officine e dei campi, a qualunque partito appartengano, comprenderanno la necessità di costituire i Comitati operai e contadini per la difesa dei loro interessi di classe e per la lotta contro il fascismo. 

Essi comprenderanno che questi sono gli strumenti necessari della lotta rivoluzionaria e della loro volontà di sostituire il governo degli assassini con un governo degli operai e dei contadini. Nel momento in cui si chiude il Congresso liberale che cerca ancora una volta d'ingannare il popolo lavoratore, da un capo all'altro dell'Italia, gli operai ed i contadini rispondano alle sue chiacchiere sonore e vuote: Né fascismo né liberalismo: soviettismo!

Il partito del proletariato

"L' Ordine Nuovo", 1° novembre 1924

Il Partito comunista non è soltanto l'avanguardia della classe operaia, esso deve esserne anche il distaccamento organizzato. In regime capitalista, esso ha dei compiti estremamente importanti e vari. Esso deve dirigere il proletariato nella sua lotta fra difficoltà di ogni sorta, condurlo all'of- fensiva quando la situazione lo esige, sottrarlo, guidan- dolo alla ritirata, ai colpi del suo avversario quando esso rischia di essere schiacciato da quest'ultimo, inculcare nella massa dei senza partito i principi della disciplina, di metodo di organizzazione, di fermezza necessari alla lotta. Ma il partito non verrà meno a questi suoi compiti soltanto se sarà esso stesso la personificazione della disciplina e dell'organizzazione, se sarà il distaccamento organizzato del proletariato. Altrimenti esso non potrà pretendere di conquistare la direzione delle masse proletarie. 

Il partito è dunque l'avanguardia organizzata della classe operaia. Il Partito comunista è l'avanguardia organizzata, ma non la sola organizzazione della classe operaia. La classe operaia ha una serie di altre organizzazioni che le sono indispensabili nella lotta contro il capitale: sindacati, cooperative, comitati di officina, frazioni parlamentari, unioni delle donne senza partito, stampa, associazioni, organizzazioni di cultura, unione della gioventù, organizzazioni di combattimento rivoluzionarie (nel corso dell'azione rivoluzionaria diretta), Soviet dei deputati, Stato (se il proletariato è al potere), ecc. 

La maggior parte di queste organizzazioni sono apolitiche: qualcuna soltanto aderente al partito o totalmente o per ramificazione. Tutte sono, in certe condizioni, assolutamente necessarie alla classe operaia, per consolidare le sue posizioni di classe nelle differenti sfere della lotta e farne una forza capace di sostituire l'ordine borghese con l'ordine socialista. 

Ma come ottenere l'unità di direzione in organizzazioni così diverse? Come evitare che la loro molteplicità non porti con se i dissensi nella direzione? Queste organizzazioni, si dirà, compiono ciascuna il proprio lavoro in una sfera speciale e, per conseguenza, esse non possono importunarsi vicendevolmente. E' giusto. Ma tutte devono condurre la loro azione con una direzione unica, perché esse servono tutte una sola classe: quella dei proletari. Chi dunque determina questa direzione unica? Qual è l'organizzazione centrale sufficientemente sperimentata per elaborare questa linea generale e capace, grazie alla sua autorità, di incitare tutte le organizzazioni a seguirla, di ottenere l'unità di direzione ed escludere la possibilità di colpi di testa? 

Questa organizzazione è il partito del proletariato. Esso ha, veramente, tutte le qualità necessarie. Prima di tutto, esso racchiude in se la parte migliore della classe operaia, una avanguardia legata direttamente con le organizzazioni senza partito del proletariato, che i comunisti frequentemente dirigono. In secondo luogo il partito è, per la sua autorità, la sola organizzazione capace di centralizzare la lotta del proletariato e di trasformare così le organizzazioni politiche della classe operaia in organi suoi di collegamento. 

Il partito è la forma superiore dell'organizzazione di classe del proletariato.

Per una preparazione ideologica di massa
"La Sezione di agitprop del PC",

aprile-maggio 1925

Da quale bisogno specifico della classe operaia e del suo partito, il Partito comunista, è sorta l'iniziativa della scuola per corrispondenza, che finalmente comincia ad attuarsi, con la pubblicazione della presente dispensa? 

Da quasi cinque anni il movimento operaio rivoluzionario italiano è piombato in una situazione di illegalità o di semilegalità. La libertà di stampa, il diritto di riunione, di associazione, di propaganda sono praticamente soppressi. La formazione dei quadri dirigenti del proletariato non può quindi più avvenire per le vie e coi metodi che erano tradizionali in Italia fino al 1921. 

Gli elementi operai più attivi sono perseguitati, sono controllati in ogni loro movimento, in ogni loro lettura; le biblioteche operaie sono state incendiate o altrimenti disperse; le grandi organizzazioni e le grandi azioni di massa non esistono più e non possono attuarsi. 

I militanti non partecipano affatto o partecipano solo in misura limitatissima alle discussioni e al contrasto delle idee; la vita isolata o la riunione saltuaria di piccoli gruppi riservati, l'abitudine che può venire formandosi a una vita politica che in altri tempi pareva d'eccezione, suscitano sentimenti, stati d'animo, punti di vista che sono spesso errati e talvolta persino morbosi. 

I nuovi membri che il partito acquista in una tale situazione, evidentemente sono uomini sinceri e di vigorosa fede rivoluzionaria, non possono venire educati ai nostri metodi dall'attività ampia, dalle larghe discussioni, dal controllo reciproco che sono propri del periodo di democrazia e di legalità di massa. 

Si prospetta così un pericolo molto grave: la massa del partito, abituandosi, nell'illegalità, a non pensare ad altro che agli espedienti necessari per sfuggire alle sorprese del nemico, abituandosi a vedere possibili e organizzabili immediatamente solo azioni di piccoli gruppi, vedendo come i dominatori apparentemente abbiano vinto e conservino il potere con l'opera di minoranze armate e inquadrate militarmente, si allontana insensibilmente dalla concezione marxista dell'attività rivoluzionaria del proletariato, e mentre pare si radicalizzi, per il fatto che si sentono spesso enunziare propositi estremisti e frasi sanguinolente, in realtà diventa incapace di vincere il nemico. 

La storia della classe operaia, specialmente nell'epoca che attraversiamo, mostra come questo pericolo non sia immaginario. La ripresa dei partiti rivoluzionari, dopo un periodo di illegalità, è spesso caratterizzata da un irrefrenabile impulso all'azione per l'azione, dall'assenza di ogni considerazione dei rapporti reali delle forze sociali, dello stato d'animo delle grandi masse operaie e contadine, delle condizioni d'armamento, ecc. 

E' avvenuto così troppo spesso che il partito rivoluzionario si sia fatto massacrare dalla reazione non ancora disgregata, e le cui riserve non erano state giustamente apprezzate, tra l'indifferenza e la passività delle grandi masse, le quali, dopo ogni periodo reazionario, diventano molto prudenti e sono facilmente colte dal panico ogni qualvolta si minaccia un ritorno alla situazione da cui sono allora uscite. 

E' difficile, in linea generale, che tali errori non si verifichino; è perciò doveroso che il partito se ne preoccupi e svolga una determinata attività che specialmente tenda a migliorare la situazione e la sua organizzazione, ad elevare il livello intellettuale dei membri che si trovano nelle sue file nel periodo del terrore bianco e che sono destinati a diventare il nucleo centrale e più resistente ad ogni prova e ad ogni sacrificio del partito che guiderà la rivoluzione ed amministrerà lo Stato proletario. Il problema appare così più largo e più complesso. 

La ripresa del movimento rivoluzionario e specialmente la sua vittoria, riversano nel partito una grande massa di nuovi elementi. Essi non possono essere respinti, specialmente se di origine proletaria, poiché appunto la loro adesione è uno dei segni più sintomatici della rivoluzione che sta compiendosi; ma il problema si pone di impedire che il nucleo centrale del partito sia sommerso e disgregato dalla nuova impetuosa ondata. 

Tutti ricordiamo ciò che è avvenuto in Italia, dopo la guerra, nel Partito socialista. Il nucleo centrale, costituito dai compagni rimasti fedeli alla causa durante il cataclisma, si restrinse fino a ridursi al numero di 16.000 circa. Al Congresso di Livorno erano rappresentati 220.000 soci, cioè esistevano nel partito 200.000 aderenti del dopoguerra, senza preparazione politica, digiuni o quasi di ogni nozione della dottrina marxista, facile preda dei piccoli borghesi declamatori e fanfaroni che costituirono negli anni 1919-20 il fenomeno del massimalismo. 

Non è senza significato che l'attuale capo del Partito socialista e direttore dell'"Avanti!" sia proprio Pietro Nenni, entrato nel Partito socialista dopo Livorno, ma che riassume e sintetizza in sé tutte le debolezze ideologiche e i caratteri distintivi del massimalismo del dopoguerra. Sarebbe veramente delittuoso che nel Partito comunista si verificasse per rispetto al periodo fascista ciò che si è verificato nel Partito socialista per rispetto al periodo di guerra: ma ciò sarebbe inevitabile se il nostro partito non avesse una direttiva anche in questo campo, se esso non provvedesse a tempo a rinforzare ideologicamente e politicamente i suoi attuali quadri e i suoi attuali membri, per renderli capaci di contenere e inquadrare masse ancora più larghe senza che l'organizzazione subisca troppe scosse e senza che la figura del partito ne venga mutata. 

Abbiamo posto il problema nei suoi termini pratici più importanti. Ma esso ha una base che è superiore ad ogni contingenza immediata. Noi sappiamo che la lotta del proletariato contro il capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico, e quello ideologico. 

La lotta economica ha tre fasi: di resistenza contro il capitalismo, cioè la fase sindacale elementare; di offensiva contro il capitalismo per il controllo operaio sulla produzione; lotta per l'eliminazione del capitalismo attraverso la socializzazione. 

Anche la lotta politica ha tre fasi principali: lotta per infrenare il potere della borghesia nello Stato parlamentare, cioè per mantenere o creare una situazione democratica in equilibrio tra le classi che permetta al proletariato di organizzarsi; lotta per la conquista del potere e per la creazione dello Stato operaio, cioè un'azione politica complessa attraverso la quale il proletariato mobilita intorno a sé tutte le forze sociali anticapitalistiche (in prima linea la classe contadina) e le conduce alla vittoria; fase della dittatura del proletariato organizzato in classe dominante per eliminare tutti gli ostacoli tecnici e sociali, che si frappongono alla realizzazione del comunismo. 

La lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica, e né l'una né l'altra cosa possono essere disgiunte dalla lotta ideologica. Nella sua prima fase sindacale la lotta economica è spontanea, cioè essa nasce ineluttabilmente dalla stessa situazione in cui il proletariato si trova nel regime borghese, ma non è di per sé stessa rivoluzionaria, cioè non porta necessariamente all'abbattimento del capitalismo, come hanno sostenuto e continuano a sostenere con minor successo i sindacalisti. Tanto è vero che i riformisti e persino i fascisti ammettono la lotta sindacale elementare, anzi sostengono che il proletariato come classe non debba esplicare altra lotta che quella sindacale. 

I riformisti si differenziano dai fascisti solo in quanto sostengono che se non il proletariato come classe, i proletari come individui, cittadini, lottino anche per la "democrazia generale", cioè per la democrazia borghese, in altre parole lottino solo per mantenere o creare le condizioni politiche della pura lotta di resistenza sindacale. 

Perché la lotta sindacale diventi un fattore rivoluzionario occorre che il proletariato l'accompagni con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che investe tutte le questioni più vitali dell'organizzazione sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. L'elemento "spontaneità" non è sufficiente per la lotta rivoluzionaria: esso non porta mai la classe operaia oltre i limiti della democrazia borghese esistente. E' necessario l'elemento coscienza, l'elemento "ideologico", cioè la comprensione delle condizioni in cui si lotta, dei rapporti sociali in cui l'operaio vive, delle tendenze fondamentali che operano nel sistema di questi rapporti, del processo di sviluppo che la società subisce per l'esistenza nel suo seno di antagonismi irriducibili, ecc. 

I tre fronti della lotta proletaria si riducono a uno solo per il partito della classe operaia, che è tale appunto perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale. Non si può certo domandare ad ogni operaio della massa di avere una completa coscienza di tutta la complessa funzione che la sua classe è determinata a svolgere nel processo di sviluppo dell'umanità: ma ciò deve essere domandato ai membri del partito. 

Non ci si può proporre, prima della conquista dello Stato, di modificare completamente la coscienza di tutta la classe operaia; sarebbe utopistico, perché la coscienza della classe operaia come tale si modifica solo quando sia stato modificato il modo di vivere della classe stessa, cioè quando il proletariato sarà diventato classe dominante, avrà a sua disposizione l'apparato di produzione e di scambio e il potere statale. 

Ma il partito può e deve, nel suo complesso, rappresentare questa coscienza superiore; altrimenti esso non sarà alla testa, ma alla coda delle masse, non le guiderà ma ne sarà trascinato. Perciò il partito deve assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale, come leninismo. L'attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. 

In Italia il marxismo (all'infuori di Antonio Labriola) è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari. Abbiamo visto perciò nel Partito socialista italiano convivere insieme pacificamente le tendenze più disparate, abbiamo visto essere opinioni ufficiali del partito le concezioni più contraddittorie. Mai le direzioni del partito immaginarono che per lottare contro l'ideologia borghese, per liberare cioè le masse dall'influenza del capitalismo, occorresse prima diffondere nel partito stesso la dottrina marxista e occorresse difenderla da ogni contraffazione. Questa tradizione non è stata, per lo meno, ancora interrotta nel nostro partito, interrotta in modo sistematico e con una attività notevole e continuata. 

Si dice tuttavia che il marxismo ha avuto molta fortuna in Italia e in un certo senso ciò è vero. Ma è vero anche che una tale fortuna non ha giovato al proletariato, non ha servito a creare nuovi mezzi di lotta, non è stato un fenomeno rivoluzionario. Il marxismo, cioè alcune affermazioni staccate dagli scritti di Marx, hanno servito alla borghesia italiana per dimostrare che per le necessità del suo sviluppo era necessario fare a meno della democrazia, era necessario calpestare le leggi, era necessario ridere della libertà e della giustizia: cioè, è stato chiamato marxismo, dai filosofi della borghesia italiana, la constatazione che Marx ha fatto dei sistemi che la borghesia adopera, senza bisogno di ricorrere a giustificazioni... marxiste, nella sua lotta contro i lavoratori. 

E i riformisti, per correggere questa interpretazione fraudolenta, sono essi diventati democratici, si sono essi fatti i turiferari di tutti i santi sconsacrati del capitalismo. I teorici della borghesia italiana hanno avuto l'abilità di creare il concetto della "nazione proletaria", cioè di sostenere che l'Italia tutta era una "proletaria" e che la concezione di Marx doveva applicarsi alla lotta dell'Italia contro gli altri Stati capitalisti, non alla lotta del proletariato italiano contro il capitalismo italiano; i "marxisti" del Partito socialista hanno lasciato passare senza lotta queste aberrazioni, che furono accettate da uno, Enrico Ferri, che passava per un grande teorico del socialismo. 

Questa fu la fortuna del marxismo in Italia: che esso servì da prezzemolo a tutte le più indigeste salse che i più imprudenti avventurieri della penna abbiano voluto mettere in vendita. E' stato marxista in tal modo Enrico Ferri, Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini... 

Per lottare contro la confusione che si è andata in tal modo creando è necessario che il partito intensifichi e renda sistematica la sua attività nel campo ideologico, che esso ponga come un dovere del militante la conoscenza della dottrina del marxismo e del leninismo almeno nei suoi termini più generali. Il nostro partito non è un partito democratico, almeno nel senso volgare che comunemente si dà a questa parola. E' un partito centralizzato nazionalmente e internazionalmente. Nel campo internazionale il nostro partito è una semplice sezione di un partito più grande, di un partito mondiale. 

Quali ripercussioni può avere e ha già avuto questo tipo di organizzazione, che pure è una ferrea necessità della rivoluzione? L'Italia stessa ci dà una risposta a questa domanda. Per reazione all'andazzo solito del Partito socialista, in cui si discuteva molto e si risolveva poco, la cui unità, per l'urto continuo delle frazioni, delle tendenze e spesso delle cricche personali si frantumava in una infinità di frammenti sconnessi, nel nostro partito si era finito col non discutere più di nulla. La centralizzazione, l'unità d'indirizzo e di concezione era diventata una stagnazione intellettuale. A ciò contribuì la necessità della lotta incessante contro il fascismo, che proprio alla fondazione del nostro partito era già passato alla sua prima fase attiva ed offensiva, ma contribuì anche la concezione errata del partito, così come è esposta nelle "tesi sulla tattica" presentate al Congresso di Roma. 

La centralizzazione e l'unità erano concepite in modo troppo meccanico: il Comitato centrale, anzi, il Comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il partito perderebbe cioè la sua forza di attrazione, si staccherebbe dalle masse. Perché il partito viva e sia a contatto con le masse occorre che ogni membro del partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. 

Appunto perché il partito è fortemente centralizzato, si domanda una vasta opera di propaganda e di agitazione nelle sue file, è necessario che il partito, in modo organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello ideologico. Centralizzazione vuol dire specialmente che in qualsiasi situazione, anche dello stato d'assedio rinforzato, anche quando i comitati dirigenti non potessero funzionare per un determinato periodo o fossero posti in condizione di non essere collegati con tutta la periferia, tutti i membri del partito, ognuno nel suo ambiente siano stati posti in grado di orientarsi, di saper trarre dalla realtà gli elementi per stabilire una direttiva, affinché la classe operaia non si abbatta ma senta di essere guidata e di poter ancora lottare.

La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria.

Il Partito combatterà con energia ogni ritorno alle concezioni organizzative della socialdemocrazia

"L'Unità", 7 giugno 1925

Quando, dopo il V Congresso dell'Internazionale comunista, il Comitato Centrale del partito affermava che l'atteggiamento assunto dai compagni dell'estrema sinistra di fronte alle decisioni di quel congresso e particolarmente il loro rifiuto a far parte degli organi direttivi del partito, non solo del Comitato esecutivo, ma persino del Comitato centrale, in seno al quale sarebbe stato sempre possibile precisare la propria responsabilità politica sulle questioni generali e su ciascun problema politico in particolare, aveva sostanzialmente un significato frazionistico per la concezione e il metodo politico che in tale atteggiamento si esprimeva e per le conseguenze che ne sarebbero praticamente derivate, molti compagni rispondevano negando recisamente questo giudizio, anzi protestando contro tali affermazioni che essi dicevano essere fatte a puro scopo polemico. 

E quando nei congressi federali convocati dopo il V Congresso mondiale, il Comitato centrale del partito pose praticamente tale questione affermando la necessità che gli esponenti della tendenza di estrema sinistra entrassero a far parte del Comitato centrale, da parte di alcuni compagni - la stragrande maggioranza del partito era invece consenziente con tale soluzione - si reagì violentemente definendo tale proposta una provocazione ed un atto di ostilità. 

Ora i nomi di coloro che così parlavano alcuni mesi fa, li ritroviamo nel sedicente "Comitato di intesa" che altro non è, come risulta dai documenti che qui pubblichiamo, che il Comitato centrale di una frazione che si tenta segretamente di creare e di organizzare in seno al partito. Dopo aver respinto a parole, pochi mesi fa, quanto noi dicevamo, essi confermano oggi con i fatti le nostre affermazioni. 

Per la verità e l'esattezza si deve anche dire che taluni compagni pur essendosi dichiarati d'accordo in un primo momento con la posizione assunta dall'estrema sinistra, certamente perché non ne vedevano chiaramente il contenuto e il significato politico, oggi sono recisamente contro una così insana iniziativa ed ogni tentativo di far degenerare la discussione ideologica che sta per iniziarsi nel partito e che noi tutti riteniamo utile e necessaria, in una lotta di frazioni estremamente dannosa e pericolosa. I fatti che qui documentiamo sono di una tale gravità da imporsi alla più severa attenzione di tutti i compagni. 

Mai si era vista nel nostro partito più audace offesa alle norme più elementari di organizzazione e di disciplina di un partito comunista. Bisogna guardare la realtà in faccia e non aver paura di chiamare le cose col loro vero nome: l'iniziativa del Comitato d'intesa porta in sé il germe di una scissione del partito. Basta leggere i documenti che la circolare segreta che tale comitato ha illegalmente inviato a qualche suo fiduciario nella nostra organizzazione per convincersene. I compagni tutti devono reagire con la massima energia a questo attentato all'unità ed alla compagine del nostro partito. 

In un momento in cui la reazione contro il nostro movimento si aggrava, i pericoli aumentano e la situazione si presenta sempre più gravida di minacce, ogni tentativo di compromettere ed indebolire la coesione interna e la solidità organizzativa dell'avanguardia rivoluzionaria organizzata nel Partito comunista, è un atto delittuoso che merita le più grandi sanzioni e il biasimo più severo. 

Noi siamo certi che ogni tentativo frazionistico è destinato al fallimento: i germi di infezione frazionistica, che qua e là tendono a dare manifestazioni di vita, saranno inesorabilmente schiacciati ed eliminati. L'organismo del partito è sano e vigoroso e saprà resistere ottimamente. Al di sopra di ogni reazione psicologica e di ogni voce di sdegno che insorge spontanea nella coscienza di ogni militante rivoluzionario che non abbia smarrito il senso dei doveri che gli impone la milizia rivoluzionaria, noi dobbiamo porre tale quistione sul terreno ideologico per scoprire e porre in chiaro l'errore di principio da cui essa deriva. I compagni tutti dovranno rendersi conto degli errori pratici e delle aberrazioni alle quali si può giungere partendo da concezioni teoricamente viziate ed in gran parte erronee. 

Ponendosi sulla via per la quale si sono incamminati i compagni del sedicente "Comitato d'intesa", si va dritti fuori del partito e dell'Internazionale comunista. E porsi fuori del partito e dell'Internazionale significa porsi contro il partito e l'Internazionale comunista, significa cioè rafforzare gli elementi della controrivoluzione. E' bene parlare chiaro perché non si formino illusioni. 

Dei documenti che qui pubblichiamo, sarà necessario riparlarne. Essi meritano un esame intrinseco, sia per ciò che in essi si afferma, sia per il doppio gioco che essi svelano nell'azione dei compagni del "Comitato d'intesa", da alcuni dei quali, almeno, ci attendevamo una condotta di maggior lealtà e di maggior senso di responsabilità. E sarà necessario anche mettere in chiaro che la manovra che si nasconde nell'assenza del nome del compagno Bordiga, col quale certamente è concordata l'iniziativa del "Comitato d'intesa". 

E' doloroso dover fare simili constatazioni, quando fra i firmatari troviamo il nome di compagni che furono con noi fra i fondatori del partito e per esso lottarono e operarono. Ma la realtà è quella che è, ed ogni debolezza in questo momento sarebbe colpa grave. Al di sopra di ogni cosa deve porsi l'interesse del partito, per il quale dobbiamo essere pronti in ogni momento ad affrontare ogni sacrificio. Amicizie, vincoli personali ed i più tenaci e più profondi legami d'affetto non possono e non devono limitare il dovere che la milizia rivoluzionaria ci impone. 

Se non avessimo la forza di far ciò, non saremmo dei rivoluzionari militanti ed avremmo perciò il dovere di trarci in disparte. Tutti i compagni devono far propria questa norma. Diciamo questo perché nel nostro partito troppa influenza hanno avuto finora le forze sentimentali. Questa è una debolezza dalla quale dobbiamo saper guarire, se vogliamo veramente portare il nostro partito all'altezza di un vero partito bolscevico.

Dopo lo scioglimento del "Comitato d'intesa"

L'Unità", 18 giugno 1925

Napoli, 8 giugno 1925

Cari compagni,

in seguito al comunicato apparso nel numero di ieri dell' "Unità", chiedo di poter dichiarare con lo stesso mezzo che appartengo al "Comitato d'intesa della sinistra" e che la mia firma non figura nel documento pubblicato per sole ragioni di ordine pratico. 

Domando inoltre se è ammesso rispondere sulla stampa di partito non tanto ad argomentazione quanto ad affermazioni prive di fondamento sul conto dei compagni della sinistra, anche come persone in certi casi, contenute in documenti che la Centrale ha già creduto di fare pubblicare, aprendo così di fatto la discussione. 

Non credo che si vorrà pretendere di aprire la discussione ad uso di una sola delle parti, soprattutto quando questa si compiace di attribuire all'altra opinioni e atteggiamenti che sono il contrario della verità. 

Con saluti comunisti

AMADEO BORDIGA

La dichiarazione con la quale il compagno Bordiga si affretta ad annunciare la propria solidarietà col Comitato d'intesa non può sorprendere nessuno; essa era implicita in tutto il suo atteggiamento dal V Congresso in poi, ed in armonia con l'attiva opera frazionistica da lui svolta nella sezione di Napoli, ove per il succedersi di riunioni riservate e "clandestine" di frazione (assai scarse di seguito, in verità) il Comitato esecutivo ha dovuto intervenire promuovendo un'inchiesta i cui risultati saranno portati a conoscenza del partito. 

Sostanzialmente dunque nulla di nuovo. Da un punto di vista formale la situazione diviene più chiara per molti compagni e pone apertamente ciascuno di fronte alle proprie responsabilità. Rileviamo solo il fatto che mentre il Comitato esecutivo condanna il Comitato d'intesa e ne ordina lo scioglimento, il compagno Bordiga si schiera apertamente al suo fianco contro il Comitato esecutivo del partito. Così il compagno Bordiga si pone automaticamente nella stessa posizione disciplinare dei componenti il comitato di frazione, con l'aggravante delle maggiori responsabilità che a lui derivano dal fatto di essere membro del Comitato esecutivo dell'Internazionale. 

Ad evitare equivoci dobbiamo un chiarimento alla lettera che qui pubblichiamo. Il compagno Bordiga espone il dubbio che la Centrale voglia "pretendere di aprire la discussione ad uso di una sola delle parti". Questa insinuazione non ha alcuna giustificazione; nessun elemento può essere portato che autorizzi chicchessia ad avanzare il sospetto, divenuto argomento di lotta dell'"Avanti!" contro il nostro partito, che vi sia nella Centrale l'intenzione di restringere o comunque limitare nella discussione il diritto di parola. 

Continuino pure i compagni dell'estrema sinistra, se ciò fa loro piacere, a portare acqua al mulino degli opportunisti. In ogni caso, stia tranquillo il compagno Bordiga: la Centrale è profondamente convinta che tanto più favorevoli saranno i risultati della discussione per la politica del partito e dell'Internazionale, quanto maggiore sarà la partecipazione ad essa dei compagni dell'estrema sinistra. 

Ma non bisogna confondere la campagna antifrazionista che il Comitato centrale attualmente conduce con la discussione che dovrà svolgersi nel partito e che da quella campagna non è stata affatto aperta. Essa è determinata da un fatto concreto: l'organizzazione clandestina di una frazione del partito; e tende ad uno scopo altrettanto preciso: stroncare ogni tentativo di una sua pratica attuazione. Nessuno dei problemi che saranno oggetto della discussione, né alcuno degli elementi di dissenso politico e tattico esistenti fra noi sono stati in essa toccati. La sua stessa impostazione al di sopra di ogni tendenza e contro il frazionismo e per l'unità assoluta del partito, deve far comprendere il suo carattere speciale ben distinto dalla discussione che da questo spiacente episodio della vita del partito potrà essere ritardata ma non limitata. 

E' vero che la quistione del frazionismo si collega in realtà al merito dei problemi più generali sui quali le nostre opinioni divergono e dei quali dovremo discutere; essa sarà certamente uno degli elementi della discussione. Ma non è sotto questo aspetto che per ora viene trattata la quistione; l'obiettivo più urgente ed immediato che con questa campagna noi ci proponiamo non è quello di "discutere", ma di impedire che si dividano organicamente le forze del partito e si creino le condizioni di una scissione. 

Poiché è bene che il compagno Bordiga non finga di ignorare questa elementare verità: in un Partito comunista, porre il problema dell'organizzazione di una frazione significa porre un problema di scissione. E quando un tale pericolo incomincia ad apparire una realtà concreta, prima di divenire argomento di discussione esso si pone come obiettivo di lotta immediato e senza quartiere; ecco perché su tale quistione il Comitato centrale "non ha aperto una discussione", ma conduce una campagna diretta a mobilitare contro ogni tentativo e manovra frazionista tutte le forze del partito, indipendentemente da ogni divisione e tendenza, e quindi anche quelle dell' estrema sinistra che non hanno degenerato fino al punto del Comitato d'intesa. 

Avremo poi il tempo di discutere; sarà anzi tale questione un elemento di maggior chiarificazione politica. E quando la discussione si aprirà, il che non potrà tardare molto, vi sarà piena libertà di parola. Dopo questi chiarimenti, diciamo subito che non v'è alcun impedimento che sulla stampa di partito gli interessati rendano pubblica una loro dichiarazione. Allo stato attuale delle cose anzi riteniamo necessario che ciò avvenga. Il Comitato esecutivo ha preso delle decisioni precise, quali lo scioglimento del Comitato d'intesa, la consegna del materiale frazionistico, e la cessazione di ogni attività in questo senso. 

Sarà bene che il compagno Bordiga ed i suoi amici di frazione prendano su questo deliberato un impegno aperto e preciso di fronte al partito. I compagni dell'estrema sinistra tengano presente la gravissima responsabilità che si assumerebbero, se ponessero il Comitato centrale di fronte alla inderogabile necessità di dover prendere provvedimenti tali nei loro confronti da compromettere la stessa discussione del partito. 

Quanto poi all'asserzione che siano state pubblicate affermazioni prive di fondamento, anche sul conto di alcuni compagni come persone, che si siano attribuite ad essi opinioni ed atteggiamenti contrari alla verità non nascondiamo il nostro stupore. Questa ci sembra un'affermazione arbitraria e priva di fondamento: non riusciamo a vedere a cosa intenda riferirsi il compagno Bordiga, il quale avrebbe anche potuto nella lettera alla Centrale smentire e rettificare tutto quello che credeva. In ogni modo attendiamo con curiosità le annunciate rettifiche...

La volontà delle masse

"L'Unità", 24 giugno 1925

A proposito della crisi di frazionismo manifestatasi nel nostro partito, l'"Avanti!" ha pubblicato una serie di articoli che possono dare lo spunto per ribadire alcuni principi fondamentali del comunismo internazionale. E' molto probabile che le storture ideologiche dell'"Avanti!" non siano proprie solo degli scrittori dell'"Avanti!" e degli sparuti drappelli che costituiscono il partito massimalista. Il nostro partito è formato di elementi staccatisi dal Partito socialista al Congresso di Livorno e, nella sua maggioranza attuale, di elementi venuti a noi per la campagna di reclutamento fatto dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti; ripetere certe verità, distruggere certi pregiudizi che erano stati radicati nella coscienza di decine e decine di anni di tradizione socialdemocratica, può essere perciò compito necessario e urgentemente necessario. 

Nell'articolo La volontà delle masse è contenuta la quintessenza dell'opportunismo massimalista italiano e dell'opportunismo socialdemocratico in generale. Esiste una volontà delle masse lavoratrici prese nel loro complesso e può il Partito comunista porsi sul terreno di "ubbidire alla volontà delle masse in generale"? No. Esistono nel complesso delle masse lavoratrici parecchie e distinte volontà: esiste una volontà comunista, una volontà massimalista, una volontà riformista, una volontà democratica liberale. Esiste una volontà fascista, in un certo senso ed entro certi limiti. 

Fino a quando sussiste il regime borghese, col monopolio della stampa in mano al capitalismo e quindi con la possibilità per il governo e per i partiti borghesi di impostare le quistioni politiche a seconda dei loro interessi, presentati come interessi generali, fino a quando sarà soppressa e limitata la libertà di associazione e di riunione della classe operaia o potranno essere diffuse impunemente le menzogne più impudenti contro il comunismo, è inevitabile che le classi lavoratrici rimangano disgregate, cioè abbiano parecchie volontà. 

Il Partito comunista "rappresenta" gli interessi dell'intera massa lavoratrice, ma "attua" la volontà solo di una determinata parte delle masse, della parte più avanzata, di quella parte (proletariato) che vuole rovesciare il regime esistente con mezzi rivoluzionari per fondare il comunismo. Cosa significa la formula dell'"Avanti!": "bisogna seguire la volontà delle masse", in generale? Significa cercare di giustificare il proprio opportunismo, nascondendosi dietro la constatazione che esistono ancora strati arretrati di popolazione lavoratrice sotto l'influenza della borghesia, che "vogliono" la collaborazione con la borghesia. Ma questi strati esisteranno sempre fino a quando il regime borghese sarà il regime dominante; se il partito "proletario" ubbidisse a "questa volontà", in realtà ubbidirebbe alla volontà della borghesia, cioè sarebbe un partito borghese, non un partito proletario. 

Il partito proletario non può "accodarsi" alle masse, deve precedere le masse, pur tenendo conto oggettivamente dell'esistenza di questi strati arretrati. Il partito rappresenta non solo le masse lavoratrici, ma anche una dottrina del socialismo, e perciò lotta per unificare la volontà delle masse nel senso del socialismo, pur tenendosi sul terreno reale di ciò che esiste, ma che esiste muovendosi e sviluppandosi. 

Il nostro partito attua la volontà di quella parte più avanzata della massa che lotta per il socialismo e sa di non potere avere alleata la borghesia in questa lotta, che è appunto lotta contro la borghesia. Questa "volontà", in quanto coincide con lo sviluppo generale della società borghese e con le esigenze vitali di tutta la massa lavoratrice, è progressiva, si diffonde, conquista sempre nuovi strati di lavoratori, disgrega gli altri partiti operai, operai per la loro composizione sociale, non per il loro indirizzo politico. Naturalmente l' "Avanti!" nega ogni giorno che questo fatto avvenga, stampa ogni giorno che il Partito comunista è abbandonato dalle masse, ricorre nientemeno che alla testimonianza di Hoeglund per dire che il nostro partito è una cosa insignificante, ecc. Ma non meno naturale, l'"Avanti!" non riesce mai a spiegare come avvenga che, abbandonato dalle masse, il nostro partito sia il partito relativamente più forte della Confederazione generale del lavoro, non riesce a spiegare come a Torino, a Trieste, a Bari, a Taranto e in una serie di altre città noi siamo il partito più forte anche in modo assoluto, non riesce a spiegare come mai gli operai di Torino, che il nostro partito avrebbe condotto al macello ed alla catastrofe, colgano ogni occasione per affermarsi fedeli alle nostre direttive. 

La quistione se noi rappresentiamo la volontà delle masse più avanzate e se questa volontà attraverso la lotta si diffonda e diventi la volontà della maggioranza dei lavoratori, si decide e può decidersi solo praticamente; gli avvenimenti di questo ultimo periodo hanno dimostrato ch'essa si decide favorevolmente al nostro partito, nonostante gli esorcismi dell'"Avanti!" e di tutta la stampa dell'Aventino. Da cinque anni il Partito massimalista è fuori di ogni organizzazione internazionale; questo fatto non è rimasto e non poteva rimanere senza risultati. 

Il carattere internazionalistico è essenziale di un partito operaio; non può venire meno senza portare ineluttabilmente a una completa degenerazione ideologica e pratica nei dirigenti e nelle file del partito. Per l'"Avanti!" infatti è chiaro che il Comitato centrale di una partito deve rappresentare solo la massa del partito nazionale, deve anzi "ubbidire alla volontà" di questa massa. Per noi tutto ciò è mostruosamente falso. Il Comitato centrale del nostro partito, non solo rappresenta e guida la massa del partito italiano, ma rappresenta anche il programma e la tattica del partito quali sono venuti definendosi attraverso cinque congressi dell'Internazionale. Del resto: come e perché si è costituito il nostro partito? Esso si è staccato dal Partito socialista proprio nella quistione del riconoscimento dell'autorità dell'Internazionale: al Congresso di Livorno noi volevamo l'applicazione dei 21 punti, la lotta contro il riformismo, una politica agraria diversa da quella tradizionale, un nuovo indirizzo sindacale, nuovi metodi organizzativi, ecc. 

La massa ha aderito all'Internazionale e quindi ha costituito un partito in quanto ha accettato un programma ben determinato. Il partito si è sviluppato, in quanto era ed è una sezione dell'Internazionale. E' certo che un tale processo non si è verificato meccanicamente, secondo uno schema matematico per cui uno è sempre uguale a uno; si è trattato di un processo politico, al quale gli uomini hanno partecipato con tutte le loro passioni e sentimenti individuali, con tutte le virtù e i difetti che sono propri di questo basso mondo. Ma è certo che se molti elementi sono venuti all'Internazionale e al partito è anche perché avevano aderito al programma comune singole persone più o meno conosciute, come Bombacci, Misiano, Repossi, Bordiga, Gramsci, Gennari, Marabini, ecc. ; essi sono venuti essenzialmente per il programma comune e non per le differenziazioni di individui e di gruppi. 

Ed ecco il dovere del Comitato centrale di illuminare sempre più le masse del partito sulla portata reale del programma comune, sul suo valore, sul suo significato. Ed ecco perché nel nostro partito la discussione verte e deve vertere normalmente su quistioni concrete, non sui principi; sull'applicazione pratica dell'indirizzo generale, non sull'indirizzo stesso. Secondo i criteri dell'"Avanti!", ogni partito dovrebbe ogni giorno ripetere le discussioni fondamentali: siamo fascisti o no? Siamo riformisti, massimalisti, liberali, popolari, democratici o no? Il porre così la quistione da parte dell' "Avanti!" è caratteristico e sintomatico della situazione interna del Partito massimalista. Poiché questo partito non appartiene ad una organizzazione internazionale, e poiché la sua direzione non ha direttive, i soci del partito che si trovano a dover stare gomito a gomito con i diversi Di Cesarò, Amendola, Anile, Giolitti, Salandra, Orlando, hanno finito col perdere ogni coscienza della loro individualità politica e sono costretti ogni giorno a porsi questa domanda: siamo ancora massimalisti o siamo fascisti come Di Cesarò e Salandra, o siamo popolari come Anile e De Gasperi, o siamo democratici come Amendola? 

Nel nostro partito non si verifica niente di tutto ciò. La maggioranza del partito così com'era al momento dell'assassinio di Giacomo Matteotti, cioè la maggioranza della vecchia guardia si era organizzata politicamente al Congresso di Livorno intorno al programma dell'Internazionale, per le lotte contro tutti i partiti borghesi, compresi i partiti operai che fanno la politica della borghesia. L'altra massa di soci, numericamente superiore alla vecchia guardia, è entrata nel partito dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti sulla base del programma generale dell'Internazionale così come era applicato dal nostro Comitato centrale: lotta su due fronti, contro il fascismo e contro le opposizioni aventiniane (due fronti per modo di dire, perché si tratta dello stesso fronte borghese), per l'azione autonoma del proletariato rivoluzionario, per organizzare la lotta dei poveri contro i ricchi intorno al proletariato rivoluzionario che solo può schiacciare la reazione instaurando un nuovo Stato, instaurando la sua dittatura. 

Le discussioni che avvengono nell'interno del nostro partito non possono riguardare le basi fondamentali su cui l'organizzazione comunista è nata e si è sviluppata. Tuttavia può avvenire che si formi una corrente che pretende di fare un'opera di revisione anche in questo campo. Certo, può avvenire. Viviamo in un mondo dove si verificano i fatti più curiosi e strani. 

Specialmente quando la situazione diviene obiettivamente difficile, si verifica che singoli individui e anche interi gruppi perdano la testa e credano, anche in buona fede, di aver trovato lo specifico buono per l'occasione o credano di poter risolvere la quistione costituendo un tribunale che giudichi le colpe di alcuni individui, al fatidico grido di "dagli all'untore". Sono queste cose che possono capitare e che capitano. Ciò che non deve avere per conseguenza è che il Comitato centrale le lasci dilagare e non lotti invece energicamente per eliminarle.

Volontà delle masse e volontà dei capi opportunisti

"L'Unità", 26 giugno 1925

L'"Avanti!", l'organo della "libertà per tutti", trova strano che "L'Unità" affermi non esservi una "volontà delle masse" in generale ed esistere nel complesso delle masse lavoratrici parecchie distinte volontà. E si meraviglia perché abbiamo scritto che porsi sul terreno di "ubbidire alla volontà delle masse in generale" è la quintessenza dell'opportunismo. 

Poiché il Partito comunista vuole realizzare soltanto la volontà del proletariato rivoluzionario, volontà che coincide con gli interessi di tutte le classi oppresse e quindi della intiera popolazione lavoratrice, l'"Avanti!" scopre in questa "volontà" una mentalità molto affine a quella "fascista". E' evidente che gli scrittori massimalisti non sanno né cos'è fascismo né cos'è un Partito comunista. Essi che alla "verità rivelata da Mosca" preferiscono la "libertà critica", in sostanza preferiscono la "verità rivelata della borghesia", poiché è proprio dei liberali borghesi nascondere la loro dittatura sotto la maschera di essere i "servi del popolo", gli esecutori della "volontà delle masse popolari". 

Quando noi diciamo che tutti gli opportunisti amano nascondersi dietro alla "volontà delle masse" e che per i comunisti esiste soltanto la volontà del proletariato rivoluzionario, che coincide con gli interessi di tutti gli strati della popolazione lavoratrice, non affermiamo un "dogma", ma scopriamo l'opportunismo dei capi massimalisti, i quali sotto la parvenza di secondare la "volontà delle masse" sostituiscono a questa la loro volontà anti-rivoluzionaria, cioè la volontà della borghesia. 

Agli scrittori dell'"Avanti!", che tanto spesso amano porre la loro merce avariata sotto la bandiera del leninismo, vogliamo ricordare l'insegnamento di Lenin: "Si parla di spontaneità delle masse (l'"Avanti!" dice oggi volontà delle masse); ma lo sviluppo spontaneo del movimento operaio conduce - scrive Lenin - alla subordinazione di questo alla ideologia borghese, poiché il movimento operaio spontaneo è il trade-unionismo (lotta economica) e il trade-unionismo è l'asservimento ideologico degli operai alla borghesia. 

Ecco perché il compito di noi comunisti è di combattere la spontaneità, di deviare il movimento operaio da quest'aspirazione spontanea che ha il trade-unionismo di rifugiarsi sotto le ali della borghesia, e di attirarlo al contrario sotto l'ala del marxismo-rivoluzionario, cioè del comunismo". 

Lo stesso Kautsky, quando era ancora un marxista, negava una volontà socialista delle masse, scrivendo: "La coscienza socialista, la "volontà socialista" è un elemento importante dal di fuori nella lotta di classe del proletariato e non qualche cosa che sorge in esso spontaneamente. E Lenin illustra ancora meglio: "Si dice sovente che la classe operaia va spontaneamente al socialismo. Ciò è perfettamente giusto nel senso che, più profondamente e più esattamente che tutte le altre, la teoria socialista determina le cause dei mali del proletariato; ed è per questo che gli operai se l'assimilano tanto facilmente, se tuttavia essa non si piega davanti alla spontaneità" (volontà delle masse, come scrive l'"Avanti!"), quando avviene il contrario, quando cioè è la spontaneità, la volontà delle masse a sottomettersi il socialismo, è l'ideologia borghese che, non meno spontaneamente, si impone all'operaio. 

In altri termini la volontà delle masse corrisponde all'istintivo; sottomettersi all'istintivo è sottomettersi alla ideologia borghese, poiché nella società contemporanea la prima ideologia è sempre ideologia borghese. E' quello che ha sempre fatto il Partito socialista in Italia: sottomettersi alla "volontà istintiva" delle masse, senza essere mai capace di portare queste masse sotto l'ala del marxismo rivoluzionario. 

Il fallimento del Partito socialista in Italia come partito della rivoluzione proletaria è appunto in questa incomprensione della funzione dei partiti proletari. Il Partito socialista continua ancora oggi a "sottomettere il socialismo" all'ideologia borghese, asservendo le masse socialiste ai semifascisti dell'Aventino. 

Ecco in che consiste la diversa "volontà" dei comunisti dalla volontà massimalista: il Partito comunista lotta per strappare le masse all'ideologia borghese e portarle sul terreno della lotta rivoluzionaria; il Partito socialista, sotto la specie di sottomettersi alla volontà delle masse, sottomette le masse alla borghesia. 

Massimalismo ed estremismo

"L'Unità", 2 luglio 1925

Il compagno Bordiga si offende perché è stato scritto che nella sua concezione c'è molto massimalismo. Non è vero, e non può essere vero - scrive Bordiga -. Infatti il tratto più distintivo dell'estrema sinistra è l'avversione per il Partito massimalista, che ci fa schifo, ci fa vomitare, ecc. ecc. 

La quistione però è un'altra. Il massimalismo è una concezione fatalistica e meccanica della dottrina di Marx. C'è il Partito massimalista che da questa concezione falsificata trae argomento per il suo opportunismo, per giustificare il suo collaborazionismo larvato da frasi rivoluzionarie. Bandiera rossa trionferà perché è fatale e ineluttabile che il proletariato debba vincere; l'ha detto Marx, che è il nostro dolce e mite maestro! E' inutile che ci muoviamo; a che pro muoversi e lottare se la vittoria è fatale e ineluttabile? Così parla un massimalista del Partito massimalista. 

Ma c'è anche il massimalista che non è nel Partito massimalista, e che può essere invece nel Partito comunista. Egli è intransigente, e non opportunista. Ma anche egli crede che sia inutile muoversi e lottare giorno per giorno; egli attende solo il grande giorno. Le masse - egli dice - non possono non venire a noi, perché la situazione oggettiva le spinge verso la rivoluzione. Dunque attendiamole, senza tante storie di manovre tattiche e simili espedienti. Questo, per noi, è massimalismo, tale e quale come quello del Partito massimalista. 

Il compagno Lenin ci ha insegnato che per vincere il nostro nemico di classe, che è potente, che ha molti mezzi e riserve a sua disposizione, noi dobbiamo sfruttare ogni incrinatura nel suo fronte e dobbiamo utilizzare ogni alleato possibile, sia pure incerto, oscillante e provvisorio. Ci ha insegnato che nella guerra degli eserciti, non può raggiungersi il fine strategico, che è la distruzione del nemico e l'occupazione del suo territorio, senza aver prima raggiunto una serie di obiettivi tattici tendenti a disgregare il nemico prima di affrontarlo in campo. 

Tutto il periodo prerivoluzionario si presenta come un'attività prevalentemente tattica, rivolta ad acquistare nuovi alleati al proletariato, a disgregare l'apparato organizzativo di offesa e di difesa del nemico, a rilevare e ad esaurire le sue riserve. Non tener conto di questo insegnamento di Lenin, o tenerne conto solo teoricamente, ma senza metterlo in pratica, senza farlo diventare azione quotidiana, significa essere massimalisti, cioè pronunziare grandi frasi rivoluzionarie, ma essere incapaci a muovere un passo nella via della rivoluzione.

La situazione interna del nostro partito ed i compiti del prossimo Congresso
(Relazione al C.C. dell'11-12 maggio 1925)

"L'Unità", 3 luglio 1925

Nella sua ultima riunione, l'Esecutivo allargato dell'Internazionale comunista non aveva da risolvere quistioni di principio o di tattica sorta fra l'insieme del Partito italiano e l'Internazionale. Un tal fatto si verifica per la prima volta nella successione delle riunioni dell'Internazionale. Perciò i compagni più autorevoli dell'Esecutivo dell'Internazionale comunista avrebbero preferito che non si parlasse neppure di una commissione italiana: dato che non esisteva una crisi generale del partito italiano, non esisteva neppure una "quistione italiana". 

In realtà occorre subito dire che il nostro partito, pur avendo già prima del congresso, ma specialmente dopo, modificato i suoi atteggiamenti tattici per accostarsi alla linea leninista dell'Internazionale comunista, non ha tuttavia subito nessuna crisi nelle file dei suoi soci e di fronte alle masse: tutt'altro. Avendo saputo porre i suoi nuovi atteggiamenti tattici in relazione alla situazione generale del paese creatasi dopo le elezioni del 6 aprile e specialmente dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti, il partito è riuscito ad ingrandirsi come organizzazione e a estendere in modo notevolissimo la sua influenza tra le masse operaie e contadine. 

Il nostro partito è uno dei pochi, se non forse il solo partito dell'Internazionale, che può affermare un successo simile in una situazione così difficile come quella che si è venuta creando in tutti i paesi, specialmente europei, in rapporto alla relativa stabilizzazione del capitalismo ed al relativo rafforzarsi dei governi borghesi e della socialdemocrazia, che del sistema borghese è diventata una parte sempre più essenziale. Occorre dire, almeno tra parentesi, che è appunto per il costituirsi di una tale situazione ed in rapporto alle conseguenze che essa ha avuto non solo in mezzo alle grandi masse lavoratrici, ma anche nel seno dei partiti comunisti, che si deve affrontare il problema della bolscevizzazione.

La fase attuale dei partiti dell'Internazionale

Le crisi attraversate da tutti i partiti dell'Internazionale dal 1921 ad oggi, cioè dall'inizio del periodo caratterizzato da un rallentamento del ritmo rivoluzionario, hanno mostrato come la composizione generale dei partiti non fosse molto solida ideologicamente. I partiti stessi oscillavano con spostamenti spesso fortissimi dalla destra all'estrema sinistra con ripercussioni gravissime su tutta l'organizzazione e con crisi generali nei collegamenti tra i partiti e le masse. 

La fase attuale attraversata dai partiti dell'Internazionale è caratterizzata invece dal fatto che in ognuno di essi si è andato formando attraverso le esperienze politiche di questi ultimi anni, e si è consolidato, un nucleo fondamentale il quale determina una stabilizzazione leninista della composizione ideologica dei partiti e assicura che essi non saranno più attraversati da crisi e da oscillazioni troppo profonde e troppo larghe. 

Ponendo così il problema generale della bolscevizzazione sia nel dominio dell'organizzazione che in quello della formazione ideologica, l'Esecutivo allargato ha affermato che le nostre forze internazionali sono giunte al punto risolutivo della crisi. In questo senso, l'Esecutivo allargato è un punto di arrivo, e la constatazione dei grandissimi progressi compiuti nel consolidamento delle basi organizzative e ideologiche dei partiti è un punto di partenza, in quanto tali progressi devono essere coordinati, sistematizzati, devono cioè diventare coscienza diffusa operante di tutta la massa. Per alcuni aspetti, i partiti rivoluzionari dell'Europa occidentale si trovano solo oggi nelle condizioni in cui i bolscevichi russi si erano trovati già fin dalla formazione del loro partito. 

In Russia, non esistevano prima della guerra le grandi organizzazioni dei lavoratori che invece hanno caratterizzato tutto il periodo europeo della II Internazionale prima della guerra. In Russia, il partito, non solo come affermazione teorica generale, ma anche come necessità pratica di organizzazione e di lotta, riassumeva in sé tutti gli interessi vitali della classe operaia; la cellula di fabbrica e di strada guidava la massa sia nella lotta per le rivendicazioni sindacali come nella lotta politica per il rovesciamento dello zarismo. 

Nell'Europa occidentale invece si venne sempre più costituendo una divisione del lavoro tra organizzazione sindacale e organizzazione politica della classe operaia. Nel campo sindacale andò sviluppandosi con ritmo sempre più accelerato la tendenza riformista e pacifista; cioè andò sempre più intensificandosi l'influenza della borghesia sul proletariato. 

Per la stessa ragione nei partiti politici l'attività si spostò sempre più verso il campo parlamentare, verso cioè forme che non si distinguevano per nulla da quelle della democrazia borghese. Nel periodo della guerra e in quello del dopoguerra immediatamente precedente alla costituzione dell'Internazionale comunista ed alle scissioni nel campo socialista, che portarono alla formazione dei nostri partiti, la tendenza sindacalista-riformista andò consolidandosi come organizzazione dirigente nei sindacati. Si è venuta così a determinare una situazione generale che appunto pone anche i partiti comunisti dell'Europa occidentale nelle condizioni in cui si trovava il Partito bolscevico in Russia prima della guerra. 

Osserviamo ciò che avviene in Italia. Attraverso l'azione repressiva del fascismo, i sindacati erano venuti a perdere, nel nostro paese, ogni efficienza sia numerica che combattiva. Approfittando di questa situazione, i riformisti si impadronirono completamente del loro meccanismo centrale, escogitando tutte le misure e le disposizioni che possono impedire a una minoranza di formarsi, di organizzarsi, di svilupparsi e diventare maggioranza fino a conquistare il centro dirigente. Ma la grande massa vuole, ed a ragione, l'unità e riflette questo sentimento unitario nell'organizzazione sindacale tradizionale italiana: la Confederazione Generale del Lavoro. La massa vuole lottare e organizzarsi, ma vuole lottare con la Confederazione generale del lavoro e vuole organizzarsi nella Confederazione generale del lavoro. 

I riformisti si oppongono all'organizzazione delle masse. Ricordate il discorso di D'Aragona nel recente congresso federale in cui affermò che non più di un milione di organizzati deve costituire la Confederazione. Se si tiene conto che la Confederazione stessa sostiene di essere l'organismo unitario di tutti i lavoratori italiani, cioè non solo degli operai industriali ed agricoli ma anche dei contadini, e che in Italia ci sono almeno quindici milioni di lavoratori organizzati, appare che la Confederazione vuole, per programma, organizzare un quindicesimo, cioè il 7,50 per cento, dei lavoratori italiani, mentre noi vorremmo che nei sindacati e nelle organizzazioni contadine fossero organizzati il cento per cento dei lavoratori. Ma se la Confederazione vuole per ragioni di politica interna confederale, cioè per mantenere la dirigenza confederale nelle mani dei riformisti, che solo il 7,50 per cento dei lavoratori italiani siano organizzati, essa vuole anche - per ragioni di politica generale, cioè perché il partito riformista possa collaborare efficacemente in un governo democratico borghese - che la Confederazione, nel suo complesso, abbia un'influenza sulla massa disorganizzata degli operai industriali ed agricoli e vuole, impedendo l'organizzazione dei contadini, che i partiti democratici con i quali intende collaborare mantengano la loro base sociale. 

Essa allora manovra nel campo specialmente delle commissioni interne che sono elette da tutta la massa degli organizzati e dei disorganizzati. Essa, cioè, vorrebbe impedire che gli operai organizzati, all'infuori di quelli della tendenza riformista, presentassero liste di candidati per le commissioni interne, vorrebbe che i comunisti, anche dove sono in maggioranza nell'organizzazione sindacale locale e tra gli organizzati delle singole officine votassero per disciplina le liste della minoranza riformista. 

Se questo programma organizzativo fosse da noi accettato, si arriverebbe di fatto all'assorbimento del nostro partito da parte del partito riformista, e nostra sola attività rimarrebbe l'attività parlamentare.

Il compito delle "cellule"

D'altronde come possiamo noi lottare contro l'applicazione e l'organizzazione di un tale programma senza determinare una scissione che noi assolutamente non vogliamo determinare? Per ottenere ciò non c'è altra via d'uscita che l'organizzazione delle cellule e il loro sviluppo nello stesso senso in cui esse si svilupparono in Russia prima della guerra. 

Come frazione sindacale, i riformisti ci impediscono, mettendoci alla gola la pistola della disciplina, di centralizzare le masse rivoluzionarie sia per la lotta sindacale che per la lotta politica. E' evidente allora che le nostre cellule devono lottare direttamente nelle fabbriche per centralizzare attorno al partito le masse, spingendole a rafforzare le commissioni interne dove esse esistono, a creare comitati di agitazione nelle fabbriche dove non esistono commissioni interne o dove esse non assolvono ai loro compiti, spingendole a volere la centralizzazione delle istituzioni di fabbrica come organismi di massa non solamente sindacali, ma di lotta generale contro il capitalismo e il suo regime politico. 

E' certo che la situazione in cui noi ci troviamo è molto più difficile di quella in cui si trovavano i bolscevichi russi, perché noi dobbiamo lottare non solo contro la reazione dello Stato fascista, ma anche contro la reazione dei riformisti nei sindacati. Appunto perché è più difficile la situazione, più forti devono essere le nostre cellule sia organizzativamente che ideologicamente. In ogni caso, la bolscevizzazione per ciò che ha riflesso nel campo organizzativo è una necessità imprescindibile. Nessuno oserà dire che i criteri leninisti di organizzazione del partito siano propri della situazione russa e che sia un fatto puramente meccanico la loro applicazione all'Europa occidentale. 

Opporsi all'organizzazione del partito per cellula significa ancora essere legati alle vecchie concezioni socialdemocratiche, significa trovarsi realmente in un terreno di destra, cioè in un terreno nel quale non si vuole lottare contro la socialdemocrazia.

I cinque punti di Lenin per un buon partito bolscevico

La commissione che avrebbe dovuto discutere specialmente col compagno Bordiga, ha in sua assenza fissato la linea che il partito deve seguire per risolvere la quistione delle tendenze e delle possibili frazioni che da esse possono nascere, cioè per far trionfare nel nostro partito la concezione bolscevica. Se esaminiamo la situazione generale del nostro partito, alla stregua delle cinque qualità fondamentali che il compagno Lenin poneva come condizioni necessarie per la efficienza del partito rivoluzionario del proletariato nel periodo della preparazione rivoluzionaria e cioè:

1) ogni comunista deve essere marxista;

2) ogni comunista deve essere in prima linea nelle lotte proletarie;

3) ogni comunista deve aborrire dalle pose rivoluzionarie e dalle frasi superficialmente scarlatte, cioè deve essere non solo un rivoluzionario, ma anche un politico realista;

4) ogni comunista deve sentire sempre di essere subordinato alla volontà del suo partito e deve giudicare tutto dal punto di vista del suo partito, cioè deve essere settario nel senso migliore che questa parola può avere;

5) ogni comunista deve essere internazionalista.

Se esaminiamo la situazione generale del nostro partito alla stregua di questi cinque punti osserviamo che, se si può affermare per il nostro partito che la seconda qualità forma uno dei suoi tratti caratteristici, non altrettanto si può affermare per le altre quattro. Manca nel nostro partito una profonda conoscenza della dottrina del marxismo e quindi anche del leninismo. Sappiamo che ciò è legato alle tradizioni del movimento socialista italiano, nel seno del quale mancò ogni discussione teorica che interessasse le masse e contribuisse alla loro formazione ideologica. 

E' anche vero però che il nostro partito non contribuì affatto a distruggere questo stato di cose, e che anzi il compagno Bordiga, confondendo la tendenza riformista a sostituire una generica attività culturale all'azione politica rivoluzionaria delle masse con l'attività interna di partito diretta ad elevare il livello di tutti i suoi membri fino alla completa consapevolezza dei fini immediati e lontani del movimento rivoluzionario, contribuì a mantenerlo.

Il fenomeno dell'estremismo

Il nostro partito ha abbastanza sviluppato il senso della disciplina, e cioè ogni socio riconosce la sua subordinazione al complesso del partito, ma non altrettanto si può dire per ciò che riguarda i rapporti con l'Internazionale comunista, cioè per ciò che riguarda la coscienza di appartenere al partito mondiale. In questo senso solamente bisogna dire che lo spirito internazionalista non è molto praticato, non certo nel senso generale della solidarietà internazionale. Era questa una situazione esistente nel Partito socialista e che si rifletté a nostro danno al Congresso di Livorno. 

Continuò a sussistere in parte sotto altre forme per la tendenza suscitata dal compagno Bordiga a ritener speciale titolo di nobiltà di dirsi seguaci di una cosiddetta "sinistra italiana". In questo campo il compagno Bordiga ha ricreato una situazione simile a quella creata dal compagno Serrati dopo il II Congresso e che portò all'esclusione dei massimalisti dall'Internazionale comunista. Egli cioè crea una specie di patriottismo di partito che rifugge dall'inquadrarsi in una organizzazione mondiale. Ma la debolezza massima del nostro partito è quella caratterizzata dal compagno Lenin nel punto terzo: l'amore per le pose rivoluzionarie e per le superficiali frasi scarlatte è il tratto più rilevante non del Bordiga stesso, ma degli elementi che dicono di seguirlo. 

Naturalmente, il fenomeno dell'estremismo bordighiano non è campato in aria. Esso ha una duplice giustificazione. Da una parte è legato alla situazione generale della lotta di classe nel nostro paese, e cioè al fatto che la classe operaia è la minoranza della popolazione lavoratrice e che essa è agglomerata prevalentemente in una sola zona del paese. In una tale situazione, il partito della classe operaia può essere corrotto da infiltrazioni delle classi piccolo-borghesi che, pur avendo interessi contrari come massa agli interessi del capitalismo, non vogliono però condurre la lotta fino alle sue estreme conseguenze. 

Dall'altro ha contribuito a consolidare l'ideologia di Bordiga la situazione in cui venne a trovarsi il Partito socialista fino a Livorno e che Lenin caratterizzò così nel suo libro "L'estremismo come malattia infantile del comunismo": "In un partito dove c'è un Turati e c'è un Serrati che non lotta contro Turati è naturale che ci sia un Bordiga". Non è però naturale che il compagno Bordiga si sia cristallizzato nella sua ideologia anche quando Turati non era più nel partito, non vi era lo stesso Serrati, e Bordiga in persona conduceva la lotta contro l'uno o contro l'altro. 

Evidentemente, l'elemento della situazione nazionale era preponderante nella formazione politica del compagno Bordiga e aveva cristallizzato in lui uno stato permanente di pessimismo sulla possibilità che il proletariato e il suo partito potessero rimaner immuni da infiltrazioni di ideologie piccolo-borghesi senza l'applicazione di una tattica politica estremamente settaria che rendeva impossibile l'applicazione e la realizzazione dei due principi politici che caratterizzarono il bolscevismo: l'alleanza tra operai e contadini e l'egemonia del proletariato nel movimento rivoluzionario anticapitalista. 

La linea da adottare per combattere queste debolezze del nostro partito è quella della lotta per la bolscevizzazione. La campagna da farsi deve essere prevalentemente ideologica. Essa però deve diventare politica per ciò che riguarda l'estrema sinistra, cioè la tendenza rappresentata dal compagno Bordiga, che dal frazionismo latente passerà necessariamente all'aperto frazionismo e nel congresso cercherà di mutare l'indirizzo politico dell'Internazionale.

La quistione delle tendenze

Esistono nel nostro partito altre tendenze? Qual è il loro carattere e quale pericolo possono rappresentare? Se esaminiamo da questo punto di vista la situazione interna del nostro partito, dobbiamo riconoscere che esso non solo non ha raggiunto il grado di maturità politica rivoluzionario che riassumiamo nella parola "bolscevizzazione", ma che non ha raggiunto neanche la completa unificazione delle varie parti che influirono alla sua composizione. 

A ciò ha contribuito l'assenza di ogni largo dibattito che purtroppo ha caratterizzato il partito fin dalla sua fondazione. Se teniamo conto degli elementi che al Congresso di Livorno si schierarono per l'Internazionale comunista possiamo constatare che delle tre correnti che costituirono il Partito comunista: 

1) gli astensionisti della frazione Bordiga; 

2) gli elementi raggruppatisi intorno all'"Ordine Nuovo" e all'"Avanti!" di Torino ; 

3) gli elementi di massa che seguivano il gruppo che chiameremo Gennari-Marabini, cioè i seguaci delle figure più caratteristiche dello strato dirigente del Partito socialista venute con noi, solamente due, cioè quella astensionista e quella "Ordine Nuovo" "Avanti!" torinese, avevano prima del Congresso di Livorno svolto un certo lavoro politico autonomo, avevano nel loro seno dibattuto i problemi essenziali dell'Internazionale comunista ed avevano quindi acquistato una certa capacità ed esperienza politica comunista. 

Ma queste correnti, se riuscirono ad avere il sopravvento nella direzione del nuovo Partito comunista, non ne costituivano la maggioranza di base. Inoltre, di queste due correnti una sola, astensionista, fin dal 1919, cioè da due anni avanti Livorno, aveva un'organizzazione nazionale, aveva formato fra i suoi aderenti una certa esperienza organizzativa di partito, ma nel periodo preparatorio si era esclusivamente occupata di quistioni interne di partito, della specifica lotta delle frazioni, senza avere nel suo complesso attraversato esperienze politiche di massa altro che nella quistione puramente parlamentare. 

La corrente costituitasi intorno all'"Ordine Nuovo" e all'"Avanti!" piemontese non aveva suscitato né una frazione nazionale e neppure una vera e propria frazione nei limiti della regione piemontese in cui era sorta e si era sviluppata. La sua attività fu prevalentemente di massa; i problemi interni di partito furono da essa sistematicamente collegati con i bisogni e le aspirazioni della lotta generale di classe, generale della popolazione lavoratrice piemontese e specialmente del proletariato di Torino: ciò, se diede ai suoi componenti una migliore preparazione politica e una capacità maggiore nei suoi singoli membri anche di massa, a guidare dei movimenti reali, la pose in condizioni di inferiorità nell'organizzazione generale del partito. 

Se si eccettua il Piemonte, la grande maggioranza del nostro partito venne a costituirsi degli elementi rimasti a Livorno con l'Internazionale comunista, perché con l'Internazionale comunista erano rimasti tutta una serie di compagni del vecchio strato dirigente del Partito socialista, come Gennari, Marabini, Bombacci, Misiano, Salvadori, Graziadei, ecc.: su questa massa che per le concezioni non si differenziava in nulla dai massimalisti, s'innestarono i gruppi astensionisti locali dandole la forma dell'organizzazione del nuovo Partito comunista. 

Se non si tenesse conto di questa reale formazione nel nostro partito non si comprenderebbe né la crisi che esso ha attraversato e neanche la situazione attuale. Per le necessità di lotta senza quartiere che s'imposero al nostro partito fin dalla sua origine, la quale coincise con lo sferrarsi più furioso della reazione fascista e per cui si può dire che ogni nostra organizzazione fu battezzata dal sangue dei nostri migliori compagni, le esperienze dell'Internazionale comunista, cioè non solo del partito russo ma anche degli altri partiti fratelli, non giunsero fino a noi e non furono assimilate dalla massa del partito altro che saltuariamente e episodicamente. In realtà il nostro partito si trovò ad essere staccato dal complesso internazionale, si trovò a sviluppare la sua ideologia arruffata e caotica sulla sola base delle nostre immediate esperienze nazionali, si creò cioè in Italia una nuova forma di massimalismo. 

Questa situazione generale è stata aggravata l'anno scorso dall'ingresso nelle nostre file della frazione terzinternazionalista. Le debolezze che ci erano caratteristiche, esistevano in una forma ancora più grave e pericolosa in questa frazione, la quale da due anni e mezzo viveva in forma autonoma nel seno del partito massimalista, creando così vincoli interni fra i suoi aderenti che dovevano prolungarsi anche dopo la fusione. Inoltre anche la frazione terzinternazionalista, per due anni e mezzo, fu assorbita completamente dalla lotta interna con la direzione del Partito massimalista, lotta che fu prevalentemente di carattere personale e settario e solo episodicamente trattò le quistioni fondamentali sia politiche che organizzative.

La bolscevizzazione

E' evidente dunque che la bolscevizzazione del partito nel campo ideologico non può solo tenere conto della situazione che riassumiamo nell'esistenza di una corrente di estrema sinistra e nell'atteggiamento personale del compagno Bordiga. Essa deve investire la situazione generale del partito, cioè deve porsi il problema di elevare il livello teorico e politico di tutti i nostri compagni. E' certo per esempio che esiste anche una quistione Graziadei, cioè che noi dobbiamo basarci sulle sue recenti pubblicazioni per migliorare l'educazione marxista dei nostri compagni combattendo le deviazioni cosiddette scientifiche in esse sostenute. 

Nessuno però può pensare che il compagno Graziadei rappresenti un pericolo politico, cioè che sulla base delle sue concezioni revisionistiche del marxismo possa nascere una vasta corrente e quindi una frazione che metta in pericolo l'unità organizzativa del partito. D'altronde non bisogna neppure dimenticare che il revisionismo di Graziadei porta ad un appoggio alle correnti di destra che, sia pure allo stato latente, esistono nel nostro partito. L'entrata in esso della frazione terzinternazionalista, cioè di un elemento politico che non ha perduto molto dei suoi caratteri massimalisti e che, come si è già detto, meccanicamente tende a prolungare oltre la sua esistenza di frazione nel seno del Partito massimalista i vincoli creatisi nel periodo precedente, può indubbiamente dare a questa potenziale corrente di destra una certa base organizzativa, ponendo dei problemi che non devono assolutamente essere trascurati. 

Tuttavia non è possibile che nascano forti divergenze su questa serie di apprezzamenti; le quistioni alle quali abbiamo accennato e che nascono dalla composizione originaria del nostro partito pongono prevalentemente dei problemi ideologici fortemente legati a due necessità: 

1) che la vecchia guardia del partito assorba la massa dei nuovi iscritti venuti al partito dopo il fatto Matteotti e che hanno triplicato gli effettivi del partito; 

2) alla necessità di creare dei quadri organizzativi di partito che siano in grado non solo di risolvere i problemi quotidiani della vita di partito, sia come organizzazione propria sia nei suoi collegamenti coi sindacati e con le altre organizzazioni di massa, ma che siano in grado di risolvere i più complessi problemi legati alla preparazione della conquista del potere ed all'esercizio del potere conquistato.


Il pericolo di destra

Si può dire che potenzialmente esiste nel nostro partito un pericolo di destra. Esso è legato alla situazione generale del paese. le opposizioni costituzionali, quantunque storicamente siano scadute dalla loro funzione fin da quando hanno rigettato la nostra proposta di creare l'antiparlamento, continuano tuttavia a sussistere politicamente accanto ad un fascismo consolidato. 

Poiché le perdite subite dall'opposizione, se hanno rafforzato il nostro partito, non l'hanno però rafforzato nella stessa misura in cui si è consolidato il fascismo che ha nelle mani tutto l'apparato statale, è evidente che nel nostro partito, di fronte ad una tendenza di estrema sinistra, che crede giunto ad ogni istante il momento di passare all'attacco frontale del regime che non può disgregarsi per le manovre dell'opposizione, potrà nascere se già non esiste una tendenza di destra, i cui elementi, demoralizzati dall'apparente strapotere del partito dominante, disperando che il proletariato possa rapidamente rovesciare il regime nel suo complesso, incominceranno a pensare che sia per essere migliore tattica quella che porti, se non addirittura a un blocco borghese-proletario per la eliminazione costituzionale del fascismo, per lo meno ad una tattica di passività reale, di non-intervento attivo del nostro partito, la quale permetta alla borghesia di servirsi del proletariato come di una massa di manovra elettorale contro il fascismo. 

Di tutte queste possibilità e probabilità il partito deve tener conto affinché la sua giusta linea rivoluzionaria non subisca deviazioni. Il partito, se deve considerare il pericolo di destra come una possibilità da combattersi con la propaganda ideologica e con mezzi disciplinari ordinari ogni volta che ciò si dimostra necessario, deve invece considerare il pericolo di estrema sinistra come una realtà immediata, come un ostacolo allo sviluppo non solo ideologico ma politico del partito, come un pericolo che deve essere combattuto non solo con la propaganda ma anche con l'azione politica, perché immediatamente porta alla disgregazione dell'unità anche formale della nostra organizzazione, perché tende a creare un partito nel partito, una disciplina contro la disciplina del partito. 

Vuol dire questo che noi si voglia giungere ad una rottura con il compagno Bordiga e con quelli che si dicono suoi amici? Vuol dire che noi vogliamo modificare la base fondamentale del partito quale si era costituita al Congresso di Livorno ed era stata conservata al Congresso di Roma? Certamente e assolutamente no. Ma la base fondamentale del partito non era un fatto puramente meccanico: essa si era costituita sull'accettazione incondizionata dei principi e della disciplina dell'Internazionale comunista. 

Ma non siamo noi che abbiamo posto in discussione questi principi e questa disciplina; non sarebbe quindi da ricercare in noi la volontà di modificare la base fondamentale del partito; occorre inoltre dire che il 90 per cento se non più dei suoi membri, il partito ignora le quistioni che sono sorte tra la nostra organizzazione e l'Internazionale comunista. Se, specialmente dopo il Congresso di Roma, il partito nel suo complesso fosse stato messo in grado di conoscere la situazione dei nostri rapporti internazionali, esso probabilmente non sarebbe ora nelle condizioni di confusione in cui si trova. 

In ogni caso, teniamo ad affermare con molta energia, perché sia sventato il triste gioco di alcuni elementi irresponsabili che pare trovino la loro felicità nell'inasprire le piaghe della nostra organizzazione, che noi riteniamo possibile venire ad un accordo col compagno Bordiga e pensiamo che tale sia anche la opinione del compagno Bordiga stesso.

L'impostazione della discussione

E' secondo questo indirizzo generale che noi riteniamo debba essere impostata la discussione per il nostro congresso. Nel periodo che abbiamo attraversato dalle ultime elezioni parlamentari, il partito ha condotto un'azione politica reale che è stata condivisa dalla grande maggioranza dei nostri compagni. Sulla base di questa azione, il partito ha triplicato il numero dei suoi soci, ha sviluppato in modo notevole la sua influenza nel proletariato, tanto che si può dire essere il nostro partito il più forte tra i partiti che hanno una base nella Confederazione generale del lavoro. 

Si è riusciti in questo periodo a porre concretamente il problema fondamentale della nostra rivoluzione: quello dell'alleanza tra operai e contadini. Il nostro partito, in una parola, è diventato un fattore essenziale della situazione italiana. Su questo terreno dell'azione politica reale si è creata una certa omogeneità tra i nostri compagni. Questo elemento deve continuare a svilupparsi nella discussione del congresso e deve essere una delle determinanti essenziali della bolscevizzazione. 

Ciò significa che il congresso non deve essere concepito solo come un momento della nostra politica generale, del processo attraverso il quale noi ci leghiamo alle masse e suscitiamo nuove forze per la rivoluzione. Il nucleo principale dell'attività del congresso deve essere perciò visto nelle discussioni che si faranno per stabilire quale fase della vita italiana e internazionale noi attraversiamo, cioè quali sono i rapporti attuali delle forze sociali italiane, quali sono le forze motrici della situazione, quale fase della lotta delle classi è l'attuale. Da questo esame nascono due problemi fondamentali:

1) come noi possiamo sviluppare il nostro partito in modo che esso diventi una unità capace di condurre il proletariato alla lotta, capace di vincere e di vincere permanentemente. E' questo il problema della bolscevizzazione;

2) quale azione reale politica il nostro partito debba continuare a svolgere per determinare la coalizione di tutte le forze anticapitalistiche guidate dal proletariato (rivoluzionario) nella situazione data per rovesciare il regime capitalistico in un primo tempo e per costituire la base dello Stato operaio rivoluzionario in un secondo tempo. 

Cioè, noi dobbiamo esaminare quali sono i problemi essenziali della vita italiana e quale loro soluzione favorisce e determina l'alleanza rivoluzionaria del proletariato coi contadini e realizza l'egemonia del proletariato. Il congresso quindi dovrà almeno preparare lo schema generale del nostro programma di governo. E' questa una fase essenziale della nostra vita di partito. Perfezionare lo strumento necessario per la rivoluzione proletaria in Italia: ecco il compito maggiore del nostro congresso; ecco il lavoro al quale invitiamo tutti i compagni di buona volontà che antepongono gli interessi unitari della loro classe alle meschini e sterili lotte di frazioni.

Il Partito si rafforza combattendo le deviazioni antileniniste

"L'Unità", 5 luglio 1925

Vogliamo esaminare pacatamente e serenamente questi "punti di sinistra" che pretendono di dare al nostro partito e alla Internazionale soluzioni italiane "originali" ai problemi di tattica e di organizzazione, degne di poter sostituire il leninismo.

La situazione italiana

Non c'è nei punti un paragrafo dedicato esplicitamente alla situazione italiana; tuttavia un apprezzamento sulla situazione può ricavarsi dal paragrafo dedicato alla quistione delle cellule, e non si può negare che sia un apprezzamento discretamente originale. Si dice: in Italia non c'è la situazione che c'era in Russia negli anni dal 1905 al 1917, cioè in Italia non c'è una situazione rivoluzionaria. In Russia c'era il terrore zarista; in Italia evidentemente non c'è nessuna specie di terrore. In Russia non c'erano grandi organizzazioni di massa (sindacati, ecc.), mentre in Italia, evidentemente, c'è la più grande libertà di organizzazione, le masse possono riunirsi, discutere come vogliono le loro quistioni, preparare le agitazioni. In Russia non erano possibili le... pacifiche conquiste; in Italia, invece, ogni giorno le masse passano di conquista in conquista. 

Compagni operai di Milano, di Torino, di Trieste, di Bari, di Bologna, non vi pare questo un apprezzamento "originale" della situazione italiana? Tanto originale che voi non ci avevate mai pensato; ora vi è caduto un velo dagli occhi e potete giudicare tra il Comitato centrale del partito e il Comitato d'intesa che afferma la possibilità di conquiste pacifiche. Che l'estremismo si costituisca in frazione per le conquiste pacifiche: ecco una originalità veramente inaspettata!

Il partito

Secondo la dottrina del leninismo, il Partito comunista è l'avanguardia del proletariato, è, cioè, la parte più avanzata di una classe determinata e solo di questa. Naturalmente nel partito possono entrare anche altri elementi sociali (intellettuali e contadini), ma deve rimanere ben fermo che il Partito comunista è organicamente una parte del proletariato. 

Secondo il Comitato d'intesa, il partito non è una parte di una classe, ma è una "sintesi" di proletari, di contadini, di disertori della classe borghese e anche di altri (c'è un ecc. molto misterioso nei "punti"). Per il Comitato d'intesa il partito è dunque un'organizzazione interclassista, una sintesi di interessi che non possono invece sintetizzarsi in nessun modo; naturalmente questo pasticcio "originale" viene gabellato per marxismo. 

Secondo il marxismo il movimento proletario, che viene creato oggettivamente dallo sviluppo del capitalismo, diventa rivoluzionario, cioè si pone il problema della conquista del potere politico solo quando la classe operaia è divenuta consapevole di essere la sola classe capace di risolvere i problemi che il capitalismo pone nel suo sviluppo, ma non riesce e non può riuscire a risolvere. 

Come la classe operaia acquisti questa consapevolezza? Il marxismo afferma e dimostra contro il sindacalismo che ciò non avviene spontaneamente, ma solo perché i rappresentanti della scienza e della tecnica, essendo in grado di far ciò per la loro posizione specifica di classe (gli intellettuali sono una classe che serve la borghesia, e non sono tutta una cosa con la classe borghese), sulla base della scienza borghese costruiscono la scienza proletaria, dallo studio della tecnica quale si è sviluppata in regime capitalistico arrivano alla conclusione che un ulteriore sviluppo è impossibile se il proletariato non prende il potere, non si costituisce in classe dominante, imprimendo a tutta la società i suoi specifici caratteri di classe. 

Gli intellettuali sono necessari, adunque, per la costruzione del socialismo; sono stati necessari, come rappresentanti della scienza e della tecnica, per dare al proletariato la coscienza della sua missione storica. Ma ciò è stato un fenomeno individuale, non di classe: come classe, solo il proletariato diventa rivoluzionario e socialista prima della conquista del potere e lotta contro il capitalismo. 

Inoltre: una volta la teoria socialista nata e sviluppatasi scientificamente, anche gli operai se l'assimilano e ne traggono nuove conseguenze. Il Partito comunista è appunto quella parte del proletariato che si è assimilato la teoria socialista e continua a diffonderla. Il compito che agli inizi del movimento fu svolto da singoli intellettuali (come Marx ed Engels) ma anche da operai che avevano una capacità scientifica (come l'operaio tedesco Dietzgen), oggi è svolto dai partiti comunisti e dall'Internazionale nel loro complesso. Per il Comitato d'intesa noi dovremmo concepire il partito così come poteva essere concepito agli inizi del movimento: una "sintesi" di elementi individuali e non un movimento di massa. 

Perché ciò? In questa concezione c'è una tinta di forte pessimismo verso la capacità degli operai come tali. Solo gli intellettuali possono essere "veramente" rivoluzionari comunisti, solo gli intellettuali possono essere "uomini politici". Gli operai sono operai e non possono che rimanere tali fino a quando il capitalismo li opprime: sotto l'oppressione capitalistica l'operaio non può svilupparsi completamente, non può uscire dallo spirito angusto di categoria. 

Che cos'è allora il partito? E' solo il ristretto gruppo dei suoi dirigenti (in questo caso è solo il Comitato d'intesa) che "riflettono" e "sintetizzano" gli interessi e le aspirazioni generiche della massa, anche del partito. La dottrina leninista afferma e dimostra che questa concezione è falsa ed è estremamente pericolosa; essa ha, tra l'altro, portato al fenomeno del "mandarinismo" sindacale, cioè alla controrivoluzione. 

Secondo la dottrina leninista, se è vero che la classe operaia nel suo complesso non può divenire compiutamente comunista che dopo la conquista del potere, è vero però che una sua avanguardia può invece, anche prima della rivoluzione, divenire tale. Gli operai entrano nel partito comunista non solamente come operai (metallurgici, falegnami, edili, ecc.), ma entrano come operai comunisti, come uomini politici cioè, come teorici del socialismo, quindi, e non solo come ribelli in generale; e col partito, attraverso le discussioni, attraverso le letture e le scuole di partito, si sviluppano continuamente, diventano dirigenti. Solo nel sindacato l'operaio entra solo nella sua qualità di operaio e non di uomo politico che segue una determinata teoria.

Le cellule

Quanto siano importanti queste quistioni e come esse possono avere gravi ripercussioni se malamente risolte (il Comitato d'intesa direbbe "originalmente" risolte), si vede nella quistione delle cellule, che il partito vuole siano alla sua base, in luogo delle vecchie sezioni o delle vecchie assemblee territoriali. 

Il Comitato d'intesa è contro le cellule. Perché? E' chiaro: le cellule di officina sono costituite e devono tendere ad essere costituite solo di operai. Ma l'operaio non può essere rivoluzionario; invece è rivoluzionario nell'assemblea territoriale, evidentemente perché in questa ci sono anche gli avvocati, i professori, ecc. Tutto il paragrafo sui sistemi organizzativi del partito del programma intesista è un cumulo di errori e di affermazioni abbastanza ridicole. 

Quando mai, per esempio, il Labour Party è stato organizzato sulle cellule? Quando mai i sindacati sono stati organizzati sulle cellule? E perché i sindacati devono essere controrivoluzionari? I sindacati di per sé non sono rivoluzionari, ma non sono neanche controrivoluzionari: i dirigenti possono essere rivoluzionari o controrivoluzionari. Il Labour Party non è organizzato per cellule. E' una federazione di sindacati e di partiti politici. 

Se fosse così come dice il Comitato d'intesa, perché dunque il Partito bolscevico russo conservò e ampliò la sua organizzazione per cellule anche dopo la caduta dello zarismo e perché è organizzato per cellule anche oggi, quando la classe operaia è al potere e i sindacati (che sarebbero controrivoluzionari, secondo il Comitato d'intesa) hanno tutta la libertà di organizzazione e di riunione? 

E perché il sistema delle cellule dovrebbe essere federalista, mentre non sarebbe federalista il sistema delle sezioni territoriali? E' ben noto cosa significa federalismo: significa, per esempio, parità di poteri alle organizzazioni di base, qualunque sia il numero degli organizzati di ciascuna: nel movimento sindacale francese si vota per sindacato, non per tesserati, sicché una lega di parrucchieri di una piccola città conta quanto il sindacato dei metallurgici di Saint-Etienne (questo sistema era in vigore nell'Unione sindacale italiana). Federalismo significa che nei congressi si va con un mandato imperativo; è federalista il Comitato delle opposizioni, nel quale il piccolo Partito sardo d'azione ha gli stessi poteri del "grandissimo" Partito massimalista. 

Tutto questo paragrafo sulle cellule è un mucchio di corbellerie senza senso comune e senza fondamenti di prospettiva storica. Nella realtà, la concezione che del Partito comunista ha il Comitato d'intesa è una concezione arretrata, propria del periodo iniziale del capitalismo, mentre la concezione leninista, quale si riflette nel sistema organizzativo delle cellule è la concezione propria della fase imperialista, cioè della fase in cui si organizza la rivoluzione. 

Fino alla Comune di Parigi poteva dirsi che "il partito è l'organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppi provocate dalla lotta di classe", cioè il partito si limita a registrare i progressi della classe operaia e a fare opera di propaganda ideologica; ma oggi non siamo nel 1848, esiste oggi un profondo e largo movimento rivoluzionario di massa, e il partito guida la massa, dirige la lotta di classe e non si limita a fare il notaio. Tuttavia è abbastanza "originale" che si gabelli per sinistrismo una concezione arretrata e reazionaria.

Contro il leninismo. Contro l'Internazionale comunista

Abbiamo dato solo qualche spunto della risposta esauriente che occorrerà dare a questo documento, che è la "carta" fondamentale del Comitato d'intesa e che dovrebbe diventare la "carta" del partito e dell'Internazionale. 

In esso non vi è nulla di nuovo e di originale. Si tratta di un cumulo indigesto di vecchi errori e di vecchie deviazioni dal marxismo, che possono apparire "originalità" solo a chi non conosce la storia del movimento operaio. Ciò che impressiona in questo documento, non è tanto l'errore politico, quanto la decadenza intellettuale di chi l'ha compilato. Occorre esaminarlo e discuterlo solo perché più vivamente risalti, nei suoi confronti, l'energia, il vigore intellettuale, la profonda giustezza storica della dottrina leninista, che non ha permesso al fascismo korniloviano di giungere al potere in Russia, ma invece ha saputo guidare il proletariato alla vittoria rivoluzionaria. 

Si può escludere a priori che tale documento "sintetizzi" una posizione di "sinistra". Sulla sua base si può giungere invece alle più pericolose deviazioni di destra: basta pensare alla concezione veramente reazionaria che in esso si ha del proletariato e della sua capacità politica. Da questo punto di vista si può dire che l'attuale discussione tra il Comitato centrale e gli estremisti abbia un contenuto di classe. Il Comitato centrale rappresenta l'ideologia del proletariato rivoluzionario, che ha coscienza di essere divenuto una classe degna di esercitare il potere: il Comitato d'intesa rappresenta un ultimo conato di sparuti gruppi d'intellettuali rivoluzionari, ancora impregnati di diffidenza piccolo-borghese verso l'operaio, ritenuto inferiore, incapace di emanciparsi da sé, oggetto della rivoluzione, non protagonista della grande opera di emancipazione di tutti gli oppressi dal capitale. Perciò la lotta è già vinta "storicamente" prima ancora di essere combattuta.

Opinioni nelle file del partito

"L'Unità", 21 luglio 1925

Abbiamo sul tavolo esattamente 40 tra lettere ed articoli giunti da ogni parte d'Italia e dai compagni italiani residenti all'estero e dedicati alla polemica suscitata dal tentativo frazionistico dell'ex Comitato d'intesa. Vorremmo pubblicarli tutti, questi articoli, anche se essi non danno un contributo importante alla discussione e alla chiarificazione delle idee; sono l'opinione media della massa del partito; rappresentano stati d'animo diffusi tra gli elementi più attivi del movimento rivoluzionario, tra gli elementi che in ultima analisi sono la spina dorsale del partito; sono la forza per il cui merito progrediamo e siamo capaci d'azione. 

Ma il Comitato esecutivo ha deciso di troncare la campagna contro il frazionismo con la pubblicazione (che avverrà domani) di una lunga lettera di Bordiga, e perciò riassumiamo solo e diamo puramente notizia di questi articoli. Nessuno dei 40 scritti ha sia pure una frase che significhi appoggio aperto all'ex Comitato d'intesa. Solo un piccolissimo numero di essi (7-8) contiene spunti o motivi che dimostrano, in chi scrive, concordanza di opinioni coi compagni che si sono resi responsabili del tentativo frazionistico. La grande maggioranza dimostra di aver capito ottimamente la necessità della campagna fatta dal Comitato centrale e di aver capito quale pericolo abbia corso il partito, ciò che significa come tentativi simili siano ormai destinati a fallire subito all'inizio. 

L'avventura intesista ha offerto una formidabile lezione al partito; essa ha mostrato che anche per ciò che riguarda la vita interna del partito stesso, non bisogna mai lavarsi la bocca con frasi fatte, nella persuasione che la nostra organizzazione, perché è comunista, sia immunizzata a priori da ogni tentativo frazionistico e scissionistico. Finché c'è la lotta di classe, fino a quando esisterà una società divisa in classi (e cioè, quindi, anche dopo la vittoria rivoluzionaria, poiché la dittatura del proletariato non è che la forma suprema della lotta della classe proletaria), il partito può sempre diventare il teatro di lotte interne, provocate dall'influenza delle classi non proletarie e specialmente di quelle che storicamente possono diventare e diventeranno alleate degli operai, cioè i contadini e gli intellettuali. 

Se il partito non si è consolidato, se attraverso l'esperienza non è riuscito a capire come le manovre tendenti a mutare il suo carattere proletario possono assumere inizialmente anche le più innocenti apparenze di pure quistioni organizzative, il partito può sempre correre il rischio di essere deviato o disgregato: nessuna garanzia può essere data perché ciò non avvenga all'infuori della coscienza proletaria e della preparazione ideologica e politica della massa. 

Un articolo discretamente interessante ha inviato da Napoli un compagno che firma Tini. La tesi del compagno Tini è molto semplice: la critica è buona in sé, il malcontento è sempre stato il lievito della storia, ecc. Occorre però precisare: nell'interno del partito la critica è utile e necessaria quando tende a correggere gli errori commessi nell'applicazione di un determinato metodo (per usare la fraseologia cara ai nostri estremisti), in questo caso del metodo fissato dai congressi dell'Internazionale. Ma quando la critica stessa diventa un metodo e si crede che occorra sempre essere originali a tutti i costi e si crede di essere furbi perché si mette in dubbio tutto e tutti, allora si cade proprio nella posizione piccolo-borghese. 

Noi, per esempio, crediamo che sia più originale studiare e capire il leninismo, piuttosto che servire al proletariato piatti nuovi presunti originali, ma che viceversa sono spessissimo vecchi cavoli riscaldati dalle cucine anarchica, sindacalista, socialdemocratica. Il cuoco può crederli originali, perché ogni cuoco ama i suoi piatti, può condirli con salse e brodi piccantissimi; rimangono cavoli riscaldati, rimasticature pappagallesche di vecchissimi errori. In realtà il compagno Tini ripete una vecchia musica, quella della libertà di opinione, diventata "libertà di critica", libertà di spazzar razzi originali, libertà di portare il proprio contributo di esperienze. Anche Turati voleva questa libertà nel 1920, e se gli fosse stata concessa sarebbe rimasto nell'Internazionale comunista. L'argomento è interessante e merita di essere trattato più largamente. Altri compagni si preoccupano di quistioni come: la possibilità della discussione che può nuocere al partito dinanzi alle masse, il fatto che le masse possano credere che si tratti di lotta fra persone preoccupate di mantenere o di acciuffare il cadreghino, ecc. 

La quistione fondamentale è però questa: la discussione era ed è necessaria o no? Se era necessaria, il male che può fare la sua pubblicità, sarà sempre minore del male che avrebbe fatto il soffocarla, nascondendo le nostre debolezze, lasciando che il partito fosse disgregato. Le masse non vedono mai malvolentieri che si affronti apertamente e decisamente una situazione. Potranno oscillare per un momento, poi si stringeranno più fortemente intorno al partito che dimostra di saper risolvere con energia le sue quistioni. Quanto alla lotta di persone e al cadreghino, le masse vedono ogni giorno come avere cariche di responsabilità nel nostro partito non sia una sinecura fruttuosa: vuol dire andare in prigione, o prendersi una randellata all'angolo della via. L'interesse personale porterebbe piuttosto a scomparire dalla circolazione, a farsi dimenticare, ad andare a piantar cavoli nel proprio paesello. 

Un compagno parla anche del fatto che l'attuale Comitato centrale rappresenta la minoranza del partito. Perché mai dunque? Il partito, in questo periodo, ha triplicato i suoi effettivi, da 10.000 membri che contava nei primi mesi del '24 è giunto a più di 30.000. Questi nuovi 20.000 membri sono forse entrati nel partito perché accettavano la politica degli estremisti, o perché accettavano la tattica leninista dell'Internazionale applicata dal Comitato centrale in Italia? E poi. Prendiamo i compagni del Comitato centrale eletto nel Congresso di Roma: è la maggioranza di questo Comitato centrale che si è dichiarata per l'Internazionale contro l'estrema sinistra, e non una piccola maggioranza, ma 12 a 3. 

Dunque anche della vecchia guardia comunista la maggioranza non era rappresentata dall'estrema sinistra, ma dal Comitato centrale eletto a Roma, che ha isolato l'estrema sinistra appunto quando la sinistra è diventata estrema sinistra, cercando di spostare il terreno su cui il partito si era costituito. Il compagno T.U. di Milano che più insiste su questo argomento, accenna anche al fatto che gli attuali estremisti sarebbero stati i fondatori del partito. Piano, compagno. Sono stati tra i fondatori, non i fondatori. Crediamo per esempio che alla fondazione del partito abbia contribuito parecchio il fatto che a Torino i compagni abbiano nel 1920 assicurato alla frazione di Imola l'edizione piemontese dell'"Avanti!" , divenuta col 1° gennaio 1921 "l'Ordine Nuovo", e che a Trieste sia stato assicurato al nostro partito il "Lavoratore". Questi due giornali hanno molto contribuito alla formazione del partito; ed essi non furono conquistati con la tattica estremista, rappresentata allora dall'astensionismo, ma con la tattica leninista. Si potrà riparlare anche di questo argomento, poiché è necessario che i compagni, specialmente i più giovani di partito, conoscano la storia della nostra organizzazione.(…) 

Abbiamo detto che tra i 40 articoli-lettere che abbiamo davanti solo pochissimi sostenevano sia pure indirettamente la posizione del Comitato d'intesa, mentre la grandissima maggioranza esprime punti di vista contrari radicalmente al tentativo frazionistico e svolge considerazioni che dimostrano come nei compagni è stato capito il nesso esistente tra la concezione tattica erronea dell'estremismo e l'avventura frazionistica stessa. Da questo mucchio di scritti una cosa risulta in forma chiara e con energia: la formidabile compattezza proletaria del nostro partito, che non vuole seguire le persone ma i programmi e che riconosce come valido un solo programma, quello dell'Internazionale comunista. 

I proletari comunisti vedono la lotta di classe reale, non lo schema libresco della lotta di classe; vogliono la verità, non l'"originalità"; sentono pulsare nella dottrina leninista lo spirito realistico, concreto, fattivo della loro classe, mentre vedono contrapporgli degli schemi freddi, inamidati, dei figurini intellettuali senza consistenza che si reggono non per una coerenza propria, ma per l'abilità esteriore del sapere adoperare le parole ad effetto. Una cosa colpisce specialmente; come non faccia più effetto l'uso e l'abuso dell'aggettivo "sinistro"; l'esperienza fascista ha dimostrato agli operai italiani che non gli aggettivi contano, ma le cose: nessuna teoria può essere più a "sinistra" del leninismo che ha guidato la vittoriosa rivoluzione russa. 

Il compagno Bordiga scrive: ma Lenin è morto, e perciò la sua teoria può degenerare nei suoi discepoli. Certo, gli rispondono gli operai, tutto può avvenire, ma se i singoli possono degenerare e può quindi degenerare lo stesso Bordiga, non può degenerare invece l'intiero partito, l'intiera Internazionale. E poi non basta porre la quistione della possibile degenerazione dei singoli: occorre proporre rimedi ai malanni possibili. Quali rimedi propone Bordiga? Il frazionismo, cioè ad una degenerazione possibile nel futuro contrappone una degenerazione reale nel presente. La sostituzione delle persone e dei metodi? Ma dove sono questi metodi e quanto essi hanno subito la prova del fuoco di una rivoluzione? 

Il compagno Bordiga ha applicato il suo metodo astensionista negli anni 1919-20: è forse riuscito a far vincere la rivoluzione agli operai? Eppure allora il compagno Lenin era vivo; ma era anche contro il compagno Bordiga. E nel 1921-22, forse che l'estremismo ha impedito l'avvento al potere dei fascisti? Purtroppo una cosa appare da queste lettere: che il compagno Bordiga appena ha enunciato nudo e crudo il suo pensiero come ha fatto nei Punti della sinistra è apparso ai compagni molto, ma molto inferiore alla sua fama. 

Egli era come una dama velata e misteriosa, che viene creduta chissà mai quale bellezza; si toglie il velo, ed appare una donna comune, non completamente spiacevole, ma che potrà fare i figli allo stesso modo di tutte le altre donne, né più e né meno, senza che si debba uscir pazzi per lei... Proprio così, e ciò spiega perché tanti compagni rimproverino alla Centrale di non essere stata più energica e di non aver subito ricorso ai mezzi chirurgici anziché all'omeopatia.

L'organizzazione per cellule e il II Congresso mondiale

"L'Unità", 28 luglio 1925

Nel suo articolo sulla natura del Partito comunista il compagno Bordiga scrive:

Al II Congresso in cui vennero stabilite da Lenin le basi dell'Internazionale, pur essendo già in possesso dell'esperienza delle cellule in Russia, non si accennò nemmeno a tale criterio organizzativo, oggi presentato come indispensabile e fondamentale, in nessun di quei classici documenti: statuto dell'Internazionale, 21 condizioni di ammissione in essa, tesi sul compito del partito, tesi sui compiti dell'Internazionale. Si tratta di una "scoperta" fatta molto dopo, e ci sarà agio di vedere come si collochi nel processo di sviluppo dell'Internazionale.

L'affermazione del compagno Bordiga non è esatta. Nelle tesi su compiti fondamentali dell'Internazionale comunista, e precisamente nel secondo capitolo, In che cosa debba consistere la preparazione immediata e generale della dittatura del proletariato, Lenin aveva scritto: 

La dittatura del proletariato è la realizzazione più completa della direzione di tutti i lavoratori e di tutti gli sfruttati - che sono stati soggiogati, calpestati, oppressi, terrorizzati, dispersi, ingannati dalla classe capitalista - per parte dell'unica classe che per una tale missione dirigente sia stata preparata da tutta la storia del capitalismo. Perciò bisogna iniziare dappertutto ed immediatamente la preparazione della dittatura del proletariato, procedendo nel modo seguente: in tutte le organizzazioni, federazioni, associazioni senza eccezione, in primo luogo in quelle proletarie, poi in quelle non proletarie della massa lavoratrice e sfruttata (politiche, sindacali, militari, cooperative, culturali, sportive, ecc.) si debbono creare gruppi o cellule di comunisti, in prima linea apertamente, ma anche clandestine; le quali ultime sono obbligatorie ogni qualvolta ci si debba aspettare dalla borghesia lo scioglimento, l'arresto o l'esilio dei loro soci. Queste cellule strettamente collegate fra di loro e collegate alla direzione centrale, debbono scambiarsi le loro esperienze, fare il lavoro di agitazione, propaganda ed organizzazione, adattarsi assolutamente a tutti i campi della vita pubblica, a tutti gli aspetti e gruppi della massa lavoratrice; e con questo molteplice lavoro debbono educare sistematicamente sé stessi, il partito, la classe, le masse. 

Nelle 21 condizioni di ammissione, al paragrafo 9 si dice: 

Qualunque partito desideri appartenere all'Internazionale comunista deve sistematicamente e tenacemente spiegare un'attività comunista entro i sindacati, nei consigli degli operai, nei consigli d'azienda, nelle cooperative di consumo e in tutte le organizzazioni operaie. Entro queste organizzazioni è necessario organizzare cellule comuniste, che, con un lavoro persistente e tenace, guadagnino alla causa del comunismo i sindacati, ecc. Queste cellule sono obbligate, nel loro lavoro quotidiano, a smascherare dappertutto il tradimento dei socialpatriotti e le oscillazioni dei centristi. Le cellule comuniste devono essere completamente subordinate al partito. 

Nelle Tesi sui compiti del Partito comunista nella rivoluzione proletaria al paragrafo 18 si dice: 

Base di tutta l'attività organizzatrice del partito comunista deve essere dappertutto la creazione di una cellula comunista; e ciò, anche se talora sia molto piccolo il numero di proletari e semiproletari. In ogni soviet, in ogni sindacato, in ogni cooperativa di consumo, in ogni azienda, in ogni consiglio di inquilini, dovunque si trovino foss'anche tre soli uomini che si adoperano per il comunismo si deve immediatamente fondare una cellula comunista. Solo la compattezza dei comunisti dà all'avanguardia della classe operaia la possibilità di condurre dietro a sé l'intiera classe operaia. Tutte le cellule del Partito comunista, che lavorano nelle organizzazioni non aventi partito, sono assolutamente subordinate alla organizzazione del partito e ciò tanto se, in quel momento, il partito lavora legalmente quanto se illegalmente. Le cellule comuniste di ogni specie debbono essere subordinate l'una alle altre sulla base del più rigoroso regolamento gerarchico secondo un sistema il più possibilmente preciso. 

Il II Congresso pose il problema dell'organizzazione dei partiti comunisti per cellule. L'impostazione non fu chiara per i partiti europei. Si confuse l'organizzazione delle cellule, base del partito, con l'organizzazione delle frazioni comuniste nei sindacati, nelle cooperative, ecc.; in realtà le due forme organizzative non si distinguono bene tra loro nelle enunciazioni riportate, quantunque la distinzione sia fatta chiaramente nella parte riassuntiva delle Tesi sui compiti del partito. Al punto IV del riassunto si dice: "Dovunque esista foss'anco una dozzina di proletari o semiproletari, il Partito comunista deve avere una cellula organizzata". Al punto V: "In ogni istituzione non di partito, deve esserci una cellula del Partito comunista rigorosamente sottoposta al partito". 

E' evidente che in questi due punti si vuole fare la distinzione tra la cellula, base organizzativa del partito, e la frazione, organismo di lavoro e di lotta del partito nelle associazioni di massa. Che sia così risulta: dalle tesi scritte da Lenin nel 1915 per l'ala sinistra di Zimmerwald, cioè per il nucleo rivoluzionario che fonderà nel 1919 l'Internazionale comunista. E risulta dal discorso tenuto da Lenin al III Congresso sul comma speciale dedicato all'organizzazione ed alla struttura dei partiti comunisti. 

Lenin si pone la quistione: Perché solo il Partito comunista russo è organizzato per cellule? Perché non sono state messe in esecuzione le disposizioni del II Congresso che indicavano nel sistema delle cellule il sistema proprio dei partiti comunisti? E Lenin risponde a queste domande affermando che la responsabilità di ciò è dei compagni russi e sua propria, in quanto nelle tesi del II Congresso si è parlato un linguaggio troppo russo e poco "europeo", cioè si è fatto riferimento alle esperienze russe senza renderle attuali, senza spiegarle, supponendo che esse fossero conosciute e comprese. 

Le tesi del III Congresso sulla struttura del Partito comunista, scritte o direttamente da Lenin o sottoposte al suo controllo, sono dunque non una "scoperta", come dice il compagno Bordiga, ma la traduzione in linguaggio comprensibile agli "europei", delle enunciazioni rapide e per accenni contenute nelle tesi del II Congresso. 

Ma perché il compagno Bordiga vuole fare questa distinzione nella storia dell'Internazionale tra il II Congresso ed i successivi tre congressi? Nell'articolo sulla Quistione Trotzki il compagno Bordiga sostiene che la storia dell'Internazionale si divide in due parti: fino alla morte di Lenin, dopo la morte di Lenin. Nell'articolo sulla natura del partito invece la seconda fase incomincia già dal III Congresso, cioè da un periodo in cui Lenin era vivo ed era nel massimo della sua efficienza intellettuale e politica. Dal corso della discussione apparirà chiaro questo punto che è fondamentale per la discussione del partito: apparirà che per il compagno Bordiga il movimento rivoluzionario italiano si trova nuovamente in una fase simile a quella che intercorse tra il II Congresso e Livorno, in una fase cioè in cui si debbano organizzare frazioni perché ci possiamo trovare (anzi ci troviamo) dinanzi a un problema di scissione. 

Come spiegare altrimenti gli accenni che il compagno Bordiga ha fatto, nei punti della sinistra e nell'articolo sulla natura del partito, al gruppo dell' "Ordine Nuovo", accenni malevoli, pieni di astio e di rancore, non rivolti a cancellare le differenziazioni ma invece ad inasprirle e a farle apparire incolmabili? Il compagno Bordiga, tra l'altro, ha però dimenticato una "piccola" cosa: che anche ponendo il II Congresso come pietra di paragone per comprendere la situazione attuale nel nostro partito, non è certo il gruppo dell'"Ordine Nuovo" che può venire diminuito nella funzione che ha sempre svolto per la preparazione del movimento comunista italiano. 

Al II Congresso il compagno Lenin dichiarò di far sue le tesi presentate dal gruppo dell'"Ordine Nuovo" al consiglio nazionale del Partito socialista dell'aprile del 1920 e volle che nelle deliberazioni del congresso risultasse: 

1) che le tesi dell' "Ordine Nuovo" corrispondevano a tutti i principi fondamentali della III Internazionale; 

2) che al congresso del Partito socialista dovevano essere prese in esame le tesi dell' "Ordine Nuovo". 

Nessun "estremista" vorrà negare che tra il giudizio del compagno Lenin e il giudizio del compagno Bordiga, il giudizio del compagno Lenin sia ritenuto da noi più importante e dettato da uno spirito marxista un po' più approfondito e sicuro di quello del compagno Bordiga.

L'organizzazione base del partito

"L'Unità", 15 agosto 1925

Nel mio precedente articolo sulle cellule ho voluto non dimostrare, ma solamente ricordare una cosa molto semplice che dovrebbe essere sempre presente alla memoria di ogni compagno che voglia partecipare con serietà alla discussione del congresso, che abbia l'intenzione cioè di giovare all'educazione del partito e non quella di confondere le idee. 

Ho voluto ricordare che il tipo di organizzazione per cellule è strettamente legato alla dottrina del leninismo e che, nel campo internazionale, il compagno Lenin indicò questo tipo di organizzazione fin dal 1915, fin dall'epoca della sinistra zimmerwaldiana. Una delle caratteristiche più spiccate del leninismo è la sua formidabile coerenza e conseguenzialità; il leninismo è un sistema unitario di pensiero e di azione pratica, in cui tutto si tiene e si dimostra reciprocamente, dalla concezione generale del mondo fino ai più minuti problemi di organizzazione. Il nucleo fondamentale del leninismo nell'azione pratica è la dittatura del proletariato, ed alla quistione della preparazione e dell'organizzazione della dittatura proletaria sono collegati tutti i problemi di tattica e di organizzazione del leninismo. 

Se fosse vero ciò che il compagno Bordiga ha affermato - che cioè l'organizzazione delle cellule come base del partito sia stata una "scoperta" del III Congresso - sarebbe dimostrata una gravissima incoerenza del leninismo e dell'Internazionale, e sarebbe veramente necessario domandarsi se nel III Congresso non si sia verificata una deviazione verso destra, verso la socialdemocrazia, cioè uno spostamento del terreno dell'azione rivoluzionaria verso un terreno di semplice attività organizzativa estranea alla preparazione della dittatura proletaria. Questo infatti è l'assunto polemico dei compagni estremisti: "dimostrare" che l'organizzazione del partito sulla base delle cellule non è parte essenziale del leninismo, con l'affermazione che l'organizzazione per cellule è una "scoperta" posteriore al II Congresso per giungere a dimostrare che l'indirizzo dell'Internazionale è stato mutato dal III Congresso in quanto sono stati assegnati ai partiti comunisti, dal III Congresso in poi, compiti fondamentali ed essenzialmente organizzativi e non d'azione. Così si spiegherebbe, secondo gli estremisti, come diversi partiti, quando si è presentato un momento propizio per l'azione, abbiano fallito al loro compito storico (realizzare la insurrezione armata e la conquista del potere); essi erano stati distratti da compiti secondari di organizzazione interna o di organizzazione delle grandi masse (quistione delle cellule, tattica del fronte unico e del governo operaio, lotta per l'unità proletaria, ecc.). 

Nel mio precedente articolo, ho "dimostrato" come uno degli elementi su cui dovrebbe basarsi l'assunto polemico degli estremisti sia insussistente; non sarà difficile dimostrare come siano altrettanto inconsistenti gli altri. La quistione delle cellule è certamente anche un problema tecnico di organizzazione generale del partito, ma prima di tutto essa è una quistione politica. La quistione delle cellule è la quistione della direzione delle masse, cioè della preparazione della dittatura proletaria, è la migliore soluzione tecnica organizzativa della quistione fondamentale della nostra epoca. 

Gli argomenti pro e contro le cellule portati finora in discussione (se sia più sicura la strada o la fabbrica, se agli intellettuali come classe sia più facile, con le cellule o con l'assemblea territoriale, far deviare il proletariato od inquinare la sua ideologia) sono argomenti secondari, osservazioni di dettaglio, che influiscono in modo subordinato nell'accoglimento della forma organizzativa per cellule invece che della forma per assemblee territoriali. Il compagno Mangano trova che l'aver ricordato il discorso del compagno Lenin al III Congresso sulla "potente ignoranza" dei partiti comunisti "europei" sulla struttura dei loro stessi partiti sia una... trovata. 

La quistione è molto più complessa di quanto il compagno Mangano non sospetti e non possa sospettare, data la sua ferma volontà di mantenersi nella stessa "potente ignoranza" e di disprezzare come "centrista" e "opportunista" ogni insegnamento dell'esperienza proletaria degli altri paesi e della stessa Italia. 

Io ricordo un "piccolo" episodio del 1920. Nel giugno 1920 si riunì a Genova la conferenza nazionale Fiom per fissare il piano di battaglia dell'agitazione metallurgica che nel settembre successivo portò all'occupazione delle fabbriche. Noi, miserabili "ordinovisti", "centristi", "opportunisti", ecc. ecc., che abbiamo avuto sempre una miserabile abitudine di occuparci del reale svolgimento degli avvenimenti operai, informati che nella conferenza di Genova era stato delineato il piano di lotta dell'occupazione delle fabbriche, ponemmo alla direzione del Partito socialista, attraverso il compagno Terracini, la quistione dell'intervento del partito nell'agitazione e proponemmo di creare le cellule come base organizzativa del partito stesso nelle fabbriche. La proposta fu respinta dopo il discorso dell'allora estremista Baratolo, il quale trovò che la creazione delle cellule avrebbe significato la denuncia del patto di alleanza, in quanto il partito con le cellule avrebbe soppiantato i sindacati (cioè i riformisti) nella direzione delle masse. 

Battuti dinanzi alla direzione, uno degli "ordinovisti", e precisamente il sottoscritto, si recò, per incarico della sezione socialista torinese, alla conferenza nazionale della frazione astensionista che si tenne a Firenze nel luglio, per proporre la formazione di una frazione comunista sulla base dei principi organizzativi e politici dell'Internazionale comunista (cellule, consiglio di fabbrica). Anche qui la proposta fu respinta perché si riteneva che per dirigere le masse fossero inutili le "pure forme organizzative", mentre erano sufficienti le affermazioni di astensionismo parlamentare. 

Così la classe operaia arrivò all'occupazione delle fabbriche senza direzione politica rivoluzionaria e i riformisti poterono essi dirigere le masse verso la rinunzia alla lotta. L'episodio italiano, come l'esperienza "europea" dopo il II Congresso, dimostra come fosse difficile ai vecchi partiti socialisti comprendere concretamente cosa sia la dittatura del proletariato, come non basti affermarsi per la dittatura e credere di lavorare per essa, per essere tali e lavorare in tal senso. Secondo il compagno Mangano l'aver tardato a comprendere dovrebbe aver per conseguenza non di affrettarsi a recuperare il tempo perduto, ma di rinunziare a comprendere ed a operare.

Critica sterile e negativa

"L'Unità", 30 settembre 1925

Nel lungo articolo (di Bordiga n.d.r.), una cosa vi è di veramente notevole: lo scetticismo elegante, il quale si guarda bene dal prendere posizione chiara sui punti su cui l'autore afferma tuttavia di dissentire; l'oscillazione continua fra la tesi e l'antitesi, senza peraltro indicare una propria tesi "originale". 

Il compagno Bordiga si limita a mantenere una posizione guardinga su tutte le questioni che la sinistra ha sollevato. Egli non dice: i tali e tali problemi l'Internazionale li pone e li risolve in questa maniera, secondo me e secondo la sinistra vanno invece posti e risolti in quest'altra. Egli invece dice: il modo in cui l'Internazionale pone e risolve i problemi non mi convince, io temo che si cada nell'opportunismo, non vi sono garanzie sufficienti, ecc. La sua dunque è una posizione di sospetto e di dubbio permanente. In tal modo la posizione della "sinistra" è puramente negativa: essa esprime delle riserve, senza specificarle in forma concreta, e soprattutto senza indicare in forma concreta i suoi punti di vista, le sue soluzioni. Essa finisce per seminare il dubbio e la sfiducia, senza nulla costruire. 

L'articolo incomincia con una caratteristica ipotesi metafisica. Il compagno Bordiga domanda: si può escludere al cento per cento la possibilità che l'Internazionale comunista cada nell'opportunismo? Ma allora si può ugualmente dire che non si può escludere a priori che il compagno Bordiga divenga opportunista anche lui, che il papa divenga ateo, che l'industriale Ford divenga comunista, ecc. Nel campo delle possibilità metafisiche ci si può sbizzarrire finchè si vuole, ma un marxista dovrebbe porre così la quistione: vi è la possibilità che l'Internazionale comunista non sia più l'avanguardia del proletariato, ma si incammini a diventare l'espressione della aristocrazia operaia corrotta dalla borghesia? Così va marxisticamente posta la questione, e allora riesce facile ad ogni compagno risolverla. 

L'articolo è tutto un tessuto di errori teorici e pratici, che i compagni certamente rileveranno. Ci limitiamo a rilevarne i punti più caratteristici. Il compagno Bordiga dice a proposito delle cellule che il tipo di organizzazione di partito non può per se stesso assicurarne il carattere politico o garantirlo contro le degenerazioni opportuniste. Ma noi affermiamo che il tipo di organizzazione per cellule assicura il carattere proletario del Partito comunista meglio di qualunque altro, e meglio di qualunque altro garantisce il partito contro l'opportunismo. 

E dopo aver ripetuto la curiosa affermazione che il sistema delle cellule è adatto per la Russia, sia prima che dopo la conquista del potere, ma che esso non va nei paesi a regime democratico-borghese, il compagno Bordiga conclude: "noi non siamo contro le cellule, nemmeno come gruppi di inscritti nelle fabbriche, con date funzioni". Ma allora la sinistra è o non è contro le cellule? E quali sono queste date funzioni che il compagno Bordiga evita di specificare? La sinistra ed il compagno Bordiga non si dichiarano esplicitamente contro la bolscevizzazione, ma soltanto diffidano di essa perché si basa sull'organizzazione per cellule cui sovrasterebbe una rete onnipotente di funzionari selezionati con criterio dell'ossequio cieco al leninismo. 

Che la dirigenza locale del partito debba essere costituita da elementi ideologicamente selezionati è cosa fuori di ogni dubbio, perché senza di ciò il Partito comunista non sarebbe tale. Quanto all'ossequio cieco si tratta di un mezzo polemico non poco volgare, sul quale è inutile soffermarsi. 

Curioso è anche quanto il compagno Bordiga scrive riguardo al leninismo. Egli scrive che se il leninismo non è altro che marxismo, allora è inutile usare un termine simile, ma subito dopo aggiunge che la sinistra userà tutti e due i termini indifferentemente. Non solo vi è in questo contraddizione palese, ma vi è contraddizione anche fra l'asserzione di usare i due termini indifferentemente e il contemporaneo riconoscimento che Lenin è il "completatore per parti importantissime del marxismo, e che la sua interpretazione dell'imperialismo, le formulazioni della questione agraria e nazionale sono contributi fondamentali allo sviluppo del marxismo". 

Circa i dissensi con Lenin, il compagno Bordiga rimane poco abilmente sulle generali, ma non li specifica affatto. Le frasi "abbiamo discusso e criticato Lenin e delle sue controdeduzioni tuttora non siamo convinti" e "le strigliate di Lenin non mi hanno convertito", possono fare molto effetto fra i piccolo borghesi, ma di fronte ad esse i comunisti e gli operai rivoluzionari in genere scrollano le spalle. 

Il compagno Bordiga, senza specificare per nulla la portata dei suoi dissensi con Lenin, se la cava affermando di non ritenere esatto il sistema tattico di Lenin, perché non contiene garanzie contro la possibilità di applicazioni opportuniste. Ma più sincero sarebbe il compagno Bordiga se dichiarasse che egli respinge ogni manovra tattica, in quanto ogni manovra tattica presenta il pericolo di deviazioni opportuniste. 

La garanzia contro le deviazioni non consiste nella tattica in sé, ma in noi, nella nostra coscienza comunista, nella vigilanza e nella autocritica di tutto il partito, nella fermezza ai principi, nello sforzo di non perdere mai di vista il fine rivoluzionario. Non intendiamo di avere esaurito con la presente nota le obiezioni all'articolo del compagno Bordiga. Esso è veramente una miniera di errori e di incongruenze di ogni genere. 

Vogliamo solo rilevare ancora quelle riguardanti l'antiparlamento e la tattica del partito verso le masse operaie aventiniane. La tattica adottata dal partito - dice il compagno Bordiga - non è stata prevista da nessun congresso. Ma, a parte il fatto che nessun congresso ha previsto né il delitto Matteotti, né la reazione delle grandi masse col loro contemporaneo schieramento verso le illusioni aventiniane, quale è la tattica che secondo il compagno Bordiga avrebbe dovuto essere adottata? Egli si guarda dall'enunciarla sotto qualsiasi forma, e si limita a dire "che si è fatto poco, mentre si poteva fare molto". 

Tutto l'articolo è un documento di vera decadenza intellettuale. Il compagno Bordiga non solo si guarda dal trarre le logiche conseguenze delle sue negazioni, ma si guarda soprattutto dal contrapporre alle direttive critiche nuove direttive in forma chiara e completa. Limitarsi, come egli fa, alla critica negativa, seminare dubbio, scetticismo e sfiducia, senza indicare nulla di positivamente costruttivo, ciò costituisce non solo mancanza di carattere, ma rivela altresì scarso rispetto e scarso attaccamento al partito e all'Internazionale.

Contro lo scissionismo frazionistico per l'unità ferrea del partito
(Interventi pubblicati sotto il titolo di una rubrica dell' "Unità" dedicata alla lotta nel Partito)

"L'Unità", 15 ottobre 1925

La lotta contro la frazione e la discussione nel Partito

Secondo dunque la delicata dizione della lettera in data 22 maggio del Comitato d'intesa, "il lavoro di carattere organizzativo e propagandistico" che il gruppo di compagni recentemente denunciati dal Comitato esecutivo alla massa dei militanti incrollabilmente fedeli alla disciplina rivoluzionaria, aveva iniziato, fino dal mese di aprile, tale lavoro superava il fatto del congresso e mirava a creare in tutto il partito una specie di collegamento spirituale fra i compagni della sinistra". 

Il congresso doveva quindi, nelle loro intenzioni, soltanto offrire l'occasione ed il pretesto, sotto le parvenze della partecipazione alla discussione e del contributo alla risoluzione dei formidabili problemi posti all'avanguardia del proletariato dalla situazione storica nella quale essa è chiamata ad assolvere i suoi compiti, di porre nel partito le basi di un permanente processo di disgregazione. Dare un'esatta analisi della situazione internazionale per dedurne le direttive tattiche dell'Internazionale? Esaminare le condizioni concrete della società italiana, fissando le attuali reciproche posizioni del proletariato e della borghesia e dei vari raggruppamenti politici? Stabilire le direttive per ridare alla massa dei lavoratori italiani una forma organica di schieramento, un inquadramento più saldo, un'organizzazione più adatta alle lotte imminenti? Tracciare le grandi linee di una soluzione comunista dei problemi economici dell'Italia considerata nel suo aggregato di 40 milioni di operai e contadini, nelle sue terre, nelle sue miniere, nelle sue fabbriche? Ohibò! I compagni del comitato nazionale della frazione hanno ben altri compiti cui applicarsi. 

Bisogna superare le differenze contingenti per creare l'unità ideologica del partito, sostanza e contenuto dell'unità organizzativa? Ma no, rispondono essi, "oggi ciò che è necessario (sic!) è lo sviluppo del processo critico di differenziazione". Bisogna, dinanzi all'offensiva reazionaria, alla legge contro le associazioni, allo stagnamento minacciante il movimento proletario, rinsaldare la nostra compagine, serrare i ranghi, divenire una muraglia intangibile e ferrea, sia pure con qualche sacrificio di qualche concezione tattica, con rinuncia di qualche affermazione? Ma no, assolutamente no, rispondono i nostri ottimi compagni frazionisti: l'imperativo del momento è per il buon rivoluzionario italiano di "dimostrare come non sia giusto e conveniente fingere di ignorare l'esistenza di tutta una corrente del movimento comunista nel nostro paese"; "la richiesta ai compagni di una immediata presa di posizione critica che investe in pieno l'attività del partito".

Investire in pieno l'attività del partito, ingaggiato nella lotta più aspra contro fascismo e Aventino; impegnato a difendere contro i riformisti, l'unità sindacale, contrastando loro passo a passo la libertà e l'autonomia delle masse organizzate; preso alla gola dalle nuove leggi che mirano, sotto la maschera dell'antimassonismo, a dare i legali pretesti per sciogliere la nostra organizzazione! Ecco davvero un ottimo programma per dei "vecchi combattenti dell'idea comunista", i quali sanno che investire significa abbattere e spezzare. 

Queste affermazioni del comitato della frazione precisano in modo perfetto l'ambito e gli scopi della campagna cui il Comunicato del Comitato esecutivo del partito dà inizio. Essa deve restare la campagna per il ritorno alla disciplina, per la condanna dei misconoscitori della tradizione di buon costume politico del nostro partito, per la purificazione d'esso di tutti i residui improvvisamente affioranti di mentalità socialdemocratica. E questa lotta nella quale il partito intero, senza diversità di correnti, si schiererà all'allarme dei dirigenti, non avrà nulla a che vedere colla discussione politica alla quale il partito sta approntandosi. 

Occorre evitare che la manovra dei frazionisti, creando l'equivoco, impedisca alla prossima discussione di giungere, col contributo della massa dei compagni, a risolvere la crisi ideologica sorta dopo il IV Congresso dell'Internazionale ed è ormai giunta a maturazione. Non è evidentemente possibile confondere una questione di disciplina, di pura o semplice disciplina, con una questione politica. 

La cosa migliore sarebbe stata per il partito di potere giungere al congresso attraverso una larga discussione non inceppata da incidenti come l'attuale, destinato a creare un certo turbamento fra i ranghi dei compagni, i quali mai più immaginavano potessero attecchire nel Partito comunista italiano simili germi degenerativi. Ed il Comitato Centrale aveva scelto infatti tale via, evitando - salvo in un caso particolarmente deplorevole verificatosi nella federazione di Milano - di ricorrere a sanzioni disciplinari contro i compagni dell'opposizione, anche quando con la loro condotta essi avevano offeso i principi costitutivi del partito. 

Ma oggi, che per volontà deliberata di alcuni di essi la disciplina è stata spezzata in modo scandaloso ed inatteso, occorre risolvere rapidamente e radicalmente quest'episodio senza collegarlo coi grandi problemi politici che si pongono. La grande massa dei compagni, infatti, sta reagendo con decisione contro il tentativo frazionistico che è stato loro denunciato, senza diversità fra fautori ed oppositori della tattica del partito. L'amore e l'attaccamento per esso, la coscienza della gravità del momento di reazione contro cui solo la più salda unità dà garanzia di vittoriosa resistenza, la sottomissione piena e completa alla disciplina dell'Internazionale comunista, la fedeltà incrollabile alla milizia rivoluzionaria sono bene virtù essenziali di tutti i comunisti italiani. Nessuna confusione è possibile fra gli attentatori alla saldezza del partito ed i sostenitori di criteri tattici contrastanti con quella centrale. 

Quelli non possono avere e non avranno diritto e possibilità di difendere e sostenere comunque dinanzi ai compagni la loro attività nemica del partito; questi potranno e dovranno, senza restrizione, nel corso della discussione, esporre e sostenere le loro idee e le loro convinzioni. E se un breve ritardo forse sarà frapposto all'inizio di essa, ne renda grazie il partito all'incoscienza delittuosa della frazione mascherata.
("L'Unità", 10 giugno 1925)

Democrazia interna e frazionismo

Pubblichiamo una lettera di M.V. non già perché una discussione si possa aprire fra i violatori della disciplina ed il partito, ma perché essa riflette - e non a caso - le ingenue abilità con cui si vorrebbe da parte dei pochi difensori del frazionismo gabellare il Comitato d'intesa per una coserella lecita ed onesta e la Centrale del partito, che ha la piena approvazione in questa sua azione da parte dell'Internazionale, per un gruppo di frazionisti, accaniti e pervicaci. 

Vi è la storiella antica sul lupo e l'agnello che bevevano allo stesso ruscello. Il lupo stava a monte e intorbidiva le acque: "tu intorbidi l'acqua che io bevo", gridò l'agnello che stava a valle, e lo sbranò. Si costituisce una frazione nel partito; il Comitato esecutivo la scopre; ahimè!, si la scopre, poiché la frazione era segretamente organizzata. Ed il Comitato esecutivo getta l'allarme. "Si crea il frazionismo! Lotta al frazionismo! ". 

Ma ecco il compagno M.V. se ne viene: "Chi lotta contro la frazione è un frazionista. Chi lotta contro la frazione getta il turbamento nel partito e lo abbassa nell'influenza fra le masse". Per cui non il Comitato d'intesa, che ha fatto quanto, documentariamente, il Comitato esecutivo ha denunciato al partito, viola i principi dell'Internazionale; ma bensì il Comitato esecutivo stesso non si è accorto che il Comitato d'intesa non è che la formazione normale dei "comunisti in meditazione" (?), che una "presa di posizione precongressuale" non è che la "democrazia" nel partito. 

Che cosa è successo nel partito? Ecco: dei compagni "che erano uniti da puri e semplici vincoli ideologici e di affinità di vedute su determinati problemi" si incontrarono per gettare le basi "di un lavoro organizzativo e propagandistico il quale supera il fatto del Congresso". Quando fanno questo? Naturalmente quando il Congresso offre loro il motivo acconcio. Quale lo scopo dell'organizzazione? "Sviluppare il processo critico di differenziazione nel partito". Quale il primo strumento all'uopo? Una circolare segreta e personale, dalla quale si apprende la necessità di iniziare senz'altro un serio ed efficace lavoro di collegamento con tutte le regioni, gruppi, cellule, ecc., scegliendo i compagni più fidati e politicamente più provati. Ed il secondo strumento? "Una scappata a Milano per conferire coi compagni incaricati del lavoro". 

Quali i risultati che si attendono da questa attività? "Ottenere al più presto un efficiente collegamento atto a rendere unitaria e omogenea l'opera diretta ad investire in pieno l'attività attuale del partito e la posizione teorica che l'esprime". E come quest'opera viene accelerata ? Incaricando alcuni compagni deputati e non (e fornendo i non deputati di abbonamento ferroviario) di fare un sopralluogo presso tutti i centri federali e presso i compagni adescabili; valendosi possibilmente di indirizzi riservati del partito procacciatisi in modo senza dubbio sleale; e possibilmente mettendo a profitto le conoscenze organizzative acquistate in un periodo in cui si svolgeva per conto della Centrale un lavoro di fiducia. Non si negligono neppure i convegni a base di inviti, la diffusione di documenti di cui l'Internazionale ha chiesta la non pubblicazione, le parate di sapore massimalista nelle ore piccole della notte. 

Che c'è di male in tutto questo? Chiede il compagno M.V. Tutto ciò egli ci afferma, non è frazionismo ma democrazia nel partito, ma presa di posizione per la discussione. "E voi intorbidate le acque!" grida alla Centrale.
("L'Unità", 21 giugno 1925)

I documenti frazionisti

Se si considerano da una parte la lettera inviata dal Comitato d'intesa all'Esecutivo del partito e dall'altra i documenti illegali, dei quali il Comitato esecutivo non avrebbe dovuto aver conoscenza, si comprende subito il loro valore e significato. La lettera al Comitato esecutivo è un tentativo del Comitato d'intesa di procurarsi presso gli organi responsabili il diritto di cittadinanza nel partito, in seno al quale avrebbe svolto "clandestinamente" il lavoro di frazione: in sostanza è la richiesta di un lasciapassare per introdurre di contrabbando nella nostra organizzazione la merce avariata del frazionismo di cui troviamo tracce nei documenti riservati.

Anche se questi ultimi non fossero venuti alla luce, con un minimo di buon senso si poteva comprendere dal testo stesso della lettera il fine reale che essa si proponeva. Basta esaminare le proposte in essa contenute. Esse si possono dividere in due parti: la prima comprende i punti a e b: con essi si chiede che alla discussione venga dato il tempo necessario al suo svolgimento e che i congressi provinciali vengano tenuti dopo la discussione. 

Quale valore potrebbe avere un congresso al quale presenziassero delegati di federazioni nelle quali non si sia precedentemente discusso con serietà e conoscenza, ecc. ecc.? si afferma nella prima parte di questa lettera. Queste proposte sono superflue: noi vorremmo sapere quando e come sia mai stato affermato che il Comitato centrale intenda soffocare la discussione, convocare i congressi provinciali prima che i compagni siano preparati a discutere. Quando e come sia stata fatta una qualsiasi dichiarazione che giustifichi il brano che abbiamo riportato. 

Si vuol forse credere che il Comitato centrale sia interessato a fare l'opposto di quanto si chiede con quella lettera? E' il contrario che è vero: non per nulla lo stesso Esecutivo internazionale affermava che il nostro partito aveva bisogno ora di una vasta ed ampia discussione per convincersi della bontà della politica e della tattica dell'Internazionale comunista e dell'errore in cui si trova l'estrema sinistra italiana. 

Noi siamo d'avviso che se qualcuno può avere interesse ad evitare una ampia discussione questo è proprio l'estrema sinistra. Quelle proposte avrebbero dovuto colmare delle lacune ed essere delle critiche alle norme per la discussione. Come si può far ciò prima di conoscere quelle norme? E' logico pensare che bisognava almeno attendere di conoscere le disposizioni che avrebbero regolato la discussione e la convocazione dei congressi, disposizioni che erano preannunciate nelle deliberazioni del Comitato centrale rese pubbliche sull' "Unità" del 26 maggio. 

In quelle deliberazioni vi è un passaggio che dice anche con quale spirito e con quali criteri il Comitato centrale intende dirigere la discussione nel partito. Ma tutto ciò non ha valore per il Comitato d'intesa, il quale deve ben trovare una ragione qualsiasi per giustificare la propria esistenza e perciò finge di ignorare e di non capire, tentando così di sorprendere la buona fede dei compagni e creare un'atmosfera di sospetto intorno al Comitato centrale. 

Lo stesso fatto di essersi accinta ad organizzare la frazione è una manifestazione di debolezza dell'estrema sinistra, poiché si vuole con i vincoli disciplinari interni che essa crea ostacolare ed infrenare il libero sviluppo del processo di chiarificazione politica e di comprensione dei principi e del metodo leninista, la cui conoscenza ed assimilazione spingerebbero strati sempre più numerosi di compagni ad abbandonare le concezioni erronee dell'estrema sinistra. 

E passiamo alla seconda parte delle richieste: i punti c, d, e. Questi non hanno bisogno di troppi commenti: essi presumono tutti la esistenza nel partito di frazioni contrastanti organizzate.

1. Si chiede che ai congressi provinciali venga data facoltà di parlare in contraddittorio ai compagni "riconosciuti" delle diverse correnti. Chi ha mai pensato che sia reso impossibile e vietato il contraddittorio? Nei congressi qualunque delegato può prendere la parola, parlare pro e contro, presentare tutti gli ordini del giorno che gli aggrada. Ma cosa significa la domanda di questo diritto per i compagni "riconosciuti"? Cosa è questa nuova categoria di compagni che verrebbe a stabilirsi nel partito? Riconosciuti o non, il diritto di parola non deriva dall'appartenere all'una o all'altra corrente, dall'essere o meno "riconosciuti" da esse ma dal fatto di appartenere a quella determinata organizzazione. E ciascuno ha il diritto di fare tutti i contraddittori che crede. 

E' naturale poi che i congressi provinciali non possono e non devono divenire il pretesto per una fiera "oratoria nel partito", per cui ad ogni congresso provinciale o sezionale ogni corrente manda i suoi "commessi viaggiatori". Ciò contrasta con le direttive organizzative del partito. Ognuno partecipa alla riunione della propria organizzazione di base, nella propria cellula. I delegati partecipano poi ai congressi di grado superiore. Meno grandi discorsi e maggiore discussione reale ed effettiva fra i compagni operai: questa deve essere la pratica del nostro partito. Altro che mancanza di libertà. Non c'è bisogno che vi siano dei compagni appositi, indicati di diffondere il verbo di ogni tendenza; per portare a conoscenza di tutto il partito il pensiero delle diverse correnti, serve la stampa sulla quale verrà pubblicato tutto il materiale di discussione con relative tesi e controtesi. 

Il Comitato esecutivo del partito ha già preso disposizioni perché essa possa arrivare ovunque, in tutte le nostre organizzazioni. Nei congressi provinciali le diverse correnti si manifestano attraverso i delegati che vi partecipano. Esse si incontrano e si misurano poi definitivamente al congresso nazionale. E' proprio necessario ricordare queste norme elementari della nostra organizzazione? 

2. Si chiede che la nomina dei delegati al congresso sia fatta dai rispettivi congressi federali. Qui veramente si superano tutti i limiti. Chi ha mai pensato ed affermato il contrario? Si vuol forse far credere che la Centrale intenda eleggere essa stessa direttamente i delegati al congresso? L'"Avanti!" non avrebbe mai pensato di trovare migliori alleati nella sua campagna di denigrazione del nostro partito.

3. Si continua: se la nomina verrà fatta con altri sistemi, venga data facoltà di scelta degli elementi chiamati a far parte di eventuali comitati ai "fiduciari" delle diverse correnti. Cosa c'entrano i fiduciari? Chi sono costoro? I delegati al congresso nominano essi stessi gli elementi chiamati a far parte di eventuali comitati, rispettando tutte le correnti secondo le norme che verranno a suo tempo emanate. Nessuna autorità e nessun diritto speciale a dei "fiduciari" che non devono esistere. Se questi elementi, che nella mente dell'estrema sinistra assolverebbero alla funzione di "fiduciari", sono delegati al congresso, essi hanno gli stessi diritti degli altri compagni delegati, né più né meno. Se non sono compresi fra i delegati o non fanno parte di quell'organizzazione essi non hanno nulla a che vedere col congresso. 

Non si comprende perché ed in base a quale criterio un socio, puta caso, di una cellula di Milano debba avere il diritto di recarsi, mettiamo, al congresso provinciale di Girgenti nella qualità di "fiduciario" e come tale possa limitare i diritti dei delegati regolarmente eletti al congresso di quella federazione per la facoltà che verrebbe a lui conferita e riconosciuta da un organo superiore incontrollato e incontrollabile. Veramente ci sembra di sognare ad occhi aperti. E si ha il coraggio di avanzare proposte di questo genere proprio in un periodo di illegalità come quello che il partito sta attraversando!

4. Si chiede infine il diritto al comitato di frazione di nominare e disciplinare gli oratori della propria corrente al congresso nazionale. E' necessario ricordare l' abc della nostra organizzazione: il congresso è convocato dal Comitato centrale e da questo diretto in tutta la sua fase di preparazione fino al momento in cui, riunitisi i delegati, questi nominano un "presidium" che assume la direzione dei lavori del congresso ed al quale quindi spetta il diritto di disciplinare gli oratori senza distinzione di tendenza, e di prendere ogni altra deliberazione riguardante il congresso stesso. 

Altri organi non hanno proprio nulla a che fare. Dalle osservazioni su esposte si manifesta il contrasto netto che c'è fra la direzione del partito ed il Comitato d'intesa. Per i compagni del Comitato esecutivo ogni quistione deve essere concepita ed impostata dal punto di vista di partito; per esso tutto si pone dal punto di vista di frazione. Tutte le richieste dell'estrema sinistra presumono non una discussione che deve svolgersi nel seno di uno stesso partito, ma una lotta fra due organismi contrastanti, fra due partiti avversi. 

Si poteva ammettere e sanzionare un simile criterio? Ed ora appare ancora più chiaro lo scopo della lettera inviata al Comitato centrale. E' evidente che se il Comitato esecutivo l'avesse accettata anche solo in parte, esso avrebbe riconosciuto il diritto di una intesa "organizzata" fra gli elementi di una stessa corrente. Praticamente il Comitato d'intesa si sarebbe dedicato ad organizzare la frazione la cui costituzione avrebbe dovuto "superare il fatto stesso del congresso" (lettera del 22 maggio). 

E quando il Comitato esecutivo si fosse accorto che non si trattava più soltanto di una intesa congressuale o fosse intervenuto come è suo dovere, gli si sarebbe risposto: ma come, prima ci autorizzate ad un determinato lavoro e poi ci colpite per lo stesso lavoro da voi autorizzato? Era evidente che non era possibile stabilire una intesa senza un minimum di organizzazione. 

Naturalmente si sarebbe respinta con indignazione l'accusa di voler organizzare la frazione, di voler "scindere le forze" del partito, ecc. Quanta fede si sarebbe dovuta prestare a queste dichiarazioni di lealismo, sarà dimostrato all'esame dei "documenti illegali". Si prenda la circolare n. 1 (personale e riservata dell'aprile). Questo documento rispecchia fedelmente il formalismo che caratterizza la mentalità dei compagni dell'estrema sinistra. Essa incomincia col lamentare che l'Internazionale "mira a bersagliare il compagno Bordiga" fingendo di ignorare l'esistenza di una "sinistra italiana", cioè dell'estrema sinistra. 

E' così banale questo rilievo che in verità non merita risposta: è mai possibile che dei compagni, non degli ultimi venuti nel movimento, non sappiano che quando nelle nostre discussioni si fa il nome di questo o di quel compagno esponente di una determinata tendenza, si intende riferirsi a tutta la tendenza che egli rappresenta e non solo a lui personalmente? Stiano tranquilli i componenti del Comitato d'intesa: quando si parla di Bordiga si intende parlare anche di tutti coloro che la pensano come lui, quindi loro compresi. 

Certo che fra Bordiga ed un ristretto numero di compagni, la cui mentalità si è irrigidita e anchilosata nell'errore e che, se è passibile di mutamento e di correzione, muterà solo sotto la sferza degli avvenimenti e della storia, e la massa che li ha seguiti per ragioni diverse che non hanno nulla a che vedere con le loro erronee affermazioni teoriche c'è una differenza notevole, che impone una distinzione di valutazione politica di cui bisogna tener conto: per Bordiga e compagni questa distinzione non esiste e non si deve fare: il disconoscimento di questo principio è sempre stato una caratteristica dell'errore di concezione di Bordiga. 

Volete sapere, continua la circolare, fino a che punto si arriva a bersagliare il compagno Bordiga? Si arriva "nientemeno" a dire che Bordiga è passato alla destra. Se i compagni del Comitato d'intesa giudicassero i fatti e le cose con intelligenza politica e non con il formalismo proprio di una mentalità "notarile", forse avrebbero meglio compreso il vero significato di quella dichiarazione. Il compagno Bordiga che è sempre stato all'estrema sinistra e si è trovato quindi sempre lontano e contro le posizioni della destra, oggi, nonostante tutte le sue affermazioni estremiste in teoria, praticamente, nell'azione concreta, e di ciò bisogna sempre tenere conto in un giudizio politico, col suo atteggiamento rafforza la destra dell'internazionale e su molte quistioni si trova sul suo stesso piano. (…) 

Là dove poi la posizione di Bordiga è la stessa di quella di tutta la destra dell'Internazionale è nella rivendicazione del diritto alle frazioni, all'organizzazione delle tendenze. E qui abbiamo accennato solo ad alcune quistioni. Qual meraviglia dunque se con un giudizio dato da un punto di vista oggettivo e non soggettivo (i sentimenti di Bordiga verso la destra non interessano: ciò che conta sono gli atti) e che si basa sulla situazione internazionale e non soltanto sull'Italia (l'estrema sinistra dovrebbe ricordarsi qualche volta di essere parte di una organizzazione internazionale), si è ritenuto necessario richiamare l'attenzione dei compagni sull'esempio Bordiga, il cui estremismo lo porta di fatto a collegarsi alla destra. 

Ma tutto ciò non interessa i compagni del Comitato d'intesa. La sostanza della quistione viene da essi lasciata da parte: ci si arresta alla forma. Si osa "nientemeno" avvicinare il nome di Bordiga alla parola "destra"? Ma è inaudito! Si lancia un allarme: tutto il campo è a rumore. Un gruppo di "vecchi e provati compagni" sorge in armi e si costituisce in Comitato d'intesa. Si mobilitano i "vecchi combattenti dell'idea comunista" , si fa appello alle loro "energie" in difesa "del pensiero, della tattica e di tutta una tradizione di capacità rivoluzionaria" contro l'Internazionale comunista che calpesta e distrugge quanto vi è di più rivoluzionario, "il patrimonio ideologico e tattico della sinistra italiana". 

La cosa sarebbe enormemente buffa se non fosse estremamente pericolosa e dannosa per il partito. Un po' più di linea e di serietà, cari compagni del Comitato d'intesa. Vi siete gettati a corpo perduto nell'organizzazione clandestina di una frazione nel partito, e non pare che vogliate smetterla, per prepararvi a dimostrare ancora una volta "come non sia giusto e conveniente circoscrivere la lotta all'obiettivo Bordiga". Ma chi vi ha detto che la lotta sarà limitata all'obiettivo Bordiga? Di più, chi vi ha mai detto che Bordiga personalmente sia l'obiettivo della lotta? L'obiettivo reale sta negli errori che il compagno Bordiga sostiene e di cui deve correggersi: essi non saranno combattuti nei confronti di Bordiga soltanto ma di tutti coloro che lo sosterranno. 

Voi parlate di capacità, di tradizioni rivoluzionarie e di lotta da salvare. Da chi sono esse minacciate? Questo della tradizione rivoluzionaria del movimento italiano sarà il terreno più propizio per battere in breccia tutte le deviazioni e gli errori che caratterizzano la vostra posizione. Per ora osserviamo solo questo: con la vostra opera voi state distruggendo ciò che vi è di meglio nella tradizione rivoluzionaria, mentre tendete a mantenere in vita ed a perpetuare ciò che in essa deve invece essere corretto ed eliminato. Un errore, anche se è vecchio ed ha una tradizione, è sempre un errore. 

E passiamo oltre. I compagni sono pregati di riflettere alle seguenti parole: "...la sinistra italiana deve saper dimostrare come non sia stato vano ogni tentativo di assorbimento e di deviazione". Si prega di prendere la collezione dell'"Avanti!" e constatare quante volte queste parole sono state adoperate dai vari Vella e Nenni nella loro lotta contro l'Internazionale. Il loro significato è gravissimo: esse sono indice di una situazione dalla quale può sorgere una vera e propria forma di massimalismo comunista. 

I compagni del Comitato d'intesa ascrivono a loro merito il non essersi fatti assorbire dall'Internazionale comunista. Essi si considerano dunque qualche cosa di eterogeneo e di estraneo ad essa, fino al punto di porsi il problema di non farsi assorbire per non perdere i propri connotati. E questi compagni vogliono organizzare una frazione al fine di mobilitare il partito od almeno una parte di esso affinché questo dimostri di aver reso vano ogni tentativo di assorbimento nell'Internazionale. Il pericolo che il partito ha corso senza accorgersi sotto la direzione del Comitato centrale è stato senza dubbio gravissimo: è stato quello di deviare verso l'Internazionale comunista e farsi assorbire da essa! E' per questo che ad un dato momento i compagni dell'estrema sinistra sono scesi in campo per impedire che un tale assorbimento ed una tale deviazione avvenisse. 

Continuando di questo passo questi compagni si accorgeranno ben presto che non altrettanto vani saranno gli altri tentativi di deviazione in senso opposto a quello dell'Internazionale comunista. Logicamente ne deriva che bisogna investire in pieno tutta l'attività del partito e la posizione teorica che la esprime. E per far ciò non si ritiene sufficiente la discussione, ma si organizza clandestinamente una frazione. Così questo "investimento" assume un significato molto preciso. Conseguentemente occorre al più presto un "collegamento atto a rendere unitaria ed omogenea quest'opera". 

Come si vede per il Comitato d'intesa il problema dell'unità ed omogeneità non si pone nei confronti del partito ma solo di una parte di esso, di una frazione. Chi non intende il significato scissionista di una tale impostazione del problema? Non ci si pone neanche il problema dell'unificazione ideologica del partito attraverso la discussione. Anzi, questa e lo stesso congresso che seguirà diventano motivo di maggiore e più profonda divisione e differenziazione. Proprio tutto l'opposto. 

Si legge infatti nella lettera del Comitato d'intesa in data 22 maggio: "il congresso del partito che sarà tenuto tra non molto ci dà motivo ad un lavoro di carattere organizzativo e propagandistico il quale, in sostanza, supera il fatto nel congresso stesso e mira a creare in tutto il partito una specie di collegamento tra i compagni della sinistra atto allo sviluppo di un processo critico di differenziazione"... 

A queste parole facciamo seguire un brano della mozione votata dal Comitato centrale: "Il suo (della discussione) scopo essenziale non deve essere quello di aprire in seno al partito una lotta di tendenze o frazioni, ma al contrario essa deve tendere attraverso la discussione dei problemi essenziali della teoria e della pratica del leninismo all'elevazione dell'educazione e della capacità politica di tutti i nostri militanti ed alla creazione di quella omogeneità ed unità ideologica che è la premessa essenziale di una reale ed effettiva bolscevizzazione del partito". Ed ora i compagni giudichino: ogni commento è superfluo.
("L'Unità", 23-25 giugno 1925)

Si tratta veramente di frazionismo?

Il segretario generale di Teramo rifugge dalle abilità verbali e dalle inutili schermaglie. Egli giudica con freddezza, precisa il suo pensiero, dice senza sottintesi quello che pensa e che vuole. E cosa egli vuole? Null'altro che "organizzare" la frazione di sinistra. Questo diritto egli rivendica meravigliandosi che la centrale di un Partito comunista si prefigga di "schiacciare qualsiasi movimento tendente a frazione". 

Oggi sono i sinistri che si organizzano; domani in una situazione capovolta, colla sinistra cioè della direzione del partito e con i sostenitori della tattica dell'Internazionale all'opposizione, saranno questi gli organizzatori di un'altra frazione, di un altro Comitato d'intesa. Oh! Il nostro compagno è in queste cose assolutamente imparziale: piena libertà per tutti di organizzare e disorganizzare nel seno del partito! Vi possono essere dei dubbi su questi suoi concetti? Egli adopera parole non possibili di equivoco: "la sinistra si organizza", "la frazione di sinistra", ecc. 

Ma dove mai qualche compagno bizantineggiante vi fosse il quale volesse esitare a credere possibile una tale esplicita denuncia di uno dei più importanti principi organizzativi di un Partito comunista, il segretario federale di Teramo si affretta a darci alcuni paragoni od esempi destinati a scolpire il suo pensiero. Ed ecco allora la meravigliosa invettiva: "Ma voi rinnegate tutta la lotta che avete condotta contro i massimalisti quando espulsero la frazione terzinternazionalista e quella che conducete attualmente contro i riformisti!". 

Che vi sia nel partito un compagno il quale, da tutta l'azione sviluppata nel corso dei primi mesi del '24 contro il Partito massimalista allo scopo di sgretolarne la compagine e di spezzarne la rete organizzativa, abbia tratto nessun altro insegnamento che non sia quello della liceità dell'applicazione di una uguale tattica nel seno del partito; che vi sia un compagno il quale, dalla viva polemica che stiamo conducendo contro i riformisti per rivendicare il nostro diritto ad organizzare le nostre frazioni comuniste nei sindacati, tragga la convinzione che un uguale diritto sia concedibile ai singoli compagni nell'interno del partito, è cosa davvero triste e sconsolante.

Quale differenza vi è tra un partito opportunista contro il quale si lotta, dal quale si vuole strappare gli elementi operai rivoluzionari che ancora vi sono inquadrati, nel cui seno si provoca quindi la formazione di una frazione, la quale deve cercare di restarvi il più a lungo possibile per potere sempre più profondamente portarvi il perturbamento, l'inerzia, la dispersione, ed un partito comunista? Quale differenza vi è fra principi di organizzazione e principi di tattica? Il nostro segretario risponde a questi interrogativi con un'unica monosillabica risposta: nessuna.

Quando il Partito massimalista espulse la frazione terzinternazionalista noi gridammo al sopruso, all'arbitrio, al colpo di mano. Perché? Perché nessun statuto massimalista ha mai vietato l'esistenza di frazioni e anzi, appunto per non accettare questo principio, il Partito massimalista ruppe i suoi rapporti colla Internazionale; perché tale espulsione era motivata con l'alleanza costituita dai terzinternazionalisti col Partito comunista per un'azione comune antifascista, azione che i massimalisti non volevano condurre ed avrebbero voluto rendere impossibile anche agli altri gruppi o partiti proletari; perché tale espulsione era in pieno contrasto col criterio di "libertà per tutti" che i massimalisti inalberavano come stendardo della loro organizzazione opportunista. 

Ed invece il compagno segretario federale di Teramo aveva creduto che, rivendicando il diritto di cittadinanza nel Partito massimalista alla frazione terzinternazionalista, noi sostenessimo un principio generale ed assoluto proprio di tutte le organizzazioni politiche, di tutti i partiti, anche del Partito comunista. Ed era per lui questo l'argomento principe per far tacere gli anarchici e le loro accuse che continuamente gli ronzano nelle orecchie. Quali argomenti potrà ancora trovare per controbattere le scemenze di costoro ora che la Centrale del partito afferma niente di meno, di voler "schiacciare" ogni movimento tendente a creare una frazione? 

Rinunciamo a parlare del richiamo alla nostra lotta nei sindacati contro i dirigenti riformisti i quali tentano di impedirci un'azione organizzata contro la loro attività anticlassista. Siamo qui veramente ai primi elementari precetti del comunismo: che diversità vi è tra un sindacato e un partito? Il segretario federale di Teramo che fu già buon organizzatore sindacale dovrebbe esserci maestro in queste quistioni nelle quali invece miseramente si incaglia. Ma ciò è ben naturale. Sostenere il diritto alla frazione nel seno del nostro partito non può essere che la conseguenza dell'ignoranza completa di tutte le tesi di tutti i congressi dell'Internazionale. E ciò spiega ampiamente gli errori madornali sui quali abbiamo dovuto intrattenerci. 
("L'Unità", 25 giugno 1925)

Rettifiche

Vi è un opportunismo dei più pericolosi per un partito rivoluzionario, ed è quello che gli suggerisce e consiglia una determinata tattica non già perché essa lo avvicina di più alle masse, o perché fa comprendere a queste il contenuto di una determinata situazione storica, o perché lo sospinge verso uno sbocco di detta situazione più favorevole alla lotta rivoluzionaria, o perché provoca il superamento di una situazione e un passo verso una situazione più avanzata della guerra di classe; ma che basa una determinata tattica sul timore delle critiche dei partiti avversari, proletari o peggio borghesi; quasi che vi possa essere un episodio qualunque della tattica di un partito rivoluzionario che non provochi le più aspre critiche, per più precise rampogne, le accuse più veementi contro di esse.

Il giudizio degli avversari non deve mai essere un elemento delle decisioni di un partito comunista, il quale non deve preoccuparsi che del giudizio delle masse e della necessità della sua azione, la quale, sempre, urta e cozza contro gli interessi, le intenzioni, la tattica degli altri partiti.
("L'Unità", 9 luglio 1925)

Per una lettera del compagno Ferragni

I commenti del compagno Ferragni dimostrano che egli non ha una giusta concezione delle funzioni che spettano in un Partito comunista al Comitato centrale. Il Comitato centrale è, in qualsiasi momento della vita del partito, il solo potere e non abdica mai, per nessun motivo e in nessuna circostanza, a nessuna parte della sua autorità. 

E' bene che questo principio venga ricordato, perché non è escluso che le obiezioni che si muovono ora, in sede di preparazione congressuale, vengano avanzate anche in circostanze e per motivi molto più gravi. 

Per fare un esempio, il primo che ci corre alla mente: quando esisterà nel partito un potere militare, esso sarà in ogni caso e sempre subordinato al potere e al controllo del Comitato centrale. A parte questo esempio, una rinuncia del Comitato centrale ai suoi poteri in precedenza del congresso, per lasciare "libera" di formarsi l'opinione del partito, non è concepibile se non in un organismo socialdemocratico. Per noi, la "libertà" è garantita appunto dal fatto che la Centrale non rinuncia al suo potere, ma continua a esercitarlo normalmente per regolare e dirigere la discussione preparatoria. 

L'errore dell'attuale Comitato centrale consisterebbe però nel fatto che esso, nel regolare la discussione, non dimentica di avere una sua opinione, anzi, fa attiva propaganda perché essa abbia ad essere compresa, accolta e condivisa dalla maggioranza degli inscritti. Anche su questo punto, la risposta nostra sta nell'ammettere che la cosa viene fatta, nell'affermare, anzi, che essa viene fatta con piena certezza di far bene e di adempiere a un dovere. 

Nemmeno in condizioni "normali" il Comitato centrale non è mai un organismo il quale possa assistere passivamente a una discussione che si svolge nel partito. Questo per il semplice fatto che la discussione parte da esso, che nel seno di esso le aspirazioni divergenti si formano e vengono a un primo contrasto; che non è in linea generale possibile concepire una tendenza che in seno ad esso non sia rappresentata. Questo fatto risolve, anzi tronca, ogni problema della legittimità e delle forme dell'azione regolatrice della Centrale sul dibattito. E' la centrale stessa, infatti, che deve discutere di esso e deciderne la portata. 

La tutela della minoranza si esercita nel suo seno, e la minoranza formatasi nel Comitato centrale è per questo solo fatto riconosciuta come una corrente di opinione nel partito. Essa avrà i suoi rappresentanti nelle commissioni che elaborano le tesi, presenterà emendamenti a seconda che crederà opportuno e così via. Il "riconoscimento" di essa non giungerà però mai a ispirare provvedimenti che ledano la compagine del partito o spezzino il processo di formazione "organica" - e non "parlamentare" - del suo centro dirigente. L'integrità di quella compagine e la continuità di questo processo non hanno garanzia se non nel fatto che la Centrale non sopprima mai se stessa come organismo che ha un pensiero, una volontà, un potere.
("L'Unità", 1 ottobre 1925)

Contro lo scetticismo

Nella nota dell'articolo precedente del compagno Bordiga rilevavamo come carattere essenziale di esso fosse il dubbio, lo scetticismo, la diffidenza e la cura di non opporre concretamente una soluzione propria alle questioni discusse. Nell'articolo che segue, la critica alla politica dell'Internazionale è ristretta al "metodo di lavoro", e questo ancora è circoscritto ai rapporti fra i dirigenti, le sezioni nazionali e il centro dell'internazionale. 

La Centrale del partito risponderà ampiamente, anche in linea di fatto, al compagno Bordiga. Ma intanto occorre rilevare che la posizione da lui presa è invariabilmente la seguente: egli rimane all'opposizione perché "non si fida". Ma non occorre ripetere che la sfiducia metafisica si può applicare a chiunque, non escluso il compagno Bordiga. Qualunque sia la dirigenza internazionale può allora sempre avvenire che sulla linea attuale di Bordiga si stacchi una tendenza la quale giustifichi il proprio "astensionismo" col pretesto di "non fidarsi". 

Il compagno Bordiga osserva: ma perché fare delle proposte alla socialdemocrazia, quando si riconosce che essa è l'ala sinistra della borghesia? Ciò che il compagno Bordiga non comprende è questo: che si tratta di un'ala sinistra borghese, la quale comanda a una parte notevole o addirittura alla maggioranza del proletariato, la quale lo ignora; che il partito non deve privarsi della possibilità che la situazione gli offre di combattere le illusioni operaie anche dall'interno, e di dimostrare agli operai "coi fatti" che la socialdemocrazia è la mano sinistra della borghesia; che, fino a quando la maggioranza decisiva del proletariato non sarà passata sotto le nostre bandiere, è questa la vera lotta di classe che noi dobbiamo condurre contro la socialdemocrazia. 

Certo, si tratta di una tattica che comporta pericoli; tuttavia essa è incontestabilmente giusta. Il problema consiste nell'evitare i pericoli e nel saperla rettamente applicare. Abbandonarla per timore del pericolo, è un altro opportunismo: opportunismo di sinistra.

Sull'operato del Comitato centrale del partito

"L'Unità", 20 dicembre 1925

1) La linea politica adottata dalla Centrale e seguita dal V Congresso in poi è stata pienamente adeguata alla situazione politica italiana, ha consentito al nostro partito di sviluppare le sue forze, e lo ha portato ad avere un grado di influenza politica reale quale esso mai aveva posseduto. Essa ha fatto compiere al partito passi considerevoli sulla via di una preparazione rivoluzionaria effettiva. Noi siamo oggi collegati politicamente con la classe operaia in modo di gran lunga superiore a quanto mai non siamo stati durante la vita del nostro partito. Noi abbiamo inoltre, favoriti dalla situazione oggettiva, risolutamente impostato e avviato a una soluzione il problema del collegamento politico con la classe dei contadini, in modo come prima non si era riusciti a fare. 

Affermiamo che la linea seguita dal partito durante il primo periodo della sua esistenza, e soprattutto quando si resero acuti i dissensi con l'Internazionale, non avrebbe mai potuto portarci al punto in cui ora ci troviamo. Se il partito avesse adottato la tattica che Bordiga propugna, esso non avrebbe in nessun modo potuto trarre profitto dalla situazione determinatasi dopo il delitto Matteotti, non sarebbe affatto riuscito a esercitare in ogni momento della sua azione una influenza sopra vasti strati di massa, sarebbe venuto meno al compito di strappare le masse lavoratrici all'influenza dei partiti intermedi controrivoluzionari, e di estendere quindi gradualmente la sua influenza sino al grado attuale. 

Affermiamo che soltanto la tattica che la Centrale ha seguito, in conformità con i deliberati dei congressi mondiali, negli ultimi due anni, ha consentito di porre nei suoi termini reali il problema di creare in Italia il partito della classe operaia come partito di massa e non come setta completamente staccata dalle masse e fossilizzata nella ripetizione di una vuota fraseologia rivoluzionaria. Affermiamo inoltre che un ritorno alla tattica "bordighiana" ci farebbe perdere rapidamente tutto ciò che abbiamo acquistato, e avrebbe quindi le più gravi conseguenze non solo per il partito, ma anche per la classe operaia. 

Posta tra la organizzazione settaria "bordighiana" e le formazioni politiche controrivoluzionarie in sfacelo (massimalisti, unitari, aventiniani e simili) la classe operaia ricadrebbe nella passività, nella inerzia, nella disgregazione, dalle quali invece noi la stiamo strappando;

2) per quanto riguarda la politica del partito nel periodo tra il IV e il V Congresso mondiale, se è vero che in quel periodo vi furono, per quanto riguarda le stesse direttive generali, delle incertezze ed oscillazioni, è altrettanto vero che la responsabilità di questo fatto risale a chi, per condurre una lotta contro l'Internazionale, non aveva esitato ad aprire nel partito una gravissima crisi, soprattutto favorendo la formazione di una "destra" che non trovava una ragione d'essere altro che per la sua "fedeltà" alle direttive della Internazionale contro le quali il partito veniva schierato. Seguire Bordiga oggi, vorrebbe dire riprodurre una situazione eguale a quella di allora. Ma, per fortuna, non vi è nessun segno che il partito voglia seguirlo;

3) per quanto riguarda l'organizzazione noi non esitiamo ad affermare che una organizzazione qual ebbe il nostro partito nel primo periodo della sua esistenza, se rappresentò un progresso enorme in confronto della consuetudine socialdemocratica e massimalista e se era adeguata alla situazione di allora, non sarebbe in nessun modo adeguata a risolvere i problemi che oggi al partito si sono posti, in prima linea il problema di mantenere in qualsiasi condizione i contatti con i più vasti strati della classe operaia, e il problema di funzionare come una parte della classe operaia stessa. Il problema di organizzare il partito comunista come parte della classe operaia e come partito di massa fu posto solo dalla attuale Centrale. La Centrale che fu guidata da Bordiga non vide questo problema, in conseguenza del suo indirizzo politico generale. Che oggi esso sia risolto, noi non lo diciamo, certo esso è impostato bene e si sono fatti enormi progressi verso la sua risoluzione;

4) quanto al lavoro pratico di organizzazione, noi non crediamo che tutto dalla attuale Centrale sia fatto bene. Crediamo che difetti e manchevolezze ve ne furono, e ve ne sono tuttora. Se però noi teniamo conto delle condizioni in cui il lavoro del partito si è svolto dopo il V Congresso mondiale non possiamo fare a meno di dire che questi difetti scompaiono di fronte alla enorme opera riorganizzativa compiuta per giungere alla situazione odierna, partendo da una situazione in cui tutta la vecchia impalcatura era crollata e dovette essere ricostruita con nuovi criteri e impiegando "materiale" nuovo. 

Il compagno Bordiga queste cose le sa; così come egli sa che, tenendo conto delle diverse condizioni oggettive (oggi per fare arrivare una lettera dal centro alla periferia occorre un "lavoro" dieci volte più grande di quanto ne occorresse ai tempi di Bordiga), l'apparato attuale del partito è più piccolo di quello di una volta, il che vuol dire che è minore, relativamente, il numero dei funzionari. Ma anche se essi fossero di più, noi affermiamo che essi sono scelti in base al più rigoroso criterio, e che in base ai più rigorosi criteri il loro lavoro viene controllato. Noi siamo certi che i tanto deprezzati "funzionari" del partito sono oggi un gruppo disciplinato e cosciente di "rivoluzionari professionali" che alla causa del partito e della classe operaia non verranno mai meno;

5) rimane a vedere se sia vero che la Centrale ha "avvelenato la convivenza" nel partito col settarismo. Orbene, se Bordiga si riferisce, come non v'è dubbio, alla energica e implacabile azione della Centrale per stroncare il tentativo frazionista che prese nome dal "Comitato d'intesa", noi non dobbiamo dirgli altro se non che siamo pronti, oggi, domani e sempre, quando un altro tentativo di quel genere fosse compiuto un'altra volta, a stroncarlo con la stessa implacabile energia. 

Non solo, ma siamo convinti che, quando a tutti i compagni sarà noto il punto a cui l'azione disgregatrice del Comitato d'intesa stava per arrivare, essi troveranno che forse si doveva essere anche più aspri nello stigmatizzare l'azione. Chi nel Partito comunista vuole lavorare disciplinato, sulle direttive che l'Internazionale ha tracciato e collaborando per l'applicazione di esse, non troverà mai che la convivenza nelle sue file è "avvelenata". Ma per chi volesse ripetere l'insano tentativo di spezzare l'unità del partito, di porlo contro l'Internazionale, di disgregarne la compagine, per questi, non vi è dubbio, l'aria del nostro partito, dopo il III Congresso, sarà poco respirabile.

Intervento nella Commissione politica
Intervento dal verbale di riunione

"L'Unità", 24 febbraio 1926

(…) Vi è tra il lavoro di "bolscevizzazione" che oggi si sta compiendo e l'azione esercitata da Carlo Marx in seno al movimento operaio una analogia fondamentale. Si tratta, oggi come allora, di combattere contro ogni deviazione della dottrina e della pratica della lotta di classe rivoluzionaria, e la lotta si svolge nel campo ideologico, in quello organizzativo e in quello che si riferisce alla tattica e alla strategia del Partito del proletariato. 

Nel nostro partito però la discussione più ampia si è svolta sul piano organizzativo: ciò si spiega perché oggi è su questo piano che le conseguenze delle diverse posizioni ideologiche e tattiche appaiono immediatamente evidenti a tutti i compagni, anche a quelli che sono meno preparati a un dibattito puramente teorico. 

Tutti i punti di dissenso che esistono tra la Centrale del partito e la estrema sinistra si possono raggruppare attorno a tre fondamentali problemi: 

1) il problema dei rapporti tra il Centro dirigente del partito e la massa dei compagni iscritti ad esso; 

2) il problema dei rapporti tra il Centro dirigente e la classe operaia;

3) il problema dei rapporti tra la classe operaia e le altre classi anticapitalistiche. 

Tutti questi rapporti devono essere stabiliti in modo esatto se si vuole poter giungere alla conclusione storica della dittatura del proletariato. Perché si giunga a questa conclusione infatti è necessario che la classe operaia diventi classe dirigente della lotta anticapitalistica, che il Partito comunista diriga la classe operaia in questa lotta, e che esso sia internamente costruito in modo da poter adempiere a questa sua funzione fondamentale. 

Ognuno dei tre problemi accennati si collega quindi al fondamentale problema della attuazione del compito rivoluzionario del Partito comunista. Ai primi due problemi è collegata la questione della natura del partito e degli organi che lo dirigono. Noi riteniamo che nel definire il partito è necessario sottolineare il fatto che esso è una "parte" della classe operaia, mentre la estrema sinistra trascura e sottovaluta questo lato della definizione del partito per dare invece importanza fondamentale al fatto che il partito è un "organo" della classe operaia. 

La nostra posizione deriva da ciò che noi riteniamo si debba porre nel massimo rilievo il fatto che il partito è unito alla classe operaia non solo da legami ideologici, ma anche da legami di carattere "fisico". E questo è in stretta relazione con i compiti che debbono essere attribuiti al partito nei confronti della classe operaia. 

Secondo la estrema sinistra il processo di formazione del partito è un processo "sintetico"; per noi esso invece è un processo di carattere storico e politico, legato strettamente a tutto uno sviluppo della società capitalistica. La diversa concezione porta a determinare in modo diverso la funzione e i compiti del partito. Tutto il lavoro che il partito deve compiere per elevare il livello politico delle masse, per convincerle e portarle sul terreno della lotta di classe rivoluzionaria viene, in conseguenza della errata concezione della estrema sinistra, svalutato e ostacolato, per via del distacco iniziale che si è creato tra il partito e la classe operaia. 

La errata concezione che ha l'estrema sinistra circa la natura del partito ha innegabilmente un carattere di classe. Non già che, come avvenne in seno al Partito socialista, si tenda a far prevalere in seno alla organizzazione politica del proletariato la influenza di altre classi, ma nel senso che si dà una errata valutazione del peso che nel partito debbono avere i diversi elementi che la compongono. La concezione della estrema sinistra, la quale pone su uno stesso piano gli operai e gli elementi che provengono da altre classi sociali e non si preoccupa di salvaguardare il carattere proletario del partito, corrisponde a una situazione in cui gli intellettuali erano gli elementi politicamente e socialmente più avanzati, ed erano quindi destinati ad essere gli organizzatori della classe operaia. 

Oggi, secondo noi, gli organizzatori della classe operaia devono essere gli operai stessi. Occorre quindi, nel definire il partito, sottolineare in modo particolare quella parte della definizione che mette in rilievo la intimità dei rapporti che esistono tra esso e la classe da cui esso sorge. Questo problema di natura teorica ha dato origine alla discussione sulla organizzazione per "cellule", cioè secondo la base della produzione. E' stato anzi questo il punto che nella discussione preparatoria del congresso è stato toccato più e dal maggior numero di compagni. 

Tutti gli argomenti di carattere pratico che rendono utile e indispensabile la trasformazione della organizzazione del partito sulla base delle cellule sono quindi stati ampiamente esposti e i compagni li conoscono. La estrema sinistra presenta delle obiezioni, di cui le principali consistono in una sopravvalutazione del problema di superare la concorrenza tra diverse categorie di operai, cioè del problema della unificazione classista del proletariato. E' certo che questo problema esiste ma è un errore fare di esso un problema fondamentale, dal quale debba essere determinata la forma che il partito dà alla sua organizzazione. Questo problema inoltre ha trovato in Italia una risoluzione già da tempo nel campo sindacale, e la esperienza ha dimostrato che la organizzazione per fabbrica consente di combattere con la maggiore efficacia ogni residuo di corporativismo e di spirito di categoria. 

In realtà, se il problema che la estrema sinistra sembra presentare come fondamentale e dal quale sono determinate le sue preoccupazioni fosse davvero problema essenziale nell'attuale periodo storico, in Italia, allora veramente gli intellettuali sarebbero organizzativamente l'avanguardia del movimento rivoluzionario. Ma così invece non è. 

Una seconda questione fondamentale è quella dei rapporti che debbono essere stabiliti tra la classe operaia e le altre classi anticapitalistiche. E' questo un problema che può essere risolto soltanto dal partito della classe operaia mediante la sua politica. In nessun paese il proletariato è in grado di conquistare il potere e di tenerlo con le sole sue forze: esso deve quindi procurarsi degli alleati, cioè deve condurre una tale politica che gli consenta di porsi a capo delle altre classi che hanno interessi anticapitalistici e guidarle nella lotta per l'abbattimento della società borghese. La questione è particolarmente importante in Italia, dove il proletariato è una minoranza della popolazione lavoratrice ed è disposto geograficamente in forma tale che non può presumere di condurre una lotta vittoriosa per il potere se non dopo avere data una esatta risoluzione al problema dei suoi rapporti con la classe dei contadini. 

Alla impostazione e risoluzione di questo problema dovrà dedicarsi in particolar modo il nostro partito nel prossimo avvenire. Esiste del resto una reciprocità tra il problema della alleanza tra operai e contadini e il problema della organizzazione della classe operaia e del partito; questi ultimi saranno risolti più agevolmente se il primo sarà stato avviato a una soluzione. Il problema della alleanza tra operai e contadini è stato già impostato dalla Centrale del partito, ma non si può affermare che tutti i compagni ne abbiano bene compreso i termini e abbiano la capacità di lavorare per la risoluzione di esso, e ciò soprattutto nelle zone dove occorrerebbe lavorare di più e meglio, cioè nel Mezzogiorno. 

Così la estrema sinistra fa oggetto di critica tutta la azione che Centrale ha svolto verso Miglioli, esponente della sinistra contadina nel Partito popolare. Queste critiche dimostrano che la estrema sinistra non coglie i termini e la importanza del problema dei rapporti tra il proletariato e le altre classi anticapitalistiche. L'azione che il partito ha condotto verso Miglioli è stata condotta appunto allo scopo di aprire la via alla alleanza tra gli operai e i contadini per la lotta contro il capitalismo e contro lo Stato borghese. Sullo stesso piano si pone la questione del Vaticano come forza politica controrivoluzionaria. La base sociale del Vaticano è data appunto dai contadini, che i clericali hanno sempre considerato come esercito di riserva della reazione e che si sono sforzati di mantenere sempre sotto il loro controllo. 

La realizzazione della alleanza tra operai e contadini per la lotta contro il capitalismo suppone la distruzione della influenza del Vaticano sui contadini dell'Italia centrale e settentrionale in particolar modo. La tattica seguita dal partito verso Miglioli tende precisamente a questo scopo. Il problema dei rapporti tra il proletariato e le altre classi anticapitalistiche non è che uno dei problemi della tattica e della strategia del partito. 

Anche sugli altri punti esiste un profondo dissenso fra la Centrale e l'estrema sinistra. La Centrale ritiene che la tattica del partito deve essere determinata dalla situazione e dal proposito di conquistare una influenza decisiva sopra la maggioranza della classe operaia, per poterla guidare di fatto verso la rivoluzione. La estrema sinistra ritiene che la tattica deve essere determinata da preoccupazioni di natura formale e che il partito non deve porsi in ogni momento il problema della conquista della maggioranza, ma limitarsi per lunghi periodi di tempo ad una semplice azione di propaganda dei suoi principi politici generali. L'esempio migliore della natura ed estensione del dissenso si ha nella tattica seguita dal partito dopo il delitto Matteotti e nelle critiche che la estrema sinistra muove ad essa. 

E' certo che in un primo momento, cioè subito dopo il delitto Matteotti, le opposizioni costituzionali erano il fattore predominante della situazione, e che le loro forze erano essenzialmente date dalla classe operaia e dai contadini. Era quindi in sostanza la classe operaia la quale si trovava sopra una posizione sbagliata e si muoveva senza avere coscienza della propria funzione e della posizione politica che le spettava nel quadro delle forze in contrasto. Bisognava far acquistare alla classe operaia coscienza di questa sua funzione e posizione. 

Che atteggiamento doveva assumere a questo scopo il nostro partito? Sarebbe stato sufficiente lanciare delle parole di propaganda e condurre una campagna di critica ideologica e politica tanto contro il fascismo quanto contro la opposizione costituzionale (Aventino)? No, questo non sarebbe stato sufficiente. La propaganda e la critica politica che si svolgono sugli organi del partito hanno una cerchia di influenza molto ristretta; esse non giungono molto al di là delle masse degli iscritti. Era necessario condurre una azione politica, e questa doveva essere diversa nei riguardi del fascismo e delle opposizioni. Infatti, anche la estrema sinistra asserisce che i fattori della situazione in quel momento erano tre: il fascismo, le opposizioni e il proletariato. 

Questo vuol dire che tra i due primi noi dovevamo fare una distinzione e porci, non solo teoricamente, ma praticamente, il problema di disgregare socialmente e quindi politicamente le opposizioni, per togliere loro le basi che avevano tra le masse. A questo scopo fu rivolta la azione politica del partito verso le opposizioni. E' certo che, per il proletariato e per noi in quel momento esisteva un problema fondamentale: quello di rovesciare il fascismo. Appunto perché volevamo che il fascismo fosse abbattuto con qualsiasi mezzo, le masse seguivano in grandissima parte le opposizioni. E in realtà non si deve negare che se il governo di Mussolini fosse caduto, con qualunque mezzo lo si fosse fatto cadere, si sarebbe aperta in Italia una crisi politica assai profonda, di cui nessuno avrebbe potuto prevedere o frenare gli svolgimenti. 

Ma questo sapevano anche le opposizioni e perciò esse esclusero fin dall'inizio "un" modo di far cadere il fascismo, che era il solo possibile, cioè la mobilitazione e la lotta delle masse. Escludendo questo solo possibile modo di far cadere il fascismo le opposizioni in realtà tennero in piedi il fascismo, furono il più efficiente puntello del regime in dissoluzione. 

Ebbene, noi, con la azione politica svolta verso le opposizioni (uscita dal Parlamento, partecipazione alla assemblea delle opposizioni, uscita da essa) riuscimmo a rendere evidente alle masse questo fatto, cosa che assolutamente non ci sarebbe riuscito di fare con una semplice attività di propaganda, di critica, ecc. Noi riteniamo che la tattica del partito deve sempre avere il carattere che ebbe allora la tattica nostra: il partito deve portare alle masse i problemi in modo reale e politico, se vuole ottenere dei risultati. 

Il problema della conquista di una influenza decisiva sopra la maggioranza della classe operaia e quello dell'alleanza tra gli operai e i contadini sono strettamente collegati con il problema militare della rivoluzione, che si pone oggi a noi in modo del tutto particolare dato l'ordinamento delle forze armate che la borghesia italiana ha al suo servizio. Anzitutto vi è un esercito nazionale, il quale è però estremamente ridotto e nel quale esiste una altissima percentuale di ufficiali che controlla la massa dei soldati. E' quindi tutt'altro che facile esercitare una influenza sull'esercito in modo da averlo alleato in un momento rivoluzionario. Nella migliore delle ipotesi e secondo quanto è possibile prevedere oggi, l'esercito potrà restare neutrale. 

Ma oltre l'esercito vi sono dei corpi armati numerosissimi (polizia, carabinieri, milizia nazionale) i quali sono ben difficilmente influenzabili dal proletariato. In conclusione su 600 mila armati che la borghesia ha al suo servizio, 400 mila almeno non sono conquistabili alla politica della classe operaia. Il rapporto delle forze che esiste tra il proletariato e la borghesia è quindi modificabile soltanto in conseguenza di una lotta politica che il partito della classe operaia abbia condotto e che lo abbia portato a collegarsi e a dirigere la maggioranza della popolazione lavoratrice. 

La concezione tattica della sinistra è un ostacolo alla attuazione di questo compito. Tutti i problemi che si sono presentati nella discussione tra la centrale del partito e la estrema sinistra sono legati alla situazione internazionale e ai problemi della organizzazione internazionale del proletariato, cioè della Internazionale comunista. La estrema sinistra assume in questo campo un atteggiamento singolare analogo in parte a quello dei massimalisti, in quanto considera la Internazionale comunista come una organizzazione di fatto, alla quale si oppone la "vera" Internazionale che ancora dovrebbe essere creata. Questo modo di presentare le questioni contiene in sé, potenzialmente, un problema di scissione. 

Gli atteggiamenti assunti dalla estrema sinistra in Italia prima e durante la discussione precongressuale (frazionismo) ne hanno del resto data la prova. Occorre esaminare quale è la situazione del nostro partito quale organismo internazionale. Nel 1921 il nostro partito si è costituito sul terreno indicato dalle tesi e dalle risoluzioni dei primi due congressi della Internazionale comunista. Chi si è staccato da queste tesi per assumere una posizione contrastante con quelle della Internazionale? Non la Centrale del partito che è ora fondamentalmente la stessa che venne eletta dai congressi di Livorno e di Roma, ma un gruppo di dirigenti del partito, quelli che costituiscono la tendenza della estrema sinistra. 

La posizione di questo gruppo è errata, e il partito, opponendosi ad essa e condannandola, non fa che continuare la sua tradizione politica. L'ampiezza della discussione che si è fatta e si dovrà fare al congresso con i compagni della estrema sinistra deriva dal fatto che questi compagni, per individuarsi nel partito come frazione, hanno sentito il bisogno di differenziarsi sopra tutti i problemi che potevano essere posti in discussione, conducendo in pari tempo una azione che avrebbe potuto portare alla disgregazione della base del partito. Questa azione dovrà essere condannata dal congresso e dovrà essere esclusa per l'avvenire la possibilità di essa. 

La discussione che si svolgerà a questo congresso ha una enorme importanza in quanto tocca tutti i problemi della rivoluzione italiana e interessa quindi profondamente lo sviluppo del nostro partito per un intero periodo storico. Occorre quindi che ogni compagno abbia coscienza della responsabilità proletaria e rivoluzionaria che gli incombe. 

La discussione che si svolge tra il Comitato centrale e la estrema sinistra del partito non è una discussione puramente accademica. La estrema sinistra ad esempio dà del partito una definizione che la porta a compiere degli errori di tattica. Questo è avvenuto nel periodo in cui essa era nella direzione del partito. Lo stesso dicasi per quanto riguarda la analisi dei movimenti e dei partiti della borghesia. Per il fascismo ad esempio. Quando il fascismo sorse e si sviluppò in Italia come bisognava considerarlo? Era esso soltanto un organo di combattimento della borghesia, oppure era anche un movimento sociale? La estrema sinistra che allora dirigeva il partito non lo considerò che sotto il primo aspetto, e questo errore ebbe come conseguenza che non si riuscì ad arginare la avanzata del fascismo come forse sarebbe stato possibile fare. Nessuna azione politica venne compiuta per impedire l'avvento al potere del fascismo. 

La Centrale di allora commise l'errore di pensare che la situazione del 1921-22 potesse protrarsi e consolidarsi, e che non fosse né necessario né possibile l'avvento al potere di una dittatura militare. Questo errore di valutazione era la conseguenza di un errato sistema di analisi politica, cioè del sistema che Bordiga oggi oppone a quello sostenuto dal Comitato centrale, che è il sistema leninista. La situazione italiana è caratterizzata dal fatto che la borghesia è organicamente più debole che in altri paesi e si mantiene al potere solo in quanto riesce a controllare e dominare i contadini. Il proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza della borghesia e porli sotto la sua guida politica. Questo è il punto centrale dei problemi politici che il partito dovrà risolvere nel prossimo avvenire. 

E' certo che si debbono esaminare con attenzione anche le diverse stratificazioni della classe borghese. Anzi occorre esaminare la stratificazione del fascismo stesso perché, dato il sistema totalitario che il fascismo tende ad instaurare, sarà nel seno stesso del fascismo che tenderanno a risorgere i conflitti che non si possono manifestare per altre vie. La tattica del partito nel periodo Matteotti ha cercato sempre di tenere conto delle stratificazioni della borghesia, e la nostra proposta dell'antiparlamento fu fatta allo scopo di giungere a prendere contatto con masse arretrate le quali erano fino ad allora rimaste sotto il controllo di strati della grande o della piccola borghesia. E' certo che vi sono delle masse di contadini nel Mezzogiorno le quali solo quando noi facevamo la proposta di antiparlamento vennero a conoscere la esistenza di un Partito comunista. 

Riguardo al problema delle cellule il compagno Bordiga confonde la concorrenza corporativa tra le diverse categorie operaie con la scissione politica della classe operaia. Oggi è essenziale combattere contro la scissione politica della classe operaia, ed è una scissione politica quella che i fascisti cercano di tenere aperta nel seno del proletariato, mentre la lotta contro la concorrenza corporativa, se pure deve essere condotta, non è un problema essenziale. Certamente non è vero quanto afferma Bordiga, e cioè che il problema della organizzazione del partito si ponga per noi in termini essenzialmente diversi che per il partito russo, il quale era organizzato sulla base della produzione. Bordiga afferma che lo zarismo era una forma reazionaria e non una forma capitalistica. Questo non è vero. Basta conoscere la storia della rivoluzione del 1905 e del modo come si è sviluppato il capitalismo in Russia prima e durante la guerra per essere in grado di smentire l'affermazione di Bordiga. 

Il problema che oggi si pone a noi, e che è in fondo lo stesso che si poneva al partito russo sotto la reazione, è quello del livellamento e della unificazione politica della classe operaia. Per risolvere questo problema il partito deve essere organizzato sulla base delle cellule di officina. Assolutamente inadeguata la soluzione propugnata dalla estrema sinistra di fare delle cellule semplici organi di lavoro del partito. Esistono oggi nel partito due organismi di lavoro: il comitato sindacale e il gruppo parlamentare, ed essi sono proprio i due punti deboli del partito stesso. Non ci può essere organismo di lavoro il quale non sia in pari tempo organismo politico. 

Se noi dessimo al problema delle cellule la soluzione propugnata dalla estrema sinistra verremmo alla conseguenza che le cellule o non lavorerebbero più politicamente come invece debbono fare oppure diventerebbero il veicolo di una deviazione del partito. Non è vero poi che la questione delle cellule, come dice Bordiga, non sia una questione di principio. Nel campo organizzativo essa è una questione di principio. Il nostro partito è un partito di classe e la organizzazione politica della avanguardia del proletariato. Compito dell'avanguardia del proletariato è quello di guidare tutta la classe operaia alla costruzione del socialismo. Ma per attuare questo compito appunto è necessario che la avanguardia del proletariato sia organizzata sulla base della produzione. Per quanto riguarda la tattica il compagno Bordiga, quando è costretto a dare alle sue critiche una veste concreta, si limita a dire che esistono dei "pericoli" nella applicazione della tattica leninista. Ma esistono pure gravissimi pericoli in conseguenza della applicazione della tattica di cui egli è fautore. 

E' vero che bisogna guardare alle conseguenze che la tattica del partito ha sulle masse operaie ed è pure vero che è da condannarsi una tattica la quale induca le masse nella passività. Ma proprio questo avvenne nel 1921-22 in conseguenza dell'atteggiamento tenuto dalla Centrale sulla questione degli arditi del popolo. (...) Quella tattica se da una parte corrispondeva alla esigenza di evitare che i compagni iscritti al partito fossero controllati da una centrale che non era la centrale del partito, servì d'altra parte a squalificare un movimento di massa che partiva dal basso e che avrebbe potuto invece essere politicamente sfruttato da noi. 

E' assurdo affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e una situazione reazionaria, e che, anzi, in una situazione democratica sia più disagevole il lavoro per la conquista delle masse. La verità è che oggi in una situazione reazionaria si lotta per organizzare il partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe per organizzare la insurrezione. (…) 

Bordiga ha detto che è favorevole alla conquista delle masse nel periodo immediatamente precedente alla rivoluzione. Ma come si fa a sapere quando si è in questo periodo? Dipende proprio dal lavoro che noi sappiamo svolgere tra le masse che questo periodo si inizi o meno. Solo se noi lavoriamo e otteniamo dei successi nelle conquiste delle masse si giunge al periodo prerivoluzionario. 

Il compagno Napoli ha protestato contro il modo che è stata condotta la campagna contro il frazionismo della estrema sinistra. Sostengo che quella campagna fu pienamente giustificata. Fui io a scrivere che il costituire una frazione nel partito comunista, nella situazione attuale nostra, era opera di agenti provocatori e sostengo ancora oggi quella affermazione. Se si tollera il frazionismo per gli uni, bisogna tollerarlo per tutti, e una delle vie che la polizia può seguire per rovinare i partiti rivoluzionari è proprio quella di far sorgere in seno ad essi dei movimenti di opposizione artificiali. 

Il compagno Napoli ha pure detto che se la Centrale ha fatto qualcosa di bene questo è stato per la pressione della periferia. E' molto strano che se alla periferia esisteva una così forte pressione di "sinistra", tutta questa forza di sinistra si sia poi squagliata in seguito ad alcuni commenti degli articoli della discussione. La realtà è che un vasto movimento di sinistra alla base non esisteva e che la costituzione della frazione fu una cosa del tutto artificiale. 

Quanto all'orientamento politico del partito alla base nel periodo Matteotti esso fu tutt'altro che di sinistra. La Centrale dovette fare uno sforzo per trascinare il partito sulle posizioni di opposizione tanto al fascismo che all'Aventino. Questa del resto era una conseguenza della situazione in cui si era trovato il partito nel 1923, anno in cui non aveva condotto una sua azione politica. Perciò mentre si era isolato dalle masse in pari tempo il partito seguiva la influenza delle masse stesse, le quali alla loro volta erano sotto la influenza di altri partiti. 

Sulla situazione attuale del partito non si può essere pessimisti. Il nostro partito è in una fase di sviluppo più avanzata degli altri partiti della Internazionale. Vi è in esso un nucleo proletario fondamentale stabile e si sta costituendo un centro omogeneo e compatto. Ma appunto per questo è necessario chiedere al nostro partito più di quanto non si chieda agli altri partiti della Internazionale, e la lotta contro il frazionismo può e deve essere condotta nel suo seno con la più grande decisione.

Tesi del III Congresso del Partito comunista d'Italia
Lione, gennaio 1926

1. La trasformazione dei partiti comunisti, nei quali si raccoglie l'avanguardia della classe operaia, in partiti bolscevichi, si può considerare, nel momento presente, come il compito fondamentale dell'Internazionale comunista. Questo compito deve essere posto in relazione con lo sviluppo storico del movimento operaio internazionale, e in particolare con la lotta svoltasi nell'interno di esso, tra il marxismo e le correnti che costituivano una deviazione dai principi e dalla pratica della lotta di classe rivoluzionaria. In Italia il compito di creare un partito bolscevico assume tutto il rilievo che è necessario soltanto se si tengono presenti le vicende del movimento operaio dai suoi inizi e le deficienze fondamentali che in esse si sono rivelate.

2. La nascita del movimento operaio ebbe luogo in ogni paese in forme diverse. Di comune vi fu in ogni luogo la spontanea ribellione del proletariato contro il capitalismo. Questa ribellione assunse però in ogni nazione una forma specifica, la quale era il riflesso e conseguenza delle particolari caratteristiche nazionali degli elementi che, provenendo dalla piccola borghesia e dai contadini, avevano contribuito a formare la grande massa del proletariato industriale. Il marxismo costituì l'elemento cosciente, scientifico e superiore al particolarismo delle varie tendenze di carattere e origine nazionale e condusse contro di esse una lotta nel campo teorico e nel campo dell'organizzazione. 

Tutto il processo formativo della I Internazionale ebbe come cardine questa lotta, la quale si conchiuse con la espulsione del bakuninismo dalla Internazionale. Quando la I Internazionale cessò di esistere, il marxismo aveva ormai trionfato nel movimento operaio. La II Internazionale si formò infatti di partiti i quali si richiamavano tutti al marxismo e lo prendevano come fondamento della loro tattica in tutte le questioni essenziali. Dopo la vittoria del marxismo, le tendenze di carattere nazionale delle quali esso aveva trionfato cercarono di manifestarsi per altra via, risorgendo nel seno stesso del marxismo come forme di revisionismo. 

Questo processo fu favorito dallo sviluppo della fase imperialistica del capitalismo. Sono strettamente connessi con questo fenomeno i seguenti tre fatti: il venir meno nelle file del movimento operaio della critica dello Stato, parte essenziale della dottrina marxista, alla quale si sostituiscono le utopie democratiche; il formarsi di un'aristocrazia operaia; un nuovo spostamento di masse dalla piccola borghesia e dai contadini al proletariato, quindi una nuova diffusione tra il proletariato di correnti ideologiche di carattere nazionale, contrastanti col marxismo. Il processo di degenerazione della II Internazionale assunse così la forma di una lotta contro il marxismo che si svolgeva nell'interno del marxismo stesso. Esso culminò nello sfacelo provocato dalla guerra. 

Il solo partito che si salvò dalla degenerazione è il Partito bolscevico, il quale riuscì a mantenersi alla testa del movimento operaio del proprio paese, espulse dal proprio seno le tendenze antimarxiste ed elaborò, attraverso le esperienze di tre rivoluzioni, il leninismo, che è il marxismo dell'epoca del capitalismo monopolista, delle guerre imperialiste e della rivoluzione proletaria. Viene così storicamente determinata la posizione del Partito bolscevico nella fondazione e a capo della III Internazionale, e sono posti i termini del problema di richiamare l'avanguardia del proletariato alla dottrina e alla pratica del marxismo rivoluzionario, superando e liquidando completamente ogni corrente antimarxista.

3. In Italia le origini e le vicende del movimento operaio furono tali che non si costituì mai, prima della guerra, una corrente di sinistra marxista che avesse un carattere di permanenza e di continuità. Il carattere originario del movimento operaio italiano fu molto confuso; vi confluirono tendenze diverse, dall'idealismo mazziniano al generico umanitarismo dei cooperatori e dei fautori della mutualità e al bakuninismo, il quale sosteneva che esistevano in Italia, anche prima dello sviluppo del capitalismo, le condizioni per passare direttamente al socialismo. La tarda origine e la debolezza dell'industrialismo fecero mancare l'elemento chiarificatore dato dalla esistenza di un forte proletariato, ed ebbero come conseguenza, che anche la scissione degli anarchici dai socialisti si ebbe con un ritardo di una ventina d'anni (1892, Congresso di Genova). 

Nel Partito socialista italiano come uscì dal Congresso di Genova due erano le correnti dominanti. Da una parte vi era un gruppo di intellettuali che non rappresentavano più della tendenza a una riforma democratica dello Stato: il loro marxismo non andava oltre il proposito di suscitare e organizzare le forze del proletariato per farle servire alla instaurazione della democrazia (Turati, Bissolati, ecc.). Dall'altra parte un gruppo più direttamente collegato con il movimento proletario, rappresentante una tendenza operaia, ma sfornito di qualsiasi adeguata coscienza teorica (Lazzari). Fino al '900 il partito non si propose altri fini che di carattere democratico. Conquistata nel '900, la libertà di organizzazione e iniziatasi una fase democratica, fu evidente la incapacità di tutti i gruppi che lo componevano a dargli una fisionomia di un partito marxista del proletariato. Gli elementi intellettuali si staccarono anzi sempre più dalla classe operaia, né ebbe un risultato il tentativo, dovuto a un altro strato di intellettuali e piccoli borghesi, di costituire una sinistra marxista che prese forma nel sindacalismo. 

Come reazione a questo tentativo trionfò in seno al partito la frazione integralista, la quale fu la espressione, nel suo vuoto verbalismo conciliatorista, di una caratteristica fondamentale del movimento operaio italiano, che si spiega essa pure con la debolezza dell'industrialismo, e con la deficiente coscienza critica del proletariato. Il rivoluzionarismo degli anni precedenti la guerra mantenne intatta questa caratteristica, non riuscendo mai a superare i confini del generico popolarismo per giungere alla costruzione di un partito di classe operaia e alla applicazione del metodo della lotta di classe. Nel seno di questa corrente rivoluzionaria si incominciò, già prima della guerra, a differenziare il gruppo di "estrema sinistra" il quale sosteneva le tesi del marxismo rivoluzionario, in modo saltuario però e senza riuscire ad esercitare sullo sviluppo del movimento operaio una influenza reale. 

In questo modo si spiega il carattere negativo ed equivoco che ebbe la opposizione del Partito socialista alla guerra e si spiega come il Partito socialista si trovasse, dopo la guerra, davanti ad una situazione rivoluzionaria immediata, senza avere né risolto, né posto nessuno dei problemi fondamentali che la organizzazione politica del proletariato deve risolvere per attuare i suoi compiti: in prima linea il problema della "scelta della classe" e della forma organizzativa ad essa adeguata; poi il problema del programma del partito, quello della sua ideologia, e infine i problemi di strategia e di tattica la cui risoluzione porta a stringere attorno al proletariato le forze che gli sono naturalmente alleate nella lotta contro lo Stato e a guidarlo alla conquista del potere. La accumulazione sistematica di una esperienza che possa contribuire in modo positivo alla risoluzione di questi problemi si inizia in Italia soltanto dopo la guerra. Soltanto col Congresso di Livorno sono poste le basi costitutive del partito di classe del proletariato il quale, per diventare un partito bolscevico e attuare in pieno la sua funzione, deve liquidare tutte le tendenze antimarxiste tradizionalmente proprie del movimento operaio.

Analisi della struttura sociale italiana

4. Il capitalismo è l'elemento predominante nella società italiana e la forza che prevale nel determinare lo sviluppo di essa. Da questo dato fondamentale deriva la conseguenza che non esiste in Italia possibilità di una rivoluzione che non sia la rivoluzione socialista. Nei paesi capitalistici la sola classe che può attuare una trasformazione sociale reale e profonda è la classe operaia. Soltanto la classe operaia è capace di tradurre in atto i rivolgimenti di carattere economico e politico che sono necessari perché le energie del nostro paese abbiano libertà e possibilità di sviluppo complete. Il modo come essa attuerà questa sua funzione rivoluzionaria è in relazione con il grado di sviluppo del capitalismo in Italia e con la struttura sociale che ad esso corrisponde.

5. L'industrialismo, che è la porta essenziale del capitalismo, è in Italia assai debole. Le sue possibilità di sviluppo sono limitate e per la situazione geografica e per la mancanza di materie prime. Esso non riesce quindi ad assorbire la maggioranza della popolazione italiana (4 milioni di operai industriali stanno di fronte a 3 milioni e mezzo di operai agricoli e a 4 milioni di contadini). Si oppone all'industrialismo una agricoltura la quale si presenta naturalmente come base della economia del paese. Le variatissime condizioni del suolo, e le conseguenti differenze di colture e sistemi di conduzione, provocano però una forte differenziazione dei ceti rurali, con una prevalenza degli strati poveri, più vicini alle condizioni del proletariato e più facili a subire la sua influenza e ad accettarne la guida. Tra le classi industriali ed agrarie si pone una piccola borghesia urbana abbastanza estesa e che ha importanza assai grande. Essa consta in prevalenza di artigiani, professionisti e impiegati dello Stato.

6. La debolezza intrinseca del capitalismo costringe la classe industriale ad adottare degli espedienti per garantirsi il controllo sopra tutta la economia del paese. Questi espedienti si riducono in sostanza a un sistema di compromessi economici tra una parte degli industriali e una parte delle classi agricole, e precisamente i grandi proprietari di terre. Non ha quindi luogo la tradizionale lotta economica tra industriali ed agrari, né ha luogo la rotazione di gruppi dirigenti che essa determina in altri paesi. Gli industriali non hanno d'altra parte bisogno di sostenere, contro gli agrari, una politica economica la quale assicuri il continuo afflusso di mano d'opera dalle campagne alle fabbriche, perché questo afflusso è garantito dalla esuberanza di popolazione agricola povera che è caratteristica dell'Italia. L'accordo industriale-agrario si basa sopra una solidarietà di interessi tra alcuni gruppi privilegiati, ai danni degli interessi generali della produzione e della maggioranza di chi lavora. Esso determina una accumulazione di ricchezza nelle mani dei grandi industriali, che è conseguenza di una spoliazione sistematica di intiere categorie della popolazione e di intiere regioni del paese. I risultati di questa politica economica sono infatti il deficit del bilancio economico, l'arresto dello sviluppo economico di intiere regioni (Mezzogiorno, Isole), l'impedimento al sorgere e allo sviluppo di una economia maggiormente adatta alla struttura del paese e alle sue risorse, la miseria crescente della popolazione lavoratrice, l'esistenza di una continua corrente di emigrazione e il conseguente impoverimento demografico.

7. Come non controlla naturalmente tutta la economia così la classe industriale non riesce a organizzare da sola la società intiera e lo Stato. La costruzione di uno Stato nazionale non le è resa possibile che dallo sfruttamento di fattori di politica internazionale (cosiddetto Risorgimento). Per il rafforzamento di esso e per la sua difesa è necessario il compromesso con le classi sulle quali la industria esercita una egemonia limitata, particolarmente gli agrari e la piccola borghesia. Di qui una eterogeneità e una debolezza di tutta la struttura sociale e dello Stato che ne è espressione.

7 bis. Un riflesso della debolezza della struttura sociale si ha, in modo tipico, prima della guerra, nell'esercito. Una cerchia ristretta di ufficiali, sforniti del prestigio di capi (vecchie classi dirigenti agrarie, nuove classi industriali), ha sotto di sé una casta di ufficiali subalterni burocratizzata (piccola borghesia), la quale è incapace di servire come collegamento con la massa dei soldati indisciplinata e abbandonata a se stessa. Nella guerra tutto l'esercito è costretto a riorganizzarsi dal basso, dopo una eliminazione dei gradi superiori e una trasformazione di struttura organizzativa che corrisponde all'avvento di una nuova categoria di ufficiali subalterni. Questo fenomeno precorre l'analogo rivolgimento che il fascismo compirà nei confronti dello Stato su scala più vasta.

8. I rapporti tra industria e agricoltura, che sono essenziali per la vita economica di un paese e per la determinazione delle sovrastrutture politiche, hanno in Italia una base territoriale. Nel Settentrione sono accentrate in alcuni grandi centri la produzione e la popolazione agricola. In conseguenza di ciò, tutti i contrasti inerenti alla struttura sociale del paese contengono in sé un elemento che tocca la unità dello Stato e la mette in pericolo. La soluzione del problema viene cercata dai gruppi dirigenti borghesi e agrari attraverso un compromesso. Nessuno di questi gruppi possiede naturalmente un carattere unitario e una funzione unitaria. Il compromesso col quale l'unità viene salvata è d'altra parte tale da rendere più grave la situazione. Esso dà alle popolazioni lavoratrici del Mezzogiorno una posizione analoga a quella delle popolazioni coloniali. La grande industria del Nord adempie verso di esse la funzione delle metropoli capitalistiche: i grandi proprietari di terre e la stessa media borghesia meridionale si pongono invece nella situazione delle categorie che nelle colonie si alleano alla metropoli per mantenere soggetta la massa del popolo che lavora. Lo sfruttamento economico e la oppressione politica si uniscono quindi per fare della popolazione lavoratrice del Mezzogiorno una forza continuamente mobilitata contro lo Stato.

9. Il proletariato ha in Italia una importanza superiore a quella che ha in altri paesi europei anche di capitalismo progredito, paragonabile solo a quella che aveva nella Russia prima della rivoluzione. Ciò è in relazione anzitutto con il fatto che per la scarsezza di materie prime l'industria si basa in preferenza sulla mano d'opera (maestranze specializzate), indi con la eterogeneità e con i contrasti di interessi che indeboliscono le classi dirigenti. Di fronte a questa eterogeneità il proletariato si presenta come l'unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società. Il suo programma di classe è il solo programma "unitario", cioè il solo la cui attuazione non porta ad approfondire i contrasti tra i diversi elementi della economia e della società e non porta a spezzare l'unità dello Stato. Accanto al proletariato industriale inoltre esiste una grande massa di proletari agricoli, accentrata soprattutto nella Valle del Po, facilmente influenzata dagli operai della industria e quindi agevolmente mobilitabile nella lotta contro il capitalismo e lo Stato. Si ha inoltre in Italia una conferma della tesi che le più favorevoli condizioni per la rivoluzione proletaria non si hanno necessariamente sempre nei paesi dove il capitalismo e l'industrialismo sono giunti al più alto grado del loro sviluppo, ma si possono invece aver là dove il tessuto del sistema capitalistico offre minori resistenze, per le sue debolezze di struttura, a un attacco della classe rivoluzionaria e dei suoi alleati.

La politica della borghesia italiana

10. Lo scopo che le classi dirigenti italiane si proposero di raggiungere dalle origini dello Stato unitario in poi, fu quello di tenere soggette le grandi masse della popolazione lavoratrice, e impedire loro di diventare, organizzandosi intorno al proletariato industriale e agricolo, una forza rivoluzionaria capace di attuare un completo rivolgimento sociale e politico e dare vita a uno Stato proletario. La debolezza intrinseca del capitalismo le costrinse però a porre come base dell'ordinamento economico e dello Stato borghese una unità ottenuta per via di compromessi tra gruppi non omogenei. In una vasta prospettiva storica questo sistema si dimostra non adeguato allo scopo cui tende. Ogni forma di compromesso fra i diversi gruppi dirigenti della società italiana si risolve infatti in un ostacolo posto allo sviluppo dell'una o dell'altra parte della economia del paese. Così vengono determinati nuovi contrasti e nuove reazioni della maggioranza della popolazione, si rende necessario accentuare la pressione sopra le masse e si produce una spinta sempre più decisiva alla mobilitazione di esse per la rivolta contro lo Stato.

11. Il primo periodo di vita dello Stato italiano (1870-1890) è quello della maggiore debolezza. Le due parti di cui si compone la classe dirigente, gli intellettuali borghesi da una parte e i capitalisti dall'altra, sono uniti nel proposito di mantenere l'unità, ma divisi circa la forma da dare allo Stato unitario. Manca tra di esse una omogeneità positiva. I problemi che lo Stato si propone sono limitati; essi riguardano piuttosto la forma che la sostanza del dominio politico della borghesia; sovrasta a tutti il problema del pareggio, che è un problema di pura conservazione. La coscienza della necessità di allargare la base delle classi che dirigono lo Stato si ha soltanto con gli inizi del "trasformismo". La maggiore debolezza dello Stato è data in questo periodo dal fatto che al di fuori di esso il Vaticano raccoglie attorno a sé un blocco reazionario e antistatale costruito dagli agrari e dalla grande massa dei contadini arretrati, controllati e diretti dai ricchi proprietari e dai preti. Il programma del Vaticano consta di due parti: esso vuole lottare contro lo Stato borghese unitario e "liberale" e in pari tempo si propone di costituire, con i contadini, un esercito di riserva contro l'avanzata del proletariato socialista, che sarà provocata dallo sviluppo della industria. Lo Stato reagisce al sabotaggio che il Vaticano compie ai suoi danni e si ha tutta una legislazione di contenuto e di scopi anticlericali.

12. Nel periodo che corre dal 1890 al 1900 la borghesia si pone risolutamente il problema di organizzare la propria dittatura e lo risolve con una serie di provvedimenti di carattere politico ed economico da cui è determinata la successiva storia italiana. Anzitutto si risolve il dissidio tra la borghesia intellettuale e gli industriali: l'avvento al potere di Crispi ne è il segno. La borghesia così rafforzata risolve la questione dei suoi rapporti con l'estero (Triplice alleanza) acquistando una sicurezza che le permette dei tentativi di piazzarsi nel campo della concorrenza internazionale per la conquista dei mercati coloniali. All'interno la dittatura borghese si instaura politicamente con una restrizione del diritto di voto che riduce il corpo elettorale a poco più di un milione di elettori su 30 milioni di abitanti. Nel campo economico l'introduzione del protezionismo industriale-agrario corrisponde al proposito del capitalismo di acquistare il controllo di tutta la ricchezza nazionale. Viene a mezzo di esso saldata una alleanza tra gli industriali e gli agrari. Questa alleanza strappa al Vaticano una parte delle forze che esso aveva raccolto attorno a sé, soprattutto tra i proprietari di terre del Mezzogiorno, e le fa entrare nel quadro dello Stato borghese. Il Vaticano stesso avverte del resto la necessità di dare maggiore rilievo alla parte del suo programma reazionario che riguarda la resistenza al movimento operaio e prende posizione contro il socialismo con l'enciclica Rerum Novarum. Al pericolo che il Vaticano continua però a rappresentare per lo Stato le classi dirigenti reagiscono dandosi una organizzazione unitaria con un programma anticlericale, nella massoneria. I primi progressi reali del movimento operaio si hanno infatti in questo periodo. L'instaurazione della dittatura industriale-agraria pone nei suoi termini reali il problema della rivoluzione determinando i fattori storici di essa. Sorge nel Nord un proletariato industriale e agricolo, mentre nel Sud la popolazione agricola, sottoposta a un sistema di sfruttamento "coloniale", deve essere tenuta soggetta con una compressione politica sempre più forte. I termini della "questione meridionale" vengono posti, in questo periodo, in modo netto. E spontaneamente, senza l'intervento di un fattore cosciente e senza nemmeno che il Partito socialista tragga da questo fatto una indicazione per la sua strategia di partito della classe operaia, si verifica in questo periodo per la prima volta il confluire dei tentativi insurrezionali del proletariato settentrionale, con una rivolta di contadini meridionali (fasci siciliani).

13. Spezzati i primi tentativi del proletariato e dei contadini di insorgere contro lo Stato, la borghesia italiana consolidata può adottare, per ostacolare i progressi del movimento operaio, i metodi esteriori della democrazia e quelli della corruzione politica verso la parte più avanzata della popolazione lavoratrice (aristocrazia operaia) per renderla complice della dittatura reazionaria che essa continua ad esercitare, e impedirle di diventare il centro insurrezionale popolare contro lo Stato (giolittismo). Si ha però, tra il 1900 e il 1910, una fase di concentrazione industriale ed agraria. Il proletariato agricolo cresce del 50 per cento a danno delle categorie degli obbligati, mezzadri e fittavoli. Di qui una ondata di movimenti agricoli, e un nuovo orientamento dei contadini che costringe lo stesso Vaticano a reagire con la fondazione dell' "Azione Cattolica" e con un movimento "sociale" che giunge, nelle sue forme estreme, fino ad assumere le parvenze di una riforma religiosa (modernismo). A questa reazione del Vaticano per non lasciarsi sfuggire le masse corrisponde l'accordo dei cattolici con le forze dirigenti per dare allo Stato una base più sicura (abolizione del non exspedit, patto Gentiloni). Anche verso la fine di questo terzo periodo (1914) i diversi movimenti parziali del proletariato e dei contadini culminano in un nuovo inconscio tentativo di saldatura delle diverse forze di massa antistatali, in una insurrezione contro lo Stato reazionario. Da questo tentativo viene già posto con sufficiente rilievo il problema della necessità che il proletariato organizzi, nel suo seno, un partito di classe che gli dia la capacità di porsi a capo della insurrezione e di guidarla.

14. Il massimo di concentrazione economica nel campo industriale si ha nel dopoguerra. Il proletariato raggiunge il più alto grado di organizzazione e ad esso corrisponde il massimo di disgregazione delle classi dirigenti dello Stato. Tutte le contraddizioni insite nell'organismo sociale italiano affiorano con la massima crudezza per il risveglio delle masse anche le più arretrate alla vita politica provocato dalla guerra e dalle sue conseguenze immediate. E, come sempre, l'avanzata degli operai dell'industria e dell'agricoltura si accompagna a una agitazione profonda delle masse dei contadini, sia del Mezzogiorno che delle altre regioni. I grandi scioperi e la occupazione delle fabbriche che si svolgono contemporaneamente alla occupazione delle terre. La resistenza delle forze reazionarie si esercita ancora secondo la direzione tradizionale. Il Vaticano consente che accanto all' "Azione Cattolica" si formi un vero e proprio partito, il quale si propone di inserire le masse contadine entro il quadro dello Stato borghese apparentemente accontentando le loro aspirazioni di redenzione economica e di democrazia politica. Le classi dirigenti a loro volta attuano in grande stile il piano di corruzione e di disgregazione interna del movimento operaio, facendo apparire ai capi opportunisti la possibilità che una aristocrazia operaia collabori al governo in un tentativo di soluzione "riformista" del problema dello Stato (governo di sinistra). Ma in un paese povero e disunito come l'Italia, l'affacciarsi di una soluzione "riformista" del problema dello Stato provoca inevitabilmente la disgregazione della compagine statale e sociale, la quale non resiste all'urto dei numerosi gruppi in cui le stesse classi dirigenti e le classi intermedie si polverizzano. Ogni gruppo ha esigenze di protezione economica e di autonomia politica sue proprie, e, nell'assenza di un omogeneo nucleo di classe che sappia imporre, con la sua dittatura, una disciplina di lavoro e di produzione a tutto il paese, sbaragliando ed eliminando gli sfruttatori capitalistici ed agrari, il governo viene reso impossibile e la crisi del potere è continuamente aperta. La sconfitta del proletariato rivoluzionario è dovuta, in questo periodo decisivo, alle deficienze politiche, organizzative, tattiche e strategiche del partito dei lavoratori. In conseguenza di queste deficienze il proletariato non riesce a mettersi a capo della insurrezione della grande maggioranza della popolazione e a farla sboccare nella creazione di uno Stato operaio; esso stesso subisce invece l'influenza di altre classi sociali che ne paralizzano l'azione. La vittoria del fascismo nel 1922 deve essere considerata quindi non come una vittoria riportata sulla rivoluzione, ma come la conseguenza della sconfitta toccata alle forze rivoluzionarie per loro intrinseco difetto.

Il fascismo e la sua politica

15. Il fascismo, come movimento di reazione armata che si propone lo scopo di disgregare e di disorganizzare la classe lavoratrice per immobilizzarla, rientra nel quadro della politica tradizionale delle classi dirigenti italiane, e nella lotta del capitalismo contro la classe operaia. Esso è perciò favorito nelle sue origini, nella sua organizzazione e nel suo cammino da tutti indistintamente i vecchi gruppi dirigenti, a preferenza però dagli agrari i quali sentono più minacciosa la pressione delle plebi rurali. 

Socialmente però il fascismo trova la sua base nella piccola borghesia urbana e in una nuova borghesia agraria sorta da una trasformazione della proprietà rurale in alcune regioni (fenomeni di capitalismo agrario nell'Emilia, origine di una categoria di intermediari di campagna, "borse della terra", nuove ripartizioni di terreni). Questo fatto è il fatto di aver trovato una unità ideologica e organizzata nelle formazioni militari in cui rivive la tradizione della guerra (arditismo) e che servono alla guerriglia contro i lavoratori, permettendo al fascismo di concepire ed attuare un piano di conquista dello Stato in contrapposizione ai vecchi ceti dirigenti. 

Assurdo parlare di rivoluzione. Le nuove energie che si raccolgono attorno al fascismo traggono però dalla loro origine una omogeneità e una comune mentalità di "capitalismo nascente". Ciò spiega come sia possibile la lotta contro gli uomini politici del passato e come esse possano giustificarla con una costruzione ideologica in contrasto con le teorie tradizionali dello Stato e dei suoi rapporti con i cittadini. 

Nella sostanza il fascismo modifica il programma di conservazione e di reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte più decisamente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari.

16. Il metodo fascista di difesa dell'ordine, della proprietà e dello Stato è, ancora più del sistema tradizionale dei compromessi e della politica di sinistra, disgregatore della compagine sociale e delle sue sovrastrutture politiche. Le reazioni che esso provoca devono essere esaminate in relazione alla sua applicazione sia nel campo economico che nel campo politico. Nel campo politico, anzitutto, l'unità organica della borghesia nel fascismo non si realizza immediatamente dopo la conquista del potere. 

Al di fuori del fascismo rimangono i centri di opposizione borghese al regime. Da una parte non viene assorbito il gruppo che tiene fede alla soluzione giolittiana del problema Stato. Questo gruppo si collega a una sezione della borghesia industriale e, con un programma di riformismo "laburista", esercita influenza sopra strati di operai e piccoli borghesi. Dall'altra parte il programma di fondare lo Stato sopra una democrazia rurale del Mezzogiorno e sopra la parte "sana" della industria settentrionale ("Corriere della sera", liberismo, Nitti) tende a diventare programma di una organizzazione politica di opposizione al fascismo con basi di massa nel Mezzogiorno (Unione nazionale). 

Il fascismo è costretto a lottare contro questi gruppi superstiti molto vivacemente e a lottare con vivacità anche maggiore contro la massoneria, che esso considera giustamente come centro di organizzazione di tutte le tradizionali forze di sostegno dello Stato. Questa lotta, che è, volere o no, l'indizio di una spezzatura del blocco delle forze conservatrici e antiproletarie, può in determinate circostanze favorire lo sviluppo e l'affermazione del proletariato come terzo e decisivo fattore di una situazione politica. 

Nel campo economico il fascismo agisce come strumento di una oligarchia industriale e agraria per accentrare nelle mani del capitalismo il controllo di tutte le ricchezze del paese. Ciò non può fare a meno di provocare un malcontento nella piccola borghesia la quale, con l'avvento del fascismo, credeva giunta l'era del suo dominio. Tutta una serie di misure viene adottata dal fascismo per favorire una nuova concentrazione industriale (abolizione della imposta di successione, politica finanziaria e fiscale, inasprimento del protezionismo), e ad esse corrispondono altre misure a favore degli agrari e contro i piccoli e medi coltivatori (imposte, dazio sul grano, "battaglia del grano"). 

L'accumulazione che queste misure determinano non è un accrescimento di ricchezza nazionale, ma è spoliazione di una classe a favore di un'altra, e cioè delle classi lavoratrici e medie a favore della plutocrazia. Il disegno di favorire la plutocrazia appare sfacciatamente nel progetto di legalizzare nel nuovo codice di commercio il regime delle azioni privilegiate; un piccolo pugno di finanzieri viene, in questo modo, posto in condizioni di poter disporre senza controllo di ingenti masse di risparmio provenienti dalla media e piccola borghesia e queste categorie sono espropriate del diritto di disporre della loro ricchezza. 

Nello stesso piano, ma con conseguenze politiche più vaste, rientra il progetto di unificazione delle banche di emissione, cioè, in pratica, di soppressione delle due grandi banche meridionali. Queste due banche adempiono oggi la funzione di assorbire i risparmi del Mezzogiorno e le rimesse degli emigranti (600 milioni), cioè la funzione che nel passato adempivano lo Stato con la emissione di buoni del tesoro e la Banca di sconto nell'interesse di una parte dell'industria pesante del Nord. Le banche meridionali sono state controllate fino ad ora dalle stesse classi dirigenti del Mezzogiorno, le quali hanno trovato in questo controllo una base reale del loro dominio politico. La soppressione delle banche meridionali come banche di emissione farà passare questa funzione alla grande industria del Nord che controlla, attraverso la Banca commerciale, la Banca d'Italia e verrà in questo modo accentuato lo sfruttamento economico "coloniale" e l'impoverimento del Mezzogiorno, nonché accelerato il lento processo di distacco dallo Stato anche della piccola borghesia meridionale. La politica economica del fascismo si completa con i provvedimenti intesi a rialzare il corso della moneta, a risanare il bilancio dello Stato, a pagare i debiti di guerra e a favorire l'intervento del capitale inglese-americano in Italia. In tutti questi campi il fascismo attua il programma della plutocrazia (Nitti) e di una minoranza industriale-agraria ai danni della grande maggioranza della popolazione le cui condizioni di vita sono progressivamente peggiorate. 

Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell'azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all' "imperialismo". Questa tendenza è la espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l'espansione italiana ma nella quale in realtà l'Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialisti che si contendono il dominio del mondo.

17. Si determinano, in conseguenza della politica del fascismo, profonde reazioni delle masse. Il fenomeno più grave è il distacco sempre più deciso delle popolazioni agrarie del Mezzogiorno e delle Isole dal sistema di forze che reggono lo Stato. La vecchia classe dirigente locale (Orlando, Di Cesarò, De Nicola, ecc.) non esercita più in modo sistematico la sua funzione di anello di congiunzione con lo Stato. 

La piccola borghesia tende quindi ad avvicinarsi ai contadini. Il sistema di sfruttamento e di oppressione delle masse meridionali è portato dal fascismo all'estremo; questo facilita la radicalizzazione anche delle categorie intermedie e pone la questione meridionale nei suoi veri termini, come questione che sarà risolta soltanto dalla insurrezione dei contadini alleati del proletariato nella lotta contro i capitalisti e contro gli agrari. Anche i contadini medi e poveri delle altre parti d'Italia acquistano una funzione rivoluzionaria, benché in modo più lento. 

Il Vaticano - la cui funzione reazionaria è stata assunta dal fascismo - non controlla più le popolazioni rurali in modo completo attraverso i preti, l' "Azione Cattolica" e il Partito popolare. Vi è una parte dei contadini, la quale è stata risvegliata alle lotte per la difesa dei suoi interessi dalle stesse organizzazioni autorizzate e dirette dalle autorità ecclesiastiche, ed ora, sotto la pressione economica e politica del fascismo, accentua il proprio orientamento di classe e incomincia a sentire che le sue sorti non sono separabili da quelle della classe operaia. Indizio di questa tendenza è il fenomeno Miglioli. Un sintomo assai interessante di essa è anche il fatto che le organizzazioni bianche, le quali, essendo una parte dell' "Azione Cattolica", fanno capo direttamente al Vaticano, hanno dovuto entrare nei comitati intersindacali con le Leghe rosse, espressioni di quel periodo proletario che i cattolici indicavano fin dal 1870 come imminente alla società italiana. 

Quanto al proletariato, l'attività disgregatrice delle sue forze trova un limite nella resistenza attiva della avanguardia rivoluzionaria e in una resistenza passiva della grande massa, la quale rimane fondamentalmente classista e accenna a rimettersi in movimento non appena si rallenta la pressione fisica del fascismo e si fanno più forti gli stimoli dell'interesse di classe. Il tentativo di portare nel suo seno la scissione con i sindacati fascisti, si può considerare fallito. I sindacati fascisti, mutando il loro programma, diventano ora strumenti diretti di compressione reazionaria al servizio dello Stato.

18. Ai pericolosi spostamenti e ai nuovi reclutamenti di forze che sono provocati dalla sua politica il fascismo reagisce facendo gravare su tutta la società il peso di una forza militare e un sistema di compressione il quale tiene la popolazione inchiodata al fatto meccanico della produzione senza la possibilità di avere una vita propria, di manifestare una propria volontà e di organizzarsi per la difesa dei propri interessi. La cosiddetta legislazione fascista non ha altro scopo che quello di consolidare e rendere permanente questo sistema. 

La nuova legge elettorale politica, le modificazioni dell'ordinamento amministrativo con la introduzione del podestà per i comuni di campagna ecc. vorrebbero segnare la fine della partecipazione delle masse alla vita politica ed amministrativa del paese. Il controllo sulle associazioni impedisce ogni forma permanente "legale" di organizzazione delle masse. La nuova politica sindacale toglie alla Confederazione del lavoro e ai sindacati di classe la possibilità di concludere dei concordati per escluderli dal contatto con le masse che si erano organizzate attorno ad essi. La stampa proletaria viene soppressa. Il partito di classe del proletariato ridotto alla vita pienamente illegale. Le violenze fisiche e le persecuzioni di polizia sono adoperate sistematicamente, soprattutto nelle campagne, per incutere il terrore e mantenere una situazione da stato d'assedio. 

Il risultato di questa complessa attività di reazione e di compressione è lo squilibrio tra il rapporto reale delle forze sociali e il rapporto delle forze organizzate, per cui a un apparente ritorno alla normalità e alla stabilità corrisponde una acutizzazione di contrasti pronti a prorompere ad ogni istante per nuove vie.

18 bis. La crisi seguita al delitto Matteotti ha fornito un esempio della possibilità che l'apparente stabilità del regime fascista sia turbata dalle basi per il prorompere improvviso di contrasti economici e politici approfonditisi senza che fossero avvertiti. Essa ha in pari tempo fornito la prova della incapacità della piccola borghesia a guidare ad un esito, nell'attuale periodo storico, la lotta contro la reazione industriale-agraria.

Forze motrici e prospettive della rivoluzione

19. Le forze motrici della rivoluzione italiana, come risulta ormai dalla nostra analisi sono, in ordine alla loro importanza, le seguenti:

1) la classe operaia e il proletariato agricolo;

2) i contadini del Mezzogiorno e delle Isole e i contadini delle altri parti d'Italia. 

Lo sviluppo e la rapidità del processo rivoluzionario non sono prevedibili al di fuori di una valutazione di elementi soggettivi: cioè dalla misura in cui la classe operaia riuscirà ad acquistare una propria figura politica, una coscienza di classe decisa e una indipendenza da tutte le altre classi, dalla misura in cui essa riuscirà a organizzare le sue forze, cioè a esercitare di fatto un'azione di guida degli altri fattori in prima linea a concretare politicamente la sua alleanza con i contadini? Si può affermare in generale, e basandosi del resto sulla esperienza italiana, che dal periodo della preparazione rivoluzionaria si entrerà in un periodo rivoluzionario "immediato" quando il proletariato industriale e agricolo del settentrione sarà riuscito a riacquistare, per lo svolgimento della situazione oggettiva e attraverso una serie di lotte particolari e immediate, un alto grado di organizzazione e di combattività. 

Quanto ai contadini, quelli del Mezzogiorno e delle Isole devono essere posti in prima linea tra le forze su cui deve contare la insurrezione contro la dittatura industriale-agraria, per quanto non si debba attribuir loro, all'infuori di un'alleanza col proletariato, una importanza risolutiva. L'alleanza tra essi e gli operai è il risultato di un processo storico naturale e profondo, favorito da tutte le vicende dello Stato italiano. Per i contadini delle altre parti d'Italia il processo di orientamento verso l'alleanza col proletariato è più lento e dovrà essere favorito da una attenta azione politica del partito del proletariato. I successi già ottenuti in Italia in questo campo indicano del resto che il problema di rompere l'alleanza dei contadini con le forze reazionarie deve essere posto, per gran parte, anche in altri paesi dell'Europa occidentale, come problema di distruggere la influenza della organizzazione cattolica sulle masse rurali.

20. Gli ostacoli allo sviluppo della rivoluzione, oltre che dati dalla pressione fascista, sono in relazione con la varietà dei gruppi in cui la borghesia si divide. Ognuno di questi gruppi si sforza di esercitare una influenza sopra una sezione della popolazione lavoratrice per impedire che si estenda la influenza del proletariato, o sul proletariato stesso per fargli perdere la sua figura e autonomia di classe rivoluzionaria. Si costituisce in questo modo una catena di forze reazionarie, la quale partendo dal fascismo comprende i gruppi antifascisti che non hanno grandi basi di massa (liberali), quelli che hanno una base nei contadini e nella piccola borghesia (democratici, combattenti, popolari, repubblicani), e in parte anche negli operai (partito riformista), e quelli che avendo una base proletaria tendono a mantenere le masse operaie in una condizione di passività e far loro seguire la politica di altre classi (partito massimalista). 

Anche il gruppo che dirige la Confederazione del lavoro deve essere considerato a questa stregua, cioè come il veicolo di una influenza disgregatrice di altre classi sopra i lavoratori. Ognuno dei gruppi che abbiamo indicati tiene legata a sé una parte della popolazione lavoratrice italiana. La modificazione di questo stato di cose è soltanto concepibile come conseguenza di una sistematica e ininterrotta azione politica della avanguardia proletaria organizzata nel Partito comunista. Una particolare attenzione deve essere data ai gruppi e partiti i quali hanno una base di massa, o cercano di formarsela come partiti democratici o come partiti regionali, nella popolazione agricola del Mezzogiorno e delle Isole (Unione nazionale, partiti d'azione sardo, molisano, irpino, ecc.). 

Questi partiti non esercitano una influenza diretta sul proletariato, ma sono un ostacolo alla realizzazione della alleanza tra operai e contadini. Orientando le classi agricole del Mezzogiorno verso una democrazia rurale e verso soluzioni democratiche regionali, essi spezzano l'unità del processo di liberazione della popolazione lavoratrice italiana, impediscono ai contadini di condurre a un esito la loro lotta contro lo sfruttamento economico e politico della borghesia e degli agrari, e preparano la trasformazione di essi in guardia bianca della reazione. Il successo politico della classe operaia è anche in questo campo in relazione con l'azione politica del partito e del proletariato.

21. La possibilità di abbattimento del regime fascista per una azione di gruppi antifascisti sedicenti democratici esisterebbe solo se questi gruppi riuscissero, neutralizzando l'azione del proletariato, a controllare un movimento di masse fino a poterne frenare gli sviluppi. La funzione della opposizione borghese democratica è invece quella di collaborare col fascismo nell'impedire la riorganizzazione della classe operaia e la realizzazione del suo programma di classe. In questo senso un compromesso tra fascismo e opposizione borghese è in atto e ispirerà la politica di ogni formazione di "centro" che sorga dai rottami dell'Aventino. 

La opposizione potrà tornare ad essere protagonista dell'azione di difesa del regime capitalista solo quando la stessa compressione fascista più non riuscirà a impedire lo scatenamento dei conflitti di classe, e il pericolo di una insurrezione di proletari e della sua saldatura con una guerra di contadini apparirà grave e imminente. La possibilità di ricorso della borghesia e del fascismo stesso al sistema della reazione celata dalla apparenza di un "governo di sinistra" deve quindi essere continuamente presente nelle nostre prospettive, (divisione di funzioni tra fascismo e democrazia, Tesi del V Congresso mondiale).

22. Da questa analisi dei fattori della rivoluzione e delle sue prospettive si deducono i compiti del Partito comunista. Ad essa devono essere collegati i criteri della sua attività organizzativa e quelli della sua azione politica. Da essa discendono le linee direttive e fondamentali del suo programma.

Compiti fondamentali del Partito comunista

23. Dopo aver resistito vittoriosamente alla ondata reazionaria che voleva sommergerlo (1923), dopo aver contribuito con la propria azione a segnare un primo punto di arresto nel processo di dispersione delle forze lavoratrici (elezioni del 1924), dopo aver approfittato della crisi Matteotti per riorganizzare una avanguardia proletaria che si è opposta con notevole successo al tentativo di istaurare un predominio piccolo-borghese nella vita politica (Aventino) e aver poste le basi di una reale politica contadina del proletariato italiano, il partito si trova oggi nella fase della preparazione politica della rivoluzione. Il suo compito fondamentale può essere indicato da questi tre punti:

1) organizzare e unificare il proletariato industriale e agricolo per la rivoluzione;

2) organizzare e mobilitare attorno al proletariato tutte le forze necessarie per la vittoria rivoluzionaria e per la fondazione dello Stato operaio;

3) porre al proletariato e ai suoi alleati il problema della insurrezione contro lo Stato borghese e della lotta per la dittatura proletaria e guidarli politicamente e materialmente alla soluzione di esso attraverso una serie di lotte parziali.

La costruzione del Partito comunista come partito "bolscevico"

24. La organizzazione della avanguardia operaia in Partito comunista è la parte essenziale della nostra attività organizzativa. Gli operai italiani hanno appreso dalla loro esperienza (1919-20) che ove manchi la guida di un partito comunista costruito come partito della classe operaia e come partito della rivoluzione, non è possibile un esito vittorioso della lotta per l'abbattimento del regime capitalistico. La costruzione di un Partito comunista che sia di fatto il partito della classe operaia e il partito della rivoluzione, - che sia cioè, un partito "bolscevico", - è in connessione diretta con i seguenti punti fondamentali:

1) la ideologia del partito;

2) la forma della organizzazione, e la sua compattezza;

3) la capacità di funzionare a contatto con la massa;

4) la capacità strategica e tattica.

Ognuno di questi punti è collegato strettamente con gli altri e non potrebbe, a rigore di logica, esserne separato. Ognuno di essi infatti indica e comprende una serie di problemi le cui soluzioni interferiscono e si sovrappongono. L'esame separato di essi sarà utile soltanto quando si tenga presente che nessuno può venire risolto senza che tutti siano impostati e condotti di pari passo ad una soluzione.

La ideologia del partito

25. Unità ideologica completa è necessaria al Partito comunista per poter adempiere in ogni momento la sua funzione di guida della classe operaia. L'unità ideologica è elemento della forza del partito e della sua capacità politica, essa è indispensabile per farlo diventare un partito bolscevico. Base della unità ideologica è la dottrina del marxismo e del leninismo, inteso quest'ultimo come la dottrina marxista adeguata ai problemi del periodo dell'imperialismo e dell'inizio della rivoluzione proletaria (Tesi sulla bolscevizzazione dell'Esecutivo allargato dell'aprile 1925, nn. IV e VI). 

Il Partito comunista d'Italia ha formato la sua ideologia nella lotta contro la socialdemocrazia (riformisti) e contro il centrismo politico rappresentato dal Partito massimalista. Esso non trova però nella storia del movimento operaio italiano una vigorosa e continua corrente di pensiero marxista cui richiamarsi. Manca inoltre nelle sue file una profonda e diffusa conoscenza delle teorie del marxismo e del leninismo. Sono quindi possibili le deviazioni. L'innalzamento del livello ideologico del partito deve essere ottenuto con una sistematica attività interna la quale si proponga di portare tutti i membri ad avere una completa consapevolezza dei fini immediati del movimento rivoluzionario, una certa capacità di analisi marxista delle situazioni e una correlativa capacità di orientamento politico (scuola di partito). E' da respingere una concezione la quale affermi che i fattori di coscienza e di maturità rivoluzionaria, i quali costituiscono la ideologia, si possano realizzare nel partito senza che siansi realizzati in un vasto numero di singoli che lo compongono.

26. Nonostante le origini da una lotta contro degenerazioni di destra e centriste del movimento operaio, il pericolo di deviazioni di destra è presente nel Partito comunista d'Italia. Nel campo teorico esso è rappresentato dai tentativi di revisione del marxismo fatti dal compagno Graziadei sotto la veste di una precisazione "scientifica" di alcuni dei concetti fondamentali della dottrina di Marx. I tentativi di Graziadei non possono certo portare alla creazione di una corrente e quindi di una frazione che metta in pericolo la unità ideologica e la compattezza del partito. E' però implicito in essi un appoggio a correnti e deviazioni politiche di destra. Ad ogni modo essi indicano la necessità che il partito compia un profondo studio del marxismo e acquisti una coscienza teorica più alta e più sicura. 

Il pericolo che si crei una tendenza di destra è collegato con la situazione generale del paese. La compressione stessa che il fascismo esercita tende ad alimentare la opinione che essendo il proletariato nella impossibilità di rapidamente rovesciare il regime, sia miglior tattica quella che porti, se non a un blocco borghese-proletario per la eliminazione costituzionale del fascismo, a una passività della avanguardia rivoluzionaria, a un non-intervento attivo del partito comunista nella lotta politica immediata, onde permettere alla borghesia di servirsi del proletariato come massa di manovra elettorale contro il fascismo. Questo programma si presenta con la formula che il Partito comunista deve essere "l'ala sinistra" di una opposizione di tutte le forze che cospirano all'abbattimento del regime fascista. Esso è la espressione di un profondo pessimismo circa le capacità rivoluzionarie della classe lavoratrice. 

Lo stesso pessimismo e le stesse deviazioni conducono a interpretare in modo errato la natura e la funzione storica dei partiti socialdemocratici nel momento attuale, a dimenticare che la socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata davanti alle masse. Il pericolo di destra deve essere combattuto con la propaganda ideologica, col contrapporre al programma di destra il programma rivoluzionario della classe operaia e del suo partito, e con mezzi disciplinari ordinari ogni qualvolta la necessità lo richieda.

27. Legato con le origini del partito e con la situazione generale del paese è parimenti il pericolo di deviazioni di sinistra dalla ideologia marxista e leninista. Esso è rappresentato dalla tendenza estremista che fa capo al compagno Bordiga. Questa tendenza si formò nella particolare situazione di disgregazione e incapacità programmatica, organizzativa, strategica e tattica in cui si trovò il Partito socialista italiano dalla fine della guerra al Congresso di Livorno: la sua origine e la sua fortuna sono inoltre in relazione col fatto che, essendo la classe operaia una minoranza nella popolazione lavoratrice italiana, è continuo il pericolo che il suo partito sia corrotto da infiltrazioni di altre classi, e in particolare della piccola borghesia. 

A questa condizione della classe operaia e alla situazione del Partito socialista italiano la tendenza di estrema sinistra reagì con una particolare ideologia, cioè con una concezione della natura del partito, della sua funzione e della sua tattica che è in contrasto con quella del marxismo e del leninismo:

a) dall'estrema sinistra il partito viene definito, trascurando e sottovalutando il suo contenuto sociale, come un "organo" della classe operaia, che si costituisce per sintesi di elementi eterogenei. Il partito deve invece essere definito mettendo in rilievo anzitutto il fatto che esso è una "parte" della classe operaia. L'errore nella definizione del partito porta a impostare in modo errato i problemi organizzativi e i problemi di tattica;

b) per la estrema sinistra la funzione del partito non è quella di guidare in ogni momento la classe sforzandosi di restare in contatto con essa attraverso qualsiasi mutamento di situazione oggettiva, ma di elaborare dei quadri preparati a guidare la massa quando lo svolgimento delle situazioni l'avrà portata al partito, facendole accettare le posizioni programmatiche e di principio da esso fissate;

c) per quanto riguarda la tattica, l'estrema sinistra sostiene che essa non deve venire determinata in relazione con le situazioni oggettive e con la posizione delle masse in modo che essa aderisca sempre alla realtà e fornisca un continuo contatto con gli strati più vasti della popolazione lavoratrice, ma deve essere determinata in base a preoccupazioni formalistiche. E' propria dell'estremismo la concezione che le deviazioni dai principi della politica comunista non vengono evitate con la costruzione di partiti "bolscevichi" i quali siano capaci di compiere, senza deviare, ogni azione politica che è richiesta per la mobilitazione delle masse e per la vittoria rivoluzionaria, ma possono essere evitate soltanto col porre alla tattica limiti rigidi e formali di carattere esteriore (nel campo organizzativo: "adesione individuale", cioè rifiuto delle "fusioni", le quali possono invece essere sempre, in condizioni determinate, efficacissimo mezzo di estensione della influenza del partito; nel campo politico: travisamento dei termini del problema della conquista della maggioranza, fronte unico sindacale e non politico, nessuna diversità nel modo di lottare contro la democrazia a seconda del grado di adesione delle masse a formazioni democratiche contro-rivoluzionarie e della imminenza e gravità di un pericolo reazionario, rifiuto della parola d'ordine del governo operaio e contadino). 

All'esame delle situazioni dei movimenti di massa si ricorre quindi solo per il controllo della linea dedotta in base a preoccupazioni formalistiche e settarie: viene perciò sempre a mancare, nella determinazione della politica del partito, l'elemento particolare; la unità e completezza di visione che è propria del nostro metodo di indagine politica (dialettica) è spezzata; l'attività del partito e le sue parole d'ordine perdono efficacia e valore rimanendo attività e parole di semplice propaganda. E' inevitabile, come conseguenza di queste posizioni, la passività politica del partito. Di essa l' "astensionismo" fu nel passato un aspetto. Ciò permette di avvicinare l'estremismo di sinistra al massimalismo e alle deviazioni di destra. Esso è inoltre, come la tendenza di destra, espressione di uno scetticismo sulla possibilità che la massa operaia organizzi dal suo seno un partito di classe il quale sia capace di guidare la grande massa sforzandosi di tenerla in ogni momento collegata a sé.

La lotta ideologica contro l'estremismo di sinistra deve essere condotta contrapponendogli la concezione marxista e leninista del partito del proletariato come partito di massa e dimostrando la necessità che esso adatti la sua tattica alle situazioni per poterle modificare, per non perdere il contatto con le masse e per acquistare sempre nuove zone di influenza. L'estremismo di sinistra fu la ideologia ufficiale del partito italiano nel primo periodo della sua esistenza. Esso è sostenuto da compagni che furono tra i fondatori del partito e dettero un grandissimo contributo alla sua costruzione dopo Livorno. 

Vi sono quindi motivi per spiegare come questa concezione sia stata a lungo radicata nella maggioranza dei compagni anche senza che fosse da essi valutata criticamente in modo completo, ma piuttosto come conseguenza di uno stato d'animo diffuso. E' evidente perciò che il pericolo di estrema sinistra deve essere considerato come una realtà immediata, come un ostacolo non solo alla unificazione ed elevazione ideologica, ma allo sviluppo politico del partito e alla efficacia della sua azione. Esso deve essere combattuto come tale, non solo con la propaganda, ma con una azione politica ed eventualmente con misure organizzative.

28. Elemento della ideologia del partito è il grado di spirito internazionalista che è penetrato nelle sue file. Esso è assai forte tra di noi come spirito di solidarietà internazionale, ma non altrettanto come coscienza di appartenere ad un partito mondiale. Contribuisce a questa debolezza la tendenza a presentare la concezione di estrema sinistra come una concezione nazionale ("originalità" e valore "storico" delle posizioni della "sinistra italiana") la quale si oppone alla concezione marxista e leninista della Internazionale comunista e cerca di sostituirsi ad essa. Di qui l'origine di una specie di "patriottismo di partito", che rifugge dall'inquadrarsi in una organizzazione (rifiuti di cariche, lotta di frazione internazionale ecc.). Questa debolezza di spirito internazionalista offre il terreno ad una ripercussione nel partito della campagna che la borghesia conduce contro la Internazionale comunista qualificandola come organo dello Stato russo. Alcune delle tesi di estrema sinistra a questo proposito si collegano a tesi abituali dei partiti controrivoluzionari. Esse devono venir combattute con estremo vigore, con una propaganda che dimostri come storicamente spetti al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale comunista e quale è la posizione dello Stato operaio russo - prima ed unica reale conquista della classe operaia nella lotta al potere - nei confronti del movimento operaio internazionale (Tesi sulla situazione internazionale).

La base dell'organizzazione del partito

29. Tutti i problemi di organizzazione sono problemi politici. La soluzione di essi deve rendere possibile al partito di attuare il suo compito fondamentale, di far acquistare al proletariato una completa indipendenza politica, di dargli una fisionomia, una personalità, una coscienza rivoluzionaria precisa, di impedire ogni infiltrazione e influenza disgregatrice di classi ed elementi i quali pur avendo interessi contrari al capitalismo non vogliono condurre la lotta contro di esso fino alle sue conseguenze ultime. In prima linea è un problema politico: quello della base della organizzazione. La organizzazione del partito deve essere costruita sulla base della produzione e quindi del luogo di lavoro (cellule). 

Questo principio è essenziale per la creazione di un partito "bolscevico". Esso dipende dal fatto che il partito deve essere attrezzato per dirigere il movimento di massa della classe operaia, la quale viene naturalmente unificata dallo sviluppo del capitalismo secondo il processo della produzione. Ponendo la base organizzativa nel luogo della produzione il partito compie un atto di scelta della classe sulla quale esso si basa. Esso proclama di essere un partito di classe e il partito di una sola classe, la classe operaia. Tutte le obiezioni al principio che pone la organizzazione del partito sulla base della produzione partono da concezioni che sono legate a classi estranee al proletariato, anche se sono presentate da compagni e gruppi che si dicono di "estrema sinistra". Esse si basano sopra una considerazione pessimista delle capacità rivoluzionarie dell'operaio comunista, e sono espressione dello spirito antiproletario del piccolo-borghese intellettuale, il quale crede di essere il sale della terra e vede nell'operaio lo strumento materiale dello sconvolgimento sociale e non il protagonista cosciente e intelligente della rivoluzione. Si riproducono nel partito italiano a proposito delle cellule la discussione e il contrasto che portarono in Russia alla scissione tra bolscevichi e menscevichi a proposito del medesimo problema della scelta della classe, del carattere di classe del partito e del modo di adesione al partito di elementi non proletari. 

Questo fatto ha del resto, in relazione con la situazione italiana, una importanza notevole. E' la stessa struttura sociale e sono le condizioni e le tradizioni della lotta politica quelle che rendono in Italia assai più serio che altrove il pericolo di edificare il partito in base a una "sintesi" di elementi eterogenei, cioè di aprire in essi la via alla influenza paralizzatrice di altre classi. Si tratta di un pericolo che sarà inoltre reso sempre più grave dalla stessa politica del fascismo, che spingerà sul terreno rivoluzionario intieri strati della piccola borghesia. E' certo che il Partito comunista non può essere solo un partito di operai. La classe operaia e il suo partito non possono fare a meno degli intellettuali né possono ignorare il problema di raccogliere intorno a sé e guidare tutti gli elementi che per una via o per un'altra sono spinti alla rivolta contro il capitalismo. 

Così pure il Partito comunista non può chiudere le porte ai contadini: esso deve anzi avere nel suo seno dei contadini e servirsi di essi per stringere il legame politico tra il proletariato e le classi rurali. Ma è da respingere energicamente, come controrivoluzionaria, ogni concessione che faccia del partito una "sintesi" di elementi eterogenei, invece di sostenere senza concessioni di sorta che esso è una parte del proletariato, che il proletariato deve dargli la impronta della organizzazione che gli è propria e che al proletariato deve essere garantita nel partito stesso una funzione direttiva.

30. Non hanno consistenza le obiezioni pratiche alla organizzazione sulla base della produzione (cellule), secondo le quali questa struttura organizzativa non permetterebbe di superare la concorrenza tra diverse categorie di operai e darebbe il partito in balia al funzionarismo. La pratica del movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e gli strati inferiori della massa lavoratrice (qualificati, non qualificati e manovali) e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di "aristocrazia operaia".

La organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno strato assai vasto di elementi dirigenti (segretari di cellula, membri dei comitati di cellula, ecc.), i quali sono parte della massa e rimangono in essa pure esercitando funzioni direttive, a differenza dei segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità elementi staccati dalla massa lavoratrice. Il partito deve dedicare una cura particolare alla educazione di questi compagni che formano il tessuto connettivo della organizzazione e sono lo strumento del collegamento con le masse. Da qualsiasi punto di vista venga considerata, la trasformazione della struttura sulla base della produzione rimane compito fondamentale del partito nel momento presente e mezzo per la soluzione dei più importanti suoi problemi. Si deve insistere in essa e intensificare tutto il lavoro ideologico e pratico che ad essa è relativo.

Compattezza della organizzazione del partito. Frazionismo

31. La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. Questo non vuol dire che il partito debba essere retto dall'alto con sistemi autocratici. Tanto il Comitato centrale quanto gli organi inferiori di direzione sono formati in base a una elezione e in base a una scelta di elementi capaci compiuta attraverso la prova del lavoro e la esperienza del movimento. 

Questo secondo elemento garantisce che i criteri per la formazione dei gruppi dirigenti locali e del gruppo dirigente centrale non siano meccanici, esteriori e "parlamentari", ma corrispondano a un processo di formazione di una avanguardia proletaria omogenea e collegata con la massa. Il principio della elezione degli organi dirigenti - democrazia interna - non è assoluto, ma relativo alle condizioni della lotta politica. Anche quando esso subisca limitazioni, gli organi centrali e periferici devono sempre considerare il loro potere non come sovrapposto, ma come sgorgante dalla volontà del partito, e sforzarsi di accentuare il loro carattere proletario e di moltiplicare i loro legami con la massa dei compagni e con la classe operaia. 

Quest'ultima necessità è particolarmente sentita in Italia, dove la reazione costrinse e costringe tuttora ad una forte limitazione della democrazia interna. La democrazia interna è pure relativa al grado di capacità politica posseduta dagli organi periferici e dai singoli compagni che lavorano alla periferia. L'azione che il centro esercita per accrescere questa capacità rende possibile una estensione dei sistemi "democratici" e una riduzione sempre più grande del sistema della "cooptazione" e degli interventi dall'alto per regolare le questioni organizzative locali.

32. La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti socialdemocratici i quali comprendono una grande varietà di gruppi e nei quali la lotta di frazioni è la forma normale di elaborazione delle direttive politiche e di selezione dei gruppi dirigenti. I partiti e la Internazionale comunista sono sorti in seguito ad una lotta di frazioni svoltasi nel seno della II Internazionale. Costituendosi come partiti e come organizzazione mondiale del proletariato essi hanno eletto a norma della loro vita interna e del loro sviluppo non più la lotta di frazioni, ma la collaborazione organica di tutte le tendenze attraverso la partecipazione agli organi dirigenti.

La esistenza e la lotta di frazioni sono infatti inconcepibili con la essenza del partito del proletariato, di cui spezzano la unità aprendo la via alla influenza di altre classi. Questo non vuol dire che nel partito non possano sorgere tendenze e che le tendenze talora non cerchino di organizzarsi in frazioni, ma vuol dire che contro quest'ultima eventualità si deve lottare energicamente per ridurre i contrasti di tendenze, le elaborazioni di pensiero e la selezione dei dirigenti alla forma che è propria dei partiti comunisti, cioè a un processo di svolgimento reale e unitario (dialettico) e non a una controversia e a lotte di carattere "parlamentare".

33. La esperienza del movimento operaio, fallito in seguito alla impotenza del PSI, per la lotta delle frazioni e per il fatto che ogni frazione faceva, indipendentemente dal partito, la sua politica, paralizzando l'azione delle altre frazioni e quella del partito intiero, questa esperienza offre un buon terreno per creare e mantenere la compattezza e la centralizzazione che devono essere propri di un partito bolscevico. Tra i diversi gruppi da cui il Partito comunista d'Italia ha tratto origine sussiste qualche differenziazione, che deve scomparire con un approfondimento della comune ideologia marxista e leninista. Solo tra i seguaci della ideologia antimarxista di estrema sinistra si sono mantenute a lungo una omogeneità e una solidarietà di carattere frazionistico. Dal frazionismo larvato si è anzi fatto il tentativo di passare alla lotta aperta di frazione, con la costituzione del cosiddetto "Comitato d'intesa". 

La profondità con cui il partito reagì a questo insano tentativo di scindere le sue forze dà affidamento sicuro che cadrà nel vuoto, in questo campo, ogni tentativo di farci ritornare alle consuetudini della socialdemocrazia. Il pericolo di un frazionismo esiste in una certa misura anche per la fusione con i terzinternazionalisti del Partito socialista. I terzinternazionalisti non hanno una loro ideologia in comune, ma sussistono tra loro dei legami di carattere essenzialmente corporativo, creatisi nei due anni di vita come frazione in seno al PSI; questi legami sono andati sempre più allentandosi e non sarà difficile eliminarli totalmente. La lotta contro il frazionismo deve essere anzitutto propaganda di giusti principi organizzativi, ma essa non avrà successo sino a che il partito italiano non potrà nuovamente considerare la discussione dei problemi attuali suoi e della Internazionale come fatto normale, e orientare le sue tendenze in relazione a questi problemi.

Il funzionamento della organizzazione del partito

34. Un partito bolscevico deve essere organizzato in modo da poter funzionare, in qualsiasi condizione, a contatto con la massa. Questo principio assume la più grande importanza tra di noi, per la compressione che il fascismo esercita allo scopo di impedire che i rapporti di forze reali si traducano in rapporti di forze organizzate. Soltanto con la massima concentrazione e intensità della attività del partito si può riuscire a neutralizzare almeno in parte questo fattore negativo e ad ottenere che esso non intralci profondamente il processo della rivoluzione. Devono essere perciò presi in considerazione:

a) il numero degli iscritti e la loro capacità politica; essi devono essere tanti da permettere una continua estensione della nostra influenza. E' da combattere la tendenza a tenere artificialmente ristretti i quadri: essa porta alla passività, alla atrofia. Ogni iscritto però deve essere un elemento politicamente attivo, capace di diffondere la influenza del partito, e tradurre quotidianamente in atto le direttive di esso, guidando una parte della massa lavoratrice;

b) la utilizzazione di tutti i compagni in un lavoro pratico;

c) il coordinamento unitario delle diverse specie di attività a mezzo di comitati nei quali si articola tutto il partito come organo di lavoro tra le masse;

d) il funzionamento collegiale degli organi centrali del partito, considerato come condizione per la costituzione di un gruppo dirigente "bolscevico" omogeneo e compatto;

e) la capacità dei compagni di lavorare tra le masse, di essere continuamente presenti tra di esse, di essere in prima fila in tutte le lotte, di sapere in ogni occasione assumere e tenere la posizione che è propria dell'avanguardia del proletariato. Si insiste su questo punto perché la necessità del lavoro sotterraneo e la errata ideologia di "estrema sinistra" hanno prodotto una limitazione della capacità di lavoro tra le masse e con le masse;

f) la capacità degli organismi periferici e dei singoli compagni di affrontare situazioni imprevedute e di prendere atteggiamenti esatti anche prima che giungano disposizioni dagli organi superiori. E' da combattere la forma di passività, residuo essa pure delle false concezioni organizzative dell'estremismo, che consiste nel sapere solo "attendere gli ordini dall'alto". Il partito deve avere alla base una sua "iniziativa", cioè gli organi di base devono saper reagire immediatamente ad ogni situazione imprevista e improvvisa;

g) la capacità di compiere un lavoro "sotterraneo" (illegale) e di difendere il partito dalla reazione di ogni sorta senza perdere il contatto con le masse, ma facendo servire come difesa il contatto stesso con i più vasti strati della classe lavoratrice. Nella situazione attuale una difesa del partito e del suo apparato che sia ottenuta riducendosi ad esplicare una attività di semplice "organizzazione interna" è da considerare come un abbandono della causa della rivoluzione.

Ognuno di questi punti è da considerare con attenzione perché indica insieme un difetto del partito e un progresso che gli si deve far compiere. Essi hanno tanto maggiore importanza in quanto è da prevedere che i colpi della reazione indeboliranno ancora l'apparato di collegamento tra il centro e la periferia, per quanto grandi siano gli sforzi per mantenerlo intatto.

Strategia e tattica del partito

35. La capacità e tattica del partito è la capacità di organizzare e unificare attorno all'avanguardia proletaria e alla classe operaia tutte le forze necessarie alla vittoria rivoluzionaria e di guidarle di fatto verso la rivoluzione approfittando delle situazioni oggettive e degli spostamenti di forze che esse provocano sia tra la popolazione lavoratrice che tra i nemici della classe operaia. Con la sua strategia e con la sua tattica il partito "dirige la classe operaia" nei grandi movimenti storici e nelle sue lotte quotidiane. L'unica direzione è legata all'altra ed è condizionata dall'altra.

36. Il principio che il partito dirige la classe operaia non deve essere interpretato in modo meccanico. Non bisogna credere che il partito possa dirigere la classe operaia per una imposizione autoritaria esterna; questo non è vero né per il periodo che precede né per il periodo che segue la conquista del potere. L'errore di una interpretazione meccanica di questo principio deve essere combattuto nel partito italiano come una possibile conseguenza delle deviazioni ideologiche di estrema sinistra; queste deviazioni portano infatti a una arbitraria sopravvalutazione formale del partito per ciò che riguarda la funzione di guida della classe. Noi affermiamo che la capacità di dirigere la classe è in relazione non al fatto che il partito si "proclami" l'organo rivoluzionario di essa, ma al fatto che esso "effettivamente" riesca, come una parte della classe operaia, a collegarsi con tutte le sezioni della classe stessa e a imprimere alla massa un movimento nella direzione desiderata e favorita dalle condizioni oggettive. 

Solo come conseguenza della sua azione tra le masse il partito potrà ottenere che esse lo riconoscano come il "loro" partito (conquista della maggioranza), e solo quando questa condizione si è realizzata esso può presumere di poter trascinare dietro a sé la classe operaia. Le esigenze di questa azione tra le masse sono superiori a ogni "patriottismo" di partito.

37. Il partito dirige la classe penetrando in tutte le organizzazioni in cui la massa lavoratrice si raccoglie e compiendo in esse e attraverso di esse una sistematica mobilitazione di energia secondo il programma della lotta di classe e un'azione di conquista della maggioranza alle direttive comuniste. Le organizzazioni in cui il partito lavora e che tendono per loro natura a incorporare tutta la massa operaia non possono mai sostituire il Partito comunista, che è l'organizzazione politica dei rivoluzionari, cioè dell'avanguardia del proletariato. Così è escluso un rapporto di subordinazione, e di "eguaglianza" tra le organizzazioni di massa e il partito (patto sindacale di Stoccarda, patto di alleanza tra il Partito socialista italiano e la Confederazione generale del lavoro). 

Il rapporto tra sindacati e partito è uno speciale rapporto di direzione che si realizza mediante la attività che i comunisti esplicano in seno ai sindacati. I comunisti si organizzano in frazioni nei sindacati e in tutte le formazioni di massa e partecipano in prima fila alla vita di queste formazioni e alle lotte che esse conducono, sostenendovi il programma e le parole d'ordine del loro partito. Ogni tendenza a estraniarsi dalla vita delle organizzazioni, qualunque esse siano, in cui è possibile prendere contatto con le masse lavoratrici, è da combattere come pericolosa deviazione, indizi di pessimismo e sorgente di passività.

38. Organi specifici di raccoglimento delle masse lavoratrici sono nei paesi capitalistici i sindacati. L'azione nei sindacati è da considerare come essenziale per il raggiungimento dei fini del partito. Il partito che rinuncia alla lotta per esercitare la sua influenza nei sindacati e per conquistarne la direzione, rinuncia di fatto alla conquista della massa operaia e alla lotta rivoluzionaria per il potere. In Italia l'azione nei sindacati assume una particolare importanza perché consente di lavorare con intensità più grave e con risultati migliori a quella riorganizzazione del proletariato industriale e agricolo che deve ridargli una posizione di predominio nei confronti con le altre classi sociali. 

La compressione fascista e specialmente la nuova politica sindacale del fascismo creano però una condizione di cose del tutto particolare. La Confederazione del lavoro e i sindacati di classe si vedono tolta la possibilità di svolgere, nelle forme tradizionali, una attività di organizzazione e di difesa economica. Essi tendono a ridursi a semplici uffici di propaganda. In pari tempo però la classe operaia, sotto l'impulso della situazione oggettiva, è spinta a riordinare le proprie forze secondo nuove forme di organizzazione. Il partito deve quindi riuscire a compiere una azione di difesa del sindacato di classe e di rivendicazioni della sua libertà, e in pari tempo deve secondare e stimolare la tendenza alla creazione di organismi rappresentativi di massa i quali aderiscono al sistema della produzione. Paralizzata l'attività del sindacato di classe, la difesa dell'interesse immediato dei lavoratori tende a compiersi attraverso uno spezzettamento della resistenza e della lotta per officine, per categorie, per reparti di lavoro, ecc. 

Il Partito comunista deve saper seguire tutte queste lotte ed esercitare una vera e propria direzione di esse, impedendo che in esse vada smarrito il carattere unitario e rivoluzionario dei contrasti di classe, sfruttandole anzi per favorire la mobilitazione di tutto il proletariato e la organizzazione di esso sopra un fronte di combattimento (Tesi sindacali).

39. Il partito dirige e unifica la classe operaia partecipando a tutte le lotte di carattere parziale, e formulando e agitando un programma di rivendicazioni di immediato interesse per la classe lavoratrice. Le azioni parziali e limitate sono da esso considerate come momenti necessari per giungere alla mobilitazione progressiva e alla unificazione di tutte le forze della classe lavoratrice. Il partito combatte la concezione secondo la quale ci si dovrebbe astenere dall'appoggiare o dal prendere parte ad azioni parziali perché i problemi interessanti la classe lavoratrice sono risolubili solo con l'abbattimento del regime capitalista e con una azione generale di tutte le forze anticapitalistiche. Esso è consapevole della impossibilità che le condizioni dei lavoratori siano migliorate in modo serio e durevole, nel periodo dell'imperialismo e prima che il regime capitalista sia stato abbattuto. 

L'agitazione di un programma di rivendicazioni immediate e l'appoggio alle lotte parziali è però il solo modo col quale si possa giungere alle grandi masse e mobilitarle contro il capitale. D'altra parte ogni agitazione o vittoria di categorie operaie nel campo delle rivendicazioni immediate rende più acuta la crisi del capitalismo, e ne accelera anche soggettivamente la caduta in quanto sposta l'instabile equilibrio economico sul quale esso oggi basa il suo potere. Il Partito comunista lega ogni rivendicazione immediata a un obiettivo rivoluzionario, si serve di ogni lotta parziale per insegnare alle masse la necessità dell'azione generale, della insurrezione contro il dominio reazionario del capitale, e cerca di ottenere che ogni lotta di carattere limitato sia preparata e diretta così da poter condurre alla mobilitazione e unificazione delle forze proletarie, e non alla loro dispersione. 

Esso sostiene queste sue concezioni nell'interno delle organizzazioni di massa cui spetta la direzione dei movimenti parziali, o nei confronti dei partiti politici che ne prendono la iniziativa, oppure le fa valere prendendo esso la iniziativa di proporre le azioni parziali, sia in seno a organizzazioni di massa, sia ad altri partiti (tattica del fronte unico). In ogni caso si serve della esperienza del movimento e dell'esito delle sue proposte per accrescere la sua influenza, dimostrando con i fatti che il suo programma di azione è il solo rispondente agli interessi delle masse e alla situazione oggettiva, e per portare sopra una posizione più avanzata una sezione arretrata della classe lavoratrice. La iniziativa diretta del Partito comunista per una azione parziale, può aver luogo quando essa controlla attraverso organismi di massa una parte notevole della classe lavoratrice, o quando sia sicuro che una sua parola d'ordine diretta sia seguita egualmente da una parte notevole della classe lavoratrice. 

Il partito non prenderà però questa iniziativa se non quando, in relazione con la situazione oggettiva, essa porti a uno spostamento a suo favore dei rapporti di forza, e rappresenti un passo in avanti sulla unificazione e mobilitazione della classe sul terreno rivoluzionario. E' escluso che una azione violenta di individui o di gruppi possa servire a strappare dalla passività le masse operaie quando il partito non sia collegato profondamente con esse. In particolare la attività dei gruppi armati, anche come reazione alla violenza fisica dei fascisti, ha valore solo in quanto si collega con una reazione delle masse o riesce a suscitarla e prepararla acquistando nel campo della mobilitazione di forze materiali lo stesso valore che hanno gli scioperi e le agitazioni economiche particolari per la mobilitazione generale delle energie dei lavoratori in difesa dei loro interessi di classe.

39 bis. E' un errore il ritenere che le rivendicazioni immediate e le azioni parziali possano avere solamente carattere economico. Poiché, con l'approfondirsi della crisi del capitalismo, le classi dirigenti capitalistiche e agrarie sono costrette, per mantenere il loro potere, a limitare e sopprimere le libertà di organizzazione e politiche del proletariato, la rivendicazione di queste libertà offre un ottimo terreno per agitazioni e lotte parziali, le quali possono giungere alla mobilitazione di vasti strati della popolazione lavoratrice. Tutta la legislazione con la quale i fascisti sopprimono, in Italia, anche le più elementari libertà della classe operaia, deve quindi fornire al Partito comunista motivi per l'agitazione e mobilitazione delle masse. 

Sarà compito del Partito comunista collegare ognuna delle parole d'ordine che esso lancerà in questo campo con le direttive generali della sua azione: in particolare con la pratica dimostrazione della possibilità che il regime instaurato dal fascismo subisca radicali limitazioni e trasformazioni in senso "liberale" e "democratico" senza che sia scatenata contro il fascismo una lotta di masse, la quale dovrà inesorabilmente sboccare nella guerra civile. Questa convinzione deve diffondersi nelle masse nella misura in cui noi riusciremo, collegando le rivendicazioni parziali di carattere politico con quelle di carattere economico, a trasformare i movimenti "rivoluzionari democratici" in movimenti rivoluzionari operai e socialisti. 

Particolarmente questo dovrà essere ottenuto per quanto riguarda l'agitazione contro la monarchia. La monarchia è uno dei puntelli del regime fascista; essa è la forma statale del fascismo italiano. La mobilitazione antimonarchica delle masse della popolazione italiana è uno degli scopi che il Partito comunista deve proporre. Essa servirà efficacemente a smascherare alcuni gruppi sedicenti antifascisti già coalizzati nell'Aventino. Essa deve però sempre essere condotta insieme con l'agitazione e con la lotta contro gli altri pilastri fondamentali del regime fascista, che sono la plutocrazia industriale e gli agrari. Nell'agitazione antimonarchica il problema della forma dello Stato sarà inoltre presentato dal Partito comunista in connessione continua con il problema del contenuto di classe che i comunisti intendono dare allo Stato. Nel recente passato (giugno 1925) la connessione di questi problemi venne ottenuta dal partito ponendo a base della sua azione politica le parole d'ordine: "Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini; controllo operaio sull'industria; terra ai contadini".

40. Il compito di unificare le forze del proletariato e di tutta la classe lavoratrice sopra un terreno di lotta è la parte "positiva" della tattica del fronte unico ed è in Italia, nelle circostanze attuali, compito fondamentale del partito. I comunisti devono considerare la unità della classe lavoratrice come un risultato concreto, reale, da ottenere, per impedire al capitalismo l'attuazione del suo piano di disgregare in modo permanente il proletariato e di rendere impossibile ogni lotta rivoluzionaria. Essi devono saper lavorare in tutti i modi per raggiungere questo scopo soprattutto devono rendersi capaci di avvicinare gli operai di altri partiti e senza partito superando ostilità e incomprensioni fuori luogo, e presentandosi in ogni caso come i fautori dell'unità della classe nella lotta per la sua difesa e per la sua liberazione. Il "fronte unico" di lotta antifascista e anticapitalista che i comunisti si sforzano di creare deve tendere a essere un fronte unico organizzato, cioè a fondarsi sopra organismi attorno ai quali tutta la massa trovi una forma e si raccolga. 

Tali sono gli organismi rappresentativi che le masse stesse oggi hanno la tendenza a costituire, a partire dalle officine, e in occasione di ogni agitazione, dopo che le possibilità di funzionamento normale dei sindacati hanno incominciato a essere limitate. I comunisti devono rendersi conto di questa tendenza delle masse e saperla stimolare, sviluppando gli elementi positivi che essa contiene e combattendo le deviazioni particolaristiche cui essa può dare luogo. La cosa deve essere considerata senza feticismi per una determinata forma di organizzazione, tenendo presente che lo scopo nostro fondamentale è di ottenere una mobilitazione e una unità organica sempre più vaste di forze. Per raggiungere questo scopo occorre sapersi adattare a tutti i terreni che ci sono offerti dalla realtà, sfruttare tutti i motivi di agitazione, insistere sopra l'una o sopra l'altra forma di organizzazione a seconda della necessità e a seconda delle possibilità di sviluppo di ognuna di esse (Tesi sindacali: capitoli relativi alle commissioni interne, ai comitati di agitazione, alle conferenze di fabbriche).

41. La parola d'ordine dei comitati operai e contadini deve essere considerata come formula riassuntiva di tutta l'azione del partito in quanto essa si propone di creare un fronte unico organizzato della classe lavoratrice. I comitati operai e contadini sono organi di unità della classe lavoratrice mobilitata sia per una lotta di carattere immediato che per azioni politiche di più largo sviluppo. La parola d'ordine della creazione di comitati operai e contadini è quindi una parola d'ordine di attuazione immediata per tutti quei casi in cui il partito riesce con la sua attività a mobilitare una sezione della classe lavoratrice abbastanza estesa (più di una sola fabbrica, più di una sola categoria in una località), ma essa è in pari tempo una soluzione politica e una parola di agitazione adeguata a tutto un periodo della vita e della azione del partito. Essa rende evidente e concreta la necessità che i lavoratori organizzino le loro forze e le contrappongano di fatto a quelle di tutti i gruppi di origine e natura borghese, al fine di poter diventare elemento determinante e preponderante della situazione politica.

42. La tattica del fronte unico come azione politica (manovra) destinata a smascherare partiti e gruppi sedicenti proletari e rivoluzionari aventi una base di massa, è strettamente collegata col problema della direzione delle masse da parte del Partito comunista e col problema della conquista della maggioranza. Nella forma in cui è stata definita dai congressi mondiali essa è applicabile in tutti i casi in cui, per l'adesione delle masse ai gruppi che noi combattiamo, la lotta frontale contro di essi non sia sufficiente a darci risultati rapidi e profondi. Il successo di questa tattica è legato alla misura in cui essa è preceduta o si accompagna ad una effettiva opera di unificazione e di mobilitazione di masse ottenuta dal partito con una azione dal basso. 

In Italia la tattica del fronte unico deve continuare ad essere adottata dal partito nella misura in cui esso è ancora lontano dall'aver conquistato una influenza decisiva sulla maggioranza della classe operaia e della popolazione lavoratrice. Le particolari condizioni italiane assicurano la vitalità di formazioni politiche intermedie, basate sopra l'equivoco e favorite dalla passività di una parte della massa (massimalisti, repubblicani, unitari). Una formazione di questo genere sarà il gruppo di centro che assai probabilmente sorgerà dallo sfacelo dell'Aventino. Non è possibile lottare a pieno contro il pericolo che queste formazioni rappresentano se non con la tattica del fronte unico. Ma non bisogna contare di poter aver successi se non in relazione al lavoro che contemporaneamente si sarà fatto per strappare le masse alla passività.

42 bis. Il problema del Partito massimalista deve essere considerato alla stregua del problema di tutte le altre formazioni intermedie che il Partito comunista combatte come ostacolo alla preparazione rivoluzionaria del proletariato e verso le quali adotta, a seconda delle circostanze, la tattica del fronte unico. E' certo che in alcune zone il problema della conquista della maggioranza è per noi legato specificamente al problema di distruggere la influenza del PSI e del suo giornale. I capi del Partito socialista d'altra parte vengono sempre più apertamente classificandosi tra le forze controrivoluzionarie e di conservazione dell'ordine capitalistico (campagna per l'intervento del capitale americano; solidarietà di fatto con i dirigenti sindacali riformisti). 

Nulla permette di escludere del tutto la possibilità di un loro accostamento ai riformisti e di una successiva fusione di essi. Il Partito comunista deve tenere presente questa possibilità e proporsi fin d'ora di ottenere che, quando essa si realizzasse, le masse che sono ancora controllate dai massimalisti ma conservano uno spirito classista, si stacchino da essi decisamente e si leghino nel modo più stretto con le masse che la avanguardia comunista tiene attorno a sé. I buoni risultati dati dalla fusione con la frazione terzinternazionalista decisa dal V Congresso hanno insegnato al partito italiano come in condizioni determinate si ottengano, con una azione politica avveduta, risultati che non si potrebbero ottenere con la normale attività di propaganda e organizzazione.

43. Mentre agita il suo programma di rivendicazioni classiste immediate e concentra la sua attività nell'ottenere la mobilitazione e unificazione delle forze operaie e lavoratrici, il partito può presentare, allo scopo di agevolare lo sviluppo della propria azione, soluzioni intermedie di problemi politici generali, e agitare queste soluzioni tra le masse che sono ancora aderenti a partiti e formazioni controrivoluzionarie. Questa presentazione e agitazione di soluzioni intermedie - lontane tanto dalle parole d'ordine del partito quanto dal programma di inerzia e passività dei gruppi che si vogliono combattere - permette di raccogliere al seguito del partito forze più vaste, di porre in contraddizione le parole dei dirigenti i partiti di massa controrivoluzionari con le loro intenzioni reali, di spingere le masse verso soluzioni rivoluzionarie e di estendere la nostra influenza (esempio: antiparlamento). 

Queste soluzioni intermedie non si possono prevedere tutte, perché devono in ogni caso aderire alla realtà. Esse devono però essere tali da poter costituire un ponte di passaggio verso le parole d'ordine del partito, e deve apparire sempre evidente alle masse che una loro eventuale realizzazione si risolverebbe in un acceleramento del processo rivoluzionario e in un inizio di lotte più profonde. La presentazione e agitazione di queste soluzioni intermedie è la forma più specifica di lotta che deve essere usata contro i partiti sedicenti democratici, i quali in realtà sono uno dei più forti sostegni dell'ordine capitalistico vacillante e come tali si alternano al potere con i gruppi reazionari, quando questi partiti sedicenti democratici sono collegati con strati importanti e decisivi della popolazione lavoratrice (come in Italia nei primi mesi della crisi Matteotti) e quando è imminente e grave un pericolo reazionario (tattica adottata dai bolscevichi verso Kerenski durante il colpo di Kornilov). In questi casi il Partito comunista ottiene i migliori risultati agitando le soluzioni stesse che dovrebbero essere proprie dei partiti sedicenti democratici se essi sapessero condurre per la democrazia una lotta conseguente, con tutti i mezzi che la situazione richiede. Questi partiti, posti così alla prova dei fatti, si smascherano di fronte alle masse e perdono la loro influenza su di esse.

44. Tutte le agitazioni particolari che il partito conduce e le attività che esso esplica in ogni direzione per mobilitare e unificare le forze della classe lavoratrice devono convergere ed essere riassunte in una formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle masse e abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti. Questa formula è quella del "governo operaio e contadino". Essa indica anche alle masse più arretrate la necessità della conquista del potere per la soluzione dei problemi vitali che le interessano e fornisce il mezzo per portarle sul terreno che è proprio dell'avanguardia operaia più evoluta (lotta per la dittatura del proletariato). In questo senso essa è una formula di agitazione, ma non corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni intermedie di cui al numero precedente. 

Una realizzazione di essa infatti non può essere concepita dal partito se non come inizio di una lotta rivoluzionaria diretta, cioè della guerra civile condotta dal proletariato, in alleanza con i contadini, per la conquista del potere. Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d'ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell'interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato.

Cinque anni di vita del partito
Resoconto dei lavori del III Congresso

"L'Unità", 24 febbraio 1926

Data la difficoltà di pubblicare immediatamente un resoconto giornalistico dei lavori del III Congresso del nostro partito, riteniamo per intanto opportuno di offrire ai compagni e alla massa dei lettori un esame e una informazione generale dei risultati del congresso stesso. Ci affrettiamo comunque ad annunciare che prossimamente sarà pubblicato sul nostro giornale il resoconto materiale del congresso e saranno successivamente riunite in un volume le deliberazioni e le tesi nel loro testo definitivo. 

I risultati numerici dei voti al congresso furono i seguenti: assenti e non consultati 18,9%; dei presenti al congresso: voti per il Comitato centrale 90,8; per l'estrema sinistra 9,2; Il nostro partito è nato nel gennaio 1921, cioè nel momento più critico sia della crisi generale della borghesia italiana, sia della crisi del movimento operaio. Ma la scissione, se era storicamente necessaria ed inevitabile, trovava però le grandi masse impreparate e riluttanti. In tale situazione l'organizzazione materiale del nuovo partito trovava le condizioni più difficili. Avvenne perciò che il lavoro puramente organizzativo, data la difficoltà delle condizioni in cui doveva svolgersi, assorbì le energie creatrici del partito in modo quasi completo. 

I problemi politici che si ponevano, per la decomposizione da una parte del personale dei vecchi gruppi dirigenti borghesi, dall'altra per un processo analogo del movimento operaio, non poterono essere approfonditi sufficientemente. Tutta la linea politica del partito negli anni immediatamente successivi alla scissione fu in primo luogo condizionata da questa necessità: di mantenere strette le file del partito, aggredito fisicamente dalla offensiva fascista da una parte, e dai miasmi cadaverici della decomposizione socialista dall'altra. 

Era naturale che in tali condizioni si sviluppassero nell'interno del nostro partito sentimenti e stati d'animo di carattere corporativo e settario. Il problema generale politico, inerente all'assistenza e allo sviluppo del partito non era visto nel senso di una attività per la quale il partito dovesse tendere a conquistare le più larghe masse e ad organizzare le forze sociali necessarie per sconfiggere la borghesia e conquistare il potere, ma era visto come il problema della esistenza stessa del partito.

La scissione di Livorno

Il fatto della scissione fu visto nel suo valore immediato e meccanico e noi commetteremmo, in altro senso sia pure, lo stesso errore che era stato commesso da Serrati. Il compagno Lenin aveva dato la formula lapidaria del significato della scissione, in Italia, quando aveva detto al compagno Serrati: "Separatevi da Turati, e poi fate l'alleanza con lui". 

Questa formula avrebbe dovuto essere da noi adattata alla scissione avvenuta in forma diversa da quella prevista da Lenin. Dovevamo cioè, come era indispensabile e storicamente necessario, separarci non solo dal riformismo, ma anche dal massimalismo che in realtà rappresentava e rappresenta l'opportunismo tipico italiano del movimento operaio; ma dopo di ciò e pur continuando la lotta ideologica e organizzativa contro di essi, cercare di fare una alleanza contro la reazione. 

Per gli elementi dirigenti del nostro partito, ogni azione dell'Internazionale, rivolta ad ottenere un riavvicinamento a questa linea, apparve come se fosse una sconfessione implicita della scissione di Livorno, come una manifestazione di pentimento. 

Si disse che, accettando una tale impostazione della lotta politica, si veniva ad ammettere che il nostro partito era solamente una nebulosa indefinita, mentre era giusto ed era necessario affermare che il nostro partito, nascendo, aveva risolto definitivamente il problema della formazione storica del partito del proletariato italiano. 

Questa opinione era rafforzata dalle non lontane esperienze della rivoluzione soviettista in Ungheria, dove la fusione tra comunisti e socialdemocratici fu certamente uno degli elementi che contribuirono alla disfatta.

La portata dell'esperienza ungherese

In realtà l'impostazione data a questo problema dal nostro partito era falsa e andò sempre più manifestandosi come tale alle larghe masse del partito. Proprio l'esperienza ungherese avrebbe dovuto convincerci che la linea seguita dall'Internazionale nella formazione dei partiti comunisti non era quella che noi le attribuivamo. E' noto infatti che il compagno Lenin cercò di opporsi strenuamente alla fusione tra comunisti e socialdemocratici ungheresi, nonostante che questi ultimi si dichiarassero fautori della dittatura del proletariato. Si può dire perciò che il compagno Lenin fosse in generale contrario alle fusioni? Certamente no. Il problema era visto dal compagno Lenin e dall'Internazionale come un processo dialettico, attraverso il quale l'elemento comunista, cioè la parte più avanzata e cosciente del proletariato, si pone, sia nell'organizzazione del partito della classe operaia, sia nella funzione di direzione delle grandi masse, alla testa di tutto ciò che di onesto e attivo si è formato ed esiste nella classe. 

In Ungheria è stato un errore distruggere l'organizzazione indipendente comunista nel momento della presa del potere, per dissolvere e diluire il raggruppamento costituito nella più vasta ed amorfa organizzazione socialdemocratica che non poteva non riprendere predominio. Anche per l'Ungheria il compagno Lenin aveva formulato la linea del nostro vecchio partito come un'alleanza con la socialdemocrazia, non come una fusione. Alla fusione si sarebbe arrivati più tardi, quando il processo del predominio del raggruppamento comunista si fosse sviluppato sulla scala più larga nel campo dell'organizzazione di partito, dell'organizzazione sindacale e dell'apparato statale, e cioè con la separazione organica e politica degli operai rivoluzionari dai capi opportunisti. 

Per l'Italia il problema si poneva in termini ancora più semplici che in Ungheria, perché non solo il proletariato non aveva conquistato il potere, ma iniziava, proprio nel momento della formazione del partito, un grande movimento di ritirata. Porre in Italia la questione della formazione del partito, così com'era stato indicato dal compagno Lenin nella sua formula espressa a Serrati, significava - nell'arretramento del proletariato che si iniziava allora - dare la possibilità al nostro partito di raggruppare intorno a sé quegli elementi del proletariato che avrebbero dovuto resistere, ma che sotto la direzione massimalista erano travolti nella rotta generale e cadevano progressivamente nella passività. Ciò significava che la tattica suggerita da Lenin e dall'Internazionale era l'unica capace di rafforzare e sviluppare i risultati della scissione di Livorno e di fare veramente del nostro partito, fin d'allora, non solo in astratto e come affermazione storica, ma in forma effettiva, il partito dirigente della classe operaia. 

Per questa falsa impostazione del problema, noi ci siamo mantenuti sulle posizioni avanzate, da soli e con la frazione di masse immediatamente più vicina al partito, ma non abbiamo fatto quanto era necessario per mantenere sulle nostre posizioni il proletariato nel suo complesso, il quale tuttavia era ancora animato da un grande spirito di lotta, come è dimostrato da tanti episodi spesso eroici della resistenza opposta all'avanzata avversaria.

Il partito negli anni 1921-22

Un altro degli elementi di debolezza della nostra organizzazione è consistito nel fatto che tali problemi, data la difficoltà della situazione e dato che le forze del partito erano assorbite dalla lotta immediata per la propria difesa fisica, non divennero oggetto di discussione alla base e quindi elemento di sviluppo della capacità ideologica e politica del partito. Avvenne così che il I Congresso del partito, quello tenuto a Livorno nel teatro San Marco subito dopo la scissione, si pose solo dei compiti di carattere organizzativo immediato: formazione degli organismi centrali e inquadramento generale del partito. 

Il II Congresso avrebbe potuto e forse dovuto esaminare e impostare le suddette questioni, ma a ciò si opposero i seguenti elementi: 

1) il fatto che non solo la massa, ma anche una grande parte degli elementi più responsabili e più vicini alla direzione del partito ignoravano letteralmente che esistessero divergenze profonde ed essenziali fra la linea seguita dal nostro partito e quella sostenuta dall'Internazionale; 

2) l'essere il partito assorbito dalla lotta diretta fisica portava a sottovalutare le questioni ideologiche e politiche in confronto di quelle puramente organizzative. Era quindi naturale che sorgesse nel partito uno stato d'animo contrario a priori ad approfondire ogni questione che potesse prospettare pericoli di conflitti gravi nel gruppo dirigente costituitosi a Livorno; 

3) il fatto che l'opposizione rilevatasi al Congresso di Roma e che diceva essere la sola rappresentante delle direttive dell'Internazionale era, nella situazione data, un'espressione dello stato d'animo di stanchezza e di passività che esisteva in alcune zone del partito. 

La crisi subita sia dalla classe dominante che dal proletariato nel periodo precedente l'avvento del fascismo al potere, pose nuovamente il nostro partito dinanzi ai problemi che il Congresso di Roma non aveva avuto la possibilità di risolvere. 

In che cosa consistette questa crisi? I gruppi di sinistra della borghesia, fautori a parole di un governo democratico che si proponesse di arginare energicamente il movimento fascista, avevano reso arbitro il Partito socialista di accettare o non accettare questa soluzione per liquidarlo politicamente sotto il cumulo della responsabilità di un mancato accordo antifascista. In questo modo di porre la questione da parte dei democratici era implicita la preventiva capitolazione dinanzi al movimento fascista, fenomeno che si riprodusse poi nella crisi Matteotti. 

Tuttavia tale impostazione se ebbe in un primo tempo il potere di determinare una chiarificazione nel Partito socialista, essendosi in base ad essa prodotta la scissione dei massimalisti dai riformisti, aggravava però la situazione del proletariato. Infatti la scissione rendeva infruttuosa la tattica proposta dai democratici, in quanto il governo di sinistra da questi prospettato doveva comprendere il Partito socialista unito, cioè significare la cattura della maggioranza della classe proletaria organizzata nell'ingranaggio dello Stato borghese, anticipando la legislazione fascista e rendendo politicamente inutile l'esperimento diretto fascista. 

D'altronde la scissione, come apparve più chiaramente in seguito, solo macchinalmente aveva portato a uno sbalzo a sinistra dei massimalisti, i quali, se affermavano di voler aderire all'Internazionale comunista e quindi di riconoscere l'errore commesso a Livorno, si muovevano però con tante riserve e reticenze mentali da neutralizzare il risveglio rivoluzionario che la scissione aveva determinato nelle masse, portandole così a nuove disillusioni e a una ricaduta di passività, di cui approfittò il fascismo per effettuare la marcia su Roma. 

Il nuovo corso del partito
Questa nuova situazione si riflettè al IV Congresso dell'Internazionale comunista, dove si arrivò alla formazione del comitato di fusione dopo incertezze e resistenze che erano legate alla persuasione radicata nella maggioranza dei delegati del nostro partito che lo spostamento dei massimalisti non rappresentava che una oscillazione transitoria e senza avvenire. In ogni modo è da questo momento che si inizia nell'interno del nostro partito un processo che prosegue incessantemente ed esce dal campo del fenomeno di gruppo per divenire proprio di tutto il partito, quando si avvertono e si sviluppano gli elementi della crisi del fascismo iniziatasi col Congresso di Torino del Partito popolare. 

Appare sempre più evidente che occorre far uscire il partito dalla posizione mantenuta nel 1921-22, se si vuole che il movimento comunista si sviluppi parallelamente alla crisi che subisce la classe dominante. La pregiudiziale che aveva avuto una così larga importanza nel passato, per la quale occorreva prima di tutto mantenere l'unità organizzativa del partito, veniva a cadere per il fatto che nella situazione di conflitto tra il nostro partito e l'Internazionale, si costituiva nelle nostre file uno stato di frazione latente che trovava la sua espressione in gruppi nettamente di destra, spesso con carattere nettamente liquidazionista. 

Tardare ancora a porre in tutta la loro ampiezza le questioni fondamentali di tattica, sulle quali fino ad allora si era esitato ad aprire la discussione, avrebbe significato determinare una crisi generale del partito senza uscita. Avvennero così nuovi raggruppamenti che andarono sempre più sviluppandosi, fino alla vigilia del nostro III Congresso, quando fu possibile accertare che non solo la grande maggioranza alla base del partito (che non era stata mai apertamente interpellata), ma anche la maggioranza del vecchio gruppo dirigente si era staccata nettamente dalla concezione e dalla posizione politica di estrema sinistra, per portarsi completamente sul terreno dell'Internazionale e del leninismo.

L'importanza del III Congresso

Da ciò che è stato detto finora, appare chiaramente quanto fossero grandi l'importanza e i compiti del nostro III Congresso. Esso doveva chiudere tutta un'epoca della vita del nostro partito, ponendo termine alla crisi interna, e determinando uno schieramento stabile di forze tale da permettere uno sviluppo normale della sua capacità di direzione politica delle masse da parte del partito e quindi della sua capacità d'azione. 

Ha il congresso effettivamente risolto questi compiti? Indubbiamente tutti i lavori del congresso hanno dimostrato che, nonostante le difficoltà della situazione, il nostro partito sia riuscito a risolvere la sua crisi di sviluppo, raggiungendo un livello di omogeneità, di compattezza e di stabilizzazione notevole e certamente superiore a quello di molte altre sezioni dell'Internazionale. L'intervento nelle discussioni di congresso dei delegati di base, alcuni dei quali venuti dalle regioni dove più è difficile l'attività del partito, ha dimostrato come gli elementi fondamentali del dibattito, fra l'Internazionale e il Comitato centrale da una parte e l'opposizione dall'altra, siano stati non solo meccanicamente assorbiti dal partito, ma, avendo determinato una convinzione consapevole e diffusa, abbiano contribuito ad elevare, in misura impreveduta anche dagli stessi compagni più ottimisti, il tono della vita intellettuale della massa dei compagni e la loro capacità di direzione e di iniziativa politica. Questo ci pare il significato più rilevante del congresso. 

E' risultato che il nostro partito non solo può dirsi di massa per l'influenza che esso esercita sui larghi strati della classe operaia e della massa contadina, ma perché ha acquistato nei singoli elementi che lo compongono una capacità di analisi delle situazioni, di iniziativa politica e di forza dirigente che nel passato gli mancavano e che sono la base della sua capacità di direzione collettiva. D'altronde tutto lo svolgimento dei lavori condotti alla base per organizzare ideologicamente e praticamente il Congresso nelle regioni e nelle province dove la repressione poliziesca vigila con maggiore intensità ogni movimento dei nostri compagni, e il fatto che si sia riusciti per sette giorni a tenere uniti oltre sessanta compagni per il congresso del partito, e quasi altrettanti per il congresso giovanile, sono di per sé stessi una prova dello sviluppo più sopra accennato. 

E' evidente per tutti che tutto questo movimento di compagni e di organizzazioni non è solamente un puro fatto organizzativo, ma costituisce di per sé un'altissima manifestazione di valore politico. Poche cifre in proposito. Sono state tenute nella prima fase della preparazione congressuale dalle due alle tre mila riunioni di base che hanno culminato in oltre un centinaio di congressi provinciali, ove furono scelti, dopo ampie discussioni, i delegati al congresso.

Valore politico e risultati acquisiti

Ogni operaio è in grado di apprezzare tutto il significato di queste poche cifre che è possibile pubblicare, dopo cinque anni dall'epoca dell'occupazione delle fabbriche e tre anni di governo fascista che ha intensificato l'opera generale di controllo su ogni attività di massa e ha realizzato un'organizzazione di polizia che è grandemente superiore alle organizzazioni poliziesche precedentemente esistite. 

Poiché la maggiore debolezza dell'organizzazione operaia tradizionale si manifestava essenzialmente nello squilibrio permanente e che diventava catastrofico nei momenti culminanti dell'attività di massa, tra la potenzialità dei quadri organizzativi di partito e la spinta spontanea dal basso, è evidente che il nostro partito è riuscito, nonostante le condizioni estremamente sfavorevoli dell'attuale periodo, a superare in misura notevole questa debolezza e a predisporre forze organizzative coordinate e centralizzate che assicurano la classe operaia contro gli errori e le insufficienze che si verificavano nel passato. E' questo un altro dei significati più importanti del nostro congresso: la classe operaia è capace di azione e dimostra di essere storicamente in grado di compiere la sua missione direttrice nella lotta anticapitalistica, nella misura in cui riesce ad esprimere dal suo seno tutti gli elementi tecnici che nella società moderna si dimostrano indispensabili per l'organizzazione concreta delle istituzioni in cui si realizzerà il programma proletario. 

E da questo punto di vista occorre analizzare tutta l'attività del movimento fascista dal 1921 fino alle ultime leggi fascistissime: essa è stata sistematicamente rivolta a distruggere i quadri che il movimento proletario e rivoluzionario aveva faticosamente elaborato in quasi cinquant'anni di storia. In questo modo il fascismo riusciva nella praticità immediata a privare la classe operaia della sua autonomia e indipendenza politica e la costringeva o alla passività, cioè a una subordinazione inerte all'apparato statale, oppure, nei momenti di crisi politica, come nel periodo Matteotti, a ricercare quadri di lotta in altre classi meno esposte alla repressione. 

Il nostro partito è rimasto il solo meccanismo che la classe operaia abbia a sua disposizione per selezionare nuovi quadri dirigenti di classe, cioè per riconquistare la sua indipendenza ed autonomia politica. Il congresso ha dimostrato come il nostro partito sia riuscito brillantemente a risolvere questo compito essenziale. Due erano gli obiettivi fondamentali che dovevano essere raggiunti dal congresso: 

1) dopo le discussioni e i nuovi schieramenti di forze che si erano verificati così come abbiamo detto precedentemente, occorreva unificare il partito, sia nel terreno dei principi e della pratica di organizzazione che nel terreno più strettamente politico; 

2) il congresso era chiamato a stabilire la linea politica del partito per il prossimo avvenire e ad elaborare un programma di lavoro pratico in tutti i campi di attività delle masse. 

I problemi che si ponevano per raggiungere concreti obiettivi non sono naturalmente indipendenti l'uno dall'altro, ma sono coordinati nel quadro della concezione generale del leninismo. La discussione del congresso perciò, anche quando si svolgeva intorno agli aspetti tecnici di ogni singola questione pratica, poneva la quistione generale dell'accettazione o meno del leninismo. Il congresso doveva quindi servire a mettere in evidenza in quale misura il nostro partito era diventato un partito bolscevico.

Gli obiettivi fondamentali

Partendo da un apprezzamento storico e politico immediato della funzione della classe operaia nel nostro paese, il congresso dette una soluzione a tutta una serie di problemi che possono raggrupparsi così:

1) Rapporti fra il Comitato centrale del partito e la massa del partito. 

a) In questo gruppo di problemi rientra la discussione generale sulla natura del partito, sulla necessità che esso sia un partito di classe, non solo astrattamente, cioè in quanto il programma accettato dai suoi membri esprime le aspirazioni del proletariato, ma per così dire, fisiologicamente, in quanto cioè la grande maggioranza dei suoi componenti è formata di proletari e in esso si riflettono e si riassumono solamente i bisogni e la ideologia di una sola classe: il proletariato. 

b) La subordinazione completa di tutte le energie del partito in tal modo socialmente unificato alla direzione del Comitato centrale. La lealtà di tutti gli elementi del partito verso il Comitato centrale deve diventare non solo un fatto puramente organizzativo e disciplinare, ma un vero principio di etica rivoluzionaria. 

Occorre infondere nelle masse del partito una convinzione così radicata di questa necessità, che le iniziative frazionistiche e ogni tentativo in generale di disgregare la compagine del partito debbano trovare alla base una reazione spontanea e immediata che le soffochi sul nascere. L'autorità del Comitato centrale, tra un congresso e l'altro, non deve mai essere posta in discussione, e il partito deve diventare un blocco omogeneo. Solo a tale condizione il partito sarà in grado di vincere i nemici di classe. Come potrebbe la massa dei senza-partito aver fiducia che lo strumento di lotta rivoluzionaria, il partito, riesca a condurre senza tentennamenti e senza oscillazioni la lotta implacabile per conquistare e mantenere il potere, se la Centrale del partito non ha la capacità e l'energia necessaria per eliminare tutte le debolezze che possono incrinare la sua compattezza? I due punti precedenti sarebbero di impossibile realizzazione se, nel partito, alla omogeneità sociale e alla compattezza monolitica della organizzazione non si aggiungesse la coscienza diffusa di una omogeneità ideologica e politica. 

Concretamente la linea che il partito deve seguire può essere espressa in questa formula: il nucleo della organizzazione di partito consiste in un forte Comitato centrale, strettamente collegato con la base proletaria del partito stesso, sul terreno della ideologia e della tattica del marxismo e del leninismo. Su questa serie di problemi la enorme maggioranza del congresso si è nettamente pronunciata in senso favorevole alle tesi del comitato centrale ed ha respinto non solo senza la minima concessione, ma anzi insistendo sulla necessità della intransigenza teorica e della inflessibiltà pratica, le concezioni dell'opposizione che potrebbe mantenere il partito in uno stato di deliquescenza e di amorfismo politico e sociale.

2) Rapporti del partito con la classe proletaria (cioè la classe di cui il partito è il diretto rappresentante, con la classe che ha il compito di dirigere la lotta anticapitalistica e di organizzare la nuova società). 

In questo gruppo di problemi rientra l'apprezzamento della funzione del proletariato nella società italiana, cioè del grado di maturità di tale società a trasformarsi da capitalista in socialista e quindi delle possibilità per il proletariato di diventare classe indipendente e dominante. Il congresso ha perciò discusso: a) la quistione sindacale, che per noi è essenzialmente quistione della organizzazione delle più larghe masse, come classe a sé stante, sulla base degli interessi economici immediati, e come terreno di educazione politica rivoluzionaria; b) la quistione del fronte unico, cioè dei rapporti di direzione politica fra la parte più avanzata del proletariato e le frazioni meno avanzate di esso.

3) Rapporti della classe proletaria nel suo complesso con le altre forze sociali che oggettivamente sono sul terreno anticapitalistico, quantunque siano dirette da partiti e gruppi politici legati alla borghesia; quindi in primo luogo i rapporti fra il proletariato e i contadini. 

Anche su tutta quest'altra serie di problemi la enorme maggioranza del congresso respinse le concezioni errate dell'opposizione e si schierò in favore delle soluzioni date dal Comitato centrale.

Come si sono schierate le forze del congresso

Accennammo già all'atteggiamento che la stragrande maggioranza del congresso ha assunto nei riguardi delle soluzioni da dare ai problemi essenziali nel periodo attuale. E' opportuno però analizzare più dettagliatamente l'atteggiamento assunto dall'opposizione e accennare, sia pure brevemente, ad altri atteggiamenti che si sono presentati al congresso come atteggiamenti individuali, ma che potrebbero nell'avvenire coincidere con determinati momenti transitori nello sviluppo della situazione italiana, e che perciò devono essere fin da ora denunziati e combattuti. 

Abbiamo già accennato nei primi paragrafi di questa esposizione ai modi e alle forme che hanno caratterizzato la crisi di sviluppo del nostro partito negli anni dal 1921 al 1924. Ricorderemo brevemente come al V Congresso mondiale la crisi stessa trovasse una soluzione provvisoria organizzativa con la costituzione di un Comitato centrale che nel suo complesso si poneva completamente sul terreno del leninismo e della tattica dell'Internazionale comunista, ma che si scomponeva in tre parti, di cui, una, che aveva la maggioranza più uno del comitato stesso, rappresentava gli elementi terzini, entrati nel partito dopo la fusione. 

Nonostante le sue intrinseche debolezze, tuttavia per il fatto che la funzione dirigente nel suo seno era nettamente esercitata dal cosiddetto gruppo di centro, cioè dagli elementi di sinistra staccatisi dal gruppo dirigente di Livorno, il Comitato centrale riuscì ad impostare e a risolvere energicamente il problema della bolscevizzazione del partito e del suo accordo completo con le direttive dell'Internazionale comunista.

Atteggiamenti dell'estrema sinistra

Certamente vi furono delle resistenze, e l'episodio culminante di esse, che tutti i compagni ricordano, fu la costituzione del Comitato d'intesa, cioè del tentativo di costituire una frazione organizzata che si contrapponesse al Comitato centrale nella direzione del partito. In realtà la costituzione del Comitato d'intesa fu il sintomo più rilevante della disgregazione dell'estrema sinistra, la quale, poiché sentiva di perdere progressivamente terreno nelle file del partito, cercò di galvanizzare con un atto clamoroso di ribellione le poche forze che ancora le rimanevano. 

E' notevole il fatto che dopo la sconfitta ideologica e politica subita dall'estrema sinistra già nel periodo precongressuale, il nucleo di essa più resistente sia andato assumendo posizioni sempre più settarie e di ostilità verso il partito dal quale si sentiva ogni giorno più lontano e staccato. Questi compagni non solo continuarono a mantenersi sul terreno della più strenua opposizione su determinati punti concreti della ideologia e della politica del partito e dell'Internazionale, ma cercarono sistematicamente motivi di opposizione su tutti i punti, in modo da presentarsi in blocco quasi come un partito nel partito. 

E' facile immaginare che, partendo da una tale posizione, si dovesse arrivare, durante lo svolgimento del congresso, ad atteggiamenti teorici e pratici, nei quali la drammaticità che era un riflesso della situazione generale in cui il partito deve muoversi, difficilmente era distinguibile da un certo istrionismo, che appariva di maniera a chi realmente aveva lottato e si era sacrificato per la classe proletaria. 

In quest'ordine di avvenimenti dev'essere posta, ad esempio, la pregiudiziale presentata dall'opposizione, subito alla apertura del congresso, con la quale la validità deliberativa di esso veniva contestata, cercandosi in tal modo di precostituire un alibi per una possibile ripresa di attività frazionistica e per un possibile misconoscimento dell'autorità della nuova dirigenza del partito. 

Alla massa dei congressisti, che conoscevano quali sacrifici e quali sforzi organizzativi fosse costata la preparazione del congresso, questa pregiudiziale apparve una vera e propria provocazione e non è senza significato che gli unici applausi (il regolamento del congresso proibiva per ragioni comprensibili ogni manifestazione clamorosa di consenso o di biasimo) furono rivolti all'oratore che stigmatizzò l'atteggiamento assunto dall'opposizione e sostenne la necessità di rafforzare dimostrativamente il nuovo comitato da eleggersi con mandato specifico di implacabile rigore contro qualsiasi iniziativa che praticamente mettesse in dubbio l'autorità del congresso e l'efficienza delle sue deliberazioni.

Affioramento di deviazioni di destra

Allo stesso ordine di avvenimenti, e in modo aggravato per la forma manierata e teatrale, appartiene anche l'atteggiamento assunto dall'opposizione, prima della fine del congresso, quando si stavano per trarre le conclusioni politico-organizzative dei lavori del congresso stesso. Ma gli stessi elementi dell'opposizione poterono avere la netta dimostrazione di quello che è lo stato d'animo diffuso nelle file del partito: il partito non intende permettere che si giochi più a lungo al frazionismo e all'indisciplina; il partito vuole realizzare il massimo di direzione collettiva e non permetterà a nessun singolo, qualunque sia il suo valore personale, di contrapporsi al partito. 

Nelle sedute plenarie del congresso l'opposizione di estrema sinistra è stata la sola opposizione ufficiale e dichiarata. L'atteggiamento di opposizione sulla quistione sindacale assunto da due membri del vecchio Comitato centrale per il suo carattere di improvvisazione e di impulsività, è da considerarsi piuttosto come un fenomeno individuale di isterismo politico, che di opposizione in senso sistematico. 

Durante i lavori della commissione politica invece ci fu una manifestazione che, se può ritenersi per adesso di carattere puramente individuale deve essere considerata, dati gli elementi ideologici che ne formavano la base, come una vera e propria piattaforma di destra, che potrebbe essere presentata al partito in una situazione determinata, e che perciò doveva essere, come fu, respinta senza esitazione, dato specialmente che di essa si era fatto portavoce un membro del vecchio Comitato centrale. 

Questi elementi ideologici sono: 

1) l'affermazione che il governo operaio e contadino può costituirsi sulla base del parlamento borghese; 

2) l'affermazione che la socialdemocrazia non deve essere ritenuta come l'ala sinistra della borghesia, ma come l'ala destra del proletariato; 

3) che nella valutazione dello Stato borghese occorre distinguere la funzione di oppressione di una classe sull'altra dalla funzione di produzione di determinate soddisfazioni a certe esigenze generali della società. 

Il primo e il secondo di tali elementi sono contrari alle decisioni del III Congresso: il terzo è fuori dalla concezione marxista dello Stato. Tutti i tre insieme rivelano un orientamento a concepire la soluzione della crisi della società borghese all'infuori della rivoluzione.

La linea politica fissata dal partito
Poiché così si schierarono le forze rappresentate al Congresso, cioè come una più rigida opposizione dei residui dell' "estremismo" contro le posizioni teoriche e pratiche della maggioranza del partito, accenneremo rapidamente solo ad alcuni punti della linea stabilita dal congresso. 

Quistione ideologica.Su tale quistione il congresso affermò la necessità che sia sviluppato dal partito tutto un lavoro di educazione che rafforzi la conoscenza della nostra dottrina marxista nelle file del partito e sviluppi la capacità del più largo strato dirigente. Su questo punto l'opposizione cercò di fare un'abile diversione: riesumò alcuni vecchi articoli e brani di articoli di compagni della maggioranza del partito per sostenere che essi solo relativamente tardi hanno accettato integralmente la concezione del materialismo storico quale risulta dalle opere di Marx e di Engels, e sostenevano invece la interpretazione che del materialismo storico era data da Benedetto Croce. Poiché è noto che anche le tesi di Roma sono state giudicate come essenzialmente ispirate dalla filosofia crociana, questa argomentazione dell'opposizione apparve come ispirata a pura demagogia congressuale. 

In ogni caso, poiché la quistione non è di individui singoli, ma di masse, la linea stabilita dal congresso, della necessità di un lavoro specifico di educazione per elevare il livello della cultura generale marxista del partito, riduce la polemica dell'opposizione a una esercitazione erudita di ricerca di elementi biografici più o meno interessanti sullo sviluppo intellettuale di singoli compagni.

Tattica del partito. Il congresso ha approvato e ha difeso energicamente contro gli attacchi dell'opposizione la tattica seguita dal partito nell'ultimo periodo della storia italiana caratterizzato dalla crisi Matteotti. Occorre dire che l'opposizione non ha cercato di contrapporre all'analisi che della situazione italiana è stata fatta dalla Centrale nelle tesi per il congresso né un'altra analisi che portasse a stabilire una linea tattica diversa, né delle correzioni parziali che giustificassero una posizione di principio. 

E' stato caratteristico anzi della falsa posizione della estrema sinistra il fatto che mai le sue osservazioni e le sue critiche si siano basate su un esame né approfondito e neanche superficiale dei rapporti di forza e delle condizioni generali esistenti nella società italiana. Risultò così chiaramente come il metodo proprio dell'estrema sinistra, e che l'estrema sinistra dice essere dialettico, non è il metodo della dialettica materialistica proprio di Marx, ma il vecchio metodo della dialettica concettuale proprio della filosofia premarxista e persino prehegeliana. 

All'analisi oggettiva delle forze in lotta e della direzione che esse assumono contraddittoriamente in rapporto allo sviluppo delle forze materiali della società, l'opposizione sostituiva la affermazione di essere in possesso di uno speciale e misterioso "fiuto" secondo il quale il partito dovrebbe essere diretto. Strana aberrazione che autorizzava il congresso a giudicare estremamente pericoloso e deleterio per il partito un tale metodo che porterebbe solo a una politica di improvvisazione e di avventure.

Che d'altronde l'opposizione non abbia mai posseduto un proprio metodo capace di sviluppare le forze del partito e le energie rivoluzionarie del proletariato che possa essere contrapposto al metodo marxista-leninista, è dimostrato dall'attività svolta dal partito negli anni 1921-22, quando era politicamente diretto da alcuni degli attuali irriducibili oppositori. 

A questo proposito furono dal congresso analizzati due momenti della situazione italiana, e cioè l'atteggiamento assunto dalla direzione del partito nel febbraio 1921, quando fu sferrata l'offensiva frontale dal fascismo in Toscana e in Puglia, e l'atteggiamento della stessa direzione verso il movimento degli arditi del popolo. Dall'analisi di questi due momenti risultò come il metodo affermato dall'opposizione porti solo alla passività e alla inazione e consista in ultima analisi semplicemente nel trarre dagli avvenimenti ormai svoltisi senza l'intervento del partito nel suo complesso, degli insegnamenti di solo carattere pedagogico e propagandistico.

La quistione sindacale

Nel campo sindacale il difficile compito del partito consiste nel trovare un giusto accordo fra queste due linee di attività pratica:

1) difendere i sindacati di classe cercando di mantenere il massimo di coesione e di organizzazione sindacale fra le masse che tradizionalmente hanno partecipato all'organizzazione sindacale stessa. E' questo un compito di eccezionale importanza, perché il partito rivoluzionario deve sempre, anche nelle peggiori situazioni oggettive, tendere a conservare tutte le accumulazioni di esperienza e di capacità tecnica e politica che si sono venute formando attraverso gli sviluppi della storia passata nella massa proletaria. Per il nostro partito la Confederazione generale del lavoro costituisce in Italia l'organizzazione che storicamente esprime in modo più organico queste accumulazioni di esperienza e di capacità e rappresenta quindi il terreno entro il quale deve essere condotta questa difesa. 

2) Tenendo conto del fatto che l'attuale dispersione delle grandi masse lavoratrici è dovuta essenzialmente a motivi che non sono interni della classe operaia, per cui esistono possibilità organizzative immediate di carattere strettamente non sindacale, il partito deve proporsi di favorire e promuovere attivamente queste possibilità. Questo compito può essere adempiuto solo se il lavoro organizzativo di massa viene trasportato dal terreno corporativo nel terreno industriale di fabbrica e i legami dell'organizzazione di massa diventano elettivi e rappresentativi, oltre che di adesione individuale per via di tessera sindacale. 

E' chiaro d'altronde che questa tattica del partito corrisponde allo sviluppo normale dell'organizzazione di massa proletaria, quale si era verificata durante e dopo la guerra, cioè nel periodo in cui il proletariato ha incominciato a porsi il problema di una lotta a fondo contro la borghesia per la conquista del potere. In questo periodo la tradizionale forma organizzativa del sindacato di mestiere era stata integrata da tutto un sistema di rappresentanze elettive di fabbrica, cioè dalle commissioni interne. 

E' noto anche che, specialmente durante la guerra, quando le centrali sindacali aderirono ai comitati di mobilitazione industriale e determinarono quindi una situazione di "pace industriale" per alcuni aspetti analoga a quella presente, le masse operaie di tutti i paesi (Italia, Francia, Russia, Inghilterra e anche Stati Uniti) ritrovarono le vie della resistenza e della lotta sotto la guida delle rappresentanze elettive operaie di fabbrica. 

La tattica sindacale del partito consiste essenzialmente nello sviluppare tutta l'esperienza organizzativa delle grandi masse premendo sulle possibilità di immediata realizzazione, considerate le difficoltà oggettive che sono state create al movimento sindacale dal regime borghese da una parte e dal riformismo confederale dall'altra. Questa linea è stata approvata integralmente dalla stragrande maggioranza del congresso. Intorno ad essa tuttavia avvennero le discussioni più appassionate, e l'opposizione fu rappresentata, oltre che dall'estrema sinistra, anche da due membri della Centrale, così come abbiamo già accennato. Un oratore sostenne che il sindacato è storicamente superato, perché unica azione di massa del partito deve essere quella che si svolge nelle fabbriche. Questa tesi, legata alle più assurde posizioni dell'infantilismo estremista, fu nettamente ed energicamente respinta dal congresso. 

Per un altro oratore invece l'unica attività del partito in questo campo deve essere l'attività organizzativa sindacale tradizionale: Questa tesi è legata strettamente ad una concezione di destra, cioè alla volontà di non urtare troppo gravemente con la burocrazia sindacale riformista che si oppone strenuamente ad ogni organizzazione di massa. 

L'opposizione dell'estrema sinistra era guidata da due direttive fondamentali: la prima, di carattere essenzialmente congressuale, tendeva alla dimostrazione che la tattica delle organizzazioni di fabbrica, sostenuta dal Comitato centrale e dalla maggioranza del congresso, è legata alla concezione dell' "Ordine Nuovo" settimanale che, secondo l'estrema sinistra, era proudhoniana e non marxista; l'altra è legata alla quistione di principio in cui l'estrema sinistra si contrappone nettamente al leninismo: il leninismo sostiene che il partito guida la classe attraverso le organizzazioni di massa e sostiene quindi come uno dei compiti essenziali del partito lo sviluppo dell'organizzazione di massa; per l'estrema sinistra invece questo problema non esiste, e si danno al partito tali funzioni che possono portare da una parte alle peggiori catastrofi e dall'altra ai più pericolosi avventurismi. 

Il Congresso ha rigettato tutte queste deformazioni della tattica sindacale comunista, pur ritenendo necessario insistere con particolare energia sulla necessità di una maggiore e più attiva partecipazione dei comunisti al lavoro di organizzazione sindacale tradizionale.

La quistione agraria

Il partito ha cercato, per ciò che riguarda la sua azione tra i contadini, di uscire dalla sfera della semplice propaganda ideologica tendente a diffondere solo astrattamente i termini generali della soluzione leninista del problema stesso, per entrare nel terreno pratico dell'organizzazione e dell'azione politica reale. E' evidente che ciò era più facile da ottenersi in Italia che negli altri paesi perché nel nostro paese il processo di differenziazione delle grandi masse della popolazione è per certi aspetti più avanzato che altrove, in conseguenza della situazione politica attuale. 

D'altronde una tale quistione, dato che il proletariato industriale è da noi solo una minoranza della popolazione lavoratrice, si pone con maggiore intensità che altrove. Il problema di quali siano le forze motrici della rivoluzione e quello della funzione direttiva del proletariato si presentano in Italia in forme tali da domandare una particolare attenzione del nostro partito e la ricerca di soluzioni concrete ai problemi generali che si riassumono nell'espressione: quistione agraria. 

La grande maggioranza del congresso ha approvato l'impostazione che il partito ha dato a questi problemi e ha affermato la necessità di una intensificazione del lavoro secondo la linea generale già parzialmente applicata. In che cosa consiste praticamente questa attività? Il partito deve tendere a creare in ogni regione delle unioni regionali dell'Associazione di difesa dei contadini: ma, entro questi quadri organizzativi più larghi, occorre distinguere quattro raggruppamenti fondamentali delle masse contadine, per ognuno dei quali è necessario trovare atteggiamenti e soluzioni politiche ben precise e complete. 

Uno di questi raggruppamenti è costituito dalle masse dei contadini slavi dell'Istria e del Friuli, la cui organizzazione è legata strettamente alla quistione nazionale. Un secondo è costituito dal particolare movimento contadino che si riassume sotto il titolo di "Partito dei contadini" e che ha la sua base specialmente nel Piemonte; per questo raggruppamento, di carattere aconfessionale e di carattere più strettamente economico, vale l'applicazione dei termini generali della tattica agraria del leninismo, dato anche il fatto che tale raggruppamento esiste nella regione in cui esiste uno dei centri proletari più efficienti in Italia. 

I due altri raggruppamenti sono di gran lunga i più considerevoli e sono quelli che domandano la maggiore attenzione del partito, e cioè: 

1) la massa dei contadini cattolici, raggruppati nell'Italia centrale e settentrionale, i quali sono direttamente organizzati dall'azione cattolica e dall'apparato ecclesiastico in generale, cioè dal Vaticano; 

2) la massa dei contadini dell'Italia meridionale e delle isole. 

Per ciò che riguarda i contadini cattolici, il congresso ha deciso che il partito deve continuare e deve sviluppare la linea che consiste nel favorire le formazioni di sinistra che si verificano in questo campo e che sono strettamente collegate alla crisi generale agraria iniziatasi già prima della guerra nel centro e nel nord d'Italia. Il Congresso ha affermato che l'atteggiamento assunto dal partito verso i contadini cattolici, sebbene contenga in sé alcuni degli elementi essenziali per la soluzione del problema politico-religioso italiano, non deve in nessun modo condurre a favorire i tentativi, che possono nascere, di movimenti ideologici di natura strettamente religiosa. Il compito del partito consiste nello spiegare i conflitti che nascono sul terreno della religione come derivanti dai conflitti di classe e nel tendere a mettere sempre in maggior rilievo i caratteri di classe di questi conflitti e non, viceversa, nel favorire soluzioni religiose dei conflitti di classe, anche se tali soluzioni si presentano come di sinistra in quanto mettono in discussione l'autorità dell'organizzazione ufficiale religiosa. 

La quistione dei contadini meridionali è stata esaminata dal congresso con particolare attenzione. Il congresso ha riconosciuto esatta l'affermazione contenuta nelle tesi della Centrale, secondo la quale la funzione della massa contadina meridionale nello svolgimento della lotta anticapitalistica italiana deve essere esaminata a sé e portare alla conclusione che i contadini meridionali sono, dopo il proletariato industriale e agricolo dell'Italia del nord, l'elemento sociale più rivoluzionario della società italiana. 

Quale è la base materiale e politica di questa funzione delle masse contadine del sud? I rapporti che intercorrono tra il capitalismo italiano e i contadini meridionali non consistono solamente nei normali rapporti storici tra città e campagna, quali sono stati creati dallo sviluppo del capitalismo in tutti i paesi del mondo; nel quadro della società nazionale questi rapporti sono aggravati e radicalizzati dal fatto che economicamente e politicamente tutta la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna di fronte all'Italia del Nord, che funziona come una immensa città. 

Una tale situazione determina nell'Italia meridionale il formarsi e lo svilupparsi di determinati aspetti di una quistione nazionale, se pure immediatamente essi non assumano una forma esplicita di tale quistione nel suo complesso, ma solo di una vivacissima lotta a carattere regionalistico e di profonde correnti verso il decentramento e le autonomie locali. 

Ciò che rende caratteristica la situazione dei contadini meridionali è il fatto che essi, a differenza dei tre raggruppamenti precedentemente descritti, non hanno nel loro complesso nessuna esperienza organizzativa autonoma. Essi sono inquadrati negli schemi tradizionali della società borghese, per cui gli agrari, parte integrante del blocco agrario-capitalistico, controllano le masse contadine e le dirigono secondo i loro scopi. 

In conseguenza della guerra e delle agitazioni operaie del dopoguerra che avevano profondamente indebolito l'apparato statale e quasi distrutto il prestigio sociale delle classi superiori nominate, le masse contadine del Mezzogiorno si sono risvegliate alla vita propria e faticosamente hanno cercato un proprio inquadramento. Così si sono avuti movimenti degli ex combattenti e i vari partiti cosiddetti di "rinnovamento" che cercavano di sfruttare questo risveglio della massa contadina, qualche volta secondandolo come nel periodo dell'occupazione delle terre, più spesso cercando di deviarlo e quindi consolidarlo in una posizione di lotta per la cosiddetta democrazia, come è ultimamente avvenuto con la costituzione della "Unione nazionale". 

Gli ultimi avvenimenti della vita italiana che hanno determinato un passaggio in massa della piccola borghesia meridionale al fascismo, hanno resa più acuta la necessità di dare ai contadini meridionali una direzione propria per sottrarsi definitivamente all'influenza borghese agraria. 

Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito. Ma perché questo lavoro di organizzazione sia possibile ed efficace occorre che il nostro partito distrugga nell'operaio industriale il pregiudizio inculcatogli dalla propaganda borghese che il Mezzogiorno sia una palla di piombo che si oppone ai più grandi sviluppi dell'economia nazionale e distrugga nel contadino meridionale il pregiudizio ancora più pericoloso per cui egli vede nel nord d'Italia un solo blocco di nemici di classe. 

Per ottenere questi risultati occorre che il nostro partito svolga un'intensa opera di propaganda anche nell'interno della sua organizzazione per dare a tutti i compagni una coscienza esatta dei termini della quistione, la quale, se non sarà risolta in modo chiaroveggente e rivoluzionariamente saggio per noi, renderà possibile alla borghesia, sconfitta nella sua zona, di concentrarsi nel sud per fare di questa parte d'Italia la piazza d'armi della sua controrivoluzione. 

Su tutta questa serie di problemi, l'opposizione di estrema sinistra non riuscì a dire che delle barzellette e dei luoghi comuni. La sua posizione essenziale fu quella di negare aprioristicamente che questi problemi concreti esistono in sé, senza nessuna analisi o dimostrazione neanche potenziale. Si può dire anzi che appunto nei riguardi della quistione agraria, apparve la vera essenza della concezione dell'estrema sinistra, la quale consiste in una specie di corporativismo che aspetta meccanicamente dal solo sviluppo delle condizioni obiettive generali la realizzazione dei fini rivoluzionari. Tale concezione fu, come abbiamo detto, nettamente rigettata dalla stragrande maggioranza del congresso.

Altri problemi trattati

Il congresso, dato il modo della sua riunione e gli obiettivi che si proponeva, i quali riguardavano specialmente l'organizzazione interna del partito ed il risanamento della crisi,  senza discussione ratificò le deliberazioni della recente Conferenza di organizzazione, già pubblicate nell' "Unità". 

Per quanto riguarda la quistione dell'organizzazione concreta del partito nell'attuale periodo, il congresso non poté trattare ampiamente alcune quistioni che pure sono essenziali per un partito proletario rivoluzionario. Così solo nelle tesi fu esaminata la situazione internazionale in rapporto alla linea politica dell'Internazionale comunista. 

Nella discussione del congresso tale argomento fu solo sfiorato, e dei problemi internazionali si trattò solo la parte riguardante le forme e i rapporti di organizzazione del Comintern, poiché era questo un elemento della crisi interna del partito. 

Il congresso però ebbe una larghissima ed esauriente relazione sui lavori del recente congresso del partito russo e sul significato delle discussioni in esso svoltesi. Così il congresso non si occupò del problema dell'organizzazione nel campo femminile, né dell'organizzazione della stampa, argomenti essenziali per il nostro movimento e che avrebbero meritato una trattazione speciale. 

Anche la quistione della redazione del programma del partito che era stata posta all'ordine del giorno non fu trattata dal congresso. Pensiamo sia necessario rimediare a queste manchevolezze con conferenze di partito, appositamente convocate a tale scopo.

Conclusione

Nonostante queste parziali deficienze, si può affermare, concludendo, che la massa di lavoro svolta dal congresso sia stata veramente imponente. Il Congresso ha elaborato una serie di risoluzioni e un programma di lavoro concreto tali da mettere in grado la classe proletaria di sviluppare le sue energie e la sua capacità di direzione politica nell'attuale situazione. 

Una condizione è specialmente necessaria perché le risoluzioni del congresso non solo siano applicate, ma diano tutti i frutti che esse possono dare: occorre che il partito si mantenga strettamente unito, che nessun germe di disgregazione, di pessimismo, di passività sia lasciato sviluppare nel suo seno. Tutti i compagni del partito sono chiamati a realizzare una tale condizione. Nessuno può mettere in dubbio che ciò sarà fatto con la più grande delusione di tutti i nemici della classe operaia.