Rivoluzione


(GP, 29 gennaio 1916)

“Solo a grado a grado, a strato a strato, l'umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni.

L'ultimo esempio, il più vicino a noi e perciò meno diverso dal nostro, è quello della Rivoluzione francese. Il periodo anteriore culturale, detto dell'illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ragione teoretica, non fu affatto, o almeno non fu completamente quello sfarfallio di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti con pari imperturbabilità, che credevano di essere uomini del loro tempo solo dopo aver letto la Grande enciclopedia di D'Alembert e Diderot, non fu insomma solo un fenomeno di intellettualismo pedantesco ed arido, simile a quello che vediamo dinanzi ai nostri occhi, e che trova la sua maggiore esplicazione nelle Università popolari di infimo ordine. Fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l'Europa come una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese sensibile in ogni sua parte ai dolori e alle disgrazie comuni e che era la preparazione migliore per la rivolta sanguinosa poi verificatasi nella Francia.

In Italia, in Francia, in Germania si discutevano le stesse cose, le stesse istituzioni, gli stessi principi. Ogni nuova commedia di Voltaire, ogni nuovo pamphlet era come la scintilla che passava per i fili già tesi fra Stato e Stato, fra regione e regione, e trovava gli stessi consenzienti e gli stessi oppositori da per tutto e contemporaneamente. Le baionette degli eserciti di Napoleone trovavano la via già spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli, che erano sciamati da Parigi fin dalla prima metà del secolo XVIII e che avevano preparato uomini e istituzioni alla rinnovazione necessaria. Più tardi, quando i fatti di Francia ebbero rinsaldate le coscienze, bastava un moto popolare a Parigi per suscitarne altri simili a Milano, a Vienna e nei più piccoli centri. Tutto ciò sembra naturale, spontaneo ai faciloni, e invece sarebbe incomprensibile se non si conoscessero i fattori di cultura che contribuirono a creare quegli stati d'animo pronti alle esplosioni per una causa che si credeva comune.Le baionette degli eserciti di Napoleone trovavano la via già spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli, che erano sciamati da Parigi fin dalla prima metà del secolo XVIII e che avevano preparato uomini e istituzioni alla rinnovazione necessaria. Più tardi, quando i fatti di Francia ebbero rinsaldate le coscienze, bastava un moto popolare a Parigi per suscitarne altri simili a Milano, a Vienna e nei più piccoli centri. Tutto ciò sembra naturale, spontaneo ai faciloni, e invece sarebbe incomprensibile se non si conoscessero i fattori di cultura che contribuirono a creare quegli stati d'animo pronti alle esplosioni per una causa che si credeva comune.”

 

(CF, cit.)

“Si è irriso, e si irride ancora al valore numero, che sarebbe solo un valore democratico, non rivoluzionario: la scheda, non la barricata. Ma il numero, la massa, ha servito a creare un nuovo mito: il mito dell'universalità, il mito della marea che sale irresistibile e fragorosa e raderà al suolo la città borghese sorretta sui puntelli del privilegio. Il numero, la massa (tanti in Germania, in Francia, in America, in Italia... che ogni anno crescono, crescono...) ha saldato la convinzione che ogni singolo ha di partecipare a qualcosa di grandioso che sta maturando e di cui ogni nazione, ogni partito, ogni sezione, ogni gruppo, ogni individuo è una molecola che riceve e restituisce rinvigorito il succo vitale che circolando arricchisce tutto il complesso del corpo socialista mondiale. I milioni d'infusori che nuotano nell'oceano Pacifico costruiscono sterminati banchi coralliferi sotto il livello dell'acqua: un terremoto fa affiorare i banchi e un nuovo continente si forma. I milioni di socialisti dispersi nella vastità del mondo lavorano anch'essi alla costruzione di un continente nuovo.”

 

(CF, cit.)

“Accelerare l'avvenire. Questo è il bisogno più sentito nella massa socialista. Ma cos'è l'avvenire? Esiste esso come qualcosa di veramente concreto? L'avvenire non è che un prospettare nel futuro la volontà dell'oggi come già avente modificato l'ambiente sociale. Pertanto accelerare l'avvenire significa due cose. Essere riusciti a far estendere questa volontà a un numero tale di uomini quanto si presume sia necessaria per far diventare fruttuosa la volontà stessa. E questo sarebbe un progresso quantitativo. Oppure: essere riusciti a far diventare questa volontà talmente intensa nella minoranza attuale, che sia possibile l'equazione: 1 = 1.000.000. E questo sarebbe un progresso qualitativo. Arroventare la propria anima e farne sprizzare miriadi di scintille.”

 

(GP, 29 aprile 1917)

“Il giacobinismo è fenomeno puramente borghese: esso caratterizza la rivoluzione borghese di Francia. La borghesia, quando ha fatto la rivoluzione, non aveva un programma universale: essa serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe, e li serviva con la mentalità chiusa e gretta di tutti quelli che tendono a dei fini particolaristici. Il fatto violento delle rivoluzioni borghesi è doppiamente violento: distrugge l'ordine vecchio, impone l'ordine nuovo. La borghesia impone la sua forza e le sue idee non solo alla casta prima dominante, ma anche al popolo che essa si accinge a dominare. È un regime autoritario che si sostituisce a un altro regime autoritario.”

 

(GP, 28 luglio 1917)

“E’ questo il pericolo massimo di tutte le rivoluzioni: il formarsi della convinzione che un determinato momento della nuova vita sia definitivo, e che bisogni fermarsi per guardare indietro, per assodare il fatto, per gioire finalmente del proprio successo. Per riposare. Una crisi rivoluzionaria logora rapidamente gli uomini. Stanca rapidamente.”

 

(GP, 28 luglio 1917)

“il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale. Queste esperienze basta che si attuino nel pensiero perché siano superate e si possa procedere oltre. E’ necessario invece spoltrire le coscienze, conquistare le coscienze.”

 

(GP, 18 agosto 1918)

“Tra la solita vita sociale quotidiana e la vita di eccezione delle rivoluzioni non c'è differenza qualitativa, ma differenza quantitativa. Un più o un meno di certi determinati fattori. Le energie sociali attive sono l'apparenza sensibile e umana di certi determinati fattori. Le energie sociali attive sono l'apparenza sensibile e umana di certi determinati programmi, di certe determinate idee; in tempi normali c'è un equilibrio di forze la cui instabilità ha oscillazioni minime; quanto più queste oscillazioni diventano irregolari e capricciose, tanto più si dice che i tempi sono calamitosi; quando l'equilibrio tende irresistibilmente a spostarsi, si ammette che si è entrati in un momento di vita nuova. Ma la novità è quantitativa, non qualitativa.”

 

(GP, 18 agosto 1918)

“Noi ci distinguiamo dagli altri uomini perché concepiamo la vita come sempre rivoluzionaria, e pertanto domani non dichiareremo definitivo un nostro mondo realizzato, ma lasceremo sempre aperta la via verso il meglio; verso armonie superiori. Non saremo mai conservatori, neanche in regime di socialismo, ma vogliamo che l'orologiaio delle rivoluzioni non sia un fatto meccanico come il disagio, ma sia l'audacia del pensiero che crea miti sociali sempre più alti e luminosi.”

 

(GP, 4 maggio 1918)

“Volontarismo? La parola non significa nulla, o viene usata nel significato di arbitrio. Volontà, marxisticamente, significa consapevolezza del fine, che a sua volta significa nozione esatta della propria potenza e dei mezzi per esprimerla nell'azione. Significa pertanto in primo luogo distinzione, individuazione della classe, vita politica indipendente da quella dell'altra classe, organizzazione compatta e disciplinata ai fini propri specifici, senza deviazioni e tentennamenti. Significa impulso rettilineo verso il fine massimo, senza scampagnate sui verdi prati collaterali, a bere il bicchiere della cordiale fratellanza, inteneriti dalle verdi erbette e dalle morbide dichiarazioni di stima e d'amore.”

 

(ON, 7 giugno 1919)

“La rivoluzione proletaria è la massima rivoluzione: poiché vuole abolire la proprietà privata e nazionale, e abolire le classi, essa coinvolge tutti gli uomini, non una sola parte di essi. Obbliga tutti gli uomini a muoversi, a intervenire nella lotta, a parteggiare esplicitamente. Trasforma la società fondamentalmente: da organismo unicellulare (di individuicittadini) la trasforma in organismo pluricellulare; pone a base della società nuclei già organici di società stessa. Costringe tutta la società a identificarsi con lo Stato, vuole che tutti gli uomini siano consapevolezza spirituale e storica. ”

 

(ON, 5 giugno 1920)

“La rivoluzione proletaria non è l'atto arbitrario di una organizzazione che si afferma rivoluzionaria o di un sistema di organizzazioni che si affermano rivoluzionarie. La rivoluzione proletaria è un lunghissimo processo storico che si verifica nel sorgere e nello svilupparsi di determinate forze produttive (che noi riassumiamo nell'espressione: «proletariato») in un determinato ambiente storico (che noi riassumiamo nelle espressioni: «modo di proprietà individuale, modo di produzione capitalistico, sistema di fabbrica, modo di organizzazione della società nello Stato democratico-parlamentare»). In una determinata fase di questo processo, le forze produttive nuove non possono più svilupparsi e sistemarsi in modo autonomo negli schemi ufficiali in cui si svolge la convivenza umana; in questa determinata fase avviene l'atto rivoluzionario, che consiste in uno sforzo diretto a spezzare violentemente questi schemi, diretto a distruggere tutto l'apparecchio di potere economico e politico, in cui le forze produttive rivoluzionarie erano contenute oppressivamente, che consiste in uno sforzo diretto a infrangere la macchina dello Stato borghese e a costituire un tipo di Stato nei cui schemi le forze produttive liberate trovino la forma adeguata per il loro ulteriore sviluppo, per la loro ulteriore espansione, nella cui organizzazione esse trovino il presidio e le armi necessarie e sufficienti per sopprimere i loro avversari.”

 

(ON, 5 giugno 1920)

“Nel periodo di predominio economico e politico della classe borghese lo svolgimento reale del processo rivoluzionario avviene sotterraneamente, nell'oscurità della fabbrica e nell'oscurità della coscienza delle moltitudini sterminate che il capitalismo assoggetta alle sue leggi: esso non è controllabile e documentabile, lo sarà in avvenire quando gli elementi che lo costituiscono (i sentimenti, le velleità, le abitudini, i germi di iniziativa e di costume) si saranno sviluppati e purificati con lo svilupparsi della società, con lo svilupparsi della situazione che la classe operaia viene ad occupare nel campo della produzione. Le organizzazioni rivoluzionarie (il partito politico e il sindacato professionale) sono nate nel campo della libertà politica, nel campo della democrazia borghese, come affermazione e sviluppo della libertà e della democrazia in generale, in un campo in cui sussistono i rapporti di cittadino a cittadino: il processo rivoluzionario si attua nel campo della produzione, nella fabbrica, dove i rapporti sono di oppressore a oppresso, di sfruttatore a sfruttato, dove non esiste libertà per l'operaio, dove non esiste democrazia; il processo rivoluzionario si attua dove l'operaio è nulla e vuol diventare tutto, dove il potere del proprietario è illimitato, è potere di vita e di morte sull'operaio, sulla donna dell'operaio, sui figli dell'operaio.”

 

(ON, 4 settembre 1920)

“Ogni rivoluzione, la quale, come la cristiana e come la comunista, si attua e può solo attuarsi con un sommovimento delle più profonde e vaste masse popolari, non può che spezzare e distruggere tutto il sistema esistente di organizzazione sociale; chi può immaginare e prevedere le conseguenze immediate che provocherà l'apparizione nel campo della distruzione e della creazione storica delle sterminate moltitudini che oggi non hanno volontà e potere? Esse, perché non hanno mai «voluto e potuto», pretenderanno vedere materializzati in ogni atto pubblico e privato la volontà e il potere conquistato; esse troveranno misteriosamente ostile tutto l'esistente e vorranno distruggerlo dalle fondamenta; ma appunto per questa immensità della rivoluzione, per questo suo carattere di imprevedibilità e di sconfinata libertà, chi può arrischiare anche una sola ipotesi definitiva sui sentimenti, sulle passioni, sulle iniziative, sulle virtù che si foggeranno in una tale fucina incandescente? Ciò che oggi esiste, ciò che oggi noi vediamo, all'infuori della nostra volontà e della nostra forza di carattere, quali mutamenti potrà subire? Ogni giorno di una tale intensa vita non sarà una rivoluzione? Ogni mutamento nelle coscienze individuali, in quanto ottenuto simultaneamente per tutta l'ampiezza della massa popolare, non avrà risultati creativi inimmaginabili?”

 

Q 1 § 44 A proposito del giacobinismo e del Partito d'Azione un elemento da ricordare è che i giacobini conquistarono con la lotta la loro funzione di partito dirigente: essi si imposero alla borghesia francese, conducendola su una posizione molto più avanzata di quella che la borghesia avrebbe voluto "spontaneamente" e anche molto più avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e perciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone.

Questo tratto, caratteristico del giacobinismo e quindi di tutta la Rivoluzione Francese, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti la classe borghese a calci nel sedere, da parte di un gruppo di uomini estremamente energici e risoluti può essere "schematizzato" così: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; la borghesia ne costituiva la parte più avanzata culturalmente ed economicamente; lo sviluppo degli avvenimenti francesi mostra lo sviluppo politico di questa parte, che inizialmente pone le questioni che solo interessano i suoi componenti fisici attuali, i suoi interessi "corporativi" immediati (corporativi in un senso speciale, di immediati ed egoistici di un determinato gruppo ristretto sociale); i precursori della rivoluzione sono dei riformisti moderati, che fanno la voce grossa ma in realtà domandano ben poco. Questa parte avanzata perde a mano a mano i suoi caratteri "corporativi" e diventa classe egemone per l'azione di due fattori: la resistenza delle vecchie classi e l'attività politica dei giacobini. 

Le vecchie classi non vogliono cedere nulla e se cedono qualche cosa lo fanno con l'intenzione di guadagnare tempo e preparare la controffensiva; la borghesia sarebbe caduta in questi "tranelli" successivi senza l'azione energica dei giacobini, che si oppongono ad ogni arresto intermedio e mandano alla ghigliottina non solo i rappresentanti delle vecchie classi, ma anche i rivoluzionari di ieri oggi diventati reazionari.

I giacobini dunque rappresentano il solo partito della rivoluzione, in quanto essi non solo vedono gli interessi immediati delle persone fisiche attuali che costituiscono la borghesia francese, ma vedono gli interessi anche di domani e non di quelle sole determinate persone fisiche, ma degli altri strati sociali del terzo stato che domani diventeranno borghesi, perché essi sono persuasi dell'égalité e della fraternité.

Bisogna ricordare che i giacobini non erano astrattisti, anche se il loro linguaggio "oggi" in una nuova situazione e dopo più di un secolo di elaborazione storica, sembra "astrattista". Il linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, rifletteva perfettamente i bisogni dell'epoca, secondo le tradizioni e la cultura francese (cfr nella Sacra Famiglia l'analisi di Marx da cui risulta che la fraseologia giacobina corrispondeva perfettamente ai formulari della filosofia classica tedesca, alla quale oggi si riconosce maggiore concretezza e che ha dato origine allo storicismo moderno): 1° bisogno: annientare la classe avversaria o almeno ridurla all'impotenza; creare l'impossibilità di una controrivoluzione; 2° allargare gli interessi di classe della borghesia, trovando gli interessi comuni tra essa e gli altri strati del terzo stato, mettere in moto questi strati, condurli alla lotta, ottenendo due risultati: 1° di opporre un bersaglio più largo ai colpi della classe avversa, cioè di creare un rapporto militare favorevole alla rivoluzione; 2° di togliere alla classe avversa ogni zona di passività in cui essa avrebbe certamente creato eserciti vandeani (senza la politica agraria dei giacobini Parigi sarebbe stata circondata dalla Vandea fino alle sue porte: la resistenza della Vandea propriamente detta è legata alla quistione nazionale determinata tra i Brettoni dalla formula della "repubblica una e indivisibile", alla quale i giacobini non potevano rinunziare pena il suicidio: i girondini cercarono di far leva sul federalismo per schiacciare i giacobini, ma le truppe provinciali condotte a Parigi passarono ai giacobini: eccetto la Brettagna e altre piccole zone periferiche, la quistione agraria si presentava scissa dalla quistione nazionale, come si vede in questo e altri episodi militari: la provincia accettava l'egemonia di Parigi, cioè i rurali comprendevano che i loro interessi erano legati a quelli della borghesia). I giacobini dunque forzarono la mano, ma sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché essi fondarono non solo lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe "dominante", ma fecero di più (in un certo senso), fecero della borghesia la classe dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato una base permanente...

Se in Italia non sorse un partito giacobino, ci devono essere le ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della borghesia italiana, e nella temperatura storica diversa dell'Europa. Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Chapelier [e la legge sul "maximum"], si presentava nel 48 come uno "spettro" già minaccioso, sapientemente agitato dall'Austria e dai vecchi governi, ma anche da Cavour (oltre che dal Papa). La borghesia non poteva più estendere la sua egemonia su i vasti strati che poté abbracciare in Francia, è vero, ma l'azione sui contadini era sempre possibile. 

Differenza tra Francia, Germania e Italia nel processo di presa del potere della borghesia (e Inghilterra).

In Francia abbiamo il fenomeno completo, la maggior ricchezza di elementi politici. In Germania il fenomeno rassomiglia per alcuni aspetti a quello italiano, per altri a quello inglese.

In Germania il 48 fallisce per la poca concentrazione borghese (la parola d'ordine di tipo giacobino fu data nel 48 tedesco da Marx: "rivoluzione in permanenza") e perché la quistione è intrecciata con quella nazionale; le guerre del 64, del 66 e del 70 risolvono la quistione nazionale e la quistione di classe in un tipo intermedio: la borghesia ottiene il governo economico-industriale, ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto governativo con ampi privilegi di casta nell'esercito, nell'amministrazione statale e sulla terra; ma almeno in Germania queste vecchie classi, se conservano tanta importanza e mantengono tanti privilegi, esercitano una funzione, sono gli "intellettuali" della borghesia, con un determinato temperamento dato dall'origine di classe e dalla tradizione.

In Inghilterra, dove la Rivoluzione borghese si è svolta prima che in Francia, abbiamo lo stesso fenomeno che in Germania di fusione tra il vecchio e il nuovo, nonostante l'estrema energia dei "giacobini" inglesi, cioè le "teste rotonde" di Cromwell: la vecchia aristocrazia rimane come ceto governativo, con certi privilegi, diventa anch'essa il ceto intellettuale della borghesia inglese (vedi in proposito le osservazioni di Engels nella prefazione inglese, mi pare, a Utopia e Scienza, che occorre ricordare per questa ricerca sugli intellettuali e le loro funzioni storiche di classe).

Q 6 § 10 Si dimentica spesso (e quando il critico della storia in fieri dimentica questo, significa che egli non è storico, ma uomo politico in atto) che in ogni attimo della storia in fieri c’è lotta tra razionale e irrazionale, inteso per irrazionale ciò che non trionferà in ultima analisi, non diventerà mai storia effettuale, ma che in realtà è razionale anch’esso perché è necessariamente legato al razionale, ne è un momento imprescindibile; che nella storia, se trionfa sempre il generale, anche il "particulare" lotta per imporsi e in ultima analisi si impone anch’esso in quanto determina un certo sviluppo del generale e non un altro. 

Ma nella storia moderna, "particulare" non ha più lo stesso significato che aveva nel Machiavelli e nel Guicciardini, non indica più il mero interesse individuale, perché nella storia moderna l’"individuo" storico-politico non è l’individuo "biologico" ma il gruppo sociale. Solo la lotta, col suo esito, e neanche col suo esito immediato, ma con quello che si manifesta in una permanente vittoria, dirà ciò che è razionale o irrazionale, ciò che è "degno" di vincere perché continua, a suo modo, e supera il passato.