Infrastruttura e sovrastruttura

Q22 §6

Un'analisi accurata della storia italiana prima del '22, che non si lasciasse allucinare dal carnevale esterno, ma sapesse cogliere i motivi profondi del movimento, dovrebbe giungere alla conclusione che proprio gli operai furono i portatori delle nuove esigenze industriali e a modo loro le affermarono strenuamente: si può dire anche che alcuni industriali si accorsero di ciò e cercarono di servirsene (tentativi di Agnelli di assorbire nel complesso Fiat l'O.N. e la sua scuola). Ma a parte queste considerazioni, si presenta la quistione: ormai le corporazioni esistono, esse creano le condizioni in cui le innovazioni industriali possono essere introdotte su larga scala, perché gli operai né possono opporsi a ciò, né possono lottare per essere essi stessi i portatori di questo rivolgimento. La quistione è essenziale, è l' hic Rhodus della situazione italiana: dunque le corporazioni diventeranno la forma di questo rivolgimento per una di quelle "astuzie della provvidenza" che fa sì che gli uomini senza volerlo ubbidiscano agli imperativi della storia. Il punto essenziale è qui: può ciò avvenire? Si è portati necessariamente a negarlo. La condizione suddetta è una delle condizioni, non la sola condizione e neanche la più importante; è solo la più importante delle condizioni immediate. L'americanizzazione richiede un ambiente dato, una data conformazione sociale e un certo tipo di Stato.

Lo Stato è lo Stato liberale, non nel senso del liberalismo doganale, ma nel senso più essenziale della libera iniziativa e dell'individualismo economico, giunto con mezzi spontanei, per lo stesso sviluppo storico, al regime dei monopoli. La sparizione dei redditieri in Italia è una condizione del rivolgimento industriale, non una conseguenza: la Politica economico-finanziaria dello Stato è la molla di questa sparizione: ammortamento del debito pubblico, nominatività dei titoli, tassazione diretta e non indiretta. Non pare che questa sia la direzione attuale della politica o stia per diventarlo. Anzi. Lo Stato va aumentando i redditieri e creando dei quadri chiusi sociali. 

In realtà finora il regime corporativo ha funzionato per sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eliminare queste e sta diventando, per gli interessi costituiti che crea, una macchina di conservazione dell'esistente così com'è e non una molla di propulsione. 

Perché? Perché il regime corporativo è in dipendenza della disoccupazione e non dell'occupazione: difende agli occupati un certo minimo di vita, che se fosse libera la concorrenza crollerebbe anch'esso, provocando gravi rivolgimenti sociali. Benissimo: ma il regime corporativo, nato in dipendenza di questa situazione delicatissima, di cui bisogna mantenere l'equilibrio essenziale a tutti i costi, per evitare un'immane catastrofe, potrebbe procedere a tappe piccolissime, insensibili, che modifichino la struttura sociale senza scosse repentine: anche il bambino meglio e più solidamente fasciato si sviluppa normalmente.

 

Q1 §143

Qualità e quantità. Nel mondo della produzione significa nient'altro che buon mercato e alto prezzo, cioè soddisfazione o no dei bisogni elementari delle classi popolari ed elevazione o depressione del loro tenore di vita. Tutto il resto è romanzo ideologico d'appendice. In un'azienda-nazione dove esiste molta mano d'opera e poche materie prime, il grido: "Qualità" significa solo voler impiegare molto lavoro su poca materia, cioè voler specializzarsi per un mercato di lusso. Ma è possibile ciò? 1°) Dove esiste molta materia prima sono possibili i due sistemi, qualitativo e quantitativo, mentre non c'è reciproca per i paesi poveri; 2°) La produzione quantitativa può essere anche qualitativa, cioè fare la concorrenza all'industria puramente qualitativa tra quella parte della classe consumatrice di oggetti "distinti" che non è tradizionalista perché di nuova formazione; 3°) Quale industria procurerà gli oggetti di consumo delle classi povere? Si formerà una situazione di divisione internazionale del lavoro? Si tratta insomma di una formula da letterati perdigiorno, e di politici demagogici che nascondono la testa per non vedere la realtà. 

La qualità dovrebbe attribuirsi agli uomini e non alle cose. E la qualità umana si eleva nella misura in cui l'uomo soddisfa un maggior numero di bisogni e se ne rende quindi indipendente. Il caro prezzo del pane, dovuto al fatto di voler mantenere legata a determinate attività una maggior quantità di uomini, porta alla denutrizione. La politica della qualità determina sempre il suo opposto: quantità squalificata.

 

Q1 §150

Per le classi produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno) lo Stato non è concepibile che come forma concreta di un determinato mondo economico, di un determinato sistema di produzione. Conquista del potere e affermazione di un nuovo mondo produttivo sono inscindibili: la propaganda per l'una e anche propaganda per l'altra: in realtà solo in questa coincidenza risiede la origine unitaria della classe dominante che è economica e politica insieme. Invece quando la spinta al progresso non è strettamente legata a uno sviluppo economico locale, ma è riflesso dello sviluppo internazionale che manda alla periferia le sue correnti ideologiche [nate sulla base dello sviluppo produttivo dei paesi più progrediti], allora la classe portatrice delle nuove idee è la classe degli intellettuali e la concezione dello Stato muta d'aspetto. Lo Stato è concepito come una cosa a sé, come un assoluto razionale. 

Si può dire questo: essendo lo Stato la cornice concreta di un mondo produttivo, ed essendo gli intellettuali l'elemento sociale che si identifica meglio col personale governativo, è proprio della funzione degli intellettuali porre lo Stato come un assoluto: così è concepita come assoluta la loro funzione storica, è razionalizzata la loro esistenza.

 

Q3 §11

Il problema non è se in America esista una nuova civiltà, una nuova cultura, e se queste nuove civiltà e cultura stiano invadendo l’Europa: se il problema dovesse porsi così, la risposta sarebbe facile: no, non esiste ecc., e anzi in America non si fa che rimasticare la vecchia cultura europea. Il problema è questo: se l’America, col peso implacabile della sua produzione economica, costringerà e sta già costringendo l’Europa a un rivolgimento della sua assise economica-sociale, che sarebbe avvenuto lo stesso ma con ritmo lento e che invece si presenta come un contraccolpo della "prepotenza" americana, se cioè si sta creando una trasformazione delle basi materiali della civiltà, ciò che a lungo andare (e non molto lungo, perché nel periodo attuale tutto è più rapido che nei periodi passati) porterà a un travolgimento della civiltà stessa esistente e alla nascita di una nuova. Gli elementi di vita che oggi si diffondono sotto l’etichetta americana, sono appena i primi tentativi a tastoni, dovuti, non già all’"ordine" che nasce dalla nuova assise che non si è formata ancora, ma all’iniziativa degli elementi déclassés dagli inizi dell’operare di questa nuova assise. 

Ciò che oggi si chiama americanismo è in grandissima parte un fenomeno di panico sociale, di dissoluzione, di disperazione dei vecchi strati che dal nuovo ordine saranno appunto schiacciati: sono in gran parte "reazione" incosciente e non ricostruzione: non è dagli strati "condannati" dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma dalla classe che crea le basi materiali di questo nuovo ordine e deve trovare il sistema di vita per far diventare "libertà" ciò che è oggi "necessità". Questo criterio che le prime reazioni intellettuali e morali allo stabilirsi di un nuovo metodo produttivo sono dovute più ai detriti delle vecchie classi in isfacelo che alle nuove classi il cui destino è legato ai nuovi metodi, mi pare di estrema importanza. Un’altra quistione è che non si tratta di una nuova civiltà, perché non muta il carattere delle classi fondamentali, ma di un prolungamento ed intensificazione della civiltà europea, che ha però assunto determinati caratteri nell’ambiente americano.

 

Q3 §34

L’aspetto della crisi moderna che viene lamentato come "ondata di materialismo" è collegato con ciò che si chiama "crisi di autorità". Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più "dirigente", ma unicamente "dominante", detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati. […]

Il problema è questo: una rottura così grave tra masse popolari e ideologie dominanti come quella che si è verificata nel dopoguerra, può essere "guarita" col puro esercizio della forza che impedisce a nuove ideologie di imporsi? L’interregno, la crisi di cui si impedisce così la soluzione storicamente normale, si risolverà necessariamente a favore di una restaurazione del vecchio? Dato il carattere delle ideologie, ciò è da escludere, ma non in senso assoluto. Intanto la depressione fisica porterà a lungo andare a uno scetticismo diffuso e nascerà una nuova "combinazione" in cui per es. il cattolicismo diventerà ancora di più pretto gesuitismo ecc. Anche da questo si può concludere che si formano le condizioni più favorevoli per un’espansione inaudita del materialismo storico. La stessa povertà iniziale che il materialismo storico non può non avere come teoria diffusa di massa, lo renderà più espansivo. La morte delle vecchie ideologie si verifica come scetticismo verso tutte le teorie e le formule generali e applicazione al puro fatto economico (guadagno ecc.) e alla politica non solo realista di fatto (come è sempre) ma cinica nella sua manifestazione immediata […]. Ma questa riduzione all’economia e alla politica significa appunto riduzione delle superstrutture più elevate a quelle più aderenti alla struttura, cioè possibilità [e necessità] di formazione di una nuova cultura.

 

Q3 §119

La debolezza dei partiti politici italiani in tutto il loro periodo di attività, dal risorgimento in poi (eccettuato in parte il partito nazionalista) è consistita in quello che si potrebbe chiamare uno squilibrio tra l’agitazione e la propaganda, e che in altri termini si chiama mancanza di principii, opportunismo, mancanza di continuità organica, squilibrio tra tattica e strategia ecc. La causa principale di questo modo di essere dei partiti è da ricercare nella deliquescenza delle classi economiche, nella gelatinosa struttura economica e sociale del paese, ma questa spiegazione è alquanto fatalistica: infatti se è vero che i partiti non sono che la nomenclatura delle classi, è anche vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per svilupparle, assodarle, universalizzarle. Questo appunto non è avvenuto in Italia, e la manifestazione di questa "omissione" è appunto questo squilibrio tra agitazione e propaganda o come altrimenti si voglia dire. Lo Stato-governo ha una certa responsabilità in questo stato di cose (si può chiamare responsabilità in quanto ha impedito il rafforzamento dello Stato stesso, cioè ha dimostrato che lo Stato-governo non era un fattore nazionale): il governo ha infatti operato come un "partito", si è posto al disopra dei partiti non per armonizzarne gli interessi e l’attività nei quadri permanenti della vita e degli interessi statali nazionali, ma per disgregarli, per staccarli dalle grandi masse e avere "una forza di senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo": così occorre analizzare le così dette dittature di Depretis, Crispi, Giolitti e il fenomeno parlamentare del trasformismo. 

Le classi esprimono i partiti, i partiti elaborano gli uomini di Stato e di governo, i dirigenti della società civile e della società politica. Ci deve essere un certo rapporto utile e fruttuoso in queste manifestazioni e in queste funzioni. Non può esserci elaborazione di dirigenti dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti, dove non sono sistematicamente ricercate e studiate le ragioni di essere e di sviluppo della classe rappresentata. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone i pochi uomini indispensabili. Quindi miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello. Il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici, invece della politica seria.

 

Q4 §12

Bisogna fissar bene il significato del concetto di struttura e di superstruttura, così come il significato di "strumento tecnico" ecc. o si cade in confusioni disastrose e risibili. La complessità della quistione si vede da ciò: le biblioteche sono struttura o superstruttura? I gabinetti sperimentali degli scienziati? Gli strumenti musicali di un’orchestra? ecc. Si confonde struttura con "struttura materiale" in genere e "strumento tecnico" con ogni strumento materiale ecc., fino a sostenere che una determinata arte si è sviluppata perché si sono sviluppati gli strumenti specifici per cui le espressioni artistiche complete diventano di dominio pubblico, possono essere riprodotte. Non si può negare una certa relazione, ma non diretta e immediata. In realtà certe forme di strumento tecnico hanno una doppia fenomenologia: sono struttura e sono superstruttura: l’industria tipografica stessa, che ha assunto in questa particolare sezione dello "strumento tecnico", una importanza inaudita, partecipa di questa doppia natura. Essa è oggetto di proprietà, quindi di divisione di classe e di lotta, ma è anche elemento inscindibile di un fatto ideologico, o di più fatti ideologici: la scienza, la letteratura, la religione, la politica ecc. 

Ci sono delle superstrutture che hanno una "struttura materiale": ma il loro carattere rimane quello di superstrutture: il loro sviluppo non è "immanente" nella loro particolare "struttura materiale" ma nella "struttura materiale" della società. 

Una classe si forma sulla base della sua funzione nel mondo produttivo: lo sviluppo e la lotta per il potere e per la conservazione del potere crea le superstrutture che determinano la formazione di una "speciale struttura materiale" per la loro diffusione ecc. Il pensiero scientifico è una superstruttura che crea "gli strumenti scientifici"; la musica è una superstruttura che crea gli strumenti musicali. Logicamente e anche cronologicamente si ha: struttura sociale - superstruttura - struttura materiale della superstruttura.

 

Q4 §15

Se gli uomini prendono coscienza del loro compito nel terreno delle superstrutture, ciò significa che tra struttura e superstrutture c’è un nesso necessario e vitale, così come nel corpo umano tra la pelle e lo scheletro: si direbbe uno sproposito se si affermasse che l’uomo si mantiene eretto sulla pelle e non sullo scheletro, e tuttavia ciò non significa che la pelle sia una cosa apparente e illusoria, tanto vero che non è molto gradevole la situazione dell’uomo scorticato. Così sarebbe uno sproposito dire che il colore delle guance sia la causa della salute e non viceversa ecc. (Il paragone del corpo umano può servire per rendere popolari questi concetti, come metafora appropriata). Non ci si innamora di una donna per la forma dello scheletro e tuttavia anche questa forma contribuendo all’armonia generale delle forme esterne e persino alla disposizione della pelle, è un elemento di attrazione sessuale. Semplice metafora perché mentre la storia registra mutamenti radicali di strutture sociali, nel regno animale si può parlare solo, caso mai, di lentissime evoluzioni.

 

Q4 §38

Aspetti parziali dell’"economismo storico" sono: 1) la dottrina per cui lo svolgimento economico viene ridotto ai cangiamenti degli strumenti tecnici, mentre Marx parla sempre di "forze materiali di produzione" in generale e in queste forze include anche la "forza fisica" degli uomini […]; 2) la dottrina per cui lo svolgimento economico e storico viene fatto dipendere immediatamente dai mutamenti di un qualche fattore importante della produzione, dovuto all’introduzione di un nuovo combustibile che porta con sé l’applicazione di nuovi metodi [nella costruzione e nell’azionamento] degli strumenti meccanici (per esempio il petrolio. […] Ora, anche queste scoperte di nuovi combustibili e di nuove energie motrici hanno importanza storica, perché possono mutare la statura relativa delle nazioni, ma non sono determinanti del moto storico). 

Spesso avviene che si combatte l’economismo storico credendo di combattere il materialismo storico. […]

Degenerato in economismo storico, il materialismo storico perde una gran parte della sua espansività culturale fra le persone intelligenti, per quanta ne acquista tra gli intellettuali pigri, tra quelli che vogliono apparire sempre furbissimi ecc.; esso, come scrisse Engels, fa credere a molti di poter avere, a poco prezzo e con nessuna fatica, in saccoccia tutta la storia e tutta la sapienza politica. Avendo dimenticato che la tesi di Marx - che gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie - ha un valore organico, è una tesi gnoseologica e non psicologica o morale, si è creata la forma mentis di considerare la politica e quindi tutta la storia come un marché de dupes, un gioco di illusionismi e di prestidigitazioni. Tutta l’attività culturale si è ridotta così a "svelare" trucchi, a suscitare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini politici. Naturalmente gli errori di interpretazione sono stati talvolta grossolani e hanno così reagito negativamente sul prestigio della dottrina originaria. 

Perciò occorre combattere contro l’economismo non solo nella teoria della storiografia, ma anche nella teoria e nella pratica politica. In questo campo la reazione deve essere condotta sul terreno del concetto di egemonia, così come è stata condotta praticamente nello sviluppo della teoria del partito politico e nello sviluppo pratico della vita di determinati partiti politici.

 

Q6 §79

Non può esistere associazione permanente e con capacità di sviluppo che non sia sostenuta da determinati principii etici, che l’associazione stessa pone ai suoi singoli componenti in vista della compattezza interna e dell’omogeneità necessarie per raggiungere il fine. Non perciò questi principii sono sprovvisti di carattere universale. Così sarebbe se l’associazione avesse fine in se stessa, fosse cioè una setta o un’associazione a delinquere (in questo [solo] caso mi pare si possa dire che politica ed etica si confondono, appunto perché il "particulare" è elevato a "universale"). Ma un’associazione normale concepisce se stessa come aristocrazia, una élite, un’avanguardia, cioè concepisce se stessa come legata da milioni di fili a un dato raggruppamento sociale e per il suo tramite a tutta l’umanità. Pertanto questa associazione non si pone come un qualche cosa di definitivo e di irrigidito, ma come tendente ad allargarsi a tutto un raggruppamento sociale, che anch’esso è concepito come tendente a unificare tutta l’umanità. 

Tutti questi rapporti danno carattere [tendenzialmente] universale all’etica di gruppo che dev’essere concepita come capace di diventare norma di condotta di tutta l’umanità. La politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale, cioè come tendente a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale saranno superate entrambe. (Da questo punto di vista storicistico può solo spiegarsi l’angoscia di molti sul contrasto tra morale privata e morale pubblica-politica: essa è un riflesso inconsapevole e sentimentalmente acritico delle contraddizioni della attuale società, cioè dell’assenza di uguaglianza dei soggetti morali). Ma non può parlarsi di élite-aristocrazia-avanguardia come di una collettività indistinta e caotica; in cui, per grazia di un misterioso spirito santo o di altra misteriosa e metafisica deità ignota, cali la grazia dell’intelligenza, della capacità, dell’educazione, della preparazione tecnica ecc.; eppure questo modo di concepire è comune. 

Si riflette in piccolo ciò che avveniva su scala nazionale, quando lo Stato era concepito come qualcosa di astratto dalla collettività dei cittadini, come un padre eterno che avrebbe pensato a tutto, provveduto a tutto ecc.; da ciò l’assenza di una democrazia reale, di una reale volontà collettiva nazionale e quindi, in questa passività dei singoli, la necessità di un dispotismo più o meno larvato della burocrazia. La collettività deve essere intesa come prodotto di una elaborazione di volontà e pensiero collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un processo fatale estraneo ai singoli: quindi obbligo della disciplina interiore e non solo di quella esterna e meccanica. Se ci devono essere polemiche e scissioni, non bisogna aver paura di affrontarle e superarle: esse sono inevitabili in questi processi di sviluppo ed evitarle significa solo rimandarle a quando saranno precisamente pericolose o addirittura catastrofiche, ecc.

 

Q7 §24

La pretesa (presentata come postulato essenziale del materialismo storico) di presentare ed esporre ogni fluttuazione della politica e dell’ideologia come una espressione immediata della struttura, deve essere combattuta teoricamente come un infantilismo primitivo, o praticamente deve essere combattuta con la testimonianza autentica del Marx, scrittore di opere politiche e storiche concrete. Per questo aspetto sono importanti specialmente il 18 Brumaio e gli scritti sulla Quistione Orientale, ma anche altri (Rivoluzione e Controrivoluzione in Germania, La guerra civile in Francia e minori). Un’analisi di queste opere permette di fissar meglio la metodologia storica marxista, integrando, illuminando e interpretando le affermazioni teoriche sparse in tutte le opere. 

Si potrà vedere quante cautele reali Marx introduca nelle sue ricerche concrete, cautele che non potevano trovar posto nelle opere generali […]. Tra queste cautele si potrebbero elencare come esempio queste: 

1°) La difficoltà di identificare volta per volta, staticamente (come immagine fotografica istantanea), la struttura; la politica, di fatto, è volta per volta il riflesso delle tendenze di sviluppo della struttura, tendenze che non è detto necessariamente debbano inverarsi. Una fase strutturale può essere concretamente studiata e analizzata solo dopo che essa ha superato tutto il suo processo di sviluppo, non durante il processo stesso, altro che per ipotesi e esplicitamente dichiarando che si tratta di ipotesi.  

2°) Dal 1° si deduce che un determinato atto politico può essere stato un errore di calcolo da parte dei dirigenti delle classi dominanti, errore che lo sviluppo storico, attraverso le "crisi" parlamentari governative delle classi dirigenti, corregge e supera: il materialismo storico meccanico non considera la possibilità di errore, ma assume ogni atto politico come determinato dalla struttura, immediatamente, cioè come riflesso di una reale e permanente (nel senso di acquisita) modificazione della struttura. Il principio dell’"errore" è complesso: può trattarsi di un impulso individuale per errato calcolo, o anche di manifestazione dei tentativi di determinati gruppi o gruppetti di assumere l’egemonia nell’interno del raggruppamento dirigente, tentativi che possono fallire.  

3°) Non si considera abbastanza che molti atti politici sono dovuti a necessità interne di carattere organizzativo, cioè legati al bisogno di dare una coerenza a un partito, a un gruppo, a una società. 

Questo appare chiaro nella storia per esempio della Chiesa cattolica. Se di ogni lotta ideologica nell’interno della Chiesa si volesse trovare la spiegazione immediata, primaria, nella struttura, si starebbe freschi: molti romanzi politico-economici sono stati scritti per questa ragione. È evidente invece che la maggior parte di queste discussioni sono legate a necessità settarie, di organizzazione. […] Ogni fase storica reale lascia traccia di sé nelle fasi successive che ne diventano in un certo senso il migliore documento. Il processo di sviluppo storico è una unità nel tempo, per cui il presente contiene tutto il passato e del passato si realizza nel presente ciò che è "essenziale" senza residuo di un "inconoscibile" che sarebbe la vera "essenza". Ciò che si è "perduto", cioè non è stato trasmesso dialetticamente nel processo storico, era di per se stesso irrilevante, era "scoria" casuale e contingente, cronaca e non storia, episodio superficiale, trascurabile, in ultima analisi.

 

Q7 §80

Come ricostruire l’apparato egemonico del gruppo dominante, apparato disgregatosi per le conseguenze della guerra in tutti gli Stati del mondo? Intanto perché si è disgregato? Forse perché si è sviluppata una forte volontà politica collettiva antagonistica? Se così fosse stato, la quistione sarebbe stata risolta a favore di tale antagonista. Si è disgregata invece per cause puramente meccaniche, di diverso genere: 

1) perché grandi masse, precedentemente passive, sono entrate in movimento, ma in un movimento caotico e disordinato, senza direzione, cioè senza precisa volontà politica collettiva; 

2) perché classi medie che nella guerra avevano avuto funzioni di comando e di responsabilità, ne sono state private con la pace, restando disoccupate, proprio dopo aver fatto un apprendissaggio di comando, ecc.; 

3) perché le forze antagonistiche sono risultate incapaci a organizzare a loro profitto questo disordine di fatto. 

Il problema era di ricostruire l’apparato egemonico di questi elementi prima passivi e apolitici, e questo non poteva avvenire senza la forza: ma questa forza non poteva essere quella "legale", ecc. Poiché in ogni Stato il complesso dei rapporti sociali era diverso, diversi dovevano essere i metodi politici di impiego della forza e la combinazione delle forze legali e illegali. Quanto più grande è la massa di apolitici, tanto più grande deve essere l’apporto delle forze illegali. Quanto più grandi sono le forze politicamente organizzate e educate, tanto più occorre "coprire" lo Stato legale, ecc.

 

Q8 §84

Il politico in atto è un creatore; ma non crea dal nulla, non trae dal suo cervello le sue creazioni. Si fonda sulla realtà effettuale; ma cos’è questa realtà effettuale? È forse qualcosa di statico e immobile, o non piuttosto una realtà in movimento, un rapporto di forze in continuo mutamento di equilibrio? Applicare la volontà a creare un nuovo equilibrio delle forze, realmente esistenti e operanti, fondandosi sulla forza in movimento progressivo per farla trionfare è sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale ma per dominarla e superarla. Il "dover essere" entra in campo, non come astratto e formale pensiero, ma come interpretazione realistica e sola storicistica della realtà, come sola storia in atto politica.

 

Q8 §182

La struttura e le superstrutture formano un "blocco storico", cioè l’insieme complesso e discorde delle soprastrutture sono il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione. Se ne trae: che solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l’esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della praxis.  
Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per l’ideologia, ciò significa che esistono al 100% le premesse per questo rovesciamento, cioè che il "razionale" è reale attuosamente e attualmente. Il ragionamento si basa sulla reciprocità necessaria tra struttura e superstrutture (reciprocità che è appunto il processo dialettico reale).

 

Q10 §15

La discussione intorno al concetto di "homo oeconomicus" è diventata una delle tante discussioni sulla così detta "natura umana". Ognuno dei disputanti ha una sua "fede", e la sostiene con argomenti di carattere prevalentemente moralistico. L’"homo oeconomicus" è l’astrazione dell’attività economica di una determinata forma di società, cioè di una determinata struttura economica. Ogni forma sociale ha il suo "homo oeconomicus", cioè una sua attività economica.  Sostenere che il concetto di homo oeconomicus scientificamente non ha valore non è che un modo di sostenere che la struttura economica e la sua attività conforme è radicalmente mutata, oppure che la struttura economica è talmente mutata che necessariamente deve mutare il modo di operare economico, perché diventi conforme alla nuova struttura. Ma appunto in ciò è dissenso, e non tanto dissenso scientifico obbiettivo, ma politico. Cosa significherebbe del resto un riconoscimento scientifico che la struttura economica è mutata radicalmente e che deve mutare l’operare economico per conformarsi alla nuova struttura? Avrebbe un significato di stimolo politico, nulla più.  Tra la struttura economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione sta la società civile, e questa deve essere radicalmente trasformata in concreto e non solo sulla carta della legge e dei libri degli scienziati; lo Stato è lo strumento per adeguare la società civile alla struttura economica, ma occorre che lo Stato "voglia" far ciò, che cioè a guidare lo Stato siano i rappresentanti del mutamento avvenuto nella struttura economica. Aspettare che, per via di propaganda e di persuasione, la società civile si adegui alla nuova struttura, che il vecchio "homo oeconomicus" sparisca senza essere seppellito con tutti gli onori che merita, è una nuova forma di retorica economica, una nuova forma di moralismo economico vacuo e inconcludente.

 

Q10 §27

A proposito del così detto homo oeconomicus, cioè dell’astrazione dei bisogni dell’uomo, si può dire che una tale astrazione non è per nulla fuori della storia, e quantunque si presenti sotto l’aspetto delle formulazioni matematiche, non è per nulla della stessa natura delle astrazioni matematiche. L’homo oeconomicus è l’astrazione dei bisogni e delle operazioni economiche di una determinata forma di società, così come l’insieme delle ipotesi poste dagli economisti nelle loro elaborazioni scientifiche non è altro che l’insieme delle premesse che sono alla base di una determinata forma di società.

 

Q10 §53

Distribuzione delle forze umane di lavoro e di consumo. Si può osservare come vadano sempre più crescendo le forze di consumo in confronto a quelle di produzione. La popolazione economicamente passiva e parassitaria. Ma il concetto di "parassitario" deve essere ben precisato. Può avvenire che una funzione parassitaria intrinsecamente si dimostri necessaria date le condizioni esistenti: ciò rende ancor più grave tale parassitismo. Appunto quando un parassitismo è "necessario", il sistema che crea tali necessità è condannato in se stesso.   Ma non solo i puri consumatori aumentano di numero, aumenta anche il loro tenore di vita, cioè aumenta la quota di beni che da essi è consumata (o distrutta). Se si osserva bene si deve giungere alla conclusione che l’ideale di ogni elemento della classe dirigente è quello di creare le condizioni in cui i suoi eredi possano vivere senza lavorare, di rendita: come è possibile che una società sia sana quando si lavora per essere in grado di non lavorare più? Poiché questo ideale è impossibile e malsano, significa che tutto l’organismo è viziato e malato. Una società che dice di lavorare per creare dei parassiti, per vivere sul così detto lavoro passato (che è metafora per indicare il presente lavoro degli altri) in realtà distrugge se stessa. (Q10)

 

Q13 §30

Uno dei luoghi comuni più banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di formazione degli organi statali è questo, che il "numero sia in esso legge suprema" e che la "opinione di un qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi), valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato, esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi le sue migliori forze" ecc. (le formulazioni sono molte, alcune anche più felici di questa riportata, che è di Mario da Silva, nella "Critica Fascista" del 15 agosto 1932, ma il contenuto è sempre uguale). Ma il fatto è che non è vero, in nessun modo, che il numero sia "legge suprema", né che il peso dell’opinione di ogni elettore sia "esattamente" uguale. I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa poi si misura? Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie ecc. ecc. cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia "esattamente" uguale.

Le idee e le opinioni non "nascono" spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità  che le ha elaborate e presentate nella forma politica d’attualità. La numerazione dei "voti" è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che "dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze" (quando lo sono). Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiede, non ha il consenso della maggioranza, sarà  da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi "nazionali" che non possono non essere prevalenti nell’indurre la volontà  nazionale in un senso piuttosto che in un altro. "Disgraziatamente" ognuno è portato a confondere il proprio "particulare" con l’interesse nazionale e quindi a trovare "orribile" ecc. che sia la "legge del numero" a decidere; è certo miglior cosa diventare élite per decreto. Non si tratta pertanto di chi "ha molto" intellettualmente che si sente ridotto al livello dell’ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che vuole togliere all’uomo "qualunque" anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale.

Dalla critica (di origine oligarchica e non di élite) al regime parlamentaristico (è strano che esso non sia criticato perché la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall’influsso della ricchezza), queste affermazioni banali sono state estese a ogni sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico, e non foggiato secondo i canoni della democrazia formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte. In questi altri regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come "funzionari" dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che in un certo senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al self-government. Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè una avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L’elemento "volontariato" nell’iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le più larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l’importanza che la manifestazione del voto può avere.

 

Q19 §7

L’Italia è il paese, che, nelle condizioni create dal Risorgimento e dal suo modo di svolgimento, ha il maggior peso di popolazione parassitaria, che vive cioè senza intervenire per nulla nella vita produttiva, è il paese di maggior quantità di piccola e media borghesia rurale e urbana che consuma una frazione grande del reddito nazionale per risparmiarne una frazione insufficiente alle necessità nazionali.

 

Q19 §6

La ricchezza nazionale è condizionata dalla divisione internazionale del lavoro e dall’aver saputo scegliere, tra le possibilità che questa divisione offre, la più razionale e redditizia per ogni paese dato. Si tratta dunque essenzialmente di "capacità direttiva" della classe economica dominante, del suo spirito d’iniziativa e di organizzazione. Se queste qualità mancano, e l’azienda economica è fondata essenzialmente sullo sfruttamento di rapina delle classi lavoratrici e produttrici, nessun accordo internazionale può sanare la situazione. Non si ha esempio, nella storia moderna, di colonie di "popolamento"; esse non sono mai esistite. L’emigrazione e la colonizzazione seguono il flusso dei capitali investiti nei vari paesi e non viceversa. La crisi attuale che si manifesta specialmente come caduta dei prezzi delle materie prime e dei cereali mostra che il problema appunto non è di ricchezza "naturale" per i vari paesi del mondo, ma di organizzazione sociale e di trasformazione delle materie prime per certi fini e non per altri. Che si tratti di organizzazione e di indirizzo politico-economico appare anche dal fatto che ogni paese a civiltà moderna ha avuto "emigrazione" in certe fasi del suo sviluppo economico, ma tale emigrazione è cessata e spesso è stata riassorbita. Che non si vogliano (o non si possa) mutare i rapporti interni (e neppure rettificarli razionalmente) appare dalla politica del debito pubblico, che aumenta continuamente il peso della passività "demografica", proprio quando la parte attiva della popolazione è ristretta dalla disoccupazione e dalla crisi. Diminuisce il reddito nazionale, aumentano i parassiti, il risparmio si restringe ed è disinvestito dal processo produttivo e viene riversato nel debito pubblico, cioè fatto causa di nuovo parassitismo assoluto e relativo.

 

Q19 §7

È giusto il criterio generale che occorra esaminare il costo dell’introduzione di una certa industria nel paese, chi ne ha fatto le spese, chi ne ha ricavato vantaggi e se i sacrifizi fatti non potevano esserlo in altra direzione più utilmente, ma tutto questo esame deve esser fatto con una prospettiva non immediata, ma di larga portata. D’altronde il solo criterio dell’utilità economica non è sufficiente per esaminare il passaggio da una forma di organizzazione economica ad un’altra; occorre tener conto anche del criterio politico, cioè se il passaggio sia stato obbiettivamente necessario e corrispondente a un interesse generale certo, anche se a scadenza lunga. Che l’unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una parte della popolazione per le necessità inderogabili di un grande Stato moderno è da ammettere; però occorre esaminare se tali sacrifizi sono stati distribuiti equamente e in che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati in una direzione giusta. Che l’introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti, determinando un’emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai è cessata la necessità, e rovinando economicamente intere regioni, è certissimo. L’emigrazione infatti deve essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte, e dall’altra come manifestazione del fatto che il regime economico interno non assicurava uno standard di vita che si avvicinasse a quello internazionale tanto da non far preferire i rischi e i sacrifizi connessi con l’abbandono del proprio paese a lavoratori già occupati.

 

Q22 §8

Quantità e qualità. Nel mondo della produzione significa niente altro che "buon mercato" e "alto prezzo", cioè soddisfazione o no dei bisogni elementari delle classi popolari e tendenza ad elevare o a deprimere il loro tenore di vita: tutto il resto non è altro che romanzo ideologico d’appendice, di cui Guglielmo Ferrero ha scritto la prima puntata. In un’azienda-nazione, che ha disponibile molta mano d’opera e poche materie prime (ciò che è discutibile, perché ogni nazione-azienda "si crea" la propria materia prima) il motto: "Qualità!" significa solo la volontà di impiegare molto lavoro su poca materia, perfezionando il prodotto all’estremo, cioè la volontà  di specializzarsi per un mercato di lusso. Ma è ciò possibile per un’intiera nazione molto popolosa? Dove esiste molta materia prima sono possibili i due indirizzi, qualitativo e quantitativo, mentre non esiste reciproca per i così detti paesi poveri. La produzione quantitativa può essere anche qualitativa, cioè fare la concorrenza all’industria puramente qualitativa, tra quella parte della classe consumatrice di oggetti "distinti" che non è tradizionalista perché di nuova formazione.  
Tali appunti sono validi se si accetta il criterio della "qualità " così come è posto comunemente e che non è un criterio razionale: in realtà  si può parlare di "qualità" solo per le opere d’arte individue e non riproducibili, tutto ciò che è riproducibile rientra nel regno della "quantità " e può essere fabbricato in serie. Si può osservare inoltre: se una nazione si specializzi nella produzione "qualitativa", quale industria procurerà gli oggetti di consumo delle classi povere? Si promuoverà una situazione di divisione internazionale del lavoro? Si tratta di niente altro che di una formula da letterati perdigiorno e di politici la cui demagogia consiste nel costruire castelli in aria. La qualità dovrebbe essere attribuita agli uomini e non alle cose: e la qualità umana si eleva e si raffina nella misura in cui l’uomo soddisfa un maggior numero di bisogni e se ne rende quindi indipendente. Il caro prezzo del pane dovuto al fatto di voler mantenere legata a una determinata attività una maggiore quantità di persone, porta alla denutrizione. La politica della qualità determina quasi sempre il suo opposto: una quantità  squalificata.